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Contagio

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Francesco Lupo, Cyberpunk

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Collana LaBlu 

Serie BIG‐C 

Grandi Caratteri 

 

La  serie  Big‐C,  Grandi  Caratteri,  grazie  all’alta  leggibilità  del carattere  utilizzato  in  stampa  e  alle  sue  dimensioni (generalmente  13  o  14),  propone  testi  di  agile  lettura  rivolti  in particolare a lettori con problemi visivi (ipovedenti). 

Assieme a questo  libro e fino a esaurimento scorte, viene dato in  omaggio  un  audiolibro  su  CD  che  permette  in  particolare  a persone non  vedenti o  con problemi di dislessia, di  ascoltare  il racconto  anziché  leggerlo.  Precisiamo  che  per  i  lettori  con problemi di dislessia sono  in commercio pubblicazioni a stampa realizzate con caratteri e accorgimenti particolari, che i libri della nostra serie non utilizzano. Tuttavia,    il carattere utilizzato nella serie Big‐C (Candara) si presta comunque molto bene allo scopo. 

La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finanziamento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusivamente con il capitale della Casa Editrice. 

Gli audiolibri  forniti, offerti  in omaggio a scopo promozionale e realizzati  in  collaborazione  con  l’Associazione  Servizi  Culturali, sono narrati da non professionisti dalla voce chiara e gradevole. 

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Grazie a una particolare e rivoluzionaria iniziativa, JukeBook, i CD allegati ai libri possono essere scambiati con altri CD. 

All’interno  del  CD  sono  presenti  tutti  gli  approfondimenti sull’argomento. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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FRANCESCO LUPO      

CONTAGIO 

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CONTAGIO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni 

ISBN: 978‐88‐6307‐425‐3 In copertina: Immagine Shutterstock.com 

   

Finito di stampare nel mese di Marzo 2012 da Logo srl 

Borgoricco ‐ Padova 

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Dedicato a M.   

      

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       12 maggio 2010. Ore 01.15 a.m.  

Mancava  ormai  poco.  Era  una  fresca  notte  di marzo  e 

una  lieve  pioggerella  batteva  incessantemente  sui  vetri dell'abitazione.  Seduto  nel  suo  studio,  stava  rileggendo per  l'ennesima  volta  il  contratto  firmato qualche giorno prima. Il rumore della pioggia si mescolava al martellante ticchettio  dell'orologio,  che  all'interno  della  stanza scandiva inesorabile lo scorrere del tempo. Era un vecchio pendolo  che  stonava  con  l’arredamento  moderno dell’appartamento, ma si trattava pur sempre di un regalo di Clara, la zia che si era presa cura di lui quando, appena bambino, aveva perso entrambi  i genitori  in un  incidente stradale. La mezzanotte era passata da un pezzo, tuttavia  l’uomo, assorto  nei  suoi  pensieri,  sembrava  quasi  non accorgersene.  I  suoi  occhi  si  erano  soffermati  su  una 

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clausola del contratto, che rigirava ossessivamente tra  le mani:  “...I membri  della missione  non  potranno  in  alcun modo  abbandonare  il  modulo  abitativo  per  i  tre  anni pattuiti nel presente contratto, neppure per problemi fisici o  di  natura  mentale.  Alla  scadenza  del  terzo  anno  un dispositivo  automatico  provvederà  all’apertura  del portellone di uscita…”. Era  chiaro.  Per  conferire  realismo  a  una  simulazione bisognava  valutare  attentamente  e  verificare  sul  campo tutti gli eventuali rischi che ne sarebbero potuti derivare. Era  chiaro  che  nel  peggiore  dei  casi,  se  qualcosa  fosse andato storto, sarebbero potuti morire lì dentro.  Il  cosmonauta  lo  sapeva  bene,  ma  partecipare  a quell’esperimento  costituiva  la  sua  occasione  della  vita. Tre anni erano tanti ma che importanza poteva avere per chi come lui non aveva ormai più nessuno ad aspettarlo a casa?  Trentadue anni e una vita dedicata quasi completamente alla carriera. Convinto di non avere tempo per le relazioni sentimentali, all'amore aveva preferito il lavoro, una vera passione  a  cui  si  era  dedicato  con  fervore  assoluto. Inoltre  zia  Clara  era  morta  l’inverno  precedente,  lasciandolo  solo.  Pensava  a  quante  volte  aveva  cercato una scusa per giustificarle la sua assenza... La missione in 

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cui  si  stava  imbarcando  era  di  assoluta  segretezza  e  lui avrebbe  preferito  non mentire  alla  donna  che  lo  aveva cresciuto come una madre. La sua scomparsa lo esentava dal  raccontare  ulteriori  fandonie,  però  non  poteva nascondere  a  se  stesso  un  cupo  dispiacere  per quell’angosciante  solitudine  che  l’accoglieva  a  ogni rientro  in casa. Posò il contratto per  scrutare le foto dei quattro  cosmonauti  che  lo  avrebbero  accompagnato durante quei tre anni sotto la sua diretta responsabilità.  Lucy Bin, nata a Bejing ma cresciuta a Londra, psicologa e medico  sportivo;  il  tedesco  Henrik  Krass,  fisico aerospaziale;  il  francese  Michael  Husson,  pilota  con  il quale  aveva  già  condiviso  alcune  precedenti  missioni spaziali e  il  russo Andrei Zotoik,  ingegnere  con  il pallino della  biotecnologia,  uomo  tanto  geniale  quanto eccentrico.  E  infine  lui,  Matthew  Allen,  semplicemente  Matt,  un americano  il cui volto  lentigginoso e  i folti capelli rossicci lasciavano  intuire  le  sue  chiare  origini  irlandesi.  ‘Orso Matt’    lo  chiamavano  gli  amici  più  intimi,  per  quel carattere  schivo e quel suo parlare a monosillabi, che  lo avvicinava tanto al burbero plantigrado.   Se nel privato era decisamente goffo e privo di tatto, sul lavoro  si  trasformava:  si  trattava  indubbiamente  di  un 

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ottimo professionista che, poco più che trentenne, era già considerato  uno  dei  migliori  astronauti  del  comparto. Matt e i suoi futuri compagni erano stati selezionati dalla compagnia  spaziale  cinese  per  il  progetto  Mars900, ufficialmente  per  simulare  un  viaggio  su  Marte  ma principalmente  ‐  secondo  Matthew  ‐    per  fornire  agli scienziati  informazioni utili su come fisico e psiche umani avrebbero  reagito  alla  costrizione  fisica  e  all'isolamento per  un  periodo  così  lungo,  testando  in  questo modo  lo stress di una forzata convivenza. Si  rese conto dell’orario. Posò  le  foto sulla scrivania e si stiracchiò, tendendo prima le gambe sotto il tavolo, poi le braccia al di sopra della sua testa. Incrociò le mani dietro alla  nuca  e  rimase  ancora  per  un  attimo  immobile  a pensare. Ma era stanco e sentiva  le palpebre pesanti dal sonno,  desiderose  di  lasciarsi  alle  spalle  quella  lunga giornata.  Così  finalmente  decise  di  andare  a  riposare.  I giorni  successivi  sarebbero  stati  ricchi di  impegni ed era fondamentale essere pronto e  reattivo per affrontare al meglio ciò che  lo aspettava. Si  strofinò gli occhi mentre un  lungo  e  profondo  sbadiglio  gli  fece  letteralmente sparire  la metà  inferiore della faccia. Spense  l’abat‐jour e lentamente si avviò a tentoni verso la sua stanza, dove si 

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lasciò cadere sul letto abbandonandosi con un gemito sul cuscino.  

***  01 giugno 2013. Ore 07.15 a.m.  

Finalmente arrivò il momento tanto atteso. Erano rimasti 

sigillati  in  quella  struttura  per  quasi  un  triennio, fronteggiando  le  tre  fasi  previste  dall'addestramento. Nella  prima  avevano  dovuto  affrontare,  anche  se  solo virtualmente,  i duecentocinquanta giorni di viaggio verso Marte. Poi cinquecento giorni articolati tra la simulazione dello  sbarco  sul  pianeta  rosso,  l’esplorazione  di  una superficie che replicava alla perfezione il suolo marziano e una serie di test riguardanti numerose nuove tecnologie. Infine  i  duecentoquaranta  giorni  del  viaggio  di  ritorno. All'interno  della  Mars900  le  condizioni  di  vita  di  un equipaggio  in  viaggio  da  e  verso  Marte  erano  state emulate  fin  nei  minimi  dettagli:  pochi  contatti  con l'esterno,  scorte  di  cibo  ed  equipaggiamenti  stivati all'interno del modulo abitativo, doccia solo una volta alla 

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settimana,  imprevisti  ed  emergenze  creati  ad  hoc  dal controllo missione.  I  nervi  di Andrei  ed Henrik  erano  stati  i  primi  a  saltare. Andrei  in  particolare  già  da  tempo  non  vedeva  l’ora  di abbandonare quel dannato modulo. Per Matthew, come capo dell’operazione, non era stato affatto facile gestire i momenti  di  altissima  tensione,  specie  negli  ultimi mesi. Tuttavia  anche  lui  era  felice  di  aver  portato  a  termine l’esperimento. Ancora qualche minuto e tutto sarebbe finito. Il simulatore stava procedendo con il rientro verso Terra e a  momenti  sarebbero  entrati  nell’orbita  terrestre. Nonostante  il nervosismo  fosse ormai  insostenibile, ogni membro  dell’equipaggio  assolveva  alacremente  i  propri compiti,  eseguendo  le  complesse  procedure d’atterraggio.  La  dottoressa  Bin,  davanti  al  terminale  della  sua postazione, stava verificando gli ultimi dati. Il suo sguardo si  soffermò  su  di  un  file  in  particolare.  Era  quello  che aveva  trattato  con  maggiore  attenzione  in  quella interminabile  e  impegnativa  avventura.  Aggrottò  la fronte,  avvicinandosi  allo  schermo  per  vedere  meglio. Scorreva  quelle  informazioni  con  espressione  seria  e provata.  Ma  non  era  il  fisico  ad  aver  risentito 

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maggiormente di quell’esperienza. Le condizioni di tutti  i componenti  erano  discrete,  considerando  che  erano rimasti  in  uno  spazio  così  ridotto  per  oltre  novecento giorni. Avevano  svolto  continui  esercizi  fisici, due ore  al giorno, un allenamento necessario per evitare  i problemi di osteoporosi dovuti alla prolungata assenza di gravità, oltre che per scongiurare una  rapida perdita della  forma fisica e delle capacità motorie. Era stato invece lo stress il nemico numero uno, lo dimostrava chiaramente quel file, che  raccoglieva  le  informazioni  relative  a  quel  lungo ‘viaggio’. La donna  iniziò ad annotare nervosamente gli ultimi dati, utili  a  concludere  una  volta  per  tutte  il  suo  rapporto. Perennemente  ossessionata  dal  lavoro,  si  era  lanciata  a occhi chiusi nella missione spaziale. Se n’era però pentita: dal  suo  punto  di  vista  professionale  il  progetto  si  era rivelato un totale insuccesso, come dimostravano tutte le ricerche che riempivano i suoi fascicoli. Era stanca, voleva tornare a casa. Già assaporava  il piacere di una vera cena  e  di  un  bel  bagno  caldo...  Sentiva  proprio  il  bisogno  di rilassarsi  comodamente  per  qualche  giorno  nel  suo grazioso  loft,  un  open  space  arredato  secondo  il minimalismo dello stile orientale e di fare una passeggiata per  Londra  assieme  alla  sua  amica Alysha, magari dopo 

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aver  cenato  da  Hakkasan  ‐  il  suo  locale  preferito  ‐  un ristorante situato  in Hanway Place nel quartiere di Soho. Quella  con  Alysha  era  un'amicizia  nata  ai  tempi  in  cui studiava  alla  University  College  di  Londra.  Negli  ultimi anni  si  era  gettata  a  capofitto  nel  lavoro  e  non  aveva avuto molto  tempo da dedicare  alla  cura delle  relazioni interpersonali. Alysha era una delle poche persone di cui si  poteva  fidare  ciecamente.  Le  era  inoltre  stata particolarmente vicina nei difficili giorni in cui aveva rotto con Ryan, proprio qualche mese prima della partenza per la  missione.  Non  vedeva  l'ora  di  fare  una  bella chiacchierata  con  lei.  Le  relazioni  con  i  compagni, rifletteva Lucy mentre perfezionava gli ultimi grafici, nate inizialmente in un clima d’intesa e collaborazione, si erano andate  deteriorando  a  poco  a  poco.  Anche  i  litigi,  che erano  stati una  costante  sin dal   primo anno di  viaggio, erano  ormai  cessati.  Solo  lei,  si  accorgeva  con  stupore,  talvolta  esplodeva  isterica,  stanca  dell’imprevedibilità  di Andrei,  il cui stato mentale era  in  rapida degenerazione. In questa operazione Andrei aveva probabilmente pagato a  caro  prezzo  la  prolungata  separazione  da  sua moglie Irina e dalle figlie Yulia e Anna. Tra le sue missioni spaziali poteva  vantare  duecento  giorni  trascorsi  sulla  stazione orbitante MIR, ma evidentemente tre anni chiuso  in quel 

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simulatore per  lui erano stati ben’altra cosa. Da subito  il suo  fare  saccente  aveva  creato  qualche  malumore  col resto  dell’equipaggio.  Quando  era  in  atto  una discussione,  poteva  andare  avanti  a  parlare  per  chissà quanto tempo  impadronendosi della scena e ostentando le  sue  ragioni  fino  alla  nausea.  Era  senz'altro  un  uomo geniale  ‐  laureatosi  col  massimo  dei  voti  presso l’accademia  di  S.Pietroburgo  ‐  e  un  perfetto  solista  sul lavoro, ma quando  si    trattava di  cooperare  in un  team poteva  spesso  risultare  irritante,  soprattutto visto  il  suo modo  di  fare  estremamente  anticonformista.  La comunicazione  tra Matt  e  i  restanti membri  del  gruppo invece si era ridotta al minimo  indispensabile. I primi veri momenti  di  tensione  non  erano  però  imputabili  alle artefatte  simulazioni  d’inconvenienti  tecnici,  ma all’improvvisa cessazione dei messaggi dalla base, che  in genere  ricevevano  almeno  una  volta  alla  settimana. Già da  tempo  gli  astronauti  avevano  avvertito  una  certa apprensione nelle parole del  loro coordinatore a terra,  il comandante Pearl.  L’uomo  si  era mostrato    sempre più scostante  in  ogni  contatto  con  il  gruppo, ma  in  nessun momento  aveva  lasciato  trapelare  la  possibilità  di problemi  esterni.  Fino  a  quando,  improvvisamente,  non avevano ricevuto più nessuna notizia. Negli ultimi cinque 

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mesi quell’inspiegabile silenzio aveva innescato in loro un forte  senso di angoscia e da un giorno all’altro  si erano sentiti ancor più soli  in quell’angusta dimora. Tutti  i  loro tentativi di collegamento con  la base erano risultati vani. Matthew  aveva  cercato  di  tranquillizzare  l’equipaggio: “Probabilmente  avranno  voluto  rendere  la  prova  maggiormente  realistica,  facendo  sparire  le comunicazioni...”  aveva  continuato  a  ripetere. Un’eventualità  possibile  anche  se,  dentro  di  sé,  non  ne era  del  tutto  convinto...  Soprattutto  vista  la  malcelata preoccupazione sul volto tirato di Mr. Pearl. Andrei  era  quasi  impazzito  all’idea  che  fosse  successo qualcosa di grave e che quel maledetto portellone non si sarebbe  mai  aperto.  Era  questione  di  poche  ore  e avrebbero  scoperto  se  quella  simulazione  di  viaggio  su Marte, i mesi trascorsi a effettuare test e passeggiate sul Pianeta  Rosso,  vivendo  in  un  piccolo modulo  abitativo, sarebbe  stata  un  successo.  Li  avrebbero  accolti  come degli  eroi? O  tutto  era  stato  inutile  e  la  simulazione  un fallimento? Una voce calma e  sicura  riportò  l'attenzione di  tutti alla realtà,  informando  che  il  conto  alla  rovescia  sarebbe cominciato entro trenta secondi. 

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«Impatto con  l’atmosfera  terrestre  tra  10, 9, 8...»  scandì lentamente  Michael  dalla  consolle  di  comando  della navetta.   

***  

Un  contraccolpo,  seguito da uno  scossone del modulo, 

indicò  l’impatto  col  suolo.  La  simulazione  d’atterraggio era  avvenuta  senza  problemi.  Le  potenti  turbine  dei generatori,  che  avevano  prodotto  un’incessante  ronzio durante i tre anni di missione, avevano rallentato la corsa e  quell’insopportabile  brusio  cominciò  ad  affievolirsi. Matthew e  i suoi compagni si guardarono senza parlare. Poi, quasi a sorpresa, furono avvolti da una quiete che gli apparve  surreale.  A  tutti  i membri  dell’equipaggio  non sembrò vero... Si erano fermate definitivamente, cedendo il  campo  a  un  insolito  silenzio.  Andrei  si  slacciò freneticamente le cinture, lanciandosi goffamente verso il portellone.  Gli  altri  l’osservarono  rassegnati, impossibilitati a trattenerlo da quella definitiva esplosione di rabbia. 

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«Vedete! Non  si  apre  questo  fottuto  portellone! Non  si apre...  Non  si  apre!»  Urlò  battendo  vanamente  i  pugni contro la spessa porta di ferro. Aveva  gli  occhi  sbarrati,  mentre  continuava  a  lottare come una furia contro il maniglione, ansimando a corto di fiato  per  via  della  troppa  foga...Ma  si  dimenava  e imprecava  inutilmente,  il  congegno  d’apertura  era maledettamente  bloccato.  Stremato  da  quell’accumulo d’inquietudine  e  tensione,  si  lasciò  cadere  a  terra  in lacrime. S’inginocchiò con lo sguardo fisso sul pavimento singhiozzando  nervosamente,  mentre  un  pianto incontrollato prese a scorrergli giù per le guance. Matthew  e  i  suoi  compagni  osservavano  inermi  quella scena  di  isteria,  ma  proprio  mentre  Lucy  si  stava lentamente  avvicinando  ad  Andrei  nel  tentativo  di calmarlo,  spinta  da  un  ultimo  slancio  di  dovere professionale,  la  luce  rossa  posta  al  di  sopra  del portellone  diventò  verde,  accompagnata  dal  suono lacerante  di  una  sirena  che  riecheggiava  a  tratti, sincronizzata  al  lento  lampeggiare  della  spia.  Si  udì  un sibilo, poi un  suono meccanico  simile  allo  stantuffare di pistoni. Quando il suono fu cessato, la porta si aprì. Andrei si alzò di colpo, scaraventando per terra la collega. Si  affrettò  ad  afferrare  la  maniglia,  spingendo 

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ansiosamente  la massiccia  porta metallica. Non  appena l’uscio  fu  rischiarato da  uno  spiraglio di  luce,  sentì  sulla pelle  una  ventata  d’aria  che  da  tempo  sognava  di respirare. Aria vera e non quella artificiale che per tre anni aveva dovuto  sopportare.  Finalmente  sarebbe uscito da lì,  avrebbe  lasciato  quella  che  ormai  era  divenuta  una prigione. Non sopportava più i suoi compagni d’avventura o di sventura, come preferiva chiamarli. Spinse  a  fatica  il  portello,  riuscendo  a  forzarlo  e  a fiondarsi  all’esterno.  Nell’impeto  inciampò  e  cadde  per terra.  Al  suo  seguito  uscirono  gli  altri,  abbandonando definitivamente  il  container  ad  alta  tecnologia.  Il simulatore  nel  quale  avevano  vissuto  tre  anni  era composto  da  quattro  ambienti  interconnessi  tra  loro:  il modulo  abitativo,  quello  utilizzato  per  riprodurre l’ambiente marziano, il magazzino e l’unità medica, per un volume totale di oltre ottocento metri quadri racchiusi  in un hangar.  Matt si guardò attorno, preoccupato. Strinse gli occhi e la pelle del viso gli si tese. Seppure fossero all’interno di un hangar,  quel  po’  di  luce  naturale  era  comunque  più  di quanta ne avessero vista fino ad allora. Si portò  la mano sinistra  alla  fronte,  per  schermare  la  luce  del  sole  che penetrava dai lucernai.  

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Intorno a loro il nulla. E il silenzio più assoluto.  Alla  loro partenza erano stati  in molti gli addetti ai  lavori venuti ad assistere. Non si aspettava una festa nazionale, ma  quell’immagine  di  vuoto  incondizionato  era inquietante. «Merde! Mais c’est pas vrai? Non c’è nessuno! Che diavolo è  successo?»  Disse Michael.  Il  pilota  ultimamente  quasi senza accorgersene parlava spesso in francese, sua lingua natia,    soprattutto  nei momenti  di  forte  stress. Ormai  i suoi colleghi si erano abituati e anzi quella sua melodica parlata risultava loro gradevole. «Non  lo  so...»  la voce di Matt,  che per  tutta  la missione aveva cercato di trasmettere sicurezza, divenne di colpo titubante. L’enorme hangar dava evidenti segnali di abbandono. Un raggio di sole che filtrava dall’ampio portone semi aperto si rifletteva su una fitta quantità di polvere, che si librava danzando nell’aria.  «Un  totale  insuccesso.  Ripudiati  senza  alcuna spiegazione» Henrik  restò immobile, pensieroso. «Forza,  avviamoci  all’uscita  e  vediamo  di  scoprire  cos’è successo» decise infine Matt. Si  tolsero  le  ingombranti  tute  spaziali  e  si  avviarono all’interno  dell’aerorimessa.  Mentre  camminavano  a 

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rilento,  sbalorditi  da  quell’assurda  accoglienza, continuavano  a  guardarsi  attorno  cercando  di  cogliere qualche elemento che li aiutasse a comprendere il perché di  tanta  desolazione.  Anche  quando  erano  arrivati  tre anni prima non c’era nulla all’interno dell’hangar, che era stato destinato esclusivamente a contenere  il  fabbricato per  la  simulazione. Ma  a  differenza  di  allora,  oltre  alla mancanza  inspiegabile  di  persone,  si  percepiva un’opprimente sensazione di oblio. Giunsero  innanzi  all’enorme  portone  ed Henrik  cercò  di azionarlo  tramite  un  display  che  ne  gestiva  la movimentazione...  Ma  i  suoi  tentativi  si  dimostrarono inutili. «É fuori uso, non si riesce ad aprire» disse, prendendo  in mano alcuni cavi tranciati. «Dovremmo  comunque  passare  dalla  fessura.  Presto, usciamo  di  qui!»  ordinò Matt,  che  voleva  al  più  presto trovare risposte plausibili a quella strana situazione. Uno  alla  volta  sgattaiolarono  fuori,  strisciando  con difficoltà  nella fenditura creatasi fra i battenti. Una volta all'esterno  fecero  fatica  a mantenere  gli  occhi  aperti  e socchiusero  all’unisono  le  palpebre  per  difendersi  da quella  luce  troppo  violenta. Un  sole  cocente  illuminava già quella giornata.   

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“É  veramente  fantastico  il  calore  trasmesso  dal  sole  sul corpo”  pensò  Matthew.  Inspirò  l’aria  del  mattino  che soffiava  sul  deserto  e  per  un  attimo  quella  piacevole sensazione spazzò via  le preoccupazioni. Ma  fu solo per un  istante. Dovevano  raggiungere  il  quartier  generale  e non sarebbe stato facile:  la base si estendeva su un’area vastissima.  Si  trovavano  nei  pressi  di  alcune  piste  di atterraggio, delle quali solo alcune erano ancora utilizzate per  il trasporto del personale civile  impiegato nel centro aerospaziale. Gran  parte  di  quella  zona  era  usata  come deposito  e  qualche  chilometro  più  avanti  vi  erano  i laboratori  di  ricerca.  Dietro  gli  edifici  in  lontananza,  si alzava la torre di controllo, ma all’orizzonte non si vedeva nessun  segno  di  vita.  Erano  piombati  di  colpo  in un’immensa area dismessa.  Un silenzio mortale li avvolgeva. Quella  che  un  tempo  era  stata  una  base  spaziale d’avanguardia a  livello mondiale, nonché  la più grande  in assoluto  dell’intero  globo,  ora  appariva  in  completo disuso. Almeno per quello che riuscivano a scorgere fino a quel momento.  

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Matthew  camminava  in  testa  al  gruppo  lungo  la  pista 

d’atterraggio. Stavano procedendo a fatica verso il centro di  ricerca,  il  calore  che  l’asfalto  cocente  rilasciava  era infernale.  Michael guardava a destra e a sinistra, ma lo scenario era ovunque  desolante.  Da  un  lato  le  recinzioni metalliche che  delineavano  quell’ala  della  base,  separandola dall’immensa  distesa  arida  del  deserto  di  Taklamakan... Quel  panorama  gli  appariva  come  un  grande  mare  di sabbia, un oceano di rena e dune dal fascino inquietante e privo  di  ogni  traccia  umana.  Dall’altro  la  base  stessa, sconfinata  e  in  uno  sconcertante  stato  di  abbandono. Hangar  vuoti,  qualche  automezzo  abbandonato  alla rinfusa,  senza  alcuna  logica.  Di  fronte,  lungo  la  pista d’atterraggio,  l’arsura  costante  che  lungo  l’asfalto generava  un  tremolante  effetto  fata  morgana.  A  dare segnali  di  efficienza  era  rimasta  soltanto  una  cosa,  ed effettivamente  così  era  stato  fino  ad  allora:  l’impianto elettrico  fotovoltaico  da  5  Mega  Watt,  costruito appositamente per alimentare l’hangar e che grazie a uno speciale  sistema  di  accumulatori  aveva  garantito l’elettricità  anche  nelle  ore  notturne.  Seppure  i  pannelli fossero  ricoperti  di  sabbia  e  visibilmente  a  corto  di manutenzione,  adempivano  ancora  al  proprio  dovere. 

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Una  sgradevole  sensazione  d’inquietudine  si  fece improvvisamente  viva  in  Michael.  Se  fosse  mancata l’elettricità,  il  dispositivo  di  apertura  automatica  non avrebbe funzionato... Sarebbero restati chiusi nel modulo al  buio  a  delirare,  fino  al  sopraggiungere  di  una morte lenta e angosciosa. Quel pensiero gli fece accapponare la pelle,  ma  al  momento  era  necessario  trovare  delle risposte, “Meglio non pensare a quello che sarebbe potuto accadere” pensò tra sé e sé. «Je  ne  comprends  pas!  Certo  che  è  assurdo!»  disse passandosi  una mano  sulla  fronte  e  sui  folti  capelli  ricci «Che  senso  aveva  lasciarci    impazzire    là  dentro  se  a nessuno gliene importava più un accidente!»  «Basta! Non ne posso più!»  con un grido Andrei  iniziò a correre  all’impazzata  verso  il  centro  di  ricerca,  distante ancora qualche chilometro. «Ormai  è  inutile  cercare  di  calmarlo»  disse  rassegnata Lucy «Lasciamolo correre... Questa situazione anomala ha aggravato il suo stato in modo irreparabile.»  Matthew  scrutava  Andrei  allontanarsi  rapidamente  da loro, mentre  urlava  come  un  folle  a  pieni  polmoni  nel tentativo  di  attirare  l’attenzione  di  qualcuno.  Gli sembrava impossibile che potesse disporre di tutte quelle energie, dato  il caldo  insopportabile e  lo  stress emotivo 

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che  stava  affrontando.  Ma  così  era  e  in  breve  la  sua smaniosa  galoppata  l’aveva  condotto  nei  pressi dell’ingresso. «Si vede che era un vero atleta...» affermò in tono ironico Henrik. Da  ragazzo  Andrei  aveva  praticato  atletica  leggera  con discreti  risultati, correndo  i duecento metri  in  tempi che per  poco  non  l’avevano  fatto  entrare  nel  giro  della Nazionale.  Lo videro ansimante, chino con le braccia distese fino alle ginocchia,  intento a  riprendere  fiato.  Il silenzio spettrale che li circondava fu rotto da un flebile rumore, che con lo scorrere  dei  secondi  si  fece  più  nitido.  Dal  retro  del palazzo sbucò un  furgone, che dopo avere affrontato  la curva  in sbandata sfrecciò sulla pista a grande velocità. Il vecchio Volkswagen  inchiodò accanto ad Andrei. Matt e gli  altri  lo  osservavano  agitarsi,  gesticolando violentemente  contro  l’autista.  Dal  retro  del  veicolo comparve  una  persona  d’aspetto  minuto,  forse  un ragazzo, che cercò di afferrare Andrei. Ma lui si divincolò, spintonando  via  il  giovane  che  continuava  a  volerlo condurre  con  sé  sul  furgone.  L’autista  fece  un  cenno muovendo velocemente  il braccio fuori dal finestrino e  il ragazzo si precipitò sul retro del furgone, sparendo dalla 

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loro vista.  Il mezzo  ripartì  in  sgommata e  lo  stridere dei pneumatici sollevò una nube di fumo sull’asfalto rovente. Andrei lo seguì con lo sguardo, continuando ad agitarsi. A metà  strada  tra  loro  e  Andrei  il  furgone  sembrò  voler svoltare  ma  l’autista,  probabilmente  accortosi  della presenza  di  altre  persone,  corresse  la  traiettoria  e continuò  la  corsa  in  loro direzione. Matthew  incrociò  lo sguardo degli altri e notò  in tutti un'espressione  in cui si mescolavano  choc,  sfinimento  e  incredulità.  Il  furgone stava arrivando. Come fatto  in precedenza con Andrei, si arrestò inchiodando sull’asfalto. «Presto,  lo  dico  per  il  vostro  bene!  Montate immediatamente  su,  dobbiamo  andare  via  da  qui!»  Dal posto  di  guida  apparve  un  cranio  calvo  luccicante,  un uomo di origine asiatica che si era espresso in tono teso e preoccupato,  dimostrando  una  buona  padronanza dell’inglese. «Vi spiegheremo tutto dopo, non  fate come quel  pazzo  laggiù  seguiteci!  Presto...»  lasciò  la  frase  in sospeso, fissando le persone davanti a lui con una smorfia che metteva in mostra la bocca sdentata. Si  guardarono  nuovamente  tra  loro  e Matt,  vedendo  lo sconcerto generale, decise di ascoltare  il  suo  istinto e  si pronunciò per primo: «Facciamo quello che ci dice...» Nessuno sembrò obiettare. Solo Henrik aggiunse: 

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«Tanto, peggio di così che altro ci può capitare?» Dal  retro  del  furgone  intanto  era  sbucato  un  ragazzino anch’egli  asiatico,  poco  più  che  adolescente  all’aspetto, che gli rispose: «Ma no sapere nulla? No immagina neanche cosa terribile può capitare... Presto salire su!» Matthew  salì per ultimo guardandosi alle  spalle, mentre una mano  lo  aiutava  a  tirarsi  su.  In quel momento  vide uscire  qualcuno  dalla  porta  del  centro  di  ricerca.  Prima una,  poi  un  paio  di  persone.  Procedevano  rapidamente con  un’assurda  andatura  che  ricordava  un  branco  di predatori affamati. I pochi vestiti addosso erano stracciati e lasciavano intravedere arti rigonfi e grigiastri. Scorse Andrei girarsi verso di  loro,  immobile a osservarli. Poi con uno scatto  iniziò a correre, ma  le persone uscite dal  centro  lo  raggiunsero  in  fretta  scaraventandosi  con violenza su di  lui e facendolo rovinare a terra.  Il portone del  furgone  si  chiuse  una  volta  che Matt  fu  a  bordo  e immediatamente ripartì a tutta velocità. Grida di terrore e disperazione, le urla di Andrei restarono sospese nell’aria per un tempo che a tutti sembrò infinito. «Chi erano quelle persone?» chiese  in tono esasperato al ragazzo  che  stava  con  loro  sul  retro  del  furgone.  Il 

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giovane assunse un’espressione seria e contrita che non lasciava trasparire niente di buono. «Paura... Morte...» Qualsiasi  cosa  stesse  cercando di  spiegare,  fu  interrotto dalla  voce  ispessita  dall’ira  proveniente  dal  posto  di guida. «Che  succede?»  chiese  rivolto  all’autista  scostando  lo sguardo da Matt. «Merda! Una fottuta trappola, ecco dove siamo finiti!»  Quell’affermazione  lasciò  tutti  interdetti,  senza  parole. Poi  si  scossero e guardarono attraverso  il parabrezza:  si stavano  avvicinando  a  un’entrata  del  polo  tecnologico che  però  pareva  ostruita  da  un’autocisterna  posta  di traverso. «E ora che fare?» chiese il giovane dal retro del furgone. «Non  lo  so  Ming,  non  lo  so...»  rispose  l’altro  a  denti stretti. Poi aggiunse: «Sentite, voi siete di questa base, non so cosa ci facciate in  giro  ma  dobbiamo  uscire  di  qui!  L’uscita  ovest  è bloccata  e  questa  sembra  nelle  stesse  condizioni.  Non possiamo scendere, verremmo senz’altro assaliti. Vedete là  in  fondo?  Sicuramente  attorno  alla  cisterna  vi  sono appostati dei mutanti.» «Quoi? Dei… Cosa?» Gridò Michael perplesso. 

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«Dopo!  Dopo!  Ora  ditemi  una  cosa,  qualcuno  di  voi  sa pilotare  un  aereo? Dove  vi  abbiamo  recuperati  ce  n’era uno... Se la fortuna ci assiste potrebbe essere funzionante e carico di benzina!» «Io  sono  un  pilota»  rispose  Michael  «Che  aereo  avete vis...»  Non riuscì a finire  la frase, udirono un colpo sul furgone, che sobbalzò per l’urto facendo sbalzare Henrik dalla sua precaria  seduta.  L'impatto  di  una  massiccia  forma tondeggiante era apparsa contro la parete deformando la lamiera del mezzo. «Ci  vengono  addosso,  sono  inferociti!»  gridò  l’autista «Non so che aereo fosse, ma se sei un pilota è fantastico, chissà che oggi la fortuna non sia dalla nostra parte! Forse possiamo  uscire  da  questa  merda!»  Rispose  con  una grassa  balbettante  risata  isterica  e  Michael  pensò  che quell’uomo non fosse molto sano di mente.  «Pronti  per  il  volo  allora!»  Urlò  sterzando  di  colpo  e controllando  la  sbandata,  mentre  le  ruote  grattavano nuovamente  sull’asfalto.  Avevano  girato  a  qualche centinaio di metri dall’uscita bloccata e ora  in  fondo alla pista  si  scorgeva  un  Boeing.  Giunti  davanti  al  velivolo, l’autista scese per primo. «Dov’è il pilota? Presto vieni qui!»  

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Michael,  nonostante  non  capisse  da  chi  e  da  cosa stessero scappando, si affrettò comunque a raggiungerlo. «Dimmi che può volare...» disse, guardandolo dritto negli sbarrati, magnetici occhi verdi. Michael  cominciò  a  ispezionarlo  rapidamente.  Nel frattempo gli altri erano scesi dal furgone e si guardavano intorno con crescente preoccupazione.  «Loro stare arrivando!» Gridò pieno di terrore il ragazzino. Michael,  che  intanto  era  salito  sull’aereo,  si  affacciò dal portellone d’ingresso. «Non  posso  garantire  nulla...  Ma  almeno  il  livello  di carburante sembra essere buono.» «Allora  andiamo!»  tuonò  l’autista,  sbracciandosi  verso  il gruppo e invitandoli a salire «A bordo saremo al sicuro!»  Michael  corse  nuovamente  all’interno  della  cabina  per completare i preparativi del decollo.  Cominciarono  velocemente  l’imbarco  lungo  la  rampa  di accesso,  mentre  i  motori  del  velivolo  iniziavano  a rombare, producendo  un  fragore  che diventava  sempre più regolare e potente. Lucy,  che  fino  ad  allora  aveva  mantenuto  il  suo caratteristico  sangue  freddo,  sembrava  ipnotizzata dalle figure  che  si  stavano  avvicinando  speditamente. 

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Quell’assurda  situazione  aveva  preso  il  sopravvento anche su di lei che, intontita, si attardò nel salire. «Lucy!»  Matthew  cercò  di  scuoterla  dal  suo  stato  di apatia, chiamandola più volte. «Vado a prenderla!» disse infine rivolgendosi agli altri. Ma proprio mentre pronunciava quelle parole due uomini si  lanciarono  repentinamente  su  di  lei.  Erano  comparsi all’improvviso  da  sotto  l’aereo,  probabilmente  erano ormai accerchiati... Altri ne stavano giungendo da tutte le parti. Lucy quasi non reagì. Non capiva chi fossero quegli esseri dai  volti  deformati  che  le  si  avvicinavano  urlando minacciosi.  “Una  nuova  razza  umana.  Una  scoperta scientifica eccezionale” pensò. Ma che importanza poteva avere a questo punto?   “Che stupida!” mormorò tra sé. Non avrebbe più ricevuto i tanto ambiti riconoscimenti, per  i quali si era  lanciata  in quella  folle  impresa.  In  fondo non  le  importava granché: era stanca, voleva solo  tornare a casa, cenare e  farsi un bagno  caldo.  Questi  furono  i  suoi  pensieri  prima  che quella  informe   massa  urlante prendesse  il  sopravvento su di lei, avvolgendola in una stretta infernale. Matthew  vide  comparire  delle  macchie  di  sangue  sui vestiti  di  Lucy,  in  un  attimo  le  avevano  strappato  e 

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lacerato  maglietta  e  pantaloni.  I  fiotti  di  sangue  che sgorgavano dalle ferite stavano già formando una pozza sull’asfalto, mentre quegli esseri  rabbiosi  si dimenavano su di  lei come cani  inferociti che  lottano per un pezzo di carne.  Non  riusciva  a  credere  che  quell’orrore  fosse reale... Non poteva essere vero, la stavano sbranando. La donna  urlò  e  dalla  sua  bocca  proruppe  un  suono gorgheggiante,  liquido,  mentre  cercava  stremata  di respingere i selvaggi aggressori. Era l'urlo di chi è ormai in fin  di  vita.  Matthew  rimase  impietrito,  inchiodato dall'orrore  a  guardare  quella  scena  irreale  comparsa davanti ai suoi occhi. «Tu torna dentro! Ormai non possiamo più nulla fare per lei!» Il ragazzo scostò Matthew dal portellone e si sporse all’esterno  per  chiuderlo.  Si  allungò  per  agguantarlo  e afferratolo, cercò  immediatamente di serrarne  l’accesso. Ma uno dei  loro  inseguitori aveva  iniziato a correre sulla rampa d’imbarco, mentre  il  fragore dei motori  cresceva d'intensità  e  lentamente,  molto  lentamente,  l’aereo aveva cominciato a muoversi lungo la pista. Quella figura famelica  si  lanciò  dalla  scala  in  direzione  del  portellone riuscendo ad afferrare il giovane e facendolo fracassare a terra. Matthew  si  riportò davanti allo  sportello e questa volta,  con  l’aereo  in movimento  e  senza  possibilità  per 

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altri di salirvi sopra, riuscì finalmente a chiuderlo. Guardò dal finestrino con sconforto e disperazione la persona che gli  aveva  appena  salvato  la  vita,  mentre  si  dimenava cercando  di  liberarsi  dalla  ferocia  di  quegli  essere imbestialiti. Ma non ce l'avrebbe mai fatta, erano in troppi e  animati  da  una  violenza  disumana.  Il  ragazzo  era precipitato  in  una  situazione  senza  speranza.  Quelle creature  iniziarono ad  azzannare  il  suo  corpo  scosso da spasmi e nell'aria sprizzarono fiotti di sangue scuro... 

 *** 

 

Erano tutti sconvolti da quella violenta fuga improvvisa e 

dalla  brutalità  delle  immagini  che  avevano  visto,  orribili scene  rimaste  indelebilmente  impresse  nei  loro  occhi. Soprattutto a Matt, che non riusciva a togliersi di mente la    drammatica  aggressione  alla  dottoressa  Bin...Gli sembrava  di  sentire  ancora  le  grida  terrorizzate  della donna. E il ragazzo, Ming, così lo aveva chiamato l’autista durante  quei  frenetici momenti, morto  nel  tentativo  di chiudere il portellone. Un improvviso conato di vomito gli risalì  in bocca e  fu costretto a correre  in bagno. Ciò che aveva  visto  era  troppo  anche  per  lui,  uomo 

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apparentemente  tutto d’un pezzo, ma  che dentro di  sé portava  le  cicatrici  di  una  vita  dispensatrice  di  brutte sorprese.  Dopo  qualche  minuto  tornò  a  sedersi, percorrendo  il  corridoio  a  capo  chino.  Rimase  con  lo sguardo  fisso  sul  pavimento,  sconvolto  e  incapace  di pronunciare qualsiasi parola.  L’uomo  che  li  aveva  condotti  fuori  dalla  base,  sedutosi nella cabina di pilotaggio con Michael durante  il decollo, raggiunse Matthew ed Henrik. Entrambi avevano un’aria decisamente  turbata.  Henrik  interruppe  quel  silenzio surreale, un silenzio che fino ad allora era stato spezzato solo dal rombo dei motori. « Adesso  vuoi dirci  che diavolo  sta  succedendo? Cosa  è accaduto  alla  base?  Chi  erano  quegli  esseri?»  Disse guardandolo con aria sconvolta. «Venite  nella  cabina  di  pilotaggio,  vi  spiegherò  tutto.» Rispose  lasciandosi  sfuggire  una  smorfia,  agitando  la mano come per calmare  la valanga di domande. Fece un cenno  col  capo  ai  due  uomini,  invitandoli  ancora  a seguirlo. Raggiunsero Michael nella cabina e non appena si furono riuniti, l’asiatico si rivolse nuovamente a loro. «Però  prima  ditemi  voi,  cosa  ci  facevate  in  quella  base infernale? 

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Matthew  si  riscosse  dal  suo  stato  catatonico  e  iniziò  a raccontare senza troppi giri di parole, com’era suo tipico. «Siamo  un  gruppo  di  élite  internazionale  di  astronauti, selezionati  per  un  ambizioso  progetto»  si  fermò  un istante, come se stesse per ricacciare  indietro  le  lacrime. Ma  subito dopo  si  riprese  «Io  sono Matt Allen, e questi sono  i miei  colleghi Michael  Husson  e  Heinrik  Krass.  Si trattava di un test... Per simulare una missione su Marte.  Sognavamo di essere  il primo equipaggio a spingersi sul pianeta  rosso  e  questo  ci  ha  convinto  a  partecipare all’esperimento  nella  base  spaziale,  qui  nel  deserto  di Taklamakan.  Avevamo  accettato  di  non  poter abbandonare la missione durante i tre anni del contratto, neppure  se  la  nostra  condizione  fisica  o mentale  fosse diventata pericolosa per  la nostra  stessa  sopravvivenza. Ma negli ultimi mesi le trasmissioni... I messaggi periodici verso  quella  che  in  gergo  chiamavamo  la  missione  ‘A terra’, si sono interrotti. Già da tempo avevamo avvertito una  certa  preoccupazione  quando  riuscivamo  a comunicare. Forse avrebbero voluto  liberarci, o  forse no visto quello che ci attendeva all’esterno, resta il fatto che un  dispositivo  automatico  bloccava  l’impenetrabile portellone del bunker nel quale si svolgeva la simulazione. Al  termine  dei  tre  anni,  vale  a  dire  proprio  oggi,  il 

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portellone si è aperto... Poi abbiamo  incontrato voi. Ora dicci tu cosa è successo.»  

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La monumentale  terrazza,  situata a  corona di un’ampia 

sala del castello, si affacciava su tutta la valle. La fortezza era  posta  su  una  collina,  il  paesaggio  però  non  era  più verde e rigoglioso come una volta; il grigio persistente del cielo,  dovuto  agli  innumerevoli  incendi  divampati ovunque,  ne  aveva  modificato  l’aspetto.  Ai  piedi  della collina  sorgeva  una  cittadella,  edificata  qualche  anno prima.  Case  piccole  e  bianche  con  giardino  ben  curato all’inglese,  tutte  uguali  tra  loro  si  ripetevano  in successione  regolare,  a  formare  quella  che  tra  i  suoi abitanti  era  denominata  la  ‘Città  Modello’.  Invece  i sopravvissuti la chiamavano ‘Città della Morte’ e il motivo era semplice: nessuno era mai uscito vivo da quella che a tutti gli effetti assomigliava a una prigione, confortevole certo ma pur sempre una prigione. In gergo era per tutti la CM e  il primo a parlarne era stato un giornalista della 

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rete conosciuto come @firepress, ma da qualche tempo la sua voce sembrava essersi spenta.  «Price, mettimi  in  contatto  con  Spencer,  vediamo  come procede  la  sua missione...» Una  voce  chiara  e  dal  tono controllato si rivolse all’assistente. «Immediatamente, mio Altissimo.» L’uomo  gli  si  avvicinò  immediatamente  e  in  maniera oltremodo servizievole, senza però guardarlo negli occhi. Tutti temevano il suo sguardo, la malignità si percepiva in modo netto,  incrociando anche per un  solo  istante quei gelidi  occhi  celesti.  Era  un  bell’uomo,  senza  dubbio  di grande  fascino,  non  ancora  quarantenne  e  dal  fisico atletico. Ma nonostante  il viso pulito,  i corti capelli color del  carbone  e  il  vestire  elegante,  il  suo  sguardo  aveva sempre  un  qualcosa  di malvagio,  con  quelle  ciglia  semi aggrottate  che  gli  conferivano  un  tono  a  dir  poco demoniaco. Era ‘La Bestia’, così chiamato da tutti. Poco  dopo  il  suo  assistente  aveva  fatto  ritorno  sul terrazzo,  recando  un  palmare  avviato  in  una  video chiamata. «Ecco a lei...» disse l’uomo servilmente. Le  comunicazioni  sul  pianeta  erano  praticamente impossibili,  la  relativa  tecnologia  si  stava  avviando  al degrado,  ma  nel  castello  e  nella  cittadina  sottostante 

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tutto  era  ancora  perfettamente  integro  e  funzionante. Sul  display  comparve  un  uomo  dal  volto  grigio  e insignificante,  cerchiato  da  un  paio  di  occhiali  dalla pedante montatura metallica. «Mio  Altissimo...»  l’uomo  chinò  il  capo  in  segno  di rispetto. «Come procede il tuo compito?  «Sono  riuscito  in  quello  che mi  aveva  ordinato,  ora  sto procedendo  con  la  seconda parte del piano.» Disse  con tono  tremolante,  ma  la  voce  faceva  trapelare  la soddisfazione di aver portato a termine la prima parte del compito. «Bene,»  sogghignò  «Ora  concludi.  Ci  aggiorneremo nuovamente. Così  dicendo  interruppe  la  comunicazione,  senza  dare all’uomo il tempo di replicare. Si  avvicinò  al  bordo  del  terrazzo  e  quando  fu  vicino  al davanzale  aprì  le  braccia,  chiuse  gli  occhi  e  inspirò profondamente  una  boccata  d’aria,  come  a  voler assaporare a fondo l’odore di morte che l’impregnava.   

***  FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...