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Dario Manfredini
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Cinque giorni con Danio Manfredini
Questo Danio Manfredini è e non è, allo stesso tempo, il Danio Manfredini di Cinema cieloLa
crociata dei bambiniAl presenteMiracolo della RosaTre studi per una crocefissione: lo è nella misura
in cui manifesta coerenza con la
propria (ancora incerta) idea del teatro, con la propria concezione dello stare in palcoscenico, con
una poetica fortemente identitaria, irrinunciabile dunque, ineliminabile; non lo è perché
s'adopera come un regista al cospetto di una compagnia momentanea, frammentaria, che ha vita
clandestina e settimanale: analizza le trame dei classici, le penetra, le abita, portando con sé
l'attore o l'attrice, indica il punto esatto nel quale potrebbe accadere un'azione, fa sorgere
costruzioni immaginarie, scova umori e suoni nascosti nel e dal testo, guida al movimento,
plasma il personaggio ed il rapporto col personaggio, compone una partitura di gesti e di
andamenti corporei, postula una visione possibile poi si siede – frontale all'interprete, di spalle al
resto del gruppo – e osserva quello che accade. Prova, riprova, corregge, modifica o conserva,
interroga, aggiunge o sottrae, riprova ancora, generando lembi di spettacoli ipotetici la cui durata
coincide con il tempo di presenza attoriale.
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Questo Manfredini segrega Diego nella gabbia pinteriana di Party Time, costringendolo a calare
progressivamente fino ad accucciarsi, disperato e ferito, al cospetto di immobili sagome borghesi
che festeggiano; chiede a Francesca – diventata la Donna Rosita di Garcìa Lorca – di aprire l'anta
di una finestra inesistente non con la sinistra ma con la destra, perché possa scorgere meglio “le
nuove città” che si costruiscono; fa di Carmen, per tre ore la Maria del Carmelo di Annibale
Ruccello, una bambina inerme e spaventata e una donna malata e furiosa. Monta – questo
Manfredini – l'invisibile teatrino di Kostja nella parte anteriore della sala, chiedendo a Beniamino
di rivolgergli continuamente lo sguardo nel momento in cui, muovendosi avanti e indietro,
attende una Nina in ritardo, che non apparirà mai; spinge Susi alla bidimensionalità della
tragedia classica, inducendola al moto orizzontale tra i figli-vittime di Medea, seduti a destra, e il
coro, laterale a sinistra; rende Ricorda
con rabbia di Osborne una calcolata strategia di incontri-scontri, inducendo Stefano a braccare
Maura nell'angolo, a cercarne il contatto ostile, la reiterazione offensiva, l'atto vagamente
intimidatorio salvo poi far convergere entrambi a centro palco, lì seduti, portati alle lacrime, ai
giochi, alla commiserazione reciproca, alla reciproca confessione della propria fragilità.
“Vecchi tempi di Pinter” – afferma – “Anna è la rimanenza fantasmatica di ciò che è avvenuto, è
memoria presente e persistenza del passato e i dialoghi tra Deeley e Kate in realtà sono
monologhi: ognuno parla della propria Anna. C'è quindi la contrapposizione tra oggettivo e
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soggettivo, per cui si danno aspetto e valore differenti ad un'unica persona. Deeley e Kate, nel
parlare di Anna, non comunicano: sembrano dirsi qualcosa l'un l'altro ma invece non si dicono
niente”; afferma che “Non occorre aprire la quarta parete con Shakespeare perché tutto è dentro,
tutto appartiene al
perimetro imposto dal palco, che coincide col mondo. Anche la follia di Amleto, ad esempio,
appartiene allo spazio teatrale ed occorre sempre tener presente dove sono gli altri personaggi
mentr'egli parla giacché i suoi spettatori effettivi, e di cui è consapevole, non sono in platea ma
giacciono nascosti tra le quinte teatrali, dietro scenografie immaginarie o concrete” e afferma
inoltre che “Beckett, interrando Winnie fin sopra la vita in Giorni felici, ci pone la questione di una
relazione che diventa chiusura col mondo, reclusione, perché il matrimonio può diventare
esattamente la buca che rende questa donna ormai immobile”, che “echov è leggero, lieve ed
amaro, pieno di sentimento ed i suoi quadri di vita sono e saranno eterni per sempre”, che “ciò
che vivono gli abitanti della villa della Scalogna ne I giganti della montagna è reale quanto è reale,
per un folle, il mondo generato dalla propria follia”.
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Nelle conversazioni con attori ed attrici alterna il lavoro sul testo al racconto delle proprie
memorie, del teatro che ha visto e che ha amato o di quello che ha conosciuto e da cui è lontano:
non apprezza particolarmente Brecht né Pirandello, fugge il “teatrese” da “baraccone
spettacolare” offerto da certe produzioni degli Stabili, non sopporta la “funzione predicatorio-
pedagogica” della teatralità ideologicamente civile, che esprime una tesi preordinata e già
condivisa in partenza dal pubblico, mentre ricorda con emozione – ad esempio – La classe morta
di Kantor, visto con César Brie al Salone di via Dini, a Milano, o l'Apocalypsis cum figuris di
Grotowski, guardando il quale comprese “che si poteva fare ricerca, che si poteva tentare davvero
di generare nuove forme d'espressione artistica” e che “un teatro povero e magnifico, bello anche
se misero economicamente, era possibile”. Poi, rapito con un ultimo sguardo l'interesse dei
presenti, torna a lavorare ai Molière, ai Thomas Bernhard, ai
De Filippo, agli Ibsen o gli Strindberg che gli spettatori non vedranno mai, cui nessun critico
potrà mai dedicare un articolo.
“Evidentemente non interesso al sistema teatrale o forse non sono adatto alla confezionalità
stagionale fatta di spettacoli da allestire in trenta giorni, con quindici attori, su un testo deciso dal
direttore del teatro di turno: Il principe Amleto è vissuto per nove repliche mentre Vocazione,
quest'anno, ha solo quattro date”. “Tuttavia” – continua – “il lavoro cui rifiuto di asservirmi lo
svolgo – più liberamente – con gli uomini e le donne, con gli attori e le attrici, che frequentano i
miei laboratori: con loro dialogo, rifletto, approfondisco, ipotizzo ed imparo, con loro mi prendo il
tempo – raro nell'affannata contemporaneità sovraproduttiva del teatro finanziato nazionale – di
studiare per studiare”.
“I seminari” – scrive Lucia Manghi in La piuma di piombo. Il teatro di Danio Manfredini – “sono
per lui occasioni propizie in cui mettere a frutto la propria vocazione pedagogica e verificare
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continuamente il lavoro propedeutico che sottostà al
proprio impegno di interprete: è soprattutto in queste occasioni, con gli allievi, che incontra e
reincontra le domande che l'essere attore comporta”.
“Come si fa il teatro? Io non l'ho mica capito” accenna, sorridendomi, prima di rientrare in sala.
Definizione del personaggio, del contesto, della circostanza; individualizzazione degli stili di
movimento; consapevolezza dell'azione effettuata e prodotta: per Manfredini sono le “cinque
convenzioni teatrali” da cui l'attore inizia il proprio lavoro, cercando un'affinità – tutta ancora da
creare, motivare, da vivere – rispetto al ruolo che deve rendere in palcoscenico. Precede questo
lavoro la ricerca “degli assi dell'opera”: “gli assi” – spiega – “sono i pilastri su cui si regge una
drammaturgia, ne sono la struttura fondamentale e portante, lo scheletro, gli elementi di
sostegno”. “Perché un'opera possa funzionare” – continua – “gli assi devono essere almeno tre”.
Esempio. L'Amleto di Shakespeare: Claudio, “poiché innesta la tragedia”; lo spettro “perché
determina il ritorno di
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una condizione di dolore”; il principe, “che incarna la vendetta”. E nel suo Amleto? “La storia nei
suoi accadimenti principali; Amleto in quanto figura che determina l'associazione con la tragedia;
la coscienza della necessità di un riscatto”.
Cinque convenzioni teatrali, almeno tre assi e il “nodo tematico” ovvero l'elemento di
congiunzione “tra me e l'opera, tra me e il personaggio che interpreto”. Così, per rimanere al
dramma danese, il nodo cercato da Manfredini per il suo adattamento è stato “il passaggio dal
Bene al Male, la trasformazione di un giovane che, costretto dalle circostanze, diventa un
assassino”.
Questa progressiva frequentazione dell'opera e del personaggio non è un'attività puramente
teorica, simile allo studio da tavolino: seduti, testa china, gomiti alla scrivania, occhi fermi sulle
pagine. Si tratta, invece, di appropriarsi dello spazio di prova, di traversarlo interamente, di
inspirarne l'ampiezza, di far abituare gli occhi ai colori, le orecchie ai
rumori o ai silenzi, si tratta di prendere possesso del luogo (vuoto) nel quale – fisicamente –
inizia la ricerca. Si tratta di costruire dinamiche motorie a partire dal testo, si tratta –
continuamente, ostinatamente, senza fermarsi e concedendosi la continua libertà dell'errore, del
tentativo sbagliato, del fallimento ripetuto – di tradurre la drammaturgia in movimento, le frasi
in azioni. Far accadere l'opera, farla avvenire dandole corpo, fiato, espressioni mimiche e
concretezza gestuale manifestando contenuti e intenzioni, cercando in tal modo di costruire, con
pazienza, l'agita vita effettiva della figura inventata dall'autore: “Il lavoro dell'attore significa
agire,” – ripete spesso – “l'attore è colui che crea le azioni: lascia dunque che il corpo, in questo
momento, ti dica come recitare. il corpo che recita”.
L'alternanza tra indice e pollice per indicare la contrapposizione “io”/”tu”; la mano portata alla
bocca per attenuare l'urlo
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previsto dalla trama in un respiro; le pupille a sinistra, a destra, poi di nuovo a sinistra per seguire
un personaggio-spalla inventato; il bastone impugnato con la debole forza dei bambini, per dare
la sensazione di una stanchezza dell'anima prima che del corpo; il labbro inferiore incavato tra i
denti, per plasmare una vecchiaia a cui non si appartiene ancora; il mento schiacciato sul petto
per dimostrare senso di colpa e paura; il braccio, teso in avanti, a indicare la direzione e la meta
delle proprie parole. La necessaria esagerazione delle lacrime, le ginocchia piegate dalla difficoltà
di camminare, le palpebre chiuse alla battuta “sono infelice”. “Quando dici 'Succhio il buio' regola
la respirazione ritmicamente, come se stessi succhiando davvero”; “Alla frase 'Sono in mezzo alle
fiamme' scatta, come se la sedia bruciasse”; “Il testo ci dice che fa freddo, è notte, piove. Dunque
incrocia le mani sul petto, piega la schiena, inizia a tremare”.
Manfredini determina l'esistenza di una dinamica visibile, motivata dalla drammaturgia, che della
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drammaturgia finisce per essere una traduzione fattuale. “Dobbiamo poter capire ciò che sta
accadendo e quel che prova ogni singola figura semplicemente guardando: come se non ci fosse
testo, come se non potessimo sentire le parole che pure vengono dette, come se tra noi e la scena
ci fosse un vetro che insonorizza lo spettacolo. Vedere deve già bastarci a comprendere”.
Dal mio taccuino di appunti: “Non si tratta tuttavia solo di una visualizzazione, della
composizione di un quadro pittorico, della messa in evidenza di una tela teatrale. Mi sembra sia il
testo che si solleva dalla bidimensionalità della pagina per assumere la tridimensionalità dello
spazio nel quale, un uomo o una donna, si muove tra altri uomini e altre donne, così vivendo. Un
tocco alla sedia, i tre passi dal centro verso destra, le dita tra i capelli, il sorso dato a una tazza di
tè, il fazzoletto cercato nella borsa, la scatola portata da uno scaffale a uno scaffale sono
denotazione drammaturgica, cercata
chiarificazione del ruolo, progressiva strutturazione di una forma vuota che andrà colmata –
simile a un calco che attende il suo pieno – e che adesso si rende attraverso la realizzazione di
una serie di linee di scena. Sarebbe bello dunque poter assistere a tutto questo guardando
dall'alto, come si fa con le formiche quando trasportano il loro peso, così da rendersi conto delle
direttrici e delle dinamiche fisiche e direi grafiche che un attore o un'attrice, muovendosi,
disegnano nello spazio di lavoro”.
“La creazione è una condizione liminare, è un agitarsi confusamente nel caos primigenio, è uno
stare in uno stato di non conoscenza. Ho spesso la sensazione di vagare in un nulla assoluto, in un
buio che mi circonda. Non so cosa sto cercando ma inizio a cercare, procedo come a tastoni,
azzardo, volutamente esagero, provoco me stesso generando associazioni memoriali, chiamo ad
aiutarmi i ricordi, dimentico il personaggio per ritornarvi, provo a vedere me stesso
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fuori di me, imito un personaggio terzo che potrebbe aiutarmi, continuo a provare riuscendo a
capire talvolta durante il lavoro, più spesso dopo, a giornata trascorsa”. La perfetta memoria del
testo, fondamentale perché permette d'interrompere e riprendere la trama dopo ogni tentativo;
l'assoluta libertà dei propri muscoli, ulteriormente arricchita dall'assenza di giudizio su di sé
(“Non c'è qui nessun critico, non ci sono spettatori ed io non sono nel momento in cui ciò che
faccio deve piacermi: sono invece nella fase in cui cerco di comprendere e di precisare la mia
presenza”); la forza nel sentire la fatica ma nel non cederle, l'importanza d'avere e di prendersi
tempo, il coraggio di accettare che le strutture su cui hai lavorato, che hai generato e che ti
sembravano adatte, possano crollare all'improvviso, piegate fino a farsi macerie: “Per mesi vedo
solo strutture che deflagrano”.
“Agli attori e alle attrici che seguono i miei laboratori cerco di trasmettere questo: è importante
stare sull'irresoluzione
giacché è il momento nel quale si comprende dove andare. Se abbiamo pazienza, forse scopriremo
qualcosa che non sappiamo; altrimenti riscopriremo ciò che già sappiamo, limitandoci soltanto a
ripetere”.
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“Nei laboratori incontro, di fatto, un artista che è in viaggio. Io non ho soluzioni da suggerirgli,
ma posso accompagnarlo per questo tratto. Di solito non scelgo neanche io su cosa lavorare ma
chiedo agli allievi di scegliere un brano da repertorio. Partiamo insieme, dunque, da qualcosa che
non so, che non sappiamo, e cerchiamo soluzioni: questo è un allenamento alla creazione. Non
siamo coscienti di come far emergere la materia, ma sappiamo che dobbiamo starle addosso, che
la materia c'è, che è lì, che va scovata, trattata, fatta propria, praticata e approfondita. Così, forse,
arriviamo a creare qualcosa che potrebbe essere il frammento futuro di un'opera, di uno
spettacolo, un momento possibile di teatro”.
Osservare per cinque giorni – dieci ore al giorno – i partecipanti a questo laboratorio mi aiuta a
conoscere la fatica che
comporta essere attori. Il training mattutino, la cui serie di esercizi fisici determina la quotidiana
rinascita corporea degli allievi (dall'orizzontalità pavimentale alla postura verticale, posizione
neutra d'approdo, fino alla realizzazione di una coreografia collettiva singolarmente
caratterizzata), il riscaldamento vocale del primo pomeriggio (una progressiva conquista fonetica,
tonale e lessicale, della facoltà di parola: dal suono onomatopeico alla frase di senso compiuto) e
la realizzazione dei frammenti drammaturgici che diventano micro-regie momentanee mi
permettono di capire quanto esercitato logorìo possa appartenere ad ogni singolo gesto che viene
poi deciso, impostato ed offerto la sera della prima, per essere poi replicato di volta in volta: per
giorni, per settimane, per mesi. La reiterazione della stessa scena, dello stesso movimento, della
stessa parola mi danno la sensazione della limatura continua, del perfezionamento progressivo,
della forma cercata tra sforzi, incertezze, sofferenze e intuizioni, intime associazioni emozionali,
inevitabile disponibilità al
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sacrificio. Guardo questi sedici interpreti che – nella loro dimensione laboratoriale – mi paiono
pieni di una bellezza che non so né saprò mai descrivere e sento quasi una commozione al
cospetto dei loro affanni, del fiato accelerato che hanno dopo un esercizio, del sudore che gli
bagna le tempie, del dolore che provano alla schiena, a una spalla, in un braccio dopo aver
provato e riprovato senza aver ottenuto alcun risultato che li renda soddisfatti di sé. Comprendo
che l'osservazione critica coincide anche e soprattutto nella capacità di badare ai dettagli giacché
sono i dettagli a qualificare e caratterizzare la resa di un personaggio, la sua presenza in assito. Il
dettaglio – la mano che fuoriesce per metà da una tasca, il piede sinistro portato avanti rispetto al
destro, le sopracciglia aggrottate, un respiro, una pausa, il battito dato alla parola di una frase – è
il risultato di un lavoro durissimo che mi sembra scolpisca l'uomo perché si crei l'interprete in
grado di rendere il
personaggio, metafora a sua volta dell'uomo. Alice, Andrea, Irene, Piera, Ramona e Rachele,
Maria Chiara, Silvia, Teresa e tutti gli altri spariscono, senza mai sparire davvero, ritrovandosi ad
essere un altro, un'altra. Piange, Diego, ad un punto: le lacrime vengono da suoi occhi ma a chi
appartengono veramente? Francesca sospira, come fosse amareggiata, standosene ferma in un
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punto: cosa motiva questo scoramento? E suo, del personaggio che interpreta o di entrambe? Che
rapporto sussiste, dopo quattro ore di frequentazione laboratoriale, tra Maura (l'attrice) ed Alison
(il personaggio)? “In teatro uno può piangere realmente ma il suo pianto sarà sempre all'interno
della consapevolezza di un gioco. Io posso piangere, dopo di che tuttavia devo portare avanti il
gioco” − mi dice Manfredini – “magari continuando ancora a piangere, ma non posso soffermarmi
sul pianto e sulle ragioni profonde e nascoste che lo hanno generato per la scena. Non posso
trattenere la sensazione che
ha prodotto le mie lacrime. Il gioco deve proseguire”.
“Non sono un Maestro. Appartengo, o spero di appartenere invece, alla categoria degli artisti”:
mentre sfoglia una raccolta di poesie di Pier Paolo Pasolini. “Non so cosa significhi recitare, non
ho certezze. So solo che dietro c'è un artificio, c'è un per finta, c'è un 'come se' che ha al suo
interno comunque una verità. So solo che uso una finzione che non è una menzogna”: una sera.
“Io non volevo fare l'attore, suonavo la chitarra: volevo fare il cantante”: sulla soglia della casa che
lo ospita al Centro Teatrale Umbro. "Sono dell'idea che, proprio perché l'artista si espone e si fa
attraversare dalle forze che ci circondano nella vita (sono queste forze a generare la necessità di
espressione), il momento di creazione richieda un isolamento, un raccoglimento che sono
fondamentali per riformulare, nell'opera d'arte, il suo contatto con la realtà": durante una pausa.
“Accettare di recitare, in fondo, è molto
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difficile. Si tratta di accettare di essere guardati, di accettare di dare”: stanco, dopo una giornata di
laboratorio. “Lavoro appoggiandomi a un invisibile, non mentale ma concreto, che mi condiziona
e che motiva la mia partitura”: frontale, fissando gli allievi. "Mi affido tanto alle sensazioni, anche
troppo. Mi dico che dovrei essere più razionale. Solo piano piano, e con dolore e fatica, arrivo alla
struttura": in attesa di ricominciare. "Noi iniziamo ad uscire dall'insicurezza scenica quando
richiamiamo davvero qualcosa che ci riguarda, che abbiamo attraversato, e ci assumiamo la
responsabilità di richiamare questo qualcosa per comunicare": ad un attore. "Un corpo allenato è
un insieme più ampio di possibilità teatrali": ad un'attrice. "Ti sto dicendo una cosa che è vera e
che sento, anche se le parole con cui te la dico le ha scritte Shakespeare": ad un interlocutore
immaginario, per spiegare la bellezza della prosa teatrale e la sua prossimità alla nostra vita
quotidiana. “Cerco una semplicità”: frase rubata a chissà
quale riflessione, mentre raggiunge la sala, in solitudine.
Danio Manfredini vive presso la Corte Ospitale di Rubiera. Il futuro immediato è rappresentato da
un disco di inediti, da un film ancora da scrivere nonostante centinaia di pagine già scritte, il terzo
anno di direzione all'Accademia del Teatro Bellini di Napoli. Il futuro sono questi laboratori –
mezzo di sussistenza, certo, ma soprattutto strumento di lavoro su se stesso attraverso il lavoro
svolto su e assieme agli altri. Il futuro è il pubblico che affolla i suoi rari spettacoli (“ il pubblico a
fare d'ogni sera la sera, a fare di ogni replica la replica; è il pubblico che mi permette di capire
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quanti errori ho commesso; è con il pubblico che sono in relazione attraverso il buio della sala
giacché, per dirla con Tarkovskij, l'artista, la sua opera e lo
spettatore rappresentano un unico e indivisibile, un organismo percorso da un unico sistema
sanguigno”); il futuro è il teatro, “chiamata che ha bisogno di una risposta, necessità personale,
vocazione insopprimibile, scelta che – nonostante le difficoltà, le miserie, le offese – ancora mi fa
pensare alla presenza dell'attore come l'espressione di una visione del mondo ed al suo lavoro
come un pensiero che va comunicato, condiviso ed offerto”.
“L'attore, quando appare in scena, arriva da lontano”.
Vado via, dal Centro Teatrale Umbro, con questa frase che mi batte nella testa.
Laboratori 2015 Festival. Festival Internazionale sulla formazione attoriale. VIII edizione
Di umanità si tratta
Danio Manfredini
foto Dimitri Tetta, Massimiliano Donato
Goregge – Gubbio (PG), Centro Teatrale Umbro, dal 23 al 27 settembre 2015
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