75
STORIE IN FUORIGIOCO non tutte le partite di calcio finiscono al 90° Christian Elia di E-IL MENSILE BOOK Prefazione di Gianni Mura

Christian Elia STORIE IN FUORIGIOCO - eilmensile.iteilmensile.it/wp-content/uploads/2012/10/storie_in_fuorigioco.pdfSTORIE IN FUORIGIOCO ... Si riferiva, penso, all’imprevedibilità

  • Upload
    hadieu

  • View
    224

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

STORIE IN FUORIGIOCOnon tutte le partite di calcio finiscono al 90°

Christian Elia

di E-IL MENSILEBOOK

Prefazione di Gianni Mura

STORIE IN FUORIGIOCO non tutte le partite di calcio finiscono al 90°

di Christan Elia

Pubblicazione di E-il mensile on line (già PeaceReporter)Iscrizione n. 218 del 31.03.2003 - ultimo aggiornamento in data 9.12.2010Direttore responsabile Maso Notarianni

Edito da Dieci dicembre Scarl via Vida, 11 - 20127 Milano

Fotografie Getty ImagesGrafica e impaginazione Maddalena Masera

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATADieci Dicembre Scarl © 2012 Milano

Prima edizione digitale 2012 www.eilmensile.it

ISBN 9788890698330

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

STORIE IN FUORIGIOCOnon tutte le partite di calcio finiscono al 90°

Christian Elia

di E-IL MENSILEBOOK

Prefazione di Gianni Mura

A Francesca, compagna di viaggio

William “Bill” Shankly, mitico manager del Liverpool dal 1959 al 1974, raccontava:

«Una volta qualcuno mi disse che il calcio per me era una questione di vita o di morte.

Io gli risposi: Senti, è ancora più importante».

Sommario

Prefazione 4

L’ultima finta di Eddie 7

La partita della vita 10

Il sogno interrotto 16

La lunga partita per l’indipendenza 19

La prima guerra del football 24

Pallonate contro un muro 27

Il derby che unisce 30

La mano di Dio 36

La bandiera strappata 39

Il braccialetto verde 44

La magia del calcio 47

Insieme, per una volta 51

La guerra non ucciderà mai il calcio 56

Un calcio diplomatico 59

Il futuro in palio 63

Campioni del mondo di fantasia 68

La metà di niente 70

4

Prefazionedi Gianni Mura

Calcio, mistero senza fine bello: così endecasillabava Gianni Brera parafrasando Guido Gozzano e sostituendo il bisillabo donna con il bisillabo calcio. Si riferiva, penso, all’imprevedibilità del gioco, al fatto che una squadra piccola come la Grecia o ripescata come la Danimar-ca potesse vincere il campionato europeo. Ho citato due fatti succes-sivi alla morte di Brera, tra i precedenti potrei mettere un 4-0 dello Zambia all’Italia nel 1988 in Corea. Oggi il calcio è un po’ meno un mistero (non c’è niente da capire, chioserebbe il tifoso romanista De Gregori) e molto di più un casino.

Nel termine sono contenuti, in ordine sparso: il tifo razzista, il calcio violento, il tifo normale, il calcio spettacolare, il il tifo violento, gli in-gaggi dei calciatori oltre ogni umana facoltà di comprensione, il calcio-scommesse, un numero non quantificabile di malavitosi che partono da Singapore e arrivano in Italia e altrove via Balcani, la caccia all’arbi-tro, un progressivo passaggio del terzino o dell’attaccante dal ruolo di sportivo al ruolo di star. Con un neologismo: spordivo. E poi mettiamo-ci pure i politici che quando parlano di calcio straparlano, mettiamoci il fairplay fin troppo sventolato e troppo poco applicato, sia in campo sia nei bilanci, la tessera del tifoso che è poi una schedatura e crea proble-mi più alle famiglie che ai violenti, mettiamoci sospetti di doping, ma tra tutte le cose che circolano ce n’è una che rappresenta una colossa-le bugia. Ed è la frase: la politica non deve entrare nel calcio.

Non è vero, non è mai stato così, e il merito di Christian Elia è di avere raccontato le volte (non tutte, non basterebbe un libro di mille

5

Prefazione

pagine) che c’è entrata. Rievoca un Germania Ovest-Germania Est, o Ddr come si abbreviava allora, un Usa-Iran ai mondiali del ’98, la mano de Dios dell’argentino Maradona contro gli inglesi, la guerra, vera, che ritrovate in un libro di Kapuscinski, tra El Salvador e Honduras, l’antici-po della guerra nell’ex Jugoslavia con gli incidenti di Dinamo Zagabria-Stella Rossa Belgrado, l’Ungheria del ’56 e altre vicende. Potremmo aggiungere il saluto fascista della Nazionale campione del mondo nel ’34 in Italia e nel ’38 in Francia, ma anche soffermarci sulle nostre ri-valità interne. Parma e Reggio Emilia, Trieste e Udine, Pisa e Livorno, Bergamo e Brescia, Pescara e Chieti, Lecce e Bari: è la politica del cam-panile, risale ai Comuni, in uno sport globalizzato come il mondo non ha molto senso il campanile, o forse è uno degli ultimi beni-rifugio a buon mercato. La politica entra nel calcio quando decide di privile-giare lo sport di vertice e di tagliare risorse allo sport per tutti, dove non conta il risultato ma solo la pratica, intesa anche come recupero. La politica entra nel calcio perché è lo sport più popolare e offre una visibilità enorme. Perché chi vince è un vincente. All’inizio della sua discesa in campo per sbertucciare il suo avversario Berlusconi disse gonfiando il petto e facendo la ruota: «Quante Coppe dei campioni ha vinto Spaventa?». Più sono di basso livello più i politici devono sentirsi popolari: il calcio fa veramente al caso loro. Alludo qui a frequenta-zioni assidue, presenze continue allo stadio nella tribuna cosiddetta d’onore, non alla simpatica e quasi goliardica (per un vecchio signore) irruzione di Pertini al Bernabeu, il giorno della finale con la Germania. Anche varare la Nazionale della Padania è politica. Anche alzare di molto il costo dei biglietti, come fece Margaret Thatcher, è politica (di dissuasione). Anche, in molte nostre città, le curve rosse che diventa-no nere sono politica. Anche la “democrazia corinthiana” imposta da Socrates è politica. Anche lo striscione “Sollier boia”, lungo 60 metri ed esposto all’Olimpico è politica. Anche dire “abbiamo vinto” quando la nostra squadra vince, e “hanno perso” quando perde è politica, certo non della migliore. Ma dov’è la migliore?

7

L’ultima finta di Eddie

L’ala destra dell’Ajax, ucciso ad Aushwitz, simbolo del rapporto tra la squadra di Amsterdam e le sue radici ebraiche

Tra i tavolini del Cafè Brandon di Amsterdam, fino a non troppo tem-po fa, si poteva ancora incontrare qualche vecchietto che aveva visto giocare Eddie Hamel. Un’ala destra offensiva, di quelle che ti puntano palla al piede, come se la vita fosse una finta tra la geometria della linea laterale e l’anarchia dell’invenzione per forzare l’area di rigore.

Hamel nasce a New York, ma segue i suoi genitori da bambino in Olanda. Cresce giocando tra i canali di Amsterdam e porta sulle spalle la maglia biancorossa dell’Ajax dal 1922 al 1930, giocando 125 partite e segnando poco, solo otto reti. Perché certe ali, sul fondo, alzano lo sguardo e cercano il compagno. Il gusto sta nel dimostrare, sempre, di trovare lo spazio anche quando non si vede. Hamel è ebreo. Lo è fino al suo ultimo giorno: il 30 aprile 1943.

E’ morto a 41 anni da compiere, ma del suo fisico da atleta – mante-nuto in forma dopo aver appeso le scarpette al chiodo – non s’intuisce più molto. Hamel muore ad Auschwitz, nel campo di concentramento dove l’hanno deportato i tedeschi, che hanno occupato l’Olanda nel 1940. Un destino crudele, per un campione che con tanti altri ha con-tribuito a creare il mito dell’Ajax Amsterdam, la squadra degli ebrei. Il club che porta il nome di Aiace, in realtà, non è molto più ebreo di altri, ma il rapporto tra l’ebraismo e il club più famoso d’Olanda non si è mai incrinato.

L’Ajax è stato fondato, nel 1900, da un gruppo di studenti di Amster-dam. La squadra era nata e giocava nel vecchio ghetto ebraico della

8

Storie in fuorigioco

città olandese. La leggenda vuole, come vi ripeterebbe chiunque nel Cafè Brandon, vero tempio del tifo biancorosso, che i bottegai ebrei chiudessero solo se giocava l’Ajax e l’amministrazione cittadina fu co-stretta a deviare il percorso di un tram per appagare il numero crescen-te di tifosi che voleva vedere giocar la squadra. Secondo il giornalista Simon Kuper, però, si tratta in gran parte di un falso mito. Nel suo bel libro L’Ajax, la squadra del ghetto. Il calcio e la Shoah, Kuper smentisce molti luoghi comuni. Il primo è quello dell’Olanda Paese civile e in pri-ma fila nella difesa degli ebrei dopo l’occupazione nazista. Il secondo è proprio quello dell’Ajax squadra ebrea per eccellenza. Al punto che, nel 1941, tutti i soci ebrei del club vengono espulsi, come raccontano i verbali rinvenuti dallo stesso Kuper. Allora perché la Stella di David campeggia nella curva F, quella del tifo rovente dell’Ajax? Perché il ta-tuaggio della stella a sei punte, magari con la F dentro, è un must per i tifosi biancorossi? La risposta più bella forse la dà il vecchio archivista del club, ottant’anni: «Agli ebrei piacevano le cose belle, per quello andavano a vedere l’Ajax».

In realtà il mito del binomio ebraismo-Ajax nasce nell’immediato dopoguerra. Uno dei principali finanziatori del club è un certo Jaap Van Praag, negoziante di dischi ebreo. Durante l’occupazione nazista si na-sconde nella soffitta di un altro bottegaio, dopo diventa il prestanome dei fratelli Freek e Win Der Mejden. Due imprenditori edili, divenuti ricchi durante la guerra. Come? Lavorando attivamente per l’occupan-te nazista, al punto da meritarsi il nomignolo di “fratelli Bunker”. I tifosi e i calciatori dell’Ajax, dopo il conflitto, solidali con le vittime ebree del Nazismo, presero l’abitudine di cucirsi addosso alle casacche e ai ve-stiti una stella gialla di stoffa. Non potevano accettare il denaro di due personaggi compromessi come i fratelli Der Mejden.

Van Praag, irrazionale e pragmatico come solo un vero tifoso sa es-sere, non ci pensa su due volte e funge da intermediario per il denaro dei costruttori. Viene creata la miglior società d’Europa, che sforna ta-lenti in serie dal settore giovanile. Fino a creare la squadra dei sogni, a metà degli anni Settanta, capace di vincere tre Coppe dei Campioni di seguito. Lo stesso gruppo di giocatori che arrivò a giocare – e perdere – la finale della Coppa del Mondo nel 1974 e nel 1978.

9

L’ultima finta di Eddie

Simbolo di quella squadra, fautrice del “calcio totale” predicato dal suo allenatore Rinus Michels, è Johan Cruyiff. Tutti lo credono ebreo, ma non lo è. Lo è invece Bennie Muller, gloria dell’Ajax anni Sessanta. «Tutti quei cori che inneggiano alle presunte radici ebree dell’Ajax, e il controcanto antisemita, mi spezzano il cuore, non ce la faccio. Della mia famiglia materna, di undici figli, solo mia madre e due sorelle si sono salvate, ma perché erano sposate con un protestante», si sfogò Muller in un’intervista. Già, perché se i tifosi dell’Ajax ostentano fieri il legame con l’ebraismo, gli avversari lo usano come una clava. Il peggio lo fanno i tifosi del Feyenoord, squadra di Rotterdam e rivale storica dei joden, gli ebrei, come vengono chiamate la tifoseria e la squadra dell’A-jax. All’ingresso in campo dell’Ajax, ogni volta che si gioca allo sta-dio De Kuip (tempio del Feyenoord), i tifosi locali come un sol uomo emettono un fischio acutissimo. L’idea geniale è quella di riprodurre il sibilo delle camere a gas. Questo e altri episodi di antisemitismo hanno spinto, nel 2005, la dirigenza dell’Ajax a prendere posizione con i loro supporter: basta simboli e riferimenti all’ebraismo. Molte polemiche, ma alla fine le bandiere con la Stella di David rimangono e tra i tavolini del Cafè Brandon, tra mille cimeli, la foto di Eddie Hamel non la toccherà mai nessuno.

10

La partita della vita

Storie di calcio al tempo della Seconda Guerra mondiale

Kiev non è una delle città più belle del mondo, ma una visita la merita. Se capita, trovate il tempo di prendere la metro, linea verde, e scendete alla fermata Lukyanivs’ka. Appena fuori chiedete dello stadio Start, un vecchio impianto, ma che ha il suo posto (meritato) nella storia del calcio. Proprio qui, il 9 agosto 1942, si giocò la “partita della morte”.

Sulla destra dell’ingresso principale c’è un monumento, ormai un po’ consunto. Rappresenta una squadra di calcio. Poco più in là, una targa. «A uno che se lo merita», c’è scritto, con tono informale, da bar dello Sport. E’ dedicato a Makar Goncharenko, che nella “partita della morte” segnò una doppietta. Due tiri al volo, si dice, per non dare scuse a un arbitro di parte. Per la cronaca la partita si giocava tra lo Start e il Flakelf, due nomi che oggi non dicono nulla, e termi-na con la vittoria dello Start per 4-2. Lo stadio, allora, si chiamava Zenit e il nome è stato cambiato nel 1981. Per ricordare un’impresa straordinaria. Kiev, dal 19 settembre 1941, è occupata dall’esercito nazista. Ciascuno tira a campare come può: il panettiere Josif Kordik, per esempio, aveva sfruttato le sue origini tedesche per non essere rinchiuso nei campi di prigionia e per continuare a lavorare. Vende il pane proprio ai tedeschi che lo lasciano tranquillo. Kordik, nei tempi belli, prima della guerra, ha una fede incrollabile: la Dynamo Kiev. Un giorno, narra la leggenda, tra gli straccioni che cercano di sopravvi-vere nella città occupata, incontra Nikolaj Trusevich, il portiere della sua squadra del cuore. Lo prende a lavorare con sé. Uno a uno, con

11

La partita della vita

l’aiuto di Trusevich, riesce a rimettere insieme otto giocatori della Dynamo, garantendogli un lavoro, un pasto caldo e protezione. Ne salva anche tre della rivale Lokomotiv Kiev, perché un conto è il tifo e un altro la guerra.

I nazisti, nel 1942, decidono di organizzare un campionato cittadi-no. Ci sono quattro squadre formate da militari nazisti con miliziani rumeni o ungheresi loro alleati e una formazione di ucraini collabora-zionisti. Kordik non ci pensa due volte e iscrive i suoi panettieri cal-ciatori. Nome della squadra Start. Saranno loro a tenere alto il nome dell’Ucraina. La differenza tecnica è impressionante, nonostante i calciatori di Kordik non possano nutrirsi e allenarsi come i rivali. Li massacrano tutti e, piano piano, diventano gli idoli della gente di Kiev, che in loro vede l’ultimo baluardo di resistenza all’invasore. Re-sta da affrontare la squadra nazista più tosta, la Flakelf, amata dai generali tedeschi in quanto legata all’aviazione, la Luftwaffe. Si gioca il 6 agosto, trionfa la Start per 5-1. Sembrava finita, invece la mattina dopo la città è piena di locandine che annunciano una non prevista partita di ritorno, per il 9 agosto 1942. Il messaggio è chiaro: non ci stanno a perdere e faranno di tutto per battere la Start. La popola-zione è con i panettieri e li sostiene in ogni modo. Allo stadio Zenit arbitra un ufficiale nazista, che minaccia i campioni prima, durante e dopo la partita. Loro non mollano, fin dall’inizio: contravvengono all’ordine di urlare «heil Hitler» e urlano «Viva lo sport!». E vincono.

Questa storia ha ispirato tanti film, dei quali il più famoso è Fuga per la vittoria, di John Houston, nel quale recitarono anche tanti calciatori famosi. A Hollywood, si sa, non amano i finali tristi e le ricostruzioni storiche lasciano spesso a desiderare. Quindi la partita nella pellicola è ambientata in Francia e, soprattutto, finisce bene. Per i campioni del-la Start, purtroppo, non andò così. Una commissione d’inchiesta, molti anni dopo, ha stabilito che non ci sia stato nessun legame tra la “partita della morte” e la sorte dei panettieri. Comunque sia, quella soddisfa-zione l’hanno pagata cara. Alcuni giorni dopo la Gestapo, polizia poli-tica nazista, arresta otto degli undici giocatori. Quelli che non muoiono per le torture finiscono nel lager di Siretz. E’ là che muore il portierone

12

Storie in fuorigioco

Trusevich. I loro corpi, dopo la fucilazione, vengono gettati nella fossa comune di Babij Jar. I superstiti finiscono in un campo di lavoro a Kiev. Tra loro il bomber Goncharenko che, finita la guerra, racconta tutto. Re-galando ai suoi compagni almeno la dignità della memoria.

Anche se il ricordo non è condiviso. L’agenzia per il cinema ucrai-no, in vista degli Europei di calcio del 2012, che Kiev organizzerà con la Polonia, pensa di censurare l’arrivo nelle sale di un film chiamato Match, del regista russo Andrey Malyukov. Racconta ancora questa storia, ma il governo ucraino non vuole fomentare sentimenti anti tedeschi. Ma c’entra anche la storia, che questa benedetta parti-ta evoca, tra propaganda sovietica e collaborazionismo ucraino. La pellicola, infatti, è accusata addirittura di propaganda filorussa. Ma anche Tyler Gooden, statunitense, sta montando un cortometrag-gio animato (che dovrebbe divenire un lungometraggio) dal titolo Playing the game, che sottolinea la propaganda sovietica sull’evento dopo la guerra.

Nello stesso periodo i nazisti occupano anche l’Italia. La passione del pallone, evidentemente, li segue ovunque. A Sarnano, un paesino nelle Marche, un sergente nazista appassionato di calcio scopre che in paese vive Mario Maurelli, arbitro noto anche in Germania. Bussa alla porta del malcapitato e lo “invita” a trovare undici ragazzi italiani per una sfida contro i nazisti. Con una garanzia: nella rappresentativa italica giocherà il fratello minore di Maurelli, che arbitrerà l’incontro. In modo che a nessuno venga in mente di fare il furbo. L’aria è tesa: undici giovani di Sarnano, nel 1944, significa undici partigiani. Mau-relli non può sottrarsi, come racconta nel commovente documenta-rio di Umberto Nigri La leggenda di Sarnano. Accanto a lui, nel video, Libero Lucarini. Lucarini era uno degli undici giocatori che, il primo aprile 1944, sfidarono i tedeschi. Lucarini giocava terzino destro e, scivolando di proposito, fece pareggiare la Germania, dopo che il centravanti partigiano Grattini - in modo improvvido - aveva portato in vantaggio la squadra più ricercata d’Italia. A differenza dell’eroi-smo dei campioni della Dynamo Kiev, i partigiani italiani preferirono un’onorevole pareggio che, alla fine, permise loro di scappare tutti in montagna e di soffocare – almeno per un po’ – la rabbia nazista.

13

La partita della vita

D’altronde William “Bill” Shankly, mitico manager del Liverpool dal 1959 al 1974, raccontava: «Una volta qualcuno mi disse che il calcio per me era una questione di vita o di morte. Io gli risposi: Senti, è ancora più importante».

Il sogno interrottoLa nazionale ungherese degli anni Cinquanta, molto più di una squadra di calcio

Il sogno interrottoLa nazionale ungherese degli anni Cinquanta, molto più di una squadra di calcio

16

Il sogno interrotto

La nazionale ungherese degli anni Cinquanta, molto più di una squadra di calcio

Uno dei limiti del calcio contemporaneo è quello che le squadre man-cano di un undici base. Le formazioni storiche le reciti tutte d’un fiato. Segnatevi questa: Grosics, Buzanszky, Lorant, Lantos, Bozsik, Zakarias, Budaj, Kocsis, Hidegkuti, Puskas, Czibor. Allenatore mister Sebes.

La rappresentativa nazionale dell’Ungheria che dal 1949 al 1954 ‘’of-friva asilo estetico ai cacciatori del bello’’, secondo la felice definizione del giornalista sportivo italiano Roberto Beccantini.

Non a caso è passata alla storia come Aranycsapat, parola ungherese per “squadra d’oro”. Un po’ di numeri: tra il 1950 e il 1956 giocò 83 gare perdendone solo una. La più importante, come vedremo dopo. Ma sempre una. Un mito, che il partito comunista al potere a Buda-pest non vuole farsi scappare. «La vittoria è necessaria al partito», si sentivano ripetere i giocatori dai dirigenti politici. La squadra non si fa pregare e regala vittorie e gioco spettacolare.

«Chi sarebbe il loro capitano, il ciccione?», chiede un improvvido Billy Wright, capitano della nazionale inglese, mentre la Aranycsapat fa il suo in-gresso in campo nel 1953 a Wembley, il tempio degli inventori del calcio, a Londra. Il ciccione è Ferenc Puskas, il violino solista di un’orchestra perfetta. La “pantera nera” Grosics tra i pali, Hidegkuti centravanti arretrato e rampa di lancio per le velocissime ali Czibor e Budaj, il “ciccione” e il “cobra” Koc-sis a finalizzare. Una sinfonia, che i tattici chiamano MM, dalle posizioni degli uomini in campo. Simbolo del gruppo le scarpette modificate, basse al tallone, per agevolare i colpi d’esterno. Un marchio di fabbrica.

17

Il sogno interrotto

Puskas fa due reti, finisce 6-3 per gli ungheresi. Per la prima volta l’Inghilterra è violata in casa (la rivincita a Budapest fu anche peggio, con i britannici battuti 7-1). Mesi prima, alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, la Aranycsapat vince la medaglia d’oro, ma è la Coppa del Mondo del 1954, organizzata dalla Svizzera, il palcoscenico dove la squadra dei sogni dovrà consacrarsi nel mito.

Un mito che, per motivi politici, negli anni della Guerra Fredda non inizia e non finisce in un terreno di gioco. La Aranycsapat non è solo il simbolo del regime ungherese, ma del comunismo intero. Un gioco collettivo, in grado di superare tutti i personalismi. Il socialismo che avanza, pronto a travolgere il capitalismo. Ci crede anche il giovane Gabor, protagonista del bel romanzo – saggio La squadra spezzata, il libro che il giornalista Luigi Bolognini ha dedicato all’Aranycsapat. Un ragazzino come tanti, con il mito di Puskas, uomo da 84 reti in 85 partite in nazionale. Modello sportivo, ideale di vittoria sociale, sim-bolo di una nuova epoca. In Svizzera tutto inizia per il meglio, l’Un-gheria vola: 25 reti in quattro gare. Il finale sembra già scritto. A con-tendere il titolo nella finalissima di Berna, 4 luglio 1954, la Germania Ovest, umiliata dall’Ungheria 8-3 nella prima fase. Al 10° minuto del primo tempo tutto sembra finito: 2- 0 per l’Ungheria. La Germania, però, non ci sta e, in pochi minuti, si riporta sul 2-2. Sembra che gli ungheresi paghino un eccesso di spocchia, ma il risultato non pare in discussione. Invece, come una doccia fredda, a pochi minuti dal ter-mine Helmut Rahn segna il 3-2. A Puskas viene anullato inspiegabil-mente il 3-3. Arbitraggio filo-occidentale? Doping dei tedeschi (sei su undici dei giocatori della formazione teutonica morirono prima dei 60 anni per patologie controverse)?

Solo che l’Aranycsapat ha perso la partita più importante e nulla sarà mai più come prima. C’è chi collega alla sconfitta l’inizio del declino del regime ungherese e dei moti di piazza per una riforma democratica del Paese. Un malcontento strisciante che, nel 1956, scoppia nelle piazze con il leader Imre Nagy che annuncia un governo aperto non solo al partito comunista. Mosca reagisce inviando i carri armati. Nel sangue finiscono i sogni degli ungheresi, che per alcuni si mischiano alle la-crime di Puskas nel fango di Berna. Il giovane Gabor, nel romanzo di

18

Storie in fuorigioco

Bolognini, corre in piazza con la maglia del “ciccione”, ma qualcosa si è rotto e la stessa mitica squadra si disperde. A qualcuno va bene, come Puskas appunto. Riesce a fuggire e a raggiungere Madrid, dove vincerà tre Coppe dei Campioni e sei campionati, diventando una leggenda del calcio. Altri, come Kocsis, restano segnati e il grande attaccante si suiciderà a Budapest nel 1979.

I tedeschi ricordano i mondiali del 1954 come quelli del “miracolo di Berna”, mentre a Gabor e a tutti gli altri, in piazza, a Budapest, è rima-sto il gusto amaro del sogno spezzato sul più bello.

19

La lunga partita per l’indipendenza

La squadra che girò il mondo per un’Algeria libera

Sembra di vederli, stretti nelle giacche lise, immortalate da Gillo Pon-tecorvo nella Battaglia di Algeri. Mani che si stringono, mani che si torco-no per il nervosismo, milioni di sigarette. Soummam è un posto piccolo, ma di quelli che sanno farsi eterni. Anno 1956, la situazione in Algeria è rovente non solo perché è agosto. Il colonialismo francese, come un animale ferito, sente la fine vicina e mostra il suo volto più duro.

A Soummam, nella Cabilia ribelle che la Francia non ha potuto pie-gare mai, si tiene il congresso del Fronte di Liberazione Nazionale (Fln). C’è da preparare uno Stato, prima che esista uno Stato. L’Algeria sarà indipendente, bisogna farsi trovare pronti all’appuntamento con la storia. La piattaforma di Soummam sarà la base su cui costruire le fondamenta dell’Algeria libera e indipendente. Si discute di tutto, dall’organizzazione del futuro alla pianificazione della propaganda per la causa indipendentista. Studenti e lavoratori si costituiscono in asso-ciazioni, il programma è denso. Tra tutti, due uomini, un po’ in disparte. Non sarà facile, tra tanti problemi, convincere i grandi capi della Resi-stenza che anche il calcio può fare la sua parte.

Ne sono convinte due vecchie glorie del calcio algerino: Mohammed Boumezrag e Mokhtar Laaribi, quest’ultimo allenatore dell’Avignone, nel campionato di calcio francese. Devono convincere il Fln che anche una rappresentativa di calciatori può girare il mondo, perorando la cau-sa dell’indipendenza algerina. Ci riescono. Anche perché i capi hanno avuto un assaggio della potenza del messaggio globale del pallone, che proprio in quegli anni diventava fenomeno di massa. A Berna, nel

20

Storie in fuorigioco

1954, durante i campionati di calcio, il Fln aveva annunciato l’insurre-zione armata contro la Francia. Pochi mesi prima di Soummam, inoltre, nel maggio 1956, un cartellino rosso era diventato il detonatore della rabbia algerina.

Finale della Coppa Nordafricana, torneo tra formazioni del Maghreb occupato dai francesi. In finale arrivano due formazioni della stessa città dell’Algeria: Sidi Bel Abbès. Sono lo Sporting, formazione dei pied noirs (i coloni francesi) e l’Union, formata da musulmani. Il capitano dello Sporting si vede annullare la squalifica prima del match decisi-vo, la rabbia degli algerini è enorme. Ennesimo sopruso, regole violate dall’occupante, boicottaggio delle squadre composte da tunisini, alge-rini e marocchini.

Boumezrag e Laaribi sono determinati: creare una squadra che giri per il mondo portando all’attenzione di tutti le condizioni di vita degli algerini. Nessuno meglio dei campioni che giocano in Francia possono riuscirci, perché aderire a questo team significava perdere gli ingag-gi che garantiva il campionato francese. Nessuna delle stelle algeri-ne della Ligue 1, il camionato d’oltralpe, si tira indietro. Aderiscono al progetto il grande Mekloufi, del Saint-Etienne, Zitouni, del Monaco, Maouche, dello Stade-Reims e Ben Tifour del Monaco. Alcuni di loro erano nella lista del commissario tecnico francese per i prossimi mon-diali in Svezia, previsti nel 1958, eppure non si erano tirati indietro.

L’appuntamento per tutti è a Tunisi, dove il presidente Bourghiba, dopo aver portato all’indipendenza il suo Paese, nel marzo 1956 era diventato il protettore politico dei vertici del Fln. I giocatori e i tecnici si lanciano nell’impresa, in gran segreto, di raggiungere la Tunisia. Ci vogliono due anni, ma alla fine un gruppo passa il confine francese in macchina e, dall’Italia, si imbarca per il Nord Africa. Un altro gruppo, in treno, rag-giunge la Svizzera e prende un volo per la Tunisia. Ce la fanno tutti, tran-ne il povero Maouche, che faceva il servizio militare. Lo arrestano e con l’accusa di diserzione sconta quattro anni di carcere.

I giornali francesi, dopo che si diffonde la notizia dell’arrivo dei gioca-tori algerini a Tunisi, il 13 aprile 1958, danno ampio risalto alla vicenda. Loro posano per una mitica foto, sulla pista dell’aeroporto della capi-tale tunisina, vestiti da impiegati ma sistemati tra in piedi e accosciati

21

La lunga partita per l’indipendenza

come nelle foto prima dei match di calcio. E’ l’inizio della leggenda, quella del le onze dell’indépendance (l’undici dell’indipendenza), più noto del nome ufficiale di Equipe du Fln de football. Tra il 1958 e il 1962, quando l’Algeria ottenne l’indipendenza, giocarono più di ottan-ta partite. Vincendole quasi tutte. La prima il 3 maggio 1958, contro la Tunisia, per 5-1. Poi Pechino, Belgrado, Hanoi, Tripoli, Rabat, Pra-ga, Damasco, Amman, Budapest, Sofia e Budapest. Tutti i Paesi che non avevano ceduto, anche per motivi politici, al ricatto della furibon-da Francia che aveva obbligato la Fifa a sanzionare le federazioni che avessero giocato contro le onze dell’indépendance.

Le cronache dell’epoca la ricordano come una squadra spettacolare e offensiva, ma non è questo quello che conta. Il messaggio politico era devastante per coloro che a Parigi non volevano mollare l’Algeria: ragazzi algerini, che avevano successo in Francia, avevano rinunciato a soldi e fama per inseguire un sogno di libertà. Lo capirono in molti, compresi i leader politici che vollero accoglierli e farsi fotografare con loro, dal comandante Giap a Ho Chi Minh, passando per Zhou Enlai.

Dopo l’indipendenza molti di loro restarono a giocare nel campiona-to algerino, altri tornarono in Francia, giocarono ancora in Ligue 1. Liberi di sentirsi algerini.

Sono passati tanti anni e l’Algeria è molto cambiata, passando per una drammatica guerra civile negli anni Novanta. L’attuale presidente, Abdelaziz Bouteflika, ragazzo all’epoca della lotta anti francese, ha im-parato la lezione dell’onze dell’indépendance e del potere del calcio. In epoca di primavere arabe, meglio stare attenti. Ecco che il governo, in previsione delle elezioni amministrative del maggio 2012, ha deciso di fermare il campionato. Tra le tifoserie che Bouteflika teme quella della Jeunesse Sportive de Kabylie, il simbolo dei cabili, che anche nell’Alge-ria indipendente continuano a lottare per la loro identità. Perché certe cose, come la Cabilia e il pallone, non cambiano mai.

Pallonate contro un muroIl giorno che la Germania Est, fuori casa, ha battuto la Germania Ovest

24

La prima guerra del football

Lo spareggio mondiale tra Honduras ed El Salvador nel 1969 divenne il pretesto per un conflitto sanguinoso

Il marketing è diventato sempre più importante. Si conquista spazi sempre più imponenti nelle nostre vite e, nostro malgrado, orienta tante scelte. Nel 1969, magari, non era così. Ma volete mettere l’appeal del nome “guerra del calcio”, rispetto a “guerra delle cento ore”? Con tutto il rispetto per le vittime, non c’è paragone.

Ecco allora che il breve conflitto tra Honduras ed El Salvador del 1969 che poteva finire nella soffitta della storia diventa un’icona. Molto più dei seimila morti che si è lasciato dietro. Avete capito bene, seimila. Dal 14 al 20 luglio 1969. Un massacro orribile, che finirebbe dimen-ticato fra tanti, troppi altri eccidi stupidi come tutte le guerre. Invece quello che accadde in quella estate centroamericana è stato immor-talato per sempre dal grande reporter polacco Ryszard Kapuscinski e dal suo libro La prima guerra del football e altre guerre di poveri. Il vecchio detto che se un albero cade in una foresta deserta non fa rumore vale anche per le vite degli innocenti. Tutto era iniziato con la deportazione di trecentomila salvadoregni da parte del governo dell’Honduras. La lotta per il mercato delle banane, con le multinazionali Usa nel ruolo del burattinaio, aveva generato un boom economico honduregno per il quale si erano rese necessarie le braccia dei disperati campesinos del Salvador. Queste persone avevano investito tutto nei loro appezza-menti di terra, ma una legge del governo dell’Honduras li espropriava di tutto. Le relazioni tra i due Paesi, mai eccellenti, precipitarono. In quegli stessi giorni, come se c’entrasse qualcosa, le nazionali di calcio

25

La prima guerra del football

di Honduras ed El Salvador si giocavano la qualificazione alla Coppa del Mondo in Messico del 1970. Il calcio, però, è un grande megafono popolare e il pallone venne strumentalizzato politicamente.

L’8 giugno 1969 era in programma, a Tegucigalpa, capitale hondure-gna, la partita di andata tra le due compagini. La squadra di casa vinse 1-0, contro una formazione dell’El Salvador intimorita dalla rabbia dei tifosi dell’Honduras che ne avevano assediato l’albergo tutta notte e assalito il pullman che portava allo stadio i giocatori salvadoregni.

La partita di ritorno, a San Salvador, si giocò una settimana dopo. Que-sta volta s’impose, per 3-0, la squadra dell’El Salvador. La vittoria venne presentata come la vendetta di un popolo intero. Durante il primo match, infatti, la diciottenne Amelia Bolanos, nella sua casa di San Salvador, si era tolta la vita con un colpo di pistola per la sconfitta dei suoi beniamini. Lo stato salvadoregno e i media ne fecero un simbolo, elevandola a martire della barbarie honduregna e tributandole funerali di Stato.

«Giunse un momento in cui davvero tememmo per la nostra vita. Una scheggia di petardo ruppe il vetro di una finestra della stanza in cui dormivo con altri tre compagni. Cadde anche una bottiglia incen-diaria che fortunatamente non scoppiò», raccontò Tonín Mendoza, il capitano honduregno.

I gocatori dell’Honduras, assediati in hotel, decisero di rifugiarsi nella soffitta fino all’alba mentre la banda di tifosi seminava l’interno dell’e-dificio di uova marce, topi morti e stracci puzzolenti. Nelle prime ore del giorno della partita i giocatori si divisero in due gruppi e, dopo aver seminato gli inseguitori, si nascosero in casa di alcuni honduregni. «A me toccò una casa dove viveva uno che aveva una moglie salvadore-gna come pure i figli. Notavamo nei suoi occhi, come posso spiegare, una strana avversione», aggiunge Mendoza. «Fuggivamo come ladri. Non ci rendevamo conto che la storia era più grande di noi». In campo l’inno dell’Honduras venne sommerso di fischi e le bandiere del Paese “‘nemico” stracciate. Il drappello di tifosi honduregni al seguito ven-ne aggredito e due di loro restarono uccisi. Diventava necessario uno spareggio in campo neutro.

La partita decisiva venne fissata per il 26 giugno 1969 allo stadio Azteca di Città del Messico. Il governo messicano inviò cinquemila

26

Storie in fuorigioco

poliziotti per tentare di tenere sotto controllo la situazione, ma ci furo-no scontri tra le due tifoserie per ore. I tempi regolamentari terminaro-no sul 2-2. Ai tempi supplementari, la rete del salvadoregno Mauricio “Pipo” Rodríguez regalò al suo Paese il sogno mondiale. Ma il calcio pareva essere diventata l’ultima cosa. Pochi giorni dopo le relazioni diplomatiche tra Tegucigalpa e San Salvador vennero interrotte e gli eserciti scesero in campo. Il 18 luglio, dopo cento ore di inutile car-neficina, l’Organizzazione degli Stati Americani impose il “cessate il fuoco”. «Mai avrei potuto immaginare che un mio gol potesse avere una ripercussione tale, visto quello che poi è successo», ha racconta-to anni dopo, in un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais, Pipo Ro-driguez. «Solo dopo ho capito che non c’entravamo nulla, che quella partita venne solo utilizzata per fare quello che avevano già deciso di fare». Il governo di El Salvador, grato ai suoi giocatori per quella vitto-ria simbolica, dopo aver scaldato gli animi dell’opinione pubblica, si dimenticò di loro. «Lavorammo sei mesi gratis per poi sapere dalla Federazione che non c’erano soldi in cassa e, nonostante sia andato ai Mondiali, non mi diedero nemmeno una caramella», ricorda Pipo. «L’Honduras non ebbe più alcuna relazione con El Salvador per dieci anni. Per riprenderle fu organizzata una partita di calcio. Alla fine, era proprio nostra la colpa?».

27

Pallonate contro un muro

Il giorno che la Germania Est, fuori casa, ha battuto la Germania Ovest

Qualcuno sperava, dalla parte orientale del Muro di Berlino, che l’e-state 1974 non finisse mai.

Già la primavera si era annunciata con colori brillanti, come quelli che avevano dipinto il bianco e nero delle televisioni chiudendo per sempre un’epoca. Il Magdeburgo, che adesso galleggia in 4a Divisione in Germania, aveva sconfitto l’8 maggio – a Rotterdam – il grande Mi-lan di Gianni Rivera.

Due a zero secco, Coppa delle Coppe in bacheca. Il primo, e unico, trofeo continentale vinto da una squadra della Germania Est. Ma il sogno era all’inizio, la primavera annunciava l’estate. Anche nel 1974. Nella formazione del Magdeburgo giocava Jürgen Sparwasser, una punta crudele. Di quelle che in area non lasciano scampo, se la palla è buona. La parte occidentale della Germania non si curò del trofeo vinto oltre cortina, con quella supponenza che poteva regalare la vit-toria netta del Bayern Monaco in Coppa dei Campioni. Un 4-0 secco all’Atletico Madrid. I fratellastri dell’Est si godessero pure la loro cop-pa minore, c’era un mondiale da ospitare. I campionati del mondo del 1974, infatti, li organizzava proprio la Germania Ovest. I sorteggi del girone, come se si fossero tenuti nel castello dei destini incrociati, mettono di fronte nello stesso girone (numero 1) della prima fase le due Germanie. Appuntamento fissato per il 22 giugno, Volksparksta-dion di Amburgo. Primo e unico derby tedesco della storia, a livello di rappresentative nazionali.

28

Storie in fuorigioco

Nessuno, all’ovest, si rovina il sonno per Sparwasser. Si guarda già oltre, agli avversari di sempre: Brasile, Italia, Argentina. La Germania Ovest assalta il girone come una divisione di panzer: Cile e Australia sono spazzate via. La Germania dell’Est, invece, si fa imporre il pari dai cileni. Passano le prime due e, visti i risultati, le due Germanie nello scontro diretto si contendono non solo il primo posto. La Germania Est ha tre punti e il Cile uno. Se i sudamericani battono l’Australia e i tedeschi orientali perdono con quelli occidentali c’è il rischio di tornare a Berlino Est. In palio, però, non c’è solo quello. C’è aria di lezione di vita, esibizione di muscoli, superiorità da ostentare.

Forse il destino era scritto nel nome di quello stadio, Parco del Po-polo, che avrà strizzato un occhio ai cugini dell’Est. Forse in quel 1974 doveva andare così. Resta il fatto che tutto avvenne in un attimo. Jür-gen Sparwasser s’infilò tra il grande portiere Sepp Maier e il terzino d’acciaio Berti Vogts, lasciandoli per terra come salami, infilzando il capitalismo con un destro in diagonale.

Viene immortalato nell’Olimpo del calcio, per sempre, con le braccia levate al cielo, come gli 8.500 tifosi venuti quella notte ad Amburgo dall’Est, con un visto che durava poco più di novanta minuti.

Un po’ incredulo, ma felice. Alle sue spalle il kaiser Beckenbauer, of-feso come Golia di fronte al più piccolo dei Davide.

Finì 1-0 per la Germania Est, in casa dei fratellastri occidentali. Un trionfo che la politica a Berlino Est non avrebbe mai sognato, tanto che per anni aveva deciso di investire (con mezzi leciti e meno leciti) in altre discipline sportive. Nel calcio, a livello di immagine, la Germania Ovest era troppo forte e il pallone nella Germania orientale diventava il rifugio degli scarti degli altri sport. Quella calda sera di giugno, del 1974, non andò così. Fu vana gloria, perché quel campionato del mon-do lo ha vinto la Germania Ovest. Vincendo quella partita, Sparwasser e compagni finirono primi nel girone e, al secondo turno, beccarono Brasile, Argentina e Olanda.

Un massacro. La Germania Ovest, invece, andò fino in fondo e alzò la coppa al cielo. Avesse pareggiato, magari, la Germania Est poteva essere al posto dei colleghi occidentali il giorno della finale. Nessuno può dirlo, ma il 77° minuto di quella partita di Amburgo, di quel 1974,

29

Pallonate contro un muro

non se lo dimenticherà nessuno lo stesso. Un silenzio come quello dei 58mila spettatori della Germania Ovest, almeno per Sparwasser, vale una coppa del Mondo. Nel 1988, come tanti altri, Sparwasser saltò il muro e passò dall’altra parte. Si dice che alla Stasi, i servizi segreti del-la Germania Est, il funzionario di turno avvisato del fatto abbia detto: «No, proprio Sparwasser no...». Due anni dopo, in Italia, la Germania vince la Coppa del mondo, ma questa volta con una sola squadra.

30

Il derby che unisce

L’identità basca si nutre di simboli: la partita tra Athletic Bilbao e Real Sociedad è uno di questi

Il 12 dicembre 1976, su San Sebastian, splendeva un sole incerto. Come se volesse rivelarsi fino in fondo, ma soffrisse di un’improvvisa timidezza. Non bisognava, in nessun modo, far ombra all’unico astro a cui il destino aveva riservato la ribalta quel giorno: la ikurrina, la bandiera basca.

Dalle segrete dello stadio Atotxa spuntano le due formazioni, dispo-ste in linee parallelle. I colori di sempre: bianco blu per il Real, bianco rosso per l’Athletic. In testa alle due colonne i capitani: Ignacio Korta-barrìa, per la Sociedad e Josè Angel Iribar per il Bilbao. Tesa, come una vela al vento, tra le loro mani la ikurrina. E’ la prima volta nella storia contemporanea della Spagna che può accadere, senza che nessuno ci rimetta il collo. Il regime fascista del generale Francisco Franco, che rovesciò il governo repubblicano durante la Guerra Civile spagnola, era ormai solo un incubo. Non abbastanza lontano. Solo nel 1977 il governo di Madrid legalizzò la bandiera basca, ma quel 12 dicembre 1976 i capitani delle due squadre simbolo delle sette province basche, a cavallo tra Francia e Spagna, poterono osare tanto. Nel 1977, dopo la “liberalizzazione”, la bandiera basca fa bella mostra di sé dappertutto, nei Paesi Baschi. Anche durante gli anni della dittatura, in realtà, la comunità si stringeva forte attorno alla sua bandiera e alla sua lingua, ma doveva farlo con attenzione. Quel giorno no, ma proprio per que-sto aveva un sapore particolare. Per la cronaca la partita finì 5-0 per la Real Sociedad, ma il sole incerto di quel pomeriggio a San Sebastian, potete scommetterci, illuminava solo volti sorridenti.

31

Il derby che unisce

Nel mondo del calcio si è abituati a pensare ai derby come le sintesi della rivalità sportiva. In alcuni casi, in giro per il mondo, sono veri e propri simboli di odio e rancore. Nei Paesi Baschi è differente: tanti anni di repressione da parte del governo spagnolo hanno saldato il le-game tra due tifoserie che sono separate nel gioco del calcio, ma che si ritrovano nei propri simboli. Al punto che, per anni, i donostiarri (cu-gini) prima di ogni derby organizzavano cortei congiunti per le strade della città che ospitava il match di turno. Perché qui, nei Paesi Baschi, anche il calcio è un elemento di identità. Per anni i due club più rappre-sentativi hanno avuto solo giocatori baschi. Oppure, tutt’al più, ragaz-zi cresciuti comunque nelle giovanili delle squadre della regione. E’ il caso del portiere Biurrun, brasiliano, ma trasferitosi da bambino con i genitori a Bilbao. E’ stato il primo giocatore straniero a vestire la maglia dell’Athletic. La Real Sociedad, invece, a un certo punto ha deciso di venir meno alla tradizione, ingaggiando giocatori stranieri. Anche per la rivalità con il Bilbao. Infatti nei Paesi Baschi è destino che il derby sia originale: tanto i tifosi, per anni, sono stati legati dall’identità schiac-ciata dal pugno di ferro del governo centralista di Madrid, quanto le società non si possano soffrire. Il motivo? Danno la caccia, in una re-gione non immensa, agli stessi ragazzi. Il punto più basso dei rapporti è stato raggiunto nel 1996, quando l’Athletic ha soffiato il promettente ragazzino Joseba Exteberria alla cantera (il vivaio in Spagna) della Real Sociedad. E’ successo un disastro, con San Sebastian inferocita.

Resta la storia e, in quello, l’Athletic ha tenuto di più a coltivare il suo mito. Fondato nel 1898, è uno dei club più antichi del mondo. Il tempio di questo culto pagano è lo stadio San Mames, detto la Catedral, dove non esiste squadra che non giochi intimidita dal tifo assordante dei quarantamila tifosi. L’arco della struttura dell’architetto Manuel Maria Smith è uno dei simboli della città. Che non ha mai, a differenza di quelli della Real Sociedad, conosciuto l’onta della retrocessione. Anzi, il Bilbao (come la squadra di San Sebastian del resto), prima degli in-vestimenti miliardari di Barcellona e Real Madrid, ha vinto otto titoli nazionali e 23 Coppe di Spagna. Fiero della sua storia ha dovuto, per volere del dittatore Franco, piegarsi a cambiare nome e, dal 1941 al 1973, ha dovuto mutare il suo nome in Atletico de Bilbao, in linea con

32

Storie in fuorigioco

la radice “castigliana” che dovevano avere tutti i nomi. Ma la notte è passata e l’Athletic ha ripreso il vecchio nome, omaggio ai maestri inglesi che diffusero il gioco del football, sbarcando nei porti della Bi-scaglia. Se qualcuno si chiedesse, per caso, se i tifosi dell’Athletic Bil-bao non siano stanchi di accontentarsi solo di giocatori locali, basti un sondaggio del 2010: il 94 percento dei tifosi ha espressamente detto di volere che le cose non cambino. In attesa dell’infornata giusta di giovani, si godono i miti del passato. Come Rafael Moreno Arazandi, in arte Pichichi. Il sopranome gli venne dato per la sua statura minuta, appena 153 centimetri. A lui, però, l’altezza non ha impedito di segnare duecento reti in 170 partite. Una media insuperabile, che ha portato la Federazione a dedicare al bomber basco (che segnò la prima rete della storia del San Mames, il giorno della sua inaugurazione dello stadio il 21 agosto 1913) il titolo di miglior cannoniere del campionato spagno-lo. Il Pichichi morì a soli 28 anni, per il tifo contratto mangiando cozze andate a male. Ma il mito, a Bilbao, non muore mai. Di lui restano un busto all’ingresso della Catedral, dove i capitani avversari depongono un mazzo di fiori, e un ritratto: Idillio en los campos de sport, di Aure-lio Arteta. Ritrae il bomber, con il suo inseparabile copricapo bianco, mentre amoreggia con sua moglie, Avelina Rodriguez, conosciuta allo stadio nell’intervallo di una partita.

Un altro mito è il bomber Zarra, nome d’arte del centravanti Tel-mo Zarraonaindia, l’uomo che con i suoi 251 goal in quindici anni è il miglior marcatore di sempre per los leones, come vengono chiamati i giocatori dell’Athletic in onore di San Mames, dato in pasto ai leoni che si rifiutarono di mangiarlo. Ma la storia, da queste parti, è come un cerchio. E si chiude attorno alla figura di Josè Angel Iribar. Proprio lui, il portierone dei los rojiblancos (altro soprannome della squadra, per il colore delle maglie) che quel 12 dicembre 1976 portò la bandiera basca, deponendola al centro del campo, prima del derbi vasco, come tutti chiamano la sfida tra San Sebastian e Bilbao. Iribar è il giocatore che ha giocato più partite nella storia del club, difendendone la porta per diciotto stagioni. Lo chiamavano el chopo, il pioppo, per il suo fisico lungo e affusolato. La fascia di capitano al braccio, una bandiera basca, la portano tutti i capitani della squadra da allora. Si ritirò il 31 maggio

33

Il derby che unisce

1980, organizzando una partita di beneficenza. L’incasso? Venne de-voluto alla pubblicazione del primo dizionario sportivo in lingua basca. Dopo un’infelice parentesi politica, tra le fila di Herri Batasuna, ritenu-to dai sui detrattori il braccio politico dei miliziani dell’Eta, è divenu-to il presidente onorario del club. Anche dal suo voto è passata una decisione storica, nel 2009. Quella di sporcare le maglie del club, da sempre intonse, con uno sponsor. Nel dubbio hanno scelto la Petronar. Cos’è? La prima compagnia petrolifera basca, ovviamente.

La mano di DioQuando Maradona, a modo suo, vendicò la sconfitta argentina contro l’Inghilterra alle Falkland/Malvinas

36

La mano di Dio

Quando Maradona, a modo suo, vendicò la sconfitta argentina contro l’Inghilterra alle Falkland/Malvinas

Di questi tempi la storia si fa memoria per immagini. I mondia-li di calcio, per esempio, non si possono raccontare senza la “mano de dios”, la rete irregolare segnata da Diego Armando Maradona nei quarti di finale dell’edizione 1986, in Messico, contro l’Inghilterra.

Per un momento, però, si può allargare l’immagine a tutto quello che c’era attorno. L’attimo diventa leggenda, ma si nutre anche di fram-menti, di attori non protagonisti.

Quali sono le comparse di quel 22 giugno 1986, stadio Azteca di Cit-tà del Messico? Quali i co-protagonisti che hanno contribuito a creare un momento eterno? In primo luogo gli avversari: l’Inghilterra.

Il portiere, per esempio, Peter Shilton. Un gentiluomo dei campi di calcio, per 125 volte a difesa della porta inglese. Al 51° del primo tem-po, come un lampo, resta accecato dall’inserimento centrale di quel folletto indemoniato, un casco di riccioli e il numero dieci sulle spalle. Il più grande, ma basso. Molto basso. La palla è alta e Shilton, forte dei suoi 185 centimetri, esce di pugno. Non sarà un problema con uno così. Invece la palla finisce in fondo al sacco. Shilton ammise di non aver visto subito il tocco di mano con cui Maradona segnò, perché di fronte al lampo, si chiudono gli occhi. Passato attraverso proble-mi finanziari dovuti al vizio del gioco e ad affari sbagliati, oggi Shilton si guadagna da vivere come conferenziere, dopo essere entrato nel guinness dei primati per aver giocato più di mille partite. Accanto a lui merita un posto Steve Hodge.

37

La mano di Dio

Nell’azione della “mano de dios”, Hodge si trova a marcare il grande attaccante argentino Valdano. Non il massimo per un mediano. Mara-dona cerca il compagno, alzando la palla che s’impenna e arriva nella zona di Hodge. Una frazione di secondo per scrivere la storia. Basta un rinvio di quelli che chiamano alla “viva il parroco”, nel senso del gioco da oratorio, con la palla cacciata via a campanile. Hodge, invece, non azzecca il rinvio. Allunga nella direzione sbagliata, verso Maradona. Quello ha i piedi d’oro, ma stavolta usa la mano. Il buon Steve poteva cambiare il destino. Nessuno lo ricorderebbe più, il 51° minuto di quel-la partita. Invece è diventato storia. Forse Hodge l’ha capito subito, tanto da chiedere a Maradona di scambiare la maglia con lui a fine partita. Quella maglia riposa adesso al Museo del Calcio della citta-dina britannica di Preston. Tutto si può dire degli inglesi, tranne che non apprezzino la storia del calcio, anche quando gli è avversa. Della maglia di Hodge, invece, non si è saputo più nulla. Il vecchio mediano inglese, oggi, si diverte ad allenare i ragazzini, magari cominciando dai fondamentali. Il rinvio, per esempio.

In questa storia ci sono altri attori non protagonisti. L’arbitro tunisino Ali Bin Nasser, che fu l’unico a non rendersi conto di quello che il mon-do aveva visto in tempo reale. Assediato dai giocatori inglesi inferociti, indietreggiava insicuro, cercando con gli occhi un altro attore non pro-tagonista di questa storia, il guardalinee bulgaro Bogdan Dotchev. Di Bin Nasser si sono perse le tracce, mentre il povero Bogdan, linciato da milioni di occhi in tutto il mondo, adesso si gode la pensione, dopo una seconda vita da ispettore in una compagnia di assicurazioni. Nel 2007, in un’intervista, ammise di aver visto che Maradona aveva segnato con la mano, ma di essere stato zittito dall’arbitro tunisino, a suo dire incapace di reggere la tensione di una partita così importante.

L’ultimo attore, anzi attrice, non protagonista, è il più importante: la guerra delle Falkland/Malvinas, uno sparuto spruzzo di isole al lar-go delle coste argentine. Retaggio coloniale britannico, diventano il simbolo del revanscismo della dittatura dei generali di Buenos Aires. Meglio parlare delle isole rubate dalla perfida Albione, che delle mi-gliaia di inermi cittadini finiti desaparecidos nelle tenaglie dei tortu-ratori di regime. Il generale Galdieri ordina, tra marzo e aprile 1982,

38

Storie in fuorigioco

l’invasione delle isole e impone la bandiera argentina. Sua Maestà britannica e la Lady di Ferro Thatcher mandano le navi da guerra e a metà giugno riconquistano le isole, perdendo più di 250 uomini e uccidendo quasi 650 argentini. Maradona, tra i suoi mille talenti, aveva quello di sapere sempre cosa dire, anche quando la realtà non era una partita di calcio. Lo fece anche quella volta, prima carican-do i compagni nello spogliatoio quel 22 giugno 1986, inneggiando alle Malvinas, come gli argentini chiamano l’arcipelago che per gli inglesi è quello delle Falkland. Poi, a fine partita, di fronte alle accuse di tutto il mondo, se la cava così: «Come ho segnato? Un po’ con la testa di Maradona e un po’ con la mano di Dio». A Londra e a Buenos Aires, evidentemente, non chiamano le cose allo stesso modo. Per gli inglesi è rimasta la “mano del Diavolo”. Diego cavalcò il senti-mento nazionale argentino, riuscendo a strappare un sorriso anche a coloro che lo avevano condannato per la sua scarsa lealtà sportiva. Davide che sconfigge Golia, la “mano de dios” che colpisce l’arrogan-za britannica, anche se dall’altra parte c’era la follia della dittatura dei militari in Argentina. Quando il calcio diventa metalinguaggio. Maradona, si sa, dell’autolesionismo ha fatto una costante. Al punto che, senza volerlo, la rete di mano ha finito per far rifulgere meno il secondo goal, che segnò al 55°, saltando come birilli mezza squadra inglese. Lo hanno votato “il goal del secolo”, ma queste sono valuta-zioni che restano nelle mani di Dio. Quello del calcio, s’intende.

39

La bandiera strappata

Gli incidenti tra i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa Belgrado nel 1990 sono diventati il simbolo dell’imminente catastrofe in Jugoslavia

Faceva un gran caldo a Zagabria quel 13 maggio 1990. Non per le condizioni climatiche, ma per la tensione elettrica che attraversava la città. Nel primo pomeriggio era in programma la “grande classica” del campionato jugoslavo: Dinamo Zagabria – Stella Rossa Belgrado. I tifosi si dirigono verso lo stadio, facce tese, tra uno spiegamento di poliziotti impressionante.

Il 13 maggio 1990 è uno di quei giorni obliqui, dove i contorni si sfu-mano, e una partita di calcio smette di essere importante solo per la classifica. Il maresciallo Tito, che con le buone o con le cattive aveva costruito la Federazione jugoslava dopo la Seconda Guerra mondiale, era morto da dieci anni esatti. Le repubbliche federate erano scosse da fermenti nazionalisti e le squadre simbolo delle capitali di Croa-zia e Serbia, quel giorno, rappresentavano molto di più della rivalità calcistica per i tifosi sugli spalti dello stadio Maksimir. Certo tra i Bad Blue Boys (nome ispirato a un film del 1983 con Sean Penn), gli ultras della Dinamo, e i Delijie (eroi), quelli della Stella Rossa, non correva buon sangue. Solo che tutto, in quel periodo, prendeva un sapore dif-ferente, come aveva dimostrato la partita Partizan Belgrado – Dinamo Zagabria del 19 marzo 1989. La Dinamo vinse a Belgrado e, prima allo stadio, poi lungo le strade che riportavano i tifosi alla stazione, erano volate parole grosse. Parole intrise di odio e nazionalismo. In Croazia, il 7 maggio 1990, si erano tenute le prime elezioni libere del dopoguerra

40

Storie in fuorigioco

e la vittoria era andata ai nazionalisti guidati da Tudjman. Il calcio è uno specchio della società e la partita, pochi giorni dopo il voto, di-venta un’occasione per i tifosi croati di dare sfogo alle loro ambizioni indipendentiste contro il simbolo calcistico di Belgrado: la Stella Rossa. Il capo degli ultras belgradesi è un certo Zeljko Raznatovic. Un poco di buono che alla testa dei suoi fedelissimi, che ama chiamare Tigri, parte alla volta di Zagabria. Solo dopo diventerà noto in tutto il mondo con il suo nome di battaglia: il comandante Arkan.

Arkan, finito assassinato a Belgrado nel 2000, in un’intervista ri-lasciata nel 1994 ricorda così quel giorno: «Avevo previsto la guerra proprio dopo quella partita a Zagabria». Forse perché era lui stesso parte del meccanismo micidiale, nutrito di falsi sentimenti patriottici e di interessi illegali, che si scatenò nella ex Jugoslavia all’inizio degli anni Novanta. Fatto sta che Arkan e i suoi prima devastarono il treno per Zagabria, poi fecero a pezzi tutto quello che trovarono sulla strada per lo stadio. Nell’impianto i tifosi della Dinamo li attendono con cori violenti e offese anti serbe.

E’ incredibile pensare che solo dieci anni prima, il 4 maggio 1980, le stesse due squadre, in lacrime, sospesero la partita alla notizia della morte del maresciallo Tito. Si piangeva sugli spalti e sul terreno di gioco, cantando Druze Tito mi ti se kumeno, promessa eterna di fratellanza e unità.

Quel giorno, a Zagabria, però, i sentimenti in campo erano facili da strumentalizzare. Lo speaker non ha ancora finito di leggere le forma-zioni che i tifosi serbi, al comando del loro “eroe”, sfondano le recin-zioni e si avventano su tutto quello che riescono a distruggere nello stadio. I Bad Boys non si fanno pregare e attaccano. La polizia non sa che pesci pigliare. Cominciano i corpo a corpo in mezzo al campo, tra i tifosi compaiono anche alcuni giocatori. Uno di loro è Zvonimir Bo-ban. Anche se ha solo 21 anni è il capitano della Dinamo, la stella della squadra, che davanti a sé ha una brillante carriera in Italia. Prima, però, si butta nella mischia. I tifosi della Dinamo sfondano le recinzioni e si lanciano verso la curva opposta, i poliziotti tentano di evitare un mas-sacro manganellando tutto quello che passa loro davanti.

Compreso Boban. «Non ci vidi più. Mi avventai su un poliziotto e gli

41

La bandiera strappata

gridai: ‘Vergognatevi. State massacrando i bambini.’ - raccontò il gio-catore, chiamato Zorro dai suoi fans - Lui mi colpì due volte urlando: ‘Brutto figlio di puttana. Sei come tutti gli altri!’ A quel punto ebbi una reazione d’istinto. Gli fratturai la mascella con una ginocchiata». Alla fine la calma tornò allo stadio, con un bilancio di più di cento feriti. Che le cose fossero oblique, quel 13 maggio 1990, se ne resero conto tutti il giorno dopo, leggendo la stampa croata e serba. Tutti i media parlaro-no solo di teppisti allo stadio, ma era evidente la strumentalizzazione che avveniva ormai in tutta la Jugoslavia da parte dei circoli naziona-listi. Non a caso all’inizio del campionato successivo, il 26 settembre 1990, prima giornata dell’ultimo torneo della Jugoslavia unita, la par-tita Partizan Belgrado – Dinamo Zagabria degenerò. Il Partizan andò in vantaggio per due reti a zero, i tifosi della Dinamo irruppero in campo e inscenarono una manifestazione per chiedere la nascita della Fede-razione croata di calcio. Armati di spranghe, riuscirono ad ammaina-re la bandiera jugoslava allo stadio, sostituendola con quella croata. Il 25 giugno 1991 Slovenia e Croazia dichiararono la loro indipendenza; seguì un conflitto sanguinoso che portò alla scomparsa della ex-Jugo-slavia. Gli incidenti del 13 maggio 1990 divennero un simbolo, tanto che alcuni ritennero di buon gusto erigere un monumento di fronte allo stadio di Zagabria con una targa che recitava: «Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia il 13 maggio 1990». Gli stessi che presero la foto di Boban che sfascia la mascella al poliziotto come il simbolo della rivolta croata. Nessuno di loro si è mai premurato di sapere chi fosse quel poliziotto. Avrebbe scoperto che era un ragazzo bosniaco e musulmano. Intervistato anni dopo, ha dichiarato di perdonare Boban per il suo gesto, perché quelli erano giorni dove le persone parevano cieche.

Il braccialetto verdeIl calcio e l’Iran: dalla vittoria sugli Usa alla contestazione ad Ahmadinejad

44

Il braccialetto verde

Il calcio e l’Iran: dalla vittoria sugli Usa alla contestazione ad Ahmadinejad

I campionati mondiali di calcio del 1998 sono, per tanti amanti del pallone, legati per sempre all’immagine triste del bomber brasiliano Ronaldo che, sconfitto in finale dai francesi, scende le scalette dell’ae-reo che lo riportava in Brasile tremante come un bimbo malato.

Non sono in tanti, invece, a ricordare un’anonima partita del girone F di qualificazione. Si gioca a Lione, stadio Gerlan, davanti a soli 39mila spettatori, che per un mondiale sono quasi niente. D’altronde il girone ha già emesso i suoi verdetti, qualificando al turno successivo (come da pronostico) Germania e Serbia-Montenegro. Quella, però, non era una partita come le altre.

Per la prima volta nella fase finale di un mondiale di calcio si incon-trano l’Iran e gli Stati Uniti. I due Paesi, dopo la rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini nel 1979, non hanno rapporti diplomatici. An-che perché quell’anno alcuni miliziani sciiti assaltarono l’ambasciata Usa a Teheran, sequestrando 52 persone per 444 giorni. I rapporti tra Iran e Usa non sono mai cambiati da allora, ma quel giorno tutti guar-davano con il fiato sospeso alla partita e a quello che poteva accadere.

Il clima che aleggiava sullo stadio Gerlan di Lione, in Francia, il 21 giugno 1998, lo racconta Urs Maier. L’arbitro svizzero, dopo il ritiro, ricorda così in un’intervista quella partita: «E’ stato il momento più in-tenso della mia carriera. Prima del fischio d’avvio la tensione era insop-portabile. Come reagiranno le due squadre? Cosa accadrà allo stadio? Mi troverò nella condizione di sospendere il match?».

45

Il braccialetto verde

Il povero Meier non sapeva cosa aspettarsi, magari avrà anche ma-ledetto l’urna che gli ha affibbiato questa patata bollente che di calci-stico aveva poco, ma di politico fin troppo. D’altronde il povero Meier è svizzero e a qualche dirigente della Fifa sarà sembrato l’uomo ideale.

La serata aveva, in effetti, in serbo un colpo di scena per l’arbitro, per la Fifa, per i tifosi allo stadio e a casa. Le formazioni dell’Iran e de-gli Usa, dopo essere entrate in campo, contravvenendo al protocollo delle manifestazioni ufficiali, non si dividono per le foto di rito, ma si uniscono a centrocampo (tirando per la manica anche l’arbitro Meier) per una foto ricordo storica. Tutti assieme. «Di grandi emozioni ne ho vissute tante nei campi di tutto il mondo», spiegò Meier. «Quell’ab-braccio spontaneo, però, me lo ricorderò per sempre». Le delegazioni ufficiali, infatti, non hanno mai commentato, confermando le indiscre-zioni secondo cui il gesto fu improvvisato dai giocatori senza che nes-suno ne fosse a conoscenza. Restava da giocare una partita e la vinse l’Iran. A livello tecnico non è che la contesa sia finita nei manuali del calcio, ma per l’Iran è stato un trionfo sportivo enorme. Battere gli Usa, abbraccio o no, era una gran bella soddisfazione, anche se nello sport meno popolare negli Stati Uniti. I marcatori di quel match, vinto 2-1, divennero eroi nazionali.

Hamid Estili e Mehdi Mahdavikia scolpirono il loro nome nell’albo d’oro della storia dello sport iraniano, mentre il povero McBride che accorciò le distanze alla fine non se lo ricorda nessuno.

I simboli, però, a volte sfuggono di mano. Il giugno 2009 non è voluto essere da meno di quello del 1998 e la storia è tornata a di-vertirsi con il calcio per lasciare il segno nei cuori e negli occhi della gente. Il 25 giugno 2009 è in programma a Seul la partita Corea del Sud – Iran, valevole per le qualificazioni ai mondiali in Sudafrica del 2010. Sono giorni di fuoco in Iran: all’inizio del mese si sono tenute le elezioni presidenziali e ha vinto il presidente in carica Mahmoud Ahmadinejad. Tanta gente, però, è convinta che le elezioni siano sta-te oggetto di pesanti brogli. L’opposizione va in piazza, il regime usa il pugno di ferro, macchiando di sangue le strade di Teheran. Il simbolo dei rivoltosi è il colore verde, indossato in qualsiasi modo. Mentre le formazioni di Iran e Corea del Sud si dispongono per la foto ufficiale,

46

Storie in fuorigioco

alcuni fotografi notano e riprendono i giocatori che indossano una fa-scetta verde al polso. Non è un caso. In Iran accade un putiferio, con gli oppositori che salutano i calciatori come eroi e il governo che ne sospende quattro da tutte le manifestazioni sportive, intimando loro di non rilasciare dichiarazioni e di rimuovere la fascia nell’intervallo della partita. Sei su undici non si piegano. Quattro la pagheranno cara: Alì Karimi, Hosein Ka’abi e Vahid Hashemian. Ne manca uno, forse quello che più di tutti ha fatto irritare il governo di Teheran. E’ proprio Mehdi Mahdavikia, autore dello storico gol contro gli Sta-ti Uniti nel Mondiale del 1998. Alla fine è stato perdonato e oggi Mahdavikia, dopo anni in Germania, è tornato a vivere e giocare nel suo Paese. Il merito di quella rete agli Usa gli è valso un perdono del governo. D’altronde la leggenda narra che lo stesso Khomeini, preso il potere, avesse voluto bandire il gioco del calcio. La fatwa non venne mai applicata del tutto e lo stesso ayatollah, da ragazzo, pare fosse un ottimo terzino.

47

La magia del calcio

Nel 2002 l’ex portiere del Camerun N’Kono arrestato in campo per un rito pagano

Chissà cosa sarà passato per la mente all’allenatore star, pagato come un attore di Hollywood, José Mourinho, quando ha fatto - a fa-vore di telecamera - il gesto delle manette. Allusioni, ammiccamenti o qualsiasi altra cosa fosse, è difficile che a Mourinho sia venuto in mente Thomas N’Kono.

Un’immagine a suo modo storica, quella di N’Kono trascinato fuo-ri da un campo di gioco, circondato da poliziotti, mentre mostra le mani ammanettate (per davvero) al pubblico e alle televisioni. Cor-reva l’anno 2002. Nello stadio di Bamako, capitale del Mali, sta per iniziare la semifinale della Coppa d’Africa. Si sfideranno i padroni di casa del Mali e il Camerun. N’Kono è il vice allenatore dei “leoni in-domabili”, come vengono chiamati i giocatori camerunensi. Nel suo Paese N’Kono è un’icona. Ha difeso per 112 volte la porta della nazio-nale, ha vinto due Coppe d’Africa, ha fatto bene nel campionato spa-gnolo, ha giocato tre mondiali, tra cui quello in Italia nel 1990. Un’e-popea mitica per i “leoni indomabili”, che arrivarono fino ai quarti di finale. Gigi Buffon, dai più ritenuto il miglior portiere del mondo, ha chiamato suo figlio Thomas, proprio in onore di N’Kono. L’Italia tutta, poi, lo ricorda bene. Ai mondiali del 1982, in Spagna, vinti dagli azzurri, N’Kono inchiodò l’Italia sull’1-1 nel girone eliminatorio. Fin qui la carriera da calciatore, finita dopo i mondiali del 1994 e un’e-sperienza nel campionato boliviano, A quel punto inizia la carriera di tecnico della nazionale, prima come allenatore dei portieri, poi come

48

Storie in fuorigioco

vice allenatore. E mago. Almeno questa è stata l’interpretazione del-la polizia maliana.

Le squadre stanno per fare il loro ingresso sul terreno di gioco, mi-gliaia di persone affollano da ore le tribune dello stadio di Bamako il 5 febbraio 2002. Il Mali, nei quarti di finale, ha eliminato a sorpresa il Sudafrica. I bafana bafana, come vengono soprannominati i nipo-tini di Mandela, denunciano di essere stati avvelenati prima della partita con il Mali. L’idea sarebbe quella che gli organizzatori del torneo, per darsi una spintarella verso il turno successivo, abbiano avvelenato il cibo degli avversari. Nessun riscontro, ma torna alla ribalta un vecchio giocatore del calcio africano: la magia. Il 2002, infatti, è la prima edizione nella quale vengono espressamente vie-tati (per direttiva della federazione calcio africana) tutti i riti e i sortilegi prima, durante e dopo le partite. Si, avete letto bene. Tutti sono in grado di fare gli illuministi, ma in Africa l’arrivo dell’Islam e del Cristianesimo ha incontrato il padrone di casa ancestrale, un culto animista che si è sincretizzato con le religioni del Libro. Ecco che accanto ai crocefissi e ai minareti spuntano zampe di gallina e altri oggetti simbolici.

La storia del calcio africano è fatta di grandi giocatori, tecnici europei a volte impresentabili e tanti riti magici. Per anni, accanto al prepara-tore atletico, era indispensabile un buon stregone. Capace di aiutare la squadra, magari con qualche oggetto fortunato.

Alcuni li chiamano gris-gris, amuleti contro il malocchio. Uno di questi è nella mano di N’Kono che, da buon ex portiere, prima della partita si aggira attorno ai legni che difenderà il suo erede pochi minuti dopo.

La legge, però, è legge. Anche quando è dura. Almeno dieci poli-ziotti sono addosso al malcapitato N’Kono in pochi secondi. Il tecni-co camerunense tenta di difendersi, viene strattonato senza premure e, alla fine, ammanettato e trascinato verso gli spogliatoi. Attraver-sando la pista d’atletica, N’Kono è furioso e passando sotto la tribuna stampa gremita di corrispondenti di tutto il mondo alza al cielo le sue mani, proprio quelle, simbolo di mille battaglie. Chiuse nei ceppi. Il Camerun vince 3-0 e si aggiudica il diritto di giocare la finalissima.

49

La magia del calcio

Alla fine i “leoni indomabili” vinceranno il torneo. Il povero N’Kono, nonostante le scuse personali del presidente della Repubblica del Mali, si becca un anno di squalifica. L’Accusa? Rito magico vietato. Alla fine, però, il Camerun ha vinto. Il vecchio N’Kono, in qualche modo, si è reso ancora una volta decisivo per la sua nazionale.

La magia del calcioNel 2002 l’ex portiere del Camerun N’Kono arrestato in campo per un rito pagano

51

Insieme, per una volta

La storia del Bnei Sakhnin, squadra di calcio arabo-israeliana, che ha scritto una pagina di storia

Ci sono luoghi dove ammalarsi di retorica è facile. La Terra Santa è uno di questi, da troppo tempo una terra stretta per arabi e israeliani. Storie di convivenza pacifica, di multiculturalismo, di rispetto dell’alte-rità diventano extraordinarie a causa di un conflitto che non conosce soste dal 1948. In alcuni casi, però, la convivenza di facciata si trasfor-ma in un comune vissuto, con un sapore autentico.

Questa è la storia di una piccola squadra di calcio, il Bnei Sakhnin. Un nome che agli appassionati non dice molto, visto anche l’anonimo settimo posto di questa stagione nel campionato Ligat ha’Al, la serie A in Israe-le. Nel 2004, però, il Bnei ha scritto una pagina storica per tutti gli arabi israeliani che vivono nel Paese, vincendo la Coppa di Stato. Sono coloro che dal 1948, anno della nascita dello Stato d’Israele e del primo conflit-to arabo-israeliano, sono rimasti a vivere dove erano nati, al contrario di quasi ottocentomila profughi (divenuti ormai milioni) che abbandonaro-no la Palestina, per scelta o perché scacciati. Una minoranza nello Stato ebraico, che spesso si sente discriminata. Il Bnei, per loro, è diventato un simbolo. Prima raggiungendo la massima divisione, poi vincendo la coppa e arrivando a giocare una coppa europea, nell’élite del calcio.

A un passo dal sogno di vincere lo scudetto. Un sogno infranto dal dischetto. Ma questa è la fine di una storia che inizia nel 1992, quando bruciavano ancora i fuochi della Prima Intifada.

La cittadina di Sakhnin, 23mila abitanti in Cisgiordania, è zona oc-cupata da Israele nel 1967. Chi è rimasto ha passaporto israeliano e

52

Storie in fuorigioco

molti sono venuti qui inseguendo la Galilea biblica. Tra loro c’è Ma-zen Ghanayem, giovane imprenditore edile con la passione del calcio. In città c’erano due squadre insignificanti, Mazen con i suoi soldi ha supportato la fusione, diventando il presidente del Ittihad Bnei Sakh-nin, in arabo. Ihud Bnei Sakhnin, in ebraico. Ma è il significato quello che conta: Figli di Sakhnin Uniti. La squadra è un meltin pot: ebreo l’allenatore, arabo il presidente. In squadra giocatori di tutte le confes-sioni religiose, compresi i cristiani. In un decennio, dalla quarta serie, la squadra vola fino alle soglie della prima divisione, conquistata nel 2002–2003, battendo l’Hapoel Jerusalem all’ultimo minuto dell’ulti-ma giornata. Sugli spalti, come indemoniati, i tifosi arabi israeliani, che nella squadra cominciano a vedere un simbolo di emancipazione so-ciale. L’aspetto curioso, però, è che simbolo o non simbolo ci giocano pure gli ebrei, ed ecco allora sulle tribune bandiere con la Stella di Da-vid accanto a bandiere palestinesi. In una cittadina dove, il 30 marzo 1976 (da allora ricordato come il Giorno della Terra), sei arabi israeliani vennero uccisi dall’esercito durante una manifestazione contro la con-fisca di alcune terre e, nel 2000, tredici persone vennero uccise per gli incidenti scoppiati con la Seconda Intifada.

Tutto questo, però, allo stadio pare non entrare. La squadra vola e, nel 2003-2004, si lancia in una cavalcata trionfale che (da neopromossa) la porta a vincere la Coppa di Stato. Finale, nel grande stadio nazionale di Ramat Gan, il 18 maggio 2004, contro l’Hapoel Haifa, dopo aver fatto fuori in semifinale la corazzata Maccabi Tel Aviv (18 scudetti in bacheca). I biancorossi di Sakhnin vincono 4-1. E’ la prima squadra arabo-israeliana a riuscirci. Le strade di Sakhnin si trasformano in Rio de Janeiro. La rosa della squadra è un caleidoscopio (la chiamano “ar-cobaleno”): sette ebrei, dodici arabi, quattro africani, un brasiliano e un ungherese. Il capitano è Abbas Sowan, il primo arabo israeliano a finire sulle pagine di Sport Illustrated, per il pareggio all’ultimo minuto segnato in nazionale contro l’Irlanda, che per un pelo non manda la squadra ai Mondiali del 2006. «Sono contento che a batterci sia stata una squadra araba», dichiara a fine partita l’allenatore degli sconfitti, Uri Hoenig. «Sono convinto che questa sconfitta possa contribuire a migliorare la società israeliana, rendendola più giusta nei confronti di

53

Insieme, per una volta

tutti i suoi cittadini». L’anno dopo, la squadra gioca i preliminari per la Coppa Uefa. Elimina il Partizan Tirana e se la gioca con il Newcastle United. Perde ed esce, ma la soddisfazione di giocare nell’università del calcio resta per sempre.

La squadra cresce in popolarità, anche fuori dai confini. L’emiro del Qatar regala un nuovo stadio, chiamato appunto Doha, e un miliarda-rio israeliano aiuta il presidente palestinese a rendere più forte la squa-dra, simbolo di convivenza. Il paradiso si sfiora nella stagione 2007-2008. Il Bnei Sakhnin vola: dall’inizio è un testa a testa con il Beitar Jerusalem. Mica una squadra come tutte le altre. E’ quella dell’ultra-destra israeliana, i cui tifosi sono noti per le posizioni estremistiche e islamofobe. I capi ultras presentano la partita decisiva per il titolo come ‘’una lotta tra il nostro Dio e il loro’’ e ‘’una guerra santa contro i terroristi’’. Il lieto fine, si sa, non è di questo mondo. Il Bnei Sakhnin dà tutto e tiene il pareggio, pur contro una squadra che ha un budget enorme. I supplementari sono un supplizio, si va ai rigori. Finisce dal dischetto il sogno della cittadina di Sakhnin, battuta 3-1 dal Beitar. Ma in fondo è solo uno scudetto. Il Bnei Sakhnin ha fatto parlare in tutto il mondo degli arabi israeliani, ha fatto esultare israeliani e arabi assie-me, con gli stessi colori, non per un qualche progetto della comunità internazionale senz’anima. Erano proprio contenti di essere assieme. Tutto questo non verrà cancellato da un calcio di rigore, perché non è mica da questi particolari che si giudica un sogno.

La guerra non ucciderà mai il calcioLa vittoria in Coppa d’Asia dell’Iraq nel 2007 è solo un episodio della lunga storia del pallone in Mesopotamia

56

La guerra non ucciderà mai il calcio

La vittoria in Coppa d’Asia dell’Iraq nel 2007 è solo un episodio della lunga storia del pallone in Mesopotamia

Il 14 maggio 2010 a Tal Afar, poco prima del confine con la Siria, si giocava una partita di calcio. Una grande passione, per gli iracheni come per tanti altri. Almeno duecento persone si accalcano all’ingres-so del campetto alla periferia della cittadina a maggioranza sciita, un dettaglio che nell’Iraq della guerra infinita è diventato molto importan-te. Sembra proprio quest’ultimo, infatti, il movente del duplice attacco suicida che ha ucciso 25 persone.

Prima un’auto carica di tritolo lanciata sulla folla, poi un uomo in coda come fosse uno spettatore ha azionato la cintura esplosiva che nascondeva sotto la tunica bianca. La rivendicazione di un gruppo sunnita delirava di ‘’punizione per gli infedeli’’, gli sciiti appunto. Una giornata di ordinario terrore, ma colpire il calcio, in Iraq, è simbolico. Il rapporto tra lo sport più amato del mondo e la storia del Paese è molto antico e profondo. Un legame che Baghdad Football Club, bel libro del giornalista inglese Simon Freeman, racconta molto bene. Dai tempi della colonizzazione inglese, fino all’invasione della coalizione inter-nazionale nel 2003, passando per la follia di Uday, il figlio di Saddam Hussein, capo del Comitato olimpico iracheno. Storie, politica e guer-re. Sempre con il pallone in mezzo ai piedi. Ma tutto, il prima e il dopo, ha il suo apice nella notte del 29 luglio 2007.

A Giakarta, in Indonesia, si gioca la finale di Coppa d’Asia. Si sfidano l’Arabia Saudita e l’Iraq. I “leoni di Babilonia”, come vengono chiama-ti i giocatori della nazionale irachena, partono nettamente sfavoriti.

57

La guerra non ucciderà mai il calcio

Secondo gli osservatori hanno già compiuto un miracolo arrivando in finale, dopo la lotteria dei rigori contro la Corea del Sud. Noor Sidri, il portiere iracheno, ne prende due e i suoi compagni non sbagliano mai.

Si va in finale, ma i giocatori dell’Iraq, però, non sorridono mentre entrano in campo per giocarsi un trofeo mai vinto prima. Con il lutto al braccio. La notte della semifinale, il 25 luglio 2007, due auto bomba sono state fatte esplodere tra la gente che festeggiava per le strade di Baghdad. Il bilancio è di cinquanta morti. Molte donne e bambini. I giocatori, in albergo, dopo la festa, guardano il servizio in televisione.

«La molla decisiva ci è scattata dentro quando abbiamo guardato un servizio sulla madre di un bimbo di dodici anni. Era disperata: suo figlio è morto per festeggiare noi dopo la semifinale. Quella donna ci ha chiesto di vincere la coppa per suo figlio. Ci siamo guardati e sape-vamo quello che dovevamo fare, per lei e per tutto l’Iraq», racconta il capitano della squadra Younis Mahmoud. Il momento giusto è il 71°. Il mister brasiliano Jordan Viera è stato chiaro: sono più forti di noi, puntiamo sui calci piazzati. Un calcio d’angolo, dalla destra del portie-re. Younis sembra avere le ali, salta più alto di tutti e la mette dentro. I “leoni” difendono l’1-0 fino alla fine. Vincono, dedicando il trofeo (il primo nella storia dell’Iraq) al loro massaggiatore, padre di quattro fi-gli, ucciso da una bomba a Baghdad il mese prima. La coppa, invece, Younis e compagni la portano alla madre del piccolo. Le promesse si mantengono.

Prima di quella notte la Storia era stata vicina nel 2004, alle Olim-piadi di Atene. La rappresentativa irachena è riuscita ad arrivare alle semifinali, sconfitta ma con l’occasione di giocarsi la medaglia di bron-zo con l’Italia.

Sono gli azzurri a portare il lutto al braccio: poco prima, in Iraq, è stato assassinato il giornalista Enzo Baldoni. Segna il bomber Gilar-dino, gli occhi al cielo, per una dedica. Ancora l’Iraq, ancora la guerra, ancora la morte. Come nel 1986, quando la prima (e unica) storica qualificazione alla fase finale della Coppa del Mondo nella storia del Paese avviene proprio mentre l’Iraq è nel pieno di una guerra terribile con l’Iran che, in otto anni, ucciderà due milioni di persone. Sulla pan-china irachena siede un mito: Emmanuel Baba Dowud, detto Amma

58

Storie in fuorigioco

Baba, zio papà in arabo. Un campione, che ha imparato a giocare a calcio nella base militare inglese dov’è nato negli anni Trenta. Baba è il simbolo dell’Iraq e del suo rapporto con il calcio. Uday Hussein, il figlio di Saddam, gestiva il pallone come la sua piccola bottega degli orrori. I giocatori che, a suo dire, non si facevano valere in nazionale venivano torturati: costretti a calciare sfere di cemento, frustati su mani e piedi con cavi elettrici, addirittura condannati a morte per un’autorete. Baba è sempre là. «Uday mi odiava, perché ero così popolare che potevo an-dare direttamente da Saddam». Per molti è un fiancheggiatore storico del regime, per altri è uno che ama il calcio, tanto che la leggenda narra che abbia impedito ai tank Usa di entrare nello stadio di Baghdad. E’ morto nel 2009. Come il povero Heidar Kazem, che giocava nel Sinyer e ha segnato una rete alla squadra del Buhayrat, il 15 marzo. Un tifoso avversario gli ha sparato al cuore dalle tribune. Il calcio, in Iraq, è an-che questo. La notte di Giakarta uno striscione campeggiava tra i tifosi iracheni: ‘’La guerra non ucciderà mai il calcio’’. Forse è vero, tanto che nonostante il coprifuoco indetto dal governo dopo la semifinale, il 29 luglio 2007 tutto il Paese si è riversato in strada. Curdi, sunniti e sciiti. A Baghdad e altrove il calcio è stato spesso uno dei mezzi utilizzati dal potere per far dimenticare ai popoli che esiste la guerra.

Per tornare uniti in Iraq, però, da qualche parte bisogna pur cominciare.

59

Un calcio diplomatico

Le qualificazioni al mondiale 2010 hanno messo di fronte Armenia e Turchia. Dal pallone passa la distensione delle relazioni

Il lungo cammino della Coppa del Mondo di calcio in Sudafrica del 2010 inizia, come da regolamento, molto prima. Il 25 novembre 2007, per la precisione, giorno del sorteggio dei gironi di qualificazione alla fase finale. Il gran cerimoniere è sempre lui, il presidente della Fifa Jo-seph Blatter, il padrino del pallone.

Da consumato attore gestisce la serata e la passerella di ex glo-rie del calcio, intervallate da qualche numero di intrattenimento, per sorteggiare i gironi che in tutto il mondo eleggeranno le regine che si sfideranno in Sudafrica nel 2010. All’improvviso, senza che nessuno battesse ciglio, il delegato della federazione turca e di quella armena hanno un sussulto. Turchia e Armenia sono state inserite nello stesso girone. Non così facile come a dirsi, visto che per qualcuno è solo un gioco. Da anni i due Paesi non hanno relazioni diplomatiche, le frontie-re sono sigillate e roventi. La Turchia è stato uno dei primi stati, dopo la dissoluzione dell’impero sovietico, a riconoscere la neonata repubblica di Armenia, ma poi il grande freddo è sceso tra le rispettive diplomazie.

Prima la guerra del Nagorno-Karabach, impervia regione dell’Azer-baigian sulla quale l’Armenia rivendicava la sovranità. Nel 1991, crolla-ta l’Urss e nate le due repubbliche, scoppiò una conflitto che durò fino al maggio 1994. Oltre trentamila persone persero la vita, circa un mi-lione i profughi. Il cessate il fuoco pose fine alla fase acuta dei combat-timenti, ma non portò a un accordo definitivo di pace. Il Nagorno-Ka-rabakh è di fatto una repubblica indipendente, sostenuta militarmente

60

Storie in fuorigioco

dall’Armenia, ma il suo status non è riconosciuto dall’Azerbaigian e dalla comunità internazionale. Turchia compresa. Come se non ba-stasse, dal giorno della sua indipendenza, l’Armenia coltiva un sogno: il riconoscimento del genocidio patito dalla sua gente per mano dei militari turchi al crollo dell’Impero Ottomano, durante la Prima Guerra mondiale. Secondo fonti armene, dopo il collasso della Sublime Porta, i militari turchi che preparavano la Turchia del futuro uccisero almeno un milione e mezzo di armeni, ritenuti collaborazionisti del nemico ed elemento estraneo al Paese. Per i turchi, invece, ci furono delle vio-lenze indubitabili, ma non esisteva alcun disegno genocida e i numeri sono gonfiati ad arte dagli armeni.

La Fifa, che tra sponsor e diritti televisivi ha ben altro a cui pensare, fissa gli incontri delle due nazionali: andata il 6 settembre 2008 a Ere-van, in Armenia, ritorno il 14 ottobre 2009, a Bursa, in Turchia. Il destino, però, ama scrivere sceneggiature intrecciate e, manco a farlo apposta, proprio nell’anno che precede il primo incontro, molte cose importanti accadono ad Ankara. La Turchia, infatti, astro nascente dell’economia mondiale, vuole entrare nell’Unione europea. Gli stati Ue contrari sono tanti e accusano i turchi di violare i diritti umani dei curdi, di occupare militarmente la parte settentrionale di Cipro e di altre cose che la pon-gono lontano dagli standard europei. Uno di questi problemi sono i rap-porti con l’Armenia. Il presidente armeno è Serzh Sargsyan, un politico scafato. E lungimirante, tanto da intuire che le urne della Fifa, forse, gli hanno offerto un assist goloso. Non se lo fa scappare: nel mese di agosto del 2008, pochi mesi prima della partita contro la Turchia, invita il suo omologo turco Abdullah Gul ad assistere al match accanto a lui, nella tribuna dello stadio di Erevan. Ora Gul può rifiutare, dandosi la zappa sui piedi, mentre la Turchia cerca di piacere a Bruxelles, o cogliere a sua vol-ta l’occasione. Gul non si fa pregare e, nonostante il furore della destra turca e del governo azero, accetta l’invito di Sargsyan.

Anche quest’ultimo aveva dato prova di coraggio, dando notizia della sua idea di invitare Gul a Erevan durante una visita ufficiale alla diaspora armena a Mosca. Tra mille polemiche, i due leader paiono decisi. Al punto che, in gran segreto, pare che delegati dei due Paesi s’incontrino più di una volta a Berna per preparare la visita simbolica.

61

Un calcio diplomatico

Il grande giorno arriva: lo stadio Hrazdan di Erevan è gremito in ogni ordine di posto. Fuori dallo stadio esercito e polizia sono ovunque. Gul, resistendo fino all’ultimo minuto a pressioni enormi in patria, ha confer-mato la sua presenza solo 48 ore prima del fischio d’inizio. Sugli spal-ti uno sparuto gruppo di tifosi turchi, tra i 62mila sostenitori armeni, portano uno striscione: “E’ tempo per una fratellanza senza confini”. Si temevano disordini e contestazioni e invece fila tutto liscio. Solo quando la banda attacca l’inno nazionale turco viene giù lo stadio dai fischi, ma si sono fischiati inni nazionali in giro per il mondo per molto meno.

Gul arriva in tribuna e avanza verso Sargysian. Sorridono, si stringo-no la mano, si fanno fotografare assieme. Gul esulta due volte, per le reti di Tuncay e Senturk. Vince la Turchia 2-0, ma quello sembra solo un dettaglio.

La partita di ritorno è fissata per il 14 ottobre 2009, in Turchia. Po-trebbe essere un’occasione per festeggiare, invece che una per spera-re, come era stata la partita d’andata. Rotto il ghiaccio, infatti, Turchia e Armenia vanno come treni e per il 10 ottobre 2009 è annunciata la presentazione di protocolli d’intesa – ufficiali – tra i due Paesi. Una specie di Road Map che garantirà, nel giro di un periodo più o meno lungo, la soluzione dei contenziosi tra Ankara ed Erevan. Il presidente Gul, sulla falsariga di quella che per tutti è ormai la “diplomazia del cal-cio”, invita il presidente Sargysian ad assistere alla partita in Turchia al suo fianco. Il presidente armeno, come aveva fato Gul all’andata, fino all’ultimo non dà certezze e vincola la sua presenza all’effettivo passo avanti delle diplomazie.

Sembra una partita di calcio. Nessuno fa la prima mossa e, come direbbe un cronista d’antan, le squadre si studiano. Il 10 ottobre 2009, all’università di Zurigo, in Svizzera, è fissata la cerimonia della firma dei protocolli d’intesa. Usa e Svizzera mediano da mesi, ma le due de-lelgazioni tengono tutti con il fiato sul collo. A pochi minuti dall’orario fissato per la firma davanti ai cronisti, viene annunciato un ritardo per gli ultimi dettagli. Tempi supplementari. Finamente, dopo quattro ore di ritardo, viene firmato lo storico accordo sulla normalizzazione delle relazioni bilaterali tra Armenia e Turchia. Un elenco infinito di buone intenzioni e di tutto l’alfabeto del politichese, ma la firma c’è.

62

Storie in fuorigioco

Sargysian si può recare a Bursa, seguito da tremila connazionali. La Turchia, anche questa volta, vince 2-0. I marcatori sono Altintop e Ce-tin ai quali, in carriera, non capiterà più di giocare una partita “storica” davvero e non solo nella retorica del giornalismo sportivo. Dopo quasi due anni la situazione non è molto evoluta. La diplomazia internazio-nale è stata, come sempre, rapita da nuovi scenari e tra turchi e armeni quasi tutto è rimasto alla fase dei buoni propositi. La Turchia, per la cronaca, non si è qualificata alla fase finale del mondiale, nonostante i sei punti raccolti contro l’Armenia. Una vittoria di Pirro? Presto per dir-lo, ma soprattutto non è che il pallone possa risolvere tutti i problemi del mondo.

63

Il futuro in palio

Nell’anniversario della guerra civile in Libano, maggioranza e opposizione si sfidano a calcio per dare un segnale di unità

Nessuno mette in discussione le partite di beneficenza. Servono. Si raccolgono tanti soldi da utilizzare, almeno si spera, per progetti di solidarietà. Il nobile fine, a volte, rende meno imbarazzante la vista dell’attore bolso, del politico attempato, dell’ex calciatore impresenta-bile e così via che scorrazzano per un campo di calcio in calzoncini e magliette che ne fasciano i corpi non proprio atletici.

Il calcio, quindi, si fa sfruttare (nel senso buono del termine) per fini nobili grazie al potere oggettivo di comunicazione immenso che pos-siede il “gioco più bello del mondo”.

Il 13 aprile 2010 è accaduto qualcosa del genere. Preceduti dal mot-to un po’ banale Kùlluna farìq wàhid (siamo tutti una sola squadra), a Beirut, stadio comunale, sono scesi in campo i politici libanesi. Mag-gioranza contro opposizione. Maglia rossa per i primi, capitanati dal premier Hariri, maglia bianca per i secondi, guidati dal parlamentare di Hezbollah, Ali Ammar. Il presidente della Repubblica, Michael Su-leiman, e quello del Parlamento, Nabih Berri, si sono accomodati in tribuna a causa dell’età non più verde. Anche quelli che sono scesi in campo, in realtà, non hanno voluto esagerare e hanno preferito gio-care solo per trenta minuti. Mancava il leader supremo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ma la seriosità connaturata all’aura teologica della quale è circondato sconsigliava apparizioni in tenuta da gioco. Oltre al fatto che rientra nella lista nera d’Israele e un “omicidio mirato” con un razzo israeliano che colpisce uno dei giocatori della Partita del Cuore

64

Storie in fuorigioco

– come l’hanno ribattezzata i media libanesi – non è il massimo del marketing politico. Per la cronaca la partita l’ha vinta la squadra della maggioranza, per 2-0, doppietta di Sami Gemayel, uomo di punta dei falangisti, formazione cristiano-maronita fondata dal nonno del bom-ber di giornata e responsabile di svariati massacri durante la guerra civile in Libano.

Il 13 aprile è un giorno particolare per il Paese dei Cedri. Il 13 apri-le 1975, infatti, viene comunemente fissato come l’inizio del conflit-to interno che durò fino al 1990, causando la morte di duecentomila persone. Quel giorno Pierre Gemayel, nonno di Sami, fu oggetto di un attentato da parte di miliziani palestinesi e scatenò i suoi sgherri che massacrarono 27 civili palestinesi su un bus. Fu la scintilla che die-de inizio l’inferno, culminato nell’invasione dell’esercito israeliano nel 1982. La partita, quindi, è stato un bello spot per la pace, ma come di tutti gli spot bisogna diffidare della sua autenticità. Non a caso le tribune erano vuote. I libanesi hanno infatti potuto seguire la partita in televisione, ma non allo stadio, presidiato da centinaia di poliziot-ti e militari. Lo stesso accade per il campionato che si gioca a porte chiuse da anni per timore di scontri. Il calcio, in Libano, rispecchia una società multietnica che da troppo tempo, però, non riesce a conoscere la pace. Ogni squadra della capitale è il simbolo di una delle anime del Paese. L’al-Ansar, che detiene il record di scudetti, appartiene al clan della famiglia Hariri, punto di riferimento della comunità sunnita. La formazione al-Safa, invece, è la squadra più vicina alla comunità dei drusi guidata da Walid Jumblatt. La comunità cristiana è divisa in due pure nel mondo del pallone: il Sagesse è il team dei maroniti, il Racing quello degli ortodossi. Per finire gli sciiti, dove i seguaci di Hezbollah tengono per l’al-Ahed e gli altri per il Nejmeh.

Lo stadio di Beirut è uno dei simboli del martirio vissuto da questa parte del Mediterraneo. Durante la guerra civile, nel 1983, venne total-mente distrutto dai bombardamenti. Ricostruito nel 2000, fu la sede della partita inaugurale dell’edizione di quell’anno della Coppa d’Asia. Sempre nel 2000, l’esercito israeliano si ritirava dalle zone occupate e, per davvero, un nuovo futuro pareva stagliarsi all’orizzonte per il Liba-no. Il 14 febbraio 2005, però, il padre dell’attuale premier, Rafiq Hariri,

65

Il futuro in palio

imprenditore edile che aveva ricostruito gran parte della capitale (con una commistione pubblico-privato non sempre molto limpida) venne assassinato in un attentato. L’incubo della violenza tornò in Libano e, l’estate dopo, l’esercito israeliano attaccò di nuovo Beirut, con l’obiet-tivo di cancellare Hezbollah dalla faccia della terra, ma ottenendo solo di riportare indietro l’orologio del Libano agli anni bui della guerra ci-vile. Adesso la situazione politica è molto fluida, tra divisioni interne e paura di un nuovo attacco israeliano, per non parlare della crisi siriana. Non basta certo una partita a cambiare le cose, ma per i libanesi da-vanti alla televisione sarà apparso rassicurante vedere i leader politici litigare solo per una rimessa laterale.

La metà di nienteCeltic e Rangers, a Glasgow, potrebbero aver giocato l’ultimo derby

68

Campioni del mondo di fantasia

Un’edizione originale della Coppa del Mondo di calcio si è giocata a Gaza

Nel calcio, come nella vita, la fantasia fa la differenza. Gaza, per esempio. Non potete andare a vedere i mondiali di calcio? Allora i mondiali li potete immaginare. E giocare.

Anno 2010: prima di celebrare le star della pedata in Sudafrica, viene eletta la prima squadra campione del mondo di calcio. La Francia, per la precisione, che ai rigori ha piegato la Giordania. I francesi, questa volta, dal dischetto non perdonano. Anche se non proprio tutti sono francesi. Ma che importa? L’idea è venuta a Patrick McGrann, statuni-tense, e ad Ashraf Mohammed Hamad, palestinese. Il primo era uno dei tanti cooperanti internazionali, arrivato qui per aiutare la popola-zione locale. Lavorava per la Jumpstart International, costruiva scuole. Poi è arrivato Piombo Fuso, che si è rovesciato sulla vita dei palestinesi tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, portandosi via le vite di 1.400 persone. Quando l’esercito israeliano si è ritirato restava un cumulo fu-mante di macerie e le scorie di armi non convenzionali. L’ong di Patrick è andata via, lui no.

Ha fondato Kitegang, un’azienda no profit di giocattoli. Ashraf e Pa-trick insegnano all’Università di Scienze Applicate e hanno organizza-to una partita, tra i palestinesi e gli stranieri che vivono nella Striscia. L’entusiasmo non manca, i soldi si. Ci pensano la Banca di Palestina, il programma Onu per lo sviluppo (Undp), addirittura la Pepsi. Arriva-no divise da gioco e tutto il necessario, si formano le squadre. Sedici formazioni si danno appuntamento in campo, mischiando quasi quat-

69

Campioni del mondo di fantasia

trocento giocatori, tra ragazzi locali sorteggiati nelle varie nazionali e stranieri che difendono, a Gaza, i loro colori.

Manca il trofeo, ma non è un problema. Un po’ di artigiani di Gaza si danno da fare e raccogliendo i pezzi di metallo del disastro lasciato dall’operazione Piombo Fuso ne hanno fatto una copia della più celebre Coppa del Mondo. A questo punto tutto è pronto, calcio d’inizio fissato per il 2 maggio 2010. Una festa enorme accoglie i partecipanti, al punto che la differenza con i giocatori diventa minima, come testimoniano le foto sul sito della manifestazione (gazaworldcup.org) e il gruppo di so-stenitori su Facebook. Quelli che non possono entrare e quelli che non possono uscire si sfidano e si esprimono solidarietà allo stesso tempo. Come con una barriera da saltare con un tiro ad effetto, come un portie-re da aggirare con un dribbling ubriacante, prima di fare goal.

Una barriera sempre più soffocante, dopo che le elezioni del 2006 (per molti osservatori internazionali le più trasparenti del Medio Oriente) le ha vinte Hamas. Il vincitore sbagliato, per Israele, per l’Ue e per gli Usa. L’isolamento diventa assedio nel 2007, quando la rottura nella Striscia di Gaza tra Hamas e Fatah, il vecchio partito di Arafat, di-venta conflitto. L’assedio diventa inferno, quando a dicembre del 2008 Israele scatena la sua macchina di morte sulla Striscia.

Da quel giorno non entrano più molte cose, ma non è scappata per sempre la voglia di vivere della gente comune della Striscia. Magari, a volte, con un po’ di fantasia. Ecco che il torneo va avanti, fino alla finale, giocata il 15 maggio. Data simbolica, quella che i palestinesi chiamano Nakba, la catastrofe, riferita alla nascita dello Stato d’Israele.

L’Italia? Eliminata in semifinale. Pazienza, anche se quando vince la Francia un po’ ti girano. Gli azzurri, però, hanno avuto il merito più grande. Eliminare la Palestina, 1-0 su rigore, al primo turno. Brutta cosa eliminare proprio i padroni di casa? No, una cosa bella. Perché per una volta, in un campo di calcio, la Palestina si è sentita libera di essere uno Stato come gli altri. Ha perso, certo, ma si è sentita viva e della vita fa parte anche la sconfitta. Il problema, con tutta la fantasia del mondo, è quando fanno di tutto per non permetterti di esistere.

70

La metà di niente

Celtic e Rangers, a Glasgow, potrebbero aver giocato l’ultimo derby

A Glasgow il 25 marzo 2012, per qualcuno, non doveva finire mai. Spingendo la notte un po’ più in là, quanto basta per non andare a letto mai. I tifosi dei Rangers Glasgow hanno aspettato la mattina del derby, come sempre, con quell’adrenalina che vivono da anni. Come i loro pa-dri prima di loro, come i loro nonni, e così via fino al 28 maggio 1888, più di cento anni fa, quando si è giocato il primo Old Firm.

Viene chiamato così il derby di Glasgow, dove nessuno si illude che sia solo una partita di calcio. Rangers contro Celtic, protestanti contro cattolici. E’ così che viene raccontato ai bambini, da sempre. Noi e loro, senza mediazioni. Il 25 marzo, però, è una mattina strana, come tutte quelle che possono essere l’ultima. Questa volta non conta chi si ag-giudicherà il campionato scozzese o la coppa nazionale, o anche solo la supremazia cittadina nei (pochissimi in verità) casi in cui in palio c’era solo quella. Il 25 marzo può essere l’ultima volta.

La crisi globale che soffoca il mondo non risparmia nessuno, storia compresa. Anche quella del pallone, che per tanti è una storia minore. Non per i tifosi dei Rangers. L’Hmrc (la versione britannica del Fisco) non fa sconti a nessuno: entro il 31 marzo 2012 il club deve saldare i suoi debiti (più o meno cento milioni di euro) o ne verrà decretato il fallimento. Senza nessuna pietà per 139 anni di storia e 115 trofei vinti, in patria e all’estero.

La mattina del derby, questa volta, ha un sapore amaro. Non basta la paura di perdere, che ti accompagna sempre, ma anche quella di sparire. Così, come se questa storia non fosse mai esistita.

71

La metà di niente

Appuntamento a Iborx Park, la casa dei Rangers. Nessuna voglia di scherzare, anche se i cugini del Celtic ci avranno ricamato su questa storia del fallimento. Chissà che cori beffardi e senza pietà. Ma a casa non si resta. La birra al solito pub, la strada verso Ibrox. La seconda casa.

Giusto per rendere più amaro il boccone, il Celtic è lanciato verso il titolo. Quest’anno però, anche se fa male sempre, il destino può essere ancora più amaro. Resta da giocare una partita. I giocatori dei Rangers, quando indossano quella maglia, sanno di portare sul-la pelle una lunga storia. Naismith e Witthaker, ad esempio, hanno proposto al club di tagliarsi lo stipendio del 75 per cento per salvarlo. McCulloch, il veterano del team con 110 presenze in campionato, si è detto pronto a giocare gratis, ma il destino sembra inesorabile. Resta una partita da giocare.

Se non avete mai visto uno stadio prodotto della cultura anglosasso-ne non potete capire. L’assenza di pista atletica, la mentalità dei tifosi, ne fanno scenari unici. Il tuono che accoglie i giocatori dei Rangers è impressionante, pare che le gradinate di Ibrox avanzino verso il terreno di gioco per stringere i loro eroi in un abbraccio soffocante. «Può essere l’ultima ragazzi: vincete». Per 77 minuti la storia si ferma, come a rende-re omaggio a un club che ha contribuito a scriverla: all’11’ Aluko, al 72’ Little e al 77’ Wallace. A un quarto d’ora dalla fine della partita i Rangers sono avanti di tre reti. Non c’è fallimento che tenga, non c’è superiorità tecnica (di questa stagione) dei Celtic che può arginare un patto con il diavolo: vincere l’ultimo Old Firm. I ragazzi di Ally McCoist, grande bom-ber del passato, 418 gare e 251 reti con i Blue, hanno dato tutto.

I tifosi dei Celtic, che sono entrati allo stadio cantando «balleremo la conga/quando i Rangers moriranno», annichiliti. I Bhoys del Celtic si riprendono, gli altri ritornano normali. All’89’ Brown e al 90’ Rogne riaprono i giochi. I tifosi dei Rangers non credono ai loro occhi... può essere l’ultimo, non può finire male, non si può perdere anche l’ultima soddisfazione. Per fortuna l’arbitro fischia. I tifosi del Celtic dovranno aspettare per festeggiare il titolo. Quelli dei Rangers restano ai loro posti, con la squadra in lacrime al centro del campo. Piangono tutti. L’anno prossimo, con ogni probabilità, si riparte dalla quarta serie. Il campionato scozzese di calcio senza i Rangers sembra un ossimoro.

72

Storie in fuorigioco

E come un salvataggio sulla linea all’ultimo minuto, come una rete nel tempo di recupero, dagli Stati Uniti spunta Bill Miller, miliardario, come lo zio d’America dei racconti di un tempo o come il deus ex ma-china della tragedia greca. Presenta un’offerta di acquisto del club, i liquidatori si dicono soddisfatti. Ora tocca ai tecnici del Fisco, ma sembra fatta, nonostante un tira e molla con tifosi oltranzisti e pseudo acquirenti.

Poteva essere l’ultimo, ma potrebbe tornare ancora, come da 140 anni a questa parte. A qualcuno non sarebbe mancato: si calcola che nella settimana che precede l’Old Firm, a Glasgow, le violenze inter-confessionali aumentino di nove volte. I cattolici, vicini ai correligionari di Belfast, contro i lealisti monarchici protestanti dei Rangers. Quando un giocatore è passato da una squadra all’altra ha rischiato la pelle per davvero. L’anno scorso Aaron McGregor, diciassettenne cattolico, è arrivato ai Rangers. Commenti minacciosi lo hanno accolto su un sito Internet “non ufficiale” dei Rangers, come per l’allenatore del Celtic, Neil Lennon, protestante. Due uomini affronteranno un processo in Scozia, accusati di aver inviato presunti pacchi bomba a Lennon.

Ce se sono mille di storie così, da raccontarsi al pub. E in fondo, no-nostante i cori e gli insulti, in qualche zona della città dove primeg-giano i tifosi del Celtic, ce ne saranno stati alcuni che in silenzio, non visti da nessuno, hanno brindato al salvataggio dei Rangers. Perché la storia di un derby si scrive in due e in fondo, molto in fondo, dell’Old Firm sarebbero stati orfani tutti.

73

L’autore

CHRISTIAN ELIAClasse 1976, di Bari-Bari. Studi umanistici, sogni da pugile e calciatore della Roma. Giornalista professionista dal 2005, per PeaceReporter prima e attualmente per E-il mensile, ha raccontato e racconta il Medio e il Vicino Oriente, il Nord Africa e i Balcani. Autore di reportage e di servizi radiofonici, pubblicati sulle principali testate italiane, del libro Oltre il muro, storie di comunità divise e del documentario The Empty House