Che cos'è l'atto di creazione?

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Che cos' l'atto di creazione?-Il titolo Che cos' L'atto di creazione? riprende quello di una conferenza che Gilles Deleuze tenne a Parigi nel marzo 1987. Deleuze definiva l'atto di creazione come un "atto di resistenza". Resistenza alla morte, in anzitutto, ma resistenza anche al paradigma dell'informazione, attraverso il quale il potere si esercita in quelle che il filosofo, per distinguerle dalle societ di disciplina analizzate da Foucault, chiama "societ di controllo". Ogni atto di creazione resiste a qualcosa - per esempio, dice Deleuze, la musica di Bach un atto di resistenza contro la separazione del sacro e del profano.

O ttulo da minha palestra, O que o ato de criao? ecoa o ttulo de uma palestra que Gilles Deleuze deu, em Paris, em maro de 1987. Deleuze define o ato de criao como um ato de resistncia. Resistncia morte, em primeiro lugar, mas tambm como resistncia ao paradigma da informao, atravs do qual o poder exercido, naquilo que o filosofo, para distinguir da sociedade de disciplina analisada por Foucault, chama de sociedade de controle. Cada ato de criao, de acordo com Deleuze, resiste a algo, por exemplo: a msica de Bach um ato de resistncia contra a separao do sagrado e do profano.Deleuze non definisce che cosa significhi "resistere" e sembra dare al termine il significato corrente di opporsi a una forza o a una minaccia esterna. Nella conversazione sulla parola "resistenza" nell'Abecedario, egli aggiunge, a proposito dell'opera d'an e, che resistere significa sempre liberare una potenza di vita che era stata imprigionata o offesa; anche qui, tuttavia, manca una vera definizione dell'atto di creazione come atto di resistenza.

Deleuze no define o que resistncia significa. E parecem dar ao termo significado corrente de oposio a uma fora externa ou ---------- . Dopo tanti anni passati a leggere, scrivere e studiare, capita, a volte, di capire quale sia il nostro modo speciale- se ve n' uno- di procedere nel pensiero e nella ricerca. Si trana, nel mio caso, di percepire quella che Feuerbach chiamava la "capacit di sviluppo" contenuta nell'opera degli autori che amo. L'elemento genuinamente filosofico contenuto in un'opera- sia essa opera d'arte, di scienza, di pensiero- la sua capacit di essere sviluppata, qualcosa che rimasto - o stato volutamente lasciato - non detto e che si tratta di saper trovare e raccogliere. Perch questa ricerca dell'elemento suscettibile di essere sviluppato mi affascina? Perch se si segue fino in fondo questo principio metodologico, si arriva fatalmente a un punto in cui non possibile distinguere tra ci che nostro e ci che spetta invece all'autore che stiamo leggendo. Raggiungere questa zona impersonale di indifferenza, in cui ogni nome proprio, ogni diritto d'autore e ogni pretesa di originalit vengono meno, mi riempie d i gioia. Prover pertanto a interrogare ci che rimasto non detto nell'idea deleuziana dell'atto di creazione come ano di resistenza e, in questo modo, cercher di continuare e proseguire, ovviamente sono la mia piena responsabilit, il pensiero di un autore che amo. Devo premettere che provo un certo disagio di fronte all'uso, purtroppo oggi assai diffuso, del termine creazione in riferimento alle pratiche artistiche. Mentre indagavo la genealogia di questo uso, ho scoperto non senza una certa sorpresa che una parte della responsabilit incombeva sugli architetti. Quando i teologi medievali devono spiegare la creazione del mondo, essi ricorrono a un esempio che era gi stato usato dagli stoici. Come la casa preesiste nella mente dell'architetto, scrive Tommaso, cosi Dio ha creato il mondo guardando al modello che era nella sua mente. Naturalmente Tommaso distingueva ancora tra il creare ex nihilo, che definisce la creazione divina, e il facere de materia, che definisce il fare umano. In ogni caso, tuttavia, il paragone fra l'atto dell'architetto e quello di Dio contiene gi in germe la trasposizione del paradigma della creazione all'attivit dell'artista.

Per questo preferisco parlare piuttosto di atto poetico c, se continuer per comodit a servirmi del termine creazione, vorrei che fosse inteso senza alcuna enfasi, nel semplice senso di poiein, "produrre".

Intendere la resistenza soltanto come opposizione a una forza esterna non mi sembra sufficiente per una comprensione dell'atto di creazione. In un progetto di prefazione alle Philosophische Bemerkungen, Wittgenstein ha osservato come dover resistere alla pressione e all'attrito che un'epoca di incultura- qual era per lui la sua e certamente per noi la nostra - oppone alla creazione finisca col disperdere e frammentare le forze del singolo. Ci tanto vero che, nell'Abecedario, Deleuze ha sentito il bisogno di precisare che l'atto di creazione ha costitutivamente a che fare con la liberazione di una potenza.

Penso, tuttavia, che la potenza che l'atto di creazione libera debba essere una potenza interna allo stesso atto, come interno a questo deve essere anche l'atto di resistenza. Solo in questo modo la relazione tra resistenza e creazione e quella tra creazione e potenza diventano comprensibili.

Il concetto di potenza ha, nella filosofia occidentale, una lunga storia che possiamo far cominciare con Aristotele. Aristotele oppone - e, insieme, lega - la potenza (dynamis) all'ano (energeia) e questa opposizione, che segna tanto la sua metafisica che la sua fisica, stata da lui trasmessa in eredit prima alla filosofia e poi alla scienza medievale e moderna. attraverso questa opposizione che Aristotele spiega quelli che noi chiamiamo arti di creazione, che per lui coincidevano pi sobriamente con l'esercizio delle technai (arti nel senso pi generale della parola). Gli esempi cui ricorre per illustrare il passaggio dalla potenza all'ano sono in questo senso significativi: l'architetto (oikodomos), il suonatore di cetra, lo scultore, ma anche il grammatico e, in generale, chiunque possieda un sapere o una tecnica. La potenza di cui Aristotele parla nel libro IX della Metafisica e nel libro II del De anima non , cio, la potenza generica, secondo cui diciamo che un bambino pu diventare architetto o scultore, ma quella che compete a chi ha gi acquisito l'arte o il sapere corrispondente. Aristotele chiama questa potenza hexis, da echo, "avere": l'abito, cio il possesso di una capacit o abilit.

Colui che possiede- o ha l'abito di - una potenza pu tanto metterla in atto che non metterla in atto. La potenza - questa la tesi geniale, anche se in apparenza ovvia, di Aristotele - , cio, definita essenzialmente dalla possibilit del suo non-esercizio. L'architetto potente, in quanto pu non costruire, la potenza una sospensione dell'atto. (In politica ci ben noto, ed esiste anzi una figura, detta provocatore, che ha appunto il compito di obbligare chi ha il potere a esercitarlo, a metterlo in atto). E in questo modo che Aristotele risponde, nella Metafisica, alla tesi dei megarici, che affermavano, peraltro non senza buone ragioni, che la potenza esiste solo nell'atto (energei mono dynastai; otan me energei ou dynastai, Mel. 1046b, 29-30). Se ci fosse vero, obietta Aristotele, noi non potremmo considerare architetto l'architetto quando non costruisce, n chiamare medico il medico nel momento in cui non sta esercitando la sua arte. In questione , cio, il modo di essere della potenza, che esiste nella forma della hexis, della signoria su una privazione. Vi e una forma, una presenza di ci che non in atto, e questa presenza privativa la potenza. Come Aristotele afferma senza riserve in un passo straordinario della sua Fisica: La steresis, la privazione, come una forma (eidos ti, Phys. 193b, 19-20).

Secondo il suo gesto caratteristico, Aristotele spinge all'estremo questa tesi fino al punto in cui essa sembra quasi trasformarsi in un'aporia. Dal fatto che la potenza sia definita dalla possibilit del suo non esercizio, egli trae la conseguenza di una costitutiva co appartenenza di potenza e impotenza. "L'impotenza [adynamia]," egli scrive (Met. 1046a, 29-32), " una privazione contraria alla potenza [dynamis]. Ogni potenza impotenza dello stesso e rispetto allo stesso (di cui potenza) [tou autou kai kata lo auto posa dynamis adynamia]". Adynamia, "impotenza", non significa qui assenza di ogni potenza, ma potenza di-non (passare all'atto), dynamis me energein. La tesi definisce, cio, l'ambivalenza specifica di ogni potenza umana, che, nella sua struttura originaria, si mantiene in rapporto con la propria privazione ed sempre- e rispetto alla stessa cosa - potenza di essere e di non essere, di fare e di non fare. In questa relazione che costituisce, per Aristotele, l'essenza della potenza. Il vivente, che esiste nel modo della potenza, pu la propria impotenza, e solo in questo modo possiede la propria potenza. Egli pu essere e fare, perch si tiene in relazione col proprio non essere e non fare. Nella potenza, la sensazione costitutivamente anestesia, il pensiero non-pensiero, l'opera inoperosit.

Se ricordiamo che gli esempi della potenza-di-non sono quasi sempre tratti dall'ambito delle tecniche e dei sa per i umani (la grammatica, la musica, l'architettura, la medicina ecc.), possiamo allora dire che l'uomo il vivente che esiste in modo eminente nella dimensione della potenza, del potere e del poter-non. Ogni potenza umana , cooriginariamente, impotenza; ogni poter-essere o -fare , per l'uomo, costitutivamente in rapporto con la propria privazione.

Se torniamo alla nostra domanda sull'atto di creazione, ci significa che questo non pu essere in alcun modo compreso, secondo la rappresentazione corrente, come un semplice transito dalla potenza all'atto. L'artista non colui che possiede una potenza di creare che, a un certo punto, decide, non s i sa come e perch, di realizzare e mettere in atto. Se ogni potenza costitutivamente impotenza, potenza-di-non, come potr avvenire il passaggio all'atto? Poich l'atto della potenza di suonare il piano certamente, per il pianista, l'esecuzione di un pezzo sul pianoforte; ma che cosa avviene della potenza di non suonare nel momento in cui egli comincia a suonare? Come si realizza una potenza di non suonare?

Possiamo ora comprendere in modo nuovo la relazione fra creazione e resistenza di cui parlava Deleuze. Vi , in ogni atto di creazione, qualcosa che resiste e si oppone all'espressione. Resistere, dal latino sisto, significa etimologicamente "arrestare, tener fermo" o "arrestarsi". Questo potere che trattiene e arresta la potenza nel suo movimento verso l'atto l'impotenza, la potenza-di-non. La potenza , cio, un essere ambiguo, che non solo pu tanto una cosa che il suo contrario, ma contiene in se stessa un'intima e irriducibile resistenza.

Ns podemos agora compreender de uma maneira nova a relao entre a criao e a resistncia mencionada por Deleuze. H, em cada ato de criao, algo que resiste e oposto expresso. Resistir, do Latin sisto, etimologicamente significa prender, manter fechado o deter ou prender-se. Este poder que retm e prende a potencia em seu movimento para o ato a impotncia, poder-de-no. A potncia isto, um ser ambguo, que no s pode tanto uma coisa como o seu contrrio, mas contem em si prpria uma intima e irredutvel resistncia .

Se questo vero, dobbiamo allora guardare all'atto di creazione come a un campo di forze teso fra potenza e impotenza, potere e poter-non ag1re e resistere. L'uomo pu avere signoria sulla sua potenza e aver accesso a essa solo attraverso la sua impotenza; ma - proprio per questo- non si d, in verit, signoria sulla potenza ed essere poeta significa: essere in balia della propria impotenza.

Se isso for verdade, temos ento de olhar para o ato da criao como um campo de fora que se estendeu entre poder e impotncia, poder e poder-no atuar e resistir. O homem pode ter domnio sobre o seu poder e ter acesso a ele apenas atravs de sua impotncia; mas - por causa disso - no ocorre, na verdade, domnio sobre a potncia e ser um poeta significa: estar merc de sua prpria impotncia.

Solo una potenza che pu tanto la potenza che l'impotenza allora la potenza suprema. Se ogni potenza tanto potenza di essere che potenza di non essere, il passaggio all'ano pu solo avvenire trasportando nell'atto la propria potenza-di-non. Ci significa che, se a ogni pianista appartengono necessariamente la potenza di suonare e quella di non suonare, Glenn Gould , per, solo colui che pu non suonare e, rivolgendo la sua potenza non solo all'atto ma alla sua stessa impotenza, suona, per cosi dire, con la sua potenza di non suonare. Di fronte all'abilit, che semplicemente nega e abbandona la propria potenza di non suonare, e al talento, che pu soltanto suonare, la maestria conserva ed esercita nell'atto non la sua potenza di suonare, ma quella di non suonare.

Esaminiamo ora pi concretamente l'azione della resistenza nell'atto di creazione. Come l'inespressivo in Benjamin, che spezza nell'opera la pretesa dell'apparenza a porsi come totalit, cosi la resistenza agisce come una istanza critica che frena l'impulso cieco e immediato della potenza verso l'atto e, in questo modo, impedisce che essa si risolva e si esaurisca integralmente in questo. Se la creazione fosse solo potenza-di-, che non pu che trapassare ciecamente nell'atto, l'arte decadrebbe a esecuzione, che procede con falsa disinvoltura verso la forma compiuta perch ha rimosso la resistenza della potenza-di-non. Contrariamente a un equivoco diffuso, la maestria non perfezione formale, ma, proprio al contrario, conservazione della potenza nell'atto, salvazione dell'imperfezione nella forma perfetta. Nella tela del maestro o nella pagina del grande scrittore, la resistenza della potenza-di-non si segna nell'opera come l'intimo manierismo presente in ogni capolavoro.

Ed su questo poter-non che s i fonda in definitiva ogni istanza propriamente critica: ci che l'errore di gusto rende evidente, sempre una carenza non tanto sul piano della potenza-di-, ma su quello del poter non. Chi manca di gusto non riesce ad astenersi da qualcosa, la mancanza di gusto sempre un non poter non fare.

A imprimere sull'opera il sigillo della necessit , dunque, proprio ci che poteva non essere o poteva essere altrimenti: la sua contingenza. Non si tratta, qui, dei pentimenti che la radiografia mostra sulla tela sotto gli strati di colore, n delle prime stesure o delle varianti attestate nel manoscritto: si tratta, piuttosto, di quel "tremito leggero, impercettibile" nella stessa immobilit della forma che, secondo Focillon, il contrassegno dello stile classico.

Dante ha compendiato in un verso questo carattere anfibio della creazione poetica: "l'artista l ch'a l'abito de l'arte ha man che trema". Nella prospettiva che qui c'interessa, l'apparente contraddizione fra abito e mano non un difetto, ma esprime perfettamente la duplice struttura di ogni autentico processo creativo, intimamente ed emblematicamente sospeso fra due impulsi contraddittori: slancio e resistenza, ispirazione e critica. E questa contraddizione pervade tutto l'atto poetico, dal momento che gi l'abito contraddice in qualche modo l'ispirazione, che proviene da altrove e per definizione non pu essere padroneggiata in un abito. In questo senso, la resistenza della potenza-di-non, disattivando l'abito, resta fedele all'ispirazione. quasi le impedisce di reificarsi nell'opero: l'artista ispirato senz'opera. E, tuttavia, In potenza-di-non non pu essere a sua volta padroneggiata e trasformata in un principio autonomo che finirebbe con l'impedire ogni opera. Decisivo che l'opera risulti sempre da una dialettica fra questi due principi intimamente congiunti.

In un libro importante, Simondon ha scritto che l'uomo , per cosi dire, un essere a due fasi, che risulta dalla dialettica fra una parte non individuata e impersonale e una parte individuale e personale. Il preindividuale non un passato cronologico che, a u n certo punto, si realizza e risolve nell'individuo: esso coesiste con questo e gli resta irriducibile.

possibile pensare, in questa prospettiva, l'atto di creazione come una complicata dialettica fra un elemento impersonale, che precede e scavalca il soggetto individuale, e un elemento personale, che ostinatamente gli resiste. L'impersonale la potenza-di-, il genio che spinge verso l'opera e l'espressione, la potenza- di-non la reticenza che l'individuale oppone all'impersonale, il carattere che tenacemente resiste all'espressione e la segna con la sua impronta. Lo stile di un'opera non dipende solo dall'elemento impersonale, dalla potenza creativa, ma anche da ci che resiste e quasi entra in conflitto con essa.

La potenza-di-non non nega, per, la potenza e la forma, ma, attraverso la sua resistenza, in qualche modo le espone, come la maniera non si oppone semplicemente allo stile, ma pu, a volte, metterlo in risalto.

Il verso di Dante , in questo senso, una profezia che annuncia la tarda pittura di Tiziano, quale si mostra, per esempio, nell'Annunciazione di San Salvador. Chi ha osservato questa tela straordinaria non pu non essere colpito dal modo in cui, non solo nelle nubi che sovrastano le due figure, ma perfino sulle ali dell'angelo, il colore s'ingorga e, insieme, si scava in quello che stato a ragione definito un magma crepitante, dove "le carni tremano" e "i lumi combattono con le ombre". Non sorprende che Tiziano abbia firmato quest'opera con una formula inconsueta, Titianus fecit fecit: "l'ha fatta e rifatta"- cio, quasi disfatta. Il fatto che le radiografie abbiano rivelata sono questa scritta la formula usuale faciebat, non significa necessariamente che si trani di un'aggiunta posteriore. possibile, al contrario, che Tiziano l'abbia cancellata proprio per sottolineare la particolarit della sua opera che, come suggeriva Ridolfi, forse riferendo una tradizione orale che poteva risalire allo stesso Tiziano, i committenti avevano giudicato "non ridotta a perfettione". In questa prospettiva, possibile che la scritta che si legge in basso sorto il vaso di fiori, ignis ardens non comburens, che rimanda all'episodio del roveto ardente nella Bibbia e, secondo i teologi, simboleggia la verginit di Maria, possa essere stata inserita da Tiziano proprio per sottolineare il carattere particolare dell'ano di creazione, che bruciava sulla superficie della tela senza, tuttavia, consumarsi, metafora perfetta di una potenza che arde senza esaurirsi.

Per questo la sua mano trema, ma questo tremito la suprema maestria. Ci che trema e quasi danza nella forma la potenza: ignis ardens non comburens.

Di qui la pertinenza di quelle figure della creazione cosi frequenti in Kafka, in cui il grande artista definito precisamente da un'assoluta incapacit rispetto alla sua arte. , da una parte, la confessione del grande nuotatore:

Ammetto di detenere un record mondiale, ma se mi chiedeste come l'ho conquistato, non saprei rispondervi in maniera soddisfacente. Perch, in realt, io non so nuotare. Ho sempre voluto imparare, ma non ne ho mai avuto l'occasione.

Dall'altra, la straordinaria cantante del popolo dei topi Josephine, che non solo non sa cantare, ma a malapena riesce a fischiare come tutti i suoi simili, e, tuttavia, proprio in questo modo "raggiunge effetti che un artista del canto invano cercherebbe presso di noi e che appunto solo ai suoi mezzi insufficienti sono concessi".

Forse mai come in queste figure la concezione corrente dell'arte come un sapere o un abito stata messa altrettanto radicalmente in questione: Josephine canta con la sua impotenza di cantare, come il grande nuotatore nuora con la sua incapacit di nuotare.

La potenza-di-non non un'altra potenza accanto alla potenza-di-: la sua inoperosit, ci che risulta dalla disattivazione dello schema potenza/arto. Vi , cio, un nesso essenziale fra potenza-di-non e inoperosit. Come Josephine, attraverso la sua incapacit di cantare, non fa che esibire il fischio che tutti i topi sanno fare, ma che, in questo modo, "liberato dai lacci della vita giornaliera" e mostrato nella sua "vera essenza", cos la potenza-di-non, sospendendo il passaggio all'atro, rende inoperosa la potenza e la esibisce come tale. Il poter non cantare , innanzitutto, una sospensione e una esibizione della potenza di cantare che non trapassa semplicemente nell'atto, ma si rivolge a se stessa. Non vi , cio, una potenza di non cantare che precede la potenza di cantare e deve, pertanto, annullarsi perch la potenza possa realizzarsi nel canto: la potenza-di-non una resistenza interna alla potenza, che impedisce che questa si esaurisca semplicemente nell'ano e la spinge a rivolgersi a se stessa, a farsi potentia potentiae, a potere la propria impotenza.

L'opera - per esempio Las Meninas - che risulta da questa sospensione della potenza, non rappresenta solo il suo oggetto: presenta, insieme a questo, la potenza - l'arte - con cui stato dipinto. Cosi la grande poesia non dice solo ci che dice, ma anche il fatto che lo sta dicendo, la potenza e l'impotenza di dirlo. E la pittura sospensione ed esposizione della potenza dello sguardo, come la poesia sospensione ed esposizione della lingua.

Il modo in cui la nostra tradizione ha pensato l'inoperosit l'autoreferenza, il rivolgersi della potenza a se stessa. In un passo famoso del libro Lambda della Metafisica (1074b, 15-35), Aristotele afferma che "il pensiero [noesis, l'atto del pensare] pensiero del pensiero [noeseos noes] ".La formula aristotelica non significa che il pensiero prende a oggetto se stesso (se cosf fosse, si avrebbe - per parafrasare la terminologia logica- da una parte un metapensiero e dall'altra un pensiero-oggetto, un pensiero pensato e non pensante). L'aporia, come Aristotele suggerisce, concerne la natura stessa del nous, che, nel De anima, era stato definito come un essere di potenza (''non ha altra natura che es sere potente" e "non in atto nessuno degli enti prima di pensare", De an. 429a, 21-24) e, nel passo della Metafisica, viene invece definito come puro atto, pura noesis:

Se pensa, ma pensa qualcos'altro cbe di esso padrone, la sua essenza non sar l'atto del pensiero [noesis, il pensiero pensante], ma la potenza, e non sar allora la cosa migliore [ ...]. Se esso non pensiero pensante, ma potenza, allora la continuit dell'atto del pensare gli risulterebbe faticosa.

L'aporia si risolve se ricordiamo che nel De anima il filosofo aveva scritto che il nous, quando diventa in atto ciascuno degli intellegibili, "resta in qualche modo in potenza[. .. ) e pu allora pensare se stesso" (De an. 429b, 9-1 O). Mentre, nella Metafisica, il pensiero pensa se stesso (si ha, cio, un atto puro), nel De anima si ha, invece, una potenza che, in quanto pu non passare all'atto, resta libera, inoperosa, e pu, cosi, pensare se stessa: qualcosa, cio, come una pura potenza.

questo resto inoperoso di potenza che rende possibile il pensiero del pensiero, la pittura della pittura, la poesia della poesia.

Se l'autoreferenza implica, cio, un eccesso costitutivo della potenza su ogni realizzazione nell'ano, occorre ogni volta non dimenticare che pensare correttamente l'autoreferenza implica innanzitutto la disattivazione e l'abbandono del dispositivo soggetto/oggetto. Nel quadro di Velzquez o di Tiziano la pintura (la pictura pcita) non l'oggetto del soggetto che dipinge (della pcitura pingens), cosi come nella Metafisica di Aristotele il pensiero non l'oggetto del soggetto pensante, il che sarebbe assurdo. Al contrario, pittura della pittura significa soltanto che la pittura (la potenza della pittura, la pictura pingens) esposta e sospesa nell'atto della pittura, cosi come poesia della poesia significa che la lingua esposta e sospesa nel poema.

Mi accorgo che il termine "inoperosit" non cessa di tornare in queste riflessioni sull'atto di creazione. Sar forse opportuno, a questo punto, che io provi a delineare almeno gli elementi d i qualcosa che vorrei definire come una "poetica- o una politica- dell'inoperosit". Ho aggiunto il termine "politica", perch il tentativo di pensare altrimenti la poiesis, il fare degli uomini, non pu non mettere in questione anche il modo in cui concepiamo la politica.

In un passo dell'Etica Nicomachea 0097b, 22 ss.), Aristotele si pone il problema di quale sia l'opera dell'uomo e suggerisce per un momento l'ipotesi che l'uomo manchi di un'opera propria, sia un essere essenzialmente inoperoso:

Come per l'auleta, per lo scultore e per ogni artigiano [technites], e, in generale, per tutti coloro che hanno un'o pera ergon] e un'attivit [praxis]. il buono [tagathon] e il bene [lo eu???) sembrano [consistere] in quest'opera, cosi dovrebbe essere anche per l'uomo, ammesso che vi sia per lui qualcosa come un'opera [ti ergon]. Oppure [si dovr dire) che per il falegname e il calzolaio vi sono un'opero e un'attivit, per l'uomo [come tale) invece nessuna, ma che nato senz'opera [argos, "inoperoso"]? Ergon non significa in questo contesto semplicemente "opera, bens ci che definisce l'energeia, l'attivit o l'essere-in-atto proprio dell'uomo. Nello stesso senso gi Platone si era interrogato su quale fosse l'ergon, l'attivit specifica - per esempio del cavallo. La domanda sull'opera o sull'assenza di opera dell'uomo ha dunque una portata strategica decisiva, poich da essa dipende non solo la possibilit di as segnargli una natura e un'essenza propria, ma anche, nella prospettiva di Aristotele, quella di definire la sua felicit e quindi la sua politica.

Naturalmente Aristotele lascia subito cadere l'ipotesi che l'uomo sia u11 animale essenzialmente argos, inoperoso, che nessuna opera e nessuna vocazione possono definire.

Vorrei invece proporvi di prendere sul serio quest'ipotesi e di pensare conseguentemente l'uomo come il vivente senz'opera. Non si trana in alcun modo di un'ipotesi peregrina, dal momento che, con grande scandalo dei teologi, dci politologi e dei fondamentalisti di ogni tendenza e partito, essa non cessa di riapparire nella storia della nostra cultura. Vorrei citare solo due di queste riapparizioni nel Novecento, una nell'ambito delle scienze, e cio lo straordinario libreno di Ludwig Bolk, professore di Anatomia all'Universit di Amsterdam, che s'intitola Das Problem der Menschwerdung (Il problema dell'antropogenesi, 1926). Secondo Bolk, l'uomo non deriva da un primate adulto, ma da un feto di primate che ha acquistato la capacit di riprodursi. L'uomo , cio, un cucciolo di scimmia che si costituito in una specie autonoma. Questo spiega il fatto che, rispetto agli altri esseri viventi, egli sia e rimanga un essere di potenza, che in grado di adattarsi a tutti gli ambienti, a tutti i cibi e a tutte le attivit, senza che nessuna di queste possa mai esaurirlo o definirlo.

La seconda, questa volta nell'ambito delle arti, il singolare opuscolo di Kazimir Malevic Linoperosit come verit effettiva dell'uomo, in cui, contro la tradizione che vede nel lavoro la realizzazione dell'uomo, l'inoperosit si afferma come la "pi alta forma di umanit", di cui il bianco, ultimo stadio raggiunto dal Suprematismo in pintura, diventa il simbolo pi appropriato. Come tutti i tentativi di pensare l'inoperosit, anche questo testo, come il suo precedente diretto, che l'Elogio della pigrizia di Lafargue, in quanto definisce l'inoperosit soltanto e contrario ri spetto al lavoro, resta imprigionato in una determinazione negativa del proprio oggetto. Mentre per gli antichi era il lavoro- il negotium- a essere definito in negativo rispetto alla vita contemplativa -l'otium -, i moderni sembrano incapaci di concepire la contemplazione, l'inoperosit e la festa altrimenti che come riposo o negazione del lavoro.

Poich noi cerchiamo invece di definire l'inoperosit in relazione alla potenza e all'arto di creazione, va da s che non possiamo pensarla come oziosit o inerzia, ma come una prassi o una potenza di un tipo speciale, che si mantiene costitutivamente in rapporto con la propria inoperosit.

Spinoza, nell'Etica, si serve di un concetto che mi sembra utile per comprendere ci di cui stiamo parlando. Egli chiama acquiescentia in se ipso una letizia nata da ci, che l'uomo contempla se stesso e la sua potenza di agire (IV, Prop. 52, Dimostrazione). Che cosa significa "contemplare la propria potenza di agire"? Che cos' una inoperosit che consiste nel contemplare la propria potenza di agire?

Si tratta - io credo- di una inoperosit interna, per cosi dire, alla stessa operazione, di una prassi sui generis che, nell'opera, espone e contempla innanzi rutto la potenza, una potenza che non precede l'opera, ma l'accompagna e fa vivere e apre in possibilit. La vira, che contempla la propria potenza di agire e di non agire, si rende inoperosa in tutte le sue operazioni, vive soltanto la sua vivibilit.

Si comprende allora la funzione essenziale che la tradizione della filosofia occidentale ha assegnato alla vita contemplativa e all'inoperosit: la prassi propriamente umana quella che, rendendo inoperose le opere e funzioni specifiche del vivente, le fa, per cosi dire, girare a vuoto e, in questo modo, le apre in possibilit. Contemplazione e inoperosit sono, in questo senso, gli operatori metafisici dell'antropogenesi, che, liberando il vivente uomo da ogni destino biologico o sociale e da ogni compito predeterminato, lo rendono disponibile per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare "politica" e "arte". Politica e arte non sono compiti n semplicemente "opere": esse nominano, piuttosto, la dimensione in cui le operazioni linguistiche e corporee, materiali e immateriali, biologiche e sociali vengono disattivate e contemplate come tali.

Spero che a questo punto ci che intendevo parlando di una "poetica dell'inoperosit" sia in qualche modo pi chiaro. E, forse, il modello per eccellenza di questa operazione che consiste nel rendere inoperose tutte le opere umane la stessa poesia. Che cos', infatti, la poesia, se non un'operazione nel linguaggio, che ne disattiva e rende inoperose le funzioni comunicative e informative, per aprirle a un nuovo, possibile uso? O, nei termini di Spinoza, il punto in cui la lingua, che ha disattivato le sue funzioni utilitarie, riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire. In questo senso, la Commedia o i Canti o ll seme del piangere sono la contemplazione della lingua italiana, la sestina di Arnaut Daniel la contemplazione della lingua provenzale, Trilce e i poemi postumi di Vallejo la contemplazione della lingua spagnola, le illuminazioni di Rimbaud la contemplazione della lingua francese, gli lnni di Holderlin e le poesie di Trakl la contemplazione della lingua tedesca.

E ci che la poesia compie per la potenza di dire, la politica e la filosofia devono compiere per la potenza di agire. Rendendo inoperose le operazioni economiche c sociali, esse mostrano che cosa pu il corpo umano, lo aprono a un nuovo possibile uso.

Spinoza ha definito l'essenza di ogni cosa come il desiderio, il conatus di perseverare nel proprio essere. Se possibile esprimere una piccola riserva rispetto a un grande pensiero, direi che mi sembra ora che anche in quest'idea spinoziana occorra, come abbiamo visto per l'ano di creazione, insinuare una piccola resistenza. Certo, ogni cosa desidera e si sforza di perseverare nel suo essere; ma, insieme, essa resiste a questo desiderio, almeno per un attimo lo rende inoperoso e contempla. Si tratta, ancora una volta, di una resistenza interna al desiderio, di un'inoperosit interna all'operazione. Ma soltanto essa conferisce al conatus la sua giustizia e la sua verit. ln una parola - questo , almeno nell'arte, l'elemento decisivo - la sua grazia.