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C’ERA UNA VOLTA UN FUTURO a cura di Antonia Alampi e Anna Simone Thomas Bugno / Luca Cutrufelli / Dario D’Aronco / Marco Fedele Di Catrano / Marco Di Giovanni / Elettrophonica / Michele Giangrande / Giorgio Orbi / Christian Niccoli / Agnese Trocchi

C'era una volta un futuro

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Catalogo della mostra C'era una volta un futuro, Roma, 2010

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c’era una voltaun futuroa cura di Antonia Alampi e Anna Simone

Thomas Bugno / Luca Cutrufelli / Dario D’Aronco / Marco Fedele Di Catrano / Marco Di Giovanni / Elettrophonica / Michele Giangrande / Giorgio Orbi / Christian Niccoli / Agnese Trocchi

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3di Antonia Alampi

c’era una voltaun futuro

C’era una volta un futuro è una mostra collettiva di giovani artisti italiani - alcuni già conosciuti, altri emergenti, ma tutti legati dal dato anagrafico - che nasce da una riflessione sul qui e ora di un paese, l’Italia, che appare bloccato da di-versi punti di vista, come “sospeso” in un presente senza promessa di futuro.Il progetto trae origine da una doppia ispirazione. La prima, latu sensu politica, è la condizione di precarietà - esistenziale, oltre che economica - dell’attuale periodo storico, caratterizzato da un’instabilità che cancella nelle giovani gene-razioni, compresse tra un passato che si espande e un futuro che recede, quella carica emotiva necessaria nel perseguire le ambizioni e coltivare i sogni. La seconda nasce dalle caratteristiche stesse della struttura espositiva. Ex fabbrica di materassi prima, associazione cul-turale tunisina poi, locale in vendita oggi, la sede ospitante è uno spazio in disuso nel cuore del quartiere romano di San Lorenzo, scenario di storie (micro-industriali, di contestazione sociale, d’immigrazione, di vita studentesca e d’importante sperimentazione artistica) fortemente rappresentative degli ultimi anni. Non contesto deputato all’arte ma luogo transitorio, anonimo e peculiare al contempo, del cui passato si hanno informazioni approssimative e il cui futuro è assolutamente imprevedibile. In questo senso, perdendo ogni connotato di compiacimento vintage, le caratteristiche di degrado del suo presente diven-gono metafora della provvisorietà e della spersonalizzazione del tempo che stiamo vivendo. Gli artisti invitati, molti dei quali hanno realizzato interventi site-specific assumendo per oggetto le evidenze spaziali e materiali del contesto, rielaborano la tematica affrontata attraverso dif-ferenti linguaggi espressivi, ognuno in uno spazio fisicamente delimitato. In questo modo, la rarefazione e il senso d’isola-mento indotti dalla odierna “società liquida” - per citare Zygmut

(...) tra l’opprimente imprevedibilità di un futuro infinitamente aperto e tuttavia senza avvenire e l’ingombrante molteplicità di un passato ritornato a essere opaco, il presente è diventato la categoriadella nostra comprensione di noi stessi.¹

¹ Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al non tempo, Elèuthera, Milano, 2009

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Bauman - sono espressi attraverso un percorso la cui unitarietà è deliberatamente (e forse inevi-tabilmente) frammentata. La rielaborazione delle caratteristiche morfo-logiche dell’architettura, il concetto di limite imposto, l’obsolescenza tecnologica, le visio-ni nostalgiche o apocalittiche, le simbologie abusate e i paradossi nazionali, sono solo alcuni dei diversi aspetti trattati da opere che s’inseriscono, si amalgamano e traggono ispi-razione dallo spazio stesso.Il progetto ha coinvolto inoltre diversi giovani cu-ratori, artisti e associazioni esterne per la realizza-zione di eventi collaterali - incontri, performance e workshop - interni al luogo espositivo. L’intento è stato quello di rendere letteralmente “vivo” lo spazio per l’intera durata della manifestazione attraverso una programmazione variegata, colla-borativa e partecipativa ma attinente al tema di fondo. Nonostante l’utilizzo di luoghi in disuso per pro-getti artistici temporanei sia una pratica decisa-mente non nuova (si pensi a due esempi italiani, la rassegna Fuori Uso a Pescara o anche la re-cente Manifesta7, in trentino Alto Adige) ma anzi di ormai lunga tradizione, la pertinenza di questo progetto a Roma, sulla falsariga delle precedenti esperienze, è stata quella di rappresentare una reazione attiva (e testarda) all’attuale momento di crisi e a tutte le sue implicazioni in ambito non solo culturale.L’evento è stato realizzato da OPERA REBIS, Associazione culturale non profit fondata nel 2008 a Firenze - oggi con basi a Firenze e Roma - da un gruppo di storici dell’arte, artisti e le di-rettrici della scuola di gioielleria contemporanea Alchimia.Scopo dell’associazione è promuovere progetti artistici contemporanei in spazi non convenzio-nali, di volta in volta producendo, organizzando o sostenendo eventi culturali che intendono ri-appropriarsi, anche solo per un breve frammen-to temporale, dei numerosi spazi “abbandonati” sparsi per le città, in Italia e all’estero.

AntoniA AlAmpi (pAolA, 1983) è storicA dell’Arte e co-fondAtrice

dell’AssociAzione culturAle Opera rebis. nellA suA bOîte

custodirebbe gli indirizzi di tutti i luoghi in cui hA vissuto.

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5di Anna Simone

l’arte di associarsi:tendenza momentanea o soluzione per il futuro?

Nonostante le favole che si sentono raccontare in giro, i punti deboli nel sistema dell’arte contemporanea in Italia sono anco-ra molti. Tuttavia, in questo contesto in parte ambiguo, in parte ancora immaturo, esiste una realtà, quella delle organizzazioni non profit (1:1 e 26 cc a Roma, Progetto Isole a Palermo, No-sadella.due a Bologna, solo per citarne alcune), che anche da noi si sta diffondendo su tutto il territorio come “alternativa” a istituzioni e gallerie commerciali.Si tratta di collettivi curatoriali, archivi, fondazioni, project spaces e associazioni varie che tentano di restare fuori dalle logiche di mercato e funzionano come sorta di “laboratori di ricerca”, luoghi dove è possibile testare nuove possibilità per l’arte contemporanea. La caratteristica che principalmente le accomuna è quella di essere in-between - posizionate, in un certo senso, al confine estremo dell’industria culturale. La loro esistenza è di grande importanza in una società dove valori come creatività, cultura e libertà d’espressione non sono affat-to scontati. Proprio a partire da questa riflessione, ho ritenuto importante andare a osservare più attentamente questo feno-meno che sta attirando su di sé molta attenzione.Agli inizi degli anni novanta, nasce Viafarini - primo non profit italiano - per far fronte all’esigenza di creare una documenta-zione sulle arti visive, andando così a colmare una grave man-canza delle istituzioni; con il passare del tempo quest’asso-ciazione si è trasformata sempre più in uno spazio aperto alla sperimentazione, riuscendo a creare una solida rete di relazioni internazionali e puntando molto sulla comunicazione. Oggi, in tutta Italia, il fenomeno si sta moltiplicando e in paral-lelo sta emergendo la necessità di creare una rete² per vedere riconosciuto il ruolo delle associazioni e per promuovere una legislazione adeguata a supporto della loro sopravvivenza. Le attività prodotte da questi off space non sono amatoriali e dilettantistiche, anzi spesso è il contrario: ISOLA ART CEN-TER³, ad esempio, tra il 2003 e il 2007, ha lavorato con una logica interdisciplinare ed è diventato uno dei luoghi più dina-

se l’arte ancora esiste, è dove meno ci si aspetta di trovarla.¹

¹ Robert Musil citato in H. U. Obrist, don’t stop, Postmediabooks, Milano 2010 ² ADA è un network che riunisce diverse associazioni culturali non profit - il manifesto è visibile sul sito www.adanetwork.org³ Isola Art Center ha lavorato per sette anni con le associazioni del quartiere nel Forum Isola alla riconversione dell’edificio industriale della “stecca degli artigiani” a Milano in un Centro per l’Arte e il Quartiere.

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mici e interessanti di Milano, ospitando mostre e progetti speciali che hanno coinvolto 200 artisti italiani e internazionali, riuscendo a concretizzare progetti molto innovativi. All’estero, accanto alle organizzazioni indipen-denti, c’è un fenomeno molto diffuso, quello degli ARS (artist run spaces). In Inghilterra, dalla metà degli anni novanta - accanto a organizzazione indipendenti, oggi del tutto “established” come Artangel4 - gli spazi indipendenti gestiti da artisti hanno giocato un ruolo chiave nell’affermazione della scena artistica locale a livello nazionale e internazionale (si pensi al caso citato da Hans Ul-rich Obrist come “il miracolo di Glasgow”). L’anomalia italiana in cui mi sono imbattuta docu-mentandomi su questo tema è proprio la quasi totale assenza di questo tipo di aggregazione. Perché da noi gli artisti non sentono la necessità di auto-gestirsi? Dalle avanguardie a Fluxus, sono sempre stati gli artisti a innovare le forme della pratica artistica e rompere con i vecchi modelli stravolgendo le dinamiche tradizionali delle espo-sizioni. Gli “artist spaces” sono organizzazioni basa-te sulla partecipazione e la collaborazione, non soffrono la pesantezza della burocrazia e sono in continua evoluzione. In un paese come il nostro dove accademie e università non riescono a es-sere un punto di riferimento per gli artisti e le isti-tuzioni si preoccupano più di “riempire gli spazi” che delle necessità e delle urgenze reali, forse l’approccio collettivo può essere la soluzione per riappropriarsi del futuro.In Italia, però, dopo la fortuna di movimenti come l’Arte Povera e la Transavanguardia, la moda del gruppo o collettivo ha perso il suo appeal, ed è stato sostituito negli anni novanta, da un nuovo “modello vincente” di artista-individuale, sull’esempio di Maurizio Cattelan o Vanessa Be-ecroft.

Per concludere, vorrei citare il progetto ORESTE - un’asso-ciazione che, tra il 1992 e il 2002, coinvolse artisti, critici e intellettuali con lo scopo di lavorare “collettivamente” su ini-ziative culturali e d’arte contemporanea. Nonostante la grande visibilità il progetto finì per naufragare probabilmente per colpa degli interessi monopolistici di qualcuno.Forse la chiave per far sì che questa nuova realtà delle asso-ciazioni si sedimenti e produca di conseguenza cambiamenti positivi e concreti nel nostro paese sta proprio nella capacità di preservare lo “spirito di gruppo” e non far prevalere (l’inevi-tabile?) desiderio di dominazione e prevaricazione.

AnnA simone, storicA dell’Arte e cofondAtrice dell’AssociAzione

Opera rebis, vive e lAvorA A romA.

nellA suA bOîte custodirebbe lA listA degli “oggetti” smArriti.

4 Artangel è un’associazione culturale nata nel 1992 a Londra con lo scopo di produrre progetti d’artista. L’organizzazione si avvale di finanziamenti pubblici e privati. www.artangel.org.uk

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I dadaisti convenuti alle tre del pomeriggio del 14 aprile 1921 a Saint-Julien-le-Pauvre (due passi dalla Sorbona) per una visita itinerante alle «dipendenze della chiesa» non potevano aspettarsi che il loro comportamento avrebbe avuto un futuro importante nelle vicende dell’arte del XX secolo: passeggiare come arte sarebbe diventata un’abitudine per i surrealisti, che avrebbero programmato le loro promenade chiudendo gli oc-chi e indicando a caso su una mappa i punti attraverso cui co-struire l’itinerario. La casualità di questa operazione viene cor-retta dalla generazione successiva di peripatetici, gli aderenti all’Internazionale Situazionista, che girano la città “derivando” da un approdo all’altro, in base all’attrazione o alla repulsione che su di loro esercitano parti di città, esplorate “psicogeogra-ficamente”: la dérive dissolve il confine fra arte e vita e usa la metropoli in modi alternativi a quelli imposti dal sistema dominante: vuole capire, attraverso la pratica agita, le diver-sità sociali ed emotive fra le varie zone urbane incontrate, che determinano le direzioni del percorso.Prima di costruire la città nuova (progetto sempre differito e, in fondo, irrealizzabile perché è l’utopia, il sogno della palingene-si politica, sociale, esistenziale), l’Internazionale Situazionista gioca con quella presente; e succede spesso che le aree di maggior attrazione siano quelle marginali, periferiche, le sac-che che hanno più o meno casualmente resistito all’avanza-ta della speculazione, della modernizzazione, come in tempi più vicini nel nostro Paese le cascine rimaste in piedi sotto i cavalcavia delle autostrade o nel mezzo dei nuovi quartieri, o ancora il casolare a Tor Bella Monaca coi prati intorno e le pecore al pascolo sullo sfondo del centro commerciale e dei palazzoni in cemento armato: edifici e pezzi di terreno rimasti li-beri non sai se per ostinazione del contadino, o per distrazione dei costruttori; case verosimilmente prossime alla demolizione, come quelle in cui Gordon Matta-Clark apriva le sue nuove direzioni spaziali. C’è insomma un’area dell’esperienza ar-tistica contemporanea, dissidente rispetto al sistema del mercato, che fa dell’esperienza vissuta e della smaterializ-zazione dell’opera le sue pratiche di elezione, e si muove negli spazi residuali, periferici, la cui integrità provvisoria è continuamente minacciata. Di queste porzioni dimenticate (chissà per quanto), l’arte non si appropria materialmente, ma

reiectadi Claudio Zambianchi

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opera un’occupazione temporanea e vitale come un’erba spontanea: rende consapevole se stessa e chi la guarda della presenza e degli usi possibili di spazi residuali.È un modo di rimettere creativamente in circo-lo scarti, che si ritrova anche in altre pratiche dell’esperienza artistica contemporanea. Anche qui una delle radici maggiori è il dada: i collage di Hans Arp o di Kurt Schwitters sono costruiti a partire da piccole cose, spesso raccolte per strada, frammenti dell’esperienza vissuta nella grande città. Partire da una congerie di elementi disparati, raccolti casualmente, disposti su una superficie secondo un processo di addizione lascia, nel dialogo tra un frammento e l’altro, uno spazio di racconto sensibilmente diverso da quanto avviene, per esempio, in un collage cubista, dove entrano in gioco prevalentemente i rapporti di carattere formale, le relazioni fra se-gni. E proprio per le sue potenzialità narrative il collage dada si riaffaccia nelle pratiche artistiche delle neoavanguardie, ridando vita a modi di fare che arrivano fino al presente. Dopo un periodo in cui i mezzi specifici della pittura erano stati consi-derati funzionali all’espressione della soggettività dell’artista, la generazione che si affaccia all’arte verso la metà degli anni cinquanta del XX secolo non parla più attraverso la pennellata, o altri segni idiosincratici espressivi del “qui e ora”, della pre-senza flagrante di un autore. Costruisce invece l’opera a partire da materie belle e pronte dalla cui relazione non scaturisce (soltanto) un’orga-nizzazione più o meno salda, ma una possibilità di intercettare e raccogliere un significato.Questo procedere per frammenti non mi appare come un moderno rovinismo, costretto soltanto a ripetere che l’unità del mondo è irrecuperabile, ma come la possibilità di imbastire nuove storie a partire da piccole cose trovate.

clAudio zAmbiAnchi è professore AssociAto di storiA dell’Arte

contemporAneA All’università degli studi di romA La sapienza.

nellA suA bOîte custodisce i Lunch pOems di frAnk o’hArA.

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Una cosa che gli artisti sanno bene, anzi i più bravi fanno di tutto per ricordarlo al proprio pubblico, è che parole che in altri contesti dichiarano una mancanza, nel campo dell’arte rappre-sentano invece delle condizioni positive.Da quando Fausto Bertinotti è scomparso dalla quotidianità mediale (attenzione, non dall’attività politica) nessuno cita più quella parola scomoda che è “precario” e che rinvia irrimedia-bilmente al “precariato”, a un mondo del lavoro e una vita so-ciale che sono cambiate in maniera radicale. Eppure, troviamo il termine “precario” in una delle frasi preferite dai critici d’arte; frase che André Breton scrive in apertura al primo Manifesto del Surrealismo (1924):

Negli ultimi anni abbiamo assistito alla tendenza a considera-re gli artisti alla stregua dei “lavoratori culturali” (termine che ormai ha sostituito “creativo”... fa così anni Ottanta!) che spes-so nella nostra società si prestano a forme di lavoro flessibi-le, non inquadrate, in altre parole… insicure. L’identificazione della figura dell’artista con un soggetto pronto ad adattarsi a un mercato del lavoro in continuo cambiamento mi sembra tuttavia lontano dalla realtà, a meno che non si voglia conside-rarlo come un produttore di “segni non convenzionali”. Ma il problema è proprio riuscire a staccare la figura dell’artista da quella stratificazione della produzione sociale all’interno della quale l’artista è solo produttore di oggetti-merci, non di signi-ficati¬; solo questo permette quell’autonomia che precarietà e fragilità non fanno altro che rafforzare. Che l’arte non ven-ga strumentalizzata dal contesto mercantile – come da quello mediale – è interesse di tutti coloro che ne partecipano e che la condividono. Così l’arte ci abitua a tollerare condizioni di precarietà non solo perché va avanti per pulsioni, ragiona su dimensioni verticali rispetto all’orizzontalità del quotidiano, ma anche perché questa abitudine all’inconsistenza è la cosa più bella e interessante che ha da dare a chi la segue.

fraGile, precaria,eppure artedi Gianni Romano

tanto credito prestiamo alla vita- a ciò che essa ha di più precario: la vita reale, naturalmente - che quel credito finisce per perdersi. L’uomo, questo sognatore definitivo, di giorno in giorno più scontento della sua sorte, fa a stento il giro degli oggetti di cui è stato portato a fare uso, e che gli sono stati consegnati dalla sua incuria.

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Ad ogni modo, per non farci trovare smarriti al prossimo sondaggio, ecco una lista di risposte “prêt-à-utiliser”, un pacchetto di risposte ready-made da arricchire a ogni mostra (o almeno ogni due o tre): “L’arte è perfettamente inutile” (Oscar Wilde ), “Un artista può mostrare cose che gli altri hanno il terrore di esprimere” (Louise Bou-rgeois), “L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità” (Adorno), “Le mie cose dovreb-bero provocare riflessioni su ciò che è l’arte” (Jo-seph Beuys), “Fare soldi è arte, lavorare è arte, fare affari è l’arte migliore” (Andy Warhol), “La pittura è come un gioco con cui l’uomo si distrae, ma ciò che è affascinante è che il pittore fa di tutto per rendere più difficile le regole di questo gioco” (Francis Bacon), “Per gli artisti l’estetica è come l’ornitologia per gli uccelli” (Barnett New-man), “Preferisco siano i quadri a dirlo” (Barnett Newman), “Rispetto alla fantasia la realtà cosa può fare?” (Fabio Volo), “Che cos’è l’arte se non un modo di vedere?” (Thomas Berger), “Io non sono un gadget, Tu non sei un gadget, Noi non siamo un gadget” (dopo aver letto Jaron Lanier).

giAnni romAno critico d’Arte ed editore di postmediAbooks.

nellA suA bOîte custodisce unA chiAve, unA letterA, unA foto.

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Fare l’artista è un lavoro? In Italia è considerato al pari di una passione o di un hobby affascinante, per cui se vuoi fare l’arti-sta devi anche trovarti un lavoro “serio”.Il sostegno economico agli artisti da parte del nostro Stato è infatti pressoché inesistente, mentre in molti paesi europei esi-stono forme di finanziamento (grant, scholarship, fellowship...) dedicate agli studenti e agli artisti. In Italia chi decide di in-traprendere la carriera artistica deve spesso cercarsi un lavoro per sopravvivere, trovare il tempo per continuare la propria ricerca, realizzare nuovi progetti e preparare lunghe e complesse domande di partecipazione ai bandi di concorso.Il mondo delle applications – domande di ammissione per op-portunità artistiche - è vasto e ingannevole: spesso alla conclu-sione degli studi accademici o universitari l’artista viene sbat-tuto in pasto ai leoni, senza sapere che via prendere, come raggiungere i galleristi, come proseguire la propria formazione, dove cercare i consigli giusti...Negli ultimi anni una delle occasioni da non lasciarsi sfuggire è quella delle residenze all’estero o in Italia: è un periodo che varia dai tre mesi a un anno, in cui l’artista può lavorare e sog-giornare in una struttura che lo metta in contatto con artisti internazionali, in un nuovo contesto geografico da cui trarre stimoli per la propria carriera. In questi casi può essere utile la consulenza di alcune organizzazioni italiane che, insieme al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, hanno stretto rap-porti di scambio con le migliori residenze; oppure il feedback degli artisti che hanno già partecipato a residency programme; o ancora servizi come ArtBox - www.bancadatiartbox.it – che informa regolarmente sui bandi per le migliori opportunità in scadenza. Sempre online, www.resartis.org e www.transar-tists.nl, sono ottimi portali per scegliere la propria destinazione e capire come sostenerla economicamente, dove chiedere chiarimenti e organizzare scambi con altri artisti. Tra le più pre-stigiose residenze in Europa è d’obbligo citare Rijksakademie di Amsterdam, Gasworks di Londra, Künstlerhaus Bethanien di Berlino, Dena Foundation di Parigi, HIAP di Helsinki, dove molti degli artisti italiani oggi affermati hanno svolto periodi di ricerca. Una buona occasione per raggiungere gli Stati Uniti è invece l’International Studio & Curatorial Program, premio per il vincitore del concorso Pagine Bianche d’Autore, che

di Giulia Brivio

poveri artistiitaliani 11

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consiste in un soggiorno-studio di 6 mesi presso l’ISCP di New York.I fondi per poter sostenere i costi di una residen-za, se non coperti da sponsor privati o autofinan-ziati – soluzioni più uniche che rare - sono dif-ficilmente coperti da istituzioni pubbliche, come ad esempio possono essere gli Arts Council britannici o i FRAC Fonds Régional d’Art Con-temporain francesi. Una preziosa rarità è il GAI - Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani, di base a Torino, che sostiene la mobilità degli artisti con il concorso Movin’up.Rimane poi la partecipazione ai bandi a sostegno della creatività giovanile, come quelli indetti dalle fondazioni bancarie, tra cui ad esempio Fonda-zione Cariplo, o dagli enti provinciali e regionali. Per questi però non basta solo essere artisti, bi-sogna fondare organizzazioni per la promozione e la diffusione della cultura, quindi trovare i com-pagni d’avventura ideale, tra cui curatori, critici, organizzatori, esperti contabili che facciano “tor-nare i conti”.Ci sono esperienze di fundraising che hanno pre-so piede negli Stati Uniti come le Sunday Soup, raccolte fondi con pranzi domenicali il cui ricava-to è devoluto ai progetti artistici più interessanti. Fortunatamente stanno arrivando anche in Italia: il primo esperimento è stato Granaio di Bougan-ville Project, che si è tenuto a Milano il 31 gen-naio 2010.Una piccola nota a margine: un requisito fonda-mentale per l’eleggibilità ai premi per soggiorni all’estero è la conoscenza della lingua inglese, che purtroppo non è familiare a tutti i giovani ar-tisti! Stringere reti di collaborazione, anche inter-nazionali, senza intrappolarsi in insignificanti riva-lità, è utile per superare molti ostacoli iniziali, per poi crescere individualmente, in continuo dialogo con le realtà che ci circondano. L’arte dovrebbe essere sempre un discorso aperto.Rimbocchiamoci le maniche, nella difficoltà della nostra situazione è necessario far capire che ta-lenti italiani da promuovere ce ne sono e che non è sempre l’estero, che sia Londra, New York o Berlino a dettare le mode.

giuliA brivio (1981) lAvorA come responsAbile dei servizi di

documentAzione A viAfArini orgAnizAtion for contemporAry Art,

fAbbricA del vApore, milAno. è co-fondAtrice di bOîte.

nellA suA bOîte custodisce unA pizzA mArgheritA.

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L’arte è ovunque. Non si tratta solo di un motto di eco avan-guardistico, ma di una realtà testimoniata dalla recente cresci-ta esponenziale dello spazio riservato all’arte contemporanea sulle pagine di mensili, settimanali e quotidiani. Non più solo l’autorevolissimo Domenicale de Il Sole-24 ore; ma anche i magazine allegati ai maggiori quotidiani approfondiscono te-matiche riferite all’arte contemporanea con attenzione e effetti divulgativi.La curiosità nei confronti della creatività contemporanea si è concretizzata soprattutto nella realizzazione di website e di webzine dedicati ai nuovi linguaggi artistici: tale produ-zione è ovviamente incoraggiata dalla possibilità di creare un progetto editoriale senza investire grossi capitali e di raggiun-gere un pubblico vasto ed eterogeneo.Il panorama è multiforme. Si spazia dai blog personali di ar-tisti e critici ai sempre più popolari blog di critica al sistema dell’arte come www.whitehouse.splinder.com di Luca Rossi (identità celata da uno pseudonimo) e secelafattalui.blogspot.com. Innumerevoli sono poi i portali informativi dall’interattivo artsblog.it, artapartofculture.org, con focus puntuali su Roma, fino ai consolidati exibart.com, teknemedia.net, undo.net, sem-pre in evoluzione per fornire piattaforme di dibattito sull’arte e promuovere nuovi progetti.Il proliferare di queste produzioni mette in luce la crisi della carta stampata, a favore della facilità e economia del web e rappresenta un avversario per i periodici d’arte tradizionali, i quali risultano ostacolati anche da un’altra forma editoriale che sta imperversando nel mondo dell’arte contemporanea, i ma-gazine indipendenti gratuiti.Negli ultimi anni in Europa sono maturate molte realtà edi-toriali indipendenti, favorite dalla diffusione di tecnologie tali da permettere la realizzazione di riviste a prezzi me-diamente contenuti. È un fenomeno che esplose negli anni Settanta con riviste come Mondo Beat!, Decoder e Ario, case editrici come Stam-pa Alternativa e fanzine come Vile e Punkreas.In particolare, la curiosità nei confronti delle fanzine negli ulti-mi dieci anni è cresciuta, in parte per il fascino artigianale, in parte per l’aura di oggetto ad edizione limitata che le circonda. Come scrive Giacomo Spazio Mojetta sulle pagine di D, set-

timanale femminile de la Repubblica (21 marzo 2009), «esse sono affermazioni di libertà per chi li produce e veicolano emozioni». Si può scorge-re nel proliferare di realtà editoriali indipendenti la stessa urgenza che ha portato alla nascita e diffusione dei blog: comunicare un messaggio, esprimere la propria visione del mondo, crear-si un universo semantico attraverso le parole. Colmare un bisogno, forte e incontenibile, di espressione.I magazine indipendenti sono prodotti per lo più da artisti, giornalisti free lance, graphic designer e studenti; molti dei quali cooperano con lo sco-po di materializzare fra le proprie mani la rivi-sta che vorrebbero leggere ma che non trova-no in giro. Il sostentamento economico è, nella maggioranza dei casi e soprattutto nel primo pe-riodo, a carico degli stessi ideatori. In Italia gli investimenti in pubblicità, soprattutto nel campo dell’arte contemporanea, sono quasi inesistenti, per cui la difficoltà sta proprio nel trovare forme alternative per sopravvivere finanziariamente: dai progetti speciali, agli eventi di fundraising, alle sponsorizzazioni, all’invenzione di servizi utili per galleristi e collezionisti o istituzioni, che possano supportare queste pubblicazioni sperimentali.Il mondo dell’editoria indipendente è in continua crescita e richiama sempre più di sé l’attenzio-ne attraverso appuntamenti molto stimolanti, tra cui Colophon, festival based in Lussemburgo, giunto alla seconda edizione, che si è distinto, in breve tempo, per approccio, etica e qualità degli appuntamenti proposti. In ambito italiano va se-gnalato Belvedere75, dedicato all’editoriaindipendente e, in particolare, ai visual magazine, esperienze editoriali che coinvolgonoillustratori, fotografi e graphic designer e utilizza-no il linguaggio universale delle immagini.I nomi da ricordare in questo interessante uni-verso sono molti: 0_100, Parallelo 42, 1+1=1,

editoria indipendente: attenzione c’è futurodi Federica Boràgina

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Rawraw, Bang Art, Stirato, BAU, Sugo, Territorial Pissing, Drome, The end, Ego[n], This is a ma-gazine, Fefè, Uovo, ffwd, Venice is not sinking, Four Photographers, Grab, ZA!revue, I thought I was alone, Interstizi, Janus, Kaleidoskope, Le dictateur, Mousse, Nero¹... È evidente fra queste realizzazioni una predominanza delle immagini sulle parole, seppur molte di queste riviste ospi-tano contributi testuali con firme autorevoli.Fra tutte queste sperimentazioni compare anche boîte, free press in scatola, realizzato dalla sot-toscritta e da Giulia Brivio, da marzo 2009 con cadenza trimestrale. boîte nasce dalla medesima radice che ha generato le realtà editoriali sopra citate, ma con una proposta editoriale che ten-ta di rifiutare l’approccio orizzontale che spesso travolge il mondo dell’arte contemporanea, in fa-vore di una metodologia verticale, che connette la Storia dell’arte alla contemporaneità, nella sua realtà interdisciplinare. Il packaging si ispira alla Boîte verte di Marcel Duchamp, nel quale l’artista conservò degli scritti esplicativi in merito alla sua opera più enigmatica, Le Grand Verre. I contributi ospitati che coinvolgono artisti di diverse genera-zioni, dagli emergenti a quelli di fama internazio-nale, rende boîte un prodotto da maneggiare con cura e con attenzione, un oggetto che assume l’aura della collezione.Che si tratti di una scatola, di una busta, di una rivista, poco importa, questi prodotti sono il risul-tato di un’emergenza espressiva volta a dimostra-re come la televisione non abbia spento i cervelli, come il tessuto cerebrale del nostro Paese non sia annientato completamente ed è interessante (e confortante) notare che gli autori di questi progetti editoriali indipendenti sono per lo più giovani artisti e studenti, motivati e forse incoscienti, risorsa per il futuro, quel futuro che non solo c’era una volta, ma c’è ancora; lo conserviamo dentro una scatola.

federicA boràginA (1986), studentessA di storiA dell’Arte

All’università cAttolicA del sAcro cuore di milAno.

è co-fondAtrice di bOîte. nellA suA bOîte custodisce le boîtes

segrete di tutti i suoi collAborAtori.

¹ La selezione delle riviste qui indicate fa riferimento al progetto WE LOVE MAGAZINE a cura di Saul Marcadent.

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15di Valentina Tanni

l’arte di immaGinareil futuro

L’arte è il regno delle alternative. È da sempre il luogo dove i punti di vista si moltiplicano e si intersecano, trasformando l’orizzonte del reale. Ma l’opera artistica, oggi più che mai, vive un’esistenza paradossale: è un oggetto inutile ma non irrile-vante, controverso ma non rivoluzionario. Non serve il potere ma tante volte lo accompagna; è merce di lusso e virus cultu-rale; si sforza di fare affermazioni chiare lasciandosi sfuggire messaggi contraddittori. Ha un suo sistema di riferimento, ma si insinua (spontaneamente o forzatamente) in tutti i contesti. Questa intrinseca instabilità - dell’opera, dei suoi contesti, del-le sue possibili interpretazioni, del suo ruolo sociale - non può più essere letta come una condizione transitoria. Ma soprattut-to non è in questa inafferrabilità (una natura aperta che ha sa-puto diventare, nei casi migliori, un elemento di forza) che van-no ricercate le ragioni di quella che tanti percepiscono come

ce n’est pas d’où vous prenez les choses, c’est où vous les portez. (jean-luc godard)

Julian Rosefeldt, Stunned Man / Trilogy of Failure (Part II), 2004

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una crisi del linguaggio artistico. Un linguaggio che appare depotenziato, ripiegato su sè stes-so, incapace di rinnovarsi, e per questo sempre meno in grado di costruire visioni, di attestarsi in posizione di avanguardia, di funzionare da radar dell’immaginario e del pensiero in un’epoca di profondi cambiamenti. Una condizione, questa, che rende l’arte dei nostri tempi incapace non solo di declinare il proprio discorso al futuro, ma talvolta anche di raccontare il presente. Le ragioni di questa crisi non risiedono, tuttavia, nel linguaggio, né tantomeno negli strumenti dell’ar-te o nei contesti in cui essa decide di insediarsi. Il nocciolo della reazione a catena che sta inve-stendo la ricerca artistica, infettandola come un virus, va cercata molto più nel profondo. La crisi sta tutta nelle motivazioni del gesto artistico, sempre più influenzate da una ro-vinosa tendenza al professionalismo. E non parliamo, si badi bene, di una generica inclinazio-ne al mestiere, né vogliamo celebrare la purezza dell’artista isolato e “fuori dal sistema”. Non si intende attaccare il sistema dell’arte tout court o polemizzare sullo strapotere del mercato. Quello che vogliamo sottolineare qui è la pericolosa in-filtrazione del modus operandi manageriale all’in-terno della stessa ricerca artistica. Nel modo in cui le opere vengono concepite, nelle strategie di promozione applicate scientificamente, nei deli-ranti tentativi di auto-storicizzazione.Il vero problema quindi non sta nel linguaggio, né nella capacità di essere più o meno originali («non importa da dove prendi le cose», scriveva Godard, «ma dove sei in grado di portarle»); la debolezza che percepiamo nell’arte di oggi - in quella più visibile, s’intende - coincide con un vuoto motivazionale. Raramente avvertiamo dietro alle opere quell’urgenza interiore che è da sempre il motore primario dell’arte. Ma questo non vuol dire necessariamente che quell’urgenza sia scomparsa. Magari è solo stata messa in minoranza, svalutata, ricacciata in basso nella scala dei valori. Magari c’entra la nostra capacità - come singoli e ancor più come sistema - di volgere lo sguardo e i riflettori dal lato giusto?

vAlentinA tAnni è criticA d’Arte e curAtrice indipendente.

vive A romA. nellA suA bOîte custodisce tutte le cose che hA

pAurA di dimenticAre.

Page 17: C'era una volta un futuro

Agnese Trocchi, Il sole è sempre quello, 2010, materiali vari, dimensioni variabili. Courtesy l’artista.

Francesca Orsi: Cosa rappresenta la tua installazione video?Agnese Trocchi: Il sole è sempre quello è un’installazione che traccia una linea tra il passato e il futuro passando per il pre-sente. Si tratta di un lavoro viscerale fatto del sangue delle generazioni di una stessa famiglia. Dal nutrimento materiale ai frutti dell’inconscio, dalla creazione alla distruzione, dal vissuto all’immaginato.

di Francesca Orsi

intervista a:aGnese troccHi

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FO: Il tuo è un lavoro anche molto ironico sulla situazione at-tuale...AT: Ho scelto di inserire le Corrispondenze dall’Apocalisse in un televisore e non in un grande schermo perché si tratta dell’immaginario che ci viene propinato quotidianamente dai telegiornali. “Restate a casa e guardate il mondo rovinare at-torno a voi”: c’è sempre un giornalista embedded pronto a in-formarci che non ci sono state vittime italiane. Fuori dai nostri rassicuranti appartamenti “il deserto del reale”, per usare le parole del filosofo sloveno Slavoj Žižek. La mia installazione scimmiotta un certo linguaggio giornalistico che alimenta le nostre paure facendoci barricare tra quattro mura inconsape-voli dell’enorme disfatta che attraversiamo.

FO: Non è la prima volta che ti confronti con il linguaggio te-levisivo...AT: Direi proprio di no. Esploro il mondo delle ombre televisive dal 1999, quando con i miei compagni di viaggio fondammo CandidaTV, la prima televisione elettrodomestica. Con Candi-daTV abbiamo cercato di “abbassare la televisione”, svelarne il meccanismo, scoprirne gli ingranaggi e abbattere il linguaggio unico del potere tecnologico alla ricerca di una polifonia cao-tica. Come CandidaTV abbiamo prodotto spot e documentari per cinema e TV e abbiamo partecipato con video e installa-zioni a eventi quali Transmediale di Berlino nel 2004, Ars Elec-tronica a Linz in Austria, la V Biennale Internazionale di Merida in Messico, la X Biennale di Istanbul, Manifesta7 e ISEA2009.

FO: Come entra la tecnologia nella tua vita quotidiana?AT: La tecnologia è la mia vita quotidiana. Mi serve a entra-re in contatto con persone che vivono lontanissime. È il mio strumento di lavoro. Fin dagli anni novanta ne ho esplorato le potenzialità creative e le ricadute sulla percezione del proprio corpo. Con due artiste straniere, Diane Ludin (Stati Uniti) e Francesca da Rimini (Australia) nel 1998 dammo il via ad una collaborazione “remota” con il progetto Identity Runner. Esplo-ravamo il modo in cui l’essere donna influenzava la tecnologia e viceversa. Con loro ho preso parte a mostre ed eventi quali il Festival Les Htmlles di Montreal, la mostra Cyberfem. Femini-sms on the electronic landscape presso L’Espai d’Art Contem-porani de Castello in Spagna, il Dart Film Festival a Sydney in Australia. Vivendo in tre continenti diversi internet era neces-sariamente l’unico modo che avevamo per comunicare tra di noi estendendo i nostri corpi attraverso le emozioni. Ognuna come un nodo di una rete: una rete umana di sangue e sogni.

Agnese trocchi vive e lAvorA A romA.

mostre selezionAte: 2009 - isea2009, ormeAu bAth

gAllery, belfAst; 2008 - maniFesta 7, bolzAno;

2007 - 10th internatiOnaL istanbuL biennaL,

istAnbul; 2006 - 1+1+1 Opere aziOni interventi,

fondAzione bAruchello, romA; cyberFem.

Feminisms On the eLectrOnic Landscape, espAi

d’Art contemporAni de cAstelló, cAstelló (es);

2005 - ars eLectrOnica 05, vincitrice di un premio

speciAle dellA giuriA, Ars electronicA center,

linz; interactiva’05: bienaL internaciOnaL

mérida, yucAtán; siLent*Observers, mmsu, fiume;

hacktivism in the cOntext OF art and media in

itaLy, kunstrAum kreuzberg/bethAnien museum,

berlino; 2004 - 9th art On the net ex pOsitiOn.

anti-viOLence, mAchidA city museum of grAphic

Arts, tokio; transmediaLe 04, house of culture,

berlino; art in the net, mAchidA museum of

grAphic Art, tokio; 2003 - Les htmLLes FestivaL de

cyberart 06, montreAl, Quebec city.

nellA suA bOîte custodisce un pezzo di dorsAle

AtlAnticA: fAscio di cAvi in fibrA otticA che unisce

le reti trA continenti.

frAncescA orsi dA Anni scrive per web-megAzine

e riviste mensili locAli, collAborAtrice di exibArt

e Arte e criticA, è iscrittA dAl 2008 All’Albo

dei pubblicisti. AttuAlmente collAborA con

l’AssociAzione fotogrAficA cAmerA21.

nellA suA bOîte custodisce il vinile di sei FOrte

papà, cAnzone cAntAtA dA giAnni morAndi.

Page 19: C'era una volta un futuro

Luca Cutrufelli, Tavola, 2010.Courtesy l’artista.

Page 20: C'era una volta un futuro

Francesca Orsi: Cosa simboleggia la tua instal-lazione?Luca Cutrufelli: Simboleggia tutto ciò che col tempo può inaridirsi, nel caso specifico di questa mostra il nostro paese, ma anche i singoli indivi-dui. Serbando sempre la speranza che qualcosa possa ridare vita e forza a tutto ciò.

FO: Questa collettiva ha come tema la crisi so-ciale, politica, culturale odierna. La nuova generazione – precaria - come si com-porta di fronte a tutto questo?LC: Perde entusiasmo. Si accontenta di sopravvi-vere e così facendo mette da parte sogni e spe-ranze, tutto ciò che rende uniche e vive le perso-ne, quindi il paese stesso. A discolpa di questa generazione posso dire che i modelli ai quali ispi-rarsi, soprattutto a livello politico, sono quasi nulli. Ma ciò non può rappresentare una scusante, il libero arbitrio lo abbiamo ancora.

FO: Tu come ti comporti di fronte a questa crisi?LC: Porto avanti le mie idee, i miei sogni, facendo sacrifici, cerco di rispettare una mia morale. Tento di essere libero di pensiero.

FO: Parlami del tuo percorso artistico.LC: In realtà è un percorso iniziato da poco più di un anno. Avrei voluto che cominciasse appena uscito dal liceo, frequen-tando un’accademia, ad esempio. Purtroppo, per una serie di motivi, ciò non è stato possibile e mi sono iscritto all’università della mia città, Messina, Facoltà di Ingegneria Edile. Ora mi mancano due esami per laurearmi. Da poco più di un anno, per l’appunto, mi sono trasferito a Roma, dove ho diviso il mio tempo tra mostre, lavoro in studio e fa-cendo da assistente per alcuni artisti, Bruna Esposito, Maurizio Mochetti e Marco Tirelli, per il quale lavoro tuttora.

FO: C’è qualche artista al quale ti ispiri nel tuo lavoro?LC: Non direi. Ai tempi della scuola ho iniziato a disegnare, o a dipingere, perché era il mezzo più naturale per esprimermi, non perché avessi visto un lavoro fatto da qualcun altro: frequenta-vo il liceo scientifico, di arte se ne vedeva ben poca. Anche ora, ciò che faccio, i soggetti che ritraggo, la tecnica che uso – per lo più il carboncino – sono solo il modo più na-turale per esprimere i miei pensieri. Però se devo fare il nome di un artista che ammiro, che quasi mi provoca imbarazzo nel vedere i suoi lavori, anche se può sembrare banale, quello è Vincent Van Gogh.

FO: Questa è la tua prima installazione. È stato difficile per te esprimerti attraverso questo mezzo?LC: In realtà non troppo, l’idea che ne è venuta fuori comunque rappresenta una parte del mio percorso di vita, mi appartiene totalmente.

lucA cutrufelli (messinA, 1982)

vive e lAvorA A romA.

studiA ingegneriA presso l’università di messinA

e freQuentA lo studio del pittore vincenzo celi.

nel 2008 decide di dedicArsi completAmente

All’Arte e si trAsferisce A romA, lAvorAndo come

Assistente per brunA esposito e mAurizio mochetti.

AttuAlmente lAvorA con mArco tirelli. c’era una

vOLta un FuturO è lA suA primA esposizione.

nellA suA bOîte custodisce unA gocciA d’AcQuA.

frAncescA orsi dA Anni scrive per web-megAzine

e riviste mensili locAli, collAborAtrice di exibArt

e Arte e criticA, è iscrittA dAl 2008 All’Albo

dei pubblicisti. AttuAlmente collAborA con

l’AssociAzione fotogrAficA cAmerA21.

nellA suA bOîte custodisce il vinile di sei FOrte

papà, cAnzone cAntAtA dA giAnni morAndi.

di Francesca Orsi

intervista a:luca cutrufelli

Page 21: C'era una volta un futuro

Thom

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ta.

Francesca Orsi: La tua operazione appare come una cartina geografica, un atlante...Thomas Bugno: Si, ci sono arcipelaghi, golfi, penisole... ma al di là delle forme che sono evocate ciò che mi interessa è come una traccia minima possa essere in dialettica con l’atto stesso della creazione. È come se ci fosse una suggestione immanente che è un tutt’uno con l’opera. Come dice Stephen Mitchell, riguardo al Tao Te Ching: «il gioco conduce il gioco stesso, la poesia scrive la poesia; non possiamo veramente distinguere la danzatrice dalla danza». Il pensiero di Laozi è stato determinante per questo intervento.

di Francesca Orsi

intervista a:tHomas BuGno

Page 22: C'era una volta un futuro

FO: In che modo è partita la tua operazione? TB: Ho ristuccato i muri della stanza e con un tratto su parete ne seguo tutte le irregolarità che gli conferiscono la sostanza formale. È una ricerca sulla “conformazione dei limiti”, in qualche modo. FO: Trai dal materiale stesso il contenuto del tutto quindi? TB: Si. È la rappresentazione dell’elemento gene-rativo. È il tratteggiare i limiti di un qualcosa che apparentemente appare unico, compatto e vuoto. In realtà, non lo è.

FO: Quali gli studi che ti hanno influenzato? TB: Oltre al taoismo, sto studiando anche l’esistenzialismo e nello specifico sto approfondendo le possibilità di “un fare au-tentico” nell’arte come nelle interazioni sociali in Occidente. È un’indagine complessa, perché l’autentico tende a covare i germi della propria sconfitta. La prassi artistica è un veico-lo “autenticante”? In che modo si può preservare una certa purezza di spirito? Come ci si difende dal condizionamento dell’ideologia? L’autenticità è essa stessa un’ideologia? Mi ri-trovo spesso a pormi sempre più domande e a trovare sempre meno risposte. Suppongo che sia una consolazione, in qual-che modo. Del resto la domanda è un assetto aperto, un varco, una possibilità. Anche se essa porta all’errore, esso sarebbe (probabilmente) autentico. Cosa c’è di più autentico dell’er-rore?

FO: Hai lavorato con il video e il suono in passato. Come pro-cede il tuo lavoro? TB: Per quest’operazione vorrei dare una parte importante all’elemento sonoro e alla luce. Sono entrambi elementi che si prestano perfettamente. Continuo a produrre video e musica, attingendo dalle suggestioni più diverse.

FO: Quali sono i tuoi riferimenti artistici? TB: L’espressionismo astratto, Burri, Manzoni e l’arte del se-condo dopoguerra. Per quanto riguarda le influenze musicali direi tutta la “drone music”, Ikeda e Pan Sonic, soprattutto per l’utilizzo delle bassissime frequenze, da cui ho attinto per le audio installazioni degli ultimi anni.

FO: Come si inserisce il tuo lavoro all’interno di questa col-lettiva?TB: Ho l’impressione che nei rapporti di potere, nel “gioco” delle interazioni tra gli attori sociali e nelle prospettive che sono offerte realmente a ciascuno manca elasticità e mobilità. Cre-do che sia così anche altrove, ma ho l’impressione che, reto-ricamente, ci siano giorni per l’avvenire (nella sua dimensione temporale), ma non un “futuro” in senso proprio.

thomAs bugno (romA, 1982) vive e lAvorA A romA.

mostre selezionAte: 2008 - cOntatti, cAmpo s.

mArgheritA, veneziA; 2007 - de-FOrma, cAstello

di cAstelbAsso, terAmo; 2006 - One artisLand

exhibitiOn, 911 gAllery, londrA (uk); WOrds and

sOunds and crazy dOLLs, lA portA blu gAllery,

romA; the 0 in three, cineclub detour, romA;

1+1+1...Opere aziOne interventi, fondAzione

bAruchello, romA; esercizi FaciLi per usi diFFiciLi,

fondAzione bAruchello, romA.

nellA suA bOîte custodisce “the greAt purpose is

the expAnsion of wonder”.

frAncescA orsi dA Anni scrive per web-megAzine

e riviste mensili locAli, collAborAtrice di exibArt

e Arte e criticA, è iscrittA dAl 2008 All’Albo

dei pubblicisti. AttuAlmente collAborA con

l’AssociAzione fotogrAficA cAmerA21.

nellA suA bOîte custodisce il vinile di sei FOrte

papà, cAnzone cAntAtA dA giAnni morAndi.

Page 23: C'era una volta un futuro

Alessandro Giuliano, AIR Installation, 2010, materiali vari, dimensioni variabili.Courtesy Galleria Overfoto, Napoli.

Page 24: C'era una volta un futuro

Chiara Vigliotti: Iniziamo da una cosa recente, l’opera che presenti in questa mostra... AIR... Perché? Cosa rappresenta all’interno della tua ricerca?Alessandro Giuliano: AIR arriva dopo Ground, un lavoro in cui racconto della terra, invece AIR è una proiezione verso un altro elemento. Questo tema del cambiamento di elemento ha un’attinen-za precisa, anche politica, sulla trasformazione storica che stiamo attraversando, una svolta che passa attraverso una crisi. Se stiamo attraver-sando un momento di crisi (o un cambiamento) è sicuramente a causa di una serie d’interazioni sociali, economiche e politiche di cui siamo gli ultimi fruitori. Se davvero arriveremo a un cam-biamento a causa della crisi, ciò deriverà da una funzione o disfunzione del sistema in cui viviamo e abbiamo vissuto e nell’intento di mostrarlo, ho analizzato un aspetto specifico di questo cambia-mento, il mezzo, l’elemento che cambia, a favore di qualche altra cosa...

CV: Il mezzo, che si staglia nell’etere in questa serie di immagi-ni, sono delle antenne. Perché?AG: Andavo incontro a un cambiamento, stavo lasciando Roma. Volevo portarne via con me un’immagine: fuori dalla mia finestra c’erano queste antenne, malinconiche, mi sembravano capelli al vento, mi piaceva l’idea di leggerezza che mi davano, proiettate nel cielo, non le vedevo come cose terrene.

CV: Cosa avranno mai allora di così significativo delle antenne sui palazzi?AG: Il pensiero alle antenne, dopo lo sguardo malinconico dal-la finestra, è tornato guardando di sfuggita uno spot, come sai io non possiedo una televisione, mi sarà capitato di vederlo in un bar o in un ristorante. Parlava del cambiamento della tecno-logia televisiva facendo un parallelo col passaggio dal bianco e nero al colore e poi al telecomando, finendo col dire che questo passaggio al digitale terrestre non è che un ulteriore miglioramento della televisione. Quest’idea mi ha fatto cam-biare la percezione che avevo delle antenne, che invece mi apparivano così inermi: abusate e sfruttate prima e adesso in via d’estinzione.Da qui è nata la ricerca di un simbolo del cambiamento, la tecnologia che migliora la vita dei suoi utenti... il segnale televi-sivo non entra più dall’aria ma da cavi, da un sistema capillare strutturato e controllabile... non so, mentre prima l’antenna si stagliava in un ambiente libero, che era l’aria, ora che tutto do-vrà passare attraverso il sistema arterioso degli impianti cablati mi sembra condizionabile, riduce la mia percezione di libertà.

CV: In queste immagini da scoprire, questa volta chinandosi sul tavolo, come sempre nei tuoi lavori fino ad oggi, c’è tanto cielo perché?AG: Per me il cielo è il vuoto. Questa ricerca sui cieli è sinto-matica di un processo di svuotamento, di liberazione. Volevo rappresentare questo mio cambiamento. Foto di vuoto, di leg-gerezza, proiezione verso un elemento etereo e in quest’opera in particolare: impegno, lavoro, straniamento che ha comporta-to e comporterà in me e negli altri... la crisi da affrontare.

AlessAndro giuliAno (nApoli, 1974)

vive e lAvorA trA nApoli e romA.

mostre selezionAte: 2009 - seLF cOntained,

gAlleriA overfoto, nApoli; 2008 - scie di passaggi,

gAlleriA le opere, romA; 2007 - 24phOtOgraphy,

gAllery. cAnAry whArf, londrA;

2006 - 24phOtOgraphy, trAfAlgAr hotel, londrA;

2004 - biennaLe deL teatrO, veneziA;

2003 - gLamnatic LOL mOdartedesign, romA.

nellA suA bOîte custodisce il suo cellulAre.

chiArA vigliotti (1980) criticA e curAtrice

indipendente vive e lAvorA trA romA e new york.

nellA suA bOîte custodisce i suoi occhiAli dA vistA.

di Chiara Vigliotti

intervista a:alessandro Giuliano

Page 25: C'era una volta un futuro

Christian Niccoli, Planschen (Splash), 2008, 16mm riversato su DV, 5’05’’.Courtesy l’artista.

di Stefano Elena

intervista a:cHristian niccoli

Stefano Elena: Nel tuo lavoro ti concentri sulle relazioni uma-ne, dalla dimensione domestica a quella comunicativa, il sen-so di smarrimento che si prova nei momenti di incertezza e cambiamento. Nonostante questo le situazioni in cui le traduci sono molto dirette e leggibili. È un lavoro di lunga limatura o la traduzione di un attimo? Christian Niccoli: È la traduzione di un attimo, di un’osserva-zione veloce ma che poi mi rimane in mente spesso a lungo. Per esempio il progetto Der kollektive Stein [Il peso collettivo] al quale sto lavorando ora l’ho concepito nel 2006. Dalla scin-tilla che ha portato all’idea sono passati anni, nei quali ho lima-to l’immagine (spesso metaforica) che comunica questa idea.

Page 26: C'era una volta un futuro

SE: Risiedi a Berlino da diversi anni ormai, il cambiamento è palpabile. Ritieni di aver fatto il passo giusto o potrebbe darsi che la città della polvere e delle candele servite a tavola si sia “congelata”, artisticamente parlando? CN: Innanzitutto direi che ogni città dell’arte, tranne New York forse, si trova in un momento o crescente o decrescente del-la sua storia. Per quanto riguarda Berlino il crescendo vero e proprio è a mio avviso già avvenuto negli anni ottanta e novan-ta. Ciò che abbiamo ora è la versione establishment di quegli anni. La scena a mio avviso non si è congelata, ma bensì soli-dificata. Mi sembra che ora ci sia una speculazione da parte di collezionisti e galleristi più mirata e meno casuale. Negli anni novanta credo che Berlino fosse meno “calcolata” e più allo sbaraglio. Basti pensare alla Kunst-Werke, fondata negli anni novanta da un gruppo di studenti e ora istituzione importante.

SE: Credi che Berlino sia una città fagocitante o che lascia comunque spazio ai rapporti umani più di altre? Nonostante la sua continua metamorfosi verso il futuro...CN: Innanzitutto bisogna chiarire di quale Berlino si sta parlan-do. Noi artisti e creativi viviamo in un mondo parallelo alla Ber-lino dei berlinesi, con i quali si ha poco a che fare. All’interno di questo circuito molto “international” credo che ci sia molto spazio per i rapporti umani, ma che questi siano spesso molto superficiali in quanto sono nel “non fisso”, quindi vanno e ven-gono. Se non si hanno amicizie veramente strette e durature con molta gente non si fa altro che andare a feste assieme e basta, e il rapporto umano si riduce a questo.

SE: Anche se affrontiamo problemi quotidiani e individuali la percezione è che siano comunque prerogative di tutti, di una massa specchio della società in cui è immersa. La tua opera Splash può considerarsi la parafrasi dell’idea di società liquida di Bauman?CN: Bauman mi ha influenzato molto, in quanto un eccellente teorico del Postmodernismo. In effetti Planschen [Splash] è un lavoro che racconta in maniera molto metaforica la mia con-dizione Berlinese, ossia l’ondeggiare senza meta nell’oceano assieme ad altre migliaia di persone.

SE: Si può galleggiare sul futuro?CN: Temo proprio di no, anche se per me l’ideale sarebbe tro-vare un compromesso tra il “fisso” e il “non fisso”.

SE: Cosa custodiresti nella tua boîte personale?CN: Un salvagente, non si sa mai.

SE: La società contemporanea caratterizzata dal movimento frenetico, da incontri continui, ci ren-de sempre più impermeabili e assuefatti in un cer-to senso... o può ampliare le possibilità creative? Il non fisso genera instabilità o occasioni?CN: Per quanto mi riguarda il “non fisso” genera instabilità. Questa instabilità può, per un certo periodo e fino a un certo punto anche creare oc-casioni e far fare esperienze che nel “fisso” non si avrebbero. Il “non fisso” ha però un problema. È come avere avuto tante relazioni di un mese. Ho notato che raramente si arriva allo strato essen-ziale delle cose.

christiAn niccoli (Alto Adige, 1976)

dAl 2002 vive e lAvorA A berlino.

hA studiAto All’AccAdemiA di belle Arti di firenze,

milAno e viennA. hA pArtecipAto Al corso superiore

di Arti visive dellA fondAzione Antonio rAtti di

como, AllA residenzA Al künstlerhAus bethanien

di berlino ed è stAto borsistA A cittAdellArte

fondAzione pistoletto di biellA.

mostre selezionAte: 2009 – 8a baLtic biennaLe OF

cOntempOrary art, museo di Arte contemporAneA,

museo nAzionAle, stettino, (pl); micrOWave

internatiOnaL neW media and arts FestivaL, pArA

site spAce, hong kong; Frames FrOm the reaL: 11

videO investigatiOns OF sOciety in Our trOubLed

times, lAzniA centre for contemporAry, dAnzicA

(pl); 2008 - videOrepOrt itaLia 06_07, gAlleriA

comunAle d`Arte contemporAneA, monfAlcone;

videOart yearbOOk, università di bolognA e

gAlleriA civicA d`Arte contemporAneA, trento;

2007 - videOrepOrt itaLia 04_05, museo di Arte

modernA e contemporAneA, fiume;

2006 - 35 / 65+ erzähLungen, kunsthAus grAz, grAz.

nellA suA bOîte custodisce un sAlvAgente,

non si sA mAi…

stefAno elenA (1975) critico e curAtore

indipendente. AttuAlmente vive e lAvorA trA romA

e berlino. nellA suA bOîte custodisce unA scortA

non cedibile di AutonomiA AffettivA e unA fiAlA di

estrAtto di distAnzA.

Page 27: C'era una volta un futuro

Elettrophonica, Grounded Circles, 2010, materiali vari, dimensioni ambiente. Courtesy l’artista.

di Stefano Elena

intervista a:elettropHonica

Stefano Elena: Chi o cosa è Elettrophonica?Valentino Diego e Francesco Landolfi: ELETTROPHONICA è un progetto che nasce con lo scopo di individuare e co-struire apparecchiature meccanico-elettroniche che generino suoni. Il nostro obiettivo è quello di creare, attraverso questi congegni in continua evoluzione e trasformazione, dei luoghi sonori sospesi tra l’instabile e l’ossessivo.La nostra ricerca muove dalla nostra personale interpretazione del principio dell’elettrofonia, un fenomeno che si manifesta attraverso la conversione diretta, per trasduzione, di energia elettromagnetica di radiazione a bassissima frequenza in suo-ni udibili, onde elettromagnetiche di tipo ELF/VLF (Extremely/Very Low Frequency, fra 1 Hz e 100 KHz) che vengono tra-sformate in onde sonore udibili dall’orecchio umano, a causa dell’interazione con il testimone e con l’ambiente circostante.

Page 28: C'era una volta un futuro

SE: Per l’occasione avete ideato un’installazione sonora fatta dei suoni e rumori partoriti dallo spazio in cui verranno diffusi. Quale pertinenza esiste tra la differita, il fuori sincrono e la tran-sitorietà circense dei tempi in corso?VD: “Con il termine differita si intende quel particolare metodo di trasmissione televisiva via cavo o via etere che non avviene contemporaneamente alla realizzazione della trasmissione o allo stesso evento mediatico.”“Fuori sincrono è la mancata coordinazione rispetto al tempo.”Per la transitorietà circense non ho trovato nulla...FL: Il progetto è rappresentato da una complessità di cose di cui i suoni catturati dallo spazio fanno parte solo minimamen-te… la cosa che ci interessa è di individuare dei generatori di suono, dei dispositivi nascosti, e lì nello spazio ne abbiamo trovati alcuni che facevano al caso nostro... Quindi non ci in-teressa focalizzare l’attenzione sui concetti di differita o fuori sincrono, quello che è importante per noi è generare/catturare e soprattutto “gestire” delle frequenze che possano alla fine raggiungere un determinato stato sonoro.

SE: Rapporto con la dimensione live? Un pubblico che possa constatare la presenza dell’autore è l’opposto di una creatività condotta dietro le quinte.VD: La dimensione live è per me fondamentale, perché le no-stre esecuzioni hanno senso in quel determinato posto e in quel determinato momento. Sono una sorta di “atti unici”, che rispondono al principio del hic et nunc.FL: Il nostro lavoro è costituito in gran parte da delle macchine che ci auto costruiamo, che non avrebbero motivo di essere senza di noi. Esiste una condizione istantanea della generazio-ne dei suoni e della loro elaborazione che ci lega a loro, una condicio sine qua non (visto che abbiamo scomodato il latino).

SE: Credi che il futuro si ricordi tutto?VD: Quando il futuro viene filtrato dalla storia non tutto passa.FL: Credo che sia impossibile ricordare tutto, lo credo ferma-mente... penso però che certe cose anche se possono scom-parire a livello storico, restano ad un livello nascosto, quasi inconscio, nella memoria delle persone, e prima o poi riemer-gono.

SE: Il recupero diventa produttore e poi divulga-tore di sonorità, alla maniera di istituzioni come gli Einstürzende Neubauten. Può avere un senso oggettivo, oggi, oltre a quello commemorativo e/o sollecitante, reimpiegare il “già stato”?VD: Di fronte a un prodotto intelligente, di qualità, si riesce sempre a trovare un senso oggettivo, ov-viamente credo che non si possa prescindere dal nostro passato. Il recupero e il riciclaggio come lo intendi tu, non è il punto focale della nostra ricerca, ma con determinate ‘istituzioni’ possiamo sicuramente condividerne le attitudini.FL: Se ha ancora senso oggi prendere una chitar-ra elettrica e mettere un jack nell’amplificatore...

elettrophonicA è il progetto che nAsce A romA,

nel 2008, dAllA collAborAzione trA frAncesco

lAndolfi (cAsertA, 1978) e vAlentino diego (ciriè,

torino 1978).

nel 2009 reAlizzAno pF 2950, performAnce sonorA

nell’Ambito di ti cOn zerO, nAto dA un’ideA di

AlessAndro sciArAffA orgAnizzAto dA nietzsche

Fabrik, torino.

vAlentino diego nellA suA bOîte custodisce lA

certezzA di poter sempre dire «in ogni cAso nessun

rimorso», frAncesco lAndolfi unA mAtitA e dei

fogli di cArtA.

stefAno elenA (1975) critico e curAtore

indipendente. AttuAlmente vive e lAvorA trA romA

e berlino. nellA suA bOîte custodisce unA scortA

non cedibile di AutonomiA AffettivA e unA fiAlA di

estrAtto di distAnzA.

Page 29: C'era una volta un futuro

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ista

.

di Stefano Elena

intervista a:marco fedele di catrano

Stefano Elena: Chi sei?Marco Fedele di Catrano: Marco Fedele di Catrano. Il mio è un lavoro installativo e gli strumenti che utilizzo variano dalla fotografia al video, fino a una rimodellazione dello spazio archi-tettonico. Il centro della mia ricerca consiste in una rielabora-zione personale del canone spazio-temporale e in una riconsi-derazione dell’idea di confine, sia questo legato allo spazio, al tempo, all’architettura o alla natura.

Page 30: C'era una volta un futuro

SE: Credi esista un modo, magari anche qualcuno di più, per disporre al meglio il presente nei riguardi del futuro?MFC: Sicuramente degli strumenti ci sono e in parte vengono utilizzati. Si contrappongono però due mondi e da una parte abbiamo sempre il Far West. Molte delle scelte politiche ed economiche, a livello nazionale e internazionale, non fanno che riscaldare gli opposti. La crisi economica mondiale ha fatto poi sicuramente la sua parte e sul piano politico l’Iran oggi non mette meno paura della guerra in Bosnia-Erzegovina, nel Ko-sovo e in tutte le altre regioni in guerra.L’Europa sembra non essere in grado di creare un ribaltamento e rimane troppo collegata alla logica della vecchia Europa. Si dovrebbe probabilmente invertire il ponte di Messina e costru-irne uno più lungo verso l’Africa. Si creerebbe così un sistema fatto, non più di colonizzazioni indebite, ma di scambio e di guadagno reciproco. Un domani, per ironia della sorte, l’immi-grazione potrebbe cambiare senso di marcia, non più da sud a nord, ma al contrario da nord a sud, e questo probabilmente sarà il nostro futuro.

SE: Come reputi gli ambienti esistenziali del (fu?) belpaese per il prossimo avvenire?MFC: Fu belpaese è in parte vero. L’Italia sembra stancamente afflosciarsi su se stessa, ma a sorreggerla rimane una parte del paese.

SE: Da una porta si entra o si esce? MFC: Puoi entrare e uscire dalla stessa porta. Il problema è quando rimane chiusa e non c’è più passaggio.

SE: Il ruolo dell’artista può costituire una posizione di comodo a proposito del mondo che verrà?MFC: La posizione di un artista non cambia nel bene e nel male; sicuramente in molti casi non sono posizioni di comodo. Chi occupa il potere quasi mai prende spunto dall’arte. Questo succede nelle epoche floride e la nostra non appartiene alla categoria. Oggi mancano i soldi e spesso manca la fantasia e l’arte ha una capacità che le discipline più razionali non hanno: vedere quello che non c’è, coniugare scelte apparentemente scorrette, che forniscono però chiavi diverse.

SE: Cosa custodiresti nella tua boîte personale?MFC: Probabilmente niente. Si viaggia più leggeri senza oggetti.

SE: La rivoluzione dell’ambiente che hai attuato per la mostra potrebbe leggersi come un’opzione di revisione del dato fornito. Quali le conseguen-ze del gesto?MFC: Il corridoio in cui le porte, rimosse dallo spazio espositivo, vengono sistemate obliqua-mente è un’intercapedine all’interno del sot-tosuolo del palazzo. Questo corridoio sembra costituito da due architetture che si incastrano l’una nell’altra, dando l’impressione che si stringa a mo’ di pressa. Le porte diventano un elemento di contrapposizione tra le due architetture e un fattore di resistenza, assumendo un significato altro rispetto al quotidiano.

mArco fedele di cAtrAno (romA, 1976)

vive e lAvorA A romA.

mostre selezionAte: 2009 - ab OvO. aLL’Origine

deLLa FOrma, studio AbAte, romA; sO Far sO West,

stAndArd-deluxe, losAnnA (ch); usine de rêve,

26cc, romA; beWare OF the WOLF/3, AmericAn

AcAdemy, romA; 2008 - abbiamO FattO bene ad

uscire, spAc, buttrio; 2007 - perpetuum mObiLe,

gAlleriA nextdoor, romA; hai vistO mai #4, officinA

14, romA; gemine muse, Jeu de L’hOmbre (LO

sviLuppO deLLe virtù cOrtesi), museo nApoleonico,

romA (it); spazi incOrretti, fondAzione pAstificio

cerere, romA; 2006 - sLeep - nO sLeep, chiesA del

sAnto volto di gesù, romA

stefAno elenA (1975) critico e curAtore

indipendente. AttuAlmente vive e lAvorA trA romA

e berlino. nellA suA bOîte custodisce unA scortA

non cedibile di AutonomiA AffettivA e unA fiAlA di

estrAtto di distAnzA.

Page 31: C'era una volta un futuro

Marco Di Giovanni, Altalena [progetto], 2009, ferro, dimensione ambiente.In mostra anche Controllore, 2009, ferro, lenti d’ingrandimento, specchio, stucco.Courtesy l’artista.

Page 32: C'era una volta un futuro

Stefano Elena: Marco, qual è stato il tuo per-corso artistico? Quali sono stati i tuoi punti di riferimento?Marco Di Giovanni: Studi scientifici, tanto dise-gno come formazione. Ma i punti di riferimento sono tutti nella letteratura, ciò che più mi piace, a differenza dell’arte contemporanea che trovo “freddina”.

SE: Nell’era della smaterializzazione dell’opera d’arte e della digitalizzazione globale tu hai scelto di lavorare con materiali pesanti che recuperi dalle discariche? Sei un nostalgico della materia oppure non hai fiducia nelle nuove tecnologie?MDG: Siamo materia quindi nostalgia poco, e tristemente am-metto che ormai senza navigatore satellitare sarei perduto in qualsiasi città.

SE: Le tue sculture si trasformano, attraverso l’uso di lenti, in meccanismi che alterano la consueta percezione della realtà in generale e dello spazio in particolare. In occasione della mostra hai scelto di installare un’altalena “impossibile” collo-candola in uno degli ambienti più desolanti di tutto lo spazio. Il tema della mostra si interroga sulla possibilità di un futuro, dobbiamo preoccuparci?MDG: Tranquilli che tanto il futuro c’arriva comunque. Se ci stai a pensare come minimo ansia e panico; io invece deliberata-mente irresponsabile ho pure fatto un figlio come gli animali.

SE: Merleau-Ponty ha detto che «l’artista è colui che fissa e rende accessibile ai più ‘umani’ tra gli uomini lo spettacolo di cui fanno parte senza vederlo». Esiste un punto di vista pre-ferenziale o una particolare predisposizione per leggere il tuo lavoro e svelare l’inganno della realtà-spettacolo?MDG: La predisposizione migliore è non essersi mai occupati di arte contemporanea. A un alto e sterile riferimento al già visto, già fatto, ho sempre preferito il «Ma cos’è quella roba lì? ‘na caldaia che te guarda?».

SE: Cosa custodiresti in una boîte personale?MDG: I grandi romanzi dello scorso millennio.

mArco di giovAnni (terAmo, 1976)

vive e lAvorA trA imolA e solArolo.

mostre selezionAte: 2009 - pLay statiOn,

complesso cA’ dA noAl, treviso; sight 09/010,

museo lAborAtorio/ex mAnifAtturA tAbAcchi, città

sAnt’Angelo; evangeListi vs di giOvanni, dreAm

fActory - lAborAtorio Arte contemporAneA,

milAno; avvertenze artistiche, mercAti di

trAiAno, romA; parcO tematicO: marcO di

giOvanni/beatrice pasquaLe, giArdini sAlvi,

vicenzA; 2008 - riFLessiOni geOmetriche, gAlicA

ArtecontemporAneA, milAno; tempO, cOmpetiziOne

e perFOrmance, nosAdellA.due, bolognA; 2008 -

6a biennaLe internaziOnaLe di scuLtura deLLa

regiOne piemOnte - premiO umbertO mastrOianni,

AccAdemiA AlbertinA di belle Arti, torino; 2007

- marcO di giOvanni, pOrteñO de rOmaña, 41

ArtecontemporAneA, torino; strade bLuarte,

mAmbo, bolognA; 2006 - aLLegra cOn briO, chiesA

del suffrAgio, cArrArA; marcO di giOvanni - di Là,

il chiostro Arte contemporAneA, sAronno.

nellA suA bOîte custodisce i grAndi romAnzi dello

scorso millennio.

stefAno elenA (1975) critico e curAtore

indipendente. AttuAlmente vive e lAvorA trA romA

e berlino. nellA suA bOîte custodisce unA scortA

non cedibile di AutonomiA AffettivA e unA fiAlA di

estrAtto di distAnzA.

di Stefano Elena

intervista a:marco di Giovanni

Page 33: C'era una volta un futuro

Michele Giangrande, MADE IN ITALY - La lettera di Celli [particolare], 2010, lettera incisa su nastro per etichettatrice, dimensioni ambiente.Courtesy l’artista.

di Stefano Elena

intervista a:micHele GianGrande

Stefano Elena: Il futuro non è più garantito, per nessuno. Que-sta nuova condizione è vissuta da tutti in modo negativo, men-tre gli artisti vivono da sempre il processo creativo in parallelo a uno stato di precarietà. La creatività – intesa come stile di vita – può davvero essere un antidoto alla crisi? Michele Giangrande: La “crisi” ha sempre fatto parte della vita dell’essere umano, fin dai suoi primi passi sulla terra. Aveva solo nomi diversi. Un giorno “fame”, un giorno “Napoleone”, un giorno “Piazza Tian’anmen”, e così via. A ogni crisi è corri-sposta una ripresa o rinascita. Un ciclo “naturale”, come tanti altri, che si ripete. L’artista, anch’egli essere umano, forse più essere che umano, ha sempre fatto parte di queste fasi con il privilegio, per così dire, di vivere una condizione intellettuale e psicologica alternativa. Ciò ha fatto sì che spesso si trovasse nelle vesti di spettatore e cronista del proprio tempo, filtrando col proprio Essere creativo, il mondo circostante creandone uno nuovo, parallelo e forse anche migliore, divenendone pro-tagonista. L’artista cammina su di un filo da sempre. È il tipo che scherza col fuoco. L’artista è abituato, con la creatività, a combattere la propria di crisi, quella interiore, con la speranza, che annullandola, possa “fermare il tempo” e, almeno per un solo istante, provare la sensazione di aver contribuito a un mi-glioramento globale. Per questa ragione il vero artista lavora incessantemente e non si spreca in quanto a coinvolgimento emotivo. Lo fa per moltiplicare il più possibile quell’istante e diventare, appunto, per usare le tue parole, un antidoto alla crisi... qualsiasi nome porti.

Page 34: C'era una volta un futuro

SE: I tuoi lavori sono reinterpretazioni concettuali di oggetti d’uso comune. Quest’operazione attinge a un repertorio sto-rico e culturale molto ampio. Come si pone la tua ricerca nei confronti di una tradizione così forte come quella del ready-made duchampiano?MG: Guardando i miei lavori è difficile non pensare ai Ready Made di origine dadaista e duchampiana e all’object-trouvé di matrice surrealista. Le mie operazioni sono il risultato dell’as-semblaggio di oggetti d’uso riconsiderati, ma anche la materi-ca testimonianza di un cortocircuito interpretativo. Ogni ogget-to perde la propria funzione. Pennelli, cravatte, metri, candele, riviste diventano mezzi creativi. Sono gli oggetti attraverso i quali è possibile realizzare l’opera d’arte, ma non la rappresen-tano (sotto questo punto di vista si differenziano dai Ready Made). Come diceva Marcel Duchamp: Non c’è soluzione perché non c’è problema.

SE: Che ruolo gioca la manualità nella tua ricerca?MG: È evidente, guardando i miei lavori, che la manualità rive-ste un ruolo spesso determinante. In molti casi è dato caratte-rizzante, ma non vincolante. Provo un gran piacere nel realiz-zare con le mie mani le mie opere, ma al tempo stesso non mi pongo assolutamente il problema del “fatto a mano”. Spesso la mente vede cose che poi la mano non può realizzare. Oggi-giorno il problema è relativo. Sono circondato da professionisti (falegname, fabbro, neonista, collaboratori ecc.) che risolvono ciò che da solo non potrei mai fare. C’è sempre qualcuno che può arrivare dove tu non puoi. Un bravo artista riesce a gesti-re tutti questi elementi convogliandoli verso il risultato finale: l’opera d’arte.

SE: Hai scelto di imprimere sul tricolore la lettera di Pierluigi Celli, pubblicata di recente su Repubblica, che ha suscitato dibattiti e polemiche. Credi che l’arte debba prendere parte attivamente nel dibattito socio-politico?MG: Credo solo che l’arte non debba risparmiare niente e nes-suno. L’arte è coraggio. L’arte è libertà.

SE: Cosa custodiresti in una boîte personale?MG: Un minuto di silenzio.

michele giAngrAnde (bAri, 1979)

vive e lAvorA A bergAmo.

mostre selezionAte: 2009 - micheLe giangrande,

museo pino pAscAli, polignAno A mAre; a sud

(deL mOndO), ArsmAc ArsenAle mediterrAneo

delle Arti contemporAnee, tArAnto; premiO

Lum, primA edizione, teAtro mArgheritA, bAri;

arte pOLLinO - a cieLO apertO, instAllAzione

permAnente in lAtronico; ad Librandum, cAsA

cogollo, vicenzA; 2008 - super teLe, teAtro

korejA (foyer), lecce; apuLian rainbOW, nAtionAl

gAllery, cifte AmAm, skopje (mk); xiii biennaLe dei

giOvani artisti d’eurOpa e deL mediterraneO

2008, fierA del levAnte, bAri; summer kisses,

museo lAborAtorio, città sAnt’Angelo e pAlAzzo

lucArini contemporAry, trevi; 2007 - skin, gAlleriA

pAolo erbettA Arte contemporAneA, foggiA; sOcha

a ObJekt (scuLptur and ObJect), gAlleriA z,

brAtislAvA (sk).

nellA suA bOîte custodisce un minuto di silenzio.

stefAno elenA (1975) critico e curAtore

indipendente. AttuAlmente vive e lAvorA trA romA

e berlino. nellA suA bOîte custodisce unA scortA

non cedibile di AutonomiA AffettivA e unA fiAlA di

estrAtto di distAnzA.

Page 35: C'era una volta un futuro

di Stefano Elena

intervista a:dario d’aronco

Stefano Elena: Attualmente vivi in Olanda. Scelta personale o professionale?Dario D’Aronco: Le motivazioni sono del tutto personali, ma hanno definitivamente riscontri professionali. Ho scelto l’Olan-da perché volevo un luogo dove poter percepire una diversa temperatura sia climatica sia culturale, le differenze con l’Italia sono tante ma si possono trovare dei punti di unione. Credo che tra italiani e olandesi ci sia una sorta di attrazione esotica, nel senso che da secoli ci osserviamo a vicenda ma senza mai comprenderci realmente, una situazione che può portare ancora oggi a sviluppi interessanti.

Nome Cognome, Titolo Opera, Anno.Courtesy l’artista.

Page 36: C'era una volta un futuro

SE: La stanza che hai allestito in occasione della mostra è de-primente, rispecchia bene la situazione socio-politica attuale. Il video trasmesso dal monitor è un loop senza fine. C’è una via di fuga?DD: Quando penso alla fuga penso sempre a Fuga da Alca-traz, il famoso film degli anni settanta, potremmo immaginare che il protagonista fuggendo dal carcere incontri per caso i protagonisti di un altro film molto famoso, Matrix, pensate un po’ che delusione che potrebbe avere quest’uomo venendo a conoscenza di Matrix.

SE: L’utilizzo di tecnologie desuete e riciclate è una della ten-denze più diffuse tra i giovani artisti. Come spieghi questo at-teggiamento di fronte alle potenzialità dei nuovi media?DD: Questa del riciclaggio è un strategia artistica abbastanza consolidata, essa prende spunto da un’ idea di ecologia che si manifesta attraverso l’uso del collage il quale presuppone un’idea di vissuto. Il vissuto “prima” è una modesta garanzia di un passaggio temporale che porterà al domani ed in quest’otti-ca il recupero garantisce continuità e da al pensiero un gravità su cui svilupparsi. Non necessariamente il termine nuovo deve presupporre una progressione che si consolida in una meta (un’utopia) ovvero un concetto di evoluzione che va da una fase 1 a una fase 10, perché ciò implicherebbe una visione ideologica del futuro. Il “nuovo media” inteso come sviluppo tecnologico ha perso il suo carattere ideologico e quindi la sua estetica creata dalla sua proiezione verso il futuro. La tecnolo-gia evolve senza dimostrazioni di forza, senza sviluppare una vera e propria estetica, ossia sono finiti i tempi di Star Trek, in quanto anche Star Trek era una modo aggressivo/frontale di intendere il futuro in cui il mezzo tecnologico garante di pro-gresso inteso come espansione.

SE: Come lo immagini il tuo futuro?DD: Il futuro che noi immaginiamo è una situazione di man-tenimento più che di esplorazione assoluta. Il Novecento ha mostrato una capacità di accelerazione impressionante, ma ha anche dimostrato come quest’accelerazione sia possibile solo attraverso un’ideologia che finisce per sua natura a contraddir-si in una retorica e, quindi, in una situazione di stasi. Dobbiamo fare i conti con una possibilità di involuzione duale a quello di evoluzione, ovvero con una dialettica degli opposti che sembra essere l’unica continuità tra passato e futuro.

SE: Cosa custodiresti in una boîte personale?DD:Non lo so.

SE: Quali sono, a tuo parere, i limiti più evidenti degli spazi predisposti all’arte? E in che modo si possono superare?DD: L’arte concerne il concetto di limite, in quan-to propone uno spazio. Uno spazio è assegnare un limite, forse nuovo, in molti casi memorabile, a volte retorico, ma pur sempre una definizione di bordo/confine. Il limite architettonico è quello che balza di più agli occhi, forse, ma esistono altri limi-te che si sovrappongono, ad esempio il concet-to di limite psicologico e’ spesso consequenziale a quello architettonico, mentre quello sociale e’ il risultato di un limite politico che si manifesta, spesso, nell’architettura. Ognuna di queste arti-colazioni e’ materiale per l’arte perché definisce il limite come problematica e quindi come possi-bilità del pensiero di trovare nuovi sviluppi, nuove soluzioni. Nel mio lavoro il limite e’ un concetto che assume connotazioni ontologiche, in quan-to diventa struttura di un metodo di lavoro che ha nel confine l’inizio di una possibile relazione con lo spazio e quindi con il tempo. Credo sia importante capire che in realtà la cultura, in tut-te le sue manifestazioni, è propositiva e in salute solo quando si trova di fronte a problematiche. Il concetto di cultura che abbiamo oggi noi è del tutto problematico – non può prescindere dalla dialettica.

dArio d’Aronco (lAtinA, 1980)

vive e lAvorA A rotterdAm.

mostre selezionAte: 2010 - 1646, l’AiA; raur4,

monAco (de); the destrOyed rOOm part i,

gAlerieimregierungsviertel/forgotten bAr

project, berlino; the destrOyed rOOm part ii,

zwijssenhAl-tilburg; south tour/rotterdAm Art

fAir, rotterdAm; 2009 - de vLeeshaL, middelburg;

rair ii, foundAtion bAd, rotterdAm; usine de rêve,

26cc, romA.

stefAno elenA (1975) critico e curAtore

indipendente. AttuAlmente vive e lAvorA trA romA

e berlino. nellA suA bOîte custodisce unA scortA

non cedibile di AutonomiA AffettivA e unA fiAlA di

estrAtto di distAnzA.

Page 37: C'era una volta un futuro

Giorgio Orbi, alphA29, 2010, video a colori con suono, 10’23’’.Courtesy l’artista.

di Stefano Elena

intervista a:GiorGio orBi

Stefano Elena: alphA 29... è un luogo reale o dell’immagina-zione? O forse è un non luogo?Giorgio Orbi: Verso il limite della città quando le strade diven-tano più grigie, i palazzi scompaiono tra magazzini, depositi, capannoni, fabbriche, può accadere durante un forte tempo-rale di imbattersi in alphA 29. È un luogo fuori dal tempo e dallo spazio dove i ricordi vengono localizzati attraverso il bat-tito della pioggia e, successivamente, il sussurro di una voce. Alpha è anche il nome di una marca di abbigliamento militare, hai presente il bomber? Un segno appartenente a diverse sot-toculture giovanili, in particolare quella dei rave che per fare i conti con la fine del novecento ha dovuto accoglierle tutte e privarle di identità.

Page 38: C'era una volta un futuro

SE: Mi parleresti dei luoghi del tuo lavoro?GO: Sono attratto dalle ripetizioni indefinite dell’esperienza, all’esplorazione dei paesaggi interiori. Scoprire le tracce di percorsi frammentati in cui poter perlustrare le regioni scono-sciute del pensiero. Non è una ricerca facile e molto spesso finisci ko. Ma qualche volta riesco a difendermi.

SE: E del linguaggio che usi per rappresentarli?GO: Cerco di fare a meno della poetica del mezzo, di superarla per quanto mi è possibile. Nella sequenza finale di alphA 29 ho usato una steady cam. Avevo anche un carrello a disposi-zione, ma preferivo un corpo umano, in fusione con la camera, che corre sotto la pioggia, verso il disastro, incontro al supe-ramento della sua stessa natura. Le parole invece raccontano la crisi della percezione, un incidente, la catastrofe dei sensi. Il temporale è perfetto per esprimere questo stato. La tecnica è uno dei limiti del mezzo, la sfida consiste nel cer-care di superarlo.

SE: Mi nomineresti quattro opere o quattro artisti che ti hanno profondamente colpito? GO: Gordon Matta-Clark. Esplorare e sovvertire l’ambiente urbano e sociale. Luigi Russolo, pittore e musicista. L’arte dei Rumori ha influenzato la musica contemporanea da John Cage a Speedy J! Richard Long e il suo rapporto esclusivo con la natura. Jean Rollin per le splendide vampire che abitano vecchi castelli in rovina.

SE: Il tuo rapporto con il mondo di oggi?GO: Quello animale continua a stupirmi, mi piacciono molto le montagne.

SE: Sembri voler eludere la domanda?GO: No, davvero. È che il mondo a cui ti riferisci non può più fare a meno della tecnologia. Ma Dio non era analogico?

SE: Ci sarà ancora una volta il futuro? GO: C’erano e ci saranno numeri: 1909, 1984, 1997, 2001, 2012, 2095. The future was unwritten.

SE: Cosa custodiresti nella tua boîte personale?GO: Un pappagallo.

SE: Una voce, un testo emergono dal battito della pioggia, per interrompersi nel vuoto, che si riempie all’improvviso di un rumore crescente. Qual è il legame tra questi elementi e l’immagine del video?GO: È un legame forte in cui ogni elemento è ne-cessario alla sopravvivenza dell’altro. O meglio, le parole evocano il rumore, la catastrofe immi-nente, poi il vuoto: l’azione abolisce il pensiero, l’esperienza la parola. Il video è il linguaggio ideale per coniugare l’incontro dei due elementi. La sequenza di inquadrature statiche condivide le qualità della memoria, la facoltà di evocare l’irreparabile; il piano sequenza invece va diretto incontro al rimbombo, al tuono.

giorgio orbi (romA, 1977) vive e lAvorA A romA.

festivAl selezionAti: 2009 - pOst rOmantic empire,

romA; dissOnanze 09, pAlAzzo dei congressi, romA;

2005 - rOmaeurOpa FestivaL, fierA di romA, romA;

2003 - pOst rOmantic empire, romA;

2002 - sangeet meLa, festivAl of indiAn music And

culture, Auditorium pArco dellA musicA, romA.

progetti esterni e collAborAzioni selezionAte:

2009 - FuturismO avanguardiaavanguardie,

ideAzione progetto espositivo, scuderie

del QuirinAle, romA; 2008 - OdetteOdiLLe

investigatiOns di enzo cosimi, video instAllAzione,

festivAl dAnzA urbAnA, bolognA;

2005 - resOunding arches, video instAllAzione di

gAry hill, colosseo, romA.

nellA suA bOîte custodisce un pAppAgAllo.

stefAno elenA (1975) critico e curAtore

indipendente. AttuAlmente vive e lAvorA trA romA

e berlino. nellA suA bOîte custodisce unA scortA

non cedibile di AutonomiA AffettivA e unA fiAlA di

estrAtto di distAnzA.