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CAPITOLO I LE ORIGINI DELLA COOPERAZIONE EUROPEA SOMMARIO: 1. Il dramma del dopoguerra. – 2. Il Manifesto di Ventotene. – 3. Lo scenario internazionale. – 4. La Dichiarazione Schuman e la nascita della CECA. – 5. I primi passi della cooperazione economica. 1. Il dramma del dopoguerra Sul finire del secondo conflitto mondiale e immediatamente dopo la sua conclusione, le premesse già emerse durante i primi anni del Novecento 1 e che gettavano le basi per la costruzione di un’unità europea, divennero un obiettivo concreto all’interno dei programmi d’azione di correnti politiche e di movimenti organizzati, prima di avere, qualche anno più tardi, un princi- pio di attuazione attraverso l’opera dei governi 2 . L’ennesima catastrofe bellica, che aveva lasciato un’Europa divisa, immi- serita e distrutta, aveva segnato in modo indelebile le coscienze degli Stati coinvolti nel conflitto. Ben presto, nel dibattito pubblico ed in quello diplo- matico, si comprese che i metodi tradizionali della mediazione politica per 1 Già al termine del primo conflitto mondiale (1914-1918) cominciò a farsi strada la necessità di una cooperazione tra i popoli del continente europeo come mezzo migliore per evitare che le catastrofi della guerra potessero ripetersi. Massima espressione di questa volontà furono il Patto di Locarno (1926) e il Patto Briand-Kellog (1928) che sembravano allontanare la minaccia di un nuovo conflitto: Aristide Briand, Ministro degli Esteri francese, tenne anche un discorso presso la Società delle Nazioni in cui rendeva nota la volontà di un’unità europea. Le sue proposte furono accolte con favore e poco dopo venne istituita una Commissione per concretizzare quei progetti fino ad allora rimasti solo teorici. Pochi giorni dopo, il 24 ottobre 1929, però, il crollo della borsa di Wall Street, avrebbe avuto forti ripercussioni sul progetto europeo. La grande crisi economica interruppe, infatti, l’integrazione dei mercati spingendo tutti i Paesi verso il nazionalismo eco- nomico, e quindi anche verso quello politico, del quale il secondo conflitto mondiale sarà una conseguenza inevitabile. In R. Feola, Dinamiche politiche ed istituzionali dell’Unione Europea, Pisanti, Napoli, 2011. 2 L. Rapone, Storia dell’integrazione europea, Carocci, Roma, 2015.

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Capitolo i

LE ORIGINI DELLA COOPERAZIONE EUROPEA

Sommario: 1. Il dramma del dopoguerra. – 2. Il Manifesto di Ventotene. – 3. Lo scenario internazionale. – 4. La Dichiarazione Schuman e la nascita della CECA. – 5. I primi passi della cooperazione economica.

1. Il dramma del dopoguerra

Sul finire del secondo conflitto mondiale e immediatamente dopo la sua conclusione, le premesse già emerse durante i primi anni del Novecento 1 e che gettavano le basi per la costruzione di un’unità europea, divennero un obiettivo concreto all’interno dei programmi d’azione di correnti politiche e di movimenti organizzati, prima di avere, qualche anno più tardi, un princi-pio di attuazione attraverso l’opera dei governi 2.

L’ennesima catastrofe bellica, che aveva lasciato un’Europa divisa, immi-serita e distrutta, aveva segnato in modo indelebile le coscienze degli Stati coinvolti nel conflitto. Ben presto, nel dibattito pubblico ed in quello diplo-matico, si comprese che i metodi tradizionali della mediazione politica per

1 Già al termine del primo conflitto mondiale (1914-1918) cominciò a farsi strada la necessità di una cooperazione tra i popoli del continente europeo come mezzo migliore per evitare che le catastrofi della guerra potessero ripetersi. Massima espressione di questa volontà furono il Patto di Locarno (1926) e il Patto Briand-Kellog (1928) che sembravano allontanare la minaccia di un nuovo conflitto: Aristide Briand, Ministro degli Esteri francese, tenne anche un discorso presso la Società delle Nazioni in cui rendeva nota la volontà di un’unità europea. Le sue proposte furono accolte con favore e poco dopo venne istituita una Commissione per concretizzare quei progetti fino ad allora rimasti solo teorici. Pochi giorni dopo, il 24 ottobre 1929, però, il crollo della borsa di Wall Street, avrebbe avuto forti ripercussioni sul progetto europeo. La grande crisi economica interruppe, infatti, l’integrazione dei mercati spingendo tutti i Paesi verso il nazionalismo eco-nomico, e quindi anche verso quello politico, del quale il secondo conflitto mondiale sarà una conseguenza inevitabile. In R. Feola, Dinamiche politiche ed istituzionali dell’Unione Europea, Pisanti, Napoli, 2011.

2 L. Rapone, Storia dell’integrazione europea, Carocci, Roma, 2015.

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ristabilire la pace andavano sostituiti attraverso l’adozione di una soluzione che prevedeva l’instaurazione di una forma di associazionismo tra i popoli e una limitazione della sovranità degli Stati nazionali.

La volontà di dar vita ad una cooperazione attiva portò, in molti Pae-si, alla nascita di correnti e movimenti europeisti che, seppur caratterizzati da forti differenze ideologiche e programmatiche, avevano come unico fine quello di consacrare la nascita di un’integrazione tra i popoli d’Europa.

La spaccatura creatasi al termine del conflitto tra l’Europa Occidentale – sotto l’influenza della leadership degli Stati Uniti – e l’Europa Orientale – fortemente dipendente dall’URSS – limitò, almeno fino allo scoppio della Guerra Fredda, l’applicazione dei progetti europeisti alla sola parte occi-dentale del continente.

Gli Stati Uniti erano infatti convinti che la floridezza e la pace dell’Euro-pa dipendessero sia dalla creazione di un ampio mercato sia dal ridimensio-namento delle sovranità nazionali.

Proprio per educare gli europei «a una logica cooperativa» 3, il Governo americano, nel 1947, propose l’European Recovery Program 4 volto all’eroga-zione di aiuti per risanare l’economia dell’Europa.

La distribuzione di tali sussidi, infatti, sarebbe stata concordata sulla base di un lavoro e di una collaborazione collettiva tra i singoli Paesi e ciò proprio in luogo di attivare quella cooperazione che secondo gli stessi ame-ricani avrebbe potuto portare ad una unità europea.

L’accordo, che avrebbe dovuto stabilire gli obiettivi da raggiungere, non sortì gli effetti sperati e ciò a causa degli interessi egoistici dei Paesi coinvolti i quali, invece di collaborare, si preoccuparono di accaparrarsi la quota mag-giore possibile di aiuti.

Una grande assise europeista 5 si ebbe, però, nel 1948 a L’Aja quando personalità della vita pubblica di tutti i Paesi, per la prima volta, si riuniro-no insieme con l’intento di riportare quella pace tanto sperata e minacciata durante tutta la prima metà del Novecento dai due grandi conflitti mondiali.

Tale approccio alla pace, attraverso l’unità europea, doveva rivelarsi vin-cente. Rendeva concreto e funzionale il passaggio a regole e prospettive po-litiche comuni dando, nello stesso tempo, finalmente attuazione ad antiche speranze di pace e prosperità per il vecchio continente. Il valore unificante dell’economia si innestava in un solco alto e nobile della cultura e della sto-

3 Ivi, p. 157.4 Il cosiddetto “Piano Marshall”. Per approfondimenti si veda E.A. Rossi (a cura di), Il Piano

Marshall e l’Europa, Istituto Enciclopedia italiana, Roma, 1983. 5 B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda ai giorni nostri,

Il Mulino, Bologna, 2015.

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ria europea, certamente non avara di scrittori e filosofi, che avevano soste-nuto una pace durevole ed un sistema di collaborazione fra gli Stati. A par-tire dagli utopisti del Settecento, sostenitori dell’armonia cosmopolita tra le nazioni europee unite dallo spirito illuministico, ancora nel secolo XIX non erano mancati quanti si rifacevano al celebre abate di Saint Pierre che col suo «progetto di pace perpetua» può essere considerato un precursore dell’i-dea di un continente unito e pacificato. Anche nel pieno delle guerre napo-leoniche uno tra i protagonisti della rivoluzione e dell’impero come il Mini-stro degli Esteri francese Talleyrand, auspicava un nuovo ordine di rapporti tra gli Stati «comme propre à maintenir la paix sur le continent» 6. In realtà il disegno di una possibile unità, coltivato dal cosmopolitismo settecentesco e dall’idealismo del secolo XIX, fu oscurato dal prevalere dei nazionalismi, dalle strategie di espansione e di dominio, che alimentarono le tensioni in-ternazionali e portarono alla fine al rogo della prima guerra mondiale.

Nel 1914 sfociarono in un terribile conflitto tutti i cambiamenti poli-tico-istituzionali verificatisi a partire dalla fine del secolo XIX, che aveva-no coinciso con modifiche profonde sulle strutture sociali ed economiche dell’Europa. L’espansione coloniale aveva contribuito in misura decisiva a portare il vecchio continente verso un clima favorevole alla guerra. Insa-nabili rivalità imperialistiche contrapponevano le grandi potenze e special-mente Francia, Germania e Gran Bretagna.

Si affievolivano le voci dei fautori di una stabile pace europea mentre, alla vigilia del 1914, si alzavano i toni e la presa dei sostenitori della guerra, vista quale unico sistema per proteggere gli interessi vitali delle singole nazioni europee. Ancora una volta il principale focolaio della crisi era da ricercarsi nella rivalità franco-tedesca, nelle rispettive alleanze e specialmente in quella francese con la Russia. Assai più che in passato potenti gruppi di pressione (economici, industriali ma non solo) si attendevano profitti e successi dalla politica degli armamenti contrapposti e dalle sfide militari.

Il disastro del conflitto per i vinti, ma anche per i vincitori, allargò il fronte dei pacifisti e dei sostenitori di un sistema di collaborazione tra gli Stati europei. Rimasto per tutto il secolo XIX il sogno di pochi, fu ripreso e discusso come condizione per una pace durevole, come alternativa alla lo-gica dell’umiliazione del nemico, ai prevedibili esiti delle soluzioni imposte dopo la resa degli imperi centrali con la Conferenza di Parigi ed il Trattato di Versailles. Se, com’è noto, prevalsero le logiche nazionalistiche, non ri-masero senza eco i richiami ad un diverso approccio per la soluzione dei contrasti tra gli Stati. In particolare le proposte del presidente americano

6 M. Bignon, Histoire de France depuis le 18 brumaire jusqu’a la paix de Tilsitt, Paris, 1929, p. 22.

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Wilson. Tra i suoi “quattordici punti” per la pace va ricordato in particolare il terzo e cioè “soppressione di tutte le barriere economiche ed eguaglianza di trattamento in materia commerciale per tutte le Nazioni che consentano alla pace e si associno per mantenerla”.

Sia pure da posizioni largamente minoritarie, si facevano sentire nel primo dopoguerra le tesi politiche fondate sull’identificazione della pace anche come idea morale e del necessario impegno per un sistema istitu-zionale ad essa coerente. Furono evidenziati e messi in risalto i guasti del nazionalismo economico e dell’isolazionismo commerciale e politico. Ciò contribuì a rendere più conosciuta e concreta la tesi di una possibile unio-ne tra gli Stati europei: davanti ai disastri della guerra totale, a forme di conflitto non più basate su scontri tra eserciti, ma distruzione di interi popoli e di povertà per l’intero continente, il sogno diveniva disegno po-litico. Un consistente movimento pacifista fu rappresentato da Richard Coudenhove Kalergi, intellettuale austriaco, che riprendeva l’idea di un asse franco-tedesco, su cui fondare il nuovo assetto politico di un’Europa finalmente non lacerata e divisa.

Le sfide economiche e sociali in un mondo che si stava allargando po-liticamente e culturalmente, intensificarono tra gli anni Venti e Trenta le proposte di un’Europa federata. Emergevano modelli politici e costituzio-nali più avanzati; era necessario certo una riforma doganale, ma anche svi-luppare basi politiche di pacifica convivenza assicurate da governi aperti alle esigenze della democrazia e della partecipazione delle masse operaie e contadine. Era un’esigenza avvertita anche da parte di uomini politici come Winston Churchill, ma ancor più da esponenti del socialismo europeo. Mol-ti guardavano al modello politico ed organizzativo americano come quello in grado di assicurare una durevole prosperità e pacificazione. Non si può non ricordare il francese Arìstide Briand, ma anche la voce ardente di Carlo Rosselli e quella ancora robusta di Filippo Turati 7. Voci e speranze com-battute ma non certo annientate dalla follia hitleriana, dal terribile incendio provocato dall’idea nazi-fascista della supremazia della forza, di cui i popoli italiano e tedesco avrebbero pagato il prezzo più alto.

Durante e dopo il secondo interminabile conflitto mondiale, l’opposi-zione ai totalitarismi rafforzò l’idea di un’Europa unita, mentre prendeva sempre più corpo il movimento democratico, sostenuto dall’orrore per le devastazioni e dalla fede politica in un durevole sistema democratico che contribuiva a rendere più sollecite e sensibili alla causa europea le classi di-

7 Molti furono i progetti di pacificazione strutturale attraverso movimenti europeisti e fe-deralisti, che hanno contribuito alla creazione di una sempre più diffusa consapevolezza della necessità di scelte unitarie. Cfr. tra gli altri AA.VV., L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda guerra mondiale, a cura di S. Pistone, Fondazione Einaudi, Torino, 1975.

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rigenti del dopoguerra, non solo in Francia, in Italia, in Germania, ma anche in Olanda e in Belgio.

Ancora durante la guerra, nel 1943, il Ministro degli Esteri belga Paul Henri Spaak scriveva apertamente della necessità di una più intensa forma di cooperazione, e un liberale come Luigi Einaudi, lucidamente, scriveva di una possibile unità europea. In Italia il Partito d’Azione ebbe un ruolo di primo piano nel diffondere una nuova coscienza europeista che si era raffor-zata attorno al progetto contenuto nel “Manifesto di Ventotene” e in tutta l’opera di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

2. Il Manifesto di Ventotene

L’elaborazione del documento «Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto» durò all’incirca sei mesi e diede vita ad una prima edizione originariamente composta da quattro capitoli 8. Nell’ambiente particolare del confino sull’isola di Ventotene, maturò nella mente dei due autori un processo di ripensamento globale di tutti i problemi che avevano costitui-to le cause dell’imperialismo, del fascismo e della guerra. Il distacco dalla reale e quotidiana vita politica, consentì di rivedere, attraverso uno sguar-do più lucido, le posizioni tradizionali ricercando i motivi degli insuccessi passati non solo negli errori di natura prettamente politica o partitica, ma soprattutto nelle insufficienze generali, strutturali e dinamiche, della realtà sociale, politica ed economica antecedente ai conflitti mondiali. Tale ricerca ebbe come esito il concetto di crisi dello Stato nazionale, argomento cen-trale intorno al quale gravita l’intera concezione politica del Manifesto ed emblematicamente espresso già nella prefazione al documento per mano di Eugenio Colorni: «Si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di Stati sovra-ni, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri Stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli

8 Questa prima stesura circolò in segreto e nell’agosto dello stesso anno fu seguita da una seconda stesura con modifiche migliorative che ammorbidivano il giudizio politico sull’URSS, attaccata dalla Germania. Ci furono, in seguito, due edizioni del Manifesto pubblicate entrambe nel 1944; quella romana fu curata e diffusa clandestinamente da E. Colorni e prese il titolo di «I problemi della Federazione Europea» con le iniziali, appunto, A.S. e E.R. e strutturata in 3 capitoli. L’altra, quella svizzera, fu curata da E. Rossi e si intitolò «Il Manifesto – Programma di Ventotene. Elementi di discussione». Le differenze fra le due versioni riguardarono soprattutto l’organizza-zione dei paragrafi e la soppressione di alcune frasi circa i contenuti anticomunisti e laicisti.

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altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes» 9. In altre parole, la fusione di Stato e Nazione aveva creato una miscela esplosiva che sviluppò tendenze autoritarie all’interno degli Stati stessi e aggressive sul piano internazionale, generando a loro volta rispettivamente il fenomeno dell’imperialismo e della guerra. La causa più specifica dell’imperialismo, dunque, viene individuata nella crisi del sistema europeo degli Stati; essa è determinata dalla crescente interdipendenza delle economie nazionali, che spinse ciascun singolo Stato ad allargare lo spazio economico sottoposto al proprio controllo e a cercare di indebolire i propri vicini con il protezioni-smo. Su questo sfondo politico-economico si scatenò la guerra per l’egemo-nia continentale da parte della Germania e in cui trovò spazio il fascismo come punto d’arrivo dell’evoluzione storica, o meglio della regressione, del-lo Stato nazionale. Le tendenze bellicose e autoritarie, latenti ed esasperate dalla lotta di potenza in Europa, si estremizzano e trovano sfogo nel feno-meno del fascismo. Sul piano economico-sociale, il fascismo è, pertanto, la risposta totalitaria e corporativa al ristagno economico di un mercato le cui dimensioni sono inadeguate allo sviluppo delle moderne tecniche pro-duttive, alla disgregazione della società per via dello scontro tra interessi corporativi, al bisogno di eliminare ogni divisione sociale che indebolisce la capacità di difesa dello Stato e, infine, all’esigenza di adattare il sistema produttivo agli imperativi di un’economia di guerra. Queste riflessioni sono chiaramente espresse nel primo capitolo del documento, «La crisi della ci-viltà moderna», in cui viene sottolineato come l’indipendenza nazionale sia stata un importante strumento per il progresso (creando un senso diffuso di solidarietà contro l’oppressione straniera; favorendo la circolazione degli uomini e delle merci; trasmettendo, all’interno di ogni Stato, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili a quelle più arretrate), ma an-che come, ed in nome della stessa, si sia coltivato il germe del nazionalismo imperialista che ha portato allo scatenarsi delle guerre mondiali. La civiltà moderna, infatti, prima dell’onta dei totalitarismi, aveva posto come proprio fondamento il principio della libertà e il conseguente diritto di ogni nazione di affermarsi in Stati indipendenti. In seguito, però, il concetto di Nazione regredisce: non è più considerata come il prodotto della convivenza degli uomini ma come un’entità negativa che deve pensare solamente alle pro-prie necessità per ricercare e ottenere un proprio “spazio vitale”, con mire espansionistiche e di dominio sugli altri popoli. Nella seconda parte di que-sto capitolo, gli autori si soffermano poi sull’uguale diritto dei cittadini alla formazione della volontà dello Stato, la quale doveva sintetizzare le diverse

9 La prefazione e il testo integrale del Manifesto di Ventotene è consultabile on-line all’indiriz-zo internet: http://www.eurostudium.uniroma1.it/documenti/federalismo/federalismo3/testo.php.

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esigenze economiche e ideologiche di tutte le categorie sociali. Tale diritto, realizzatosi ad esempio nella libertà di stampa e associazione e nella progres-siva estensione del suffragio, consentiva alle classi emarginate di minacciare gli ingiusti vantaggi dei ceti privilegiati. Fu così che, quest’ultimi, si mostra-rono concordi alla formazione delle dittature che avrebbero impedito ai ceti nullatenenti la formazione di uno Stato democratico, dove ognuno aveva uguali diritti. La nascita, inoltre, di diversi complessi industriali e bancari, di sindacati e altri gruppi, che pressavano il Governo per assecondare ogni loro particolare esigenza, fu un ulteriore fattore che sostenne la formazione di uno Stato totalitario; esso, abolendo il diritto alla libertà, apparve il rime-dio più efficace contro la lotta ad interessi che lo Stato democratico di inizi Novecento fu incapace di contrastare. Nell’ultima parte, infine, gli autori si concentrano sulla Germania nazista e sull’evolversi del conflitto. Vincendo la guerra, la Germania non avrebbe fatto altro che diffondere sempre di più nel mondo il totalitarismo; tuttavia, anche una situazione di compromesso tra le potenze europee alleate e la Germania avrebbe portato ugualmente alla diffusione del totalitarismo, questa volta causata dagli Stati democratici che, per contrastare la Germania, avrebbero finito per dotarsi dello stesso ordinamento totalitario.

Nel secondo capitolo, «I compiti del dopoguerra – l’unità europea», Spi-nelli e Rossi riprendono il tema dell’evoluzione del conflitto mondiale e prospettano che la probabile sconfitta della Germania non avrebbe portato automaticamente al riordinamento dell’Europa secondo gli ideali di civiltà. Nel critico contesto post-bellico, infatti, gli Stati nazionali saranno in grosse difficoltà e le masse popolari attenderanno poteri nuovi, i ceti privilegiati cercheranno nello stesso tempo di smorzare le ondate internazionalistiche e si batteranno per ricostituire i vecchi regimi. Il punto sul quale gli Stati europei cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello Stato nazionale, facendo presa sul sentimento popolare più diffuso e offeso dai movimenti recenti: il sentimento patriottico. Il problema più importante da risolvere riguardava, a questo punto, l’abolizione definitiva della divisione dell’Euro-pa in Stati nazionali sovrani. Ormai risultava evidente agli occhi dell’intera opinione pubblica che era impossibile mantenere un equilibrio di Stati eu-ropei indipendenti con la convivenza di una Germania militarista, né tan-tomeno si poteva dividerla o sopprimerla una volta vinta. Tutti i problemi, come il tracciare dei confini con Stati a popolazione mista e la difesa delle minoranze, avrebbero trovato la soluzione nella Federazione europea. Con la propaganda e con l’azione, occorreva gettare fin da allora le fondamen-ta di un movimento in grado di mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo dotato di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, che avesse gli organi ed i mezzi sufficienti per far eseguire, nei

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singoli Stati federali, le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune.

Su queste posizioni si inseriva la severa critica mossa ad organismi come la Società delle Nazioni, ritenuti inutili e persino dannosi e che pretende-vano di garantire il diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le proprie decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli Stati partecipanti. Assurdo, inoltre, veniva considerato il principio del non inter-vento per cui ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo (anche dispotico) che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo Stato non rappresentasse un interesse vitale per tutti gli altri Paesi europei.

La novità del Manifesto consiste, quindi, nella priorità strategica della lotta per la Federazione europea rispetto alla lotta per il rinnovamento dello Stato nazionale, comune a tutti i partiti dell’epoca; era necessario il rovescia-mento di quest’ordine di priorità affinché non si ripiombasse nuovamente nel vortice d’involuzione del concetto di Nazione: occuparsi esclusivamente del rinnovamento nazionale significava non intervenire sulla causa dei con-flitti internazionali, dell’imperialismo e della guerra. A causa dell’anarchia internazionale, l’indipendenza nazionale si sarebbe nuovamente estremizza-ta nel nazionalismo, la libertà sacrificata per l’esigenza di accentrare il potere e di privilegiare la sicurezza militare, le spese sociali sacrificate per quelle militari. Il centro della lotta politica si sarebbe spostato dal piano nazionale a quello internazionale: nell’epoca della crisi dello Stato nazionale e dell’in-ternazionalizzazione del processo produttivo, lo scontro tra le forze del pro-gresso e quelle della conservazione non si sarebbe svolto più sul terreno na-zionale tra i principi della libertà e della dittatura o tra quelli del socialismo e del capitalismo. Dunque, chiunque scelga di impegnarsi sul piano naziona-le, anche se il suo obiettivo è di realizzare più democrazia o più socialismo, si pone sul terreno della conservazione, perché la sua azione politica consolida gli Stati nazionali. Di conseguenza, l’obiettivo da perseguire, innanzitutto da parte di chi vuole promuovere il progresso, è l’impegno per superare la divisione dell’Europa e del mondo in Stati sovrani.

Nel capitolo tre, «I compiti del dopoguerra – la riforma della società», Ros-si e Spinelli, muovono dall’idea che la guerra ha fatto maturare le condizioni oggettive dell’unificazione europea, facendo evolvere la crisi storica dello Stato nazionale in crisi politica e offrendo così l’occasione per l’iniziativa federalista. I due, specialmente Rossi grazie i suoi studi in economia, ana-lizzano e indicano i metodi per creare un’Europa libera: anziché seguire i metodi suggeriti dai governi di tipo totalitario, bisognava fondare la riforma della società sulle idee socialiste. In particolare, del socialismo si doveva applicare il principio dell’emancipazione delle classi operaie e soprattutto il

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principio secondo il quale il progresso della società non deve essere blocca-to, ma piuttosto controllato e volto al benessere della collettività. Si doveva anche abolire la proprietà privata non seguendo una logica troppo ferrea, ma adattarla caso per caso seguendo alcuni punti: 1) nazionalizzare tutte le industrie che potevano monopolizzare il commercio; 2) ridistribuire in ma-niera egualitaria tutti quei beni che, grazie al diritto di successione, erano in mano a pochi privilegiati; 3) le scuole pubbliche dovevano permettere a tutti coloro che ne avevano le capacità d’intraprendere gli studi di livello supe-riore in un numero pari alla domanda di mercato; 4) assicurare a ognuno un lavoro ed uno stipendio tale da garantire la possibilità di avere vitto, alloggio e vestiario. A conclusione del capitolo, i due autori, pur ritenendo super-fluo di soffermarsi sugli organi costitutivi dello Stato, precisano per la loro importanza nello Stato italiano quali dovranno essere i rapporti di quest’ul-timo con la Chiesa e il carattere della rappresentanza politica. In merito al primo aspetto, lo Stato dovrà essere laico e dovrà rispettare tutte le religioni, mentre la Chiesa non dovrà occuparsi della vita civile della gente. Circa il secondo, invece, rifiutano la possibilità che il nuovo ordine costituzionale possa sorgere dalle ceneri dell’ordinamento corporativo fascista; i sindacati svolgeranno funzioni proprie in collaborazione con gli organi statali ma gli sarà esclusa la funzione legislativa.

Nel capitolo conclusivo, «La situazione rivoluzionaria: vecchie e nuove correnti», viene criticato duramente il comunismo e alcuni aspetti dei poteri democratici. Da questa critica, Rossi e Spinelli, arrivano ad affermare che il vero movimento rivoluzionario dovrà essere composto da chi ha saputo criticare i vecchi regimi politici e saprà collaborare sia con le forze demo-cratiche che con quelle comuniste. Questa visione dovrà essere fatta propria dai due gruppi sociali più importanti, la classe operaia e gli intellettuali, per-ché se nel futuro partito rivoluzionario mancasse solo una delle due classi ci si sarebbe trovati di fronte ad un totale fallimento. Infatti si può vedere la classe operaia come forza del popolo e gli intellettuali come mente. Sarà questo partito che avrà il compito storico di indirizzare le spinte progressiste dell’Europa. In questo capitolo finale è ancora più evidente, quindi, il “me-todo rivoluzionario” necessario alla realizzazione del federalismo e figlio della formazione leninista di Spinelli e del giacobinismo di Rossi. Quest’ul-timo fu determinato, forse anche più di Spinelli, nel sostenere la carica rivo-luzionaria della strategia politica da attuare, difendendola soprattutto dalle rigide critiche dei “giellisti” 10 al confino. Esistevano per Rossi, infatti, due

10 Per approfondimenti riguardanti gli appartenenti al movimento Giustizia e Libertà si veda A.A. Mola, Giellisti. Dalla resistenza armata all’impegno civile, Banca Regionale Europea - Cassa di Risparmio di Cuneo, Cuneo, 1997.

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metodi per modificare la realtà: quello democratico, basato sul consenso e quello giacobino basato sulla coazione. Neppure “le regole del gioco” de-mocratiche avevano, tuttavia, la forza di conservarsi e resistere nei periodi di crisi o d’emergenza, dinanzi ai quali la coazione diveniva indispensabile per evitare il rischio che il consenso divenisse solo una minoranza ininfluente. Era necessario, per Rossi, che anche i democratici fossero quindi pronti ad essere “dirigenti rivoluzionari” 11, a difendere con l’azione gli ideali di civiltà e a mantenere il potere, una volta ottenuto, per tutto il tempo necessario a superare la crisi del dopoguerra.

Nel Manifesto di Ventotene, in conclusione, è evidente un’impostazione contemporaneamente realistica ed utopistica; Rossi e Spinelli si pongono nei confronti del potere, della società e dell’intera storia con un atteggia-mento diverso rispetto a coloro che, in precedenza, avevano sposato la causa federalista limitandosi tuttavia a denunciare solo la crisi storica dello Stato nazionale e collocare la Federazione europea in un futuro indefinito, senza elaborare un preciso programma di azione. Per i due autori, invece, proprio l’azione diventava la priorità dell’immediato futuro.

Così il Movimento Federalista Europeo, fondato in Italia nel 1943, fu in effetti largamente ispirato da Spinelli e, grazie al suo fervore, raccolse non pochi consensi, anche se limitati ad ambienti ancora troppo elitari. Le diffidenze erano molte anche per la posizione assunta dai grandi partiti co-munisti italiano e francese: la preclusione anticapitalistica rendeva ancora lontano il successo di tali idee negli anni Quaranta. Bisognava fare i conti con la realtà sociale dei diversi Stati, con le loro strutture politiche e sociali, per rendere possibile una difficilissima conversione dalle politiche nazionali alla politica di cooperazione paritetica. Non bastava formare una vasta co-scienza europea tra popoli che si erano a lungo combattuti, era necessario adeguare le strutture produttive ad un progetto fino ad allora ritenuto uto-pico ed ora sorretto non solo da statisti illuminati, ma anche da forti spinte internazionali e da congiunture economiche favorevoli.

3. Lo scenario internazionale

Nonostante tutto, prendeva corpo l’esaltante esperienza della costru-zione della nuova Europa anche (se non soprattutto) per l’interesse degli USA verso un rafforzamento del blocco occidentale. Si apriva, con la guerra

11 Si veda A. Braga, Un federalista giacobino, Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 194.

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fredda, una decisiva attenzione oltreoceano verso i tentativi di integrazione. Era la strada per garantire la ripresa dell’Europa occidentale (Germania in testa), il suo schieramento politico nel campo anticomunista, l’adeguamento alle nuove esigenze dell’economia e dei rapporti internazionali.

L’inizio della guerra fredda tra USA e URSS giocò, dunque, nella dire-zione della formazione di un sistema di collaborazione tra Stati europei, un ruolo determinante. Ma forte fu anche il ruolo di una coscienza europea, la spinta a perseguire una riunificazione fondata sull’unità culturale del con-tinente, sul prevalere dei partiti democratici sulle scorie dei totalitarismi. Il concorso di molti elementi che, alla fine degli anni Quaranta, emersero in un importante Congresso tenutosi in Olanda (L’Aja, 7-10 maggio 1948).

L’assoluto bisogno di avviare una rapida ricostruzione economica era la molla potente per gli statisti e per i politici democratici. Molti di essi parte-ciparono ai lavori del Congresso: tra essi bisogna ricordare assolutamente François Mitterand e Konrad Adenauer, che furono tra i protagonisti del movimento di unificazione europeo fondato sulla rinuncia definitiva alle an-tiche rivalità nazionali.

Pur mostrando una grande diversità di opinioni sui modi e sui tempi dell’integrazione, da quell’incontro emerse un messaggio altamente positi-vo. La comunità culturale e le esigenze dell’economia concorrevano a for-mare il denominatore comune di una concreta possibilità di risorgere dalle ceneri della guerra 12. Era l’inizio di una serie di passaggi decisivi, grazie ai quali si concretizzarono le condizioni per realizzare ciò che allora la mag-gioranza dei cittadini ancora considerava un’utopia. Anche ai più diffidenti la concreta utilità di appartenere al blocco occidentale era apparsa evidente grazie al Piano Marshall. Nel 1947 Ernesto Rossi sottolineava che l’Europe-an Recovery Program era una spinta verso nuove forme di collaborazione per superare gli ostacoli delle sovranità e delle frontiere nazionali 13. Certo era evidente il disegno americano di creare un fronte comune contro i pericoli di una espansione sovietica, ma era anche l’occasione per i governi europei per superare le barriere del protezionismo e dell’autarchia. Un quadro di riferimento, che ebbe nell’Organization for European Economic Cooperation (OECE) un elemento di novità e di integrazione.

Gli obiettivi americani ed europei trovavano una sintesi politica ed eco-nomica che passava per la creazione di un forte rapporto tra l’America ed

12 Quanto fosse importante tra le discussioni degli intellettuali europei l’apporto di europeisti convinti come Ernesto Rossi, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni è ben noto. Le riflessioni, le discussioni, il “Manifesto di Ventotene”, la costituzione del movimento federalista europeo, ri-mangono una pietra miliare della costruzione europea. Su Spinelli cfr. E. Paolini, Altiero Spinelli. Appunti per una biografia, Il Mulino, Bologna, 1988.

13 Cfr. AA.VV., I movimenti per l’unità europea dal 1945 al 1954, Jaca book, Milano, 1992.

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un’Europa che era stimolata ad abbandonare progressivamente la filosofia dei sistemi nazionali, a favore di prospettive dichiaratamente liberiste. Tanto più che alla forza del blocco comunista fu contrapposto non solo un inter-vento sul piano economico, ma la creazione di un’organizzazione militare che univa le due sponde dell’Atlantico 14. Si poneva insieme il problema del futuro della Germania e di un’Europa che non poteva pensare di ri-nascere senza la presenza tedesca. Il futuro dell’alleanza e della Germania erano profondamente legati; allo stesso tempo anche la presenza dell’Italia nel nuovo concerto atlantico fu accettata e, pur non senza difficoltà, creò le premesse di quel Patto Atlantico (4 aprile 1948) che deve essere considera-to un passaggio decisivo verso l’inizio dell’integrazione europea 15. Pur con molte differenze, si aprivano le strade nazionali all’unione occidentale tra espliciti consensi e moltissimi veti, timori ed esitazioni. Si confrontavano comunque due strategie di fondo: quella di chi voleva realizzare un sistema di cooperazione politica tendenzialmente federale, i teorici del federalismo appunto, e quella di chi pensava ad un processo di integrazione fondato sulla collaborazione in singoli settori economici, i teorici del funzionalismo.

I federalisti chiedevano dunque una rivoluzione radicale in grado di poter abbattere quelle barriere artificiali degli Stati nazionali che per lungo tempo avevano impedito l’attuazione del progetto di cooperazione. Più in particola-re, i federalisti, guardavano al modello istituzionale degli Stati Uniti d’America e tendevano all’organizzazione di poteri sovranazionali, in pieno riferimento al Manifesto di Ventotene. Per i funzionalisti, invece, l’idea fondamentale era che l’obiettivo di un’Europa unita potesse essere raggiunto soltanto attraverso una serie di integrazioni settoriali frutto di parziali e successive cessioni di sovranità a nuove istituzioni del tutto autonome dagli Stati, pur considerando che un’unione completa anche dal punto di vista politico avrebbe dovuto rap-presentare un punto d’arrivo lontano, ma indispensabile. Fermi sostenitori di tale teoria furono soprattutto i francesi Robert Schuman e Jean Monnet. Era quest’ultima la via che avrebbe portato alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) ed alla piena e convinta adesione italiana 16.

14 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 740.15 Sul significato storico del Patto Atlantico cfr. V. De Caprariis, Storia di un’alleanza: genesi

e significato del Patto Atlantico, Opere Nuove, Roma, 1958. Sul ruolo e le posizioni dell’Italia F. Carlucci, Il travaglio: l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, Edit, Bari, 1991. La storica alleanza con gli Stati Uniti per la ricostruzione dell’Europa vide l’Italia partecipe in un clima di aspro conflitto sociale ma soprattutto in un momento storico di gravi difficoltà economiche.

16 Proprio le condizioni economiche degli Stati europei dopo il conflitto mondiale acquisi-va importanza centrale per la ricostruzione. Con particolare riferimento all’Italia cfr. l’efficace quadro in AA.VV., L’economia italiana dal 1945 a oggi, con ampia introduzione ed a cura di A. Graziani, Il Mulino, Bologna, 1989.

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In realtà rimaneva ampia traccia del dibattito svoltosi prima e dopo il congresso “federalista” de L’Aja 17 mentre i governi del Continente si avvia-rono sulla strada dell’integrazione “funzionalista”. La strategia funzionalista prevedeva un’integrazione per settori; su questa strada prendeva avvio il piano proposto dal Ministro degli Esteri francese Robert Schuman.

4. La Dichiarazione Schuman e la nascita della CECA

Gli eventi compresi tra il 1947 e il 1949, indubbiamente, avevano con-tribuito, nonostante qualche difficoltà, alla costruzione delle prime fonda-menta su cui edificare il “colosso europeo”, anche se, il primo vero e proprio “corto circuito” 18 lo si ebbe nel 1950.

L’atto di nascita del processo di integrazione europea reca infatti la data del 9 maggio 1950 (ancora oggi celebrata come giornata della “Festa dell’Eu-ropa”) quando il Ministro degli Esteri francese Robert Schuman, ispirando-si ad un’idea di Jean Monnet, propose di «porre l’insieme della produzione franco-tedesca del Carbone e dell’Acciaio sotto un’Alta Autorità comune in una organizzazione che fosse aperta alla partecipazione degli altri Paesi europei» 19.

17 E. Albertini, A. Chiti-Bartelli, G. Petrilli, Storia del federalismo europeo, ERI, Torino, 1973, pp. 227-255.

18 B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea, cit.19 Tratto da “Dichiarazione Schuman”, 9 maggio 1950. Questo l’intero testo del discorso:

«La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent’anni antesignana di un’Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra.

L’Europa non potrà farsi un una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve con-cernere in prima linea la Francia e la Germania.

A tal fine, il governo francese propone di concentrare immediatamente l’azione su un punto limitato ma decisivo. Il governo francese propone di mettere l’insieme della produzione fran-co-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazio-ne alla quale possono aderire gli altri Paesi europei. La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste Regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime.

La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà sì che una qualsiasi guerra tra la Fran-cia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile. La creazione di questa potente unità di produzione, aperta a tutti i Paesi che vorranno aderirvi e intesa a fornire

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L’idea di Schuman di una solidarietà di produzione tra la Francia e la Germania, la quale avrebbe altresì avuto come conseguenza il superamen-to delle storiche rivalità tra i due popoli, fu ben lieta di essere accolta non

a tutti i Paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali, getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica.

Questa produzione sarà offerta al mondo intero senza distinzione né esclusione per contri-buire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace. Se potrà contare su un raf-forzamento dei mezzi, l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano. Sarà così effettuata, rapidamente e con mezzi semplici, la fusione di interessi necessari all’instaurazione di una comunità economica e si introdurrà il fermento di una comunità più profonda tra Paesi lungamente contrapposti da san-guinose scissioni. Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i Paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace. Per giungere alla realizzazione degli obiettivi così definiti, il Governo francese è pronto ad iniziare dei negoziati sulle basi seguenti.

Il compito affidato alla comune Alta Autorità sarà di assicurare entro i termini più brevi: l’am-modernamento della produzione e il miglioramento della sua qualità; la fornitura, a condizioni uguali, del carbone e dell’acciaio sul mercato francese e sul mercato tedesco nonché su quelli dei Paesi aderenti; lo sviluppo dell’esportazione comune verso gli altri Paesi; l’uguagliamento verso l’alto delle condizioni di vita della manodopera di queste industrie.

Per conseguire tali obiettivi, partendo dalle condizioni molto dissimili in cui attualmente si trovano le produzioni dei Paesi aderenti, occorrerà mettere in vigore, a titolo transitorio, alcune disposizioni che comportano l’applicazione di un piano di produzione e di investimento, l’istitu-zione di meccanismi di perequazione dei prezzi e la creazione di un fondo di riconversione che faciliti la razionalizzazione della produzione. La circolazione del carbone e dell’acciaio tra i Paesi aderenti sarà immediatamente esentata da qualsiasi dazio doganale e non potrà essere colpita da tariffe di trasporto differenziali. Ne risulteranno gradualmente le condizioni che assicureranno automaticamente la ripartizione più razionale della produzione al più alto livello di produttività.

Contrariamente ad un cartello internazionale, che tende alla ripartizione e allo sfruttamento dei mercati nazionali mediante pratiche restrittive e il mantenimento di profitti elevati, l’organiz-zazione progettata assicurerà la fusione dei mercati e l’espansione della produzione.

I principi e gli impegni essenziali sopra definiti saranno oggetto di un Trattato firmato tra gli Stati e sottoposto alla ratifica dei parlamenti. I negoziati indispensabili per precisare le misure d’applicazione si svolgeranno con l’assistenza di un arbitro designato di comune accordo: costui sarà incaricato di verificare che gli accordi siano conformi ai principi e, in caso di contrasto irri-ducibile, fisserà la soluzione che sarà adottata.

L’Alta Autorità comune, incaricata del funzionamento dell’intero regime, sarà composta di personalità indipendenti designate su base paritaria dai governi; un Presidente sarà scelto di comune accordo dai governi; le sue decisioni saranno esecutive in Francia, Germania e negli altri Paesi aderenti. Disposizioni appropriate assicureranno i necessari mezzi di ricorso contro le decisioni dell’Alta Autorità.

Un rappresentante delle Nazioni Unite presso detta autorità sarà incaricato di preparare due volte l’anno una relazione pubblica per l’ONU, nelle quale renderà conto del funzionamento del nuovo organismo, in particolare per quanto riguarda la salvaguardia dei suoi fini pacifici.

L’istituzione dell’Alta Autorità non pregiudica in nulla il regime di proprietà delle imprese. Nell’esercizio del suo compito, l’Alta Autorità comune terrà conto dei poteri conferiti all’autorità internazionale della Ruhr e degli obblighi di qualsiasi natura imposti alla Germania, finché tali obblighi sussisteranno».

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soltanto dalla stessa Francia ma anche dagli altri Paesi europei tanto che, in meno di un anno – 18 aprile 1951 – fu siglato a Parigi il Trattato che vide la nascita della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), entrato poi ufficialmente in vigore il 27 luglio del 1952 20, con l’adesione di Francia, Germania Ovest, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo.

Con l’istituzione della CECA vennero abolite le barrire doganali e tutte quelle restrizioni quantitative che frenavano la libera circolazione delle mer-ci, e vennero altresì soppresse tutte le misure discriminatorie, tutti gli aiuti e anche tutte le sovvenzioni accordate tra i vari Stati alla propria produzione nazionale.

La scelta del settore carbo-siderurgico trovava diverse giustificazioni: la prima rinvenibile era quella relativa alla posizione dei maggiori e più impor-tanti giacimenti delle risorse. Essi, infatti, si concentravano soprattutto nel bacino della Rhur, della Saar, dell’Alsazia e della Lorena, nonché in ampie zone di confine tra la Francia e la Germania.

Oltre alla Francia e alla Germania anche i Paesi del Benelux, in quanto pro-duttori di carbone e acciaio, furono interessati e stimolati a siglare l’accordo.

Un po’ meno ovvia era la situazione dell’Italia visto che essa né primeg-giava nella produzione di quelle materie, né tanto meno si trovava nelle vici-nanze della zona interessata dall’accordo. Nonostante ciò, tuttavia, le perso-nalità politiche del tempo, primo tra tutti Alcide De Gasperi, ritennero che firmare il Trattato istitutivo della CECA avrebbe sia rinvigorito la disastrosa situazione in cui verteva l’economia italiana, sia inserito il Paese nel contesto politico ed economico internazionale, fortemente sponsorizzato dagli Stati Uniti d’America.

Tale progetto si basava su una visione dell’integrazione europea sostenu-ta dalla necessità condivisa di affrontare e soddisfare esigenze economiche prioritarie per la ricostruzione e lo sviluppo.

Tra queste ultime, quelle della produzione del carbone e dell’acciaio (spe-cialmente per francesi e tedeschi) si presentavano prioritarie e legate alla con-tesa mai risolta riguardante la Regione della Ruhr. Un piano in questo senso, che ebbe tra gli artefici l’economista e politico Jean Monnet, fu presentato nel 1950 al fine esplicito di favorire l’aumento della produzione e la sua più razionale distribuzione sul mercato europeo. Ma dietro tali scopi immediati c’era molto di più: il piano Monnet doveva essere avvalorato da un’autorità europea sopranazionale, cui venivano attribuiti ampi poteri di controllo e di gestione. Un’autorità – era questo l’aspetto innovatore – sostenuta e garantita da un Alto Comitato formato da ministri rappresentanti dei governi, che ade-rivano all’iniziativa. Non solo, ma l’aspetto istituzionale più rilevante era quel-

20 Il Trattato CECA si è concluso cinquant’anni più tardi: il 23 luglio 2002.

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lo della previsione di una Corte di giustizia con competenza sulle controversie in materia di produzione e commercializzazione anche per superare eventuali resistenze protezionistiche da parte dei governi nazionali. Era la vittoria di un progetto politico oltre che delle ragioni della concorrenza e dell’economicità di gestione per le risorse strategiche, da sempre pomo della discordia tra le po-tenze europee. Non era questa certo la federazione europea tanto vagheggiata dai profeti dell’unificazione, ma era comunque la realizzazione concreta di una fase comune di sviluppo economico e sociale, che univa soprattutto Francia e Germania e gettava un ponte sopra un nodo cruciale degli antichi conflitti. Si muoveva un processo basato sulla constatazione della forza trainante del-la priorità dell’integrazione delle economie. Era concretamente iniziato dalla cooperazione in campo economico un lungo, faticoso, esaltante processo di unificazione delle istituzioni europee, che anche nella visione dei funzionalisti, avrebbe potuto e dovuto portare ad una cooperazione politica. La nascita e lo sviluppo della CECA segnava un’audace e lungimirante capacità di sintesi tra esigenze concrete e pressanti sul piano politico-economico, con una visione teorica e di ampio respiro sui destini futuri del vecchio continente.

5. I primi passi della cooperazione economica

La necessità di un pieno accordo tra Francia e Germania favorì ed aprì il varco ai sostenitori dei progetti di integrazione. Da una parte il prestigio di Jean Monnet, sostenuto dal Ministro degli Esteri francese Robert Schuman, dall’altra la tenacia del Cancelliere tedesco Konrad Adenauer, che cercava di reinserire la Germania occidentale nel contesto dei vincitori, riuscirono nel 1950 a realizzare con la CECA il primo passo “funzionale” alla progressi-va unificazione europea. L’importanza dell’accordo fu subito evidente, non solo sul piano internazionale, ma anche relativamente agli equilibri politici all’interno dei singoli Stati aderenti, tanto che altissime si levarono le pro-teste dei partiti comunisti francese ed italiano contro quella che veniva giu-dicata un’operazione capitalistica e conservatrice. Ciononostante il Trattato fu rapidamente ratificato mettendo in luce il ruolo determinante dei grandi leader dei due Paesi vinti, Adenauer e De Gasperi.

Konrad Adenauer fu certamente uno dei principali fautori del nuovo assetto politico europeo. Anche il Cancelliere del nuovo Stato tedesco (uffi-cialmente nato nel 1949) partiva dal dato internazionale, ma non trascurava quello economico; con lungimiranza intravide le potenzialità politiche del progetto e contrastò con forza le opposizioni interne contrarie ad un’auto-rità sopranazionale. Per sostenere il progetto Schuman-Monnet fece leva

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soprattutto sul bisogno di pace e di sviluppo, che costituiva il perno del programma di governo dei cristiano-democratici tedeschi; ricostruzione e sviluppo dovevano ripartire dagli accordi economici e doganali, come sot-tolineava il vecchio Cancelliere ricordando ai parlamentari tedeschi il ruolo decisivo svolto dallo Zollverein nella prima metà del secolo XIX nel prepa-rare e favorire la progressiva unificazione della Germania 21.

La politica del Cancelliere tedesco rispondeva peraltro ad urgenti scelte di strategia internazionale ben evidenziate dal “blocco” di Berlino da parte dei sovietici, dal famoso ponte aereo e dall’intensificarsi della guerra fredda. Gli sforzi degli USA erano nella direzione di un saldo accordo europeo rive-latosi indispensabile specialmente dopo le scelte imposte dall’URSS ai Pae-si dell’Europa orientale 22. In piena sintonia con Schuman, Adenauer seppe cogliere l’occasione di un’integrazione dal passo lento ma deciso e sorretto da economie reciprocamente interessate all’integrazione. L’obiettivo era, nelle parole dello stesso Adenauer, il «ristabilimento» di una intesa quale «premes-sa fondamentale per un futuro migliore non soltanto dei nostri Paesi, bensì dell’Europa e di una gran parte del mondo» 23. Nasceva dunque con basi soli-de e con dichiarate prospettive politiche la Comunità del Carbone e dell’Ac-ciaio 24. Va infatti rimarcato il tono del preambolo del Trattato, in cui si faceva esplicito riferimento alla creazione di una «Comunità più vasta e profonda» ed a «istituzioni capaci di indirizzare verso un destino comune» 25.

Accettando il Piano, Adenauer avrebbe affrontato il problema della ri-presa economica del suo Paese, del riarmo e messo fine alle inimicizie fran-co-tedesche. Egli stesso riporta nelle sue Memorie il contenuto di una lettera a lui indirizzata dallo stesso Ministro degli Esteri francese:

«Nella lettera a me personalmente indirizzata, Schuman mi comunicava che lo scopo della sua proposta non era economico ma eminentemente politico. In Francia si aveva ancora timore che la Germania potesse riprendere di nuovo le armi quando si fosse risollevata, ed era probabile che anche in Germania esistes-sero idee simili. Un riarmo si sarebbe manifestato prima di tutto con un aumento della produzione di carbone, ferro e acciaio. Se si fosse creata un’istituzione come quella proposta da Schuman, che avrebbe messo i due Paesi in condizione di no-

21 In R. Feola, Dinamiche politiche, cit., pp. 20-21.22 Konrad Adenauer fu certamente uno dei principali fautori del nuovo assetto politico euro-

peo. Molte utili notizie biografiche ed osservazioni in H.P. Schwarz, Konrad Adenauer, Berghahn books, Oxford, 1995.

23 K. Adenauer, L’Europa su nuove strade, in Memorie, Mondadori, Milano, 1966, p. 339.24 Cfr. J. Pinder, The building of the european union, Oxford University Press, Oxford, 1998.25 G. Pasetti, A. Trabucchi, Codice delle comunità europee, Giuffrè, Milano, 1962; ma soprat-

tutto J. Monnet, Mémoires, Librairie Arthème Fayard, Paris, 1976.

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tare i primi sintomi di un riarmo, questa nuova possibilità avrebbe enormemente tranquillizzato la Francia. Il Piano Schuman corrispondeva in pieno alle mie idee, da lungo tempo cullate, di una fusione delle industrie chiave europee. Comunicai immediatamente a Schuman che approvavo con tutto il cuore la sua proposta» 26.

Dal momento che l’idea del ministro francese corrispondeva pienamente a quella che era l’intenzione dello statista renano già dagli anni Venti, Ade-nauer senza alcuna esitazione accettò la proposta francese consapevole che, l’adesione al Piano, avrebbe facilitato da un lato le trattative al Bundestag sul problema delle convenzioni della Saar e, dall’altro, l’ingresso della Ger-mania al Consiglio d’Europa 27.

La pressione del Cancelliere circa la partecipazione al Consiglio derivava dalla convinzione che appena divenuto membro, la Germania avrebbe otte-nuto delle facilitazioni in tutti i campi dalle potenze di occupazione.

Il 23 maggio 1950, Konrad Adenauer ebbe un colloquio con l’organizza-tore economico e promotore del piano, Jean Monnet, per stabilire il modo in cui condurre le trattative. Dal momento che anche l’Italia, il Belgio, il Lussemburgo e l’Olanda avevano aderito al progetto franco-tedesco, biso-gnava curare i minimi dettagli per evitare il naufragio del Piano stesso. Il 20 giugno era prevista a Parigi la prima riunione dei Paesi aderenti e Monnet propose di invitare alla Conferenza delle personalità con uno spiccato pen-siero europeista che avrebbero dovuto delineare le basi dei Trattati da firma-re, stabilire le competenze degli stati e quelle dell’Alta autorità. Gli esperti tecnici sarebbero subentrati in un secondo momento.

Adenauer condivise il pensiero francese e designò quale rappresentante tedesco il professor Hallstein.

La preparazione degli accordi ebbe un impulso positivo nei primi giorni di giugno del 1950 quando il Bundestag, con 220 voti favorevoli, approvò l’a-desione della Germania al Consiglio d’Europa. Il 15 giugno, come sostenne Adenauer, si sancì il ritorno della Germania nella comunità dei popoli europei.

I primi risultati tangibili della linea integrazionista furono raggiunti a ri-dosso della firma, il 18 aprile 1951, del Trattato di Parigi istitutivo della CECA. La creazione di un polo carbo-siderurgico europeo avrebbe permes-so la riconciliazione di esigenze per un verso condivise e per un altro con-trapposte. Da un lato, infatti, la volontà comune di creare una prima forma di cooperazione europea, dall’altro, la garanzia della ripresa di un settore strategico che non giovasse solo alla Repubblica Federale.

26 K. Adenauer, Memorie 1945-1953, Mondadori, Milano, 1966, pp. 376-377.27 Il Consiglio d’Europa è un’organizzazione internazionale il cui scopo è promuovere la de-

mocrazia, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa. Per la sua creazione ed il suo funzionamento si veda A. Royer, The Council of Europe, Council of Europe, Strasbourg, 2010.