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Campo dei media, campo del potere dj Maria Malatesta Media, consenso e legittimazione Il campo di ricerca dei media ha subito, duran- te gli anni settanta, una profonda revisione che, a partire dagli Stati Uniti, si è riflessa anche nelle area studies delle singole nazioni europee. La caratteristica principale di questa modifica- zione è rappresentata dal superamento degli approcci focalizzati esclusivamente sugli effetti dei media e dal rifiuto dello schematismo dei modelli comportamentistici, ancora applicati in numerose ricerche. In tal senso è stata messa in discussione tutta la tradizione di studi sulle comunicazioni di massa — sorta negli Stati Uniti negli anni trenta e incrementatasi durante il periodo bellico, sotto la spinta dei problemi contingenti relativi alla propaganda di guerra — che ha improntato per decenni la communi- cation research a livello intemazionale. Nel corso degli anni trenta i teorici americani della comunicazione — campo già dissodato dalla ricerca sociologica statunitense dagli inizi del secolo XX (') — avevano constatato l’inef- ficacia dei metodi tradizionali di analisi socio- logica per cogliere i mutamenti verificatisi al- l’intemo della società e metterli in relazione allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa. Profondamente colpiti dal “trauma culturale” (2) prodotto dalla massificazione della società, concentrarono il loro sforzo nell’individuazio- ne di un modello analitico univettoriale, attra- verso il quale poter registrare gli effetti prodotti dai media sul pubblico e misurare, al tempo stesso, i livelli di condizionamento connessi ad un’utilizzazione allargata della comunicazione di massa. La formula lanciata da H.D. Lasswell nel 1934 ed applicata nel 1948 alla teoria dell’in- formazione (who says what in which channel to whom with what effects) (3), poneva le basi per definire i campi di indagine entro cui articolare lo studio dei media (analisi del controllo, del contenuto, dell’ascolto, del sistema, degli effet- ti). Questa formula tendeva tuttavia a concen- trate la ricerca in campi settoriali e ad astrarre i fenomeni di ricezione tanto dalle strutture socio-economiche quanto dalla stratificazione sociale. Veniva in tal modo completamente eluso il problema di una riflessione teorica complessiva sul ruolo dei media all’interno del- le società contemporanee. La ricerca sugli effetti dei media, sviluppatasi sulla linea indicata da Lasswell, si è orientata nei decenni successivi soprattutto in direzione dello studio delle maggiori determinanti di tali effetti (4). Quanto agli effetti di persuasione, (') Ch. H. Cooley, The signifiance o f communication (1909), in B. Berelson, M. Janovitz (a c. di), Reader in public opinion and comunication, Glencow, Illinois, The Free Press, 1953. (2) Robert Escarpit, Teoria dell’informazione e della comunicazione, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 200 (3) H.D. Lasswell, Politics: who gets, what, when, how?, New York, McGraw-Hill, 1934; ID, The structure andfunction of communication in society, in B. Lyman (a c. di), The communications of ideas. New York, Harper, 1948. C) C.L Hovland, Effects o f the mass media o f communication, in G. Lindzay (a c. di). Handbook o f social psicology. 11. Special fields and applications, Cambridge (Mass.), Addison-Wesley Publishing Company, 1954 ‘Italia contemporanea”, giugno 1982, n. 146-147.

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Campo dei media, campo del poteredj Maria Malatesta

Media, consenso e legittimazione

Il campo di ricerca dei media ha subito, duran­te gli anni settanta, una profonda revisione che, a partire dagli Stati Uniti, si è riflessa anche nelle area studies delle singole nazioni europee. La caratteristica principale di questa modifica­zione è rappresentata dal superamento degli approcci focalizzati esclusivamente sugli effetti dei media e dal rifiuto dello schematismo dei modelli comportamentistici, ancora applicati in numerose ricerche. In tal senso è stata messa in discussione tutta la tradizione di studi sulle comunicazioni di massa — sorta negli Stati Uniti negli anni trenta e incrementatasi durante il periodo bellico, sotto la spinta dei problemi contingenti relativi alla propaganda di guerra — che ha improntato per decenni la communi­cation research a livello intemazionale.

Nel corso degli anni trenta i teorici americani della comunicazione — campo già dissodato dalla ricerca sociologica statunitense dagli inizi del secolo XX (') — avevano constatato l’inef­ficacia dei metodi tradizionali di analisi socio­logica per cogliere i mutamenti verificatisi al- l’intemo della società e metterli in relazione allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa. Profondamente colpiti dal “trauma culturale” (2) prodotto dalla massificazione della società,

concentrarono il loro sforzo nell’individuazio­ne di un modello analitico univettoriale, attra­verso il quale poter registrare gli effetti prodotti dai media sul pubblico e misurare, al tempo stesso, i livelli di condizionamento connessi ad un’utilizzazione allargata della comunicazione di massa.

La formula lanciata da H.D. Lasswell nel 1934 ed applicata nel 1948 alla teoria dell’in­formazione (who says what in which channel to whom with what effects) (3), poneva le basi per definire i campi di indagine entro cui articolare lo studio dei media (analisi del controllo, del contenuto, dell’ascolto, del sistema, degli effet­ti). Questa formula tendeva tuttavia a concen­trate la ricerca in campi settoriali e ad astrarre i fenomeni di ricezione tanto dalle strutture socio-economiche quanto dalla stratificazione sociale. Veniva in tal modo completamente eluso il problema di una riflessione teorica complessiva sul ruolo dei media all’interno del­le società contemporanee.

La ricerca sugli effetti dei media, sviluppatasi sulla linea indicata da Lasswell, si è orientata nei decenni successivi soprattutto in direzione dello studio delle maggiori determinanti di tali effetti (4). Quanto agli effetti di persuasione,

(') Ch. H. Cooley, The signifiance o f communication (1909), in B. Berelson, M. Janovitz (a c. di), Reader in public opinion and comunication, Glencow, Illinois, The Free Press, 1953.(2) Robert Escarpit, Teoria dell’informazione e della comunicazione, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 200(3) H.D. Lasswell, Politics: who gets, what, when, how?, New York, McGraw-Hill, 1934; ID, The structure and function o f communication in society, in B. Lyman (a c. di), The communications o f ideas. New York, Harper, 1948.C) C.L Hovland, Effects o f the mass media o f communication, in G. Lindzay (a c. di). Handbook o f social psicology. 11. Special fields and applications, Cambridge (Mass.), Addison-Wesley Publishing Company, 1954

‘Italia contemporanea”, giugno 1982, n. 146-147.

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essa si è inserita all’interno della tradizione americana di studi sull’opinione pubblica, già ampiamente affermatasi negli anni trenta, svi­luppandola e consolidandola attraverso il mas­siccio apporto dell’analisi quantitativa (5). A partire dal periodo bellico, uno dei campi che, significativamente, è stato preso maggiormente in considerazione, è quello costituito dagli effet­ti dei media non solo sui processi di formazione dell’opinione pubblica, ma in particolare all’in­terno delle campagne elettorali (6). P.F. Lazer- feld, applicandosi allo studio degli effetti dei media nei processi di formazione dell’opinione politica già iniziati negli anni trenta, ha indivi­duato 1’esistenza di un processo di comunica­zione a due tempi (thè two step flow), nel quale gli opinion leaders assumono al tempo stesso la funzione di filtro e di cinghia di trasmissione tra messaggio e ricevente. Lazerfeld ha indicato una linea interpretativa — ritenuta valida fino agli anni sessanta — secondo la quale i media avrebbero un effetto sostanzialmente neutro nei confronti delle opinioni del pubblico. I me­dia sarebbero cioè in grado soltanto di confer­mare opinioni preesistenti e non di provocarne il cambiamento (J).

In questa direzione si colloca la ricerca di Klapper, pubblicata nel 1960, che smantella tutte le tesi formulate a proposito degli effetti di rafforzamento degli atteggiamenti già consoli­dati nel pubblico piuttosto che la loro modifi­cazione. I media si limiterebbero ad esercitare effetti minimali, in quanto tendono a diffonde­re messaggi che si sovrappongono alle credenze comuni alla maggioranza del pubblico (*). In tal senso la funzione dei media si rivela ampia­

mente conservatrice, dal momento che è orien­tata al mantenimento e al rafforzamento di una common opinion standardizzata, i cui conte­nuti si inseriscono all’interno di un quadro for­temente stabilizzante.

Le analisi empiriche sugli effetti hanno pro­dotto dei risultati fuorvianti sul potere di per­suasione dei media, sia perché hanno teso a “definire rigidamente un effetto come un mu­tamento dovuto a qualche specifica esperienza di comunicazione” (9); sia perché si sono limita­te al rilevamento di tali effetti esclusivamente nel breve periodo. La loro dimensione tempo­rale ha costituito la base sulla quale sono state elaborate, nel corso degli anni sessanta, le pri­me critiche a questa tradizione di ricerca. I Lang, nel 1962, proponevano come modifica­zione di tale approccio il lungo periodo, inteso come la dimensione più attendibile sulla quale verificare gli effetti cumulativi dei media in relazione alla formazione e al condizionamento delle opinioni politiche del pubblico (10).

Tuttavia è soltanto nel corso degli anni set­tanta che gli spunti sparsi di critica alla com­munication research sono stati sistematizzati, tanto da produrre una revisione decisiva alle teorie dei limited effects nel campo della propa­ganda elettorale. L’affermazione della “televi­sione politica” a fianco di quella “elettorale” — avvenuta negli Stati Uniti in concomitanza con la contestazione giovanile e gli sviluppi della guerra del Vietnam — ha rappresentato per gli studiosi della comunicazione un fattore nuovo, di fronte alla cui concretezza non era più possi­bile minimizzare l’impatto dei media sull’opi­nione pubblica.

(5) B. Berelson, The study ofpublic opinion, in L. D. White (a c. di). The state o f the social sciences, Chicago, The University of Chicago Press, 1956(6) P. F. Lazerfeld, Radio and the printed page. An introduction to the study o f the radio and its role in the communication o f ideas. New York, Duell, 1940; P.F. Lazerfeld, B. Berelson, H. Gaudet, The people's choice: how the voter makes up his mind in a presidential campaigne. New York, Columbia University Press, 1944(7) B. Berelson, P.F. Lazarfeld, W.N. Mc.Phee, Voting: a study o f opinion formation in a presidential campaigne. Chicago, University of Chicago Press, 1954(8) Joseph T. Klapper, Gli effetli delle comunicazioni di massa, Milano, Etas Kompass, 1965(9) Denis McQuail, Sociologia delle comunicazioni di massa, Bologna, II Mulino, 1973, p. 70(,0) K. Lang, G. Engel Lang, The mass media and voting, in W. Schramm, D.F. Roberts, The process and effects o f mass communication, Urbana Chicago London, University of Illinois Press, 1971

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Le ricerche condotte da J.G. Blumler sugli effetti della comunicazione elettorale hanno evidenziato il potere reale connesso ai mezzi di comunicazione di massa. Questi hanno infatti la capacità, secondo Blumler, di esercitare un influsso diretto sulle convinzioni politiche del- l’opinione pubblica e sono perciò in grado di mettere in atto processi di adattamento alle istituzioni politiche (”). Come ha osservato G. Mazzoleni, il new look di Blumler ha aperto la strada ad una nuova analisi dei media, per il fatto di aver attribuito al loro potere “una più adeguata collocazione nel complesso delle for­ze che sottendono i rapidi mutamenti della società di massa” (I2).

Queste nuove prospettive di ricerca nel setto­re della comunicazione politica, rappresentano tuttavia soltanto uno degli spostamenti verifi­catisi nel campo delle comunicazioni di massa nell’ultimo decennio. Le tendenze generali af­fermatesi in questo periodo si sono orientate nella direzione dell’inserimento dei media in un’ottica più ampia rispetto a quella rappresen­tata dalle ricerche settoriali sugli effetti o sui contenuti. La presenza sempre più massiccia dei mezzi di comunicazione di massa all’interno della società; la loro penetrazione capillare ne­gli universi quotidiani di tutti gli strati sociali; i crescenti interessi economici intemazionali col­legati ad essi e le strategie di controllo esercitate, in varia forma, nel campo della comunicazio­ne, hanno spostato l’asse della problematica su di un piano all’interno del quale i media sono studiati come parte integrante dei sistemi socia­li. In tal modo, come ha messo in evidenza K.

Nordenstreng, i media vengono analizzati con un approccio contestuale, che collega i vari fenomeni di comunicazione all’interno di ambi­ti economici, sociali e politici più vasti (,3).

Su questa base ha preso corpo una linea di ricerca mirante ad affrontare le comunicazioni di massa nei termini di un’analisi delle “politi­che” dei mass media (l4); analisi che, rapida­mente affermatasi nel contesto intemazionale, può essere valutata come l’adeguamento avve­nuto sul piano teorico ai mutamenti verificatisi all’interno delle società tardo capitalistiche, che hanno evidenziato il fenomeno dell’assorbi­mento della sfera della riproduzione sociale nell’universo della produzione di merci (l5). A questo proposito, J. Habermas ha osservato che il sapere, nell’ambito delle società comples­se, ha perso il proprio valore d’uso, per essere prodotto e consumato al fine di una sua valo­rizzazione in un nuovo tipo di produzione (16). L’informazione assume così in misura crescen­te la caratteristica di un bene di consumo che tende ad avere, in quanto business, una vita propria (17).

Questa mercificazione del sapere assume, nelle società tardo-capitalistiche, soprattutto in relazione agli effetti esercitati sull’informazione dallo sviluppo tecnologico, aspetti inquietanti, che si configurano come fattori determinanti di modificazione e ristrutturazione del campo di circolazione della conoscenza. Nelle società tardo-capitalistiche, nelle quali la dominazione del sociale avviene più all’intemo della sfera dell’informazione e del consumo che in quella della produzione (18), lo sviluppo dell’informa-

(") Jay G. Blumler, Communication and voler tournant in Brilain, in T. Leggat (a c. di), Sociological theory and survey research, Beverly Hills (Cai.), Sage Editions, 1974(l2) Gianpietro Mazzoleni, Il potere politico dei mass media. Riesame critico della teoria "effetti limitati". Il caso dei mass media politico-elettorali, “Problemi dell’informazione”, 1979, n. 1. p. 76('3) Kaarle Nordenstreng, Recenti tendenze nelle ricerche sulla comunicazione di massa in Europa. “Problemi dell’informa­zione”, 1978, n. 1, pp. 43-54(l4) I. De Sola Pool, The rise o f communication policy research, “Journal of communication”, 1974(,5) Nicholas Garnham, La cultura commerciale, in Economia politica dei mass media, Milano, Franco Angeli, 1979, p. 17C6) Jurgen Habermas, Conoscenza ed interesse, Bari, Laterza, 1973(l7) E. Basevi, Editoria e informatica: riflessi su una realtà in mutamento, in II video degli anni ’80, a cura di G. Richieri, Bari, De Donato, 1981, p. 89(IB) Alain Touraine, La produzione della società, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 222

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zione si delinea come una nuova forma di pote­re. Secondo J.F. Lyotard, si prospetta un futu­ro nel quale le informazioni entrerebbero nei circuiti monetari e verrebbero scambiate con­tro “credito di conoscenza per ottimizzare le prestazioni di un programma” (19).

È in questa direzione che si sono dispiegati i contributi volti non solo ad esaminare i pro­gressi avvenuti nel campo della comunicazione informatica, ma anche a prospettare le possibili implicazioni dell’allargamento delle nuove tec­nologie al campo dei media. L’“universo tele­matico” è definito in base al progressivo supe­ramento della separazione tra i vari media, in particolare quelli a stampa e quelli elettronici; dall’ampliamento del campo informatico e dal restringersi delle fonti di informazione. R. Grandi ha sottolineato i rischi connessi al mu­tamento dei criteri di gerarchizzazione delle informazioni,basati non più sulle “modalità di presentazione delle informazioni, quanto sulle possibilità effettive di accesso e di consumo di informazioni destinate a pubblici particolari”. Questo fenomeno porterebbe a rafforzare l’im­portanza del processo di selezione alla base della circolazione delle informazioni. Diventa allora centrale, per la ricerca sulla comunica­zione, individuare “come stanno trasforman­dosi i meccanismi di legittimazione del potere e cosa ancora significano, in un universo telema­tico, concetti come libertà di stampa e rappre­sentatività del sistema” (2o).

Sulla base di una prospettiva analitica globa­le, volta all’individuazione dei meccanismi di potere e di controllo esercitati a livello dell’in­formazione che configurano la fisionomia delle società tardo capitalistiche, la ricerca sulle poli­tiche dei mass media ha assunto differenti arti­

colazioni. Da un lato ha messo in luce l’intrec­cio tra comunicazione di massa e sviluppo del capitale intemazionale, soprattutto in relazione all’apertura di nuovi mercati ai fini dell’assor­bimento della produzione culturale (2I). Dall’al­tro, ha evidenziato la capacità esplicativa dei media rispetto alle forme di potere istituzionali ed economiche, sottolineando al tempo stesso gli effetti globali dei mezzi di comunicazione di massa. “Gli ‘effetti’ della comunicazione non sono principalmente quanto essi ci fanno tare’ ma quanto contribuiscono al significato di tut­to quello che è fatto (o accettato o evitato), che è un processo più essenziale e, alla fine, più decisivo ... Gli ‘effetti’ principali delle comuni­cazioni di massa devono quindi essere ricercati nelle idee, nelle definizioni e nelle premesse fondamentali che essi contengono e formano e non necessariamente nell’accordo o nel disac­cordo con i suggerimenti manifesti di questi effetti o nelle risposte in un momento qualsiasi alle specifiche proposte di questi effetti” (22).

La tendenza distica ha così spostato l’asse della ricerca dalla influenza persuasiva dei me­dia alla misurazione degli “effetti conoscitivi”, che stanno ad indicare la capacità dei media di creare immagini della realtà sociale attraverso le quali il pubblico costituisce le proprie opi­nioni e credenze P ).

In tal modo, si è venuta accentuando Firn- portanza del potere del discorso prodotto dai media. H discorso dei media è divenuto, come ha osservato P. Lascoumes, da semplice media­tore, a “luogo di produzione di senso, dalla portata ideologica decisiva” (24). Il loro ruolo si configura in tal modo non più come quello di una semplice legittimazione a posteriori. Il di­scorso del potere passa attraverso il potere del

(■*) Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 16(20) Roberto Grandi, L’informazione nell'universo telematico, in II video degli anni '80, cit., p. 71(21) Armand Mattelart, Multinazionali e comunicazioni di massa, Roma, Editori Riuniti, 1977(22) George Gerbner, Indicatori di comparazione culturale, in Le politiche dei mass media. Evoluzione e trasformazione mondiale del sistema delle comunicazioni di massa, a cura di G. Gerbner, Bari, De Donato, 1980, p. 176(23) M. Gurevitch, J.G. Blumner, I mezzi di comunicazione di massa e le istituzioni politiche: l’approccio sistemico, in Le politiche dei mass media, cit. p. 234(24) Pierre Lascoumes, L’Europe de la répression ou l'insécurité d'Etat, “Actes”, printemps 1978

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discorso e, in questa prospettiva, i media eserci­tano una funzione di “anticipazione” della pa­rola del potere (25).

All’attuale stadio della riflessione, il potere dei media sulla realtà politica e sociale viene considerato un dato certo. In tal modo è stata superata non solo la teoria dei limited effects, ma anche la tradizione della “sociologia umani­stica” della comunicazione, sviluppatasi in Francia negli anni sessanta. Seguendo le indi­cazioni suggerite da G. Friedmann a proposito di un inserimento della problematica dei media in una prospettiva interazionistica tra la socie­tà, i gruppi che la compongono e le tecniche di comunicazione (26), questa sociologia si era orientata soprattutto verso una valutazione al­tamente ottimistica delle funzioni dei media, considerandoli come uno “specchio” della so­cietà contemporanea Q1).

Ai media viene ora riconosciuta una base di potere indipendente nella società; la loro orga­nizzazione è analizzata come il terreno sul qua­le vengono esercitate strategie di controllo e di assorbimento messe in atto dalle istituzioni po­litiche. Alla luce di queste considerazioni hanno preso corpo nuovi approcci di ricerca come quello di M. Gurevitch e J.G. Blumler relativo alla comunicazione politica. Nel modello si­stemico proposto dai due autori viene eviden­ziato il rapporto esistente tra i media e le istitu­zioni politiche, analizzato nelle forme di subor­dinazione e di conflitto nelle quali si articola. All’interno delle politiche della comunicazione vengono così rilevati i meccanismi di consenso e di conflitto che vengono messi in atto rispetto al sistema politico ed i processi di regolamenta­zione a cui sono sottoposti tali conflitti. Questa dinamica varia in relazione alla misura del ri­conoscimento, da parte degli attori del sistema

della comunicazione politica (formata dai me­dia e dalle istituzioni politiche), della “legittimi­tà della politica culturale da cui essi provengo­no” (»).

Si configura sempre più nettamente la pro­blematica che sta alla base delle nuove tendenze nel campo della communication research, ossia la riproduzione sociale e culturale. Tale pro­blematica è attualmente considerata in alcuni settori della ricerca marxiana sulle comunica­zioni di massa, come la prospettiva olistica attraverso la quale poter individuare in pro­fondità le relazioni tra media e campo sociale. La funzione di riproduzione sociale e culturale esercitata dai media può essere colta, come sostengono G. Murdock e P. Golding, solo attraverso il suo inserimento in ricerche sulla stratificazione sociale e sulla legittimazione P ).

Le modificazioni avvenute nell’ambito della ricerca sulle comunicazioni di massa, possono anche essere lette come il segno della ricezione all’interno del campo delle problematiche rela­tive al consenso e alla legittimazione che hanno interessato alcuni aspetti del dibattito sociolo­gico nell’ultimo decennio. Da differenti posi­zioni teoriche e con finalità esplicative diverse, è stato ugualmente ribadito il bisogno crescente di consenso e di legittimazione che caratterizza le società tardo-capitalistiche, nelle quali il con­senso viene perseguito attraverso il manteni­mento del pluralismo.

La forma del pluralismo rende più comples­se tanto le strategie di controllo, quanto quelle finalizzate all’ottenimento del consenso neces­sario alla stabilità dei sistemi sociali. A questo riguardo, N. Luhmann ha sostenuto che la ricerca di consenso nei sistemi complessi avvie­ne allo scopo di realizzare quell’integrazione sociale che non è garantita in assoluto dalla sola

(25) Armand e Michèle Mattelart, I mass media mila crisi, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 88(M) George Friedman, Sociologie des communications: introduction aux aspects sociologiques de la radio-télévision, “CERT”, n. 5, 1956(27) Jean Cazeneuve, Sociologia della radiotelevisione, Messina-Firenze, D’Anna, 1975, p. 113(28) Michael Gurevitch, Jay G. Blumler, I mezzi di comunicazione di massa e le istituzioni politiche, cit., p. 253(29) Graham Murdok, Peter Golding, Capitalism, communication and class relations, in J. Curran, M. Gurevitch, J. Woolacott (a c. di), Mass communication and society, London, Arnold, 1979

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produzione della norma. Il consenso persegui­to è tuttavia, secondo Luhmann, fittizio. I si­stemi sociali debbono economizzare il consen­so, attraverso le istituzioni che lo sfruttano in momenti socialmente significativi, in m odo da renderlo attendibile e riproducibile funzional­mente (3o). Il consenso, sia pure fittizio, è neces­sario al sistema per realizzare l’isolamento so­ciale e politico dei devianti. A questo il sistema arriva coinvolgendo dal punto di vista formale i cittadini nei procedimenti decisionali legitti­manti. Attraverso il procedimento, che emana decisione ed assorbe la protesta, il sistema pro­duce la sua legittimazione e quella del suo dirit­to (31).

Mentre Luhmann identifica il bisogno di consenso dei sistemi complessi nella necessità che venga garantita, al loro interno, l’autono­mia delle istituzioni politiche come fondamen­to della legittimazione, J. O’Connor e C. Offe lo rintracciano nella duplice funzione di accu­mulazione e legittimazione che caratterizza lo stato tardo-capitalistico. Lo stato deve mante­nere le condizioni in cui sia possibile un proces­so continuo di accumulazione ed ottenere con­temporaneamente il consenso degli strati che sono schiacciati dalla sua politica economica e sociale. La legittimazione diventa uno strumen­to sempre più necessario al mantenimento del­l’ordine sociale (32). Le due funzioni tuttavia entrano sovente in collisione e provocano fe­nomeni di crisi, motivati dal fatto che le funzio­ni operative dello stato e quelle simboliche non coincidono tra loro (33). La caduta dei livelli di legittimazione, provocata dallo scarto tra le motivazioni ideologiche e le funzioni oggettive dello stato, è accentuata anche dalla distruzione

di tutti i valori normativi tradizionali che in passato hanno formato le credenze legittimanti(M).

Nell’ambito della problematica del mante­nimento, nelle società tardo-capitalistiche, di un livello di consenso che garantisca la ricom­posizione delle crisi interne al sistema e la sua conservazione, emerge la funzione di rilegitti­mazione che può assumere l’informazione. La ricerca attuale sulla comunicazione di massa ha dunque espresso tendenze che privilegiano lo studio dei media in relazione al sistema politico, allo scopo di metterne in luce le modalità di utilizzazione volte al mantenimento di livelli ottimali di consenso. Rispetto a questa pro­blematica, il campo italiano della comunica­zione di massa ha registrato, a sua volta, una serie di spostamenti che lo hanno specificato, rispetto al campo intemazionale, proprio per l’attenzione posta al rapporto tra media e si­stema politico.

Negli ultimi anni anche in Italia si è attuato un tentativo di ridefinizione delle modalità di approccio allo studio dei mass media, per supe­rare la “fase protoideologica’’, scandita dall’op­posizione tra “apocalittici” e “integrati” che aveva caratterizzato la sociologia italiana della comunicazione negli anni sessanta. Le propo­ste emerse in numerosi settori si sono orientate verso la ripresa della ricerca empirica inquadra­ta in un modello teorico di riferimento e inseri­ta, al tempo stesso, in un contesto storico­economico specifico tramite la collocazione dell’oggetto mass-media all’interno dell’orga­nizzazione dei processi di produzione (35). Tali proposte, caratterizzate dall’esigenza di colma­re il vuoto teorico che ha qualificato buona

(30) Niklas Luhmann, Sociologia del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 79 sgg.(31) Danilo Zolo, Complessità, potere, democrazia, Saggio introduttivo a N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore, 1979, pp. XX-XXI(32) James O’Connor, La crisi fiscale dello stato, Torino, Einaudi, 1977(33) Claus Offe, Lo stato nel capitalismo maturo, Milano, Etas Libri, 1977, pp. 151-154(34) Claus Offe, La fine del controllo di mercato e il problema della legittimazione, in Teoria dello stato capitalistico, a cura di G. Gozzi, V. Romitelli, Trento, Materiali del gruppo di lavoro “Teoria e storia sociale” Facoltà di sociologia - Trento, 1977, p. 125(35) Marino Livolsi, Proposte per riprendere la ricerca teorica sulle comunicazioni di massa, “Problemi dell’informazione” 1977, n. 1, p. 17

Campo dei media, campo del potere 21

parte della ricerca sociologica italiana sulla comunicazione, tendono a pervenire ad una definizione del sistema complessivo delle co­municazioni di massa in Italia p 5). In questo nuovo contesto emergono alcune indicazioni di metodo, come quella di G. Grossi, volte esplici­tamente alla lettura del rapporto tra sistema di

Ì informazione e sistema politico italiano come problema di legittimazione. “D sistema politico — quindi non solo il blocco dominante — tende a utilizzare gli strumenti di informazione di massa come supporto o sostegno alla pro­pria azione di direzione politica e di organizza­zione sociale ... Nella situazione attuale, in cui l’intreccio crisi economica-quadro politico non può (o non vuole) risolversi in un’alternanza di potere, la gestione del sistema di informazione è indispensabile, contemporaneamente, sia per chi vuole ri-legittimare il proprio potere, sia per chi mira ad affermare una nuova egemonia (e quindi a pre-legittimarla)” (37).

Anche nello studio degli apparati dei media che, a partire dai primi anni settanta, ha avuto un notevole incremento, sono state avanzate

¡proposte analoghe. Rispetto agli approcci che hanno privilegiato l’analisi degli apparati so­prattutto in relazione al profitto, è avvertita ora l’esigenza di considerare anche gli aspetti ine­renti la produzione di consenso. Recuperando il messaggio althusseriano relativo alla funzio­ne degli apparati ideologici di stato (38), alcuni autori hanno suggerito di correlare le nozioni di profitto e di consenso in una visione complessi­va, realizzabile solo sul piano della analisi del funzionamento del discorso dei media all’inter­no delle forme organizzative che lo producono. “Se dunque il rapporto tra discorsi dei media e

consenso è inestricabile, forse si deve conclude­re che per parlare in generale di ‘produttività’ degli apparati dei media, bisogna considerare anche un parametro che in qualche modo sia riferibile alla categoria ‘consenso” (39).

L’importanza assunta, all’interno del campo dei media, dalla comunicazione politica, come terreno privilegiato per analizzare i canali di produzione del consenso e di ricerca della legit­timazione, si è riflessa anche nell’ambito della storiografia contemporaneistica italiana. Nella congiuntura degli anni settanta, caratterizzata da una ripresa attiva del dibattito sui media, si è realizzato un significativo spostamento disci­plinare. La storiografia contemporaneistica ha dilatato i propri settori di indagine, appro­priandosi di oggetti discorsivi che erano stati prerogativa di altre discipline ed ampliando il proprio sguardo soprattutto in direzione del­l’analisi dell’apparato radiotelevisivo. Questo nuovo impulso si configura come il prosegui­mento delle ricerche sulla stampa che, a partire dagli anni sessanta, hanno occupato una cospi­cua parte del campo contemporaneistico (4o) e hanno indicato fattivamente il mutamento av­venuto all’interno della tradizionale storia delle idee, che ha assunto la forma della storia della stampa e dell’opinione pubblica (41).

Uno dei segni dell’attenzione suscitata dalla radiotelevisione nell’ambito della storiografia contemporaneistica italiana è rappresentato anche dalle sollecitazioni provenienti dalle pos­sibilità di sfruttamento didattico del medium per l’insegnamento della storia contempora­nea. È rilevante lo spostamento disciplinare verificatosi anche a questo proposito. Dalle analisi sociologiche classiche relative all’uso del-

<(36) Giovanni Bechelloni, Franco Rositi, Il sistema delle comunicazioni di massa in Italia, “Problemi dell’informazione”, 1977, n. 1, pp. 29-46

(” ) Giorgio Grossi, Sistema di informazione e sistema politico: alcune ipotesi di relazioni e di tendenze, “Problemi deil’informazione”, 1978, n. 1, pp. 26-27(38) Louis Althusser, Ideologia e apparati ideologici di stalo, “Critica marxista”, 1970, n. 5, pp. 23 sgg.(39) M. Wolf, G. Stucchi, M. Bruzzone, La produttività in televisione: elementi per una definizione, in Economia politica dei mass media, cit. p. 67(4°) Maria Malatesta, Storia della stampa e storia d’Italia, “Italia contemporanea”, 1980, n. 139(4I) Lawrence Stone, Il ritorno alla narrazione: riflessioni su una vecchia nuova storia, “Comunità”, 1981, n. 183

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la televisione nella scuola (42), si è passati a ricerche incentrate sulle modalità di insegna­mento della storia attraverso l’ausilio dei media(«).

Il problema fondamentale è diventato così, come ha osservato V. Castronovo, “non tanto quello di compiere una scelta di principio tra l’adozione o il ripudio dei mezzi di comunica­zione di massa. Si tratta piuttosto di stabilire il loro grado di utilizzazione, di fruibilità, in mo­do appropriato e corretto, nell’ambito delle fonti documentarie e degli strumenti didattico informativi, tenendo presente, del resto, che il nostro universo conoscitivo non è fatto soltan­to di nozioni, di concetti, di numeri, ma anche di impressioni visive, di segni, di simboli, di schemi interpretativi complessi” l44).

Queste nuove aperture verso un più positivo e concreto rapporto con i media in materia di produzione culturale, sono anche il sintomo della modificazione dell’atteggiamento di larga parte degli “strati intellettuali soprattutto nei confronti della televisione e del superamento della catena di pregiudizi e di resistenze verifica­tesi nei confronti del medium negli anni cin­quanta e sessanta (45). Tali modificazioni sem­brano prefigurare la possibilità di uno scambio fruttuoso tra intellettuali e media, volto, come ha osservato A. Abruzzese, al superamento delle ideologie dello sfruttamento del lavoro intellettuale da parte del potere e inserito all’in­terno del processo produttivo, per coglierne il contenuto sociale e per “incidere sull’organiz­zazione del lavoro per quanto riguarda i pro­cessi di qualificazione e di produzione” l46).

Il risultato di questa serie di fattori concomi­tanti è rintracciabile non soltanto nell’allarga­mento degli scambi disciplinari in relazione alla

ricerca sulla comunicazione di massa. Il dato più interessante rilevabile da un punto di vista storiografico, è costituito in definitiva dal deli­nearsi di nuove possibilità di storicizzare ogget­ti d’analisi monopolizzati da altre discipline, utilizzandoli sia dal punto di vista della dilata­zione delle fonti, sia da quello più specifico della ricerca; di studiare i media sia in relazione ai diversi stadi di sviluppo delle società con­temporanee, sia come indicatori degli stessi meccanismi di articolazione dell’organizzazio­ne di queste società.

Il primo sguardo storiografico verso la radio è stato lanciato da A. Galante Garrone nel 1952(47). La novità dell’oggetto prescelto, anche al di là delle motivazioni politiche che erano alla base delle riflessioni dell’autore, è stata piena­mente raccolta dalla storiografia contempora- neistica solo dopo vent’anni. Con eguale ritar­do rispetto al campo intemazionale dei media nel quale, è soprattutto il caso degli Stati Uniti, fin dagli anni cinquanta la ricerca sulla comu­nicazione radiotelevisiva fu a volte accompa­gnata dalla storia del medium (48), alcuni studi pubblicati negli anni settanta hanno ripercorso le vicende della radiofonia dal fascismo fino all’avvento della televisione. Una storia siste­matica di questo medium deve essere ancora scritta. I contributi su di esso sono tuttavia numerosi, pur se mescolati ancora ai contenuti polemici di stringente attualità, relativi al pe­riodo precedente e successivo alla riforma del 1975. Le vicende della radio fascista occupano quindi, al momento attuale, una posizione do­minante in questo settore storiografico anche perché hanno delineato un nuovo terreno nel quale analizzare l’organizzazione del consenso del regime.

(42) Giovanni Gozzer, Gabriella Priulla, La televisione a scuola. Esperienze nell’uso di tecnologie educative in Italia, Bologna, 11 Mulino, 1977(43) Alberto Farassino, Televisione e storia, Roma, Bulzoni, 1981(44) Valerio Castronovo, Mass media e storia contemporanea, “Società e storia”, 1981, n. 11(45) Francesco Pinto, Intellettuali e TV negli anni ’50, Roma, Savelli, 1977(46) Alberto Abruzzese, L’intellettuale professionista di fronte ai mass media, “Problemi dell’informazione”, 1977, n. 2, p. 164(47) Alessandro Galante Garrone, L’aedo senza fili, (l’EIAR) “Il Ponte”, ottobre 1952, n. IO(48) A. Siepmann, Radio, television and society, New York, Oxford University Press, 1950', 19562

Campo dei media, campo del potere 23

L’apporto della disciplina storica nel campo dei media offre la possibilità di ricostruire, in una dimensione di lungo periodo, le caratteri­stiche del rapporto instauratosi in Italia tra sistema politico e radiotelevisione. Il taglio dominante di alcuni di questi lavori consiste infatti nel mettere a fuoco non solo i canali di trasmissione della politica del regime attraverso il nuovo medium, ma nel sottolineare anche la continuità delle modalità di diffusione del “po­tere nell’aria” tra fascismo e repubblica. L’ausi­lio della disciplina giuridica fornito in questo caso dal campo del diritto amministrativo e costituzionale permette di verificare gli aspetti formali di questa continuità. Essa si è tradotta nel perpetuarsi di un sistema normativo di re­golamentazione in materia di radiodiffusione che, di fatto, è stato modificato solo con la legge di riforma del 1975.

Sistem a p olitico e rad iotelevisione italiana

Le vicende della radio durante il fascismo e la normativa con la quale venne regolamentato il rapporto tra l’ente radiofonico e lo stato, sono stati oggetto di riflessione da parte di giuristi e di storici anche in relazione agli elementi di continuità che hanno saldato la radiofonia del regime allo sviluppo della radiotelevisione nel­l’Italia repubblicana. Tra le analisi storiografi­che, quella di F. Monteleone è stata articolata con grande decisione sulla tesi della continuità, sottolineando la lunga durata di un rapporto di stretto controllo instauratosi tra sistema politi­co e radiodiffusione nella storia dell’Italia con­temporanea. Anche nella fase precedente l’in­stallazione della rete nazionale, nonostante fos­se stata scartata l’ipotesi di un monopolio stata­le sulle comunicazioni senza filo, i governi libe­rali avevano sottolineato la necessità di un loro

controllo da parte dello stato. Fin dal 1910 “la storia della legislazione radiofonica si è andata sempre più intrecciando con la storia della sua gestione politica e con la lotta che i maggiori gruppi industriali e finanziari ingaggiarono agli inizi degli anni venti per il controllo del nuovo mezzo” (49). Su questa linea, Monteleone, ha letto gli sviluppi della radiofonia fascista non solo in relazione al potenziamento di uno strumento di creazione di consenso, ma anche come campo di intervento delle forze imprendi­toriali che intendevano rilanciare l’apparato produttivo in un contesto tecnologico intema­zionale in espansione (5o). L’azienda radiofoni­ca, nata nel 1924 come società privata e sogget­ta immediatamente al monopolio statale, va quindi esaminata non solo in relazione al cre­scente interesse che il regime dimostrò nei suoi confronti (5I) — dopo alcuni anni di incertezza nei riguardi delle possibilità offerte dal nuovo medium (52) —, ma anche in rapporto a quello di vasti settori industriali per un aumento degli investimenti attraverso l’allargamento della re­te nazionale.

AlTintemo di questo contesto, nel quale gli interessi eonomici privati e quelli politici del regime sono strettamente uniti, si colloca la trasformazione dell’URI in EIAR, la nuova società a cui lo stato nel 1927 dava per venticin­que anni in concessione il servizio in esclusiva delle radioaudizioni circolari. Con l’EIAR ve­niva sancito l’intervento pubblico come mezzo di salvataggio del capitale privato che, a causa della scarsa diffusione della radiofonia nel pae­se, non era più in grado di autofmanziarsi. In cambio, l’ente gestione sarebbe stato sottopo­sto a una regolamentazione giuridica e norma­tiva tale da garantire allo stato il controllo dell’informazione e della politica culturale.

Dal punto di vista giuridico l’EIAR si pre-

O Franco Monteleone, La radio italiana nel periodo fascista, Venezia, Marsilio, 1976, p. 15(50) Ivi, p. 64(51) Philip Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 225 ssg.(52) Sulla funzione prioritaria attribuita da Mussolini alla stampa, fino agli inizi degli anni trenta, v. Paolo Murialdi, La stampa quotidiana del regime fascista, in Storia della stampa italiana, a cura di V. Castronovo, N. Tranfaglia, voi. IV, N. Tranfaglia, P. Murialdi, M. Legnani, La stampa italiana nell'età fascista, Roma-Bari, Laterza, 1980

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sentava come una società anonima attraverso la quale lo stato gestiva interessi privati. Il con­trollo statale sulla società divenne però anche finanziario, dopo il 1933, attraverso l’acquisto da parte deH’IRI di una quota del pacchetto azionario, senza che l’impresa pubblica si sosti­tuisse tuttavia a quella privata. La particolare fisionomia assunta dall’ente, caratterizzato da una struttura privatistica controllata diretta- mente dall’esecutivo e preposto all’esercizio di radiodiffusione in regime di monopolio, unita all’allargamento dei settori di intervento ed al ricorso ai sistemi più diversi di finanziamento, ha costituito un modello sul quale si è cadenza­to, sul lungo periodo, il rapporto tra sistema politico e radiotelevisione italiana. Questo mo­dello — secondo Monteleone — si è affermato sotto il fascismo con caratteri così definitivi da creare una mentalità “che diventerà il punto di forza sul quale, anche dopo la creazione della RAI nel periodo post-bellico, gli uomini chia­mati alla guida dell’ente radiotelevisivo fonde­ranno il loro strapotere” (53).

Con la creazione dell’EIAR, la radio comin­ciò ad imporsi all’opinione pubblica come un mezzo di comunicazione di massa. La definiti­va strutturazione dell’azienda si accompagnò alla preoccupazione crescente del regime di controllare direttamente tutte le fasi di pro­grammazione e trasmissione e di intervenire nei contenuti dell’informazione. La storiografia sul fascismo ha ampiamente illustrato i processi di consolidamento del regime totalitario negli an­ni trenta e la conseguente attivazione di mecca­nismi di riorganizzazione di tutta la politica culturale. Nel 1934 venne abolito l’ufficio stampa e istituito al suo posto il sottosegretaria­to per la stampa e la propaganda, alle dirette dipendenze del duce, trasformatosi in ministero

nel 1935. In questo nuovo assetto, la commissi- ne di controllo dell’EIAR passava sotto le diret­tive del nuovo organo, che allargò progressi­vamente le sue competenze a tutti i settori della politica culturale e dell’informazione, fino a trasformarsi nel ministero della Cultura Popo­lare nel 1937. Col Minculpop veniva data veste istituzionale all’idea di unificare in un unico organo cultura e propaganda, disciplinando in modo totalitario la vita culturale del paese (M).

Il dato che contraddistingue una dittatura totalitaria è — secondo la definizione di F. Neumann — la necessità di “controllare l’istru­zione, i mezzi di comunicazione e le istituzioni economiche affinché l’intera società e la vita privata del cittadino siano sincronizzate con il sistema di dominio politico”. Il dominio sulla società, oltre che quello sullo stato, richiede anche “la trasformazione della cultura in pro­paganda, dei valori culturali in beni smerciabi­li” (55).

L’organizzazione del consenso del regime fascista si presenta quindi in una forma univoca e monologica, orientata — sia pure nelle diffe­renti direzioni in cui si esercitò — verso un fine propagandistico unidimensionale. Questo dato è riscontrabile anche attraverso l’analisi del contenuto delle varie trasmissioni radiofoni­che. I radiogjornali, le “cronache del regime”, i “commenti ai fatti del giorno”, messi in onda durante la guerra, mostrano con evidenza i livelli di fascistizzazione dell’EIAR, nonostante che — come osserva Papa — sia difficile stabi­lire, pure negli anni di maggior consenso al regime, l’effettiva penetrazione della propa­ganda fascista, anche attraverso la diffusione della radio (56).

Il regime fascista, pur non avendo bisogno di legittimazione, necessitava di consenso (57).

(5J) F. Monteleone, La radio italiana nel periodo fascista, cit. p. 75(54) Ph. Cannistraro, La fabbrica del consenso, cit. p. 132(55) Franz Neumann. Note sulle teorie della dittatura, in Lo stato democratico e lo stato autoritario, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 333, 345(56) Antonio Papa, Storia della radio politica in Italia, voi. I, Dalle origini agli anni della crisi economica 1924-1934, Napoli, Guida 31, 1978, p. 122(57) Victoria De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 6

25Campo dei media, campo del potere

Questo consenso, interpretato agli inizi sulla base delle priorità economiche, fu ricercato so­prattutto attraverso il canale delle organizza­zioni di massa e indirizzato alle fasce produtti­ve, acquistando “molteplici significati specifici, a seconda delle risposte che il regime esigeva dai diversi settori della società in momenti diversi” (5B). Che fosse un consenso ricercato monologi- camente, ma a livelli differenziati, lo dimostra­rono anche i tipi di trasmissione che vennero creati negli anni trenta sia per i giovani, le famiglie e la scuola, sia per gli operai e i contadini.

Il programma pedagogico del regime fu faci­litato dal superamento dei contrasti residui con gli ambienti cattolici (59) e assunse, soprattutto attraverso “Radio sociale” e “Radio rurale”, un aspetto coattivo, attraverso la forza di sugge­stione esercitata sul pubblico dalle parabole politiche (6o). La nascita dell’Ente radio rurale, nel 1933, segnò così una tappa importante nella storia della radiofonia. Sebbene il disegno tota­lizzante del ruralismo radiofonico si scontrasse con una realtà che non costituiva un facile terreno di assorbimento (6I), “Radio rurale” indica l’attenzione posta all’interno della strate­gia totalitaria verso una comunicazione radio­fonica per gruppi sociali differenziati (62). An­che per la radio, come per le organizzazioni di massa, nel periodo maturo del fascismo, il campo sociale e quello privato vennero assorbi­ti dalla sfera pubblica. La gestione globale della radio comportò negli anni trenta, non soltanto il suo controllo politico, quanto “l’appropria­zione crescente della privacy degli italiani, la fondazione di nuove abitudini collettive, l’ac­centuazione dello stile fascista nella sfera della

vita quotidiana” (63).Il controllo esercitato dal regime totalitario

sui media allo scopo di penetrare capillarmente anche nella dimensione privata dei cittadini rappresenta, sia pure nelle sue forme estreme, un momento del processo che caratterizza le società del XX secolo, costituito dall’annulla­mento della separazione della sfera pubblica da quella privata. Il fabbisogno di capitale, soprat­tutto in relazione ai media radiotelevisivi, ha spinto, in numerosi paesi, lo stato ad assumere la loro organizzazione sotto forma di gestione o di controllo. Queste misure — come ha osser­vato Habermas — hanno trasformato in orga­ni pubblici “quelle istituzioni private di un pub­blico di privati” (M). L’affermarsi dello stato interventista, dello stato “socializzato totale” (65), ha comportato la messa in atto di strategie di controllo della sfera sociale e dei canali del­l’informazione e della comunicazione di massa, aU’intemo dei quali vanno collocati anche gli aspetti esasperati che tali fenomeni assunsero durante il fascismo. L’assorbimento del campo sociale e di quello privato nella sfera pubblica non costituiscono così una peculiarità del regi­me. Sono sua prerogativa, invece, le modalità del controllo — centralizzato e totalizzante— e quelle relative alla ricerca e all’organizzazione del consenso attraverso i media. Questi venne­ro utilizzati per la diffusione di una propaganda manifesta e imperativa; per il livellamento dei discorsi ad un unico discorso; per l’indicazione di modelli sociali mantenuti entro l’area del potere ed incanalati in organizzazioni politiche rigidamente controllate i66).

Monteleone ha sottolineato con insistenza il perdurare di una linea di continuità tra fascis-

(5S) Ivi, p. 7(” ) Alberto Monticone, Il fascismo al microfono. Radio e politica in Italia (1924-1945), Roma, Studium, 1978, p. 120(60) Mario Isnenghi, Per una storia delle istituzioni culturali fasciste, in Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979, p. 165(61) A. Monticone, Il fascismo al microfono, cit., pp. 90-99(62) A. Papa, Storia della radio politica in Italia, voi. 1, cit., p. 139(63) A. Papa, Storia della radio politica in Italia, cit., voi. Il, Dalla guerra d’Etiopia al crollo delfascismo 1935-1943, p. 44 (M) Jurgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 224(65) Otto Hintze, Dallo stato nazionale borghese allo stato impresa, in Stato e società, Bologna, Zanichelli, 1981 (“ ) Franco Rositi, Informazione e complessità sociale, Bari, De Donato, 1978, p. 141

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mo e repubblica in materia di controllo dei mezzi audiovisivi e della loro utilizzazione da parte del sistema politico allo scopo di ottenere il consenso necessario alla sua conservazione. Gli aspetti giuridici che hanno delineato il qua­dro normativo all’interno del quale è stato for­malizzato il rapporto tra lo stato e l’ente radio- televisivo, costituiscono un terreno di osserva­zione assai favorevole per individuare le man­cate rotture che, anche in questo settore, hanno caratterizzato il passaggio dal fascismo alla re­pubblica. Il passaggio dall’esercizio radiofonico ai poteri amministrativi del governo italiano, avvenuto nel ’44, fu accompagnato dall’assenza della definizione giuridica di un diverso rappor­to tra lo stato e la RAI. L’esperienza del con­trollo nazionale costituito dalla commissione del Clnai, “rappresentò il primo e unico mo­mento di vigilanza ispirata a motivi democrati­ci” (67), mentre la mancanza di un nuovo qua­dro normativo in materia di radiodiffusione permise subito alla Democrazia cristiana di esercitare un forte potere di controllo sulla RAI C*).

Il DL. C. PS. 1947, n. 428, si limitò infatti alla creazione di un comitato per la determina­zione delle direttive culturali e per la vigilanza sulle loro attuazioni e all’istituzione della com­missione parlamentare di vigilanza “per assicu­rare l’indipendenza politica e l’obiettività in­formativa delle radiodiffusioni” (art. 11). Il DL. n. 428, tramutato poi nella legge del 23 agosto 1949, n. 681 attuava una distinzione tra control­lo tenico degli impianti e controllo politico sui programmi, distribuiva la competenza dei con­trolli tra i vari dicasteri e organi, attribuendo al ministero delle Poste e Telecomunicazioni nu­merosi poteri, ma non modificava alcun con­cetto sostanziale presente nella legislazione pre­

cedente (69). La vera novità del decreto era la creazione della commissione parlamentare di vigilanza, attraverso la quale il parlamento en­trava per la prima volta nell’area di gestione del servizio radiofonico, rimasto fino a quel mo­mento totalmente nelle mani dell’esecutivo.

Anche nelle successive vicende della televi­sione, tuttavia, la commissione di vigilanza ha mostrato tutta la debolezza delle sue capacità effettive di controllo. Su questo dato la giuri­sprudenza si è trovata ampiamente d’accordo. I risultati del controllo della commissione — che non poteva trattare direttamente con l’ente concessionario — venivano infatti trasmessi al­la presidenza del Consiglio che impartiva le disposizioni conseguenti al presidente della RAI e informava il ministero delle Poste (art. 13). Le deliberazioni della commissione non avevano quindi carattere decisionale e forza esecutiva propria; essa era quindi subordinata alla volontà del governo di dare attuazione alle sue proposte. In tal modo la creazione di que­sto nuovo tipo di controllo democratico fu subordinata, ancora una volta, al potere dell’e­secutivo C70). La gestione del monopolio costi­tuiva l’altro aspetto del controllo politico della radiodiffusione. Essa non suscitò tuttavia alcun interesse particolare in sede di assemblea costi­tuente, in cui la discussione dell’articolo 21 fu tutta assorbita dal problema della libertà di stampa. Il testo approvato dell’articolo 21 comprende solo un accenno generico alla ra­diodiffusione, significativo dell’insensibilità del­la classe politica italiana, compresa la sinistra, nei riguardi del rapporto tra informazione e potere f ) .

La nuova convenzione stipulata nel 1952, con la quale lo stato attribuiva alla RAI la concessione dell’esercizio per altri vent’anni,

(67) F. Monteleone, Storia della RAI. Dagli alleati alla DC (1944-1954), Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 96 (“ ) Ivi. p. 98(M) Giovanni Santoro, L'evoluzione legislativa in materia di radiodiffusioni circolari. Notizie e spunti, “Il diritto delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni”, 1969, pp. 29-30(7°) Nicolino Piras, Le commissioni parlamentari di vigilanza. “Studi parlamentari e di politica costituzionale”, 1973, n. 21, pp. 53-56(7I) F. Monteleone, Storia della RAI, cit. p. 104

Campo dei media, campo del potere 27

non solo non costituì un elemento innovativo rispetto alla precedente, ma — come ha osser­vato R. Zaccaria — segnò un passo indietro rispetto al decreto del 1947, attribuendo al go­verno poteri ancora maggiori. Anche le norme relative al contenuto delle trasmissioni ripro­ducevano il vecchio ordinamento senza tener conto delle nuove norme costituzionali C72). La soluzione prescelta, consistente nell’attribuire ad una società privata la concessione di pubbli­ci servizi, voleva conseguire i vantaggi della statizzazione e dell’iniziativa privata e soddisfa­re le esigenze per le quali si era creato il mono­polio, evitando contemporaneamente i pro­blemi relativi ad una gestione statale diretta.

Tuttavia il sistema organizzativo sancito dal­la convenzione del 1952 trova — secondo F. Pierandrei — la sua giustificazione soprattutto nel passato. “Mentre le limitazioni di carattere intemazionale circa le ‘frequenze di onde elet­tromagnetiche* legittimavano il principio del monopolio in sé e per sé considerato, la conces­sione in esclusiva ad una società privata per­metteva al governo, che disponeva di ampi

i poteri di direzione sulla società medesima, di avvalersi di essa come di un mero strumento nelle sue proprie mani, ai fini di una continua e penetrante illustrazione dei principi che voleva imporre e nello stesso tempo di conseguire, tra gli altri, il vantaggio di non rivelarsi direttamen­te come ‘governo propagandista”’ f73). Con la convenzione del ’52 venne sancito il sistema misto, costituito dall’unione dei proventi dei canoni (ente pubblico in regime di monopolio) e quelli della pubblicità commerciale gestita dalla SIPRA (società privata). A ciò deve ag­giungersi la saldatura che avvenne, anche nel

dopoguerra, tra sviluppo della radiofonia ed industria in regime di monopolio protetto f74).

L’avvento della televisione, nel 1954, si inse­risce nel quadro normativo definito dalla con­venzione del ’52 e dal rapporto tra ente conces­sionario ed esecutivo da essa sancito. Un’analisi relativa ai vari sistemi radiotelevisivi vigenti nelle democrazie costituzionali pluraliste, di­mostra che il monopolio di fatto (Austria) o di diritto (Francia, Italia, Svizzera, Olanda, Da­nimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia, Lus­semburgo), è formula adottata in prevalenza in Europa, piuttosto che il pluralismo pieno (USA, Giappone, Canada, Australia) o limita­to (Germania, Belgio, Gran Bretagna) f 5). La conferma del regime di monopolio, anche per la televisione italiana, non costituisce quindi di per sé un elemento sufficiente dal quale desu­mere un rigido controllo del sistema politico sull’informazione. Un dato comune a tutta la disciplina giuridica in materia di televisione nei sistemi occidentali, è che questa si è modellata su quella radiofonica, differenziandosi invece radicalmente da quella sulla stampa.

Mentre la stampa si è affermata come “strumento a esercizio pluralista nell’ambito di ordinamenti di tipo monista (“stato liberale monoclasse”)”, la televisione si è imposta come “strumento a esercizio monista nell’ambito di ordinamenti di tipo pluralista (“stato contem­poraneo pluriclasse”)” f76). Motivazioni di or­dine politico, oltre che tecnico, dovute all’alto grado di incidenza della televisione sull’opinio­ne pubblica e sui meccanismi di ordine pubbli­co e di controllo sociale, hanno fatto sì che il regime giuridico della televisione abbia assunto in tutti i paesi carattere pubblico e la sua gestio-

(72) Roberto Zaccaria, Radiotelevisione e costituzione, Milano, Giuffré, 1977, p. 39(” ) Franco Pierandrei, Radio, televisione e costituzione, “Giurisprudenza italiana”, 1961, VI, p. 228(74) F. Monteleone, Storia della RAI, cit. , pp. 134-136(” ) ISLE, Libertà d ’espressione e organizzazione radiotelevisiva, voti, La radiotelevisione all'estero, Milano, Giuffré, 1971; Camera dei Deputati, Le norme sulla radiodiffusione in Belgio, Francia, Germania Federale, Olanda, Gran Bretagna, Stati Uniti d’America, Roma, 1967, voi. I, 1970, voi. II(76) Enzo Cheli, Comunicazione tenuta all’incontro-dibattito sui problemi della riorganizzazione legislativa della radiotele­visione italiana P8 luglio 1970 nella sede dell’ISLE, in ISLE Libertà d’espressione e organizzazione radiotelevisiva, voi. II, La riorganizzazione legislativa della radiotelevisione italiana, Milano, Giuffré, 1971, p. 13

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ne abbia assunto l’aspetto di servizio pubblico, indipendentemente dal sistema di organizza­zione interna.

Come ha osservato con grande chiarezza E. Cheli, il problema non è costituito tanto dalla forma, monopolistica o pluralistica, della ge­stione, quanto dal “tipo di rapporto di dipen­denza che si viene ad instaurare tra l’organizza­zione del servizio radiotelevisivo e lo stato” f77). L’elemento che determina il grado di subordi­nazione della televisione nei confronti del si­stema politico, è così il potere di controllo ed il diritto d’accesso. È la combinazione di questi due elementi che stabilisce il livello di autono­mia dell’ente gestione. A seconda che prevalga la forza dell’apparato statale, quella della co­munità o la forza imprenditoriale dell’ente, si avranno tre diversi tipi di servizi radiotelevisivi: appendice dello stato apparato; servizio radica­to nella comunità con U prevalere dei suoi inte­ressi sullo stato; servizio come canale “neutro”, che riceve cioè messaggi di tutte le forze sociali e distribuisce informazioni sia verso l’apparato che verso la comunità f78).

Seguendo lo schema proposto da Cheli, tut­te le vicende della televisione italiana possono essere inserite nella prima formula, in cui il medium viene definito come appendice dello stato apparato, specchio del consenso, canale di trasmissione del potere. Questa peculiarità della televisione italiana emerge sia dal tipo di regolamentazione giuridica a cui fu sottoposta, che — come si è visto — perpetuò anche col nuovo regime liberal-costituzionale il controllo dell’esecutivo sull’ente gestione, sia delle vicen­de interne dell’ente. Su queste, peraltro, si sono incentrati gli studi che, a partire dal saggio di Gismondi del 1958, hanno ripercorso lo svi­

luppo dell’azienda e le lotte di potere che si sono svolte al suo interno per mantenerla sotto il dominio del partito di maggioranza relativa.

La Democrazia cristiana e la chiesa guarda­rono fin dall’inizio alla televisione non solo come strumento di creazione di consenso poli­tico, ma anche di penetrazione ideologica e confessionale f 9). Tuttavia, nella fase di decollo dell’azienda, l’intervento del partito si incentrò su di un tipo di controllo limitato ad una pura azione censoria (8o), senza assumere la fisiono­mia di un’organizzazione complessiva di politi­ca culturale. La pratica di gestione messa in atto dagli amministratori delegati di questo primo periodo, Guala e Rodino, rappresentò comunque, sia pure in modi diversi, l’inizio di quel processo di accentramento del potere da parte dei democristiani all’interno dell’azienda e di separazione delle responsabilità e delle competenze, il cui prodotto sarà la nota strut­tura per feudi (8I). È in questo senso che L. Cavazza si è espresso, parlando di una vera e propria occupazione democristiana della TV dal 1954 al 1963 (*2).

Solo nel 1961, con la nomina di Bemabei a direttore generale che segna il grande ritorno dei fanfaniani alla gestione dell’ente, la televi­sione subisce una modificazione decisiva. La sua utilizzazione ai fini della creazione di con­senso e legittimazione del sistema politico, vie­ne ora attuata attraverso la realizzazione di un progetto globale, nel quale informazione e poli­tica culturale sono gestiti in modo tale da tras­formare la televisione in strumento politico tout-court. F. Pinto ha messo in rilievo la corri­spondenza tra il progetto totale di Bemabei e la sentenza 13 luglio 1960, n. 59 con la quale la

(77)/v/, p. 15 (7B) Ivi. p. 20(7,> A. Gismondi, La radiotelevisione in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1958, p. 74(*°) Giovanni Cesareo, L'avvento delia televisione e il cinema degli anni cinquanta: la nascita di un nuovo apparato, in II cinema italiano degli anni cinquanta, a cura di G. Tinazzi, Venezia, Marsilio, 1979, p, 345 (*') Giovanni Cesareo, Anatomia de!potere televisivo, Milano, Franco Angeli, 1970, p. 38(8!) Luca Cavazza, Italy: From party occupation. in A. Smith (a c. di), Television and politicai life, London, The Mac Millan Press, 1974, p. 88

29Campo dei media, campo del potere

Corte Costituzionale ribadiva la legittimità del monopolio radiotelevisivo. La “naturalità” e la “necessità” del monopolio (83), riaffermate dalla Corte, erano accompagnate da una critica al­l’operato dell’azienda. “Quello che la sentenza evidenziava, era la sostanziale mancanza di un’autonomia politica e culturale da parte della RAI, capace di rapportarsi in quanto tale al­l’organizzazione complessiva del politico. La difesa del monopolio, che in questo arco di tempo significava ribadire l’egemonia delle for­ze cattoliche, doveva necessariamente passare attraverso la riqualificazione degli apparati di informazione. La Corte non andava quindi nella direzione di una semplice giustificazione del monopolio, ma spostava violentemente in avanti il punto di equilibrio tra RAI, forze cattoliche ed egemonia” f84).

La “tecnica del dominio” inaugurata dal Bemabei si realizzò attraverso la produzione dei programmi come palinsesto, ossia con la programmazione globale ed omogenea di con­tenuti, linguaggi e funzioni sociali (85). Questa politica del palinsesto si accompagnava all’or­ganizzazione interna dell’azienda, volta all’ac­crescimento del potere decisionale della dire­zione, realizzato compiutamente attraverso la strategia basata sulla scomposizione tra idea­zione, produzione e trasmissione (86). La linea di Bemabei fu caratterizzata dall’obiettivo di centralizzare il potere dividendo e moltiplican­do le strutture. Lo strumento utilizzato furono le ristrutturazioni interne che sortirono, fino all’ultima del 1969, il risultato di parcellizzare i servizi e le competenze per mantenere, for­malmente, gli equilibri di potere ed accentuare,

concretamente, il potere decisionale della dire­zione (87).

Durante gli anni sessanta la RAI definì compitamente il proprio volto produttivo, as­sumendo la forma di vero apparato. La nascita della seconda rete, conseguenza della strategia di Bemabei di ampliare i livelli di ascolto attra­verso la differenziazione dei pubblici, è il segno dell’utilizzazione di una logica apparentemente concorrenziale tra le due reti, per affermare l’egemonia della televisione sugli altri media servendosi della forma del pluralismo dei dis­corsi e dei codici f88). F. Chiarenza, ripercor­rendo le vicende della RAI dalla fine degli anni sessanta allo scadere della convenzione venten­nale tra l’ente gestore e lo stato, ha messo in evidenza le cause profonde della sua crisi inter­na, che non era stata contenuta dalle ulteriori manovre di accertamento della direzione. La crisi era il prodotto del rapporto squilibrato creatosi tra la RAI e la società in mutamento; dell’incapacità della struttura aziendale di so­stenere i moli che le trasformazioni del quadro politico e sociale le attribuivano (89). La funzio­ne esclusiva di cinghia di trasmissione del pote­re risultava sempre più insostenibile e veniva attaccata sia dalle componenti politiche che richiedevano una maggiore forza decisionale all’intemo dell’ente, sia dalla categoria dei gior­nalisti, sia dagli altri lavoratori. Nel 1969 venne, significativamente, indetto alla RAI il primo sciopero non per motivi contrattuali ma contro i metodi di gestione f90).

Con ravvicinarsi dello scadere della conven­zione, il dibattito si estese nel paese. In numero­si settori, in particolare le regioni C91) emersero

(83) A.A. Romano, In tema di controllo parlamentare sulla radiotelevisione, “II circolo giudirico L. Sampaolo”, 1964,p. 83(84) Francesco Pinto, Il modello televisivo. Professionalità politica da Bemabei alla terza rete, Milano, Feltrinelli, 1980(85) Ivi, p. 56(86) Giovanni Cesareo, La televisione sprecata. Verso una quarta fase del sistema delle comunicazioni di massa?, Milano, Feltrinelli, 1974, p. l i(87) G. Cesareo, Anatomia del potere televisivo, cit., pp.’ 42 sgg; pp. 63-64 (*8) F. Pinto, Il modello televisivo, cit., p. 71(89) Franco Chiarenza, Il cavallo morente. Trentanni di radiotelevisione italiana, Milano, Bompiani, 1978, p. 154(90) Ivi, p. 102(91) Regione e riforma RAI-TV, atti dei convegno di Napoli, Napoli 1972; Regione e riforma RAI-TV, a cura della Regione Lombardia, Milano, 1974; Per una riforma democratica della radiotelevisione, atti del convegno della Regione Emilia- Romagna, Bologna, 1973

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richieste e furono elaborati progetti per una nuova regolamentazione dell’ente che tenesse presente le domande formulate nel paese in quel periodo di effervescenza sociale e restituis­se alla RAI una fisionomia che non fosse più esclusivamente quella di specchio del potere governativo, ma luogo di produzione e distri­buzione di informazione garantita da criteri di autonomia e professionalità.

D testo di riforma presentato in parlamento nel maggio 1974, sotto il governo Rumor, rece­piva tuttavia solo in minima parte le istanze provenienti dal paese, in quanto sanciva ancora una volta il mantenimento di un ruolo subor­dinato del parlamento, dava un’interpretazione restrittiva del diritto di accesso e contemplava una presenza marginale delle regioni. La legge non iniziò neppure il suo iter perché la Corte Costituzionale, investita fin dal 1971 della que­stione della costituzionalità, si pronunciò con due sentenze (Corte Costituzionale, 10 luglio 1974, n. 225 e 226), con le quali veniva afferma­ta la legittimità del monopolio a condizione che fosse escluso il predominio dell’esecutivo sul­l’ente radiotelevisivo, venisse lasciato spazio al pluralismo e fosse garantita l’indipendenza del­la figura del giornalista.

La Corte Costituzionale — come spiega R. Zaccaria — considerato il fatto che il parla­mento non aveva rispettato le indicazioni da essa fomite nel 1960, aveva risolto la questione dichiarando l’illegittimità di quel tipo di mono­polio, caratterizzato dal prevalere delle funzio­ni di controllo dell’esecutivo (92). In questa oc­casione la Corte Costituzionale ha dimostrato — secondo Zaccaria — di aver recepito con maggiore attenzione le domande provenienti dal paese, assumendo così una funzione pro­pulsiva rispetto alle incertezze del governo. Le sentenze del 1974 sembrerebbro così modifica­

re il molo esercitato dalla Corte fino agli inizi degli anni settanta, che N. Tranfaglia ha defini­to come “collaborazione dall’interno (e in certi casi e momenti in un molo subalterno) al legi­slativo e di fatto all’esecutivo” (” ). Soltanto una storia politica della Corte Costituzionale negli anni settanta potrà sciogliere l’interrogativo se questa abbia invece anticipato decisioni già prese in sede legislativa in relazione al varo della legge di riforma. Al momento attuale é solo possibile constatare che, di fatto, le due sentenze del 1974 hanno accelerato i tempi della riforma, spingendo il legislatore a recepire tutti quegli elementi relativi ad una nuova qua­lificazione del rapporto tra ente radiotelevisivo e sistema politico.

La legge di riforma 14 aprile 1975, varata sotto il governo Moro, ribadisce il monopolio statale, esteso alla RAI-TV via etere e via cavo di carattere non locale. Gli articoli 1 e 2 della legge 1975 n. 103 sono stati successivamente dichiarati parzialmente illegittimi dalla senten­za della Corte Costituzionale, 1976, n. 202, 28 giugno perché includevano indebitamente nella riserva allo stato anche l’installazione e l’eserci­zio degli impianti radiotelevisivi, via etere, di carattere locale. In tal modo dal 1976 è stata determinata una restituzione del monopolio statale alla sola dimensione nazionale.

La principale novità della legge 103 è rappre­sentata dall’aumento dei poteri del parlamento, rispetto a quelli esercitati in precedenza dall’e­secutivo, attraverso l’allargamento delle fun­zioni della commissione parlamentare. Le sue competenze normative consistono ora nel dis­ciplinare direttamente l’attività dell’ente radio- televisivo, senza la mediazione dell’esecutivo e nel ruolo di garante nei confronti dell’accesso. Le sue competenze quasi giurisdizionali ri­guardano i giudizi sui ricorsi in tema di accesso,

(,2) R. Zaccaria, Radiotelevisione e costituzione, cit., p. 74(,3) Nicola Tranfaglia, Per una storia politica della Corte costituzionale, in Dallo stato liberale a! regime fascista, Milano Feltrinelli, 1973, p. 277. Ringrazio Nicola Tranfaglia con il quale ho discusso sui problemi inerenti il significato delle sentenze della Corte del 1974

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contro le decisioni dell’apposita sottocommis­sione. I suoi poteri di indirizzo e di controllo sono inerenti l’attuazione dei principi esposti nell’articolo 1, circa la predisposizione e la at­tuazione dei programmi e dei criteri generali per la formazione dei piani triennali di spesa ed investimento. La legge 103 ha infine mutato i rapporti tra ente radiotelevisivo e comunità, dilatati attraverso il diritto di accesso e la crea­zione di comitati regionali per il servizio radio- televisivo (94).

La riforma ha di fatto confermato la linea emersa tra i partiti di maggioranza sull’attività concorrenziale tra le due reti, stabilendo alcune prescrizioni che non erano contemplate nel te­sto legislativo ma nel protocollo di accordo l95). Secondo tale accordo, la spartizione dei posti nel consiglio di amministrazione e la divisione delle reti è avvenuta secondo il criterio delle zone di influenza. La riforma, se ha spezzato il predominio dell’esecutivo sull’ente gestione che aveva caratterizzato fin dal fascismo il rapporto tra sistema politico e radiodiffusione italiana, ha segnato tuttavia raffermarsi di una logica di lottizzazione che ha compromesso, in breve tempo, le possibilità insite nella legge 103 relati­ve alla delineazione di una nuova fisionomia dell’ente radiotelevisivo.

Le vicende interne dell’azienda successive al 1975, con particolare riferimento alla presenza minoritaria del partito comunista aU’intemo della RAI in rapporto alla sua forza reale nel paese (%), hanno provocato un’intensificazione del dibattito sulla gestione dell’ente. Secondo P. Pratesi la legge 103, attribuendo al parla­mento la prerogativa di nominare la maggio­ranza dei rappresentanti del consiglio di ammi-

nistrazione e di stabilire le funzioni della com­missione parlamentare relative all’esercizio del­l’azienda, ha fatto sì che la lottizzazione, non implicita nella riforma, ne sia stata tuttavia il prodotto (9T). Il perpetuarsi della logica partiti­ca diventa così il pericolo principale nei con­fronti del monopolio televisivo, minacciato ora soprattutto dalle forze politiche che ne hanno perso il controllo totale. La nuova fase dell’in­formazione televisiva pluralistica rischia così di arrestarsi a causa del riprodursi di una logica di potere, basata non più sul mantenimento del monopolio, ma sulla lotta per le spartizioni. Per salvare la riforma, sono state formulate richieste di una maggiore autonomia del consi­glio di amministrazione rispetto alla commis­sione parlamentare; di una diminuzione della frammentazione dei poteri decisionali; della ri­valorizzazione, infine, della componente pro­fessionale all’interno dell’azienda f98).

Un’ulteriore occasione di riflessione sugli esi­ti della riforma è stata rappresentata dalla sen­tenza della Corte Costituzionale 28 giugno 1976, n. 202, che ha liberalizzato le emittenti private locali. Nonostante che la legge 103 sia stata complessivamente valutata dal partito comunista come una riforma mancata, perché non ha modificato la struttura del modello televisivo italiano ("), questo si è eretto a difesa della legge come unica garanzia nei confronti di un sistema informativo che tende ad essere controllato in misura crescente da ristretti gruppi di potere. D PCI ha così indicato, tra i mezzi per controllare lo sviluppo degli oligopoli nel settore privato, l’estensione dell’intervento pubblico in tutto il settore pubblicitario, com­preso quello privato (10°). Rispetto alle propo-

i (") R. Zaccaria, Radiotelevisione e costituzione, cit., p. 326 sgg.J (95) F. Chiarenza, Il cavallo morente, cit., p. 220

J(96) Marina Tartara, Ricostruire un’azienda, “Problemi dell’informazione”, 1976, n. 3, p. 395; L. Cavazza, Italy.fromparty occupation to party partition, cit., p. 110

(97) Piero Pratesi, Il contraddittorio avvio della riforma. I nuovi "signori della R AT, “Problemi dell’informazione”, 1979, n. I, p. 9(98) Giovanni Bechelloni, La televisione compie venticinque anni. Dove sta andando?, “Problemi dell’informazione”, 1979, n. 1(") G. Vacca, La cultura dei media nella sinistra italiana, in II video degli anni '80, cit., p. 10(lo°) C. Raspolli, Radio e TV locali, in Comunicazioni di massa e democrazia, a cura di G. Vacca, Roma, Editori Riuniti, 1980

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ste socialiste di creare una quarta rete nazionale (lo1), il PCI ha ribadito la necessità di scompor­re l’oligopolio costituito da editoria, pubblicità ed emittenti private, rilanciando la piena auto­nomia istituzionale del servizio pubblico e pro­gettando un servizio privato locale, eventual­mente inserito nel circuito nazionale sotto il controllo pubblico (lo2). Le proposte comuniste in difesa del monopolio e del controllo statale sull’informazione sono state formulate allo scopo di evitare che la RAI-TV assuma l’aspet­to del sistema televisivo francese dopo la rifor­ma giscardiana del 1975, che ha scorporato l’ente per sottometterlo al settore privato, pur mantenendolo sotto il controllo statale (lo3).

La riforma della RAI-TV è stata valutata complessivamente come una riforma mancata. G. Amato ha messo in luce sia gli aspetti para­dossali della commissione parlamentare, che la falsa posizione assunta dal consiglio di ammi­nistrazione. Mentre la prima esercita poteri di direzione sull’azienda, pur non avendo suffi­cienti conoscenze sui suoi andamenti interni, il secondo risulta essere privo di autorità non solo tecnico-professionale ma anche politica. Il con­siglio è infatti un’emanazione secondaria della commissione, spesso aggirato dall’intervento diretto dei partiti. Lo stesso pluralismo delle reti è stato difeso su posizioni improntate ad una logica di accentramento che ha demandato alla terza rete la realizzazione delle ipotesi di decentramento. Nella contraddizione tra ac­centramento e pluralismo si è vanificata la pos­sibilità di un vero decentramento che avrebbe dovuto essere lo spazio deputato alla realizza­zione del diritto di accesso. È in questa “storia

di chiusure” che Amato vede la legittimazione delle emittenti private locali. Rispetto a questa realtà, Amato propone di reinterpretare la ri­forma superando l’alternativa tra monopolio statale e televisione privata e riconoscendo che ci si trova di fronte ad un sistema misto nel quale il servizio pubblico copre solo l’area na­zionale e deve convivere con le emittenti locali, sia pure sottoposte ad autorizzazione pubblica. Il problema centrale diventa così quello di “im­postare la convivenza sulla base di indirizzi capaci di assicurare alle parti conviventi ruoli e spazi organicamente definiti” (l04).

Anche E. Cheli si è pronunciato fin dal 1976 invocando non una repressione penale, ma un nuovo intervento del legislatore che regolamen­ti remittenza privata (lo5). Sempre in questa direzione di inserisce la proposta, formulata dallo stesso E. Cheli assieme a R. Zaccaria, di ripensare alla riforma alla luce del sistema tri­polare costituitosi, formato dalla stampa, dalla RAI-TV, dalle emittenti private. Secondo i due costituzionalisti, una rettifica della legge 103 deve mirare alla definizione di un modello or­ganizzativo più ampio, al quale “affidare il compito di ‘governare’ con adeguata flessibilità il rapporto tra area pubblica e privata” (106). La legge 103 è stata incentrata sull’obiettivo di attribuire un ruolo privilegiato al parlamento rispetto all’esecutivo. Gli sforzi per definire cor­rettamente la fisionomia del servizio pubblico non sono stati accompagnati dalla delineazione di un adeguato modello organizzativo e dalla realizzazione di una concreta esperienza nei confronti della comunità. Cheli e Zaccaria in­dicano, come linea di rettifica della legge 103 il

(>»>) Claudio Martelli, Un anno dopo, in Informazione e potere, a cura di C. Martelli, Milano, 1979(102) Giuseppe Vacca, La RAI- TV quattro anni dopo la legge di riforma. Problemi e prospettive, in Comunicazioni di massa e democrazia, cit.(103) Roberto Grandi, Giuseppe Richeri, La televisione in Europa, TV etere, cavo, videogruppi, crisi, innovazioni, involuzioni, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 67 sgg.(104) Giuliano Amato, RAI: la riforma interrotta, in Informazione e potere, cit., p. 70(105) Enzo Cheli, Le radio private. Problemi di legittimità e scelte politiche, “Problemi dell’informazione”, 1976, n. 2, pp. 161-170(loé) E. Cheli, R. Zaccaria, / principi della legge di riforma del 1975 alla luce del nuovo sistema pubblico-privato: aggiustamenti e rettifiche, in Radiotelevisione pubblica e privata, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 26

Campo dei media, campo del potere 33

potenziamento dei compiti della commissione parlamentare attraverso l’ampliamento oriz­zontale delle sue competenze anche alle emit­tenti private (lo7). In questa direzione si è espresso anche S. Zito, che ha rivendicato la positività del controllo parlamentare sulla RAI-TV ed ha indicato la necessità di impe­gnarsi affinché “il parlamento, e i suoi organi, diventino sempre più rappresentanti della co­munità e sempre meno rappresentanti dei par­titi” (lo8).

L’ultimo pronunciamento della Corte Costi­tuzionale del 25 gennaio 1981 ha ribadito la legittimità del monopolio nazionale contro le richieste, avanzate dalla rete televisiva Rizzoli, di diffondere il suo telegiornale su scala nazio­

nale (lo9). Appellandosi alla sentenza n. 202, la Corte ha confermato la propria posizione, dal momento che i suoi appelli rivolti al legislatore affinché regoli l’esercizio dell’attività televisiva privata in modo da armonizzarlo con il servizio pubblico affidato al monopolio statale, “al fine di realizzare così, nell’interesse dell’utente, un’equilibrata coesistenza tra servizio pubblico e iniziativa privata”, non sono stati raccolti e trasformati in un quadro normativo adeguato. La strada per la riforma della radiotelevisione italiana è quindi ancora aperta. Le attese nor­mative sono il segno dell’esigenza di definire, non solo formalmente, un nuovo e più equili­brato rapporto tra informazione, sistema poli­tico e comunità.

Maria M alatesta

C07) Ivi, p. 27(los) Sisinio Zito, La commissione parlamentare di vigilanza^ in Informazione e potere, cit., p. 137 O09) Ordinanza emessa il 18 novembre 1980 dal pretore di Roma sul ricorso proposto dalla RAI contro la S.p.A. Rizzoli editore ed altri con intervento di Agis ed altri (“Gazzetta Ufficiale della Repubblica”, 28 gennaio 1981), recepita dalla Corte Costituzionale in data 25 giugno 1981