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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Nona Commissione - Tirocinio e Formazione Professionale
Incontro di studi “ Il codice delle assicurazioni private “
Roma 12 –14 marzo 2007
LE NORME PROCESSUALI DEL CODICE DELLE ASSICURAZIONI
IN TEMA DI RCA
DOTT. MAURO CRISCUOLO
GIUDICE DEL TRIBUNALE DI NAPOLI
Premessa
Il tema oggetto della relazione affidatami, e consistente nella disamina delle
norme processuali in tema di r.c.a., presenta due difficoltà per chi se ne debba
occupare, dettate in parte dalle scelte originarie del legislatore ed in altra parte,
dalla tecnica adottata nella novella del 2005.
Quanto alla prima, si è più volte posto in evidenza come il legislatore del 1969
abbia dato vita ad una sorta di sistema autonomo della responsabilità, nel quale
le norme sostanziali appaiono strettamente legate a quelle di carattere
processuale,in quanto sono proprio gi strumenti processuali che permettono la
piena attuazione del diritto della vittima al risarcimento del danno ( si pensi alla
stessa azione diretta di cui all’art. 18 ed ai limiti al potere di proporre eccezioni,
il cui inquadramento oscilla tra le posizioni dei sostanzialisti e quelle dei
processualisti).
Su tale sistema ormai collaudato da circa 40 anni, ha inteso intervenire il
legislatore del 2005, con il chiaro intento di mantenerne immutata la struttura
fondamentale e le regole processuali; tuttavia nel fare ciò, e probabilmente
ispirato dall’esigenza di adeguare le regole preesistenti alle novità introdotte, ha
apportato a sua volta alcune modifiche, all’apparenza minimali, ma che
rischiano, a mio modo di vedere, di incidere significativamente su alcuni degli
orientamenti maturato nel passato. Inoltre l’introduzione di alcuni istituti nuovi,
quali l’azione del trasportato o l’indennizzo diretto, avrebbero meritato dei
chiarimenti da parte del legislatore, circa le modalità con le quali si innestano
nella struttura già esistente.
Infine, ed è purtroppo un rammarico che è comune anche alla recente novella di
cui alla legge n. 102 del 2006, l’assenza di qualsiasi norma di diritto
intertemporale, nel passaggio dalla legge n. 990/69 al D. Lgs. n. 209/2005,
accresce le difficoltà degli interpreti, chiamati ad esaminare fattispecie in cui
non tutti gli elementi si sono realizzati sotto la vigenza dell’una o dell’altra
norma.
La proponibilità della domanda
Attesa la finalità della relazione, che mira appunto ad evidenziare i profili di
novità e problematicità scaturenti dalla novella, darò per scontate alcune
nozioni ormai acquisite presso gli operatori giuridici, rinviando sul punto alle
numerose e ricche relazioni già tenute sul tema in precedenti incontri del
Consiglio, e facilmente reperibili sul suo sito.
L’art. 22 della legge n. 990/69 condizionava la proponibilità della domanda, sia
nei confronti dell’assicuratore che del responsabile civile, al previo invio al
primo di una richiesta di risarcimento del danno, nonché al decorso, prima di
introdurre il giudizio, di un termine fissato in via generale in sessanta giorni (
fatte salve le ipotesi di azione nei conforti dell’impresa cessionaria e
dell’impresa designata in caso di commissario liquidatore autorizzato ala
gestione della fase stragiudiziale, ove il termine era stato portato a sei mesi).
Il mancato rispetto di tale termine determinava l’improponibilità del giudizio, e
quindi la definizione in rito della controversia ( fatto salvo però l’effetto
interruttivo - sospensivo della prescrizione ai sensi degli artt. 2943-2945 c.c.), e
ciò poteva essere rilevato dal giudice anche d’ufficio, in tutti i gradi del
giudizio (fatta salva la formazione del giudicato implicito); né poteva supplirsi
ala carenza iniziale di tale elemento, mediante la proposizione della richiesta in
corso di causa, ovvero prevedendo in citazione un termine di comparizione tale
da soddisfare in maniera cumulativa i termini di cui all’art. 163 bis c.p.c. e di
cui all’art. 22 citato, essendosi ritenuto che non costituisse una condizione
dell’azione, come tale suscettibile di sopravvenire anche in corso d causa.
In via interpretativa la giurisprudenza ne aveva poi esteso la portata applicativa,
ritenendo necessaria la richiesta oltre che nel caso, già accennato, della richiesta
di risarcimento ordinaria avanzata contro il solo responsabile civile, altresì in
caso di domanda riconvenzionale del convenuto, in caso di chiamata in causa
del terzo ovvero in caso di surroga dell’assicuratore ex art. 1916 c.c.
La Corte Costituzionale, infine, chiamata a scrutinarne la conformità ai principi
della Costituzione, ed in particolare, all’art. 24, ne aveva ravvisato la piena
compatibilità, in quanto trattavasi di un temporaneo impedimento della tutela
giurisdizionale, limitato nel tempo e pienamente giustificabile, alla luce
dell’esigenza di favorire una definizione stragiudiziale delle controversie, in
vista della deflazione del contenzioso in sede giurisdizionale.
A fronte dell’ampliamento della portata applicativa della previsione di cui
all’art. 22, va però evidenziato che la giurisprudenza assolutamente prevalente
aveva assunto un atteggiamento chiaramente di carattere anti-formalista,
ritenendo che il contenuto della lettera raccomandata ( ove non si voleva
ricondurre alla stessa anche l’idoneità a far scattare una responsabilità per
ritardo colpevole, ai fini del superamento del massimale di polizza) potesse
essere estremamente scarno, potendo a tal fine essere sufficiente anche una
mera richiesta con l’indicazione del giorno del sinistro e della targa del veicolo
danneggiante. Inoltre sempre in questa prospettiva, si era dato ampio risalto ai
cd. atti equipollenti, cioè ad una serie di atti o comportamenti, che ancorché non
aventi i requisiti di cui al citato art. 22, denotassero in maniera inequivoca che il
danneggiato aveva rivolto le proprie pretese all’assicuratore e che questi ne era
venuto a conoscenza, essendo stato quindi posto nelle conditomi di poter
trattare il sinistro in via stragiudiziale.
Tale concisa esposizione di quella che era l’applicazione della norma in esame,
denota però come lo scopo del legislatore di favorire una definizione delle
controversie risarcitorie al di fuori delle aule di giustizia, rischiasse di rimanere
del tutto tradito, in assenza di una effettiva volontà e possibilità di permettere la
conciliazione in sede stragiudiziale.
In tale linea si pongono quindi gli interventi di cui alla legge n. 39 del 1997 che
da un lato impone una procedimentalizzazione dell’attività stragiudiziale,
prevedendo termini e modi ai quali l’assicuratore doveva attenersi
nell’effettuare l’offerta al danneggiato, ed imponendo però a quest’ultimo un
maggiore dettaglio nel contenuto della richiesta, al fine di permettere alla
compagnia di avere un quadro quanto più completo delle circostanze che
possono influire sulla liquidazione. Si tratta fondamentalmente di
un’anticipazione di quei reciproci doveri di lealtà e collaborazione che sono
oggi alla base delle previsioni di cui agli artt. 148 e 149 del codice.
Tuttavia, nonostante alcune voci isolate di segno contrario, la giurisprudenza ha
continuato ad affermare che il maggiore dettaglio richiesto dall’art. 3 della
legge n. 39 del 1977, non influisse sulla proponibilità della domanda, anche
nelle ipotesi in cui il sinistro poteva fruire della procedura in esame, dovendosi
avere riguardo per la proponibilità al solo dettato dell’art. 22.
Le perplessità, che erano rimaste vive presso alcuni studiosi, si sono poi
nuovamente manifestate in occasione della riforma di cui alla legge n. 57 del
2001, la quale ha ulteriormente esteso l’ambito di applicazione dell’art. 3 della
legge n. 39 del 1977, ampliandolo anche alle lesioni personali ed ai danni da
decesso, accentuando la procedimentalizzazione della fase stragiudiziale, con
una serie di prescrizioni sempre più puntuali sia a carico dell’assicuratore che
del danneggiato.
A ciò si aggiungeva l’ampliamento del termini perla formulazione dell’offerta
da parte dell’assicuratore, in caso di danno alla persona, portato da sessanta a
novanta giorni, con un evidente scollamento rispetto al termine in via generale
previsto dall’art. 22.
Il ceto assicurativo immediatamente evidenziò la necessità di dover valutare la
proponibilità della domanda non più sulla base del solo art. 22 ma alla luce
dell’art. 3 e dei termini in esso contemplati, pena l’irrazionalità di una soluzione
per la quale la domanda è proponibile, e quindi il danneggiato può rivolgersi
all’A.G., allorché l’assicuratore non ha ancora esaurito il termine che il
legislatore ha ritenuto congruo per effettuare un’offerta in via stragiudiziale,
vanificando in tal modo l’obiettivo di prevenire una serie di liti minate la
collaborazione tra le parti ante causam.
La tesi della abrogazione per incompatibilità sopravvenuta dell’art. 22 con la
nuova normativa, per quanto mi consta sostenuta solo da alcune isolate
decisioni dei giudici di merito, è rimasta assolutamente minoritaria, ancorché
evidenziasse un difetto di coordinamento venutosi a creare a seguito delle varie
novelle succedutesi nel tempo.
Nel dare alla luce il codice della assicurazioni è stata quindi ribadita la
necessità di ottemperare all’obbligo di preventiva richiesta all’impresa, oltre
che nell’art. 145, anche nell’art. 141 co. 3, per il caso di azione del trasportato,
e negli artt. 287 e 294 in caso di liquidazione coatta amministrativa, di guisa
che la previsione inizialmente contenuta in un solo articolo oggi è stata trasfusa
in una pluralità di norme, con gli adattamenti necessitati dalla specificità delle
varie azioni risarcitorie, legate sia alla qualità del danneggiato che del soggetto
passivo.
La norma in esame, come detto, riconferma la regola, secondo la quale il
giudizio risarcitorio deve essere preceduto dalla richiesta con lettera
raccomandata all’assicuratore, adattando però la regola alle diverse procedure
introdotte dai successivi artt. 148 e 149.
In entrambi i casi il termine viene sdoppiato a seconda che l’azione abbia ad
oggetto solo danni a cose ovvero anche il danno alla persona, in quanto nella
prima ipotesi si conferma la misura di sessanta giorni, mentre nella seconda
viene prorogato a novanta giorni e ciò al fine di adeguare lo spatium
deliberandi prescritto dalla norma ai tempi che il legislatore ha assegnato alle
imprese di assicurazione per formulare le loro offerte ai danneggiati, secondo
quanto disposto dagli artt. 148 e 149.
Ad mio avviso, e come è confermato dal fatto che il legislatore nel
disciplinare il contenuto della richiesta preventiva di risarcimento abbia fatto un
rinvio alle modalità ed ai contenuti di cui agli artt. 148 ed, in caso di indennizzo
diretto, 149 e 150, la volontà della legge è nel senso di assicurare uno stretto
legame tra le varie procedure stragiudiziali e la successiva proposizione della
domanda giudiziale, al fine di conseguire l’obiettivo, auspicato dagli
assicuratori, che la fase propriamente contenziosa si apra solo una volta
esauritasi la possibilità di una definizione amichevole del sinistro.
L’intimo legame che avvince l’espletamento della procedura stragiudiziale di
liquidazione del danno e la proponibilità della domanda, trova poi una
conferma nel dettato del comma 5 dell’art. 148 laddove si prevede che in caso
di richiesta incompleta da parte del danneggiato, l’impresa richiede a
quest’ultimo le necessarie integrazioni, venendosi a determinare a far data dalla
richiesta di integrazione, la sospensione dei termini per la proposta di offerta da
parte dell’impresa, ed indirettamente anche dei termini per la proponibilità della
domanda.
Né appaiono contrastare tale conclusione alcune lievi incongruenze, quali ad
esempio la previsione di un termine di trenta giorni per l’esaurimento della
procedura stragiudiziale da parte dell’impresa in catodi danni solo a cose e
nell’eventualità che il modulo di denuncia sia stato sottoscritto da entrambi i
conducenti coinvolti nel sinistro. Infatti sebbene parte della dottrina ( in
particolare Hazan) ritenga che ciò confermi l’autonomia tra la proponibilità e la
procedura di liquidazione, trattasi di un argomento debole, in quanto la
previsione di un minor termine ben potrebbe trovare una sua spiegazione nella
maggiore semplicità degli accertamenti demandati all’impresa in caso di
concorde ricostruzione della dinamica del sinistro. Inoltre se un’incoerenza si
poteva ravvisare nel caso di un termine per la definizione stragiudiziale della
controversia superiore a quello della proponibilità, non altrettanto è a dirsi
nell’ipotesi inversa, posto che comunque si assicura l’obiettivo che il giudice
conosca della lite solo quando sono fallite le trattative tra le parti, ed avendo la
previsione di un termine ridotto una funzione acceleratoria a carico della
compagnia nelle ipotesi di minore complessità della fattispecie.
Sempre in tema di proponibilità della domanda, un’eventuale incidenza
potrebbe derivare dalla novella di cui alla legge n. 102 del 2006, che ha
genericamente esteso alle controversie relative ad incidenti stradali con danni
da morte o da lesioni personali, le norme processuali in tema di processo del
lavoro.
La maggior parte degli autori che hanno avuto modo di commentare in prima
battuta la scarna disposizione legislativa ( sia pure con alcune eccezioni), ha
però ritenuto che tale rinvio non possa ritenersi integrale ma che vadano distinte
le norme a carattere strettamente processuale da quelle aventi rilievo
sostanziale, potendosi fare applicazione solo delle prime, e tra queste,
dovendosi altresì distinguere quelle norme che appaiono ontologicamente
incompatibili con la tipologia del contenzioso cui sono chiamate ad applicarsi,
trattandosi di previsioni funzionali alle peculiarità del contenzioso laburistico.
In tale prospettiva, si è quindi ritenuto che il tentativo obbligatorio di
conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c. sia incompatibile con le controversie
infortunistiche, attesa anche l’impossibilità di individuare l’organo davanti al
quale espletare la conciliazione, non potendosi ritenere che lo stesso possa
essere individuato nelle commissioni di cui al citato art. 410 c.p.c. A tali
argomentazioni che appaiono a chi scrive assolutamente convincenti, si intende
aggiungere il rilievo secondo cui l’introduzione di un ulteriore ostacolo
all’immediata tutela giurisdizionale dei diritti, nel settore de quo, nel quale già
si è visto, il legislatore ha predisposto una specifica condizione di proponibilità
rappresentata dal previo invio della richiesta di risarcimento e dal successivo
rispetto dello spatium deiberandi. Orbene ritenere che il danneggiato debba non
solo ottemperare alla previsione di cui all’articolo in commento ( che peraltro
ha portato a 90 giorni il termine per l’ipotesi di danni alla persona), ma altresì
debba espletare un tentativo di conciliazione, rischia di determinare una
concreta lesione all’art. 24 della Costituzione, rendendo il sistema normativo
fortemente in odore di illegittimità costituzionale, essendosi creata una duplice
condizione di proponibilità, con un intollerabile allungamento dei tempi per
adire l’autorità giurisdizionale. Da parte di coloro che invece ritengono che
debba prevalere la soluzione di cui all’art. 410 c.p.c., con la conseguente
abrogazione implicita della proponibilità ex art. 145, (i quali trascurano altresì
l’argomento derivante dal rapporto tra norma speciale e norma generale, il
quale deporrebbe a favore della sopravvivenza della norma speciale contenuta
nel codice delle assicurazioni), si deduce altresì che il richiamo alla norma del
processo del lavoro avrebbe il vantaggio di permettere al giudice che rilevi il
mancato adempimento del tentativo di conciliazione, di sospendere il giudizio
in attesa della sua definizione, permettendo poi che il giudizio possa proseguire,
attenuando invece il rigore che caratterizza l’interpretazione del vecchio art. 22,
ed oggi dell’art. 145, secondo cui il mancato rispetto della condizione di
proponibilità impone la definizione in rito del processo, senza alcuna possibilità
di sanatoria, trattandosi appunto di un presupposto processuale che deve
necessariamente preesistere alla domanda, e non già di una condizione
dell’azione suscettibile di intervenire anche in corso di causa.
Le novità introdotte dall’art. 145 in tale prospettiva incidono
fondamentalmente sul contenuto della lettera raccomandata atteso il rinvio alle
modalità ed ai contenuti di cui alle singole procedure di liquidazione, sicchè
appare superato l’orientamento seguito in passato dalla Corte di Cassazione che
aveva ribadito in numerose occasioni che ciò che rileva ai fini della
proponibilità della domanda è che il danneggiato abbia avanzato una richiesta
nei confronti dell’assicuratore, limitandosi a far riferimento al verificarsi di un
sinistro, con l’indicazione degli estremi identificativi del veicolo danneggiante
(cfr. in tal senso da ultimo Cassazione civile, 5 luglio 2004, n. 12293;
Cassazione civile, 31 maggio 2005, n. 11601)., in quanto un’eventuale
maggiore analiticità del contenuto della richiesta rappresentava piuttosto una
condizione affinché si potesse ricollegare alla ricezione della richiesta il ritardo
colpevole dell’assicuratore onde poter pretendere il superamento del tetto del
massimale, in caso di sua incapienza.
Il legislatore ha introdotto delle modifiche che, a mio avviso sono destinate
ad incidere su tale orientamento, in quanto, sia nel caso di ricorso alla
procedura di cui all’art. 148 che nella diversa ipotesi di indennizzo diretto, la
lettera raccomandata deve avere i contenuti di estremo dettaglio previsti dalle
norme che regolamentano le procedure risarcitorie.
Pertanto, deve ritenersi che, a seguito della modifica in esame, l’assenza dei
requisiti contenutistici di cui agli artt. 148-150 influisca direttamente sulla
proponibilità della domanda.
Se appare corretta tale interpretazione, deve poi considerarsi l’influenza che
la novella in commento è destinata ad avere sull’altrettanto costante
orientamento giurisprudenziale che ammetteva la possibilità che la richiesta di
risarcimento potesse essere sostituita da una serie di atti definiti equipollenti, in
quanto idonei comunque a porre l’assicuratore nella condizione di essere a
conoscenza della richiesta di risarcimento da parte del danneggiato.
Molti di questi atti, tra i quali si ricordano lo svolgimento di trattative con
l’assicuratore per la liquidazione del danno, la notifica di un ricorso per
istruzione preventiva ecc., si caratterizzano in molti casi per una certa
genericità del loro contenuto. Invero, se tale genericità non era ostativa al loro
riconoscimento quali atti idonei a sostituirsi alla rituale lettera raccomandata,
sempre che fosse possibile evincere una chiara volontà del danneggiato di
richiedere il risarcimento del danno, attualmente, nel momento in cui il
legislatore impone un rigido contenuto predeterminato per l’atto di richiesta del
risarcimento, è verosimile ritenere che il novero dei cd. atti equipollenti sia
destinato oltre modo a ridursi se non addirittura a scomparire, rendendo in
pratica obbligatorio il ricorso alle procedure stragiudiziali di cui agli artt. 148 e
149. Probabilmente un atto che può ritenersi effettivamente equipollente della
richiesta, a fronte della sua assenza ovvero della sua incompletezza ( ed in
questo caso anche nelle ipotesi in cui l’incompletezza sia stata denunziata dalla
compagnia ), potrebbe essere l’eventuale comunicazione della assicurazione di
un’offerta di risarcimento ovvero delle ragioni del rifiuto. Infatti, se
teleologicamente la richiesta preventiva ha il suo legame con la procedura
stragiudiziale, una volta che questa abbia raggiunto il suo obiettivo, quali ne
siano gli esiti, non sussistono più le ragioni ostative alla possibilità di rivolgersi
all’A.G., dovendosi quindi ritenere che pur a fronte di una carenza formale
della lettera, l’assicuratore abbia potuto comunque gestire la procedura
indennitaria, ritenendo superflue le eventuali integrazioni, rinunziando quindi
alla facoltà di richiedere le ulteriori informazioni che le norma prevede debbano
essere date dal danneggiato.
Così come del pari mi sembra possibile addivenire all’individuazione di un
atto equipollente alla richiesta di cui all’art. 145, laddove le parti abbiano fatto
ricorso alla procedura di cui all’art. 696 bis c.p.c., cioè all’accertamento tecnico
in chiave conciliativa, che ben si presta trovare applicazione proprio nello
specifico campo della responsabilità da circolazione dei veicoli. Invero, se il
danneggiato abbia promosso tale procedura, e la compagnia vi abbia preso parte
attivamente, e laddove sia stata effettuata anche la consulenza medico-legale
sull’interessato, atteso che lo scopo della procedura è quello di addivenire
anche ad una “determinazione” del credito risarcitorio, ritengo che se la
conciliazione fallisce, l’assicurazione che abbia preso parte alla procedura, è
stata comunque posta in grado di acquisire tutte le informazioni che le sono
necessarie al fine di pervenire alla formulazione di un’offerta, sicchè non
potrebbe poi, laddove si addivenga alla fase contenziosa, dedurre l’eventuale
incompletezza della richiesta, né potrebbe il giudice rilevarla ex officio.
Residua solo il dubbio interpretativo se la proponibilità della domanda sia
immediata, ovvero se occorra anche in tal caso, attendere un termine di sessanta
o novanta giorni a far data dall’esaurimento della procedura di cui all’art. 696
bis c.p.c.
Tali considerazioni portano anche a dare conto di un orientamento emerso tra
i primi commentatori della norma novellata, in base al quale, al fine di mitigare
il rigore di forme ( nonché di contenuti) imposto al danneggiato, e considerando
che da parte sua il legislatore ha previsto in capo all’assicuratore uno specifico
obbligo di collaborazione, ancor più accentuato nelle ipotesi di ricorso
all’indennizzo diretto ( cfr. art. 148 co. 5 nonché il regolamento sull’indennizzo
diretto), obbligo che si estrinseca nella necessità, in caso di richiesta
incompleta, di tempestivamente comunicare al danneggiato le cause
dell’incompletezza, beneficiando della sospensione dello spatium deliberandi
per la proponibilità della domanda, sin quando non si proceda all’integrazione,
si potrebbe sostenere che, anche in presenza di una richiesta incompleta, ove
però la compagnia non si sia adeguatamente attivata per segnalare le carenze
della stessa, non sarebbe poi possibile per il giudice, una volta adito, rilevare
l’improponibilità della domanda, per il mancato rispetto delle prescrizioni di
cui all’articolo in commento.
La tesi per quanto suggestiva ed ispirata al commendevole intento di dare
concreta attuazione ai reciproci doveri di lealtà e buona fede nei rapporti tra
compagnia e danneggiato, impone però di dover rivedere il tradizionale
orientamento, cui pure sopra si è fatto cenno, circa la rilevabilità d’ufficio, ed in
ogni grado, dell’improponibilità derivante dal mancato rispetto delle norme in
tema di richiesta di risarcimento del danno, posto che a voler aderire alla stessa,
la proponibilità della domanda verrebbe di fatto rimessa alla disponibilità
dell’assicuratore, che nella fase stragiudiziale dovrebbe far rilevare al
danneggiato l’incompletezza della richiesta; laddove però non si avvalga d tale
facoltà, né la compagnia potrebbe sollevare la relativa eccezione, né il giudice
potrebbe evidenziare d’ufficio la non rispondenza ai requisiti di legge della
richiesta. Tale soluzione che inizialmente mi lasciava perplesso, a ragion veduta
mi sembra maggiormente convincente, e tale da assicurare un adeguato
bilanciamento tra gli obblighi e gli oneri imposti reciprocamente alla parte
danneggiata ed alle compagnie, le quali hanno uno specifico obbligo di
collaborazione nella fase stragiudiziale ( vieppiù accentuato nelle ipotesi di
indennizzo diretto), scaturente altresì in via generale dal dovere di buona fede e
correttezza.
Ebbene, a fronte di una richiesta incompleta, il silenzio serbato sul punto,
non può poi prestarsi in sede giudiziale ad un’eccezione di improponibilità, alla
quale ha in parte dato causa anche l’assicuratore, che non ha adempiuto al
dovere di leale collaborazione nel corso della fase stragiudiziale.
Credo quindi che la soluzione più corretta, una volta andato a regime il
codice e le procedure di liquidazione dallo stesso introdotte, sia quello di
riservare il potere ufficioso del giudice di rilevare l’improponibilità della
domanda, alle ipotesi di:
- assenza totale della richiesta ( fattispecie che potrà verificarsi in caso di
domanda riconvenzionale, chiamata in causa del terzo, azione ordinaria
di risarcimento nei conforti del responsabile, eventuale ritiro e mancato
rideposito della produzione contenente copia della richiesta, eventuale
indicazione solo di alcune tipologie di danni, rispetto a quelli poi
richiesti in giudizio)
- mancato rispetto dello spatium deliberandi ( necessità di rispettare il
termine di sei mesi in caso di azione contro impresa in l.c.a.; necessità di
proporre domanda riconvenzionale nel rispetto dei termini processuali,
ma prima della decorrenza dei termini di cui all’art. 145, problema
ancora più impellente in ragione della scelta del legislatore per il rito del
lavoro);
- incompletezza contenutistica della richiesta nel caso in cui l’assicuratore
abbia denunziato tale situazione e l’assicurato non provi di avere
adempiuto alla richiesta di integrazione.
A fronte di tale proposta interpretativa, destinata ad operare per le richieste
di risarcimento avanzate dopo il 1gennaio 2006, si pone altresì un problema di
diritto intertemporale non adeguatamente segnalato in sede di primi commenti,
relativo cioè alla verifica della proponibilità per le domande giudiziali di
risarcimento del danno introdotte in data successiva al 1 gennaio 2006, data di
entrata in vigore del codice della assicurazioni.
Tale data è peraltro concisa anche con l’abrogazione di numerose delle
norme preesistenti e tra queste anche dell’art. 22 della legge n. 990 del 1969,
che nel sistema previgente dettava i criteri per la proponibilità della domanda.
Ad avviso di chi scrive, nel caso di domande introdotte appunto dopo il 1
gennaio 2006, al fine di verificare la proponibilità della domanda occorre avere
riguardo unicamente al disposto del nuovo art. 145 in esame, con la
conseguenza che ancorché la richiesta di risarcimento del danno sia stata
avanzata in data anteriore all’entrata in vigore del codice, la proponibilità è
subordinata al rispetto da parte del danneggiato dei requisiti di forma e
contenuto imposti dalla novella. Il rischio concreto è che la massima parte di
tutte le domande che siano state precedute da richieste di risarcimento del
danno generiche, o comunque prive dell’analiticità ora imposta dalla legge,
richieste che potevano essere ritenute idonee in base al disposto dell’abrogato
art. 22, siano oggi improponibili, non potendosi più utilizzare quale norma di
riferimento per il riscontro della proponibilità una previsione ormai abrogata.
Né, a mio parere, vale invocare il principio tempus regit actum, in quale la
lettera di richiesta è atto a carattere sostanziale che si pone al di fuori del
processo, condizionandone unicamente la proponibilità, la quale deve essere
appunto valutata in base alla legge processuale vigente all’epoca
dell’introduzione del processo stesso. Alcuni hanno obiettato che le norme
introdotte dal codice della assicurazioni dovrebbero trovare applicazione ai soli
sinistri verificatisi in data successiva alla sua entrata in vigore, ma l’argomento
non mi pare convincente, sia per la chiara volontà di procedere ad
un’abrogazione delle norme preesistenti contestualmente all’efficacia del
codice, sia per il raffronto con le previsioni di cui al regolamento di attuazione
del sistema dell’indennizzo diretto, ove il legislatore ha espressamente previsto
la sua applicazione ai sinistri verificatisi a far data dal 1 gennaio 2007,
successivamente quindi alla sua emanazione.
Né appare possibile invocare nel caso in esame, la tesi sopra riportata
secondo la quale la proponibilità della domanda sarebbe condizionata dalla
mancata attivazione dell’assicuratore in merito all’integrazione della richiesta,
in quanto tale obbligo non era prima previsto, ed è stato introdotto solo dal 1
gennaio 2006, sicchè, mancando una preventiva procedura stragiudiziale, o
essendosi già esaurita, nei casi in cui le parti vi avevano fatto ricorso prima
dell’entrata in vigore del codice, non appare possibile pretendere che
l’assicuratore potesse richiedere dopo il primo gennaio un’integrazione, atteso
anche che tale obbligo di sollecitare le integrazioni in passato non si
ricollegava alla possibilità di incidere sui termini di proponibilità.
Né invero mi pare possibile configurare una sorta di diritto quesito da parte
del danneggiato una volta che avesse inviato la richiesta ante 2006 con le
vecchie regole, in quanto la richiesta in oggetto resta un atto di natura
sostanziale, al quale possono ricondursi e rimangono fermi, anche dopo la
novella, una serie di effetti sostanziali, quali quello interruttivo della
prescrizione ovvero quello di far scattare le responsabilità ultra massimale,
laddove invece, nella sua valenza processuale, deve essere valutato in base ala
legge sempre di natura processuale, esistente al momento della proposizione
della domanda.
La conseguenza dovrebbe quindi essere che ove le richieste siano state
formulate secondo le vecchie regole, e comunque senza rispettare quanto
previsto dall’articolo in esame, le domande introdotte dopo il 1 gennaio 2006
dovrebbero essere improponibili. Tale improponibilità dovrebbe poi essere
rilevata, secondo la tesi tradizionale, d’ufficio dal giudice senza che possa
spiegare effetto il comportamento processuale della compagnia. Infatti, ove si
volesse dare rilevanza alla mancata eccezione in primo grado
dell’improponibilità da parte della compagnia, il rischio è quello di rimettere in
discussione la questione in grado di appello, con la possibilità che la deduzione
tra i motivi di impugnazione della questione in esame, avvenga secundum
eventum litis, con il conseguente azzeramento di decisioni emesse all’esito di
talvolta laboriosa e complessa attività istruttoria.
Il sistema così delineato presenta però, a mio modesto parere, due profili di
criticità.
Il primo è dato dal fatto che può determinarsi un vistoso vuoto di tutela per
coloro che, vittime di un sinistro stradale, necessitino di una provvisionale ex
art. 147.
Infatti, malgrado il dibattito sia dottrinale che giurisprudenziale, in merito alla
natura dell’ordinanza de qua si fosse riaperto dopo l’entrata in vigore del
procedimento cautelare uniforme, discutendosi se fosse possibile estendere a
tale provvedimento la disciplina dei procedimenti cautelari, ivi inclusa la
possibilità di far ricorso a tale misura anche prima dell’introduzione del
giudizio di merito, l’operazione di trasposizione del vecchio art. 24 della legge
n. 990/69 nel novellato art. 147, non ha dissolto i dubbi di carattere teorico
circa la precisa natura giuridica, ma ha anzi confermato la possibilità di farne
richiesta solo in pendenza di un giudizio di merito.
Tale soluzione pone in evidenza la difficile conciliabilità della scelta legislativa
con le legittime istanze di colui che debba fare ricorso a tale misura proprio al
fine di sopperire allo stato di bisogno determinato da una malattia derivante
dall’altrui illecito.
Ed infatti, se è possibile introdurre il giudizio di merito, soddisfacendo quanto
richiesto ai fini della proponibilità, solo quando la malattia si è consolidata ed è
possibile rinvenire i postumi a carattere permanente, in presenza di una
patologia non ancora stabilizzatasi, e quindi insuscettibile di permettere un
apprezzamento della invalidità permanente, non è possibile per il danneggiato
introdurre la causa di merito a cognizione piena, e quindi è preclusa anche la
possibilità di avanzare la richiesta di provvisionale. L’incongruenza si palesa
vieppiù nelle ipotesi in cui lo stato di bisogno al quale si vuol porre rimedio è
determinato proprio dalla necessità di fare fronte a spesso costose cure
mediche, il cui scopo è quello di favorire la guarigione, attenuando anche
l’entità dei postumi a carattere permanente.
In precedenti occasioni avevo sostenuto che l’unica alternativa ipotizzabile è
quella del ricorso alla tutela innominata d’urgenza ex art. 700 c.p.c.,
imponendosi però una forzatura del dato della sussidiarietà ( ma sul punto non
riterrei che vi sarebbero soverchie difficoltà, attesa l’interpretazione che è stata
offerta dalla Suprema Corte, prima della modifica della disciplina delle
esecuzioni, laddove ha ritenuto, ad esempio, possibile fare ricorso all’art. 700
c.p.c., al fine di ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo in
caso di opposizione a precetto), e quindi sarei propenso a ritenere la soluzione
tuttora valida.
Ma la questione ora esposta evidenzia l’altra criticità del sistema alla quale
facevo cenno, determinata dal fatto che, atteso il coordinamento tra
procedimento stragiudiziale e proponibilità della domanda risarcitoria, l’art.
145 condiziona quest’ultima al fatto che si sia verificato un consolidamento dei
postumi a carattere permanente, evento questo che ben può realizzarsi a
distanza di notevole tempo dal verificarsi del fatto. Se la Corte Costituzionale
in passato ha ravvisato la compatibilità tra i principi costituzionali e la
previsione di cui all’art. 22 della legge n. 990/69, ritenendo che l’impedimento
all’immediata proposizione della domanda giudiziaria fosse limitato nel tempo
e compatibile con quanto previsto dall’art. 24 della Carta Costituzionale,
invero, oggi i tempi frapposti alla possibilità di adire l’A.G. potrebbero dilatarsi
in maniera considerevole, determinando quindi un serio contrasto sia con l’art.
3 che con l’art. 24 della Costrizione.
A mio avviso sussistono fondati dubbi di compatibilità tra la suddetta disciplina
e le norme costituzionali, e non esiterei a sollevare la relativa questione di
legittimità, in presenza di una domanda giudiziaria avanzata da un soggetto, la
cui patologia non si sia ancora consolidata, e che non abbia potuto quindi
soddisfare prima del giudizio le condizioni formali imposte dall’art. 145.
Sempre in tema di condizioni di salute della vittima, e potenziale incidenza
sulla proponibilità, va osservato che il rifiuto del danneggiato si sottoporsi alla
visita medica da parte del medico della compagnia sospende i termini per la
definizione della procedura stragiudiziale, e per quanto detto, anche quelli per
la proponibilità della domanda, di fatto costringendo l’interessato a sottoporsi
all’esame del medico fiduciario, pena l’impossibilità di rivolgersi poi
all’autorità giudiziaria. Trattasi di una scelta in assoluta controtendenza con
quanto invece poco prima stabilito dal legislatore in occasione della riforma del
processo civile, laddove all’art. 696 c.p.c. si è ribadita la regola, ricavabile dalla
giurisprudenza costituzionale, secondo cui l’ispezione della persona può
avvenire solo con il suo consenso. Lascia quanto meno perplessi il fatto che per
l’esame riservato all’ausiliario del giudice sia necessario il consenso della
persona interessata, laddove si è reso di fatto obbligatorio per il danneggiato il
doversi sottoporre alla visita di un perito che non offre le medesime garanzie di
imparzialità di quello nominato dall’A.G., e per un accertamento destnato a
svolgersi al di fuori delle garanzie del processo. Forse sarebbe stato più
opportuno prevedere che il rifiuto a sottoporsi a visita medica del danneggiato,
potesse trovare adeguata sanzione attraverso le determinazioni sul carico delle
spese processuali.
Occorre altresì segnalare come la previsione di cui all’art. 145, che detta
mediante rinvio, un’analitica elencazione del contenuto della richiesta
risarcitoria, non sia riprodotta anche nelle norme che disciplinano le azioni nei
confronti del Fondo di Garanzia, situazione questa, che ad avviso di chi scrive,
trova la sua giustificazione razionale, ove non si voglia credere ad una mera
svista del legislatore, nel fatto che una maggiore precisione del contenuto della
lettera si impone in presenza delle procedure di liquidazione di cui agli artt.
141, 148 e 149, che impongono all’impresa una sollecita attivazione, e che
presuppongono un onere di leale collaborazione da parte del danneggiato,
sicchè ove manchino tali condizioni, viene meno la necessità di riempire di
specifici contenuti la richiesta di risarcimento. In tale ottica trova anche
spiegazione il fatto che mentre per le azioni ordinarie il termine per la
proponibilità si differenzia in ragione del tipo di danni richiesto, passando dai
90 giorni per i danni alle persone ai 60 giorni per i danni a cose, per le azioni
nei confronti del Fondo ( e fatta salva l’ipotesi della liquidazione coatta
amministrativa), il termine è quello immutato di sessanta giorni.
Ove non si voglia sostenere, come pure sarebbe lecito fare, attesa la
complessiva approssimazione con la quale il codice delle assicurazioni risulta
essere stato redatto, che si tratti dell’ennesimo svarione del legislatore, la
differenza del termine per la proponibilità della domanda potrebbe avere una
sua giustificazione nel fatto che in caso di intervento del Fondo di Garanzia,
non è necessario avvalersi preventivamente della procedura di risarcimento
stragiudiziale di cui all’art. 148.
Ed invero, se lo scopo del legislatore è stato quello di creare uno stretto
legame tra la proponibilità della domanda risarcitoria e l’effettivo esaurimento
della procedura in oggetto, prevedendo in primo luogo che i termini di
entrambe siano i medesimi, che le richieste di chiarimenti dell’assicuratore
nell’ambito della procedura di cui all’art. 148 sospendano anche i termini per la
proponibilità dell’azione, ed infine, che il contenuto della lettera raccomandata
di messa in mora debba osservare le modalità ed i contenuti dell’art. 148 ( art.
145), appare quindi logico che laddove la procedura di risarcimento sia fuori
gioco, come nel caso in esame, non si ponga nemmeno la necessità di
parametrare i termini per la proponibilità su quelli previsi per la prima.
Tali considerazioni che mirano a dare razionalità ad una scelta che altrimenti
risulterebbe del tutto illogica, sospingono altresì a ritenere che la richiesta di
risarcimento che deve precedere l’azione nei confronti dell’impressa designata
non debba essere assoggettata al rigore formale e contenutistico prescritto
dall’art. 145 per l’ordinaria azione diretta. Ed infatti, se le superiori
considerazioni evidenziano che qui manca un legame tra la richiesta di
risarcimento e la procedura stragiudiziale, così che non occorre assicurare un
loro coordinamento, vi è anche il supporto del dato letterale che nell’articolo in
commento si limita a prevedere che l’azione risarcitoria possa essere proposta
solo dopo che siano decorsi sessanta giorni da quando il danneggiato abbia
chiesto il risarcimento del danno a mezzo lettera raccomandata. La genericità
delle espressioni utilizzate, e soprattutto il mancato rinvio alle forme ed ai
contenuti dell’art. 148, inducono a ritenere che ai fini della proponibilità delle
azioni nei confronti del fondo di garanzia,m sia sufficiente una generica
richiesta di risarcimento del danno, ben potendosi fare riferimento a quanto
statuito in passato dalla giurisprudenza in relazione al vecchio testo dell’art. 22
della legge n. 990/69.
Quanto più in generale alle ipotesi di intervento del Fondo, in caso di
risarcimento dei danni di cui alle lettere a), b) e d) dell’art. 283 (veicolo non
identificato, veicolo sprovvisto di copertura e veicolo circolante contro la
volontà del proprietario), è necessario che la richiesta debba precedere l’inizio
del giudizio di almeno sessanta giorni, nel caso di liquidazione coatta il termine
è prorogato a sei mesi.
In tal caso il legislatore, prendendo atto del fatto che l’originario termine di
sessanta giorni, di cui alla legge 990/1969, in caso di impresa in liquidazione
coatta amministrativa era rimasto tale solo nell’ipotesi in cui vi fosse l’impresa
designata, mentre nel caso di impresa cessionaria ovvero di impresa designata
con commissario liquidatore autorizzato alla liquidazione dei danni in via
stragiudiziale era stato portato a sei mesi dall’art. 8 decreto legge 576/1978
convertito nella legge 24 novembre 1978, n. 738, ha ritenuto di preferire la
soluzione del termine più ampio.
Si tratta di una scelta volta da un lato a parificare situazioni che
obiettivamente presentavano discipline difformi, pur a fronte di un’omogeneità
di fattispecie, e dall’altro finalizzata a consentire un maggior lasso di tempo per
favorire una definizione stragiudiziale della controversia, tenuto conto che
l’impresa designata talvolta deve fare i conti anche con documentazione
dell’impresa in liquidazione non del tutto in regola, e quindi con maggiori
difficoltà di verifica circa la regolarità della copertura assicurativa.
Va altresì sottolineato che mentre l’art. 22 della legge 990/1969 prevedeva
che la lettera raccomandata dovesse essere inviata alla sola impresa designata
(ovvero al commissario liquidatore se autorizzato secondo la disciplina della
cd. mini riforma di cui alla legge n. 39 del 1977, ovvero all’impresa cessionaria
del portafoglio, se fosse stato prescelto il meccanismo di cui alla legge n. 738
del 1978), al contrario l’articolo in commento prevede che la richiesta debba
essere inviata, oltre che all’impresa designata, anche direttamente alla
CONSAP.
Invero l’art. 287, nelle ipotesi di cui alle lettere a), b) e d) dell’art. 283,
prevede che la lettera raccomandata debba essere inviata all’impresa designata
ed alla Consap. Dal tenore della norma non sembra che l’invio a quest’ultima
sia meramente facoltativo, venendo ribadita la necessità di comunicazione ad
entrambe dal secondo comma dell’art. 287, in vista della possibilità della stessa
Consap di potere intervenire nel giudizio risarcitorio. Trattasi di una previsione
innovativa rispetto all’art. 22 della legge n. 990/69 che per la Consap prevedeva
una facoltatività, sicchè attualmente in assenza di una richiesta ad entrambi i
soggetti individuati dalla norma deve concludersi per l’improponibilità.
Dalle premesse che ho fatto sopra in tema di rilevanza delle modifiche
apportate dal codice delle assicurazioni sui giudizi introdotti dopo il 1 gennaio
2006, traggo poi l’ulteriore conclusione secondo cui se le azioni introdotte dopo
tale data nei confronti dell’impresa designata non sono state precedute anche
dalla richiesta nei confronti della Consap, le stesse sono improponibili.
Il secondo comma dell’art. 287 appare mutuato dalla parte finale del primo
comma dell’art. 22 della legge 990/1969, contemplando l’ipotesi in cui, inviata
la richiesta all’impresa designata ed alla CONSAP sul presupposto della
mancata identificazione del responsabile, a tale identificazione si pervenga in
un momento successivo, e disponendosi che la richiesta non debba essere
reiterata verso l’assicuratore del responsabile, risultando l’originaria richiesta
idonea a fungere da condizione di proponibilità anche per l’azione verso il
responsabile e la sua compagnia.
Il litisconsorzio necessario
L’art. 144 riproduce il tenore dell’abrogato art. 23 della legge n. 990/69
prevedendo la regola del litisconsorzio necessario nel giudizio intentato con
l’azione diretta anche con il responsabile civile.
Rinviando a quanto ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità, circa
l’identificazione del responsabile nella figura del proprietario del veicolo
danneggiante, vale solo ricordare come verosimilmente sarebbe stato opportuno
chiarire che nell’ipotesi di danno cagionato da un veicolo concesso in leasing, il
litisconsorte necessario è da identificare non nel concedente ma
nell’utilizzatore, posto che la modifica all’art. 91 co. 2 del C.d.S. letteralmente
si limita a prevedere quest’ultimo come ulteriore soggetto responsabile ai sensi
dell’art. 2054 c.c. Tuttavia in assenza di un’esplicita presa di posizione da parte
della legge, può richiamarsi quanto di recente ribadito dai giudici di legittimità
che, in via interpretativa, sono pervenuti alla conclusione che il soggetto da
evocare necessariamente in giudizio, in caso di azione diretta, è l’utilizzatore (
Cassazione civile 25 maggio 2004 n. 10034).
Può però osservarsi che a fronte delle novità rappresentate dalla previsione
dell’azione del trasportato e dall’indennizzo diretto, sono sorte delle perplessità
circa la permanenza della regola del litisconsorzio necessario, specialmente per
ciò che concerne la procedura di cui agli artt. 149 e 150.
Invero, la formula dell’art. 144 co. 3 nella sua assolutezza non sembra
lasciare spazio ad una diversa soluzione, atteso che anche nelle ipotesi ora
ricordate ci ritrova di fronte all’azione diretta sebbene con alcune varianti
rispetto allo schema tradizionale.
Ne discende che in caso di azione ex art. 141 va convenuto in giudizio anche
il proprietario del veicolo a bordo del quale viaggiava il danneggiato, e laddove
si ponga un problema di superamento di massimale, che permette di evocare in
giudizio anche l’assicuratore dell’altro veicolo, potremo avere in giudizio, oltre
alle due compagnie, anche i due proprietari, entrambi litisconsorti necessari.
Nel caso invece di indennizzo diretto, le perplessità appaiono maggiori in
quanto la maggiore semplicità che caratterizza la procedura disegnata dal
legislatore potrebbe risultare appesantita dalla necessità di farvi partecipare
anche il responsabile civile. Vale considerare altresì che se le finalità del
litisconsorzio necessario in oggetto è quella di pervenire ad un accertamento
della responsabilità anche nei confronti del responsabile in vista delle
successive azioni di rivalsa dell’assicuratore, in questo caso vi sarebbe una
vistosa anomalia, in quanto l’assicuratore del danneggiato indennizza il proprio
assicurato, e mediante il sistema convenzionale di cui al regolamento di
attuazione del sistema dell’indennizzo diretto, riceve in stanza di
compensazione il costo dell’indennizzo medio, restando poi assicurata l’azione
di rivalsa in favore della compagnia del responsabile, la quale però non
partecipa al giudizio risarcitorio. Tuttavia, ove si configuri il ruolo dell’impresa
del danneggiato alla stregua di un mandato ex lege, in tutto analogo a quello
che svolgeva già prima l’impresa designata in caso di liquidazione coatta
amministrativa, ben potrebbe ritenersi che l‘accertamento compiuto in sede di
azione diretta, potrebbe essere opponibile anche all’impresa assicuratrice del
responsabile, senza che questi possa eccepire che si tratti di un giudicato
formatosi senza la partecipazione anche della propria compagnia.
Peraltro, i problemi potrebbero sorgere, qualora il responsabile nel
costituirsi in giudizio, dedica di spiegare domanda di garanzia nei confronti
della propria compagnia. In tal caso si impone l’ampliamento del
contraddittorio anche nei confronti dell’altra compagnia, la quale è unica
legittimata a contraddire a tale domanda; ma se si verifica tale ampliamento
rischiano di essere vanificare tutte le esigenze di semplificazione sottese alla
procedura di indennizzo diretto, che mirava ad escludere la partecipazione
dell’impresa del responsabile, ed a risolvere la vicenda del danneggiato
unicamente nei confronti della propria compagnia.
La soluzione più logica sarebbe quindi quella di ritenere preclusa al
responsabile la possibilità di cumulare la domanda di garanzia nel giudizio
intentato dal danneggiato, ma si tratta di soluzione che la lettera della norma
non permette di poter sostenere con convinzione.
Il litisconsorzio necessario si impone anche nelle ipotesi di intervento del
Fondo di Garanzia, sebbene non possa non evidenziarsi quella che a mio avviso
appare un’illogicità della norma, laddove prevede che sia litisconsorte
necessario il responsabile del danno nelle ipotesi di cui alla lettera b) dell’art.
283, e non anche l’eventuale responsabile del danno in caso di circolazione
prohibente domino ( lett. d).
Ove si ponga mete al fatto che l’azione di regresso del Fondo è data ai sensi
dell’art. 292 anche nei conforti del responsabile del sinistro nell’ipotesi di cui
alla lett. d), appare poco comprensibile la ragione per la quale non si è ritenuto
di prevedere come necessaria la sua partecipazione al giudizio risarcitorio,
prevenendo in sede di regresso eventuali contestazioni in merito
all’accertamento della responsabilità.
Ma la previsione che potrebbe avere gli effetti più dirompenti è quella di cui
all’art. 140 che ha introdotto una nuova fattispecie di litisconsorzio necessario.
La norma trova il suo immediato precedente nell’abrogato art. 27 della legge
990/1969, avendo appunto lo scopo di assicurare il principio della par condicio
tra i vari danneggiati, in presenza di un massimale incapiente.
Infatti, se la responsabilità dell’assicuratore nei confronti dei terzi
danneggiati trova il suo limite contrattuale, eccezionalmente opponibile anche
all’esterno, nel massimale di polizza concordato, ovvero nel massimale minimo
di legge, nei casi in cui quest’ultimo trova applicazione, ben potrebbe darsi
l’ipotesi in cui, a fronte di una pluralità di danneggiati, il tetto massimo della
copertura risulti essere insufficiente a soddisfare le varie pretese.
La norma prevede appunto che il massimale vada ripartito tra tutti gli aventi
diritto, in proporzione dei rispettivi crediti, fermo restando che l’eventuale
differenza rimasta non compresa nel massimale ben potrà essere richiesta nei
confronti del responsabile.
È qui opportuno richiamare in relazione al tema della pluralità di danneggiati
in presenza di un’unica vittima fisica del sinistro, che oramai la Cassazione ha
superato la tesi dell’unicità de, massimale, optando viceversa per l’autonomia
della posizione di ogni singolo congiunto, fermo restando il tetto del massimale
catastrofale. Aderendo invece alla tesi poi ripudiata dalla Suprema Corte, i vari
congiunti della vittima dovevano ripartirsi proporzionalmente il massimale
contemplato per singola persona danneggiata, laddove invece oggi possono
avvalersi del ben più ampio massimale per sinistro, divenendo più remota la
necessità di dover fare ricorso al riparto proporzionale.
Spesso non è agevole procedere all’identificazione immediata dei soggetti
potenzialmente coinvolti nel sinistro, ed il secondo comma, sul presupposto che
la compagnia di assicurazioni abbia i mezzi e l’organizzazione per meglio
assolvere a tale scopo, pone un onere a carico della stessa di attivarsi per
l’identificazione degli ulteriori danneggiati. Tale ricerca deve avvenire in base
al parametro della normale diligenza, con la conseguenza che, ove le ricerche
non diano esiti, il pagamento in favore del danneggiato che ne abbia fatto
richiesta la pone al riparo dall’eventualità che emergano in seguito altri
danneggiati.
Invero, tale scoperta potrebbe denotare che la somma in concreto versata
dall’assicuratore risulti eccedente rispetto a quella cui avrebbe avuto diritto in
applicazione della regola di proporzionalità di cui al primo comma, ma se
appunto il pagamento è avvenuto ottemperando all’onere di ricerca previsto
dalla norma, l’assicuratore non potrà che rispondere nei confronti degli altri
danneggiati entro il limite del massimale non ancora distribuito.
A contrario, se la ricerca è stata omessa ovvero è stata condotta in maniera
negligente, si configura un’ipotesi di responsabilità ultramassimale da parte
dell’assicurazione, che dovrà pertanto imputare a sé il mancato rispetto della
norma e soddisfare i danneggiati successivamente fattisi avanti, nei limiti del
riparto proporzionale, ma anche oltre il tetto del massimale, tenuto conto del
fatto che i primi danneggiati hanno ricevuto più di quanto loro spettava in base
alla regola del primo comma.
Il terzo comma, inoltre, prevede, che, ove l’assicurazione sia stata diligente, i
danneggiati che abbiano avanzato le loro pretese in un momento successivo
possano recuperare quanto loro spetta in applicazione del primo comma, non
già dalla compagnia che con il primo pagamento si è liberata di tutte le sue
obbligazioni, ma direttamente nei confronti di coloro che sono stati pagati per
primi, in modo da ricreare a posteriori il riparto proporzionale previsto dal
primo comma.
Nulla invece viene detto per la diversa ipotesi in cui, attesa la propria
negligenza, l’assicurazione abbia versato somme oltre il limite del massimale,
non essendo chiarito se in tal caso la compagnia possa agire verso i danneggiati
che abbiano ricevuto somme superiori alla loro quota proporzionale, sebbene
un intervento del legislatore fosse quanto mai opportuno.
Il quarto comma ha invece un carattere innovativo rispetto al vecchio art. 27,
in quanto mira a recepire un orientamento affermatosi presso molti giudici di
merito, i quali, nel silenzio della norma preesistente, avevano ritenuto che lo
strumento processuale, volto ad assicurare il rispetto della regola di
proporzionalità ed a prevenire possibili contestazioni in successivi giudizi circa
la sua applicazione, fosse quello del litisconsorzio necessario di cui all’art. 102
c.p.c.
Il legislatore fa propria tale tesi e prevede che, nel momento in cui si instauri
un giudizio tra la compagnia ed un danneggiato, tutti gli altri danneggiati
debbano necessariamente partecipare al giudizio.
Resta inteso che intanto è possibile far ricorso alla fattispecie di cui all’art.
102 c.p.c., in quanto dagli atti emerga una situazione caratterizzata da una
pluralità di danneggiati.
Dal punto di vista dogmatico la figura di litisconsorzio necessario disegnata
dal legislatore nell’occasione sembra da inquadrare nell’ambito di quelle
imposte, non da ragioni di natura sostanziale (si pensi per tutte al giudizio di
divisione), ma per ragioni di opportunità, analogamente a quanto previsto per
l’ipotesi dell’azione diretta del danneggiato di cui all’art. 144 co. 3.
La scelta a favore del litisconsorzio necessario appare quanto meno
discutibile.
Infatti, la soluzione che si era affermata prima della riforma in commento,
era nel senso che il potere di coinvolgere nel giudizio gli altri danneggiati era
rimesso alla valutazione discrezionale del giudice, il quale, laddove si fosse
avveduto della verosimile incapienza del massimale, poteva ordinare ai sensi
dell’art. 107 c.p.c., la chiamata in causa degli altri danneggiati. I vantaggi di
tale soluzione, rispetto a quella adottata dal legislatore appaiono, a parere di chi
scrive, evidenti.
In primo luogo il litisconsorzio necessario pone evidenti difficoltà di
carattere processuale, con gravi ripercussioni anche sulla validità delle sentenze
emesse a contraddittorio non integro ( si pensi alla disciplina dell’art. 354 c.p.c.
che prevede la rimessione della causa al giudice di primo grado in caso di
pretermissione di un litisconsorte), e con un evidente appesantimento del
processo.
In secondo luogo, il legislatore sembra prescindere dal concreto pericolo che
possa esservi un superamento del massimale ( valutazione che invece era
compiuta discrezionalmente dal giudice, laddove in passato si riteneva di poter
fare ricorso alla chiamata iussu iudicis), con la conseguenza che il litisconsorzio
necessario si impone anche laddove non si profili in alcun modo il pericolo di
un danno di ammontare superiore al massimale di polizza, ovvero anche nelle
ipotesi in cui lo stesso assicuratore non abbia eccepito o dimostrato l’esistenza
di un massimale.
Ancora, nelle ipotesi in cui da un singolo sinistro siano derivati danni ad una
pluralità di soggetti, ed ognuno di questi decida di proporre separatamente
l’azione risarcitoria, anche ove si ritenga di dover pervenire alla riunione delle
cause autonomamente proposte, ogni decisione sulla connessione non potrà che
essere adottata all’esito dell’integrazione del contraddittorio nei singoli giudizi,
con uno spreco più che evidente di attività processuale e di risorse.
Inoltre, se come è probabile, nel sinistro vi siano soggetti danneggiati che
possano avvalersi della procedura di indennizzo diretto, ovvero dei terzi
trasportati, che possano invocare la previsione di cui all’art. 141, rischia di
essere frustrato lo stesso intento semplificatore del legislatore che nelle due
ipotesi, ha previsto come controparte giudiziale dell’avente diritto al
risarcimento rispettivamente la stessa compagnia del danneggiato o la
compagnia che assicura il veicolo a bordo del quale si trovava, atteso che vi
sarà un coinvolgimento complessivo di tutti i danneggiati in giudizi che
potrebbero vedere presenti anche la compagnia dell’altro veicolo coinvolto nel
sinistro ovvero del responsabile dell’illecito.
Infine, e chiudendo in merito all’evidenziazione dei profili di criticità della
norma, se da più parti si è paventato, ed ad avviso di chi scrive in maniera
infondata, che l’applicazione del rito del lavoro alle cause relative a sinistri
stradali con danni per morte o lesioni, possa avere portato alla soppressione
della competenza dei giudici di pace per questa tipologia di sinistri, è però
evidente che la regola del litisconsorzio necessario in esame, e quindi il
coinvolgimento in un unico giudizio di tutti i danneggiati ( i quali una volta
evocati in giudizio verosimilmente non se ne staranno con le mani in mano, ma
proporranno a loro volta domanda di risarcimento), rischia di spostare di fatto
la maggior parte del contenzioso relativo alla circolazione stradale dinanzi al
Tribunale, attesa la limitazione per valore della competenza del giudice di pace.
Va poi sottolineato che la partecipazione al giudizio di tutti i danneggiati in
qualità di litisconsorti, prescinde dalla circostanza che gli stessi abbiano
previamente inviato la lettera raccomandata di cui all’art. 145, posto che non
necessariamente costoro si premureranno di avanzare nel giudizio nel quale
sono stati chiamati anche la domanda risarcitoria, essendo invece la finalità del
litisconsorzio di cui alla norma in esame, quella di rendere loro opponibile la
liquidazione effettuata in favore dell’attore, salvaguardando il principio di
riparto proporzionale del massimale.
Potrebbe però farsi richiamo a quanto si è affermato in tema di chiamata
iussu iudicis ( cfr. Tribunale Palermo 22 febbraio 1980, in Riv. Giur. Circ.
Trasp 1980, 989) laddove si è esclusa la necessità del previo invio della
richiesta risarcitoria, ritenendosi che se l’esenzione opera per la fattispecie di
cui all’art. 107 c.p.c., vale a maggior ragione per il litisconsorzio necessario.
Il rischio è però che, attesa la ricorrenza molto frequente di sinistri con
pluralità di vittime, l’esenzione dal previo invio della richiesta, possa di fatto
vanificare in numerosissime occasioni la regola del previo esaurimento delle
procedure stragiudiziali, con inevitabile frustrazione dello scopo di favorire la
deflazione del contenzioso in sede alternativa a quella giudiziaria.
L’intervento del Fondo di Garanzia
Rimandando alle precedenti relazioni l’approfondimento della nuova ipotesi
di intervento del Fondo, legata alla circolazione avvenuta prohibente domino,
va osservato che il legislatore, riprendendo quanto già previsto dall’art. 20 della
legge 990/1969, affida il compito di procedere alla liquidazione dei sinistri ad
apposite imprese designate, non più dal Ministero dell’Industria, come in
passato, ma dall’ISVAP, secondo quanto previsto da un regolamento da
adottare da parte del Ministero delle attività produttive.
Sebbene non sia espressamente riproposta la regola secondo la quale la
designazione delle imprese avveniva per ogni regione o gruppi di regione, è
verosimile che il regolamento di cui si è detto si atterrà a tale principio.
L’impresa designata, che è tenuta a liquidare i danni anche oltre il periodo
per il quale è stata indicata ab origine (è venuto anche meno il riferimento al
termine triennale), fintantoché non intervenga una nuova designazione, ha
diritto di recuperare quanto pagato nei confronti della CONSAP, al netto di
quanto eventualmente già ripetuto dal responsabile, laddove questo sia già
identificato ovvero venga successivamente individuato.
Il raffronto tra questa previsione ed il successivo art. 293 denota come il
legislatore, nel disciplinare le ipotesi di intervento dell’impresa designata in
caso di liquidazione coatta amministrativa, abbia inteso abbandonare il sistema
dell’impresa cessionaria introdotto con la legge n. 738 del 1978.
Infatti la scelta originaria del 1969 era stata quella di ricorrere al
meccanismo dell’impresa designata, incaricata per conto del Fondo di liquidare
tutti i sinistri verificatisi in un determinato ambito territoriale e cagionati da
veicoli assicurati con un’impresa posta in liquidazione coatta.
Le esigenze dei lavoratori dell’impresa decotta, che vedevano
irrimediabilmente compromesso il loro posto di lavoro, portarono
all’emanazione della legge n. 39 del 1977, la quale all’art. 9, in alternativa a
quanto previsto dalla legge 990/1969, prevedeva che il commissario liquidatore
potesse essere autorizzato a curare la fase della liquidazione dei danni in ambito
stragiudiziale. Ciò comportava un residuo spazio funzionale per l’impresa in
liquidazione, per assicurare il quale si permetteva il protrarsi del rapporto di
lavoro con i dipendenti dell’impresa in crisi.
Il carattere temporaneo dalla soluzione individuata, portò all’ulteriore
innovazione di cui al D.L. 576/1978, convertito in L. n. 738 del 1978, che
prevedeva la possibilità di cessione del portafoglio dell’impresa in liquidazione
in favore di un’altra impresa, definita appunto quale cessionaria. Quest’ultima,
oltre ad introitare tutti i contratti che esistevano nel portafoglio dell’impresa,
era tenuta anche ad assumere i dipendenti dell’impresa in liquidazione,
assicurando quindi la sopravvivenza dei posti di lavoro.
Inoltre, a differenza del sistema dell’impresa designata, connotato da una
delimitazione territoriale dell’attività del soggetto incaricato di liquidare i
sinistri per conto del Fondo, l’impresa cessionaria agiva in nome e per conto del
Fondo medesimo, e quindi quale rappresentante ex lege e senza limitazioni di
carattere territoriale.
Le difficoltà per gli operatori nascevano dal fatto che i tre sistemi sopra
brevemente tratteggiati si sono succeduti nelle varie previsioni di legge, senza
che si producesse alcun effetto abrogativo di quelli preesistenti, essendo
rimessa alla scelta del Ministro optare di volta in volta per l’uno o per l’altro,
occorrendo quindi avere riguardo al contenuto del provvedimento che
disponeva la liquidazione coatta per stabilire quale regime si dovesse seguire.
Il codice delle assicurazioni non ha ritenuto di reiterare questa tripartizione
di discipline, avendo previsto in aggiunta al sistema dell’impresa designata la
sola possibilità di autorizzare il commissario liquidatore alla definizione
stragiudiziale delle controversie.
. Tuttavia, pur riprendendo il meccanismo alternativo a quello dell’impresa
designata, alcuni dei tratti del cd. sistema della miniriforma, con la
valorizzazione del ruolo del commissario nella fase stragiudiziale, ritengo che
quest’ultimo a differenza del passato, ove aveva una legittimazione autonoma
nella sola fase stragiudiziale, oggi ha ottenuto una legittimazione anche nella
successiva fase giudiziale, avendo il legislatore posto una netta alternativa, a
seconda del sistema prescelto, tra legittimazione dell’impresa designata e del
commissario liquidatore, e ciò a differenza di quanto avveniva prima, laddove
una volta esauritasi la possibilità per il commissario di soddisfare in via
stragiudiziale le richieste dei danneggiati, l’azione andava proposta sempre nei
confronti dell’impresa designata.
Trattasi a ben vedere di una significativa innovazione rispetto al passato,
peraltro non adeguatamente compresa da parte anche dei primi commentatori,
che fuorviati dalla somiglianza delle funzioni attribuite al commissario
liquidatore con quelle che erano state previste dal cd. sistema della miniriforma
del 1977, hanno ritenuto che fosse restato immutato anche il regime
processuale, mentre al contrario, come cercherò di esporre oltre, il dettato delle
norme del codice depone nel senso che l’innovazione sia stata ben più
profonda, e tale da assegnare un ruolo fondamentale al commissario anche
successivamente alla proposizione della domanda in sede giudiziale.
Per quanto concerne il sistema di liquidazione a cura del commissario
liquidatore, il richiamo alle finalità che portarono il legislatore alla prima
riforma del 1977, è evidente nell’ultimo comma dell’articolo 293, ove
espressamente si prevede che il commissario liquidatore possa riassumere il
personale già dipendente dell’impresa posta in liquidazione, ancorché la loro
retribuzione debba essere fissata in base ai minimi dei contratti collettivi di
categoria.
Tuttavia, a differenza del passato, ve la legittimazione sul piano processuale
continuava aspettare all’impresa designata, ove si ponga mente alla previsione
di cui al successivo art. 294, laddove si prevede che l’azione debba essere
proposta nei confronti della procedura decorsi sei mesi dalla richiesta di
risarcimento del danno, sembra che il legislatore abbia piuttosto optato per
l’attribuzione al commissario liquidatore di una competenza non più limitata
alla sola fase stragiudiziale, ma estesa anche alla successiva fase giudiziale,
divenendo in tal modo il destinatario delle richieste risarcitorie avanzate in sede
contenziosa.
Viene in tal modo assicurato in misura maggiore anche l’aspetto relativo alla
tutela dei lavoratori, perlomeno garantendosi una maggiore aspettativa di durata
del rapporto, considerato che l’attività del commissario non si esaurisce nella
mera definizione dei sinistri che avviene nella fase che precede il giudizio, ma
si protrae anche una volta pendenti le controversie dinanzi all’autorità
giudiziaria.
A tale conclusione che si caratterizza per la portata innovativa rispetto al
passato si perviene sulla scorta dello stesso dettato normativo, ed in particolare
alla luce del testo dell’articolo 294 che al secondo comma, espressamente
prevede che l’azione risarcitoria debba essere proposta nei confronti della
procedura, e quindi non dell’impresa designata, ancorché poi le sentenze
emesse siano opponibili al Fondo di Garanzia, sul quale in definitiva dovrebbe
gravare il peso economico della sentenza.
Ancor più esplicito è poi l’art. 295 che prevede che gli assicurati possano far
valere i diritti derivanti dal contratto agendo espressamente nei confronti del
Commissario.
Una volta escluso che la legittimazione passiva in giudizio spetti all’impresa
designata, ma competa al commissario liquidatore, il richiamo all’opponibilità
lascia però intendere, ad avviso di chi scrive, che la successiva esecuzione delle
sentenze non possa avvenire nei confronti della procedura ma direttamente
verso il Fondo di Garanzia, con un meccanismo analogo a quello previsto in
passato per il sistema dell’impresa cessionaria che era sì destinataria dei
provvedimenti di condanna, ma quale rappresentante ex lege del Fondo di
Garanzia, nei cui confronti esclusivamente andava promossa la procedura
esecutiva. D’altronde nei conforti della procedura liquidatoria si porrebbe il
problema di superare il divieto di azioni esecutivi individuale di cui all’art. 249
del codice
Analogamente, sembra che una volta emessa la sentenza di condanna verso
il commissario liquidatore, il danneggiato possa poi agire esecutivamente
aggredendo il patrimonio del Fondo di Garanzia.
I sistemi sopra rapidamente tratteggiati trovano la loro immediata
applicazione nelle ipotesi in cui la liquidazione coatta amministrativa sia
intervenuta già prima della proposizione della domanda in sede giudiziale,
laddove nelle ipotesi di decozione intervenuta in corso di causa provvede l’art.
289.
La previsione, destinata a prendere il posto dell’art. 25 della legge 990/1969,
pur riproducendone in parte il contenuto, se ne discosta significativamente nella
seconda parte, innovando profondamente sul regime dell’opponibilità delle
sentenze nei confronti dell’impresa designata.
Come si accennava, il primo comma riprende in maniera fedele il primo
comma dell’art. 25, disponendo che se il danneggiato abbia ottenuto una
sentenza di condanna nei confronti dell’impresa, successivamente posta in
liquidazione coatta, le sentenze sono pienamente opponibili all’impresa
designata, purché il passaggio in giudicato sia intervenuto prima della
pubblicazione del decreto che dispone la liquidazione coatta.
Il principio, che peraltro è comune anche alla legge fallimentare, ribadisce il
fatto che la successiva sottoposizione del debitore ad una procedura
concorsuale non può intaccare i diritti riconosciuti in una sentenza ormai
passata in giudicato, posto che il principio di cui all’art. 2909 c.c., in tema di
effetti del giudicato, è suscettibile di essere esteso anche al fenomeno in esame.
Il limite di opponibilità è però costituito dai massimali minimi di legge,
atteso l’espresso richiamo all’art. 283 co. 4, con la conseguenza che ciò che
resta non coperto dal massimale di legge potrà essere richiesto al responsabile
civile, ove si sia ottenuta anche la condanna di quest’ultimo, ovvero nei
confronti dell’impresa in liquidazione, una volta che eventualmente ritorni in
bonis.
Il secondo comma dell’articolo in esame, invece, si discosta
significativamente da quanto previsto dall’art. 25 citato.
Quest’ultima norma disponeva, infatti, che, laddove il processo fosse
proseguito verso l’impresa in liquidazione coatta, l’opponibilità delle sentenze
adottate all’esito del giudizio verso l’impresa designata era condizionata al fatto
che fosse stata comunicata a detta ultima impresa la pendenza della lite a mezzo
atto notificato da ufficiale giudiziario.
Lo scopo della norma appariva poi ben chiaro ove si fosse posta mente al
successivo terzo comma dell’art. 25 che ammetteva l’intervento dell’impresa
designata anche in grado di appello, e ciò al fine di meglio tutelare le proprie
ragioni a fronte di un comportamento processuale dell’impresa in liquidazione
eccessivamente remissivo e comunque poco attento alla salvaguardia
dell’interesse della designata medesima.
La giurisprudenza, poi, dopo alcune iniziali incertezze, aveva ritenuto che
l’espressione adottata dal secondo comma, ove si faceva riferimento alla
prosecuzione del giudizio verso l’impresa in liquidazione, non presupponeva la
previa dichiarazione di interruzione e la successiva riassunzione verso il
commissario liquidatore, ma doveva ritenersi estesa anche alla diversa ipotesi
in cui il giudizio fosse proseguito verso l’originaria impresa assicuratrice,
tacendosi all’interno del giudizio il sopravvenire dell’evento interruttivo,
essendo sufficiente ai fini dell’opponibilità il mero invio della comunicazione
all’impresa designata nelle forme prescritte dalla legge.
Il secondo comma dell’art. 289 ha optato per una diversa soluzione.
Infatti, si prevede che una volta intervenuto il decreto di liquidazione coatta,
prima del passaggio in giudicato, e quindi anche in grado di appello, il giudizio
debba proseguire sia nei confronti del commissario liquidatore che dell’impresa
designata, decorsi sei mesi dalla pubblicazione del decreto di liquidazione
coatta.
Al fine di rafforzare i poteri dell’impresa designata all’interno dei processi
intentati verso l’impresa ormai in liquidazione, il legislatore ha previsto la
partecipazione della prima non più in via del tutto eventuale, come in passato,
bensì come necessaria, parificando quindi la situazione che si realizza in caso di
liquidazione che interviene durante la pendenza della lite a quella che invece
ricorre allorché il giudizio è iniziato dopo che è già stata disposta la
liquidazione coatta.
In tale chiave di lettura si giustifica anche la previsione che la prosecuzione
del giudizio debba avvenire decorsi sei mesi dalla pubblicazione del decreto, il
medesimo termine ormai previsto per il rispetto della condizione di
proponibilità costituita dalla richiesta preventiva di risarcimento del danno,
essendo evidente che con tale dilazione si mira a garantire all’impresa designata
uno spazio temporale che permetta di valutare la necessità di proseguire il
giudizio ovvero di addivenire ad una definizione transattiva della lite.
Non è chiaro però in che modo la norma sia destinata ad operare.
In passato, infatti, la costante giurisprudenza sia di merito che di legittimità
ha ritenuto che la messa in liquidazione coatta, alla stessa stregua della
dichiarazione di fallimento, avesse sì un’efficacia interruttiva del processo, ma
che tale efficacia fosse subordinata al fatto che la conoscenza dell’evento
avvenisse secondo quanto disposto dagli artt. 299 e 300 c.p.c.
Pertanto se l’impresa in liquidazione era costituita in giudizio, a provocare
l’interruzione era solo la dichiarazione del suo difensore, mentre se la stessa era
contumace, l’interruzione poteva essere pronunziata solo se si fosse venuti a
conoscenza dell’evento in occasione della notifica di uno degli atti di cui all’art.
292 c.p.c.
Laddove non si fossero verificate dette eventualità, il giudizio era destinato a
proseguire nei confronti dell’impresa in liquidazione, come se fosse tuttora in
bonis, a nulla rilevando l’eventuale comunicazione della messa in liquidazione
effettuata dal difensore del danneggiato ovvero la conoscenza da parte del
giudice per altre vie, fatta salva la possibilità di rendere opponibile la sentenza
finale, previa comunicazione della pendenza di lite ex art. 25 co. 2 della legge
990/1969.
L’attuale formulazione della legge invece ha carattere ben più perentorio
rispetto al passato e sembra imporre che la prosecuzione debba comunque
avvenire verso l’impresa designata e verso il commissario liquidatore, essendo
peraltro venuta meno la possibilità di rendere opponibile la sentenza con la
detta comunicazione.
La prima opzione interpretativa potrebbe essere nel senso che, in maniera
difforme rispetto al passato, la liquidazione coatta costituisca un evento
interruttivo rilevabile anche d’ufficio da parte del giudice, il quale ove
acquisisca conoscenza del relativo decreto deve interrompere il processo,
restando a carico del danneggiato l’onere di procedere alla riassunzione nei
confronti di entrambi i soggetti contemplati dalla legge.
Tale lettura induce a ritenere che il legislatore abbia inteso derogare alla
tradizionale regola secondo la quale la liquidazione coatta amministrativa era
un evento idoneo a produrre ripercussioni sul processo solo ove fatto oggetto di
comunicazione da parte del difensore della società liquidata, alla stessa stregua
di qualsiasi altro evento che colpisca la parte e che risulti idoneo a cagionare
l’interruzione del processo.
Ad avallare questa prima lettura soccorre poi anche il dato emergente dalla
norma secondo la quale il processo prosegue, decorsi sei mesi, non dalla
avvenuta interruzione del giudizio (che potrebbe non coincidere
cronologicamente con la data dell’evento interruttivo), ma dalla pubblicazione
del decreto. Se la ratio di questa sospensione è legata alla necessità di assicurare
un congruo termine di riflessione all’impresa designata per compiere le sue
valutazioni in merito alla richiesta già azionata in sede giudiziale, al fine di
consentirle di fruire appieno di questa pausa, è giocoforza ritenere che
l’interruzione avvenga in maniera automatica, non appena il giudice, anche
d’ufficio, venga a conoscenza della messa in liquidazione coatta della società
assicuratrice, senza dovere attendere che il difensore effettui la dichiarazione
con finalità interruttive.
Inoltre in tal modo il legislatore avrebbe anticipato di qualche mese la
soluzione poi adottata in sede di riforma della legge fallimentare, laddove si è
aggiunto un ultimo comma all’art. 43 della legge fallimentare ad opera del D.
Lgs. del 9 gennaio 2006 n. 5, il quale oggi espressamente prevede che
l’apertura del fallimento determina l’interruzione del giudizio, giungendo
quindi alla soluzione della interruzione automatica e rilevabile ex officio da
parte del giudice.
La seconda chiave di lettura potrebbe essere quella di rimanere fedeli al
tradizionale orientamento, che presuppone per l’interruzione una dichiarazione
di volontà appositamente manifestata dal difensore dell’impresa decotta, ma la
differenza rispetto al passato consisterebbe nel fatto che in sede di riassunzione
andrebbe sempre coinvolta l’impresa designata, oltre al commissario
liquidatore. Verrebbe quindi meno la possibilità pure ammessa in passato, in
cui il giudizio poteva proseguire unicamente nei confronti del solo commissario
liquidatore, ipotesi nella quale si riteneva che la sentenza, ancorché
formalmente di condanna, avesse un valore di mero accertamento, essendo
necessario piuttosto verificare se ricorressero i requisiti per la sua opponibilità
all’impresa designata. Oggi, invece, dovendosi proseguire il giudizio anche
verso l’impresa designata, all’esito si potrà direttamente pronunziare la
condanna nei confronti di tale soggetto.
Tuttavia a militare in senso contrario si pongono altre considerazioni.
In ipotesi, la dichiarazione del procuratore dell’impresa potrebbe avvenire
allorché sono già abbondantemente decorsi i sei mesi dalla pubblicazione del
decreto, con la conseguenza che il giudizio potrebbe essere immediatamente
riassunto, vanificandosi lo scopo sotteso alla sospensione ex lege di cui alla
norma in esame.
Ancora, il difensore dell’impresa in liquidazione potrebbe omettere di
dichiarare l’evento interruttivo, ovvero in caso di contumacia, potrebbe non
verificarsi mai la necessità di notificare un atto al contumace, evento in
relazione al quale è possibile dare ufficialità nel processo all’evento
interruttivo.
In queste ipotesi, essendo venuta meno la possibilità di rendere comunque
opponibile la sentenza all’impresa designata, mediante la comunicazione di cui
all’abrogato art. 25 della legge 990/1969, il danneggiato avrebbe enormi
difficoltà a raggiungere il risultato auspicato di una sentenza da spendere anche
verso la designata, potendosi unicamente ipotizzare che questi proceda sua
sponte ad evocare in giudizio il commissario liquidatore e l’impresa designata,
anche a prescindere dalla dichiarazione dell’interruzione.
L’ultimo comma ribadisce infine la regola secondo cui il regime di
opponibilità delle sentenze si estende anche alle ordinanze provvisionali di cui
all’art. 147, essendo tuttavia discusso se tale regola valga solo per le ordinanze
espressamente legate allo stato di bisogno del danneggiato, ovvero anche alle
ordinanza introdotte dalla legge n. 102 del 2006, atteso che tale legge ha
collocato il nuovo istituto processuale nell’ormai abrogato art. 24 della legge n.
990/69 e non già nel qui richiamato art. 147.
Mauro Criscuolo