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 Dan Sp er be r  Il contagio delle idee Teoria naturalistica della cultura Traduzione di Gloria Origgi

Dan Sperber - Il Contagio Delle Idee

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Dan Sperber Il contagio delle ideeTeoria naturalistica della cultura

Traduzione di Gloria Origgi

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Titolo dell'opera originaleEXPLAINING CULTURE ANaturalistic Approach ©1996 Dan Sperber

Traduzione dall'inglese diGLORIA ORIGGI

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima

edizione in "Campi del sapere" marzoISBN 88-07-10258-7

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Prefazione

Uno spettro si aggira per le scienze sociali, lo spettro di una scienzanaturale del sociale. Alcuni aspettano che lo spettro si faccia conoscere eche renda finalmente le scienze sociali davvero scientifiche, altridenunciano il rischio dello scientismo e del riduzionismo. Alcuni dicono di parlare a nome dello spettro, altri che si tratta soltanto di uno scherzo. Lamia opinione è che non di uno spettro si tratti, ma di un bambino nel limbo.Un programma naturalistico nelle scienze sociali è concepibile, ma deveancora essere sviluppato. In questo libro presento un frammento di tale programma: un approccio naturalistico alla cultura.

I sei saggi qui raccolti costituiscono argomenti e contributi per un'epidemiologia delle rappresentazioni. Sono stati scritti durante fasi

differenti del mio lavoro negli ultimi dieci anni, ma nella mia mente sonotutti parte di uno stesso progetto. Dopo il II sapere degli antropologi(Feltrinelli, 1984), che intendeva essere soprattutto una critica, ho cercato didare un contributo al "ripensamento dell'antropologia" invocato da EdmundLeach nella sua famosa conferenza inaugurale delle Malinowski MemorialLectures nel 1959.

Le conferenze su cui sono basati questi capitoli sono state presentate aun pubblico vario: antropologi, archeologi, studiosi di letteratura, filosofi, psicologi dello sviluppo e psicologi sociali. I capitoli non presuppongonoalcuna competenza specialistica da parte del lettore. Il primo è una sintesi didue saggi precedenti, mentre il quinto è interamente nuovo. Gli altri quattrosono basati su materiale già pubblicato. Concepiti l'uno in relazioneall'altro, ma scritti separatamente, sono stati rivisti in modo da formare uninsieme coerente. Possono essere letti di seguito, o, se si preferisce,

indipendentemente l'uno dall'al

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tro, dato che ognuno ricapitola le idee di base che legano il progetto nel suoinsieme.

La parte migliore del mio lavoro negli ultimi quindici anni è stata fattacon Deirdre Wilson, ed è stata dedicata allo sviluppo della teoria della  pertinenza come teoria della comunicazione umana e come approcciogenerale a molti problemi legati alla cognizione. Il mio interesse iniziale nelnostro progetto di collaborazione aveva a che fare con il ruolo che lacomunicazione gioca nella cultura. Uno dei miei obiettivi è di ricavare leimplicazioni che la teoria della pertinenza può avere per un'epidemiologiadelle rappresentazioni.

Durante gli anni, molte persone mi hanno aiutato con i loro consigli, leloro critiche e il loro incoraggiamento, in particolare Daniel Andler, Robert

Axelrod, Maurice Bloch, Radu Bogdan, Francesco Cara, Philip Carpenter,Jean-Pierre Changeux, Bernard Conein, Leda Cosmides, Helena Cronin,Daniel Dennett, Frank Döring, Jean-Pierre Dupuy, Catherine Elgin, HeidiFeldman, Allan Gibbard, Margaret Gilbert, Vittorio Girotto, Jack Goody,Gilbert Harman, Odile Jacob, Pierre Jacob, Gérard Jorland, Jerry Katz,Helen Lees, Richard Nisbett, Gloria Origgi, David Premack, FrançoisRecanati, Jenka Sperber, John Tooby, Jean van Altena, Deirdre Wilson e trerevisori anonimi. Le idee che sviluppo qui sono state discusse per la primavolta con Scott Atran, Pascal Boyer e Larry Hirschfeld; i loro commenti misono sempre stati particolarmente utili e il mio lavoro è legato al loro sottomolti aspetti.

Grazie a tutti.

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Introduzione

Il tema centrale di questo libro è molto semplice. Ognuno dei nostricervelli individuali è abitato da un gran numero di idee che determinano ilnostro comportamento. Per esempio, il mio cervello è abitato da idee sullacultura che hanno fatto sì che io scrivessi questo libro. Alcuni deicomportamenti di un individuo, o alcune delle tracce lasciate da questicomportamenti nell'ambiente, vengono osservati dagli altri: eccovi qui aleggere questa pagina, che costituisce una traccia del mio lavoro. Osservareun comportamento o le sue tracce dà origine a idee dello stesso tipo diquelle che proprio in questo momento vi vengono in mente. A volte le ideecausate da un comportamento assomigliano a quelle che lo hanno causato.Sarebbe così, per esempio, se fossi riuscito a farmi capire.

Attraverso un processo materiale come quello che ho appena evocato,un'idea, nata nel cervello di un individuo, può avere discendenti che lesomigliano nel cervello degli altri individui. Le idee possono esseretrasmesse e, nella trasmissione da una persona all'altra, si possono anchediffondere. Alcune - le idee religiose, le ricette di cucina o le ipotesiscientifiche, per esempio - si propagano così efficacemente che, in versionidifferenti, possono finire per invadere stabilmente intere popolazioni. Lacultura è fatta prima di tutto di queste idee contagiose. È fatta anche di tuttele produzioni (scritti, opere d'arte, manufatti, ecc.) la cui presenzanell'ambiente condiviso da un gruppo umano permette la propagazionedelle idee.

Spiegare la cultura significa allora spiegare perché e come alcune ideesono contagiose. Ciò richiede lo sviluppo di una vera e propriaepidemiologia delle rappresentazioni.

La parola 'epidemiologia' viene dal termine greco epidemia, chesignifica 'permanenza o arrivo in un paese'. Nel suo uso più

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comune, epidemia (così come le altre parole derivate) si riferiva alla  permanenza o all'arrivo di persone, ma si poteva anche riferire alla permanenza o all'arrivo di cose come la pioggia, le malattie o le usanze.Paragonare la diffusione delle malattie a quella delle idee è un vecchioluogo comune, e la parola 'contagio' è usata così frequentemente per glistati mentali che il carattere metaforico di quest'uso non è quasi piùriconoscibile. Allo stesso modo, l'uso di 'epidemiologia' per uno studiodella distribuzione degli stati mentali in una popolazione è un'estensioneappena metaforica del termine.

Benché la parola 'epidemiologia' sia lunga e rara, l'idea che esprime èmolto semplice e generale. Pensate di avere una popolazione (per esempioun gruppo umano) e alcune proprietà interessanti (per esempio essere

diabetico, avere i capelli bianchi, o credere nelle streghe) che i membri diquesta popolazione possono avere o non avere. Un approccioepidemiologico consisterebbe nel descrivere e spiegare la distribuzione ditale proprietà nella popolazione. L'epidemiologia non è ristretta alle malattiecontagiose: il diabete non è contagioso, credere nelle streghe non è unamalattia, così come non lo è avere i capelli bianchi.

 Nel suo uso di modelli esplicativi l'epidemiologia è eclettica. Alcunisono presi a prestito dalla genetica delle popolazioni, altri dall'ecologia ealtri dalla psicologia sociale, e se ne possono sviluppare di nuovi senecessario. Ho scelto il termine 'epidemiologia' precisamente per la suageneralità e il suo eclettismo. Un approccio naturalistico alla cultura prendein considerazione la distribuzione di fenomeni mentali e ambientali moltodiversi. Per questo sono necessari contemporaneamente modelli causalidifferenti.

Tutti i modelli epidemiologici, seppure differenti, hanno in comune ilfatto di spiegare i macrofenomeni che si producono alla scala di una  popolazione, come le epidemie, in quanto effetto cumulativo dimicroprocessi che causano eventi individuali, come il contrarre unamalattia. Sotto questo aspetto, i modelli epidemiologici sono palesemente incontrasto con le spiegazioni 'distiche', in cui i macrofenomeni sono spiegatiin termini di altri macrofenomeni - per esempio, la religione in termini distrutture economiche (o viceversa).

Mentre l'idea del contagio culturale è antica, il primo tentativo serio diun'epidemiologia scientifica della cultura va cercato probabilmentenell'opera del sociologo francese Gabriel Tarde (Les Lois de l'imitation,1895). Pur non usando quasi la terminologia epidemiologica, egli insistettesul fatto che la cultura, e quindi la vita sociale in generale, dovesse esserespiegata

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come l'effetto cumulativo di un numero di processi di trasmissioneinterindividuale attraverso l'imitazione.

Più di recente, alcuni autori - tra i quali Donald Campbell (1974),Richard Dawkins (1976, 1982), Cavalli-Sforza e Feld- man (1981),Lumsden e Wilson (1981), Boyd e Richerson (1985) e William Durham(1991) - hanno adattato il modello darwinista della selezione al caso dellacultura. Si tratta sempre di approcci epidemiologici (così chiamati daCavalli-Sforza e Feldman, descritti semplicemente come 'evoluzionisti'dagli altri). Richard Dawkins ha reso popolare l'idea che la cultura sia fattadi unità, da lui denominate 'memi', le quali, al pari dei geni, vengonoriprodotte e selezionate. Gli approcci darwinisti, che prendono a prestito iloro modelli dalla genetica delle popolazioni, garantiscono solo un ruolo

limitato alla psicologia. I micromeccanismi che causano la propagazionedelle idee sono invece per la maggior parte psicologici, e piùspecificamente cognitivi. La psicologia cognitiva ha conosciuto unosviluppo senza precedenti negli ultimi tre decenni. Essa ha beneficiatorecentemente di una prospettiva evoluzionistica sull'evoluzione psicologicadella specie umana sviluppata indipendentemente dagli approcci darwinistialla cultura (vedi Cosmides e Tooby 1987). Credo che la psicologiacognitiva fornisca una delle fonti principali di intuizione per spiegare lacultura. L'approccio che difendo qui è insieme epidemiologico e cognitivoe, come vedremo, più vicino al darwinismo sul versante cognitivo che suquello epidemiologico.

Penso all'epidemiologia delle rappresentazioni come a un programma diricerca naturalistico nelle scienze sociali. Le scienze sociali costituisconoun'alleanza insieme vasta e debole di programmi di ricerca con scopi molto

differenti, che variano dalla sociolinguistica all'economia di mercato, dallastoria giuridica all'etnopsichiatria, dallo studio dei testi vedici a quello dellescelte degli elettori. Molti programmi di ricerca nelle scienze socialivertono su argomenti regionali o storici; molti sono guidati da preoccupazioni pratiche. Anche un unico campo come l'antropologia (sulquale mi concentrerò) include programmi di ricerca su argomenti tantodiversi quanto la semantica dei termini di parentela, la tecnologia della pesca, lo studio postmoderno del postcolonialismo, lo studio culturale dellascienza, l'antropologia della nutrizione e quella della coscienza.

Quasi tutti questi programmi di ricerca nelle scienze sociali insistonosull'etichetta 'scienza', anche solo perché è verso la scienza che vanno isoldi della ricerca. Insistere che non si tratta davvero di scienze, come se'scienza' fosse un marchio di qualità, lo champagne dei prodotti intellettuali,è spesso solo

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un modo indiretto per negare loro rispettabilità e risorse. Anche se non tuttii programmi di ricerca meritano lo stesso sostegno, i tentativi di sminuire lescienze sociali ignorano in generale la difficoltà del loro compito, lecompetenze che esse hanno accumulato e il ruolo che svolgono nella vitademocratica. Lasciamo liberi gli scienziati sociali di utilizzare l'etichetta'scienza'. La questione interessante non è se le scienze sociali siano scienze,ma se siano in continuità con le scienze naturali (assumendo, come faccioqui, che le scienze naturali siano tra di loro in continuità).

I programmi di ricerca nelle scienze sociali tendono a esibire unsalutare eclettismo nella loro metodologia, e si servono di qualsiasistrumento di cui hanno bisogno. In particolare, quando risulta produttivo

usare metodi mutuati dalle scienze naturali, solitamente li usano. Ma, moltospesso, la metodologia delle scienze naturali è ingombrante e inutile per gliscopi delle scienze sociali. L'immaginazione psicologica, la comprensioneintuitiva e le valutazioni basate sull'esperienza sono strumenti più efficaci.

L'uso dei metodi delle scienze naturali può comunque essere necessario,ma non è sufficiente per far sì che un progetto di ricerca sia un progetto diricerca naturalistico (com'è illustrato dal caso dell'economia: moltoscientifica nei suoi metodi, ma per nulla naturalistica). Ciò che conta di piùè l'obiettivo. Un obiettivo naturalistico prototipico è scoprire qualchemeccanismo che spieghi un ampio spettro di fenomeni in una manieracontrollabile. Pochi programmi di ricerca nelle scienze sociali si pongonoquesto tipo di obiettivo. Quelli che lo hanno e hanno un ragionevolesuccesso - come per esempio la storia demografica - si occupano di aspettimolto particolari dell'ambito sociale. Non conosco nessun programma

naturalistico che abbia realmente delineato un approccio causale emeccanicistico ai fenomeni sociali in generale.Perché non esiste ancora oggi una scienza naturale del sociale? Primo,

 perché pochi scienziati sociali si sono impegnati a sviluppare una scienzasimile. Secondo, e ancora più importante, perché gli oggetti su cui vertonole scienze sociali - come la politica, la legge, la religione, la moneta, l'arte -non si inscrivono in modo evidente nel mondo naturale.

Come si può fare per situare gli oggetti sociali nella natura, in altre parole per 'naturalizzarli'? Qui la scienza cognitiva è rilevante sotto più diun aspetto. Un programma naturalistico è un programma che stabiliscecontinuità fondamentali tra il proprio ambito e quello di una delle scienzenaturali adiacenti. Le scienze psicologiche sono immediatamente attiguealle scien

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ze sociali e alcuni dei loro programmi di ricerca, grosso modo quelli cherientrano sotto l'etichetta di 'scienza cognitiva', sono oggetto di uno sforzodi naturalizzazione più o meno avanzato. È presumibile quindi chenaturalizzare l'oggetto delle scienze sociali significhi stabilire una certacontinuità tra queste e i programmi della scienza cognitiva.

Lo sviluppo della scienza cognitiva ha posto sotto una nuova luce ladomanda: Come si situano i fenomeni mentali nella natura? Benché nonabbia ricevuto ancora una risposta univoca, questa domanda è oggicompresa molto meglio della questione analoga su come si situano ifenomeni sociali nella natura. Situare i fenomeni mentali nella natura è un problema che può essere affrontato con almeno tre strategie differenti. La

  prima consiste nel tentare di ridurre il mentale al neurologico, il cuicarattere naturale è palese. Secondo il riduzionismo, ogni descrizione di unfenomeno mentale in termini psicologici potrebbe essere tradotta puramentee semplicemente in termini neurologici. La seconda strategia consistenell'indebolire i criteri secondo i quali si riconosce un fenomeno comenaturale. Si può sostenere che ogni fenomeno mentale particolare sia un fe-nonieno neurologico e quindi naturale, anche se la sua descrizione intermini di categorie psicologiche non è traducibile in categorieneurologiche. Un naturalismo minimale, senza riduzionismo. La terzastrategia di naturalizzazione del mentale consiste nel riconcettualizzarel'intero ambito, e nell'eliminare tutti i concetti che non si riducano a entitànaturali. Si parla in questo caso di eliminativismo.

 Nello stesso spirito, si possono immaginare tre modi di naturalizzare ilsociale. Ognuno comporta delle difficoltà. Si potrebbe voler  ridurre il 

 sociale al naturale. I fenomeni sociali come li conosciamo sono riducibili afenomeni naturali? Le vere riduzioni sono grandi successi scientifici. Nellescienze sociali, comunque, 'riduzionista' è un termine offensivo, come se lariduzione fosse un'opzione vera e propria che per qualche ragione deve es-sere impedita. In realtà, non è mai stata suggerita né sviluppata alcuna seriariduzione dei concetti o delle teorie delle scienze sociali a quelli dellescienze naturali. La riduzione è quindi una possibilità di principio -importante per il ruolo che gioca nelle altre scienze e ancor di più nellafilosofia della scienza - ma in questo caso non è né una speranza né unrischio effettivo.

Oppure si potrebbero indebolire i criteri naturalistici. Si potrebbesostenere (adattando un'idea di Putnam e Fodor in filosofia della mente) cheogni fenomeno sociale particolare sia un fenomeno naturale particolare,anche se le categorie della sociologia sono irriducibili a quelle di qualsiasi

altra scienza. Ma

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in che senso questo aiuterebbe a formulare il tipo di generalizzazioni cheuna scienza sociale naturalista dovrebbe produrre? Le generalizzazionivertono inevitabilmente su categorie e non su fenomeni particolari.

La terza possibilità è di riconcettualizzare il sociale. Potrebbe darsi cheil nostro modo di sezionare concettualmente il sociale non ne segua legiunture naturali. In questo caso, gli attuali concetti delle scienze socialidovrebbero essere sostituiti - almeno nel quadro di un programmanaturalistico - con una nuova batteria di concetti. Il sociale dovrebbe esseresezionato in modo tale che le categorie dei fenomeni sociali corrispondanochiaramente alle categorie dei fenomeni naturali. Ma come fare? E,supposto che si sappia come fare, come potremmo evitare il rischio, elimi-nando il vecchio schema concettuale, di privarci allo stesso tempo delle

competenze espresse attraverso questo schema?Se queste sono le tre maniere concepibili di naturalizzare il sociale, e seognuna incontra tali difficoltà, perché non rinunciare semplicemente al progetto? Perché le scienze sociali non dovrebbero restare per conto loro?

La riduzione mi sembra impossibile, e un indebolimento del termine'naturale' inutile (almeno nel caso delle scienze sociali; il caso delle scienzecognitive è diverso; si veda il capitolo 1). Credo invece che un approccioepidemiologico renda possibile, e anche necessario, riconcettualizzare ilsociale. La mia proposta è la più modesta possibile per quanto sia concessoa progetti così ambiziosi. Mostrerò che il nuovo schema concettuale stabi-lisce una relazione sistematica con quello standard, e ciò rende possibiletrarre il massimo dei benefìci dai risultati già acquisiti nelle scienze sociali.Lo scopo del programma naturalistico si rivela essere non una GrandeTeoria - una fisica del mondo sociale, come l'immaginava Auguste Comte -

ma un complesso di modelli interconnessi di scala media.La vita sociale umana è solo un aspetto della vita di una specie animaletra milioni su un piccolo pianeta da qualche parte nel cosmo. È il risultato diuna congiunzione improbabile di infiniti fattori diversi. Non c'è ragione diattendersi che la vita sociale umana esibisca la semplicità e la sistematicitàche si trovano in fisica o in chimica, o, in misura minore, in biologia mole-colare. Molte scienze naturali - la geografia, la climatologia, l'e-  pidemiologia, per esempio - hanno oggetti ben poco chiari e nessunaGrande Teoria. Così sarebbe anche una scienza sociale naturale intesa comeepidemiologia delle rappresentazioni.

Il capitolo 1, Come essere un vero materialista in antropologia,introduce il progetto di un'epidemiologia delle rappresen

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tazioni da un punto di vista filosofico. Si può perseguire un programmanaturalistico nelle scienze sociali, ma questo richiede di ripensare lecategorie stesse attraverso le quali affrontiamo il problema.

Il capitolo 2, Interpretare e spiegare le rappresentazioni culturali, presenta il progetto da un punto di vista più social-scientifico. Esso prendein considerazione i differenti tipi di comprensione cui l'antropologiadovrebbe mirare, mettendo a confronto, in particolare, le spiegazioniinterpretative e quelle causali. Il progetto epidemiologico viene inquadratoin relazione ad altri tipi di spiegazioni causali.

Il capitolo 3, Antropologia e psicologia: verso un'epidemiologia dellerappresentazioni, amplia l'idea generale di un'epidemiologia delle

rappresentazioni introdotta nei due capitoli precedenti e la illustra brevemente. Fu presentato per la prima volta come Malinowski MemorialLecture alla London School of Economics nel 1984 ed è divenuto un testodi riferimento, al quale ho apportato poche modifiche.

Il capitolo 4, L'epidemiologia delle credenze, sviluppa uno dei temi deicapitoli precedenti e illustra come la psicologia e l'antropologia possanoessere molto rilevanti luna per l'altra sia nel rispondere ad alcune delletradizionali e rispettive domande, sia nel formulare nuovi problemi comuni.È basato su miei lavori precedenti sulle credenze apparentemente irrazionali(si veda Sperber 1985, cap. 2), integrati in una prospettiva epidemiologica.

Mentre l'idea centrale di un'epidemiologia delle rappresentazioni èrelativamente semplice da spiegare, alcune delle principali questioni chequesto approccio potrebbe aiutare a illuminare sono molto complesse. Gliultimi due capitoli riguardano questi problemi, e sono ancora più ambiziosi

dei quattro precedenti, e anche un po' più difficili.Il capitolo 5, Selezione e attrazione nell'evoluzione culturale, riguarda idifferenti modi di modellizzare l'evoluzione culturale. Confronto i modelli'selezionisti' dell'evoluzione culturale difesi da Richard Dawkins e altri conun modello epidemiologico più generale dell'attrazione culturale, in cuiviene dato un ruolo maggiore ai meccanismi psicologici.

Il capitolo 6, Modularità del pensiero ed epidemiologia dellerappresentazioni, prende come punto di partenza un'idea proposta moltotempo fa da Noam Chomsky (e alla quale avevo latto eco in Sperber 1968 ein altri scritti dell'epoca). Chomsky sostiene che sarebbe meglio concepirela mente umana non come un'intelligenza generale capace di fare tutto, macome una combinazione di molti meccanismi che sono in parte program-mati geneticamente. Questi 'moduli' (per usare il termine reso

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famoso da Jerry Fodor) sono specializzati in modi differenti, sia per quantoriguarda i domini cognitivi che trattano, sia per il genere di trattamentodell'informazione che effettuano. Tra questa visione molto innatista dellacognizione e il riconoscimento della diversità culturale esiste però unatensione che suggerisce, al contrario, che la mente sia indefinitamente mal-leabile. Un modo di risolverla sarebbe negare, o minimizzare, la modularitàdella mente. In questo capitolo faccio esattamente l'opposto: difendo unamodularità massiva della mente cercando poi di mostrare come le forti  predisposizioni cognitive, geneticamente determinate, non solo sianocompatibili con il tipo di diversità culturale che incontriamo, macontribuiscano addirittura a spiegarla.

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1. Come essere un vero materialista inantropologia

Che tipo di cose sono le cose socioculturali?(Mi fermo subito. Non credo che tra cose sociali e cose culturali esista

una differenza, né voglio ripetere per tutto il libro l'espressione'socioculturale'; lancio quindi una moneta: se viene testa, opterò per 'sociale', se viene croce, per 'culturale'. Croce! Da qui in avanti 'culturale'significherà 'socioculturale', anche se mi riservo il diritto di usareoccasionalmente 'sociale' e 'socioculturale', in particolare nell'esporre le posizioni di altri.)

Che tipo di cose sono le cose culturali? Dove sono situate nel mondo equale rapporto hanno con ciò di cui parlano le altre scienze? Si tratta di

domande filosofiche, o più precisamente ontologiche (l'ontologia, in sensoclassico, è quella branca della filosofia che cerca di rispondere alladomanda: Cosa c'è nel mondo? a un livello molto astratto). Le domandeontologiche hanno implicazioni pratiche per la ricerca antropologica; in particolare è in gioco il modo in cui gli antropologi possono, o devono,collaborare con altre discipline, e la misura in cui quello che hanno da direha un ruolo in una visione del mondo generale e coerente (anche se,ovviamente, frammentaria).

Le scienze naturali raggiungono un alto livello di coerenza e interazionereciproca, in parte perché sono basate sulla stessa ontologia materialista.Per un materialista moderno,1 tutto ciò che ha un potere causale lo deveesclusivamente alle sue pro

1 Un termine più esatto sarebbe 'fisicalista' (chi crede che tutto ciò che esiste esistafisicamente, lasciando ai fisici il compito di spiegare che cosa significa 'fisicamente'), datoche la nozione stessa di materia implicata in 'materialista' è poco chiara. Il vecchiotermine 'materialista' è più conosciuto, specialmente nelle scienze sociali, e, in ogni caso,le sottili discussioni sul ruolo della materia in fisica sono irrilevanti per il mio scopo.

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 prietà fisiche; ciò vale allo stesso modo per le molecole, le stelle, i fiumi, i  batteri, le popolazioni animali, i cuori e i cervelli. Il materialismo nonimplica il riduzionismo. Esso non vincola gli scienziati che lo accettano adescrivere gli oggetti della loro disciplina - e i processi causali in cui talioggetti entrano - con il lessico della fisica, ma li vincola a descrivere glioggetti e i processi in modo tale che identificare le proprietà fisichecoinvolte sia alla fine un problema trattabile e non un mistero insondabile(per usare la famosa distinzione di Chomsky - si veda Chomsky 1975).

 Antropologia e ontologia

Sembra invece che nel mondo delle scienze sociali - e in particolare in

quello dell'antropologia - sia assente qualsiasi vincolo ontologico. È veroche gli antropologi a volte esprimono le proprie visioni ontologiche, maesse generalmente non portano a nessun impegno metodologico. Le visioniontologiche possono essere di tre tipi: due tipi di 'materialismo', uno vuoto,l'altro autocontraddittorio, e una visione dualista o pluralista secondo laquale esiste un livello culturale autonomo della realtà.

La tesi dell'autonomia ontologica della cultura è generalmente espressain una serie di negazioni: i fatti culturali non sono fatti biologici; non sonofatti psicologici; non sono una sommatoria di fatti individuali. Ma alloracosa sono? Dove sono situati nello spazio e nel tempo? A quali leggi causaliobbediscono? Come si collegano ad altri tipi di fatti? Non ci sono risposte  ben argomentate a queste domande. Se assumiamo che esista unadiscontinuità fondamentale tra il biologico o il mentale da un lato e ilculturale dall'altro, il risultato è di isolare l'antropologia sia dalla biologia

che dalla psicologia, e di rifiutare come un errore a priori qualsiasicontributo e, ancor di più, qualsiasi critica proveniente da tali discipline. Per raggiungere questo discutibile risultato non c'è bisogno di sviluppare indettaglio l'idea di un'autonomia della cultura; basta postularla.

Il materialismo vuoto consiste nel dire che tutto è materiale, anche lecose socioculturali, e fermarsi qui. È possibile; ma fino a quando non sicomincia a riflettere sull'esistenza materiale di tali cose, fino a quando siinvocano relazioni causa-effetto tra loro senza nemmeno provare aimmaginare quali processi materiali possano causarle, ci si limitasemplicemente a utilizzare modi di dire materialistici. Si può ricorrere a uncerto numero di metafore standard che evocano il carattere materiale dellecose socioculturali: la metafora meccanica delle 'forze' so

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ciali, quella astronomica della 'rivoluzione', quella geologica della'stratificazione', e molte metafore biologiche della 'vita' ( culturale, della'riproduzione', e così via. Nessuna di esse è però mai stata sviluppata in unmodello materialistico plausibile; il materialismo vuoto aiuta a eludere leaccuse di idealismo o di dualismo, ma, al di là di ciò, non ha effetti sulla pratica della ricerca.

Il materialismo autocontraddittorio è un effetto collaterale delmarxismo mal digerito. Esso consiste in due affermazioni, La primacoincide con quella del materialismo vuoto: tutto ciò che esiste, compresele cose socioculturali, è materiale. La seconda è che l'aspetto materialedell'ambito sociale, grosso modo l'ecologia e l'economia, ne determina

quello non materiale, grosso modo la politica e la cultura. Lacontraddizione è patente-: la seconda affermazione, che mette a confrontoun aspetto materiale e uno non materiale o meno materiale dell'ambito so-ciale, è dualistica, incompatibile quindi con il materialismo nel sensoontologico del termine. Se il materialismo è corretto, allora tutto èmateriale: la legge, la religione e l'arte non meno delle forze e dei rapportidi produzione. Da un punto di vista realmente materialistico, gli effetti non possono essere meno materiali delle cause.

Ci sono due modi di evitare la contraddizione di questo tipo dimaterialismo. Il primo consiste nell'abbandonare il materialismo ontologicoe adottare qualche forma di pluralismo ontologico: nel mondo sociale cisono sia oggetti materiali che oggetti non materiali. A questo prezzo, deveessere concepibile (ma non mi si chieda come) che le cose materialideterminino quelle non materiali. Il secondo modo di uscire dalla contrad-

dizione è più fedele al marxismo (almeno a quello di Engels) e consiste neltogliere alla seconda tesi, quella del determinismo economico, ogni portataontologica: un aspetto del mondo materiale determina un altro aspetto delmondo materiale. Forse è così, ma l'ontologia, e in particolare il tipo dimaterialismo su cui si basano le scienze naturali, non ha nulla a che farecon questo. Ciò che resta, quindi, dal lato ontologico, è la prima tesi: tuttociò che esiste è materiale; ma ricadiamo così nuovamente nel classicomaterialismo vuoto.

Guardare al modo in cui gli scienziati sociali articolano la loroontologia non è la sola via - e forse nemmeno la migliore - per scoprirequali siano gli oggetti di questa ontologia; guardare alla loro pratica potrebbe dirci qualcosa di più.

L'antropologia implica l'esistenza di cose culturali irriducibili? Gliantropologi parlano con naturale competenza di clan, lignaggi, matrimoni,

sistemi di parentela, tecniche agricole, miti,

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rituali, sacrifici, istituzioni religiose, sistemi politici, codici giuridici e cosìvia. Questi tipi culturali non sono e non corrispondono a tipi biologici o  psicologici. Gli antropologi hanno buone ragioni quindi di opporsi aqualsiasi tipo di riduzionismo - in particolare quello biologico o psicologico- nello studio della cultura, e buone ragioni per trattare la culturaautonomamente.

L'antiriduzionismo degli antropologi e la loro adesione all'autonomiadella cultura non devono, però, essere interpretati come un vero dualismo.L'antiriduzionismo è in realtà compatibile con una forma modesta dimaterialismo che renda conto dei differenti livelli ontologici in un mondointeramente materialista, come mostrano i recenti sviluppi della filosofia

della psicologia. L'esempio della psicologia può aiutare gli antropologi adandare al di là della sgradevole scelta tra un pigro dualismo e unmaterialismo vuoto o contraddittorio?

 L'ontologia della psicologia: un esempio da seguire?

Anche in psicologia si è pensato a lungo di dover scegliere tra ildualismo - i fatti mentali e quelli materiali, in particolare quelli neurologici,sono di natura radicalmente differente - e il materialismo vuoto. Esistevanometafore materialiste, le metafore biologiche di Freud, la metaforameccanica della piage- tiana 'equilibrazione', per esempio, ma nessunmodello materialista. Solo alcuni comportamentisti trassero conclusioni pratiche dal loro materialismo, ma che conclusioni! Incapaci di fornirespiegazioni materialiste dei fenomeni mentali, essi cercarono di bandirlidalla psicologia.

Verso la metà degli anni trenta, il matematico Alan Turing concepì unmeccanismo realizzabile materialmente in grado di elaborare informazione.Fatto ancora più importante, egli dimostrò che una macchina di Turing(come venne battezzata) può eseguire qualsiasi operazionesull'informazione codificata che ogni altro meccanismo fisico finito, qualiche siano la sua organizzazione e il modo in cui codifica l'informazione, può eseguire. Per dirla in breve, la scoperta di Turing e, più in generale, lateoria matematica degli automi, sembrarono fornire un modo dicomprendere come la materia può pensare. Furono necessari ancoravent'anni, con lo sviluppo dei computer e alcuni importanti progressi inneurologia, perché l'impatto della scoperta di Turing si facesse sentire in psicologia, e venisse sviluppato un approccio realmente materialista allacognizione.

Dopo decenni di censura comportamentista fu possibile studiare

nuovamente i processi mentali senza ridurli a processi comportamentali oneurologici. Studiarli significava ora stabi

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lirne l'esistenza materiale, il che a sua volta significava scomporli insottoprocessi elementari la cui realizzazione materiale, per esempio in uncomputer, era divenuta non problematica.

Stabilire la possibilità materiale di un tipo di processo mentale - per esempio ricordarsi di una sequenza sonora - non è lo stesso che descrivernel'effettiva realizzazione in un cervello umano. Il processo di ricordare lastessa informazione può essere eseguito attraverso vari tipi di processimateriali in cervelli diversi, animali o umani, o addirittura nello stessocervello in occasioni differenti. Il processo può essere programmato inmaniere diverse, ed eseguito in vari modi da calcolatori differenti. Unmodello materiale di un tipo di processo mentale può non assomigliare per 

nulla ai processi mentali che lo realizzano effettivamente, anche se questotipo di modelli può anche servire come ipotesi più o meno dettagliata sullaforma reale dei processi mentali rappresentati (con implicazioni verificabiliin termini di tempi di reazione, tipi di patologia, ecc.).

Mentre le versioni più forti di materialismo implicano che i tipi psicologici possono essere ridotti o eliminati a favore dei tipi neurologici, ilmaterialismo più modesto che ispira l'attuale ricerca cognitiva non implicail riduzionismo. Esso implica semplicemente che ogni occorrenza di un processo mentale è identica a un'occorrenza di un processo neuronale (vediFodor 1974). Tale materialismo più modesto, combinato con i progressinella teoria formale degli automi e nella neurologia, è comunque una formadi vero materialismo con conseguenze pra- tiche: esso impone forti vincolisu quali siano i modelli psicologici accettabili. Si tratta di un materialismocon implicazioni teoretiche: i poteri causali che si attribuiscono ai processi

men- tali dipendono dalle loro proprietà materiali. Identificare tali proprietàdiventa così un obiettivo intelligibile, seppure difficile. Il materialismomodesto assicura tuttavia una certa autonomia al livello psicologico.

Gli antropologi potrebbero ispirarsi, fino a un certo punto, agliscienziati cognitivi. Potrebbero essere tentati di dire che, se da un lato ognioccorrenza di una cosa culturale è un'occorren- za di una cosa materiale,dall'altro lato tipi di cose culturali non corrispondono o non possono essereridotti a tipi di cose materiali. Non si tratterebbe però di molto di più di unaversione moderna del materialismo vuoto. Perché l'antropologia dovi ebbeessere differente dalla psicologia? Per due ragioni. Per cominciare, il luogomateriale dei processi psicologici è abba- stanza chiaro, ed è omogeneo: leoccorrenze dei processi psicologici sono occorrenze di processi neurologici,e questi ultimi iniziano a essere compresi meglio. Invece, se i processicultura

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li hanno una realizzazione materiale, essa è varia poiché comporta ognisorta di processo psicologico, biologico e ambientale. In secondo luogo,non esiste una scoperta formale paragonabile a quella di Turing che cifornisca una comprensione radicalmente nuova della realizzazionemateriale degli oggetti culturali. Il carattere materiale dei tipi culturaliriconosciuto dagli antropologi resta misterioso come sempre.

Fra il caso dell'antropologia e quello della psicologia esiste unadisanalogia ancora più profonda. La ragione principale per adottare unmaterialismo modesto in psicologia è l'esistenza di un ricco corpus diconoscenze condivise, la formulazione delle quali richiede di rendere contodi molti tipi psicologici come la credenza, il desiderio, la memoria,

l'inferenza, l'immaginazione e così via. Non sembra ragionevole rinunciarea tale corpus, né realistico vedere in questi tipi semplici strumenti termino-logici privi di riferimento nel mondo. Nonostante l'opposizione di alcunifilosofi - Churchland (19882), Dennett (1987) o Stich (1983) -, dettata daragioni differenti, è possibile accettare i presupposti ontologici della psicologia, così com'è, insieme a un presupposto materialista più generale.

Ora, la questione è se esista in antropologia un corpus di conoscenzeche valga la pena di conservare e che ci costringa ad accettare l'esistenza ditipi culturali irriducibili. David Kaplan ha sostenuto che sia proprio così:

L'antropologia ha formulato concetti, entità teoriche, leggi (o se si preferisce,generalizzazioni) e teorie che non fanno parte dell'apparato teoretico dellapsicologia e non possono essere ridotte a essa. Questa è la base logica pertrattare la cultura come una sfera autonoma di fenomeni, che non si possonospiegare che in termini gli uni degli altri. È inutile sostenere che gli

antropologi non possono procedere in questo modo, perché la verità brutaleè che, nella loro ricerca empirica, questo è il modo in cui essi più spessoprocedono. (Kaplan 1965, p. 973)

L'argomento di Kaplan contro il riduzionismo si basa, a buon diritto, suuna valutazione dei risultati in antropologia che può essere messa inquestione in due modi: di uno farò menzione soltanto perché non mi sembracorretto, dell'altro, che ho già sviluppato altrove (Sperber 1985), cercherò dimostrare alcune implicazioni ontologiche impreviste.

Fra gli antropologi non c'è accordo su nulla, eccetto che sul rifiuto diqualche vecchia teoria, come le interpretazioni meteorologiche delsimbolismo religioso e la difesa della professione dagli attacchi esterni.  Non esiste un solo concetto comune a tutti i ricercatori, né una teoriacondivisa da tutti. In con

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dizioni simili, si potrebbe sostenere che lo stato della disciplina non permette di concludere nulla sull'autonomia della cultura. Non insisterò suquesta linea di argomentazione perché sono convinto che gli antropologi,senza arrivare ad alcun tipo di consenso teorico, abbiano ugualmentesviluppato una competenza comune ricca e genuina nello studio deifenomeni cultu- rali. Una valutazione dei risultati antropologici che nonincluda una spiegazione di questa competenza è incompleta, e quindiinsufficiente per confutare l'argomento di Kaplan.

La mia proposta è invece che i pretesi "concetti", le pretese "entitàteoriche, leggi e teorie" dell'antropologia siano in realtà strumenti teorici diun altro tipo, cioè strumenti interpretativi. Non è possibile trarre

conseguenze ontologiche a partire dalla loro esistenza e utilità: si puòriconoscere il sapere degli antropologi in fatto di cultura, e negare chesappiano (o si preoccupino di sapere) quali tipi di oggetti culturali esistonoveramente. A questo proposito ancora, il caso dell'antropologia è moltodifferente da quello della psicologia.

Un vocabolario interpretativo

La questione non è tanto sapere se gli antropologi condividano deiconcetti teorici, ma se abbiano concetti teorici propri. Quello che  possiedono è una serie di termini tecnici - tecnici nel senso che sonotermini del mestiere piuttosto che del linguaggio comune (o sono terminidel linguaggio comune usati In modo non comune). Non si tratta però ditermini teorici: la loro origine, il loro sviluppo, significato e uso sono larga-mente indipendenti dallo sviluppo o dal contenuto di una ve- ra e propria

teoria (del tipo di quelle che presuppongono un'ontologia). Nel caso della storia dell'antropologia, molti termini tecnici sono stati

analizzati criticamente: si vedano, per esempio, la «critica di 'tabù' di FranzSteiner (1956) e Mary Douglas (1966), di 'totemismo' di Goldenweiser (1910) e Lévi-Strauss (1962b), di 'patri-' e 'matri-linearita di Leach (1961),di 'credenza' di Needham (1972), e, ovviamente, di 'cultura' da parte di ungrande numero di antropologi (si vedano Kroeber e Kluckhohn 1952,Gamst e Norbeck 1976). La vaghezza o l'arbitrarietà di questi termini èstata sottolineata molte volte ma, nonostante il lavoro critico, non ci sonosegnali che ci dicano che gli antropologi stiano convergendo su un insiemedi nozioni meglio definite e più motivate. Si può dire che oggi ci siano piùdivergenze rispetto a mezzo secolo fa, ma non una maggior precisione in-tellettuale.

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Leach (1961) e Needham (1971, 1972, 1975) hanno sostenuto conconvinzione che la vaghezza dei termini antropologici non è accidentale, maha a che fare con il modo in cui si sono sviluppati e con i tipi di oggetti inriferimento ai quali sono stati impiegati; se in antropologia vogliamo deiveri e propri termini teorici, dobbiamo costruirne di nuovi.

 Needham ha anche sostenuto che in antropologia è meglio intendere itermini tecnici come termini che hanno 'somiglianze di famiglia' o termini'politetici', cioè termini che si riferiscono a cose tra le quali esiste unasomiglianza, ma che non cadono sotto una sola definizione. L'esempioclassico, sviluppato da Wittgenstein (1953), di un termine che ha una'somiglianza di famiglia' è quello di 'gioco'. Caratteristiche tipiche dei

giochi sono: l'essere 'competitivi', 'divertenti', o l''obbedire a regole'. Inrealtà, i solitari non sono competitivi; una partita a scacchi non è sempre undivertimento e si può giocare a palla senza regole particolari. Piùtecnicamente, un termine 'politetico' è caratterizzato da un insieme di trattidei quali nessuno è necessario, ma di cui ogni sottoinsieme sufficientementeampio basta per far sì che qualcosa possa essere compreso nel termine.

Un termine politetico non deve essere completamente politetico: tutti isuoi referenti possono condividere una o più caratteristiche; ma fino aquando tali caratteristiche necessarie non sono sufficienti insieme, iltermine rimane politetico. In realtà si deve dubitare che vengano mai usatitermini interamente politetici (ossia senza nessun tratto necessario). Tutti imembri di una classe politetica utile appartengono normalmente allo stessodominio, che determina almeno una caratteristica comune. Tutti i membridella classe 'gioco' hanno la caratteristica comune di essere delle attività.

Voglio mostrare che i termini antropologici hanno un'organizzazionefondata su un tipo di somiglianza, ma un tipo diverso da quella indicata daWittgenstein e Needham. Essi intendevano una somiglianza tra gli oggettidescritti dallo stesso termine. Per esempio, ogni cosa descritta come ungioco assomiglia alle altre cose descritte come giochi (possiamo chiamarlauna 'somiglianza descrittiva').

I termini tecnici antropologici non vengono però usati semplicemente per descrivere, ma anche per tradurre o rendere i vocaboli o le nozioni deinativi (o quelle che gli antropologi attribuiscono loro). Essi non sono usatidescrittivamente, ma interpretativamente: più che di una somiglianza tra lecose cui ci si riferisce con il termine, si tratta di una somiglianza di signi-ficato fra tutte le nozioni rese attraverso il termine: possiamo chiamarla una'somiglianza interpretativa'. Tutte le nozioni che

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  possono essere interpretate appropriatamente attraverso lo stesso termineavranno un"aria di famiglia'; anche se può succedere che due di esse non sisomiglino, è certo che esiste almeno un'altra nozione cui entrambesomigliano.

Si può essere tentati di obiettare che si tratta di una distinzione priva didifferenza dato che, dopo tutto, nella misura in cui i termini hannosignificati simili, sono simili anche le cose che essi denotano. Ci sono peròtermini che possono avere significato pur essendo privi di denotazione, valea dire senza riferirsi a nulla. La somiglianza tra 'elfo', 'folletto', 'spiritello' e'gnomo' è una somiglianza tra significati, tra idee, e non tra cose. Se unantropologo usasse la parola 'elfo' per rendere conto di una nozione del

  popolo che studia, ciò non significherebbe che creda all'esistenza dicreature come gli elfi, ma solo che esistano rappresentazioni di elfi. Itermini usati interpretativamente non richiedono che chi li utilizza presupponga l'esistenza delle cose che questi dovrebbero denotare.

La visione secondo la quale l'antropologia è essenzialmente una scienzainterpretativa è ben conosciuta, ed è stata notoriamente difesa da CliffordGeertz (1973). Ritengo anch'io che gli antropologi che studiano una singolacultura siano - a ragione - coinvolti principalmente in un'impresainterpretativa: rappresentare le rappresentazioni indigene attraversotraduzioni, parafrasi, riassunti e sintesi comprensibili per i loro lettori. Nonvedo possibili obiezioni al fatto che, per questo scopo, essi debbano usareun vocabolario interpretativo. D'altronde, se ho ragione nel sostenere che ilvocabolario dell'antropologia è interpretativo, allora le spiegazioniantropologiche sono straordinariamente prive di presupposti ontologici.

Così come l'uso appropriato di 'elfo' da parte di un antropologo non ci dicenulla sull'esistenza degli elfi, l'uso appropriato di 'matrimonio', 'sacrificio' o'tribù' non ci dirà se i matrimoni, i sacrifici o le tribù sono parte dell'arredodel mondo.

'Matrimonio' 

'Matrimonio', ecco incontestabilmente un termine tecnicodell'antropologia, e una categoria di fenomeni culturali ben conosciuta. Masi tratta davvero di un tipo? Tùtti i matrimoni rientrano in una singoladefinizione o abbiamo ragioni per credere che essi condividano qualcheessenza comune non analizzata?

Analizziamo per prima cosa un paio di caratterizzazioni del matrimonioche sono state proposte. Il Notes and Queries in Anthropology (1951) proponeva: "Il matrimonio è un'unione tra

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un uomo e una donna tale che i bambini nati dalla donna sono riconosciuticome prole legittima di entrambi i genitori" [tr. it. in Leach 1961, p. 162]. Non c'è bisogno di cercare controesem- pi esotici: nella maggior parte dellesocietà occidentali la distinzione tra discendenti legittimi e illegittimi è stataabolita, e i bambini nati all'interno o fuori del matrimonio possono goderedegli stessi diritti. L'unico senso in cui alcuni figli possono essere ancorachiamati 'illegittimi' è precisamente che sono nati al di fuori delmatrimonio. Ma questo, ovviamente, rende circolare la definizione dimatrimonio in termini di legittimità dei discendenti.

Esaminiamo la posizione di Lévi-Strauss: "Anche se ci sono molti tipidi matrimoni osservati nelle società umane [...] il fatto sorprendente è che

ovunque esiste una distinzione tra matrimonio, ossia legame legale, sancitodal gruppo, tra un uomo e una donna e il tipo di unione permanente otemporanea che risulta o dalla violenza o dal solo consenso" (1956, p. 268,corsivo mio). Nello stesso saggio, Lévi-Strauss trova un controesem- pioalla sua caratterizzazione. Egli sostiene che molte "società cosiddette poligamiche [...] stabiliscono una differenza importante tra la 'prima' moglieche è la sola vera sposa cui spettano tutti i diritti che uno stato maritalecomporta, mentre le altre non sono molto di più di concubine ufficiali" (ivi, p. 267). Il legame tra un uomo e la sua concubina ufficiale è sicuramentesancito dal gruppo, altrimenti in che senso sarebbe 'ufficiale'? Quindi, seLévi-Strauss vuole distinguere questo legame dal vero matrimonio, la suacaratterizzazione del matrimonio non regge.

 Non è un caso che questi tentativi di definire il 'matrimonio' falliscano.Leach ha sostenuto che "il matrimonio è [...] un 'insieme di diritti'; da ciò

deriva che tutte le definizioni universali di matrimonio sono inutili" (1961, p. 105; tr. it. p. 161). I diritti pertinenti variano a suo parere da società asocietà. Leach elenca dieci tipi di diritti, da quello di "stabilire il padrelegale dei figli di una donna" a quello di "stabilire una 'relazione di affinità'socialmente significativa tra il marito e i fratelli della moglie" e mostracome non uno solo di questi diritti sia presente in tutti i tipi di matrimonio.

Portando avanti l'argomento di Leach, Needham conclude che'matrimonio' è una parola 'tuttofare': è molto utile in tutti i tipi di enunciatidescrittivi, ma più che fuorviarne nelle comparazioni e priva di valorenell'analisi (1971, p. 8). Ci sono due modi in cui la parola 'matrimonio' puòessere definita una parola 'tuttofare': essa viene utilizzatacontemporaneamente in maniera differente da ogni antropologo; inoltre,cosa più im-

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  portante, viene utilizzata in maniera differente da ogni antropologoall'interno del suo stesso campo.

Immaginate un antropologo che studia gli Ebelo. Egli può iniziare con ilchiedersi se posseggano l'istituzione del matrimonio, ma sarebbe strano selo facesse: fra gli antropologi viene generalmente dato per assodato che ilmatrimonio sia universale. Il nostro antropologo non si aspetta però diincontrare una pratica che corrisponda perfettamente a una definizionecostituita di matrimonio per il semplice fatto che questa definizione nonesiste. Quello che si aspetta di trovare è un'istituzione indigena che egli possa chiamare 'matrimonio' con la stessa giustificazione che hanno gli altriantropologi quando usano questa parola.

Il problema che deve affrontare non è se gli Ebelo si sposino0meno, ma, come ha detto Peter Rivière, "quali delle forme di relazione trai sessi [...] deve essere considerata la relazione maritale" (1971, p. 65). Lalogica è quella di un gioco di società: quale di queste forme di relazione potrebbe essere quella del matrimonio? Ci vorrebbe una società davverostrana, o un antrppologo davvero distratto, per non rispondere a questa do-manda. Non è sorprendente, allora, che il matrimonio si trovi in tutte lesocietà. Ciò è possibile proprio perché il termine 'ma-1trimonio', quale che sia la sua utilità, non designa un tipo preciso dioggetto culturale.

Come agisce allora il nostro antropologo per identificare quale formaebelo di relazione è quella 'maritale'? Guarda le diverse relazioni? No, lerelazioni non sono il tipo di cose che si possono guardare. Quello che fa,approssimativamente, è chiedere agli Ebelo di descrivere con i loro termini

i tipi di relazioni che essi intrattengono; poi decide quale delle nozioninative, e, possibilmente, quale dei termini nativi è reso meglio con'matrimonio'.

Il nostro antropologo arriva alla conclusione che 'matrimonio'corrisponde al termine ebelo kwiss e spiega ciò che ritiene credano gliEbelo: il matrimonio - ossia kwiss - è un legame tra un uomo e una donna  benedetto dagli spiriti degli antenati. Si noti, tra l'altro, che in questacaratterizzazione del significalo di matrimonio/kwiss anche 'legame','benedetto', 'spiriti degli antenati' sono nozioni usate interpretativamente.Esse non sono cioè usate per descrivere cose, ma per rendere conto di altrenozioni ebelo.

Un nuovo caso di matrimonio, quello ebelo, è stato ora aggiunto allostock antropologico sulla base di una somiglianza.'Matrimonio' è diventato un termine tecnico dell'antropologia quando un

antropologo - o forse uno storico? - decise che

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qualche nozione esotica o antica poteva essere resa in modo migliore dalla  parola del linguaggio comune 'matrimonio'. Da allora, il termine'matrimonio' ha cominciato a estendersi, e i suoi contorni a farsi più sfumati,a mano a mano che nozioni differenti venivano interpretate per suo tramite.Il significato di 'matrimonio' negli scritti antropologici è diventato una pratica sintesi o un composto delle nozioni particolari e ben diverse che iltermine serve a interpretare. Si deve sottolineare che, perché una nuovanozione possa essere resa con 'matrimonio', non è necessario che ricadasotto qualche nozione generale trasmessa dal termine; tutto quello di cui c'è  bisogno è che somigli nel contenuto al significato esteso del termineantropologico. Ecco perché la vaghezza dei termini antropologici non è un

ostacolo al loro uso; essa non è mai un inconveniente - anzi, spesso è unvantaggio - quando si tratta di stabilire delle somiglianze. Non è quindi per caso che la nozione di 'matrimonio' sia fondata su

un'aria di famiglia: è il risultato del modo in cui è stata ed è sviluppata. È lasomiglianza e non il possesso di una caratteristica particolare che determinaa quali casi si applichi il termine 'matrimonio'. Non c'è ragione di aspettarsiche lo sviluppo dell'antropologia cambi questo stato di cose. In realtà, piùaumenta la quantità di casi diversi conosciuti dagli antropologi, e più vagadiventa la somiglianza tra esempi di matrimonio.

Ma la somiglianza che determina l'applicabilità di 'matrimonio' è unarelazione tra cose chiamate 'matrimonio' o tra nozioni interpretate attraversoquesto termine? È, in altre parole, una somiglianza descrittiva ointerpretativa? Se la spiegazione che ho abbozzato del modo in cui gliantropologi identificano nuovi casi di matrimonio è corretta, allora

evidentemente si tratta di una somiglianza interpretativa. Implicazioni

I due tipi di somiglianza di famiglia, quello descrittivo e quellointerpretativo, hanno implicazioni ontologiche differenti. Se si suppone cheil termine 'matrimonio' sia basato su una somiglianza descrittiva, allora sideve considerare la possibilità che sia solo parzialmente politetico.Certamente tutti i matrimoni sono legami sociali; tutti implicano diritti edoveri legali. Quindi, quando si descrive qualcosa come un matrimonio, si presuppone almeno l'esistenza di legami sociali e di diritti e doveri socialicome tipi di cose basilari nell'ambito delle scienze sociali. I tipi sociologicinon sembrano poter essere ridotti ai ti-

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  pi d i oggetti che si possono ritrovare nelle scienze vicine, come la psicologia, la biologia o l'ecologia. Le tipologie basate su una somiglianzadi famiglia descrittiva, nonostante la loro vaghezza, possono perciòimplicare l'esistenza di tipi culturali irriducibili.

 Non avviene così nel caso della somiglianza interpretativa. Immaginateche il nostro antropologo riferisca che due individui obelo, per esempioPiero e Maria, sono sposati. Nel fare questo, afferma che esiste un legametra Piero e Maria che è stato benedetto dagli spiriti degli antenati?Presumibilmente no, anche solo perché dovrebbe credere all'esistenza deglispiriti degli antenati. Quello che riferisce è invece (in stile libero indiretto, sisi veda Sperber 1982) ciò che gli Ebelo coinvolti credono di Piero e Maria.

Egli interpreta delle idee ebelo. Quali sono le implica- zioni ontologiche diquesta interpretazione? Essa implica che esistano degli Ebelo e che nellamente di questo popolo ci siano delle rappresentazioni. C'è qualcosa che locostringe a ricono- scere l'esistenza di un oggetto o di uno stato di cose che può essere chiamato pertinentemente 'matrimonio'? Non mi pare. Il nostroantropologo, se è come gli altri antropologi, può essere disposto ad accettarel'esistenza del matrimonio. Probabilmente da per scontata l'esistenza diqualcosa come il matrimonio, realizzata, in particolare, tra gli Ebelo, maniente nella sua spiegazione del kwiss ebelo ci obbliga a seguirlo su questa posizione, tutto ciò che sappiamo per certo, se crediamo nella sua etno-grafia, è che ci sono alcuni Ebelo che credono che Piero e Maria (e cosìmolti altri) siano kwissati. Ma perché dovremmo condi- videre con loroquesta credenza, o anche una sua versione razionalizzata in cui vengonoomessi gli spiriti ancestrali?

Cosa si può dire allora dell'uso del termine 'matrimonio' nelle ricercheantropologiche di tipo teorico o comparativo? Non cor- risponde almeno aun concetto generale? Se credete che sia così, provate a dire a quale. Nonsostengo che sarebbe impossibile definire un concetto generale che possaessere espresso ragionevol- mente con 'matrimonio'.2 Quello che voglio direè semplicemente che non c'è nessuna ragione evidente perché si debbadefinire un concetto che risponda a questa condizione particolare e che gliantropologi, nonostante le apparenze, non si sono mai veramen- te preoccupati di farlo: hanno trovato utile astrarlo dai resoconti

1 Si potrebbe, per esempio, adottare l'approccio di Searle (1969) ai 'fatti isti-tuzionali' e definire, grosso modo, 'essere sposato' come essere considerato tale dallepersone appropriate. Questa definizione non è ovviamente quella degli (indigeni; essaconserva tutti i problemi di vaghezza delle nozioni basate su una somiglianza difamiglia, presenta problemi specifici di circolarità e non è usa- 1 IH In nessuna teoriainteressante.

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etnografici interpretativi per arrivare a modelli interpretativi generali.Questi modelli non sono veri di niente; quello che fanno è fornireun'immagine sintetica della conoscenza etnografica, fungendo anche comeschizzi di interpretazioni possibili per il lavoro etnografico successivo. Iltermine 'matrimonio', negli scritti antropologici generali è sia una parolavaga che indica approssimativamente l'argomento di cui si sta parlando, siaun termine interpretativo usato sinteticamente.

Quello che vale per 'matrimonio' vale in generale per il vocabolariodell'antropologia. 'Tribù', 'casta', 'clan', 'schiavitù', 'stato', 'guerra', 'rituale','religione', 'tabù', 'magico', 'stregoneria', 'possessione', 'mito', 'storie' e cosìvia, sono tutti termini interpretativi. Esiste una somiglianza di famiglia - di

tipo interpretativo - fra tutte le nozioni che ognuno di questi termini serve arendere; quando sono usati per riferire esempi specifici di eventi o di stati dicose, essi aiutano il lettore a farsi un'idea del modo in cui le personedescritte percepivano la situazione ('vedere le cose dal punto di vistaindigeno', come si usa dire). Cosa ci dicono questi resoconti interpretatividella natura di quello che sta avvenendo? Sicuramente che alcunerappresentazioni sono state concepite e comunicate.

In antropologia esistono termini che non sono interpretativi in questosenso, ma che non comportano l'esistenza di un livello ontologico distinto per la cultura. Alcuni sono chiaramente psicologici, come 'classificazionedei colori'; altri ecologici, come 'piramide delle età'. Quello che differenzia itermini psicologici o ecologici usati in antropologia dal lessico specificodella disciplina è che essi si applicano indipendentemente dal 'punto divista' delle persone in questione. Gli individui possono classificare i colori

senza essere al corrente dell'esistenza delle classificazioni, così come altre popolazioni animali possono avere una piramide delle età senza avere ideadi cosa essa sia. Anche un antropologo pienamente convinto dell'esistenzadei matrimoni sarebbe invece d'accordo sul fatto che nessun matrimonioreale sia davvero contratto a meno che le persone coinvolte nonconcepiscano l'idea che un matrimonio (o un kwiss o qualcosa di questotipo) è stato contratto. Ripeto: la sola cosa certa quando si dice che un uomoe una donna sono sposati è che qualche rappresentazione del fatto che sonosposati o kwissati è circolata.

 Di cosa sono fatte le cose culturali?

Iniziamo nel modo più semplice possibile. Le cose culturali sono in parte fatte da movimenti fisici degli individui e da mo-

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dificazioni dell'ambiente da essi risultanti - per esempio, perso-ne che battono dei tamburi, costruiscono un edificio, o uccido-

no un animale. Il carattere materiale di questi fenomeni noncostituisce un problema, ma è necessario andare oltre. Si trattadi un esercizio musicale, di un messaggio in codice o di un ri-tuale? Di una casa, di un negozio o di un tempio? Di una ma-cellazione o di un sacrificio? Per rispondere si devono conside-rare le rappresentazioni coinvolte in tali comportamenti. In■ qualsiasi contesto teorico o metodologico le rappresentazionigiocano un ruolo essenziale nel definire i fenomeni culturali.Ma di cosa sono fatte le rappresentazioni?

Si noti che, per cominciare, ci troviamo davanti a due tipi di■rappresentazioni: mentali e pubbliche. Le credenze, le intenzio-ni e le preferenze sono rappresentazioni mentali; fino alla rivo-luzione cognitiva, il loro statuto ontologico era oscuro. I segna-li, le frasi, i testi e i disegni sono rappresentazioni pubblichedotate, naturalmente, di un aspetto materiale. Descrivere que-sto aspetto - i suoni delle parole, le forme e i colori di un qua-dro - non coglie però il fatto più importante, cioè che questetracce materiali possono essere interpretate: esse rappresenta-no qualcosa per qualcuno.

Per spiegare il fatto che le rappresentazioni pubbliche sonointerpretabili, bisogna assumere l'esistenza di un sistema sotto-

stante: per esempio, un linguaggio, un codice, un'ideologia. Nelle■tradizioni della semiotica e della semiologia, questi sistemi di

interpretazione sottostante sono stati descritti in astratto inve-ce che in termini psicologici, e la loro esistenza è stata spessoconsiderata extrapsicologica. Con un simile approccio, l'esi-stenza materiale di tali sistemi resta oscura, e oscura la mate-rialità delle rappresentazioni pubbliche interpretate e quelladei fenomeni culturali descritti a partire da queste. Anche i si-sistemi di interpretazione sottostanti possono essere consideratirappresentazioni mentali complesse; è per esempio quello chefu Noam Chomsky quando descrive una grammatica come unmeccanismo mentale. Il secondo approccio ci riporta alla psi-cologia delle rappresentazioni mentali e quindi alle nuove pro-spettive aperte dallo sviluppo delle scienze cognitive.

La maggiore difficoltà per sviluppare anche soltanto un ma-terialismo minimalista nelle scienze sociali derivava dal ruolo

che vi giocavano le rappresentazioni. Ora in psicologia il carat-terr e materiale delle rappresentazioni mentali è passato dallostatuto di mistero a quello di problema intelligibile. La questio-ne è sapere se le scienze sociali possono ridefinire la loro no-zione di rappresentazione sulla base di una nozione cognitivadi rappresentazione. Vorrei qui suggerire come ciò sia possibile

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e come, di conseguenza, l'intera ontologia delle scienze sociali possa essereridefinita, come insomma diventi possibile un programma realmentematerialista nelle scienze sociali.

Un'epidemiologia delle rappresentazioni

Così come si può dire che una popolazione umana sia abitata da una popolazione molto più numerosa di virus, si può dire anche che sia abitatada una popolazione molto più numerosa di rappresentazioni mentali. Lamaggior parte delle rappresentazioni si trova in un solo individuo; alcune,invece, vengono comunicate: sono prima trasformate da chi le comunica inrappresentazioni pubbliche e poi ritrasformate da chi le percepisce in

rappresentazioni mentali. Un numero molto ristretto di questerappresentazioni comunicate viene comunicato ripetutamente. Attraverso lacomunicazione (o, in altri casi, l'imitazione), alcune di esse si diffondono inuna popolazione umana e possono abitarne ogni singolo membro per moltegenerazioni. Rappresentazioni così diffuse e durevoli sono casi paradigmatici di rappresentazioni culturali.

La domanda è: perché alcune rappresentazioni si propagano in modogenerale o in contesti particolari? Rispondere significa sviluppare una sortadi 'epidemiologia delle rappresentazioni'. La metafora epidemiologica ci  può aiutare se ne conosciamo i limiti; il primo è autoevidente: nonintendiamo certamente implicare che le rappresentazioni culturali siano inqualche senso patologiche. Un altro limite, meno palese, è molto più impor-tante: mentre nel processo di trasmissione gli agenti patogeni come i virus ei batteri si riproducono e mutano solo occasionalmente, le rappresentazioni

vengono trasformate praticamente ogni volta che sono trasmesse, e restanostabili solo in casi limite. In particolare, una rappresentazione culturale èfatta di molte versioni, mentali e pubbliche; ogni versione mentale risultadall'interpretazione di una rappresentazione pubblica che è a sua voltaun'espressione di una rappresentazione mentale.

Si possono scegliere come soggetto di studio le catene causali fatte dirappresentazioni mentali e pubbliche e cercare di spiegare come gli statimentali degli organismi umani possano far sì che esse modifichino il loroambiente, in particolare nella produzione di segni, e come le modificazionidell'ambiente possano causare modificazioni degli stati mentali di altriorganismi umani. (Si tratta ovviamente di 'catene' molto complesse, spesso più simili a intricati reticoli; ciononostante, esse sono fatte solo di due tipidi connessioni: dal mentale al pubblico e dal pubblico al mentale.)L'ontologia di una simile impresa as-

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somiglia a quella dell'epidemiologia, anche se si tratta di un'on- tologia  piuttosto eterogenea, in cui si mescolano fenomeni psi- cologici edecologici, proprio come nell'epidemiologia si me- •colano fenomeni patologici ed ecologici. In entrambi i casi, quello che si deve spiegare è ladistribuzione di condizioni individuali, patologiche o psicologiche e, inentrambi i casi, la spiegazione prende in considerazione sia lo stato degliindividui sia quello del loro ambiente comune, che è in sé ampiamente mo-dificato dal comportamento degli individui.

 Nonostante questa eterogeneità, l'ontologia di un'epidemiologia dellerappresentazioni è strettamente materialista: le rappresentazioni mentalisono stati del cervello descritti in termini funzionali, e l'interazione

materiale tra cervelli, organismi e ambiente ne spiega la distribuzione.Data l'eterogeneità ontologica dei fenomeni epidemiologici, non esisteuna teoria epidemiologica generale, ma una varietà di modelli differenti congeneralità maggiore o minore e una metodologia comune. Allo stesso mododubito che nello studio dei fenomeni culturali dovremmo aspirare a unagrande teoria generale.

Tipi diversi di rappresentazioni possono avere una spiegazione moltodifferente della loro distribuzione. Per il momento, un obiettivo realistico eambizioso sarebbe quello di sviluppare modelli esplicativi di distribuzione  plausibili dal punto di vista materialistico: per esempio delle diversetassonomie popolari, dei miti, delle tecniche, delle forme di arte, dei rituali,delle leghi, e così via. Sono ovviamente preferibili modelli dotati dellamaggiore generalità possibile e realmente esplicativi. Porsi dall'iniziol'obiettivo di una teoria olistica, come fanno molti scienziati sociali, ha

spesso come risultato, per ragioni pratiche - e forse sostanziali - di non portare a nessuna teoria.Provo a illustrare brevemente l'approccio epidemiologico con due

esempi.

'Mito'

Prendiamo un mito, per esempio il mito bororo dello snidatore diuccelli, che Lévi-Strauss usa come punto di partenza del suoMythologiques. In un approccio tradizionale, questo mito sarebbe  presentato nella forma di una versione canonica cui si è arrivatiselettivamente sintetizzando le diverse versioni rac- colte. Questa versionecanonica è un oggetto astratto, che non esiste nella società studiata; puòservire a fini espositivi, ma, così com'è, non fornisce, né richiede, unaspiegazione. Lo stes- so Lévi-Strauss si discosta dall'approccio tradizionale:

 per lui,

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studiare un mito significa studiare le relazioni di 'trasformazione' (per esempio, il modo in cui sono strutturate somiglianze e differenze) tra lediverse versioni del mito e tra questo e altri miti. Con tale approccio,nessuna singola versione, né una sintesi di molte versioni, è un oggettoappropriato di studio. Un mito deve essere considerato, invece, comel'insieme di tutte le sue versioni.

Lo statuto ontologico di un mito come insieme delle sue versioni e ilvalore esplicativo dell'analisi delle relazioni di trasformazione tra leversioni non sono chiari, ma possono essere chiarificati in una prospettivaepidemiologica. La mia proposta, in sintesi, è di cercare di modellizzarenon l'insieme, ma le catene causali che legano tra loro le diverse versioni

dei miti; ciò significa considerare non solo le versioni pubbliche, ma anchequelle mentali (senza le quali non ci sarebbero catene causali). Naturalmente, solo alcune versioni pubbliche del mito sono state registrate,e nessuna di quelle mentali, ma completare le osservazioni con ipotesi suentità non osservate - o anche non osservabili - è una pratica normale dellascienza. Inoltre, per spiegare la distribuzione di versioni dello stesso mito, ilnostro compito non sarebbe quello di descrivere tutti i legami nella catena,ogni singolo passo della trasformazione mentale e della trasmissione pubblica. Si tratterebbe piuttosto di spiegare i tipi di fattori causali chehanno favorito la trasmissione in certe circostanze e la trasformazione incerte direzioni.

Lo studio di un mito da questa prospettiva comporta allora tre tipi dioggetti:1)narrazioni; ossia rappresentazioni pubbliche che possono essere osservate

e registrate, ma che possono essere interpretate solamente prendendo inconsiderazione:2)storie; ossia rappresentazioni mentali di eventi che possono essere

espresse come, o costruite a partire da narrazioni;3)catene causali: storie-narrazioni-storie-narrazioni...

Ogni oggetto particolare che appartiene a uno di questi tre tipi è unoggetto materiale; ogni narrazione particolare è un evento acustico preciso;ogni storia particolare è uno stato cerebrale specifico. Una catena checollega causalmente ogni cosa materiale specifica è ovviamente una cosamateriale.

La spiegazione causale dell'esistenza di queste narrazioni pubbliche e diqueste storie mentali è fornita dalla descrizione delle catene causali in cuiesse occorrono. La spiegazione di tali catene causali richiede un modello incui siano in gioco tanto fattori ecologici quanto psicologici. Per esempio, un

fattore ecologico cruciale sarebbe l'assenza, nella società presa in esame,del tipo di contenitori esterni di memoria forniti dalla scrit-

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tura; le rappresentazioni orali, a differenza di quelle scritte, sono eventiambientali più che stati ambientali. Un fattore psicologico cruciale puòessere l'organizzazione della memoria uma- na spontanea. L'interazione traquesti due fattori aiuterebbe a spiegare perché in una tradizione orale unanarrazione con una struttura facilmente memorizzabile viene trasmessa con poche variazioni.

Che ne è del vecchio concetto antropologico di mito in tutto questo? Naturalmente, dire che una catena di versioni è un mi- to e come dire cheun'epidemia di influenza è un caso di in- fluenza. Diversamentedall'influenza, però, che resta tale anche senza un'epidemia, ogni storiamentale e ogni narrazione pubblica è in sé culturale, e quindi mitica, solo

nella misura in cui appartiene a questa catena. Nessun oggetto materiale èquindi intrinsecamente un mito; parlare di miti può servire al massi- mo a portare l'attenzione su un corpo di dati collegati l'uno al- laltro. Ma ilconcetto di base necessario per studiare tali dati è quello di catena causaledi narrazioni e storie. Un'ontologia davvero materialista porta a unariconcettualizzazione del dominio.

Il fatto che in una popolazione che non conosce la scrittura troviamonarrazioni che possono essere considerate versioni l'una dell'altra (e checosì sono considerate dai nativi) è quello che ci porta a identificare un'mito'. Esistono altre forme cultu- rali, come le 'credenze', le 'classificazioni popolari', le 'tecniche tradizionali', che sono caratterizzate da un'ampiadistribuzione di rappresentazioni molto simili. I vincoli ontologici suiconcet- ti implicati nello studio di ognuno di questi fenomeni sono ab- bastanza chiari: essi richiedono che siano eliminate le versioni sintetiche

astratte di queste rappresentazioni e che siano conservate solo le diverseversioni pubbliche e mentali e le loro catene causali.

 Ancora sul 'matrimonio' 

L'ontologia delle istituzioni sociali, che è l'argomento per eccellenza dellescienze sociali, fa sorgere ulteriori problemi. Per- ché ci sia uno stato, unmercato, una chiesa, un rituale, non è necessario che ogni individuo che partecipa all'istituzione deb- ba averne una versione mentale; anzi, nellamaggior parte dei Casi l'idea stessa è priva di significato. Le istituzioni nonsono rappresentazioni né mentali né pubbliche. Come può alloraun'epidemiologia delle rappresentazioni aiutare a fornire una spiegazionematerialistica delle istituzioni?

Un'epidemiologia delle rappresentazioni non riguarda le rap

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  presentazioni, ma il processo di distribuzione. In alcuni casirappresentazioni simili - per esempio, versioni dello stesso mito - sonodistribuite attraverso una catena ripetitiva di rappresentazioni pubbliche ementali; in altri casi un processo di distribuzione coinvolge molterappresentazioni differenti, con contenuti che non somigliano l'uno all'altro.In particolare, alcune delle rappresentazioni coinvolte possono giocare unruolo regolativo rappresentando il modo in cui alcune delle altrerappresentazioni coinvolte devono essere distribuite. La distribuzione dellerappresentazioni regolative gioca un ruolo causale in quella di altrerappresentazioni dello stesso complesso. I fenomeni istituzionali sonocaratterizzati da queste catene causali gerarchiche.

Ritorno all'esempio del 'matrimonio', ma in una versione più conosciutadi quella ebelo: il matrimonio civile nella Francia di oggi. L'approccioclassico consisterebbe nel definire il matrimonio come un vincolo giuridicodi un certo tipo tra un uomo e una donna, stabilito attraverso un ritualespecifico - la cerimonia di nozze. Se gli indigeni francesi, incluso il sotto-scritto, non hanno problemi a usare queste nozioni, lo scienziato dovrebberimanere perplesso davanti allo statuto ontologico di una cerimonia, di unlegame giuridico, e quindi anche del matrimonio. L'approccioepidemiologico fornisce una soluzione alle perplessità.

Il processo materiale che fa sì che gli indigeni dicano, per esempio, chePiero e Maria sono sposati, implica due livelli di rappresentazione. A unlivello più alto c'è la rappresentazione regolativa delle azioni da compiere:soddisfatte certe precondizioni, un ufficiale civile dichiara un uomo e unadonna uniti in matrimonio. La versione pubblica alla base di questa rappre-

sentazione è un capitolo del Codice civile, l'origine e la distribuzione delquale sono in larga misura documentate pubblicamente. Questarappresentazione di livello superiore descrive un tipo di rappresentazione dilivello inferiore e le condizioni in base alle quali possono essere prodotte edistribuite versioni di essa. L'ufficiale civile che dichiara Piero e Mariamarito e moglie produce una di queste rappresentazioni di livello inferiorein accordo con quella regolativa di livello superiore. La rappresentazione dilivello inferiore può poi essere riprodotta, parafrasata, elaborata e così via.Chiunque ora dica che Piero e Maria sono sposati non sta descrivendo unfatto materiale, ma sta riaffermando la rappresentazione originariadell'ufficiale civile. Tutti coloro che enunciano i diritti e i doveri di Piero eMaria in quanto coniugi stanno producendo, in riferimento a questi dueindividui, una versione più o meno fedele della rappresentazione generaledi livello superiore dei diritti e doveri delle

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 persone sposate, la versione originale della quale si trova anch'essa nelCodice civile.

Matrimonio', 'diritti', 'doveri', sono entità immateriali che esistononell'ontologia degli indigeni, quindi nella nostra ontologia quotidiana. Nellanostra ontologia materialista a uso scientifico esistono d'altra partesolamente rappresentazioni pubbliche o mentali del matrimonio in generale,di matrimoni particolari, di diritti e doveri, e la catena causale complessa incui queste rappresentazioni compaiono. Le rappresentazioni che gli indigenihanno delle entità immateriali sono esse stesse materiali; la lorodistribuzione può avere effetti sul comporta- mento dei nativi molto simili aquelli che gli indigeni attribuiscono - erroneamente - allo stato di cose

immateriale rappre- sentato. La differenza di ontologie non è incompatibilequindi con un certo grado di corrispondenza tra due descrizioni, quella delnativo e quella dello scienziato.

Il programma che propongo non è privo di precedenti. L'approcciodiffusionista in antropologia e archeologia si poneva il problema delladistribuzione delle entità culturali nello spazio e nel tempo. Una delle suedebolezze era la povertà delle assunzioni psicologiche. Una debolezza dellostesso tipo si può trovare in diversi approcci recenti di ispirazione biologicaalla cultura, dove il complesso mente/cervello è visto essenzialmente comr un meccanismo di duplicazione (si vedano per esempio Lloyd e Richerson1985; Cavalli Sforza e Feldman 1981; Dawkins 1976; Lumsden e Wilson1981). La lezione più evidente dei recenti lavori in ambito cognitivo è cherecuperare informazione non è l''inverso di immagazzinarla e comprenderenon è l'inverso di esprimersi. La memoria e la comunicazione trasformanol'informazione. Quindi, se si vogliono trattare le rappresenta- zioni, mentalio pubbliche, come cause materiali tra le altre cause materiali, si devefondare lo studio del pensiero e della comunicazione sulla psicologiacognitiva.

Un'epidemiologia delle rappresentazioni stabilirà una rela- zione direciproco interesse tra le scienze cognitive e le scienze sociali, simile aquella tra la patologia e l'epidemiologia. Questa relazione non è in alcunmodo una riduzione del sociale allo psicologico: in questo approccio ifenomeni socioculturali sono distribuzioni ecologiche di fenomeni psicologici; i fatti sociologici vengono definiti in termini di fatti psicologici,ma non si riducono a essi.

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Una rappresentazione stabilisce una relazione fra almeno tretermini: ciò che rappresenta, ciò che è rappresentato e il fruito-re della rappresentazione. Si può aggiungere un quarto terminequando esiste un produttore della rappresentazione distinto dalfruitore. Una rappresentazione può esistere all'interno di chi lafruisce: si tratta allora di una rappresentazione mentale, come unricordo, una credenza, o un'intenzione. Produttore e fruitoredella rappresentazione mentale sono in questo caso la stessa  persona. Una rappresentazione può anche esistere nell'ambien-te del suo fruitore, come per esempio nel caso del testo che sta-

te leggendo ora; si tratta allora di una rappresentazione pubblica.Le rappresentazioni pubbliche sono solitamente modi di comu-nicazione tra un fruitore e un produttore distinti l'uno dall'altro.

Una rappresentazione mentale ha, ovviamente, un solo frui-tore. Una rappresentazione pubblica può averne diversi. Si puòfare un discorso davanti a molte persone; un testo stampato è  pensato per un largo pubblico. Prima che tecniche come lastampa o la registrazione su nastro magnetico rendessero possi-  bile la duplicazione precisa di una rappresentazione pubblica,li trasmissione orale permetteva la produzione di rappresenta-zioni simili l'una all'altra: l'ascoltatore di una storia poteva per esempio diventarne a sua volta il narratore. Bisogna sottolinea-re però che la trasmissione orale non è un mezzo affidabile di rì- produzione, in quanto genera un insieme vago di rappresenta-

zioni costituito da versioni più o meno fedeli invece che da co- pie esatte luna dell'altra.Consideriamo un gruppo sociale: una tribù, gli abitanti di

una città o i membri di un'associazione. Il gruppo e l'ambientecircostante sono abitati, per così dire, da una popolazione piùBrande di rappresentazioni, mentali e pubbliche. Ogni membro

2. Interpretare e spiegare le rappresentazioniculturali

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del gruppo ha nella sua testa milioni di rappresentazioni mentali, alcunedelle quali hanno vita breve mentre altre sono registrate nella memoria alungo termine e costituiscono la 'conoscenza' dell'individuo. Un esiguonumero di queste rappresentazioni mentali viene ripetutamente comunicatoe finisce per essere distribuito attraverso il gruppo e quindi per avere unasua versione mentale nella maggior parte dei membri del gruppo. Quando  parliamo di rappresentazioni culturali abbiamo in mente - o dovremmoavere in mente - tali rappresentazioni largamente distribuite e di lungadurata. Le rappresentazioni culturali così intese sono un sottoinsieme daiconfini sfumati dell'insieme delle rappresentazioni pubbliche e mentali cheabitano un certo gruppo sociale.

Gli antropologi non concordano su una visione comune dellerappresentazioni culturali, o su un insieme di questioni comuni riguardo aesse, o ancora su una terminologia comune per descriverle. La maggior  parte degli autori affronta i vari generi di rappresentazioni separatamente e parla di credenze, norme, tecniche, miti, classificazioni e così via a secondadel caso. Vorrei tuttavia proporre una riflessione sul modo in cui gliantropologi (e gli altri scienziati sociali) rappresentano e cercano dispiegare le rappresentazioni culturali in generale.

 Interpretare le rappresentazioni culturali

Supponete di voler rappresentare un cesto: potete produrre l'immaginedi un cesto, o descriverlo. In altre parole, potete produrre un oggetto cheassomiglia al cesto - per esempio una fotografia o un disegno - oppure unafrase. La frase non assomiglia per nulla al cesto, ma dice qualcosa di vero

su di esso. (La verità è, ovviamente, una condizione necessaria ma nonsufficiente perché la descrizione sia adeguata.) Potrebbe sembrare che lasituazione sia la stessa quando quello che volete rappresentare è unarappresentazione: la favola di Cappuccetto Rosso, per esempio. Poteteregistrare o trascrivere la favola (o meglio, una sua versione), produrre cioèun oggetto che somigli alla storia nello stesso modo in cui una fotografia oun disegno somiglia a un cesto. Potete anche descriverla dicendo, per esempio: "È una storia diffusa in tutta Europa, in cui i personaggi sono unanimale e vari esseri umani".

Ma mancherebbe ancora qualcosa a queste rappresentazioni diCappuccetto Rosso: la registrazione della trascrizione rappresenta in sestessa solo una forma acustica, mentre la descrizione proposta ci dice pocosul contenuto della storia, che, dopo tutto, è la storia. Si può sostenere chetutto quello di cui avete bisogno

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è di descrivere la favola più dettagliatamente. Potete dire per esempio: "Cappuccetto Rosso è una favola diffusa in tutta Europache racconta di una bambina che viene mandata dalla madre a  portare un cesto di viveri alla nonna. Sul cammino incontra unlupo...". Così facendo, potete ricostruire il contenuto della storiaquanto precisamente volete; ma attenzione: invece di descriverela storia, la state raccontando di nuovo. Potete produrre un og-getto che rappresenta la storia, non perché dice qualcosa di verodi essa, ma perché le assomiglia: in altre parole, potete produrre

un'altra versione della storia.Generalizziamo: per rappresentare il contenuto di una rap-

  presentazione, usiamo un'altra rappresentazione con un conte-nuto simile. Non descriviamo il contenuto della rappresentazio-ne lo parafrasiamo, lo traduciamo, lo riassumiamo, lo svilup-  patilo: insomma, lo interpretiamo.1 Un'interpretazione è una rap-  presentazione di una rappresentazione in virtù di una somi-glianza di contenuto. In questo senso, una rappresentazione  pubblica, il cui contenuto assomiglia alla rappresentazionementale che serve a comunicare, è un'interpretazione di quellarappresentazione mentale. Di converso, la rappresentazionementale che risulta dalla comprensione di una rappresentazione  pubblica ne è un'interpretazione. Il processo di comunicazione può essere scomposto in due processi di interpretazione: unodal mentale al pubblico, l'altro dal pubblico al mentale.

  Nella nostra vita mentale le interpretazioni sono comuni co-me le descrizioni; sono una forma di rappresentazione prodotta

e compresa da tutti. Esprimersi o comprendere le espressioni dialtre persone è, implicitamente, un atto di interpretazione. Pro-duciamo interpretazioni anche quando rispondiamo a domandecome: Che cosa ha detto? Che cosa pensa? Che cosa vogliono?Pe r rispondere, rappresentiamo il contenuto delle frasi, dei pen-sieri o delle intenzioni attraverso frasi di contenuto simile.

Lo studio antropologico delle rappresentazioni culturali non  può ovviamente prescindere dai loro contenuti; di conseguenza,che ci piaccia o no, il lavoro dell'antropologo è in gran parte in-terpretativo. Proprio perché l'interpretazione è basata su unacapacità alquanto comune e non su qualche tecnica professio-nale sofisticata, la maggior parte degli antropologi ha prodottointerpretazioni proprio come il Monsieur Jourdain di Molière  produceva prosa: senza essere coscienti di farlo, o almeno senza

rifletterci troppo.

1 Sulla distinzione tra interpretazione e descrizione si vedano Sperber 1982, Clip. 1, eSperber e Wilson 1986, cap. 4.

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 Nella misura in cui l'interpretazione riguarda singoli pensieri o singole  parole, il grado di libertà che l'interprete può concedersi può esseremanifesto e non provocare problemi. Con una frase pronunciata in tonosarcastico mi comunicate quello che ha detto il Primo ministro nellaconferenza stampa; per me non è difficile comprendere che, se l'idea è delPrimo ministro, la concisione e il sarcasmo sono vostri. Allo stesso modo, iresoconti antropologici comuni di singole parole e singoli pensieri sono,abbastanza spesso, facili da comprendere e da accettare (se sono statiformulati esattamente e, anche in questo caso, è indispensabile che latraduzione sia stata accurata).

In realtà, in antropologia ciò che viene interpretato è spesso unarappresentazione collettiva attribuita a un intero gruppo sociale ("Gli Xcredono che..."), vale a dire qualcosa che non è stato mai pensato, oespresso, da nessun individuo del gruppo. Non c'è né una chiara spiegazionedettata dal senso comune di quello che può essere una rappresentazionecollettiva di questo tipo né un modo semplice per controllare la veridicitàdel resoconto. La mancanza di una metodologia chiara rende difficilevalutare, e quindi sfruttare, queste interpretazioni. Ciononostante, nellespiegazioni antropologiche esse rivestono un ruolo importante, e, comevedremo, a volte vengono presentate come spiegazioni definitive.

Ecco un esempio. La scena, riportata dall'antropologo francese Patrick Menget, ha luogo tra i Txikao del Brasile.

Alla fine di un pomeriggio piovoso, Opote tornò a casa con un bel pescematrinchao che aveva catturato nelle sue reti. Lo depose senza dire unaparola accanto a Tubia, uno dei quattro capi famiglia della sua casa. Tubialo pulì e lo mise ad affumicare. Ne mangiò fino a quando fece notte, da solo,a piccoli bocconi, sotto gli occhi interessati degli altri abitanti della casa.Nessun altro toccò il matrinchao né mostrò il desiderio di mangiarne un po',anche se la fame era dovunque e la carne del matrinchao è tra le piùprelibate. (Menget 1979, p. 193)

Fin qui si tratta essenzialmente di una descrizione comune: ogni fraseesprime una proposizione che l'antropologo presenta come vera. Lasituazione descritta, in realtà, è piuttosto strana: "Perché," si chiede Menget,"questa astensione generale?". E risponde così:

Il pescatore Opote, possessore del potere della pesca, non poteva consumarela preda senza il rischio di danneggiare il proprio potere. Gli altri capifamiglia evitavano la carne del matrinchao per paura di mettere in pericolola salute e la vita dei loro bambini, o la propria salute. Dato che le moglistavano allattando, dovevano

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astenersi per lo stesso motivo. I bambini, infine, avrebbero assor-bito lo spirito particolarmente pericoloso di quella specie. ( Ibidem)

Questa volta l'antropologo - che non crede nella magia o ne-gli spirili - non sta presentando come verità il fatto che Opotecorra il rischio di danneggiare il proprio potere, o i bambini diassorbire uno spirito particolarmente pericoloso. Egli presentaqueste frasi come simili nel contenuto alle credenze che motiva-zioni l'astinenza della gente di Opote. Le sue frasi sono interpreta-zioni, e non sono più difficili da comprendere né più sospette diquelle che usiamo in continuazione per parlare l'uno dell'altro.

Lo scopo ultimo dell'antropologo non è tuttavia di descrivere

eventi particolari. Nel riportare l'aneddoto del matrinchao diOpote, per esempio, scopo di Menget era di illustrare alcune ipo-tesi sulla 'couvade', prima tra i Txikao stessi, poi tra gli indiani su-damericani e infine sulla couvade in generale. Come si sa, nellaletteratura antropologica il termine 'couvade' indica un insiemedi precauzioni che un uomo deve prendere durante e subito dopola nascita di un figlio (per esempio, riposare, stare sdraiati, sotto-  porsi si a restrizioni alimentari), del tutto simili a quelle imposte,'più comprensibilmente, alla madre del bambino (si veda Rivière1974). Menget propone un'analisi sottile delle più rilevanti visionitxikao sulla vita e la sua trasmissione, e conclude:

Ogni cosa accade come se ci fossero due principi antagonisti chegovernano i processi della vita [...] un principio forte, legato al san-gue, al grasso, alle carni ricche e alla fermentazione risulta dalla

trasformazione somatica costante di sostanze più deboli, l'acqua, illatte, lo sperma, la farina, le carni magre. Ma, inversamente, il cor-po umano, con ritmi che dipendono da età, sesso e condizione,anabolizza le sostanze forti e ne neutralizza il pericolo.| . . . ] Nella couvade, l'intero insieme di tabù occupazionali, alimen-tari e sessuali arriva alla fine a impedire sia un eccesso di sostanzeforti, la cui mancata assimilazione porta a malattie di gonfiore, siauna perdita di sostanze deboli somatizzate. [...] La creazione di unnuovo essere umano attiva l'intero processo universale di trasfor-mazione delle sostanze, ma anche la separazione di una parte dellasostanza somatizzata dei genitori e l'iniziazione di un ciclo indivi-duale. (Menget 1979, pp. 202-203)

Ancora una volta, l'antropologo sta interpretando: non cre-de, né intende affermare che "il corpo umano anabolizza delle

sostanze", "la cui mancata assimilazione porta a malattie di gon-fiore". Egli presenta queste formulazioni come simili nel conte-nuto alle rappresentazioni culturali che sottostanno alle prati-che della couvade txikao.

D'altronde, mentre è abbastanza facile immaginarsi Opote

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che pensa o che dice, grosso modo negli stessi termini, che non puòconsumare il pesce che ha preso senza danneggiare il proprio potere, èdifficile immaginare i pensieri o le frasi txikao riguardanti la"trasformazione somatica costante di sostanze deboli" o la "anabolizzazionedelle sostanze forti". La somiglianza di contenuto tra l'interpretazione e lerappresentazioni interpretate è manifestamente più debole qui che nel casodelle interpretazioni comuni di pensieri o frasi individuali, e il grado di so-miglianza è difficile o addirittura impossibile da valutare. (Quello che miinteressa non è il lavoro di un singolo antropologo: al contrario, ho decisodi discutere l'esempio di Menget perché lo giudico un buon esempio dellamigliore antropologia contemporanea. Ciò che è interessante sono i limitiinerenti all'approccio interpretativo alle rappresentazioni culturali.)

Un antropologo deve affrontare una grande varietà di comportamentiche progressivamente arriva a comprendere individuando le intenzionisottostanti: ossia diventando capace di concettualizzare tali comportamenticome azioni. In particolare, egli impara a discernere le intenzioni chegovernano gli atti linguistici, o, in altri termini, a comprendere quello che isuoi interlocutori vogliono dire.

Le intenzioni così comprese richiedono una comprensione ulteriore, più  profonda; poniamo il caso che si accetti che "gli altri capi famigliaevitavano la carne del matrinchao per paura di mettere in pericolo la salutee la vita dei loro bambini, o la propria salute". Ma in che modo questosarebbe un mezzo per raggiungere tali fini? Comprendere meglio leintenzioni significa cogliere come potrebbero essere razionali, o, in altre parole, vedere come potrebbero derivare da desideri e credenze sottostanti.Se, per i Txikao, la carne del matrìnchao è 'forte' e pericolosa per la salute,

se padre e figlio sono la stessa sostanza, una sostanza che, contrariamentealle apparenze, non si divide in due esseri indipendenti ancora per un certo  periodo dopo la nascita, allora cominciamo a comprendere perché ilcomportamento della gente di Opote potrebbe essere razionale. Per capirnedi più, dovremmo stabilire la razionalità delle credenze sottostanti, ossianon solo la loro mutua coerenza, ma anche la loro compatibilità conl'esperienza dei Txikao.

 Nel nostro sforzo quotidiano per capire gli altri, ci accontentiamo diinterpretazioni parziali e speculative (più gli altri sono differenti da noi, piùle interpretazioni sono speculative) perché, benché parziali e speculative,esse ci aiutano - come individui, come popoli - a capirci gli uni con gli altri.Gli antropologi hanno contribuito a una maggiore comprensione e quindi auna maggiore tolleranza della diversità culturale. Per fare questo

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non si sono basati su una teoria scientifica o su metodi rigorosi,che non sono parte del corredo antropologico standard. Data ladisianza culturale, gli obiettivi di comprensione che gli antropo-logi si pongono sono particolarmente ardui e ambiziosi, ma laforma di comprensione è del tutto comune: essi interpretano i

comportamenti - quelli verbali in particolare - attribuendo cre-denze, desideri e intenzioni agli agenti individuali o collettivi, inmodo tale che tali comportamenti sembrino razionali.

Si può fare l'ipotesi che la migliore interpretazione sia la piùfedele , ossia quella dal contenuto più simile a quello della rap- presentazione interpretata. Se si riflette, però, le cose non sono

così semplici. Se il suo scopo fosse quello di massimizzare la fe-deltà, l'antropologo pubblicherebbe solo le traduzioni delle pa-role davvero pronunciate. La maggior parte delle frasi ascoltate

dal l'antropologo hanno invece senso solo nel contesto moltospecifico in cui sono state pronunciate; sono basate su rappre-

sentazioni culturali condivise che le frasi stesse non esprimonodirettamente.

L'antropologo deve, prima di tutto per se stesso, andare al dilà della mera traduzione: solo allora può sperare di comprende-re ciò che ascolta, e quindi di essere davvero capace di tradurlo:deve speculare, sintetizzare, riconcettualizzare. Le interpreta-zioni che l'antropologo costruisce nella sua mente e nei suoi ap-  punti sono troppo complesse e dettagliate per interessare i suoifuturi lettori; inoltre solitamente sono formulate in un gergo

idiosincratico in cui si mescolano liberamente termini nativi,termini tecnici usati ad hoc e metafore personali. Più tardi,quando scriverà per un pubblico che dedicherà solo qualche oraa uno studio al quale egli ha consacrato anni, l'antropologo do-vrà sintetizzare le proprie sintesi, ritradurre il proprio gergo, e,Inevitabilmente, allontanarsi ancor di più dai dettagli che i suoiospiti gli trasmettono. Per essere più pertinente, dovrà esseremeno fedele.

Ancora, la somiglianza di contenuto varia al variare del pun-to di vista e del contesto. Dire, per esempio, che per i Txikao ilcorpo umano anabolizza sostanze forti è suggestivo e non fuor-viante nel contesto della discussione di Menget: in quel contestola nozione di anabolizzazione è presa metaforicamente; in altre  parole, la somiglianza tra la nozione chimica di anabolizzazione

e la nozione txikao che essa interpreta può essere considerata  pertinente, ma molto restrittiva. D'altra parte, la stessa afferma-zione interpretativa sarebbe fuorviante nel contesto di uno stu-dio comparativo delle visioni culturali della chimica della dige-stione, dove saremmo portati da considerazioni di pertinenza a

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 prendere la nozione di anabolizzazione in un senso molto più letterale.Il carattere intuitivo dell'interpretazione, dipendente dal contesto, non

implica che tutte le interpretazioni siano buone o cattive allo stesso modo,ma implica che i nostri criteri di valutazione siano essi stessi in parteintuitivi e di una validità intersoggettiva limitata. Alcune delleinterpretazioni immaginabili sarebbero riconosciute da tutti come cattive: per esempio, che il vero contenuto del dogma della Trinità è una ricetta per la mousse al cioccolato. Ma può capitare che interpretazioni signi-ficativamente differenti della stessa rappresentazione sembrino ugualmente plausibili. I dati interpretati da Menget in una maniera 'intellettualistica' (per esempio come se riguardassero uno sforzo di spiegazione del mondo) possono essere avvicinati con altrettanta sottigliezza in una prospettiva psicoanalitica. Davanti ai due tipi di interpretazione, i lettori sceglierebberosicuramente secondo le loro preferenze intellettuali. E, facendo così,agirebbero in maniera razionale.

Ma qui sta il problema: se è razionale preferire un'interpretazione particolare a un'altra sulla base di preferenze intellettuali precedenti, èdifficile - se non impossibile - convalidare o confutare una teoria generalesulla base di un'interpretazione particolare.

L'interpretazione ci permette una forma di comprensione di cui non possiamo fare a meno nella vita di tutti i giorni: la comprensione dellerappresentazioni, mentali e pubbliche, e quindi la comprensione degli altri.  Nello studio scientifico delle rappresentazioni, l'interpretazione è unostrumento indispensabile così come lo è nella vita quotidiana. Ma possiamousare come strumento scientifico una forma intuitiva, in parte soggettiva, diinterpretazione?

 Nessun dato è completamente certo, e si può sostenere che non ci sianodati davvero indipendenti dalla teoria. Nonostante questo, il requisitofondamentale per l'uso scientifico di qualsiasi dato non è che esso debbaessere assolutamente certo e indipendente dalla teoria, ma solo che sia piùaffidabile della teoria che serve a confermare o a confutare, e quindiindipendente da queste teorie particolari (o da qualsiasi teoria ugualmentecontroversa).

Alcune interpretazioni sono più affidabili di altre e più accettabiliintersoggettivamente. Se queste interpretazioni dipendono in qualche mododa 'teorie' della comprensione umana, si tratta di teorie tacite di cui gliesseri umani in generale, e gli antropologi in particolare, non sonocoscienti, e che quindi non tendono a mettere in questione. Saremmodunque tutti disposti, immagino, a credere a Menget e ad accettare la suaaffermazione che

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Opote non poteva mangiare quello che pescava senza il rischio didanneggiare il proprio potere della pesca almeno come un'inter-  pretazione ragionevolmente approssimata di parte di ciò cheOpote stesso o altri attorno a lui potrebbero aver detto. Ossia,noi ci fidiamo della capacità di Menget di comprendere e ognitanto anticipare ciò che un singolo Txikao può avergli detto inun'occasione specifica, così come ci fideremmo di noi stessi se cifossimo trovati al posto di Menget, una volta appreso il linguag- gio dei Txikao, trascorso un po' di tempo fra di loro, e così via. Leinterpretazioni piatte e letterali di frasi particolari e di intenzioni

comuni fatte da interpreti che conoscono la lingua e la popola-

zione non sono totalmente affidabili o indipendenti dalla teoria,ma lasciano poco spazio alla controversia.Le interpretazioni del senso comune di frasi particolari e di

altri comportamenti intelligibili sono abbastanza affidabili per essere usate, con cautela metodologica, come dati fondamentali  per la teorizzazione antropologica. Tali interpretazioni sonocioè significativamente più affidabili delle teorie che vogliamoverificare attraverso di esse. Da un altro lato, le forme speculati-ve di interpretazione, come le interpretazioni delle credenze chei credenti stessi non sono capaci di articolare, o le interpretazio-ni delle 'mentalità collettive', non possono costituire dei dati no-nostante i loro meriti e la loro attrattiva.

La questione allora è: può la teoria antropologica basarsi solosul primo tipo di interpretazione, più affidabile, ma anche più mo-

desto? La risposta dipende da quale tipo di teoria si sta cercando.

-Spiegare le rappresentazioni culturali-

Si può intendere la parola 'spiegare' in due sensi. Nel primosenso, spiegare una rappresentazione culturale - per esempioun testo sacro - significa renderla intelligibile, ossia interpretar-la. La sezione precedente trattava di tali spiegazioni interpreta-tive. In un secondo senso, il solo che sarà affrontato in questasezione, spiegare le rappresentazioni culturali ha uno scopo es-senzialmente teoretico: l'identificazione del meccanismo gene-rale che è in funzione. La maggior parte degli antropologi, il cuiinteresse principale è l'etnografia, non si pone questo obiettivoteorico, che è perseguito solo in maniera asistematica e indivi-

duale. Non esiste nemmeno un punto di vista principale - figu-riamoci un accordo generale - su cosa si debba considerare co-me un'ipotesi esplicativa particolare in antropologia.

Semplificando molto (con tante scuse per l'ingiustizia chequesta semplificazione comporta), distinguerò in antropologia

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quattro tipi di spiegazioni, o di pretese spiegazioni, tre delle quali diffuse: lageneralizzazione interpretativa, la spiegazione strutturalista, la spiegazionefunzionalista; e un tipo più raro di spiegazione, di cui io difendo unaversione: i modelli epidemiologici.

Generalizzazioni interpretative

Sembra che molti antropologi pensino che un - se non il - modo correttodi arrivare a ipotesi teoriche consista nel prendere l'interpretazione diqualche fenomeno particolare di una data cultura e generalizzarlo progressivamente a tutti i tipi di fenomeni in tutte le culture, tenendo contodi dati sempre più diversi.

L'idea stessa di couvade, per esempio, è il risultato di una sintesiinterpretativa di comportamenti molto disparati. Le varie teorie dellacouvade differiscono, da un lato, rispetto al modo di sintetizzare i dati e,dall'altro, rispetto agli altri fenomeni che considerano legati in manieracruciale alla couvade. Sulla base degli esempi europei, la couvade fu alungo considerata come un modo simbolico - più precisamente iperbolico -con cui il padre reclamava alcuni vantaggi della maternità. Scrive per esempio Mary Douglas: "il marito impegnato nella couvade sta dicendo:'Guardatemi, ho crampi e contrazioni più di lei! Non prova questo che sonoil padre del bambino?'. È una dimostrazione primitiva di paternità" (1975, p.75).

Claude Lévi-Strauss propone un'altra interpretazione generale dellacouvade, basata su esempi amerindi:

sarebbe falso dire che l'uomo vi assume la parte della puerpera. A voltemarito e moglie debbono soggiacere alle stesse preoccupazioni perché essifanno tutt'uno col loro bambino che, nelle settimane o nei mesi susseguentialla nascita, è esposto a gravi pericoli. A volte, come spesso avviene inAmerica del Sud, il marito è obbligato a precauzioni ancora maggiori dellamoglie, perché, date le teorie indigene sulla concezione e la gestazione, èparticolarmente la sua persona a confondersi con quella del figlio. In en-trambe le ipotesi, il padre non fa la parte della madre, ma quella delbambino. (Lévi-Strauss 1962b, pp. 258-259; tr. it. p. 2 1 5 )

  Nel suo saggio Patrick Menget, che sviluppa la proposta di Lévi-Strauss, conclude in maniera più astratta (astrazione amplificata dall'effettodella citazione fuori contesto):

La forza della couvade sta nell'essere l'articolazione di una logica di qualitànaturali dell'essere e di una problematica di successione, e di significare,

nella sua progressività e nella sua durata l'irreversibilità del tempo umano.(Menget 1979, p. 263)

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Questo tipo di interpretazioni antropologiche solleva due que-stioni. Primo, che cosa devono realmente rappresentare tali in-terpretazioni? Si potrebbe dire che rappresentino il significatoletterale dell'istituzione che interpretano. Ma qualsiasi veicolo disignificato, che sia un testo, un gesto, un rituale, non veicola il si-  gificato stesso, ma il significato per qualcuno. Per chi, dunque,

l'istituzione in questione ha il presunto significato? Sicuramente  per le persone che vi partecipano, per esempio Opote e i suoicompagni. Ma ci sono tutte le ragioni per pensare che i parteci-  panti i abbiano sulla loro istituzione una prospettiva più ricca, piùvaria e più legata a considerazioni locali di quanto un'interpreta-

zione transculturale potrà mai sperare di esprimere. Nella mi-gliore delle ipotesi, allora, le interpretazioni generali sono un ti-  po di condensazione decontestualizzata di idee locali molto di-verse: aumento di generalità significa perdita di fedeltà.

La seconda questione sollevata da queste generalizzazioni in-terpretative è la seguente: in che senso esse spiegano qualcosa?Perché e per chi l'esecuzione di un facile rito da parte del maritodi una donna che partorisce servirebbe da "dimostrazione di pa-ternità"? In che modo il fatto che il padre reciti il ruolo del figlio  protegge - o sembra proteggere - il figlio da gravi pericoli? Chi ac-cetterebbe grandi privazioni al fine di "significare [...] l'irreversi-  bilità del tempo umano"? Un significato non è una causa; e l'attri-  buzione di un significato non è una spiegazione causale. (Natu-ralmente può accadere che l'attribuzione di significato a un com-

  portamento riempia un vuoto in una spiegazione causale che è al-trimenti soddisfacente, ma non è il nostro caso.)Le generalizzazioni interpretative non spiegano nulla e non

sono, in senso stretto, ipotesi teoriche: sono modelli che posso-n essere selezionati, rifiutati e modificati a piacere al fine diCostruire interpretazioni dei fenomeni locali. A questo scopo, esolo a questo, possono essere utili.

Spiegazioni strutturaliste

Le spiegazioni strutturaliste cercano di mostrare che l'estre-una diversità delle rappresentazioni culturali può risultare o davariarazioni di un piccolo numero di temi sottostanti, o da variecombinazioni di un repertorio finito di elementi, o da trasfor-mazioni regolari di strutture sottostanti semplici.

Le analisi strutturali partono da generalizzazioni interpreta-tive e cercano di andare oltre a quelle. Che l'analisi strutturale  poggi su generalizzazioni interpretative è particolarmente evi-dente nel lavoro di uno dei fondatori del genere, Georges Dumé-zil (si veda per esempio Dumézil 1968). Dumézil cercò di mo-

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strare che i miti e i rituali degli Indoeuropei sono variazioni dello stessomodello soggiacente: una tripartizione della vita sociale in tre 'funzioni':sovranità, guerra e produzione. Il modello tri-funzionale è, ovviamente, unageneralizzazione interpretativa, ma Dumézil lo elaborò in maniera propriamente strutturalista. Egli cercò di mostrare come questo modello diaorigine a diversi sviluppi strutturali a seconda del tipo di fenomeno culturalein questione (pantheon, miti, epica, riti, ecc.) e della particolare cultura. Noncercò una spiegazione di questo modello comune e dei suoi vari sviluppiculturali nell'interpretazione, ma nella storia, ponendo le basi dellalinguistica storica.

  Nello stile dell'analisi culturale di Dumézil, così come nelle

generalizzazioni interpretative standard, le sole relazioni trarappresentazioni ritenute rilevanti sono quelle di somiglianza: duerappresentazioni che si somigliano possono essere interpretate tramite unaterza che astrae dalle loro differenze. Lévi- Strauss (1958, 1973) ampliò ildominio dell'analisi strutturale considerando le differenze sistematiche nonmeno rilevanti delle somiglianze.2 Per esempio, sostenne che un mito puòderivare da un altro mito non solo per imitazione, ma anche per inversionesistematica di alcune delle sue caratteristiche: se, per esempio, l'eroe del primo mito è un gigante, l'eroe del secondo può essere un folletto; se il primo è un assassino, l'altro può essere un guaritore, e così via. Si puòquindi scoprire una rete di corrispondenze più ricche delle semplicirelazioni di somiglianza tra rappresentazioni: sia tra rappresentazioni dellostesso tipo - i miti - sia tra tipi diversi di rappresentazioni - i miti e i rituali, per esempio.

Menget adotta una prospettiva à la Lévi-Strauss quando cerca dimettere in relazione la couvade con la proibizione dell'incesto. La couvade,secondo la sua interpretazione, esprime una separazione progressiva dellasostanza del bambino da quella dei suoi genitori. La proibizione dell'incestoimpedisce a un uomo e a una donna che provengono dagli stessi genitori dirifondere una sostanza che era stata separata attraverso la couvade.

Esiste sia una relazione di continuità tra la couvade e il divieto dell'incesto,visto che quest'ultimo tiene separato ciò che la prima ha separato dallasostanza comune, sia una complementarità funzionale, nella misura in cui lacouvade regola una comunicazione all'interno del gruppo sociale chepermette la sua diversificazione, e

2 Per una discussione dell'approccio di Dumézil e un confronto con Lévi- Strauss, siveda Smith e Sperber 1971.

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la proibizione dell'incesto ne stabilisce la comunicazione esterna.(Menget 1979, p. 208)

Un'analisi strutturale di questo tipo non spiega la couvade: ma, se la siaccetta, essa modifica l'oggetto stesso della spiegazione . L'explanandumnon è più semplicemente la couvade; è un complesso di rappresentazioni edi pratiche che hanno a che fa- re con il meccanismo della riproduzione  biologica (così com'è inteso dai Txikao), un complesso di cuil'antropologo cerca di stabilire la coerenza, nonostante il suo carattereapparentemente eteroclito.

L'analisi strutturale solleva due problemi principali, uno metodologico,l'altro teoretico. Il problema metodologico è il seguente: per stabilire

relazioni strutturali tra rappresentazioni, l'antropologo le interpreta. Lesomiglianze e le differenze saranno individuate fra le interpretazioniottenute, e non tra i dati osservati o registrati. Ora, con un pizzico diingegnosità interpretativa, qualsiasi coppia di oggetti complessi può esseremessa in questo tipo di relazione strutturale. Si potrebbe mostrare, per esempio, che Amleto e Cappuccetto Rosso stiano in una relazione di'inversione strutturale':

Questi divertissement non invalidano ovviamente l'analisi strutturale,ma ne illustrano i limiti: l'affidabilità dell'analisi non può essere maggioredi quella delle interpretazioni che utilizza. E la realtà è che gli

strutturalisti, come tutti gli altri antropologi, praticano l'interpretazioneguidati essenzialmente dalla loro intuizione, senza nessuna metodologiaesplicita. Anche le intuizioni dell'interprete sono guidate dagli scopidell'analisi strutturale, con un evidente rischio di circolarità e con mezzi dicontrollo meno evidenti.

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Il problema teorico posto dall'analisi strutturale è il seguente: in chesenso essa costituisce una spiegazione dei fenomeni culturali? Alcunidifensori dello strutturalismo vedono nel proprio approccio semplicementeun modo per ordinare i dati di cui dispongono, ossia un modo per classificare più che per spiegare. Dumézil combinava l'analisi strutturalecon la spiegazione storica. Lévi-Strauss combina, in un modo piùcomplicato, l'analisi strutturale con un tipo di spiegazione geneticaessenzialmente psicologico: le strutture svelate dall'analisi strutturale sono per lui il prodotto della mente umana che ha la tendenza a riempire lestrutture astratte di esperienze concrete ed esplorare le possibili variazionidi tali strutture.

Per esempio, un dato gruppo culturale si serve di rappresentazioni di  personaggi animali per mettere in scena, in un mito, alcuni contrasticoncettuali fondamentali: tra natura e cultura, consanguineità e affinità, vitae morte. Un gruppo vicino può trasformare il mito, rivoltando il valore dialcuni personaggi e quindi simbolizzando, al di là del mito, la differenza delgruppo rispetto ai vicini da cui il mito è stato adottato. Le trasformazioni progressive del mito da un gruppo all'altro possono renderlo irriconoscibile;ma il carattere delle trasformazioni permette all'analisi strutturale di metterein evidenza le strutture comuni soggiacenti che, in ultima analisi, devonoessere considerate le strutture della mente umana. Lévi-Strauss non ha quasimai cercato di mettere in relazione le sue ricerche con quelle della psicologia contemporanea. I meccanismi mentali che dovrebbero generarele rappresentazioni culturali sono postulati, non descritti.

Più in generale, il problema teorico sollevato dall'analisi strutturale siriduce a questo: gli oggetti complessi, come i fenomeni culturali, hanno

varie proprietà, la maggior parte delle quali sono epifenomeniche, ossiadipendono da proprietà fondamentali del fenomeno ma non sono tra queste.In particolare, esse non rivestono alcun ruolo causale nell'emergenza e nellosviluppo del fenomeno e non sono, quindi, esplicative. L'analisi strutturalemette in evidenza alcune proprietà sistematiche dei fenomeni, ma non permette di distinguere tra proprietà epifenomeniche e strutturali. Insomma,l'analisi strutturale non spiega: al massimo aiuta a capire ciò che ha bisognodi spiegazione.

Spiegazioni funzionaliste

Mostrare che un fenomeno culturale ha effetti benefici per un grupposociale è stata la forma di 'spiegazione' preferita in antropologia. Le analisifunzionaliste si distinguono a seconda del tipo di effetto benefico

(biologico, psicologico, sociale) che

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si vuole accentuare. Nella versione riveduta e corretta dell'analisilunzionalista costituita dal marxismo (si veda Bloch 1983 per unarassegna), per comprendere la dinamica delle società si tiene conto anchedegli effetti negativi e delle disfunzioni.

Le analisi funzionaliste sono state particolarmente feconde nellescienze sociali. Ciononostante, esse si scontrano con due obiezioni, una, ben nota, che concerne il potere esplicativo, l'altra, meno conosciuta, cheriguarda il loro uso delle interpretazioni.

Può la descrizione di un fenomeno culturale fornire una spiegazione per questo fenomeno? In linea di principio sì, ma con due riserve: primo, glieffetti del fenomeno non possono mai spiegare il suo emergere; secondo, per mostrare come gli effetti del fenomeno ne spieghino lo sviluppo, oalmeno la persistenza, bisogna stabilire l'esistenza di qualche meccanismodi feedback.

Supponiamo che una certa istituzione culturale - la couvade, per esempio - abbia effetti benefici sui gruppi che l'hanno adottata. Perchéquesto aiuti a spiegare la presenza di alcune forme di couvade in così tanteculture, bisogna mostrare che questi effetti benefici aumentanosignificativamente le possibilità di sopravvivenza dei gruppi culturali chesono, per così dire, i 'portatori' di questa istituzione, e quindi le possibilitàche tale istituzione persista. L'onere della prova è ovviamente rimandato aidifensori dell'analisi strutturale.

In pratica, la maggior parte dei funzionalisti si accontenta di mostrare,spesso con grande ingegnosità, che le istituzioni che essi studiano hannomolti effetti benefici. L'esistenza di un meccanismo esplicativo a ritrosonon viene mai stabilita, e raramente discussa. Immaginiamo, per esempio,

un funzionalista che prenda come punto di partenza un'interpretazione dellacouvade simile a quella proposta da Mary Douglas. Egli potrebbe facil-mente sostenere che la couvade rafforza i legami familiari, in particolarequello del padre con i suoi figli, e quindi aumenta la coesione sociale. Macome farebbe a passare da questo a un meccanismo esplicativo a ritroso?Inoltre, non sarebbe troppo difficile stabilire che molte istituzioni, inclusala couvade, hanno effetti nocivi: le privazioni alimentari, come quellesubite da Opote e dai suoi compagni, possono in alcuni casi essere dannose.

La maggior parte delle istituzioni culturali non ha effetto sulle possibilità di sopravvivenza dei gruppi in questione, almeno non tanto da poterne spiegare la persistenza. In altre parole, per la maggior parte delleistituzioni, una descrizione dei loro poteri funzionali non è esplicativa.Anche quando tale descrizione spiega un certo fenomeno, lo fa in manieramolto limitata: il

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meccanismo di feedback non spiega né l'introduzione delle forme culturaliattraverso l'innovazione o l'adozione, né la trasformazione delle formeculturali esistenti.

Un'altra debolezza, meno notata, dell'approccio funzionali- sta è cheesso non fornisce alcun principio specifico per l'identificazione di tipi difenomeni culturali, ma si basa in modo totalmente acritico su un approcciointerpretativo.3

Quali sono i criteri secondo i quali pratiche differenti e locali vengonoconsiderate come casi particolari dello stesso tipo generale, la couvade, untipo che gli antropologi devono allora cercare di descrivere e interpretare?L'identificazione dei tipi non è mai basata sulla loro funzione: per esempio,

nessuno sosterrebbe che le diverse pratiche che hanno la 'funzione' dirafforzare i legami tra padre e figli debbano costituire un tipo antropologicodistinto e omogeneo. L'identificazione dei tipi non è basata sulcomportamento: alcuni comportamenti possono valere come couvade in unasocietà e come nevrosi individuale in un'altra. In realtà, quali che siano lasua funzione e le sue caratteristiche fondamentali, una pratica ècategorizzata come un caso particolare di couvade solo in funzione del punto di vista degli attori. Ma i punti di vista sono locali e molto diversianche nella stessa cultura. In conclusione, l'identificazione di un tipoculturale è basata sull'interpretazione antropologica sintetica di un insiemedi diverse interpretazioni locali. La couvade è così definita grazie a unageneralizzazione interpretativa: le pratiche locali che possono essereinterpretate come precauzioni rituali che un padre deve prendere prima odopo la nascita del figlio vengono classificate come couvade. Come ho

sostenuto prima, il prezzo di questo uso interpretativo è una grossa perditadi fedeltà: la concezione di un rituale, quella di una precauzioneappropriata, cosa significa che una pratica sia imposta a qualcuno, che èconsiderato un padre, e così via, variano da cultura a cultura. Al livello digeneralità adottato dagli antropologi nel loro lavoro 'teorico', questeconcezioni locali possono essere interpretate in un'infinità di modi. Nellatradizione antropologica restano poche interpretazioni; la maggior partedelle variazioni locali e le altre possibilità interpretative vengonosemplicemente ignorate.

La perdita di fedeltà rispetto alle rappresentazioni locali è

3 La debolezza delle tipologie funzionaliste è stata discussa da Leach 1961 e, più afondo, da Needham 1971, 1972. Ho sostenuto che queste tipologie vaghe e non definitesono basate su criteri interpretativi invece che descrittivi; si veda il capitolo 1.

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compensata da un aumento di pertinenza? Più specificamente, i tipi definitiattraverso le generalizzazioni interpretative sono utili per il lavoro teorico?  Non vedo ragioni per pensare che lo siano. Perché non ci si dovrebbeaspettare che tutti i casi parti- colari di un tipo definito interpretativamentecadano sotto una spiegazione funzionale comune, specifica - o, per quelloche conta, sotto una specifica spiegazione causale? Il punto non vale solo per la couvade, ma per tutti i casi di istituzioni definite Interpretativamente,ossia per tutti i tipi di istituzioni definite in antropologia. Dal punto di vistadi una spiegazione causale, le tipologie antropologiche basate suconsiderazioni interpretative sono completamente arbitrarie.

 I modelli epidemiologici

Chiamiamo 'culturali' le rappresentazioni che sono ampiamente diffusein forma durevole in un gruppo sociale. Se è così, allora non esiste unlimite, una soglia precisa, tra le rappresentazioni culturali e quelleindividuali. Le rappresentazioni sono più o meno ampiamente diffuse edurature, e, quindi, più o meno culturali. In queste condizioni, spiegare ilcarattere culturale di alcune rappresentazioni significa rispondere alladomanda: Perché queste rappresentazioni hanno più successo di altre in una  popolazione umana? E, per rispondere, dobbiamo considerare ladistribuzione di tutte le rappresentazioni.

La spiegazione causale dei fatti culturali diventa allora una sorta diepidemiologia delle rappresentazioni. Un'epidemiologia dellerappresentazioni cercherà di spiegare i macrofenomeni culturali comel'effetto cumulativo di due tipi di micromeccanismi: i meccanismi

individuali responsabili della formazione delle rappresentazioni mentali equelli interindividuali che, attraverso alterazioni dell'ambiente, sono lacausa della trasmissione delle rappresentazioni.

Da una prospettiva epidemiologica, quello che l'antropologo chiamacouvade tra i Txikao non è altro che una catena causale ricorrente di  pensieri e comportamenti individuali. Spiegare il fenomeno, cosìconcettualizzato, significa identificare i fattori psicologici ed ecologici chefavoriscono questo concatenamento. Non sono in grado di fornire unaspiegazione epidemiologica della couvade txikao, e dubito che i datietnografici, raccolti all'interno di un quadro esplicativo molto diverso,  possano aiutare a stabilire una spiegazione di questo tipo. Vorrei peròindicare quali sono le domande sollevate da questo caso da un punto di vistaepidemiologico, e quali risposte si potrebbero cercare.

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Molto spesso si trovano rituali associati a rischi prevedibili, come lamortalità perinatale, che hanno lo scopo di proteggere da tali rischi. Da un punto di vista epidemiologico, la ricorrenza di pericoli di un certo tipo è unfattore ecologico capace di stabilizzare una pratica rituale; ogni praticaconcepita come difesa contro un tipo di pericolo ricorrente è riattualizzataregolarmente dal pericolo stesso. Ma questo dipende dalla credenza delle persone nell'efficacia del rito: non si possono spiegare pratiche come lacouvade txikao senza spiegare il fatto che esse sono considerate efficaci.

In larga misura, se i Txikao credono nell'efficacia della couvade, questodipende, generazione dopo generazione, dal fatto che sono nati in un mondoin cui la sua efficacia è data per scontata. In altre parole, questa credenza è

fondata sulla fiducia nell'autorità degli anziani. Da un punto di vistacognitivo, sarebbe però sorprendente che l'osservazione di casi sfortunatinon avesse effetti sulla forma della credenza. Assumendo che questa praticasia, in realtà, totalmente inefficace, ci si dovrebbe aspettare che la credenzanella sua efficacia si eroda progressivamente di generazione in generazione,specialmente dato il fatto che essa presenta svantaggi evidenti.

Ci sono quattro tipi di casi che, se presi in considerazione, dovrebberoindicare se una pratica è efficace o meno. 1a) La pratica è stata seguitarigorosamente, e la calamità non si è prodotta.1b) La pratica è stata seguita rigorosamente, e la calamità si è prodotta.2a) La pratica non è stata seguita rigorosamente, e la calamità

non si è prodotta. 2b) La pratica non è stata seguita rigorosamente, e lacalamità si è prodotta.

Se pensiamo a una pratica come la couvade txikao, che non ha alcuna

reale efficacia, l'esame di questi quattro tipi di casi dovrebbe, a un certo punto, convincere le persone che il tipo di calamità di cui hanno paura si produce con la stessa frequenza tanto se la pratica è seguita, quanto se nonlo è. 0, perlomeno, l'esame dei casi reali non dovrebbe costituire una provadell'efficacia della pratica. Ci sono allora due ipotesi possibili: o le personesono indifferenti alla loro esperienza, o le inferenze che ne traggono nonsono adeguate.

Si può mostrare che non solo gli esseri umani, ma anche gli animalisono capaci di valutare spontaneamente probabilità specifiche e di tenerneconto, per esempio nella ricerca del cibo. D'altronde, è anche stato mostratoche in molte situazioni le

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  probabilità sono mal comprese e tendono a essere distorte in manierasistematica.4

In generale ci sono tre motivi per pensare che risulti spontaneo dare un peso eccessivo ai casi 2b, cioè ai casi in cui il mancato rispetto della praticaè stato seguito dalla calamità. Primo: solo la sfortuna richiede sempre unaspiegazione; secondo, quando il mancato rispetto di una pratica è seguitodalla calamità, sembra esserne la causa; terzo: spiegare una calamità comese fosse provocata dal comportamento di alcune persone rende possibileattribuire delle responsabilità, e quindi dare almeno una risposta sociale auna situazione che altrimenti lascia impotenti. In queste condizioni, seguireuna pratica protegge almeno dal rischio di essere accusati di aver prodotto

una calamità. La pratica ha oggettivamente questo tipo di efficacia.La disposizione cognitiva ad assegnare spontaneamente un pesoeccessivo a casi che hanno una maggiore rilevanza nella vita di qualcuno(ma non necessariamente una maggiore rilevanza statistica) interagisce conun fattore ecologico, ossia la frequenza dei diversi tipi di casi. È probabile(ed è verificabile empiricamente) che, dato che la frequenza dei quattro tipidi casi varia con i tipi diversi di calamità, risulti più facile o più difficilevalutare adeguatamente l'efficacia o l'inefficacia delle pratiche ritualicoinvolte.

È più difficile, per esempio, sbagliarsi riguardo all'efficacia di una pratica che si pensa debba proteggere contro un rischio molto elevato. Si può quindi predire che pratiche inefficaci finalizzate a evitare una calamitàinevitabile, per esempio la morte di persone molto anziane, siano soggette auna rapida erosione cognitiva. Pratiche di questo tipo dovrebbero essere

molto più rare nelle culture umane delle pratiche inefficaci che servono aimpedire calamità con un'incidenza intermedia, come la mortalità perinatalenelle società non medicalizzate. Si può anche predire che quandol'osservanza di una pratica inefficace scende al di sotto di una certa sogliaspecifica (che è essa stessa una funzione dell'incidenza del tipo di calamitàin questione), la sua inefficacia diventa manifesta e la pratica scompare oviene radicalmente trasformata.

Le osservazioni precedenti aiutano a spiegare perché le pratiche chedovrebbero proteggere da vari tipi di calamità possono

4 I fatti pertinenti sono stati messi in rilievo nel lavoro di Daniel Kahneman e AmosTversky (si veda Kahneman et alii 1982), Gerd Gigerenzer e i suoi collaboratori, e neldibattito tra i due approcci (si vedano Gigerenzer 1991, 1993; Gigerenzer e Hoffrage1995; Kahneman e Tversky 1995)

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stabilizzarsi, anche se sono prive di efficacia. Ma come si fa a identificare ilcontenuto specifico di tali pratiche? Perché i tentativi dei Txikao di  proteggere i propri neonati consistono nell'astinenza alimentare e non incanzoni o banchetti? Questo potrebbe essere il punto di partenza degli studiinterpretativi o strutturalisti come quello di Menget, che tendono a mostrareche la couvade txikao è una parte di un insieme coerente di rappresentazioniculturali. Anche tenendo conto dell'enfatizzazione della coerenza tipicadell'antropologia interpretativa, è vero che elementi di singole culturetendono a essere altamente coerenti. Ma in sé, la coerenza è qualcosa daspiegare, non la spiegazione di qualcosa.

Ecco la proposta dell'approccio epidemiologico e cognitivo. Nel processo di trasmissione le rappresentazioni vengono trasformate; ciò nonavviene solo in maniera casuale, ma in direzione di contenuti cherichiedano minor sforzo mentale e generino un maggior numero di effetticognitivi. Questa tendenza a ottimizzare il rapporto effetto-sforzo - e quindila pertinenza delle rappresentazioni trasmesse (si veda Sperber e Wilson1986) - porta alla trasformazione progressiva delle rappresentazioni in unadata società verso contenuti pertinenti nel contesto l'uno dell'altro. Ilcontenuto particolare di una pratica come la couvade txikao sarà tanto piùstabile quanto più essa è pertinente nel contesto delle altre rappresentazioniculturali txikao. Per spiegare la couvade txikao si deve allora studiare ilcontesto particolare in cui hanno luogo le attività comunicative e cognitivetxikao, cercando di identificare i fattori che, attraverso queste attività,stabilizzano l'istituzione. L'approccio epidemiologico può quindi interagirecon l'etnografia standard, traendo conclusioni a partire da risposte giàfornite e facendo nascere nuove domande.

L'approccio epidemiologico rende gestibile il problema metodologicosollevato dal fatto che il nostro accesso al contenuto delle rappresentazioniè inevitabilmente interpretativo. La soluzione di tale problema non si trovain un'ermeneutica speciale che ci dia accesso alle rappresentazioni cheappartengono a una cultura, ma che non esistono nella testa degli individuio nell'ambiente circostante. La soluzione consiste semplicemente nelrendere più affidabile la nostra capacità ordinaria di comprendere ciò che persone come voi, Opote e io possiamo dire e pensare. Questo perché, inuna spiegazione epidemiologica, i meccanismi esplicativi sono meccanismimentali individuali e meccanismi di comunicazione interindividuali; lerappresentazioni da considerare sono quelle costruite e trasformate da questimicromeccanismi. In altre parole, le rappresentazioni pertinenti

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sono allo stesso livello concreto di quelle che lo scambio sociale quotidianoci fa interpretare.

Un altro vantaggio metodologico dell'approccio epidemiologico è difornire un principio per identificare i tipi di cose culturali per cui si devecercare una spiegazione più generale. Gli oggetti propri della teoriaantropologica sono tipi di catene causali del genere che ho descritto. Questitipi di catene causali sono individuati in termini di caratteristiche chegiocano un ruolo causale nel loro emergere e nel loro mantenersi; esse possono essere ecologiche o psicologiche: per esempio la labilità dei testiorali rispetto alla stabilità dei testi scritti è un fattore ecologico chiave per spiegare la loro rispettiva distribuzione; l'alta memo- rabilità dellenarrazioni rispetto alla bassa memorabilità delle descrizioni è un fattore psicologico chiave. Questi due fattori in- teragiscono in modo evidente, egiustificano il fatto che si considerino le narrazioni orali come un tipo psicologico proprio.

Le caratteristiche psicologiche pertinenti per determinare i I ipi di coseculturali possono includere tratti del loro contenuto, i quali possono esserecaratterizzati solo interpretativamente. Dire che varie interpretazionicondividono un tratto del contenuto significa dire che possono essereinterpretate allo stesso modo, a un certo livello e da un certo punto di vista.Ma la proprietà dell'interpretabilità comune, con tutta la sua vaghezza, può bastare, se non a descrivere, almeno a cogliere una classe di fenomenideterminati tutti da identici fattori causali.

Esiste per esempio un tipo di dato che gli antropologi raccolgonosistematicamente sul campo: le genealogie. A seconda della società e dellaclasse sociale, la lunghezza delle genealogie varia: alcuni ricordano lunghe

linee di antenati, mentre altri possono difficilmente andare al di là dellagenerazione dei loro nonni. Come imparano gli studenti del primo anno diantropologia, le relazioni riconosciute come genealogiche sono diverse inogni società, e non sono equivalenti a quelle di semplice discendenza biologica. In queste condizioni, la nozione stessa di genealogia come tipo dirappresentazione culturale è definita interpretativamente e quindi è vaga.Ciononostante è plausibile che le genealogie, in tutte le loro versioni, sianolocalmente rilevanti e quindi culturalmente stabili, in parte per ragioni uni-versali.

In una prospettiva epidemiologica, la spiegazione di un fatto culturale -ossia di una distribuzione di rappresentazioni - deve essere cercata nontanto in un macromeccanismo, ma nell'effetto combinato di moltimicromeccanismi. Quali sono i fattori che portano un individuo a esprimere

una rappresentazione

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mentale nella forma di una rappresentazione pubblica? Qualirappresentazioni mentali è probabile siano costruite dai destinatari di unarappresentazione pubblica? Quali trasformazioni di contenuto è probabileche siano generate da questo processo? Quali fattori e quali condizionirendono probabile la comunicazione ripetuta di alcune rappresentazioni?Quali proprietà, generali o contestuali, deve avere una rappresentazione per conservare un contenuto relativamente stabile nonostante le comunicazioniripetute?

Le questioni poste da un approccio epidemiologico sono difficili, maalmeno gli antropologi condividono molte di esse con gli psicologicognitivi ed è possibile che tra le due discipline emerga un'utile relazione di pertinenza reciproca. Per rispondere a queste domande, come nel caso di

tutte le domande antropologiche, le interpretazioni devono essere usatecome dati. Ma, almeno, le interpretazioni richieste da questo approccio sonodello stesso tipo di quelle che usiamo nelle nostre interazioni quotidiane.Ovviamente, anche queste interpretazioni pongono qualche problema, madobbiamo riconoscerne il valore di dato; dopotutto ci basiamo su di esse inquestioni personali che ci stanno ben più a cuore della teorizzazionescientifica.5

5 Alcuni studi di etnografia hanno messo a fuoco i micromeccanismi di trasmissioneculturale e sono di particolare interesse per l'approccio epidemiologico. Per citare solodue classici: Barth 1975; Favret-Saada 1977.

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All'epoca in cui Malinowski era studente, l'antropologia e la  psicologia costituivano campi di ricerca ben integrati: un an-tropologo, o uno psicologo, poteva tenersi al corrente di tuttoquello che avveniva nella propria disciplina. Non solo. Erano

molti coloro che conoscevano a fondo entrambi i campi: Ri-vers, Wundt, e Malinowski stesso. Tre quarti di secolo dopo, lasituazione è profondamente mutata: l'antropologia e la psicolo-gia non sono più campi di ricerca, ma famiglie di campi di ri-cerca, associazioni istituzionali di imprese scientifiche più omeno collegate. Per dire le cose come stanno, 'antropologia' e

'psicologia' designano più due dipartimenti universitari che duescienze.Gli antropologi e gli psicologi a volte mostrano interesse gli

uni nel lavoro degli altri, dibattono, cooperano. Non mi pro-  pongo di passare in rassegna queste interazioni; altri lo hannogià fatto meglio di come saprei fare io.1 Quello che vorrei pren-dere in considerazione qui è la relazione fra una preoccupazio-ne centrale in antropologia, la spiegazione causale dei fatti cul-turali, e una centrale in psicologia, lo studio dei processi con-cettuali di pensiero. Nonostante il ruolo centrale rivestito daentrambe, né la spiegazione dei fatti culturali, né la psicologiadel pensiero costituiscono discipline ben sviluppate. Si tratta diricerche a uno stadio programmatico, al più pionieristico, e lostesso vale, ovviamente, per la loro interazione.

Malinowski riteneva che i fatti culturali dovessero essere  parzialmente spiegati in termini psicologici. Questa visione èstata spesso accolta con scetticismo, o addirittura derisa, come

3. Antropologia e psicologia:verso un'epidemiologia delle rappresentazioni

1 Si vedano Levine 1973; Jahoda1982.

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se si trattasse di un errore concettuale ingenuo ed evidente; quello che trovosbagliato è il tipo di argomenti usati contro tale posizione, mentre trovoingenua l'idea che le capacità mentali umane rendano possibile la cultura manon ne determinino in alcun aspetto il contenuto e l'organizzazione.

  Non ci stiamo chiedendo se, in linea di principio, le spiegazioni psicologiche dei fatti culturali siano ammissibili. Ci stiamo chiedendo qualiconsiderazioni psicologiche siano effettivamente esplicative. Su questoaspetto, la posizione che difendo contrasta con quella di Malinowski: egli  poneva l'accento sulla psicologia delle emozioni, io su quella dellacognizione.2 Malinowski riteneva che alcune rappresentazioni culturalifossero basate su disposizioni psicologiche e rispondessero a bisogni psicologici (così come vedeva altri aspetti della cultura come risposte a  bisogni biologici). Ritengo che, più importante dei bisogni e almenoaltrettanto delle disposizioni, esista una ricettività psicologica alla cultura.

 Epidemiologia

La mente umana è suscettibile alle rappresentazioni culturali così comeil corpo lo è alle malattie. Ovviamente le malattie sono per definizionenocive mentre le rappresentazioni non lo sono, ma pensate davvero che tuttele rappresentazioni culturali siano utili, funzionali o adattive? Io non locredo. Alcune rappresentazioni sono utili, altre dannose; la maggior partenon ha probabilmente alcun effetto evidente negativo o positivo sul be-nessere individuale, del gruppo o della specie - o almeno non il tipo dieffetti che ci fornirebbero una spiegazione.

Che cosa vogliamo spiegare? Prendiamo un gruppo umano abitato dauna popolazione più numerosa di rappresentazioni; alcune di esse restano inun individuo solo per qualche secondo, altre abitano l'intero gruppo per molte generazioni. Tra questi due estremi, si trovano rappresentazioni condistribuzioni più o meno ampie. Quando parliamo di cultura ci riferiamonormalmente a rappresentazioni largamente distribuite e di lunga durata,anche se non esiste una soglia tra le rappresentazioni culturali da un lato equelle individuali dall'altro. Le rap

2 Non voglio dire che la psicologia delle emozioni non sia pertinente alla spiegazionedella cultura. Tendo a credere però che ci sia bisogno di considerevoli progressi dallato cognitivo per capire meglio il ruolo delle emozioni nella cultura. Per unadiscussione recente si vedano Lewis 1977; Schweder 1979a, 1979b, 1980; D'Andrade1981; Gibbard 1990.

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 presentazioni sono più o meno distribuite, e quindi più o meno culturali.Spiegare la cultura allora significa rispondere alla domanda: Perché alcunerappresentazioni hanno più successo di altre in una popolazione umana, perché sono più contagiose? Per rispondere, bisogna considerare in generalela distribuzione delle rappresentazioni.

Vedo quindi la spiegazione causale dei fatti culturali necessariamentenella forma di una sorta di epidemiologia delle rappresentazioni.3 In primoluogo esistono somiglianze superficiali evidenti; per esempio, unarappresentazione può essere culturale in molti modi diversi. Alcune sonotrasmesse lentamente attraverso le generazioni - sono quelle che chiamiamotradizioni e sono paragonabili alle malattie endemiche; altre - le mode,tipiche delle culture moderne - si diffondono rapidamente in un'intera popolazione e sono paragonabili alle epidemie.

Gli epidemiologi hanno costruito modelli matematici sofisticati dellatrasmissione delle malattie, ed è interessante cercare di applicarli alle varieforme di trasmissione culturale. È questa la linea di Cavalli-Sforza eFeldman (1981). Benché il loro lavoro sia di notevole interesse,specialmente data la penuria di modelli esplicativi nello studio della cultura,essi trascurano alcune differenze importanti fra la trasmissione dellemalattie e la trasmissione culturale, oltre che somiglianze più profonde tral'epidemiologia delle malattie e quella delle rappresentazioni.

La trasmissione di malattie infettive è caratterizzata da processi direplicazione di virus o batteri; solo occasionalmente, invece di unareplicazione si verifica una mutazione. I modelli epidemiologici standardrappresentano la trasmissione di malattie stabili o di malattie con variazionilimitate e prevedibili; le rappresentazioni tendono invece a essere

trasformate ogni volta che sono trasmesse. Per esempio, la vostracomprensione di quello che sto dicendo non è una riproduzione nella vostramente dei miei pensieri, ma una costruzione di pensieri vostri più o menocollegati ai miei. La replicazione o riproduzione di una rappresentazione, semai avviene, è un'eccezione. Un'epidemiologia delle rappresentazioni èquindi prima di tutto lo studio delle loro trasformazioni: essa considera lariproduzione di rappresentazioni come un caso limite di trasformazione.

L'epidemiologia delle malattie deve talora spiegare perché una malattiasi trasforma durante il processo di trasmissione. L'epidemiologia dellerappresentazioni, invece, deve spiegare perché alcune rappresentazionirestano relativamente stabili, cioè perché

3 Per un'introduzione all'epidemiologia si veda MacMahon e Pugh1970.

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diventano propriamente culturali. Di conseguenza, se e quando ci sarà bisogno di modelli matematici per la trasmissione culturale, non si tratteràdi modelli epidemiologici standard. Lo stesso vale per altri modelli  biologici della cultura, come quelli presentati da Dawkins (1976) e daLumsden e Wilson (1981).

È però possibile servirsi dell'analogia epidemiologica in una direzionediversa, più significativa. L'epidemiologia non è una scienza indipendenteche studia un livello autonomo della realtà; essa studia la distribuzione dellemalattie e le malattie sono caratterizzate dalla patologia. La distribuzionedelle malattie non può essere spiegata senza tenere conto del modo in cuiesse colpiscono l'organismo, ossia senza guardare alla patologia

individuale, e, più in generale, alla biologia individuale. A sua volta,l'epidemiologia è una fonte di dati fondamentale per la patologia.La patologia sta all'epidemiologia come la psicologia del pensiero sta

all'epidemiologia delle rappresentazioni: ritengo che l'epidemiologia dellerappresentazioni, in quanto spiegazione causale dei fatti culturali, e la psicologia del pensiero debbano stare in una relazione di sovrapposizione parziale e pertinenza reciproca.

La maggior parte delle discussioni sulla relazione fra l'antropologia e la  psicologia, al livello teorico che stiamo considerando ora, sono stateespresse in termini di riduzionismo versus antiriduzionismo, come sefossero alternative reali e le sole possibili. Per i riduzionisti, i fatti culturalisono fatti psicologici che devono essere spiegati in termini psicologici; per gli antiriduzionisti, i fatti culturali appartengono a un livello autonomo direaltà, e devono essere spiegati essenzialmente nei termini di un altro livel-

lo. Credo che in questo caso tanto il riduzionismo quanto l'anti-riduzionismo non abbiano molto senso, e che l'analogia epidemiologicafornisca un approccio molto più plausibile.

La nozione di riduzione di una teoria a un'altra è abbastanza chiara, ed èillustrata da casi famosi, come la riduzione della termodinamica allameccanica statistica (si veda Nagel 1961, cap. 11).

La nozione di riduzione di un campo di ricerca a un altro, come lariduzione dell'antropologia alla psicologia, è invece più vaga, specialmentequando nessuno dei due campi è dotato di una teoria ben stabilita. In questicasi, dire che un campo non può essere ridotto all'altro significa appoggiarsisu convinzioni a priori più che su argomenti scientifici; alcuni credononell'unità della scienza, altri nell'emergere dell'evoluzione. Le relazioni tradiversi campi sono comunque troppo varie e sottili

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  per essere analizzate semplicemente, o primariamente, in termini diriduzione o non riduzione.4

L'epidemiologia, per esempio, è lo studio ecologico dei fenomeni patologici; la sua ontologia è eclettica come quella dell'e- ecologia, non hamaggiore autonomia di quanta ne abbia que- st'ultima. Non si riduce alla patologia, ma non può essere definita o sviluppata indipendentemente daessa. È ovviamente possibile sviluppare un'epidemiologia della buona saluteo di ogni altra condizione e, come propongo io, si può sviluppareun'epidemiologia delle rappresentazioni. Ma qualsiasi 'epidemiologia' si stiaconsiderando, essa deve essere definita in relazione a qualche disciplinaaffine.

Ciò che voglio dire attraverso l'analogia epidemiologica è che la  psicologia è necessaria ma non sufficiente per la spiegazione e lacaratterizzazione dei fenomeni culturali. I fenomeni culturali sonodistribuzioni ecologiche di fenomeni psicologici, non appartengono anessun livello autonomo di realtà, come vorrebbero gli antiriduzionisti, néalla sola psicologia, come vorrebbero i riduzionisti.

L'analogia epidemiologica è allora appropriata in un altro senso. Ladistribuzione di malattie differenti - come la malaria, il cancro ai polmoni ela talassemia - segue percorsi differenti e richiede spiegazioni moltodiverse. Quindi, mentre esiste un approccio epidemiologico caratterizzatoda questioni, procedure e strumenti specifici, non esiste una teoria generaledell'epidemiologia. Ogni tipo di malattia richiede una teoria ad hoc e, anchese le analogie sono frequenti e suggestive, non esiste una limitazione di principio riguardo a quanto possano differire le une dalle altre. Per le stesse

ragioni, il progetto di una teoria generale della cultura mi sembrafuorviarne. I diversi fenomeni culturali - i riti funerari, i miti, l'artigianato ele classificazioni dei colori - possono rientrare in modelli esplicatividifferenti. Quello che l'analogia epidemiologica suggerisce è un approcciogenerale, un tipo di domande da porsi, un modo di costruire i concetti e una pluralità di scopi teorici non troppo ambiziosi.

 Rappresentazioni

La nozione di rappresentazione è spesso usata negli studi sulla cultura,ma sin dai tempi delle 'rappresentazioni colletti

4 Come si vede per esempio nei lavori recenti di filosofia della biologia; si vedanoDarden e Maull 1977; Darden 1978.

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ve' di Durkheim, il suo statuto ontologico resta molto vago. Se vogliamoseriamente sviluppare un'epidemiologia delle rappresentazioni, non  possiamo accontentarci di questo. Una rappresentazione implica unarelazione fra tre termini: un oggetto è una rappresentazione di qualcosa,

 per  qualche meccanismo che elabora informazione. Prenderemo qui inconsiderazione solo rappresentazioni per  individui umani, ignorando altrimeccanismi di elaborazione dell'informazione come i telefoni e i computer anche se essi influenzano la distribuzione delle rappresentazioni nelle  popolazioni umane. Considereremo rappresentazioni di quello chevogliamo: ambiente, fantasia, azione, rappresentazioni di rappresentazioni,e così via, ignorando i complicati problemi filosofici implicati.

Il problema che non possiamo ignorare è il seguente: di che tipo di

oggetti stiamo parlando quando parliamo di rappresentazioni? Possiamo parlare di rappresentazioni come di oggetti concreti, fisici, collocati nellospazio e nel tempo? A questo livello concreto, dobbiamo distinguere duetipi di rappresentazioni: ci sono rappresentazioni interne al meccanismo dielaborazione dell'informazione, le rappresentazioni mentali; e ci sonorappresentazioni esterne al meccanismo e che il meccanismo tratta comeinput, le rappresentazioni pubbliche.

Consideriamo, per esempio, la ricetta della salsa Mornay in un libro dicucina; si tratta di una rappresentazione pubblica, più precisamente di unaserie di segni di inchiostro su carta che può essere letta, cioè trattata comeinput di un certo tipo. Il lettore costruirà una rappresentazione mentaledella ricetta che potrà ricordare, dimenticare o trasformare, oppure seguire,cioè convertire in comportamento. Consideriamo una madre che raccontaalla figlia la favola di Cappuccetto Rosso; anche qui ci troviamo davanti a

una rappresentazione pubblica, più precisamente a una serie di suoni che provocano la costruzione di una rappresentazione mentale da parte del bambino, il quale può a sua volta ricordarla, dimenticarla, trasformarla eraccontarla, ossia convertirla in un comportamento fisico, in questo casovocale. A questo livello concreto, ci sono milioni di esemplari della ricettadella salsa Mornay, milioni di esemplari di Cappuccetto Rosso, ossiamilioni di rappresentazioni sia pubbliche sia mentali.

Un'epidemiologia delle rappresentazioni è uno studio delle catenecausali in cui sono coinvolte le rappresentazioni mentali e pubbliche: lacostruzione o il recupero di rappresentazioni mentali può far sì che unindividuo modifichi l'ambiente fisico circostante, per esempio producendouna rappresentazione pubblica. Tali modificazioni dell'ambiente possonofar sì che

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altri individui costruiscano altre rappresentazioni mentali, le quali possonovenire immagazzinate e poi recuperate, e successivamente far sì che gliindividui modifichino l'ambiente, e così via.

Esistono allora due classi di processi rilevanti per un'epidemiologiadelle rappresentazioni: processi intraindividuali di memoria e pensiero, e processi interindividuali dove le rappre

sentazioni di un soggetto influenzano quelle di altri soggetti attraversomodificazioni dell'ambiente comune circostante. I processi intraindividualisono puramente psicologici; quelli interindividuali hanno a che fare con gliinput e gli output del cervello - cioè con l'interfaccia tra il cervello e il suoambiente; essi sono in parte psicologici, in parte ecologici.

Anche le rappresentazioni possono essere considerate a un livello puramente astratto, senza fare riferimento né alla loro forma mentale nelcervello umano, né alla loro forma pubblica fisicamente percepibile. A talelivello astratto, si possono discutere le proprietà formali dellerappresentazioni: possiamo osservare per esempio che la ricetta della salsaMornay contiene quella della besciamella e trattarla come esempio dicucina francese borghese - un'altra astrazione. Possiamo analizzare lafavola di Cappuccetto Rosso, confrontarla con altre storie e cercare disostenere, à la Lévi-Strauss, che il personaggio di Cappuccetto Rosso stain una relazione di inversione simmetrica con Pollicino (piùrealisticamente che con Amleto, come proponevo in un esempio delcapitolo 2).

In quanto oggetti astratti, le rappresentazioni hanno proprietà formalied entrano in relazioni formali le une con le altre. D'altra parte, gli oggettiastratti non entrano direttamente nelle relazioni causali. A causare la vostra

indigestione non è la ricetta della salsa Mornay in astratto, ma il fatto cheil vostro ospite avesse letto una rappresentazione pubblica, avesse co-struito una rappresentazione mentale e l'avesse seguita con maggiore ominore successo. A provocare nel bambino un'eccitante sensazione di paura non è la favola di Cappuccetto Rosso in astratto, ma la comprensionedelle parole della madre. Per insistere ancora su questo punto, ciò che hafatto sì che la salsa Mornay o Cappuccetto Rosso siano diventaterappresentazioni culturali non sono - o meglio, non sono direttamente - leloro proprietà formali; è la costruzione di milioni di rappresentazionimentali legate causalmente da milioni di rappresentazioni pubbliche.

Tra questi processi concreti e le proprietà formali delle rap-  presentazioni trattate esiste una relazione? Le proprietà formali dellerappresentazioni possono essere considerate in due mo

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di (che non sono incompatibili): come proprietà di oggetti astratti presi inconsiderazione in quanto tali (approccio plato- nista) o come proprietàche un meccanismo di trattamento dell'informazione, in questo caso lamente umana, può attribuire e utilizzare (approccio psicologico). In altre parole, le proprietà formali delle rappresentazioni (o almeno alcune diesse) possono essere considerate come proprietà potenzialmente psicologiche e sono significative per un'epidemiologia delle rappresenta-zioni. Ci si può chiedere, per esempio, quali proprietà formali fanno sìche la favola di Cappuccetto Rosso sia più facile da comprendere e daricordare - e quindi abbia più probabilità di diventare un oggetto culturale- di un resoconto dell'andamento della Borsa valori di oggi.

L'approccio platonista può essere di grande interesse intrinseco,5 manon è appropriato nel caso della ricerca di una spiegazione causale dei fatticulturali. Bisogna considerare sia le rappresentazioni mentali sia quelle  pubbliche, e le proprietà formali devono essere descritte in termini psicologici.

 Presupposti

La maggior parte delle discussioni, tanto in antropologia quanto nellostudio delle religioni o nella storia delle idee, tratta le rappresentazioniculturali come oggetti astratti: si discute un mito, una dottrina religiosa,un'istruzione rituale, una norma giuridica o anche una tecnica senzanessuna considerazione dei processi psicologici di cui sono oggetto o del passaggio continuo dalle loro versioni mentali a quelle pubbliche.

Anche chi si considera materialista discute le rappresentazioni senzaconsiderarne l'esistenza mentale in quanto stimoli, processi e stati psicologici. La differenza tra coloro che si proclamano materialisti e coloroche sono da essi accusati di idealismo è che i materialisti vedono lerappresentazioni più come effetti di condizioni materiali, mentre gliidealisti le vedono più come cause di tali condizioni. Sia i 'materialisti' chegli 'idealisti' parlano delle rappresentazioni considerate in astratto come seentrassero in relazione causale con il mondo materiale; quale che sial'ordine delle cause e degli effetti preferito, presuppone una forma diidealismo ontologico molto difficile da difendere.

5 Per due versioni differenti dell'approccio platonista si vedano Popper 1972 e Katz1981.

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  Naturalmente, si può pensare che le spiegazioni causali di fatticulturali possano essere formulate a un livello molto astratto, che trascuri imicromeccanismi di cognizione e comunicazione. È certamente quello chehanno cercato di fare gli antropologi e i sociologi, per esempio collegandol'infrastruttu- ra economica e la religione. Ma, per quanto corretta possaessere, tale spiegazione risulta incompleta: perché l'infrastrutturaeconomica possa influenzare la religione, essa deve prima di tuttoinfluenzare le menti degli individui. Ci sono solo due modi, uno cognitivoe l'altro non cognitivo, in cui si può influenzare una mente individuale.Essa può essere influenzata da stimoli, cioè da modificazioni moltospecifiche dell'ambiente fisico del cervello; oppure può esserlo attraversomodificazioni fisiche non cognitive, in particolare modificazioni chimichedel cervello provocate per esempio da carenze nutritive o da unelettroshock. Per dimostrare che le condizioni economiche influenzano lareligione, bisogna essere in grado di dimostrare che esse influenzano, tantoin modo cognitivo quanto non cognitivo, l'interazione tra i cervelli e gliambienti a loro circo- stanti. Bisogna inoltre dimostrare che questa azionecausa modificazioni cognitive e comportamentali che, a un livello piùastratto, vengono descritte come religione.

Al momento non disponiamo né di una spiegazione generaleconvincente dei fatti culturali a livello astratto, né di un'epidemiologiadelle rappresentazioni. La domanda che si pone è allora: dove dirigere inostri sforzi? Ovviamente è positivo che ognuno segua la propriaintuizione e che non diamo tutti la stessa risposta a questa domanda. Neldifendere un'epidemiologia delle rappresentazioni, non volevo trasformaregli antropologi in epidemiologi; volevo semplicemente attirare l'attenzione

su questo approccio alternativo.immaginiamo che sia possibile, a livello astratto, una spiegazione

soddisfacente dei fenomeni culturali; essa sarebbe, nella migliore delleipotesi, incompleta, e non potrebbe sostituire un'epidemiologia dellerappresentazioni solidamente radicata nella psicologia, che sarebbecomunque necessario sviluppare. Immaginiamo ora un'epidemiologia dellerappresentazioni ben sviluppata. Per quel che sappiamo, essa potrebbefornire solo una spiegazione incompleta o inutilmente pesante dei fatticulturali. Ma esiste anche la possibilità che fornisca tutte le spiegazionicausali di cui abbiamo bisogno: un'epidemiologia delle rappresentazioni èsicuramente necessaria, e forse sufficiente, per la spiegazione causale deifatti culturali. E questa mi sembra una ragione forte per sviluppare unapproccio epidemiologico.

Con questo argomento non spero di convincere gli antropo

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logi e i sociologi che sono paghi di restare al livello astratto e di ignorarei problemi psicologici, il cui atteggiamento è meno basato su un'ontologiasbagliata che su una psicologia semplicistica. Benché riconoscano che lacultura debba avere una realizzazione psicologica, essi continuano aritenere che la mente umana sia tale da permettere una facilerealizzazione di tutto, priva di effetti sui contenuti della cultura.

 Nella maggior parte della letteratura, i processi intra- e interindividualisono semplicemente postulati, implicitamente o esplicitamente, per assicurare una circolazione rapida e facile di qualsiasi rappresentazioneconcepibile. La possibilità che le capacità cognitive umane possanofunzionare meglio per certe rappresentazioni che per altre è di solitoignorata. Le trasformazioni causate dallo stoccaggio e dal recupero

dell'informazione vengono raramente considerate: è come se il recuperofosse l'effetto inverso della memorizzazione. Allo stesso modo i processiinterindividuali sono considerati semplici imitazioni, o codifiche edecodifiche automatiche di rappresentazioni. Se queste ipotesi fosserocorrette, i micromeccanismi causali di trasmissione delle rappresentazioniavrebbero solo una pertinenza marginale; qualsiasi rappresentazione potrebbe passare inalterata attraverso i canali della comunicazione sociale,con solo un'alternanza regolare tra le sue forme pubbliche e mentaliripetute indefinitamente. Un'epidemiologia delle rappresentazioniaffronterebbe problemi banali; si potrebbe parlare di rappresentazioniculturali in termini puramente astratti senza perdere niente di essenziale. Inrealtà, è sufficiente esplicitare queste assunzioni psicologiche per mostrarne l'ingenuità.

Sappiamo tutti, senza bisogno di fare appello alla psicologia

accademica ma grazie all'esperienza personale, che alcune rap- presentazioni, come la dimostrazione del teorema di Godei, sono moltodifficili da comprendere, anche se desideriamo farlo. Alcunerappresentazioni, per esempio un numero di venti cifre, sono difficili daricordare anche se non da comprendere. Altre, profondamente personali,sono difficili o addirittura impossibili da trasmettere senza perdite edistorsioni. D'altro lato, ci sono alcune rappresentazioni, come la favola diCappuccetto Rosso, o un motivo popolare, che non possiamo fare a menodi ricordare anche quando vorremmo dimenticarcene.

Che cosa fa sì che alcune rappresentazioni siano più difficili dainteriorizzare, ricordare o trasmettere di altre? Si può essere tentati dirispondere: la loro complessità, e di intendere la 'complessità' come una proprietà astratta delle rappresentazioni. Ma questa risposta non serve. Unnumero di venti cifre non è più complesso della favola di Cappuccetto

 Rosso: qualsiasi compu-

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ter può lavorare sul primo molto più facilmente che sulla seconda Infatti,mentre è abbastanza facile fornire al computer una versione diCappuccetto Rosso, non è chiaro come potremmo fornire in input la storiain sé. Gli esseri umani invece ricordano Una storia più facilmente di untesto; ciò che è complesso per un cervello umano è diverso da ciò che lo è per un computer; la complessità non è una spiegazione, ma qualcosa daspiegare. Quello che fa sì che alcune rappresentazioni siano più difficili dainteriorizzare, ricordare, o esplicitare di altre, ossia quello che le rende piùcomplesse per gli esseri umani è l'organizzazione delle capacità cognitive ecomunicative umane.

 Disposizioni e ricettività

Introdurrò ora una distinzione tra disposizioni e ricettività, e passerò  brevemente in rassegna alcune questioni classiche nello studio dellacultura per sostenere che, in una prospettiva epidemiologica, l'antropologiae la psicologia possono essere reciprocamente pertinenti.

Le capacità cognitive umane determinate geneticamente sono ilrisultato di un processo di selezione naturale. Possiamo assumerelegittimamente che siano adattamenti: ossia che abbiano aiutato lasopravvivenza e la diffusione della specie. Ciò non significa che tutti i loroeffetti siano degli adattamenti.

Alcuni effetti del nostro patrimonio genetico possono essere descritticome disposizioni, altri come ricettività, anche se non sempre è facilecogliere la distinzione. Le disposizioni sono state selezionate

  positivamente nel processo di evoluzione biologica; le ricettività sonoeffetti collaterali delle disposizioni. Le ricettività che hanno effettifortemente nocivi sull'adattamento sono eliminate assieme agli organismiricettivi; quelle che hanno forti effetti positivi possono, nel tempo, essereselezionate e divenire quindi indistinguibili dalle disposizioni. La maggior  parte delle ricettività, però, ha solo effetti marginali sull'adattamento; essedevono la loro esistenza alla pressione selettiva che ha pesato non su diloro, ma sulle disposizioni di cui esse sono effetti collaterali. Sia ledisposizioni che le ricettività hanno bisogno di condizioni ambientaliappropriate per il loro sviluppo ontogenetico. Le disposizioni trovano le  proprie condizioni ottimali nell'ambiente in cui si erano sviluppatefilogeneticamente. Le ricettività si possono rivelare solo come risultato diun cambiamento delle condizioni ambientali.

L'Homo sapiens, per esempio, ha una disposizione per il cibo dolce. Nell'ambiente naturale in cui la specie si è sviluppata

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si trattava ovviamente di un valore adattivo che aiutava gli individui aselezionare il cibo più appropriato. Nell'ambiente moderno, in cui si  produce lo zucchero artificialmente, ciò provoca una predisposizioneall'eccessivo consumo di zucchero, con tutti gli effetti nocivi benconosciuti.

Concetti di base

Tenendo a mente la distinzione tra disposizioni e ricettività,consideriamo in primo luogo i problemi suscitati dai sistemi concettuali.Ogni cultura è caratterizzata da un sistema di concetti differenti. Un

 problema antropologico tipico è capire le possibili variazioni dei sistemiconcettuali da cultura a cultura. Ci sono vincoli universali sulla struttura diquesti sistemi? Un problema psicologico è capire come i concetti siformino nelle menti individuali.

Una visione della formazione dei concetti, che ha ispirato l'analisicomponenziale in antropologia6 e i primi studi sulla formazione deiconcetti in psicologia,7 sostiene che un nuovo concetto è formatocombinando diversi concetti già disponibili. Per esempio, se un bambinoha già il concetto di genitore e quello di femmina, può formare il concettodi 'madre' combinando 'genitore' e 'femmina'.

Secondo questa visione della formazione dei concetti, i concetti chenon possono essere scomposti in altri più elementari non possono essereacquisiti, e devono quindi essere innati. La maggior parte dei nostriconcetti non può essere scomposta in questo modo: provate a scomporre

 per esempio 'giallo', 'giraffa', 'oro', 'elettricità', 'machiavellico' o 'dignità'. Non riuscite? Allora, secondo tale teoria, questi concetti e altre centinaia omigliaia, devono essere innati, cosa che, a eccezione di 'giallo', non sembradavvero plausibile. Inoltre, anche quando si può formare un concettocombinandone di più elementari, ci possono essere ragioni di dubitare chequesto sia il modo in cui avviene davvero la sua formazione: sicuramente i  bambini non formano il concetto di madre costruendo l'intersezione di'femmina' e 'genitore'. Essi formano piuttosto il concetto di genitoreattraverso l'unione di 'madre' e 'padre'.

Un altro modo in cui i concetti possono essere insegnati e appresi è per ostensione. Mostrate un uccello a un bambino e

6 Si veda Tyler 1969.7 Si vedano Vygotsky 1965; Bruner et alii 1956.

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ditegli: "Questo è un uccello"; dopo alcune di queste esperienze, il bambino acquisirà il concetto di uccello. L'ostensione genera problemi bennoti: potete puntare il dito nella direzione dell'uccello, ma indicheretecontemporaneamente nella direzione di un oggetto materiale, un animale,un corvo, questo corvo particolare, un corpo piumato, la coda di unuccello, una cosa su un albero, una fonte di rumore, una cosa nera eun'infinità di altre cose. Come fa il bambino a realizzare che intendevate portare la sua attenzione solo su una di esse, e che la parola che avete pro-nunciato corrisponde solo a uno di questi concetti?

La combinazione logica e l'ostensione non sono però mutualmenteincompatibili. Un'ipotesi più plausibile si può trovare mescolando le dueteorie. L'ostensione funziona se opera sotto forti vincoli logici.Immaginate che un bambino, senza avere un concetto innato di uccello,abbia uno schema innato per i concetti zoologici e una disposizione innata per applicare e sviluppare questo schema ogni volta che gli viene fornital'informazione che sembra rilevante allo scopo. Se puntate il dito nelladirezione di un animale e pronunciate una parola, allora, a meno che ilcontesto suggerisca altrimenti, la prima ipotesi del bambino sarà che gliforniate il termine che corrisponde al concetto zoologico, e, piùspecificamente, a un concetto tassonomico. Il bambino si aspetterà che ilconcetto da sviluppare abbia le proprietà logiche caratteristiche deiconcetti tassonomici. Se vi comportate secondo le sue aspettative, allora il bambino sarà sulla buona strada (e se non lo fate, che genitori siete?).

Le implicazioni antropologiche o epidemiologiche di questa visionedella formazione dei concetti sono chiare: gli esseri umani hanno unadisposizione a sviluppare concetti come quello di uccello; di conseguenza,

tali concetti sono 'contagiosi'. Ai bambini è sufficiente ben poca esperienzae incoraggiamento per svilupparli e applicarli in modo appropriato; e, unavolta che essi siano presenti nel linguaggio, è difficile dimenticarli. In ognilinguaggio si troverà dunque un gran numero di questi concetti.

Generalizziamo queste speculazioni. Assumiamo di avere unadisposizione innata a sviluppare concetti secondo certi schemi. Abbiamoschemi differenti per domini differenti: i nostri concetti di specie viventitendono a essere tassonomici; quelli di manufatti tendono a esserecaratterizzati in termini di funzioni; quelli di colore tendono a esserecentrati ognuno su una sfumatura focale, e così via. I concetti che siconformano a questi schemi sono facili da interiorizzare e da ricordare.Chiamiamoli concetti di base. In ogni lingua si trova un grande numero diconcetti di base; essi naturalmente differiscono da una

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lingua a un'altra, ma non di molto. I concetti di base di un'altra linguatendono a essere facili da riconoscere, imparare e tradurrecomparativamente.

Esiste un numero crescente di ricerche sui concetti di base sia in  psicologia che in antropologia, un dominio che ha generato piùcollaborazione tra le due discipline di qualsiasi altro.8 Questo lavoro tendea mostrare che la formazione individuale dei concetti, e quindi lavariabilità culturale, sono realmente governate da schemi e disposizioniinnati.

Ciò è stato dimostrato solo per pochi domini semantici. È possibilegeneralizzare? Tutti i concetti sono formati con pochi schemi innati? Nedubito molto. Primo, non c'è nessuna ragione a priori per assumere che laformazione dei concetti avvenga sempre nello stesso modo e quindi cadasotto un unico modello. Secondo, mentre alcuni concetti sono acquisitifacilmente dopo una breve esposizione, cosa che suggerisce che ci sia una predisposizione ad acquisirli, la formazione di altri concetti, come quelliscientifici o religiosi, richiede una grande quantità di tempo, interazione espesso anche insegnamento metodico. Questi concetti elaborati sonoacquisiti all'interno del quadro delle rappresentazioni complesse delmondo. Tali rappresentazioni, e quindi i concetti che ne sono caratteristici,sono basate più su ricettività che su disposizioni.

 Rappresentazioni culturali

Vediamo ora come l'approccio epidemiologico si applica allo svilupposociale e alla formazione individuale delle rappresentazioni del mondo. Lecapacità cognitive umane agiscono, tra l'altro, come filtro sullerappresentazioni che hanno buone probabilità di diffondersi in una  popolazione umana, ossia che sono suscettibili di diventarerappresentazioni culturali. In un certo senso, il ruolo di filtro è statoriconosciuto da tempo. Gli antropologi accettano generalmente che unresoconto adeguato delle credenze presenti in una cultura debba mostrareche esse sono in qualche modo razionali nel loro contesto.

Ciò che si intende con razionalità non è né chiaro né costante.Generalmente si ritiene che la razionalità implichi almeno un certo gradodi coerenza tra credenze e tra credenze ed

8 Si vedano Berlin e Kay 1969; Miller e Johnson-Laird 1976; Rosch e Lloyd 1978;Keil 1979; Ellen e Reason 1979; Smith e Medin 1981; e gli articoli di sintesi di ScottAtran (1981, 1983, 1987).

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esperienza. La razionalità presuppone quindi dei meccanismi cognitivi chetendano a prevenire o a eliminare le incoerenze empiriche e lecontraddizioni logiche.

Molti antropologi, da Durkheim a Clifford Geertz, hanno sostenuto,implicitamente o esplicitamente, che tutte le credenze di una cultura, banali o misteriose che siano, vengano rappresentate mentalmente nellostesso modo, e quindi obbediscano agli stessi criteri di razionalità. Neinostri termini, esse sono fíltrate dagli stessi meccanismi cognitivi. Quandosi tratta di spiegare le credenze apparentemente irrazionali, questa posizione tende a portare al relativismo culturale, ossia all'ipotesi che icriteri di razionalità variano da cultura a cultura.

Altri antropologi9

hanno sostenuto che la conoscenza empiricaquotidiana del mondo - come la rappresentazione che il miele sia dolce -,le credenze religiose - come il dogma della Santissima Trinità -, e leipotesi scientifiche - come la teoria della relatività - non siano lo stessotipo di oggetto mentale. Differenti tipi di rappresentazioni hanno criteri dirazionalità diversi, sono filtrati cognitivamente da processi diversi.

Proviamo a confrontare brevemente la conoscenza empirica quotidiana e lecredenze religiose. Faccio l'ipotesi che esista una disposizione per costruire una certa forma di conoscenza empirica che può esserecaratterizzata come segue:

-Essa consiste di rappresentazioni semplicemente memorizzate nellamemoria enciclopedica e trattate dalla mente come vere descrizioni delmondo solo per il fatto di essere memorizzate in questo modo.-Le rappresentazioni così formate sono formulate nel vocabolario dei

concetti di base; non si può quindi avere questo genere di conoscenzariguardo agli atomi, ai virus, al mana o alla democrazia (che credo nonsiano concetti di base).-La loro coerenza reciproca è verificata automaticamente, in particolare la loro coerenza con gli input percettivi.La conoscenza empirica quotidiana si è sviluppata sotto forti vincoli:

concettuali, logici e percettivi; di conseguenza tende a essere coerente edempiricamente adeguata. D'altro lato, essa si applica solo ad alcuni ambiticognitivi, e in maniera molto rigida.

Ci sono altre forme di rappresentazione mentale che si sono sviluppatecon maggiore flessibilità e con meccanismi di filtraggio più deboli. Essedipendono da altre capacità cognitive,

9 Per esempio Bloch 1977; Sperber 1974b,1982.

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in particolare quella di formare rappresentazioni di rappresentazioni.Gli esseri umani possono rappresentare mentalmente non solo i fatti

ambientali e somatici, ma anche alcuni stati mentali, alcunerappresentazioni, alcuni processi. Il sistema umano di rappresentazioneinterna - il linguaggio del pensiero, per usare l'espressione di Jerry Fodor (1975) - può servire come suo proprio metalinguaggio.

Questa capacità metarappresentazionale, come possiamo definirla, èessenziale all'acquisizione della conoscenza umana (oltre che allacomunicazione verbale, anche se qui non discuterò di questo). Primo, essa  permette agli esseri umani di dubitare e di non fidarsi: dubitare e nonfidarsi implica rappresentare una rappresentazione come improbabile ofalsa. Presumibilmente altri animali non hanno la capacità di non fidarsi di

quello che percepiscono o di quello che decodificano.Secondo: le capacità metarappresentazionali permettono agli esseri

umani di trattare un'informazione che non comprendono completamente,un'informazione della quale non sono capaci al momento di costruire unarappresentazione ben elaborata. Se un meccanismo di trattamentodell'informazione senza capacità metarappresentazionali non è in grado dirappresentare informazione attraverso una formula ben elaborata del suolinguaggio interno, non può trattenere o utilizzare l'informazionecompletamente. Un meccanismo che ha capacità meta- rappresentazionali,d'altro lato, può contenere una rappresentazione incompleta all'interno diuna metarappresentazione ben elaborata.

I bambini usano in continuazione questa capacità per trattareinformazione non pienamente compresa. Vengono dette loro cose che noncapiscono molto bene da persone a cui essi credono; hanno quindi buone

ragioni per pensare che quanto viene detto loro è vero, anche se non sannoesattamente che cos'è stato detto loro. A un bambino viene comunicato per esempio che il signor Tal dei Tali è morto, senza che egli abbia ancora unconcetto preciso della morte. La migliore rappresentazione che puòformarsi è incompleta, dato che contiene un concetto compreso a metà. Per trattare questa rappresentazione incompleta, egli devemetarappresentarsela, ossia inserirla in una rappresentazione della forma "èun fatto che il signor Tal dei Tali è 'morto', qualsiasi cosa significhi 'esseremorto'".

Ciò permette al bambino di trattenere l'informazione, anche se non lacomprende completamente, e costituisce anche un incentivo per sviluppareil concetto di morte, fornendogli allo stesso tempo un dato pertinente per losviluppo di tale concet-

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lo. Anche gli adulti, naturalmente, quando incontrano nuovi concetti e ideeche comprendono solo a metà li inseriscono in metarappresentazioni.

La mia ipotesi è che gli esseri umani abbiano una disposizione a usarele capacità metarappresentazionali per ampliare la propria conoscenza e il  proprio repertorio concettuale. D'al- tronde, le capacitàmetarappresentazionali creano anche notevoli ricettività. La funzione più plausibile della capacità di avere concetti e idee compresi a metà è difornire un passo intermedio nel processo di comprensione. Ma la stessacapacità rende possibile l'invasione della mente da parte di misteri concet-tuali che non potranno mai essere chiariti.

II vincoli razionali sulle idee comprese a metà non sono molto stretti:la coerenza interna di un'idea non completamente compresa e la suacoerenza rispetto ad altre idee e ipotesi non possono essere verificatein modo appropriato: se si rileva un'incoerenza, potrebbe dipendere daun'interpretazione errata della credenza. Per il bambino, l'idea stessadella morte e quindi l'affermazione che qualcuno è morto può sembrareautocontradditoria; egli può tuttavia accettarla, senza rischio diirrazionalità, sotto l'ipotesi che il difetto è nella propria comprensionee non nel concetto o nell'affermazione. Nel caso delle idee non com- prese appieno, 'l'argomento di autorità' ha davvero autorità.IIIl fatto che idee e concetti misteriosi possano facilmente soddisfare icriteri di razionalità non è sufficiente a garantirne il successo culturale.Esiste un'infinità di misteri in competizione per occupare lo spaziomentale, e quindi lo spazio culturale. Di quale vantaggio dispongono imisteri che vincono la competizione? La mia ipotesi è che i mistericulturali siano più evocativi e quindi più facili da ricordare.

L'evocazione può essere vista come una forma di risoluzione di problemi: il problema sta nel trovare un'interpretazione più precisa per qualche idea compresa a metà. Per fare questo, si cercano nella memoriaipotesi e credenze nel contesto delle quali le idee comprese a metà abbianosenso. A volte il problema posto da un'idea non compresa appieno - per esempio una definizione delle parole crociate - è risolto facilmente con una breve evocazione. In altri casi l'idea è compresa così male, ed è cosìdistante dalle altre rappresentazioni mentali del soggetto, che l'evocazionenon sa dove cominciare. Le rappresentazioni più evocative sono quelle piùvicine alle altre rappresentazioni del soggetto, ma a cui non si può dareun'interpretazione definitiva. Sono questi misteri pertinenti, come possiamo chiamarli, ad avere il maggior successo culturale.

L'interesse delle credenze culturali consiste apparentemente

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nel fatto che la loro irrazionalità apparente non dipende da un certodistacco dal senso comune, o dal fatto che siano timide estrapolazioni nonsostenute dall'evidenza: si tratta di violente provocazioni contro larazionalità del senso comune. Esse includono credenze in creature che possono essere contemporaneamente in due luoghi, o che possono esserequi ma restare invisibili, e quindi violare apertamente alcune assunzioniuniversali sui fenomeni fisici; oppure possono vertere su creature che  possono trasformarsi da una specie animale a un'altra, in apertacontraddizione con le assunzioni universali sui fenomeni biologici; sucreature che sanno ciò che è successo e ciò che succederà senza chenessuno lo abbia detto loro, e quindi in aperta contraddizione con leassunzioni universali sui fenomeni psicologici.

Se queste credenze paradossali fossero rappresentate in modo benformato, la loro incoerenza risulterebbe chiara. Ma rifiutarle genererebbeun altro tipo di paradosso: sarebbe contraddittorio con la fiducia neiconfronti della credibilità della fonte delle credenze. Si può ottenere unacoerenza totale solo trattando queste credenze come misteri, perché, inquanto tali, esse sono pertinenti proprio a causa del loro carattere parados-sale, ossia a causa del ricco sfondo di conoscenze empiriche da cui sidistaccano sistematicamente. La loro pertinenza permette loro di ottenerel'attenzione delle persone, e quindi di essere meglio distribuite rispetto allerappresentazioni semplicemente oscure.

I tentativi di spiegare le credenze religiose e altri misteri culturali intermini di alcune disposizioni psicologiche universali non si sono rivelaticonvincenti. Io li ritengo fuorviami. A differenza della conoscenzaempirica, le credenze religiose non si sviluppano a partire da una

disposizione, ma da una ricettività.

Memoria e letteratura orale

Fino a ora ho preso in considerazione solo il ruolo dei processicognitivi di formazione dei concetti e delle rappresentazioni. Ci sono altri  processi cognitivi, processi di memorizzazione e di recuperodell'informazione, e processi di comunicazione, altrettanto essenziali allaspiegazione dei fatti culturali. Consideriamo il caso di una società ditradizione orale, senza scuola o altre istituzioni educative. In una societàdel genere, la maggior parte dell'apprendimento è spontanea. La maggior  parte delle rappresentazioni mentali sono costruite, memoriz-

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zale e recuperate senza sforzo deliberato. Vorrei proporre una leggedell'epidemiologia delle rappresentazioni che si applica a questa società: inuna tradizione orale, tutte le rappresentazioni culturali sono facili daricordare; quelle difficili da ricordare vengono dimenticate, o trasformate inrappresentazioni più facili da ricordare, prima di raggiungere il livello didistribuzione culturale.

Questa legge ha un'applicazione immediata allo studio delle narrazioniorali. Possiamo dare per scontato che i racconti, i miti e così via sianooggetti ottimali per la memoria umana, e che diversamente sarebbero statidimenticati. Che cosa rende certi racconti così memorizzabili? Che cosa fa

sì che la mente umana sia così adatta a ricordarli? Qui l'importanzareciproca dell'antropologia e della psicologia dovrebbe risultare evidente;ciononostante, in antropologia, con qualche eccezione, si studia laletteratura orale senza badare alla psicologia.10 D'altra parte, nella psicologia cognitiva esiste un numero crescente di ricerche sulla strutturadei racconti e sui suoi effetti sulla memoria,11 ma non viene tratto alcunvantaggio dalla competenza antropologica.

Con la comparsa di nuove tecniche di comunicazione, in particolare lascrittura, è possibile comunicare più cose, e alla memoria interna siaggiungono depositi esterni12; di conseguenza la memorizzazione e lacomunicazione hanno un minore effetto di filtraggio. Si possonosviluppare per esempio altre forme di letteratura, e le forme particolari chesi trovano nella tradizione orale possono anche non essere mantenute.

Osservazioni conclusive

Vorrei ripetere ancora che non è mia intenzione presentarel'epidemiologia delle rappresentazioni come sostituto di altre prospettiveantropologiche, ma come un ulteriore contributo, essenziale allaspiegazione causale dei fatti culturali e allo sviluppo di un'interazioneinteressante fra antropologia e psicolo-

10 In particolare Colby e Cole 1973. Lévi-Strauss (specialmente 1971) ha fattoriferimento al ruolo della memoria nella formazione dei miti, ma senza approfondire lapsicologia della memoria. Si veda Sperber 1974b, 1982, cap. 3, per una discussione delsuo contributo.

11 Si vedano per esempio Rumelhardt 1975; Kintsch 1971; Mandler e Johnson1977; van Dijk 1980; Brewer e Lichtenstein 1981; Wilensky 1983.

12 Si veda Goody 1977, per una discussione antropologica.

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già. Si può ugualmente obiettare che il compito che assegno aun'epidemiologia delle rappresentazioni è troppo grande. Si potrebbe direche tutti gli esempi che ho discusso finora - concetti, credenze, narrazioni -riguardano rappresentazioni che possono essere interiorizzateindividualmente, e che sono culturali nella misura in cui molti individui leinteriorizzano. Ma che cosa dire delle istituzioni? Certamente una scuola,un rituale, un sistema giudiziario sono cose culturali; ma non sono quelgenere di cose che può essere interiorizzato individualmente. Non esconodall'ambito di un'epidemiologia delle rappresentazioni, e l'affermazioneche la spiegazione causale dei fatti culturali debba avere la forma diun'epidemiologia non è palesemente esagerata?

Ecco la controbiezione. Un'epidemiologia delle rappresentazioni non

studia le rappresentazioni ma la loro distribuzione (e quindi lemodificazioni dell'ambiente che sono implicate causalmente da talirappresentazioni). Le classificazioni culturali, le credenze, i miti, e così viasono caratterizzati da distribuzioni omogenee; versioni molto simili dellastessa rappresentazione sono distribuite in una popolazione umana. Altredistribuzioni culturali sono differenziali: la distribuzione di certe rap- presentazioni in certi modi fa sì che altre rappresentazioni lo siano in altrimodi. Ciò, a mio avviso, è caratteristico delle istituzioni.

Alcuni insiemi di rappresentazioni includono rappresentazioni delmodo in cui l'insieme deve essere distribuito. Un'istituzione è ladistribuzione di un insieme di rappresentazioni che è governato darappresentazioni che appartengono all'insieme stesso.

Ciò fa sì che le istituzioni siano in grado di autoperpetuarsi. Studiare leistituzioni significa allora studiare un tipo particolare di distribuzione di

rappresentazioni e tale studio ricade esattamente nell'ambito diun'epidemiologia delle rappresentazioni.

Terminerò illustrando questa caratterizzazione delle istituzioni con unesempio. Pensate alle Malinowski Memorial Lec- tures. Come converrete,si tratta di un'istituzione. Quando le conferenze furono istituite per la prima volta, venne messa su carta una rappresentazione, alla quale nelcorso del tempo vi sono state aggiunte non scritte. La rappresentazione prevede che ogni anno vengano distribuiti degli inviti: uno al relatore e glialtri ai membri del pubblico. Essa stabilisce inoltre che il relatoredistribuisca al pubblico quella rappresentazione complessa che definiamo'conferenza'; che faccia rispettosamente riferimento a Malinowski; chedopo circa un'ora si fermi, in

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modo che il pubblico possa andare a dissetarsi e che consegni, qualchesettimana più tardi, una versione scritta della sua rappresentazione oralealla rivista "Man" per assicurarne una distribuzione più ampia e duratura.Quando tutte queste rappresentazioni particolari sono state distribuitesecondo quanto stabilito dalla prima di esse, quello che avete - o, in questocaso, avete avuto - è una Malinowski Memorial Lecture.

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4. L'epidemiologia dellecredenze

Vorrei cercare di unire due tipi di speculazioni: le speculazioniantropologiche sulle rappresentazioni culturali e quelle psicologichesull'organizzazione cognitiva delle credenze e proporre, come risultato,alcuni frammenti di una possibile risposta alia domanda: In che modo certecredenze diventano parte della cultura? A questo stadio è possibile solodare una risposta vaga, parziale e approssimativa oppure accantonare ladomanda: non esiste una teoria abbastanza valida, né vi sono dati suf-ficienti per agire diversamente.

Speculazioni antropologiche

Uso l'espressione 'rappresentazioni culturali' in senso lato,includendovi tutto quanto sia culturale e sia contemporaneamente unarappresentazione. In questa accezione le rappresentazioni culturali possonoessere descrittive ("le streghe volano sui manici di scopa") o normative("con il pesce si beve vino bianco"); semplici, come in entrambi gli esempi proposti, o complesse, come il diritto consuetudinario o l'ideologia marxi-sta; verbali, come nel caso di un mito, o non verbali, come nel caso di unamaschera, oppure multimediali come per esempio una messa.

Per cominciare, due osservazioni sulla nozione di rappresentazione. In primo luogo, 'rappresentare' non mette in relazione due termini - qualcosarappresenta qualcosa - ma tre: qualcosa rappresenta qualcosa per qualcuno.In secondo luogo, dobbiamo distinguere tra due tipi di rappresentazioni: lerappresentazioni interne o mentali - come per esempio i ricordi, che sono

 pattern nel cervello e che rappresentano qualcosa

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solo per il possessore del cervello - e le rappresentazioni esterne o  pubbliche - come per esempio le espressioni linguistiche, che sonofenomeni materiali nell'ambiente delle persone e che rappresentanoqualcosa per chi le percepisce e le interpreta.1

Quali sono le rappresentazioni di base, quelle private o quelle pubbliche? La maggior parte degli psicologi cognitivi (per esempio Fodor 1975) vede le rappresentazioni mentali come più basilari: perché lerappresentazioni pubbliche siano rappresentazioni tout court devono essererappresentate mentalmente dai loro utenti; per esempio, un enunciatorappresenta qualcosa solo per chi lo percepisce, lo decodifica e lo com- prende, ossia vi associa una rappresentazione mentale a più livelli. Le

rappresentazioni mentali, invece, possono esistere senza una controparte pubblica; molti dei nostri ricordi, per esempio (e tutti, o quasi, quelli di unelefante) non vengono mai comunicati. Le rappresentazioni mentali sonoquindi più di base di quelle culturali.

La maggior parte degli studiosi di scienze sociali (e anche filosofiquali Ludwig Wittgenstein [1953] e Tyler Burge [1979]) non sonod'accordo, in quanto considerano le rappresentazioni pubbliche più basilaridi quelle mentali. Le rappresentazioni pubbliche sono osservabili, sia dachi ne fruisce sia da chi le studia, mentre l'esistenza di quelle mentali puòessere solo congetturata. Fatto ancor più importante, sostiene per esempioVy- gotsky (1965), le rappresentazioni mentali sono il risultato del-l'interiorizzazione di rappresentazioni pubbliche e di sistemi sottostanticome il linguaggio e le ideologie, senza i quali nessuna rappresentazione è  possibile. In tale prospettiva, le rappresentazioni pubbliche sono più

  basilari di quelle mentali: ciò esclude gli animali non sociali dalla possibilità di avere rappresentazioni, ma i sostenitori di questa posizionenon sembrano dar peso a tale limite.

In un certo senso è evidente che le rappresentazioni pubbliche  precedano quelle mentali: un bambino nasce in un mondo pieno dirappresentazioni pubbliche e ne è bombardato fin dal primo giorno di vita.Il bambino non scopre il mondo da solo, rendendo poi pubbliche lerappresentazioni che ha sviluppato privatamente; una gran quantità dellesue rappresentazioni del mondo è in realtà acquisita indirettamente, nonattraverso l'esperienza ma attraverso la comunicazione o la combinazionedi

1 II parallelismo è eccessivo: le vostre rappresentazioni mentali non rappresentanoqualcosa per voi nello stesso senso in cui queste parole rappresentano qualcosa per voi,ma nulla di essenziale alla discussione dipende da questo.

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esperienza e comunicazione; proprio la capacità di comunicareefficacemente dipende in modo contingente dall'acquisizione da parte del  bambino del linguaggio e degli altri strumenti di comunicazione dellacomunità. D'altronde, chi ritiene che le rappresentazioni mentali siano basilari non nega questo fatto; quello che nega è che le rappresentazioni pubbliche possano essere utilizzate da un bambino senza che abbia findalla nascita un sistema di rappresentazioni mentali con il quale accostarsia quelle pubbliche.

Al contrario, chi ritiene che le rappresentazioni di base siano quelle pubbliche non sostiene solo, o non dovrebbe sostenere, l'idea banale per cui ogni individuo, essendo nato in un mondo ricco di rappresentazioni

 pubbliche, fa affidamento in modo decisivo su di esse. Ciò che sostiene, odovrebbe sostenere, è che non solo la forma fisica delle rappresentazioni pubbliche è pubblica, al di fuori della mente di ogni persona e percepibiledagli altri individui, ma che è pubblico anche il significato delle rap-  presentazioni pubbliche, situato nel mondo affinché gli altri possanocoglierlo. Da questa prospettiva, il significato - cioè il rapporto regolare traciò che rappresenta e ciò che è rappresentato - è sociale prima di esserecolto individualmente; le rappresentazioni pubbliche sono perciò più di base, e ciò porta gli antropologi a ritenere che "la cultura è pubblica perchéil significato è pubblico" (Geertz 1973, p. 12; tr. it. p. 49). La maggior   parte degli antropologi studia la cultura come un sistema di rap-  presentazioni pubbliche dotate di significati pubblici, senza alcunriferimento alle rappresentazioni mentali corrispondenti.

Sono per tendenza materialista (vedi Sperber 1987); non nel senso che

questa parola spesso assume nelle scienze sociali, dove per materialista siintende qualcuno che crede che l'Infrastruttura economica' determini la'sovrastruttura ideologica', ma nel senso filosofico e delle scienze naturali per cui tutte le cause e tutti gli effetti sono materiali. La mia domanda èallora: che tipo di oggetti materiali o di proprietà potrebbero essere i si-gnificati pubblici? Non mi convince Geertz quando liquida così laquestione:

Quello che ci si deve chiedere sulla parodia di un ammiccamento o suun'incursione semiseria per rubare delle pecore [due degli esempi di Geertzdi rappresentazioni pubbliche] non è quale sia il loro status ontologico. È lostesso di quello delle rocce da una parte e dei sogni dall'altra: si tratta dellecose di questo mondo. La cosa da chiedersi è quale sia il loro significato [...]ciò che viene detto quando avvengono e mediante la loro azione. (Geertz1973, p. 10; tr. it. p. 47)

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 Non sono convinto, perché il compito dell'ontologia non è dire qualicose sono 'nel mondo' e quali no, ma in che modo, o in che modi, le cose  possono essere di questo mondo, e, per quanto riguarda gli oggetticulturali, si tratta di un problema effettivo.

Riusciamo a comprendere come gli oggetti materiali possano adattarsial mondo; non sappiamo invece come possano esistere oggetti materiali, e,se esistono, come possano adattarsi al mondo. Quindi per ogni classe dioggetti, che siano pietre, ricordi o rappresentazioni culturali, quando è  possibile, in termini di semplicità e di intelligibilità, è preferibile unresoconto materialista.

 Nel caso degli oggetti mentali, come i ricordi, la maggior parte degli  psicologi accetta ormai almeno un materialismo minimale, detto'fisicalismo delle occorrenze' (token-physicalism). Secondo questa visione,le occorrenze degli stati mentali sono identiche a occorrenze di stati e  processi neuronali, mentre i tipi (types) di stati mentali non devononecessariamente essere identici a tipi di stati neuronali (vedi Block 1980).Ciononostante, ogni tipo di stato mentale deve essere descritto in modo daindicare quali occorrenze che vi rientrano possono essere esemplificatematerialmente. Per esempio, gli psicologi cognitivi cercano di descrivere lerappresentazioni mentali nei termini di stati che possano essereimplementati in un computer. Grazie allo sviluppo della psicologiacognitiva, cominciamo a cogliere che tipo di oggetti materiali possonoessere le rappresentazioni mentali.

Ora, quando si arriva alle rappresentazioni culturali dotate di significati pubblici, sia che adoperiamo il vocabolario materialista e dichiariamo cheanch'esse sono materiali, sia che ci arrendiamo al pluralismo ontologico, laverità è che non abbiamo nessuna idea di quale sia la maniera in cui esse possano essere 'oggetti del mondo'.

L'alternativa materialista significa assumere che le rappresentazioni,  pubbliche o private, siano oggetti strettamente materiali e accettareseriamente le implicazioni di questa ipotesi. I sistemi cognitivi, come icervelli, costruiscono rappresentazioni interne del loro ambiente in partesulla base di interazioni fisiche con esso. Grazie a queste interazioni, lerappresentazioni mentali sono, in una certa misura, connesse regolarmentea ciò che rappresentano, e, come risultato, hanno proprietà semantiche o'significati' autonomi (vedi Dretske 1981; Fodor 1987b). Lerappresentazioni pubbliche, d'altro canto, sono connesse a ciò cherappresentano solo tramite il significato attribuito a esse da chi le producee da chi le utilizza; non hanno proprietà se

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mantiche intrinseche. In altre parole, le rappresentazioni pubbliche hannosignificato solo se sono associate a rappresentazioni mentali.

Generalmente, alle rappresentazioni pubbliche viene attribuito lo stessosignificato da parte dei loro produttori e fruitori, altrimenti esse non potrebbero servire a comunicare. Questa somiglianza di attribuzione disignificato è resa possibile dal fatto che le persone hanno un linguaggio euna conoscenza enciclopedica simili. La somiglianza tra le persone rende  possibile prescindere dalle differenze individuali e descrivere il'linguaggio', o la 'cultura' di una comunità, il 'significato' di unarappresentazione pubblica, o parlare, per esempio, della 'credenza' che lestreghe volano sui manici di scopa come di una singola rappresentazione,

indipendentemente dalle sue espressioni pubbliche o realizzazioni mentali.Ciò che viene quindi descritto è un'astrazione. Tale astrazione può essereutile in molti modi: può rivelare le proprietà comuni di una famiglia dirappresentazioni correlate, sia pubbliche che mentali; può servire aidentificare in modo economico un oggetto di ricerca. È un errore peròconfonderla con un oggetto 'di questo mondo', e certamente bisogna tener conto del suggerimento di Geertz: meglio ignorare il suo statutoontologico.

Da un punto di vista materialista, quindi, vi sono solo rappresentazionimentali che nascono, vivono e muoiono nella testa degli individui, erappresentazioni pubbliche che sono fenomeni banalmente materiali - ondesonore, configurazioni di luci, ecc. - nell'ambiente degli individui.Prendiamo una particolare rappresentazione, le streghe sui manici di scopa,a livello astratto: ciò che le corrisponde a livello concreto sono i milioni di

rappresentazioni mentali e pubbliche, il cui significato (intrinseco nel casodelle rappresentazioni mentali, attribuito nel caso di quelle pubbliche) èsimile a quello dell'enunciato "le streghe volano su manici di scopa". Inquanto oggetti materiali, questi milioni di rappresentazioni pubbliche ementali possono entrare in relazioni di causa-effetto. Possono quindisvolgere un ruolo sia come explanans sia come explanandum nelle spiega-zioni causali. La sfida materialista è che per i fenomeni culturali non vi sia bisogno di altre spiegazioni oltre a quelle causali.

Le spiegazioni causali devono essere distinte con attenzione da quelleinterpretative, cioè le parafrasi, i riassunti o le esegesi dellerappresentazioni culturali. Ho sostenuto altrove che, mentre entrambe lespiegazioni sono utili in antropologia, solo quelle causali sonogeneralizzate nelle ipotesi teoriche. Dato che il mio interesse qui èteoretico più che etnologico o metodologico,

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non discuterò le spiegazioni interpretative (si vedano Sperber 1985, cap. 1,e 1989).

Consideriamo un gruppo umano: esso contiene un insieme più grandedi rappresentazioni. Alcune di queste rappresentazioni sono costruite sulla base di esperienze idiosincratiche, come, per esempio, il mio ricordo delgiorno in cui smisi di fumare; altre sono basate su esperienze comuni,come, per esempio, la credenza che il carbone sia nero; altre ancoraderivano dalla comunicazione più che dall'esperienza diretta, come, per esempio, la nostra credenza che Shakespeare abbia scritto Macbeth.L'esperienza comune e la comunicazione sono la causa della somiglianzadelle rappresentazioni tra gli individui, o, detto più semplicemente, delfatto che alcune rappresentazioni siano condivise da diversi individui, avolte dall'intero gruppo. Questo discorso è accettabile solo se è chiaro chequando diciamo che una rappresentazione è 'condivisa' da molti individui,ciò che intendiamo è che questi individui hanno rappresentazioni mentaliabbastanza simili per essere considerate versioni luna dell'altra. Se così è,  possiamo produrre un'ulteriore versione - pubblica questa volta - per identificare sinteticamente i contenuti di queste rappresentazioniindividuali.

Quando parliamo di rappresentazioni culturali - la credenza nellestreghe, le regole per servire il vino, il diritto consuetudinario o l'ideologiamarxista - ci riferiamo a rappresentazioni che sono largamente condivise inun gruppo umano. Spiegare le rappresentazioni culturali significa alloraspiegare perché alcune di esse sono così largamente condivise; dato che lerappresentazioni sono più o meno condivise, non c'è un limite netto tra lerappresentazioni culturali e quelle individuali. Una spiegazione di unarappresentazione culturale, quindi, deve essere parte di una spiegazionegenerale della diffusione delle rappresentazioni tra gli esseri umani, partecioè di un'epidemiologia delle rappresentazioni.

L'idea di un approccio epidemiologico alla cultura non è affatto nuova;fu proposta da Gabriel Tarde (1895, 1898) e i biologi contemporaneil'hanno sviluppata in vari modi. Il valore di un approccio epidemiologicoconsiste nel rendere mutualmente rilevante la nostra conoscenza deimicroprocessi di trasmissione e dei macroprocessi di evoluzione.D'altronde, se i microprocessi vengono fondamentalmente fraintesi, comecredo avvenga nel caso degli approcci epidemiologici precedenti, ilrisultato complessivo ha un valore limitato. Quali che siano meriti e dif-ferenze, gli approcci passati condividono un difetto cruciale: essi ritengonoche il processo di base della trasmissione culturale sia la replica, econsiderano le alterazioni degli incidenti.

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L'immagine della trasmissione culturale come un processo di replica èfondata non solo su un'analogia biologica - la mutazione è un incidente, lareplica è una norma -, ma anche su due tendenze dominanti nelle scienzesociali: in primo luogo, come abbiamo visto, le differenze individuali sonoidealizzate e le rappresentazioni culturali sono troppo spesso trattate comese fossero identiche per tutti gli individui all'interno di un gruppo umano odi un sottogruppo; in secondo luogo, la visione predominante dellacomunicazione come processo di codifica seguito simmetricamente da un processo di decodifica implica che la replica dei pensieri del comunicatorenella testa del ricevente sia il normale risultato della comunicazione.

In La pertinenza, Deirdre Wilson e io abbiamo criticato il modello delcodice nella comunicazione umana, sviluppandone uno alternativo cheattribuisce un ruolo importante ai processi inferenziali (si veda Sperber eWilson 1986).

Uno degli aspetti che abbiamo sostenuto - in realtà un aspetto banale,che non sarebbe valsa la pena sottolineare se non per il fatto che è cosìspesso dimenticato - è che ciò che si riesce a ottenere attraverso lacomunicazione umana è soltanto un certo grado di somiglianza tra i pensieri di chi comunica e quelli di chi ascolta. La riproduzione precisa, seesiste, dovrebbe essere vista come un caso limite di massima somiglianzainvece che come la norma della comunicazione. Un processo di comunica-zione è fondamentalmente un processo di trasformazione. Il grado ditrasformazione può variare tra due estremi: duplicazione e distruzione.Solo le rappresentazioni che vengono ripetutamente comunicate e molto poco trasformate dal processo diventano alla fine parte della cultura.

Gli oggetti di un'epidemiologia delle rappresentazioni non sono né lerappresentazioni astratte, né quelle individuali concrete, ma, per così dire,famiglie di rappresentazioni concrete tenute insieme da relazioni causali edalla somiglianza di contenuto. Alcune delle domande a cui vogliamorispondere sono: qual è la causa della formazione di queste famiglie, delloro espandersi, dividersi, mescolarsi l'una all'altra, cambiare nel corso deltempo, scomparire? Così come l'epidemiologia standard non fornisce unasola spiegazione generale per la diffusione di tutte le malattie, non c'èragione di aspettarsi che per ogni rappresentazione esistano uguali rispostea queste domande. La diffusione di un racconto popolare e quella di una  pratica militare, per esempio, coinvolgono capacità cognitive diverse,motivazioni diverse e fattori ambientali diversi. Un approccio epide-miologico non dovrebbe perciò far sperare in una grande teoria unitaria,ma piuttosto cercare di fornire domande interessanti e

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strumenti concettuali utili e di sviluppare i diversi modelli richiesti per spiegare l'esistenza e il destino delle varie famiglie di rappresentazioniculturali.

Benché i fattori che possono contribuire alla spiegazione di unafamiglia di rappresentazioni non possano essere stabiliti prima, in ognicaso alcuni dei fattori da considerare saranno psicologici e altri ambientalio ecologici (assumendo che l'ambiente abbia inizio al livello delleterminazioni nervose dell'organismo di un individuo e che includa, per ogni organismo, tutti gli organismi che interagiscono con esso). I fattori psicologici potenzialmente pertinenti includono la facilità con cui una par-ticolare rappresentazione può essere memorizzata, l'esistenza di unaconoscenza di fondo rispetto alla quale la rappresentazione è pertinente, euna motivazione per comunicare il contenuto della rappresentazione. Ifattori ecologici includono la ricorrenza di situazioni in cui larappresentazione dà luogo o aiuta un'azione appropriata; la disponibilità didepositi esterni di memoria, in particolare la scrittura; l'esistenza diistituzioni impegnate nella trasmissione della rappresentazione. Per una di-scussione sulla nozione di 'istituzione' da una prospettiva epidemiologica,si veda Sperber (1987).

 Non sorprende che i fattori psicologici ed ecologici siano essi stessicondizionati dalla distribuzione delle rappresentazioni. Le rappresentazioniculturali precedentemente interiorizzate sono un fattore chiave nella predisposizione delle persone a immagazzinare nuove rappresentazioni.L'ambiente umano è in gran parte fatto dagli uomini e costruito sulla basedi rappresentazioni culturali; di conseguenza, ci si deve aspettare la pre-senza di feedback sia all'interno dei modelli che spiegano particolarifamiglie di rappresentazioni, sia tra un modello e l'altro. La complessitàrisultante è di ordine ecologico e non organico. Benché l'organicismo siascomparso dalla scena antropologica, la visione organicista della culturacome un tutto ben integrato resiste ancora. L'approccio epidemiologico prende le distanze da questo tipo di olismo culturale rappresentando leculture come sistemi largamente aperti invece che quasi chiusi, e che siapprossimano all'equilibrio ecologico tra famiglie di rappresentazioniinvece di esibire un'integrazione di tipo organico. Una questioneinteressante è allora quella di trovare quali famiglie di rappresentazionitraggano vantaggio luna dall'altra e quali invece siano in competizione.

L'identificazione dei fenomeni epidemiologici (nell'epidemiologiaclassica) nasce spesso dallo studio di patologie individuali, ma vale ancheil contrario: l'identificazione di particolari malattie è spesso aiutata daconsiderazioni epidemiologiche. Al

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lo stesso modo, quando alcuni tipi di rappresentazioni mentali vengonoidentificati a livello psicologico, sorge il problema epidemiologico e,viceversa, quando particolari famiglie di rappresentazioni, o famiglie che sisupportano a vicenda, vengono identificate a livello epidemiologico, si pone la questione del loro carattere psicologico. Più in generale, così come per la patologia e l'epidemiologia delle malattie, la psicologia e l'epidemio-logia delle rappresentazioni devono dimostrare di essere reciprocamente pertinenti.

Speculazioni psicologiche

Gli antropologi, al pari degli psicologi, fanno l'ipotesi che gli esseriumani siano razionali. Non perfettamente razionali, né sempre razionali,ma sufficientemente razionali. Ciò che si intende per razionalità puòvariare, o restare vago, ma implica sempre almeno l'idea che le credenzeumane siano prodotte da processi nel complesso epistemologicamentevalidi, nel senso che gli esseri umani percepiscono approssimativamenteciò che vi è da percepire e inferiscono approssimativamente ciò che ègarantito dalle loro percezioni. Esistono naturalmente illusioni percettiveed errori inferenziali, e la rappresentazione del mondo che ne risulta non ètotalmente coerente, ma, così come sono, le credenze degli esseri umaniconsentono loro di elaborare e svolgere progetti in una maniera che nellamaggior parte dei casi porta alla loro realizzazione.

 Non so perché altri antropologi e psicologi assumano la razionalitàumana, ma so perché io faccio questa ipotesi: è sensata dal punto di vista

 biologico. Perché i vertebrati si sono evoluti in modo da avere sistemicognitivi sempre più complessi che culminano in quello umano, se non  perché questo rendeva le loro interazioni con l'ambiente (nutrirsi,  proteggersi) più efficaci? Ora, solo un sistema cognitivoepistemologicamente valido (ossia che produca approssimazioni allaconoscenza invece di belle associazioni o enigmi stupefacenti) può servireallo scopo, e, per questo, deve essere sufficientemente razionale. Questomodo di spiegare perché gli esseri umani sono razionali implica l'esistenzadi una realtà oggettiva e che almeno una funzione della cognizione umanasia quella di rappresentare nei cervelli aspetti di questa realtà.

Può sembrare psicologicamente banale unire in questo modo realtà eragione, ma molti antropologi - fino a poco tempo fa la maggior parte -sono troppo ben informati per credervi. Le persone di culture diversehanno credenze non soltanto molto

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diverse, ma addirittura mutualmente incompatibili. Le loro credenze dalnostro punto di vista, e le nostre dal loro, sembrano irrazionali. Sevogliamo continuare a sostenere che siamo entrambi razionali, una via diuscita evidente dalla prospettiva del paradosso consiste nel negare cheesista una realtà oggettiva da cui partire. La realtà, da questo punto divista, è un costrutto sociale, e ci sono almeno tanti 'mondi' o 'realtà' quantesono le società. In mondi diversi socialmente costruiti vi saranno credenzerazionali diverse. Ho combattuto a lungo questa visione (si veda Sperber 1974a, 1982); qui mi limiterò a enunciare il mio orientamento in proposito: trovo che una pluralità di mondi sia ancora meno attraente diuna pluralità di sostanze; se ci fosse un modo, ne farei volentieri a meno.

Un modo esiste, ma prima bisogna fare un po' di pulizia concettuale. 2

Di cosa parliamo quando parliamo di 'credenze'? Facciamo un esempio:tendiamo a fare l'ipotesi che Piero crede che pioverà se lo dice, o se assentequando qualcuno lo dice o, in alcuni casi, se prende l'ombrello con sé prima di uscire. Non confondiamo però questi comportamenti con lacredenza in sé: riteniamo che siano causati dal fatto che Piero aveva talecredenza, e quindi li consideriamo come indizi di essa. Potremmo alloraessere tentati di dire, come molti filosofi hanno fatto (per esempio Ryle1949), che una credenza è una disposizione a esprimere una proposizione,o ad acconsentire a essa, o ancora ad agire in accordo con essa. Come psicologi però vorremmo andare più a fondo: quali tipi di stati mentali possono determinare tale disposizione? Una risposta ricorrente è che gliesseri umani hanno una specie di 'archivio' o 'scatola delle credenze' (per 

usare un'espressione di Schiffer) dove sono immagazzinate alcune dellerappresentazioni concettuali.3 Tutte le rappresentazioni immagazzinate inquella scatola particolare sono trattate come descrizioni del mondo reale.Quando la circostanza è ap-

2 La letteratura filosofica sulle credenze è molto vasta (si vedano per esempio Ryle1949; Hintikka 1962; Armstrong 1973; Harman 1973; Dennett 1978; Dret- ske 1981;Stich 1983; Bogdan 1986; Brandt e Harnish 1986), ma non dedica molta attenzione alleproprietà delle credenze che interessano particolarmente gli scienziati sociali. Benché'credenza' sia sempre stato un termine del bagaglio antropologico, Needham 1972 è la

sola discussione dettagliata del concetto da un punto di vista antropologico (ispirata daWittgenstein).

3 II termine 'scatola' ovviamente deve essere inteso in senso lato: più che cor-rispondere a un luogo nel cervello, può riferirsi, per esempio, a un modo di indicizzarele rappresentazioni. Così intesa, la storia della scatola delle credenze non èparticolarmente nuova né controversa, ma ci aiuta a mettere in rilievo ciò chegeneralmente viene semplicemente presupposto.

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  propriata, si generano gli indizi comportamentali della credenza, in particolare l'enunciazione e l'assenso.

La scatola delle credenze, per quanto attraente, non risolve tutti i nostri problemi. Molte delle proposizioni alle quali siamo disposti a dare il nòstroassenso non sono affatto rappresentate nella nostra mente - un'obiezione ben nota - e molte delle proposizioni che non solo avrebbero il nostroassenso, ma che saremmo anche disposti a esprimere e in accordo allequali saremmo disposti ad agire, non sono, o non sono semplicemente,immagazzinate in una base di dati o in una scatola delle credenze -obiezione più controversa.

Avete da sempre creduto che esistano più fenicotteri rosa sulla terrache sulla luna, anche se nessuna rappresentazione mentale nella vostratesta, fino a questo momento, ha mai descritto questo stato di cose.Possiamo avere un'infinità di queste credenze non rappresentate, e in gran parte esse sono condivise da molti, senza che, ovviamente, vengano maicomunicate. È ragionevole d'altronde supporre che ciò che fa sì che questecredenze non rappresentate siano credenze (più specificamente proposizioni a cui siamo disposti a dare il nostro assenso) è il fatto chesiano inferibili da altre credenze che sono mentalmente rappresentate. Ciòche dobbiamo quindi aggiungere alla scatola delle credenze è unmeccanismo inferenziale che possa riconoscere credenze non rappresentatesulla base di quelle realmente rappresentate. Le inferenze in questione nonsono fatte consciamente, quindi il meccanismo inferenziale accoppiato allascatola delle credenze deve restare distinto dalle capacità umane diragionamento conscio, e non deve somigliarvi (si veda Sperber e Wilson1986, cap. 2).

Oltre a rendere conto delle credenze non rappresentate, e a servire dacomplemento alla scatola delle credenze, un meccanismo inferenzialeintroduce un fattore di razionalità nella loro costruzione. Supponiamo chealcune delle rappresentazioni nella nostra scatola delle credenze provengano dalla percezione (intesa in senso lato, in modo da includereanche la 'percezione' degli stati mentali di qualcuno) e che tutte le altrecredenze siano direttamente o indirettamente inferite da quelle basate sulla percezione; ciò sarebbe già sufficiente a garantire aree di coerenza tra lenostre credenze. Supponiamo inoltre che il meccanismo inferenzialericonosca un'incoerenza quando la incontra e la corregga; questo implica,tra l'altro, che le credenze prodotte percettivamente possono essereinvalidate inferenzialmente, in altre parole che la percezione puòdeterminare il contenuto di una credenza ma non è sufficiente da sola acostituirla: può essere necessaria anche la conferma inferenziale, o almenol'as

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senza di invalidazione (vedi Fodor 1983). In questo modo si ottiene unatendenza a estendere le aree di coerenza (anche se possono rimanerecredenze contraddittorie, a condizione che non siano state usatecongiuntamente come premesse di un'inferenza).

Mentre la percezione e l'inferenza inconscia possono spiegare in modoesaustivo le credenze di un elefante, non è così per quelle degli esseriumani. Ciò avviene per due ragioni, tra loro connesse: in primo luogomolte delle credenze umane, probabilmente la maggior parte, non sonoancorate alla percezione delle cose che sono oggetto delle credenze madipendono dalla comunicazione riguardo a queste cose. In secondo luogo,gli esseri umani hanno una capacità metarappresentazionale o interpreta-tiva. Essi possono non solo costruire descrizioni, cioè rappresentazioni distati di cose, ma anche interpretazioni, vale a dire rappresentazioni dirappresentazioni.4 Gli esseri umani usano questa abilità interpretativa per capire ciò che viene loro comunicato e, più in generale, per rappresentare isignificati, le intenzioni, le credenze, le opinioni, le teorie, ecc., che sianocondivisi o meno. In particolare, possono rappresentare una credenza, as-sumere un atteggiamento favorevole a essa e quindi esprimerla, dare il loroassenso, o in generale palesare i comportamenti sintomatici della credenzasu basi molto differenti dal criterio di inclusione nella scatola dellecredenze.

Per esempio, la maestra dice a Lisa: "Ci sono piante femmine e piantemaschi".

Lisa intende 'maschio' e 'femmina' più o meno come un'estensione aglianimali della distinzione tra uomo e donna: le femmine fanno i figli, imaschi sono più portati a combattere, e così via. Poiché nelle piante nonvede nulla che somigli a questa distinzione, non le è ben chiaro cosasignifichi quello che la maestra ha detto in classe. Lo comprende però in parte - capisce che in alcune specie di piante esistono due tipi differenti esuppone che questa differenza sia legata alla riproduzione, ecc. Lisa credealla maestra e se la maestra dice che esistono piante maschi e piantefemmine, Lisa tende a dire la stessa cosa, a dire che crede a questo e aesibire vari comportamenti sintomatici della credenza.

Ma dietro al comportamento di Lisa, sintomatico di quella particolarecredenza, c'è una vera e propria credenza? Non è del tipo di quellecontenute nella scatola delle credenze, dato che

4 Sul contrasto fra descrizione e interpretazione si vedano Sperber 1982, cap. 1 eSperber e Wilson 1986, cap. 4.

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un'idea compresa a metà non può provenire dalla percezione o daun'inferenza a partire da percezioni: si tratta invece di un tipico risultato dicomunicazione non totalmente riuscita. Ricordiamoci inoltre che vogliamoche il meccanismo inferenziale operi liberamente sulle credenze nellascatola delle credenze, così da poter generare un numero maggiore dicredenze muralmente coerenti; dobbiamo allora guardarci dal permettereche le idee comprese a metà possano entrare direttamente nella scatola,dato che la loro coerenza con le altre rappresentazioni e le loroimplicazioni sono in gran parte indeterminate.

Come è dunque possibile che la credenza di Lisa, non completamentecompresa, che esistano piante maschi e piante femmine, sia rappresentatanella sua mente? Nella sua scatola delle credenze potrebbero esserci leseguenti rappresentazioni:

"Ciò che dice la maestra è vero"."La maestra dice che ci sono piante maschi e piante femmine."La comprensione parziale di Lisa di 'ci sono piante maschi e piante

femmine' è così inclusa in una credenza che appartiene alla scatola dellecredenze riguardo a quello che la maestra ha detto. Questa credenza,insieme a quella che "ciò che dice la maestra è vero", fornisce un contestodi conferma per la rappresentazione inclusa nelle parole della maestra. Ciòfornisce a Lisa una base razionale per esibire molti dei comportamenti sin-tomatici di quella credenza, ma una base ben diversa da quella fornitadall'inclusione diretta nella scatola delle credenze.

Quest'esempio suggerisce che le credenze che noi attribuiamo alle persone sulla base degli indizi che il loro comportamento ci fornisce nonappartengono a un solo tipo psicologico; in altri termini, stati mentali ditipo alquanto differente portano a identici comportamenti sintomatici diuna credenza.

Sostengo che esistono due tipi fondamentali di credenze rappresentatenella mente. Ci sono le descrizioni degli stati di cose immagazzinatedirettamente nella scatola delle credenze - chiamiamole credenze intuitive -che sono intuitive in quanto prodotto tipico di processi inferenziali e  percettivi spontanei e inconsci; per avere credenze intuitive non c'è bisogno di essere consapevoli di possederle, e ancor meno delle ragioni per cui le abbiamo. Ci sono poi le interpretazioni di rappresentazioni in-serite nel contesto di conferma di una credenza intuitiva, comenell'esempio precedente - chiamiamole credenze riflessive - che sonoriflessive in quanto oggetto di credenze di secondo ordine e che sonocredute in virtù di esse.5

5 In Sperber 1974b, ho descritto le credenze riflessive come se fossero 'tra

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Le credenze intuitive derivano o sono derivabili dalla percezioneattraverso il meccanismo inferenziale. Il vocabolario mentale dellecredenze intuitive è probabilmente limitato a concetti di base, vale a direconcetti che si riferiscono a fenomeni identificabili percettivamente, e aconcetti astratti innati, preformati e non analizzati (come, per esempio,norma, causa, sostanza, specie, funzione, numero o verità). In circostanzenormali, le credenze intuitive riguardano tutto ciò che è concreto eaffidabile. Insieme, esse rappresentano una specie di visione del mondodettata dal senso comune. I loro limiti sono quelli del senso comune: sonoabbastanza superficiali, più descrittive che esplicative e vengono assuntecon una certa rigidità.

A differenza delle credenze intuitive, quelle riflessive non co-stituiscono una categoria ben definita. Ciò che hanno in comune è il loromodo di occorrenza: sono inserite in credenze intuitive (oppure, dato chevi possono essere inserimenti multipli, in altre credenze riflessive). Essecausano i comportamenti sintomatici della credenza perché, in un modo onell'altro, sono confermate dalla credenza intuitiva in cui sono inserite.Possono però variare profondamente: una credenza riflessiva può esserecompresa a metà ma completamente comprensibile, come nell'esempio precedente sul sesso delle piante; oppure, come mostrerò brevemente, puòrimanere per sempre compresa a metà o, al contrario, venir compresacompletamente. Il contesto di conferma può essere l'identificazione dellafonte della credenza riflessiva con un'autorità affidabile (come per esempiola maestra) oppure un ragionamento esplicito. Data la varietà di possibiliconferme contestuali per una credenza riflessiva, l'adesione a tali credenze

 può variare ampiamente, da opinioni superficiali a credo fondamentali, dasemplici sospetti a convinzioni ben meditate. Le credenze riflessivegiocano ruoli differenti nella conoscenza umana, come illustrerò brevemente.

Per Lisa, formare e immagazzinare la credenza, compresa a metà, checi sono piante femmine e piante maschi può essere un passo verso unacomprensione più adeguata della distinzione maschio-femmina. Questacredenza le fornisce un pezzo incompleto di informazione, che può esserecompletato grazie a ulteriori incontri con indizi rilevanti. Una voltaraggiunta una com-

virgolette'; in Sperber 1982 ho confrontato credenze 'fattuali' e credenze 'rap-presentazionali'; in Sperber 1985, riprodotto qui con qualche modifica come capitolo 3,ho confrontato credenze 'fondamentali' e credenze 'speculative'. Ognuna di queste

terminologie si è rivelata difettosa sotto qualche aspetto. Spero che l'attuale proposta siamigliore.

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prensione adeguata dell'argomento, la sua credenza che esistono piantemaschi e piante femmine può essere trasferita o duplicata nella scatoladelle credenze. Un ruolo delle credenze riflessive può essere quindi quellodi trattenere un'informazione che ha bisogno di essere completata per poter costituire una credenza intuitiva.

Consideriamo ora il caso seguente. Il piccolo Roberto ha nella suascatola delle credenze le due rappresentazioni:

"Ciò che dice la mamma è vero"."La mamma dice che Dio è dappertutto."Roberto non capisce pienamente come qualcuno, chiamalo Dio, possa

essere dappertutto. D'altronde, il fatto che sua madre lo dica gli dà unfondamento sufficiente per esibire tut- ti i comportamenti sintomatici dellacredenza: può ripetere che Dio è dappertutto, acconsentire alla stessa frasedetta da altri e astenersi dal commettere peccati anche in luoghi doveapparentemente nessuno lo può vedere. Che Dio sia dappertutto è per Roberto una credenza riflessiva. Crescendo, egli può mantenere lacredenza e arricchirla in molti modi, ma il suo significato esatto, se neesiste uno, diventerà ancora più misterioso di quanto fosse all'inizio.Questo è un caso di una credenza che, come gran parte delle credenzereligiose, non si presta a un'interpretazione finale chiara, e che quindi non  può mai diventare una credenza intuitiva. Parte dell'interesse per lecredenze religiose, per coloro che le hanno, deriva precisamente da questoelemento di mistero, dal fatto che non le si può mai interpretarecompletamente. Mentre l'utilità cognitiva delle credenze religiose, o dialtri tipi di credenze misteriose, può essere limitata (ma vedi Sperber 1974b), non è molto difficile vedere come il loro mistero crei dipendenzanei loro confronti.

 Nei due esempi considerati fino a qui - Lisa e il sesso delle piante,Roberto e l'onnipresenza divina - ciò che faceva sì che la rappresentazioneriflessiva fosse una credenza era l'autorità garantita alla fonte dellarappresentazione: la maestra o la mamma. Anche l'uomo comune accetta lecredenze scientifiche sulla base dell'autorità. Per esempio, noi tutticrediamo che E = mc2 avendo soltanto una comprensione molto limitata delsignificato di questa formula e nessuna idea degli argomenti che ne hanno portato all'adozione. La nostra credenza è quindi una credenza riflessiva dicontenuto misterioso giustificata attraverso la nostra fiducia nellacomunità dei fisici. Non è molto differente, sotto questo aspetto, dallacredenza di Roberto che Dio è dappertutto.

Una differenza però esiste. Anche per il teologo, che Dio sia

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dappertutto è un mistero accettato sulla base dell'autorità; per il fisico,invece, la teoria della relatività non è un mistero perché le ragioni per accettarla non hanno nulla a che vedere con la fede. Le credenze riflessiverealmente comprese, come le credenze scientifiche degli scienziati,includono un resoconto esplicito delle basi razionali che hanno condottoalla loro assunzione. La loro reciproca coerenza e la loro coerenza con lecredenze intuitive può essere accertata, e questo gioca un ruolo importante,anche se molto complesso, nel determinarne il rifiuto o l'accettazione.Anche per il fisico la teoria della relatività è pur sempre una credenzariflessiva, una teoria, una rappresentazione esposta al giudizio e aperta allarevisione e alla competizione con altre teorie, più che un fatto che può

essere percepito o inferito inconsciamente dalla percezione.Le credenze misteriose o comprese a metà sono molto più frequenti eculturalmente più importanti di quelle scientifiche. Poiché non sonocompletamente comprese, e restano quindi suscettibili di reinterpretazioni,la loro coerenza o incoerenza con altre credenze intuitive o riflessive non èmai autoevidente e non fornisce un criterio forte di accettazione o rifiuto.Il loro contenuto, considerata l'indeterminazione, non può esseresufficientemente corroborato né dai dati empirici, né da argomenti che negarantiscano l'accettazione razionale. Ciò non significa che tali credenzesiano irrazionali: esse sono assunte razionalmente se esistono basirazionali per dare fiducia alla fonte delle credenze (i genitori, la maestra olo scienziato).

Questa è la mia risposta a chi vede nella grande diversità dellecredenze umane e nella loro apparentemente frequente incoerenza un

argomento a favore del relativismo culturale: esistono due classi dicredenze che raggiungono la razionalità in modi diversi. Le credenzeintuitive devono la loro razionalità a meccanismi percettivi e inferenzialiessenzialmente innati; pertanto esse non variano in modo cruciale da unacultura all'altra e sono reciprocamente coerenti o facilmente conciliabili.Le credenze che variano attraverso le culture al punto da sembrare irra-zionali dalla prospettiva di un'altra cultura sono credenze riflessive con uncontenuto in parte misterioso anche per coloro che vi credono. È razionaleassumere queste credenze non per il loro contenuto, ma per la fonte: ilfatto che persone differenti possano dare fiducia a differenti fonti dicredenze - io, i miei maestri, tu, i tuoi - è esattamente ciò che ci aspettiamoin un mondo di persone ugualmente razionali che semplicemente vivono inluoghi diversi.

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Tipi differenti di credenze, meccanismi differenti di distribuzione

Cerchiamo di integrare le speculazioni antropologiche e psi-cologiche sviluppate sin qui. Se ci sono diversi tipi di credenzedovremmo aspettarci che i meccanismi della loro distribuzionesiano differenti, più precisamente, che la distribuzione delle cre-denze intuitive, che sono relativamente omogenee, rispetti per-corsi abbastanza comuni6 e che la distribuzione delle credenzeriflessive, che sono molto più varie, avvenga in modi molto dif-ferenti. In quest'ultima sezione vorrei convincervi che le cosestanno davvero così.

In tutte le società umane, tradizionali e moderne, dotate o

meno di scrittura e di istituzioni pedagogiche, ogni individuonormale acquisisce un ricco corpus di credenze intuitive riguar-do a se stesso e al proprio ambiente naturale e sociale. Tali cre-denze riguardano il movimento dei corpi fisici, quello del pro-  prio corpo, gli effetti delle varie interazioni corpo-ambiente, ilcomportamento di molti esseri viventi, quello degli esseri umanidella sua comunità. Le credenze vengono acquisite nel corso

della normale interazione con l'ambiente e con gli altri; non ri-chiedono né uno sforzo di apprendimento conscio da parte dichi apprende, né uno sforzo di insegnamento conscio da partedegli altri (si veda Atran e Sperber 1991). Anche senza insegna-mento, sono acquisite facilmente da tutti - le più fondamentalimolto presto -, al punto da suggerire l'esistenza di una predi-

sposizione innata estremamente forte; si vedano Keil 1979; Ca-rey 1982, 1985; Gelman e Spelke 1981 e Hirschfeld 1984.Alcune credenze intuitive riguardano particolari (singoli

luoghi o eventi, animali o persone) e sono idiosincratiche e con-divise solo molto localmente; altre sono generali (o riguardano  particolari largamente conosciuti come fatti e personaggi stori-ci), e sono diffuse in una società. Le credenze intuitive generalivariano da cultura a cultura, ma non di molto. Per citare solo undato aneddotico, bisogna ancora trovare una cultura in cui lecredenze intuitive sullo spazio e il movimento siano talmentediverse da quelle occidentali moderne da rendere seriamente  problematico per i nativi guidare un'automobile. Molti lavori re-centi in etnologia mostrano che le differenze transculturali ri-

6 Ci sono ragioni fondate per ritenere che le credenze intuitive in diversi dominicognitivi - fisica ingenua, zoologia ingenua, psicologia ingenua - abbiano diversestrutture concettuali (si vedano Sperber 1975; Atran 1987; Atran e Sperber 1991).Queste differenze però non sembrano generare modi molto diversi di distribuzione.

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guardo alle classificazioni zoologiche, botaniche o cromatiche sono  piuttosto superficiali e che esistono strutture universali sottostanti aognuno di questi domini, e presumibilmente anche ad altri; si vedanoBerlin e Kay 1969; Berlin et alii 1973; Berlin 1978, e Atran 1985, 1986,1987.

Che ruolo gioca la comunicazione nella costruzione delle credenzeintuitive? La risposta non è semplice. Le credenze intuitive sono (o sonotrattate come) l'output dei processi di percezione e di inferenza inconscia,sia propri del soggetto sia di altri, nel caso in cui le credenze sianoacquisite tramite la comunicazione. Anche quando una credenza intuitiva èderivata dalle percezioni proprie del soggetto, le risorse concettuali e le

assunzioni di fondo che si combinano con l'input sensoriale per generare lavera e propria credenza sono state in parte acquisite tramite lacomunicazione. Sembra così che tanto la percezione quanto lacomunicazione siano sempre implicate, o come fonte diretta dellacredenza, o come ipotetica fonte indiretta (il che impone un serio vincolosui possibili contenuti delle credenze intuitive). La comunicazione èsempre coinvolta sia come fonte diretta, sia, almeno, come fonte diconcetti e di informazione contestuale.7

Qual è la relazione tra la proporzione di percezione e comunicazionenella costruzione di una credenza intuitiva e nella sua distribuzionesociale? È vero che maggiore è la proporzione di comunicazione, più vastaè la distribuzione? Ancora una volta la risposta non è semplice. Un grannumero di credenze molto diffuse devono l'ampiezza della lorodistribuzione al fatto che tutti i membri di una società, o, in alcuni casi,

tutti gli esseri umani, hanno le stesse esperienze percettive. D'altronde,come ho già detto, le stesse risorse della percezione sono in parte derivatedalla comunicazione.

Prendiamo la diffusa credenza che il carbone sia nero: ci è stato detto,oppure l'abbiamo inferito dalle nostre percezioni? Difficile da sapere. Maanche se l'abbiamo inferito dalla percezione, nel farlo abbiamo usato iconcetti di nero e di carbone; come li abbiamo acquisiti? Per quantoriguarda 'nero', sembra

7 La ricerca sullo sviluppo cognitivo nei neonati (si veda per esempio Spelke 1988)mostra che i neonati hanno anticipazioni precise su fenomeni quali il movimento deglioggetti, che non possono provenire dalla comunicazione. Se queste aspettative sonocredenze intuitive nel senso pertinente, e non dipendono da credenze intuitiveinfluenzate dal linguaggio, allora si può pensare che alcune credenze intuitive degliesseri umani siano indipendenti dalla comunicazione.

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che la categoria sia predisposta in modo innato, e quando apprendiamo la parola 'nero' acquisiamo semplicemente un modo di esprimere verbalmenteun concetto che già possediamo (si vedano Berlin e Kay 1969; Carey1982). Nessuno sosterrebbe invece che 'carbone' sia un concetto innato, maciò che può essere innata è la struttura dei concetti di sostanza e l'aspetta-tiva di caratteristiche fenomeniche regolari, in particolare il colore. Così,anche se probabilmente abbiamo acquisito il concetto di carbone nel  processo di apprendimento della parola 'carbone', l'acquisizione delconcetto non ha significato niente di più che prendere lo schemaconcettuale innato appropriato e 'riempirlo'. Nel processo di riempimento,o ci viene detto da qualcuno che il carbone è nero, oppure lo inferiamo daquello che vediamo.

 Non fa molta differenza, allora, se una credenza individuale che ilcarbone sia nero sia derivata dalla percezione o dalla comunicazione: unavolta che il concetto di carbone viene comunicato, la credenza che ilcarbone sia nero seguirà in un modo o nell'altro. Ciò vale generalmente per le credenze diffuse, che si conformano ad aspettative cognitive basate sudisposizioni innate arricchite culturalmente e sono confermate ampiamentedall'ambiente. Come risultato, differenti esperienze percettive dirette edifferenti esperienze indirette acquisite attraverso la comunicazioneconvergono perciò sulle stesse credenze intuitive generali.

Le credenze intuitive diffuse, anche le più esotiche, sono raramentesorprendenti. Non sono il tipo di credenze che suscitano generalmente lacuriosità degli scienziati sociali, a eccezione degli antropologi cognitivi.Tra gli psicologi, solo quelli interessati allo sviluppo hanno cominciato astudiarle in modo dettagliato. In realtà le credenze intuitive nondeterminano solo gran parte del comportamento umano, ma fornisconoanche uno sfondo comune per la comunicazione e per lo sviluppo dellecredenze riflessive.

Mentre le credenze intuitive diffuse devono la loro distribuzione sia aesperienze concettuali comuni che alla comunicazione, le credenzeriflessive diffuse la devono quasi esclusivamente alla comunicazione. Ladistribuzione delle credenze riflessive ha luogo, per così dire, all'aperto: lecredenze riflessive non solo sono consce, ma sono anche distribuitedeliberatamente. Per esempio i credenti di una religione, gli ideologi politici e gli scienziati, per quanto possano essere diversi sotto altri aspetti,ritengono sia un loro dovere fondamentale far sì che altri condividano leloro credenze. Più precisamente, dato che la distribuzione delle credenzeriflessive è un processo sociale altamente

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visibile, dovrebbe essere evidente che tipi differenti di credenze riflessiveraggiungono un livello di distribuzione culturale in modi molto diversi.Consideriamo molto brevemente tre esempi: un mito in una società senzascrittura, la credenza che tutti gli uomini nascono uguali, e il teorema diGodei.

Un mito è una storia trasmessa oralmente che si considera rappresentieventi reali, anche 'soprannaturali', incompatibili con le credenze intuitive.Un mito dunque, per essere accettato senza incoerenze, deve essere isolatodalle credenze intuitive, vale a dire considerato come una credenzariflessiva. Un mito è una rappresentazione culturale: ciò significa che èuna storia con differenti versioni pubbliche raccontata abbastanza spesso perché una quantità sufficientemente elevata di esseri umani la conosca -abbia cioè versioni mentali di essa. Per questo, due condizioni devonoessere soddisfatte. In primo luogo, la storia deve poter essere ricordataabbastanza facilmente e dettagliatamente sulla base del solo input orale.Alcuni temi e alcune strutture narrative sembrano essere migliori di altridal punto di vista transculturale. Anche il cambiamento dello sfondoculturale influenza la capacità di ricordare; un mito infatti tende a modi-ficarsi nel corso del tempo in modo da conservare il massimo grado dimemorabilità.

In secondo luogo, devono esserci incentivi sufficienti per rievocare eraccontare la storia in un numero di occasioni sufficiente perché siaricordata. Può trattarsi di incentivi istituzionali, come per esempiooccasioni rituali dove sia obbligatorio raccontare la storia; ma l'incentivo  più sicuro deriva dall'attrattiva della storia per il suo pubblico e dalsuccesso che il narratore può aspettarsi. È interessante, anche se nonsorprendente, che gli stessi temi e le stesse strutture che aiutano a ricordarela storia la rendano particolarmente attraente.

Se vengono soddisfatte le condizioni psicologiche di memorabilità eattrattiva, la storia ha buone possibilità di essere distribuita, ma, per essereun mito e non una semplice storia riconosciuta e apprezzata come tale,essa deve essere creduta vera. Che tipo di basi razionali ha la gente per accettarla come tale? La fiducia in chi racconta la storia: di solito, lafiducia negli antenati nei quali le persone hanno buone ragioni di credere eche non si rifanno ad altra autorità se non a quella derivata dai loro avi.L'origine della catena può essere un innovatore religioso che, proponendouna versione notevolmente differente di miti più antichi, si richiamavaall'autorità divina. Il riferimento agli antenati genera una struttura diautorità che si autoperpetua per una storia che ha già una struttura ditrasmissione autoper- petuantesi. La struttura di autorità è tuttavia piùfragile di quel-

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1.1 di trasmissione: molti miti perdono infatti credibilità, ma nonmemorabilità o fascino, e diventano storie.

La credenza che tutti gli uomini siano uguali è una tipica credenzariflessiva: non è prodotta dalla percezione né dall'infe- renza inconscia a partire dalla percezione. In realtà, a eccezione dei pochi filosofi che sonoall'origine di tale credenza, tutti coloro che vi credono sono arrivati a essa  per mezzo della comunicazione. Una credenza di questo tipo noncostituisce un peso significativo per la memoria, ma rappresenta una sfida per la comprensione ed è certamente intesa in modo differente a secondadelle persone. Come è già stato detto, il fatto che si presti a numeroseinterpretazioni ha contribuito probabilmente al suo successo culturale.

Il fattore più importante nel successo della credenza che tut- t i gliuomini siano uguali è la sua estrema pertinenza, vale a dire, secondoSperber e Wilson (1986), l'abbondanza delle sue implicazioni contestualiin una società fondata sulle differenze nei diritti di nascita. Le persone chericonobbero, e certo desiderarono le implicazioni di questa credenza,trovarono basi per accettarla e diffonderla. La diffusione della credenza(anche se non il fatto di averla) comportava tuttavia un rischio, e dunqueessa si diffuse solo dove e quando vi era un numero sufficiente di personedisposte ad assumerlo. In altre parole, a differenza di un mito, che sembraavere una vita propria e sopravvivere e diffondersi sotto forma di mito o dileggenda in una grande varietà di condizioni storiche e culturali, il destinoculturale di una credenza politica è legato a quello delle istituzioni. Nellospiegare la distribuzione di una credenza politica i fattori ecologici, inmodo particolare l'ambiente istituzionale, giocano un ruolo più importantedi quelli cognitivi.

Consideriamo ora una credenza matematica come il teorema di Godei.Anche in questo caso, tutti coloro che la condividono, tranne Godei stesso,vi sono arrivati tramite la comunicazione. Ciononostante, lacomunicazione e quindi la diffusione di una credenza di questo tipoincontra difficoltà cognitive estreme. Solo le persone con un livello elevatodi conoscenza della logica matematica possono intraprenderne lo studio per cercare di capirla. Al di fuori delle istituzioni scolastiche, mancano siagli strumenti che le motivazioni per affrontare una simile impresa. D'altra parte, una volta superate le difficoltà di comunicazione l'accettazione non pone problemi: capire il teorema di Godei significa credervi.

L'organizzazione cognitiva umana è tale per cui non è possibilecomprendere credenze di questo tipo e non condividerle. In qualche senso,e con gli evidenti limiti, questo vale per tutte le

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teorie scientifiche moderne che hanno avuto successo. La loro robustezzacognitiva ne compensa, per così dire, l'astrusità e ne spiega il successoculturale. Il fatto che le teorie scientifiche vincenti si impongano a coloroche le comprendono è manifesto anche a chi non le comprende. Questo fasì che la gente comune sia portata, molto razionalmente, a credere che taliteorie siano vere e a esprimere come proprie credenze ciò che riescono acitare o a parafrasare da esse. Il teorema di Godei e le teorie scientifiche ingenerale diventano così credenze culturali - di livello differente e accettatesu basi differenti - sia per gli scienziati che per la comunità allargata.

Possiamo confrontare i nostri tre esempi: il mito è fortementedeterminato da fattori cognitivi e in misura minore da fattori ecologici. Lecredenze politiche sono determinate poco da fattori cognitivi e molto dafattori ecologici e le credenze scientifiche sono fortemente determinate siada fattori cognitivi che da fattori ecologici. D'altronde, anche questoconfronto enfatizza le somiglianze fra i tre casi: i fattori cognitivi coinvoltinel mito e nella scienza e i fattori ecologici coinvolti nella politica e nellascienza sono molto differenti. È proprio la struttura delle credenzeriflessive, il fatto che esse siano atteggiamenti relativi a rappresentazioni enon direttamente a stati di cose ipotetici o reali, a permettere un'infinità didifferenze.

  Nonostante le differenze, la spiegazione delle credenze culturali,intuitive o riflessive, e se riflessive, tanto comprese a metà quantocompletamente, implica l'attenzione a due aspetti: come vengono elaboratecognitivamente dagli individui e come vengono comunicate in un gruppo.Per usare uno slogan: la cultura è il precipitato della conoscenza e dellacomunicazione in una popolazione umana.

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5. Selezione e attrazione nell'evoluzioneculturale

Supponiamo di voler sviluppare una spiegazione naturalistica e causaledei fenomeni culturali (non credo, peraltro, che le spiegazioni causali sianole sole che valga la pena di sviluppare; quelle interpretative, che sonostandard in antropologia, rispondono meglio ad alcune domande). Unaspiegazione causale è meccanicistica quando analizza una relazionecomplessa come un'articolazione di relazioni causali più elementari. Ènaturalistica nella misura in cui ci sono ragioni fondate per credere che talirelazioni più elementari potrebbero essere a loro volta analizzatemeccanicisticamente fino a un livello di descrizione al quale il lorocarattere naturale risulterebbe completamente non problematico.

Il tipo di naturalismo che ho in mente ha lo scopo di gettare un pontetra scienze differenti e non di ridurre l'una all'altra. È molto probabile che,se non si spiegassero le relazioni causali in termini di meccanismi dilivello sottostante, si perderebbero generalizzazioni importanti. Èaltrettanto probabile che, tenendo conto solo dei meccanismi di livelloinferiore, si perderebbero altre generalizzazioni interessanti: se vogliamoun ponte, è per muoverci liberamente in due direzioni.

Le spiegazioni nelle scienze sociali sono talvolta meccanicistiche, madifficilmente sono naturalistiche (con rare eccezioni nella demografia enella linguistica storica). Esse non sono naturalistiche anche solo perchéattribuiscono liberamente poteri causali a entità come le istituzioni o leideologie, il cui modo materiale di esistenza non è esplorato. Se vogliamosviluppare un programma naturalistico nelle scienze sociali, dobbiamoimporci un certo ritegno ontologico e fare appello solo a entità i cui poteri

causali possano essere compresi in termini naturalistici.

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La mia proposta è di riconoscere gli organismi umani nel loro ambientemateriale (naturale e artificiale) e di concentrarci sui loro singoli stati e processi mentali e sulle cause e sugli effetti fisico-ambientali di questioggetti mentali.1 Ecco in che modo, avendo ristretto la nostra ontologia, possiamo prendere in considerazione il sociale. Una popolazione umana èabitata da una popolazione molto più estesa di rappresentazioni mentali,cioè di oggetti che si trovano nella mente/cervello degli individui, come lefantasie, le credenze, i desideri, le intenzioni, e così via. L'ambiente fisicocomune della popolazione è abitato dalle produzioni pubbliche dei suoimembri. Con 'produzione pubblica' intendo ogni modificazione percepibiledell'ambiente causata dal comportamento umano; esse includono i

movimenti fisici e i loro risultati. Alcune produzioni sono di lunga durata,come i vestiti o gli edifici; altre sono effimere, come le smorfie o i suonidelle parole.

Tra le cause e gli effetti delle produzioni pubbliche ci sono lerappresentazioni mentali, che possono a loro volta causare altre produzioni pubbliche, che possono causare altre rappresentazioni mentali, e così via.Ci sono così catene causali complesse dove si alternano rappresentazionimentali e produzioni pubbliche. Le produzioni pubbliche possono averecome cause molte rappresentazioni mentali, e, di converso, ogni anello diuna catena causale può saldarsi a molti altri, sia in un verso che nell'altrodel percorso causale.

Di particolare interesse sono le catene causali che vanno dallerappresentazioni mentali alle produzioni pubbliche alle rappresentazionimentali, e così via, in cui i discendenti causali si assomigliano nel

contenuto. La più piccola catena causale di questo tipo è un atto dicomunicazione riuscito. Solitamente, le produzioni pubbliche coinvoltenella comunicazione sono rappresentazioni pubbliche, come gli enunciatilinguistici. Le rappresentazioni pubbliche sono artefatti la cui funzione èassicurare una somiglianza di contenuto tra una delle loro cause mentalinell'emittente e uno dei loro effetti mentali nei destinatari.

La comunicazione è uno dei principali meccanismi di trasmissione,insieme all'imitazione. La trasmissione è un proces

1 Ovviamente, che gli oggetti materiali possano essere naturalizzati è tutt'al- tro chestabilito. Se così non è, se non si può gettare un ponte tra il livello neurologico e quellopsicologico, allora il mio discorso si riduce a una proposta di collegamento tra il livellopsicologico e quello delle scienze ecologiche. Se, come credo, il programma naturalisticopuò avere successo in psicologia, allora questa è una proposta per unire le scienze socialie quelle naturali grazie alla psicologia e all'ecologia.

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so che può essere intenzionale o meno, cooperativo o meno, e che provocauna somiglianza di contenuto tra una rappresentazione mentale in unindividuo e il suo discendente causale in un altro. Nella maggior parte deicasi, le rappresentazioni mentali non sono trasmesse; la maggior partedelle trasmissioni sono eventi locali che hanno luogo una volta sola. Puòaccadere però che il ricevente di un atto di trasmissione divenga a suavolta un trasmettitore, così come il ricevente successivo, e così via,  producendo una lunga catena di trasmissione e una serie dirappresentazioni mentali (insieme con le rappresentazioni pubbliche, nelcaso della comunicazione) tenuta insieme sia causalmente che dallasomiglianza di contenuto. I pettegolezzi, che si trasmettono velocemente, ele tradizioni, che si trasmettono lentamente, sono esempi paradigmatici diqueste catene culturali.

 Il modello della selezione

Quando abbiamo una serie di rappresentazioni mentali suffi-cientemente simili nel contenuto da sembrare ognuna una versionedell'altra, è possibile e spesso utile produrre un'ulteriore versione pubblicache rappresenti in modo prototipico il loro contenuto in parte comune.Parliamo allora della credenza nella metempsicosi, della ricetta del risottocon i funghi, della storia di re Artù, ognuna identificata da un contenuto. Sitratta ovviamente di astrazioni, almeno quanto lo sono la zebra, l'ordine

dorico, o il contadino russo. È interessante vedere tutte le rappresentazioniconcrete a cui può essere attribuito lo stesso contenuto tramite unaversione prototipica, con variazioni trascurabili, come se fossero una lareplica dell'altra. Una volta fatto ciò, è molto facile vedere tutti gliesemplari della 'stessa' rappresentazione come se formassero una classedistinta di oggetti nel mondo, così come si ritiene che l'insieme di tutte lezebre costituisca un genere naturale. L'unità così costruita delle serie dirappresentazioni rende possibile usare, per sviluppare una spiegazionecausale della cultura, uno degli strumenti più potenti della storia intellet-tuale: l'idea darwinista di selezione.

In questa prospettiva, le rappresentazioni culturali sono 're- plicatori',ossia oggetti in grado di autoriprodursi. Esse si auto- riproduconoincitando coloro che le adottano a produrre comportamenti pubblici che ne provochino l'adozione da parte di altri, e così via. Occasionalmente le

rappresentazioni 'mutano', dando a volte inizio a una nuova serie. Ilcompito di spiegare i contenuti e l'evoluzione di una certa cultura puòessere visto co

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me quello di trovare quali rappresentazioni sono più adatte a replicarsi,sotto quali condizioni e perché. Diverse versioni di questa idea sono statedifese da Karl Popper, Donald Campbell, Jacques Monod, Cavalli-Sforza eFeldman, Boyd e Richerson, William Durham, e Richard Dawkins, che hainventato il termine 'memi' per i replicatoti culturali.2

Ho spesso sostenuto che esiste una seria difficoltà nel cercare disviluppare una spiegazione naturalistica della cultura sulla base delmodello darwinista di selezione. Non ho nessuna riserva intellettualeriguardo al darwinismo; al contrario, sono convinto che le considerazionidarwiniste svolgano un ruolo centrale nella spiegazione della culturaumana, dato che contribuiscono a rispondere alla domanda fondamentale:quali meccanismi biologici, e in particolare cerebrali, fanno sì che gliesseri umani siano animali culturali con il tipo di cultura che conosciamo?In altre parole, per capire in che senso la cultura umana è 'umana',dobbiamo fare appello alla biologia, dunque alla teoria dell'evoluzione,dunque al modello darwinista di selezione. È la nozione di cultura cherichiede di essere affrontata in una prospettiva nuova, e secondo medifferente, che tuttavia è in parte debitrice del darwinismo.3

I punti centrali che ho sostenuto in questi anni e nei capitoli precedentidel libro sono stati: 1) che le rappresentazioni in generale non si replicanonel processo di trasmissione, ma si trasformano; e 2) che si trasformanosulla base di processi cognitivi costruttivi. La riproduzione, se maiavviene, deve essere vista come un caso limite di assenza ditrasformazione. Le mie osservazioni sono state prese come una manieraenfatica di insistere su un punto corretto, ma non così importante, ossiache la riproduzione non è perfetta.4 Ma, dopotutto, non è forse vero cheanche Dawkins ha osservato che "nessun processo di copia è infallibile" eche "non fa parte della definizione di replicatore l'idea che tutte le suecopie debbano essere perfette" (Dawkins 1982, p. 85; tr. it. p. 93)?

2 Si veda Sober 1991.3 Una posizione sull'evoluzione culturale molto simile alla mia è quella di Pascal

Boyer (1993, cap. 9). Gli argomenti di Boyer e i miei sono in parte simili, in partecomplementari. Boyer propone una discussione dettagliata dei modelli di Lumsden eWilson (1981), Boyd e Richerson (1985) e Durham (1991). C'è anche una certaconvergenza con Tooby e Cosmides (1992). Due altri approcci originali e iinportanti,quello dell'antropologo cognitivista Ed Hutchins (1994) e della filosofa Ruth Millikan(1984, 1993) meriterebbero una discussione a parte.

4 È così almeno che mi sembra di essere interpretato da Dennett (1995, pp. 357-359).

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Dawkins è cosciente del problema:Il processo di copia è probabilmente molto meno preciso del caso deigeni: ci possono essere certi elementi 'mutazionali' in ogni evento diriproduzione. [...] I memi possono mischiarsi parzialmente unonell'altro, cosa che i geni non fanno. Le nuove 'mutazioni' possonoessere 'dirette' invece che causali, rispetto alle tendenze evolutive. [...]Queste differenze possono essere sufficienti per rendere inutile, oaddirittura fuorviante, l'analogia con la selezione naturale genetica.(Dawkins 1982, p. 112; tr. it. p. 126)

Il principale interesse di Dawkins e il suo contributo più rilevanteconsistono nell'aver osservato che i meccanismi di selezione naturale

darwinista non sono in nessun modo riservati al materiale biologico, ma possono essere applicati a replicatoti di qualsiasi sostanza e qualsiasi tipo.5

I virus dei computer sono (purtroppo) replicatoti non biologici molto benriusciti. Ecco un altro esempio di replicatore culturale. Mi succede diricevere per posta lettere della 'catena di sant'Antonio' che dicono cose delgenere:

Fai dieci copie di questa lettera e mandale a dieci persone differenti.Questa catena è stata cominciata a Santiago de Compostela. Nonspezzarla! La signora Rossi spedì dieci copie della lettera il giornostesso e, la stessa settimana, vinse alla lotteria. Il signor Bianchi lagettò via senza copiarla, e il giorno dopo perse il lavoro.

Ecco un testo il cui effetto è tale per cui un numero sufficiente degliindividui che lo ricevono lo replicano e lo inviano, così da garantire la

stabilità della distribuzione del processo.In presenza di talune condizioni, i replicatoti saranno sottoposti a un processo di selezione darwinista. Le due condizioni principali sono che cisiano variazioni tra i replicatoti, e che i diversi tipi di replicatoti abbiano probabilità differenti di essere replicati. Nel caso della selezione dei geni,la fonte di variazione è la mutazione casuale, che è, in realtà, un fallimentonella riproduzione corretta. Perché la selezione operi su replicatoli capacidi mutazioni, bisogna che sia soddisfatta un'altra condizione, che ha a chefare con il tasso di mutazioni. Se i geni mutassero non solooccasionalmente, ma in continuazione, non sarebbero più replicatoti e laselezione sarebbe inefficace. Quale grado di mutazione è compatibile conuna selezione efficace? Ecco la risposta di George Williams:

5 Un tema sviluppato in dettaglio da Millikan(1984).

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L'essenza di una teoria genetica della selezione naturale è una tendenzastatistica nei tassi relativi di sopravvivenza delle alternative (geni, individui,ecc.). L'efficacia di questa tendenza nel produrre l'adattamento dipende dalfatto che si mantengano certe relazioni quantitative tra fattori operativi.Una condizione necessaria è che l'entità selezionata abbia un alto grado dipermanenza e un basso grado di trasformazione endogena, relativa al gradodi tendenza (Williams 1966, pp. 22-23)

I replicatori interessanti - i geni nel caso biologico - possono in realtàessere caratterizzati come entità che si replicano abbastanza bene da essereoggetto di una selezione efficace.6

  Nel caso dei geni, il tasso tipico di mutazione può essere di una

mutazione ogni milione di replicazioni. Con questi bassi tassi dimutazione, anche una piccola tendenza selettiva è sufficiente per avere, neltempo, grandi effetti cumulativi. Se invece nel caso della cultura ci puòessere "un certo elemento 'mutazionale' in ogni evento di riproduzione",come Dawkins riconosce, allora la possibilità stessa di effetti cumulativi èmessa in questione.7

Ci sono, ovviamente, pezzi di cultura che si replicano. Alcune personecopiano le lettere della 'catena di sant'Antonio', i monaci medioevalicopiavano i manoscritti, molti manufatti tradizionali sono repliche. Unvaso può essere copiato da un vasaio, alcuni dei suoi vasi possono esserecopiati da altri vasai, e così via per molte generazioni di vasi e vasai.Questo lento processo di riproduzione manuale è stato sostituito nei tempimoderni da tecnologie sempre più sofisticate, come la stampa, latelevisione o la trasmissione per posta elettronica, che permettono di pro-

durre un numero enorme di repliche. Il numero di copie di un cosiddettoesemplare culturale è però solo un indicatore indiretto e incompleto delsuo genuino successo culturale. I cestini della carta straccia, e i loroequivalenti elettronici, sono pieni di informazione massivamenteriprodotta ma priva di interesse, mentre alcuni articoli scientifici letti soloda pochi specialisti hanno cambiato il nostro mondo culturale.L'importanza culturale di una produzione pubblica deve essere misuratanon in termini del numero di copie nell'ambiente, ma del suo impatto sullamente della gente.

6 Williams arriva a proporre che "In una teoria evoluzionista, un gene può esseredefinito come un'informazione ereditaria per la quale esiste una tendenza selettivafavorevole o non favorevole uguale a diverse o molte volte il suo tasso di cambiamentoendogeno. La prevalenza di queste entità stabili nell'eredità delle popolazioni è unamisura dell'importanza della selezione naturale" (1966, p. 25).

7 Si vedano Wilson e Bossert 1971, pp. 61-62; Maynard Smith 1989, pp. 20-24.

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I casi più evidenti di riproduzioni riguardano le rappresentazioni pubbliche invece che quelle mentali. Quando una replica pubblica viene prodotta da un individuo invece che da una mac- china, questa produzioneè causata da un'intenzione o da un piano dell'individuo, vale a dire da unarappresentazione mentale. Le rappresentazioni mentali che causano la produzione di repliche pubbliche possono essere a loro volta viste comerepliche mentali di rappresentazioni mentali. La rappresentazione men-tale che Maria ha di un vaso fa sì che lei costruisca un vaso in conformitàcon essa. Piero vede il vaso, e ciò causa in lui una rappresentazionementale identica a quella di Maria. La rappresentazione di Piero fa sì cheegli costruisca un vaso identico a quello di Maria, e così via.

Sorge a questo punto la questione se i memi veri e propri siano produzioni pubbliche - vasi, testi, canzoni, e così via -, al contempo effettie cause delle rappresentazioni mentali, o, come sostiene Dawkins (1982),rappresentazioni mentali che sono insieme cause ed effetti delle produzioni  pubbliche. Entrambe le opzioni presentano problemi simili. Per cominciare, la maggior parte degli oggetti culturali, sia mentali che pubblici, hanno un numero elevato e variabile di ascendenti immediati pubblici o mentali.

Se non consideriamo la riproduzione meccanica o elettronica, i casi dinuovi oggetti effettivamente prodotti copiando un vecchio oggetto sonorari. Quando cantate La bella lavanderina non state cercando di riprodurreuna particolare versione precedente della canzone, e molto probabilmentela vostra versione mentale della canzone è figlia delle versioni mentali dimolte altre persone. La maggior parte dei vasai che copiano vasi quasiidentici non sta in realtà copiando un vaso particolare, e la loro abilità nonè derivata da un solo maestro (anche se ci può essere un maestro piùimportante degli altri, il che complica ulteriormente la vicenda).

In generale, se descrivete seriamente un'unità culturale - singoli testi,vasi, canzoni, capacità individuali di produrne - come riproduzione di unità precedenti, dovete allora chiedervi per qualsiasi oggetto culturale di qualeesemplare precedente è una replica diretta? Nella maggior parte dei casisarete costretti a concludere che ogni esemplare non è una replica di unesemplare-genitore, né (come nella riproduzione sessuale) di due esemplarigenitori, né di un numero definito di esemplari genitori, ma di un numeroindefinito di esemplari, alcuni dei quali hanno giocato un ruolo'genitoriale' maggiore di altri.

Si può pensare che questo processo di riproduzione sintetica di unnumero variabile di modelli sia effettuato da un equivalente

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naturale di un programma di morphing  (un programma che prende, per esempio, l'immagine di un gatto e quella di un uomo come input e producecome risultato l'immagine di una creatura a metà tra un gatto e un uomo).Come nei programmi di morphing, ai diversi input si danno pesi diversi: ilvostro uomo-gatto può essere più simile a un uomo o più simile a un gatto,e le conoscenze di Piero sui vasi possono essere più simili a quelle diMaria che a quelle di Carlo, anche se dipendono da entrambe.

Il modello che viene in mente ora ricorda meno la nozione darwinistadi selezione e più la nozione di 'influenza' usata nella storia delle idee enella psicologia sociale. Nel caso della selezione, i geni riescono areplicarsi oppure no, e gli organismi sessuali riescono a fornire la metà deigeni di un nuovo organismo oppure non ci riescono. La relazione didiscendenza determina perciò rigorosamente la somiglianza genetica (seignoriamo le mutazioni). L'influenza, invece, è una questione di grado.Due maestri vasai possono avere gli stessi allievi, e quindi gli stessi di-scendenti culturali, ma i loro discendenti culturali comuni possono subire più l'influenza di un maestro che dell'altro. Anche i vasi risultanti possonoessere i discendenti dei vasi di entrambi i maestri, ma più simili ai vasi diuno che dell'altro.

Esistono tuttavia alcune somiglianze tra il modello dei memi e quellodell'influenza: entrambi implicano la nozione di competizione. Entrambidefiniscono una misura di successo, in termini del numero di discendentiin un caso, e del grado e della diffusione di influenza nell'altro; entrambi predicono che gli oggetti più riusciti saranno predominanti nella cultura, eche la cultura evolverà in risposta alle differenze di successo tra oggetti incompetizione. Il modello dei memi può essere visto come un caso limitedel modello dell'influenza: il caso in cui l'influenza è cento per cento ozero per cento, cioè in cui i discendenti sono repliche. I modelli formalidell'influenza nella psicologia sociale tendono a concentrarsi su questi casilimite (si vedano per esempio Nowak et alii 1990).

Sia il modello dei memi che quello dell'influenza considerano gliorganismi umani come agenti di riproduzione o di sintesi, con uncontributo minimo o nullo al processo che avviene in loro. Al più, l'agentereplicativo può scegliere in qualche misura non solo quale inputsintetizzare, ma i pesi relativi da assegnare a input differenti. Tra i fattoricruciali sia del successo riproduttivo che dell'influenza c'è alloral'attrazione che i diversi input hanno per gli agenti. Una volta che sonostati scelti gli input (e i pesi nel caso della sintesi), il risultato di un processo riuscito di riproduzione o di sintesi è completamente determinato.Inoltre, secondo questi due approcci, le rappresentazioni mentali impli-

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cate nella trasmissione culturale non contengono mai più informazionedegli input che dovrebbero sintetizzare.

 Il modello dell'attrazione

A differenza del modello dei memi, quello dell'influenza giustamentenon tratta la riproduzione nella trasmissione culturale come la norma macome un caso limite (di influenza al cento per cento). Entrambi sbagliano,  però, nell'assumere che, in generale, il risultato di un processo ditrasmissione sia completamente determinato dagli input (e dai pesi, nelcaso dell'influenza) accettati o scelti dall'organismo ricevente. I due mo-delli fanno l'ipotesi che la trasmissione culturale sia completamentedeterminata dagli stimoli, cosa che non costituisce la norma. Una quantitàlimitata di cultura viene trasmessa grazie a processi elementari diimitazione e sintesi. I monaci medioevali che copiavano i manoscritti -esempi apparentemente perfetti di riproduzione culturale - comprendevanoquello che copiavano e, a volte, sulla base di quello che capivano,correggevano ciò che consideravano un errore precedente di copiatura. Ingenerale, i cervelli umani usano tutta l'informazione che viene lorosottoposta non per ricopiarla o sintetizzarla, ma come dato più o meno pertinente con cui costruire le proprie rappresentazioni.

Ecco qualche rapido esempio. Primo: considerate le vostre idee suSilvio Berlusconi. Probabilmente sono assai simili a quelle di molti altri, esono state influenzate dalle posizioni di qualcuno in particolare. Non è però molto probabile che formiate le vostre idee semplicemente copiandoo sintetizzando quelle degli altri. Ciò che fate è piuttosto usare la vostra

conoscenza di background e le vostre preferenze per porre in prospettiva leinformazioni che vi sono state date su Berlusconi e, attraverso un misto direazioni emotive e di inferenze, arrivare alle vostre idee attuali. Il fatto chesiano simili a quelle di molti altri non può essere spiegato da un processodi riproduzione, e solo in parte da un processo di influenza, ma dallaconvergenza dei vostri processi cognitivi e affettivi con quelli di molti altriverso punti di vista psicologicamente attraenti nell'ampio spazio dei possibili punti di vista su Berlusconi.

Prendiamo come secondo esempio le lingue (si veda anche Boyer 1993, p. 281). Le lingue sono, a prima vista, esempi superbi di memi: unsapere complesso trasmesso da generazione a generazione e abbastanzasimile da permettere la comunicazione tra gli individui. Nonostante ciò,come ha sostenuto a

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lungo Noam Chomsky (1968/1972, 1975, 1986), una lingua come l'ingleseè un'astrazione cui corrispondono grammatiche mentali nella testa degliindividui e frasi pronunciate nell'ambiente. Gli individui non incontranomai le grammatiche o le rappresentazioni delle grammatiche delle altre persone, ma apprendono la lingua sviluppando la propria grammatica a partire da un numero alto ma limitato di enunciati linguistici. Individuidifferenti incontrano insiemi di enunciati molto differenti. Acquisire nonsignifica imitare questi enunciati. In realtà la maggior parte di essi nonviene mai ripetuta: i nuovi enunciati non sono derivati né dalla sintesi nédalla ricombinazione dei vecchi.

Ciò che succede nell'acquisizione del linguaggio è che gli enunciatisono usati come dati per la costruzione di una grammatica mentale. Quantocontano questi dati? Chomsky ha sostenuto - in modo molto convincente -che i dati linguistici disponibili a un bambino sottodeterminanoampiamente la grammatica. Molti enunciati inoltre sono scorretti gram-maticalmente, e costituiscono quindi dati fuorviami. Questasottodeterminazione, le differenze degli input disponibili ai diversi bambini, il fatto che tutti i bambini sviluppino una grammatica e che, per di più, nella stessa comunità queste grammatiche convergano, fannosorgere un serio problema. Dobbiamo sempre a Chomsky almeno la formagenerale della soluzione: nella mente di ogni bambino esiste unmeccanismo di acquisizione del linguaggio modulare, specificato genetica-mente. Nel vasto ambito di usi possibili degli stimoli forniti dagli enunciatilinguistici, i bambini sono portati a quelli che permettono loro di costruireuna grammatica, e finiscono con il convergere sulla grammatica psicologicamente possibile per i dati che sono stati loro forniti. Così comeè indifferente da quale parte di una bacinella lasciate cadere una biglia - sifermerà nel centro -, allo stesso modo è indifferente quali frasi italianeascolti un bambino italiano - costruirà una grammatica italiana.

Come terzo esempio, considerate Cappuccetto Rosso come caso di unmeme veramente ben riuscito. Si tratta qui di un gran numero di individuiche ascoltano la storia e vogliono ripeterla, se non letteralmente, almeno inmaniera fedele al suo contenuto. Ovviamente, non sempre ci riescono, emolte delle versioni pubbliche prodotte da un narratore a beneficio di unoo due ascoltatori sono diverse da quelle standard.

Immaginate per esempio un narratore inesperto che racconta che ilcacciatore estrae Cappuccetto Rosso dal ventre del lupo ma si dimentica dimenzionare la nonna. I teorici

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ilei memi potrebbero sostenere - e io sarei d'accordo - che questa versioneha meno probabilità di essere replicata rispetto a quella standard. La lorospiegazione sarebbe che essa lia minori probabilità di avere deidiscendenti. Ciò è certamente plausibile, ma esiste un'altra spiegazionealtrettanto plausibile: molto probabilmente, nel ripetere la favola, gliascoltatori che la conoscono in questa versione difettosa la correggerannoconsciamente o inconsciamente in modo da salvare anche la nonna. Nellospazio logico delle possibili versioni di una storia, alcune hanno una formamigliore, ossia una forma che viene percepita senza parti superflue e senzaomissioni, più facile da ricordare e quindi più attraente. I I attori grazie aiquali una forma è migliore di un'altra dipendono in parte dalla psicologiaumana e in parte dal contesto culturale locale. Nel ricordare e verbalizzarela storia, i narratori sono attratti dalle forme migliori. Entrambe le spiega-zioni, in termini di selezione e in termini di attrazione, possono esseresimultaneamente vere; la ragione per la quale le versioni difettose hannomeno repliche può essere sia perché hanno meno discendenti, sia perché iloro discendenti non sono repliche.

Spero che sia ora chiara l'idea generale: c'è maggiore scarto tradiscendenza e somiglianza nel caso della trasmissione culturale di quantonon ci sia nel caso biologico. La maggior parte dei discendenti culturalisono trasformazioni, non repliche; le trasformazioni implicanosomiglianza: minore è il grado di trasformazione, maggiore è quello disomiglianza. Ma la somiglianza tra oggetti culturali è maggiore di quantoci si potrebbe aspettare osservando i gradi reali di trasformazione nellatrasmissione culturale. La somiglianza tra oggetti culturali deve esserespiegata in buona misura dal fatto che le trasformazioni tendono a essereinfluenzate dalla direzione di posizioni-attrattore in uno spazio di possi- bilità.

Come si dovrebbe modellizzare la trasmissione culturale? Il modellodella selezione darwinista è ancora la migliore approssimazione - dacorreggere ma non da scartare? Per cercare di rispondere, presenterò laquestione attraverso alcune semplici considerazioni formali.

Immaginiamo una popolazione di oggetti individualmente capaci di produrre discendenti, e con una durata di vita limitata. Immaginiamo ancheche questi oggetti siano di 100 tipi, con relazioni di somiglianza fra i tipiche possiamo rappresentare in uno spazio delle possibilità come unamatrice di 10 per 10. Consideriamo uno stato iniziale (che può essere per 

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esempio stabilito sperimentalmente) nel quale abbiamo unadistribuzione casuale di 10.000 oggetti scelti fra i 100 tipi. Supponiamodi esaminare la nostra popolazione dopo un certo numero digenerazioni, e osservare una distribuzione differente.

Mentre l'intera popolazione ha all'incirca la stessa grandezza, ed

esistono ancora oggetti sparsi nello spazio delle possibilità, alcuni tipisono ora meglio rappresentati di altri. Più specificamente, osserviamoche gli oggetti tendono a concentrarsi intorno a due tipi. Immaginiamoche osservazioni ripetute ci mostrino che questa configurazione è abba-stanza stabile.

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Un tipo di spiegazione ben conosciuto di questo stato di coss sarebbeche alcuni dei tipi avevano dall'inizio un maggiore successo riproduttivo,incrementando così il numero delle unità fino al raggiungimento di unequilibrio biologico nel quale i tipi più riusciti possono mantenere unarappresentazione maggiore degli altri. Supponiamo di cercare la manieraIn cui gli oggetti di questa popolazione producono realmente discendentie di scoprire che un discendente non è mai dello stesso tipo del genitore. Idiscendenti sono invece sempre di uno degli otto tipi adiacenti nellamatrice a quello dei loro genitori (si veda figura 2). La spiegazione non può più essere quella di un equilibrio ecologico tra replicatoli più o menoefficaci, dato che si tratta di un sistema trasformazionale e nonriproduttivo.

Una spiegazione alternativa partirà dall'ipotesi che le otto possibilitàdella discendenza di un genitore di un certo tipo non sono equiprobabili.Un genitore ha maggiori probabilità di produrre una trasformazione che sidistanzia da esso in una certa direzione. Supponiamo che le differenzenelle probabilità di trasformazione siano tali per cui la matrice abbia dueattrattori.8 Se disegniamo la linea di discendenza di una certa unità, essanon sembrerà seguire un percorso completamente casuale nello spaziodelle possibilità, ma sembrerà invece muoversi verso uno di questiattrattori, tanto che il punto di arrivo ha buone probabilità di essere nellevicinanze di uno di loro. Se il punto di partenza è vicino a un attrattore,allora è probabile che l'intera linea gli resti vicino.

Se un'unità avesse solo repliche, allora le differenze iniziali disuccesso riproduttivo e l'equilibrio ecologico spiegherebbero

8 Nozioni sofisticate di attrattori ('attrattori strani' in particolare) sono state

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la distribuzione osservata. Ma dato che l'unità genera mutanti, unaspiegazione migliore è fornita dalle differenze tra le probabilità ditrasformazione.

Trasformazione e riproduzione possono essere combinate. Per esempio, tutti i tipi possono avere sempre una probabilità su nove direplicarsi invece di trasformarsi. In questo caso, anche se avvenissequalche riproduzione, la differenza nella distribuzione dei tipi sarebbespiegata interamente dalle differenze nelle probabilità delle trasformazionidate.

La probabilità che un'unità si replichi invece di trasformarsi può esserediversa a seconda del tipo. Potremmo allora, in linea di principio, avereuna spiegazione duplice, che invochi sia il successo riproduttivo sial'attrazione. Ma in questo caso, per ragioni di semplicità e di generalità, èmeglio considerare il successo riproduttivo in una regione data come ciòche definisce o contribuisce a definire quella regione come un attrattore.

Anche la molteplicità e il numero variabile di 'genitori' o fonti per lostesso oggetto, che sono un aspetto tipico dell'evoluzione culturale,vengono gestiti meglio in termini di attrazione. La generazione di nuoveunità in uno spazio delle possibilità con delle regioni-attrattori deve essereattesa da qualche parte tra le unità esistenti e gli attrattori vicini. Non ci sideve aspettare però una metrica generata da una distanza semplice: imeccanismi reali di generazione determinano contemporaneamente qualiunità verranno trasformate e in quale modo.

Il modello dell'attrazione include come caso speciale quellodell'influenza: il caso in cui lo spazio delle possibilità non include unattrattore vicino e dove una metrica semplice predice dove emergerà lanuova unità.

Si noti che gli attrattori, come li ho caratterizzati, sono costrutti astratti,statistici, come un tasso di mutazione o una probabilità di trasformazione.Dire che c'è un attrattore in uno spazio di possibilità significa solo dire chele probabilità di trasformazione sono configurate in un certo modo: essetendono a essere influenzate in modo tale da favorire le trasformazioniverso un punto specifico, e quindi si distribuiscono intorno a quel punto.

sviluppate nella dinamica dei sistemi complessi e possono risultare utili in una futuramodellizzazione dell'evoluzione culturale; in questo contesto ci è sufficiente considerareuna nozione molto elementare di attrattore.

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Un attrattore non è una cosa materiale; non attrae' fisicamente nulla.Dire che esiste un attrattore non significa dare una spiegazione causale, mamettere in luce ciò che richiede una spiegazione causale - cioè ladistribuzione di unità e la sua evoluzione -, e suggerire il tipo di spiegazioneda cercare - cioè l'identificazione degli autentici fattori causali cheinfluenzano le microtrasformazioni.

 Fattori ecologici e psicologici di attrazione

Due tipi di fattori spiegano l'esistenza degli attrattori: fattori psicologicied ecologici. L'ambiente determina la sopravvivenza e la composizionedelle popolazioni portatrici di cultura; esso con

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tiene tutti gli input ai sistemi cognitivi dei membri della popolazione;determina quando e dove e per mezzo di cosa può avvenire la trasmissionee impone vincoli sulla formazione e la stabilità di tipi differenti di produzioni pubbliche. L'organizzazione mentale degli individui determinaquali input disponibili vengono trattati, come vengono trattati e qualeinformazione guida i comportamenti che, a loro volta, modificanol'ambiente.

Ifattori psicologici interagiscono con quelli ecologici a molti livelli checorrispondono a diverse scale temporali: quella dell'evoluzione biologica, quella della storia sociale e culturale, quella dello sviluppocognitivo e affettivo degli individui e quella dei microprocessi ditrasmissione.È all'interno della scala temporale dell'evoluzione biologica che

emerge una specie dotata di capacità mentali che rendono possibile latrasmissione culturale. Il ruolo della biologia non si esaurisce nel rendere  possibile la cultura, senza alcun effetto sul suo carattere o sul suocontenuto. L'immagine del complesso mente/cervello umano come unatabula rasa su cui culture differenti scrivono liberamente la loro visionedel mondo e quella delle visioni del mondo come sistemi integratiinteramente determinati dalla storia socioculturale, ancora così di moda tragli scienziati sociali, sono incompatibili con le nostre attuali conoscenze di biologia e psicologia.

IIcervello è un organo complesso. La sua evoluzione è statadeterminata da condizioni ambientali che hanno aumentato o diminuitole probabilità dei nostri antenati di riprodursi nel corso della filogenesi.Ci sono buone ragioni di pensare che il cervello contenga moltisottomeccanismi, o 'moduli', che sono evoluti come adattamenti adiverse sfide e opportunità ambientali (si vedano Cosmides e Tooby1987, 1994; Tooby e Cosmides 1989, 1992). I moduli mentali - ossiagli adattamenti a un ambiente ancestrale - sono fattori crucialinell'attrazione culturale. Essi tendono a fissare gran parte del contenutoculturale attorno al dominio cognitivo nel trattamento del quale sonospecializzati (si veda il capitolo successivo).Le pressioni evolutive hanno probabilmente favorito non solo

l'emergere di meccanismi mentali specializzati, ma anche un certo grado diefficienza cognitiva all'interno di ognuno di questi meccanismi nella lororeciproca articolazione. In ogni momento, gli esseri umani percepiscono  più fenomeni di quelli ai quali sono in grado di prestare attenzione, ehanno più informazione immagazzinata in memoria di quanta non possanousare. L'efficienza cognitiva significa fare la scelta giusta nel selezionarequale nuova informazione disponibile deve essere presa in considerazionee quale informazione in memoria deve essere re-

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cuperata per trattare la nuova. Le scelte giuste sono quelle che uniscononuova e vecchia informazione in modo tale da fornire la maggior quantità possibile di effetti cognitivi con il minimo sforzo mentale.

Deirdre Wilson e io abbiamo sostenuto che l'equilibrio effet- to-sforzonel trattamento di qualsiasi tipo di informazione deter- mina il suo grado di  pertinenza (Sperber e Wilson 1986). La nostra idea è che i processicognitivi umani siano guidati verso la massimizzazione della pertinenza.La maggior parte dei fattori che determinano la pertinenza sono altamenteidiosincratici e hanno a che fare con la collocazione spazio-temporaleunica di un individuo. Altri invece sono radicati in aspetti della psicologiadeterminati geneticamente. L'elaborazione degli stimoli per i quali esiste

un modulo specializzato richiede allora comparativamente uno sforzominore ed è potenzialmente più pertinente. Per esempio, fin dalla nascitagli esseri umani trattano i suoni della parola come stimoli pertinenti(un'aspettativa spesso delusa, ma mai abbandonata).

È possibile che gli individui siano fatti in modo tale da ottimizzare ilrapporto effetto/sforzo non solo dal lato dell'input, ma anche da quellodell'output. Le produzioni pubbliche, dai movimenti fisici al linguaggioalle costruzioni, anche quando sono modellate a partire da produzioni  precedenti tendono a muoversi verso forme in cui l'effetto voluto puòessere ottenuto al costo minimo.

La cultura è sufficientemente vecchia per aver avuto qualche effettosull'evoluzione biologica. La 'coevoluzione' gene-cultura (Boyd eRicherson 1985; Lumsden e Wilson 1981) aiuta a spiegare in particolarel'esistenza negli esseri umani di forme di sapere specializzate

nell'interazione culturale, come per esempio la facoltà del linguaggio(Pinker e Bloom 1990; Pinker 1994). Essa è però un processo troppo lento per spiegare i cambiamenti culturali nella storia.

Generazione dopo generazione, gli esseri umani sono natiessenzialmente con lo stesso potenziale, che realizzano però in modi moltodifferenti. Ciò è dovuto alla diversità degli ambienti, in particolare diquello culturale, in cui sono nati. Ciononostante, sin dal primo giorno la  psicologia di un individuo è arricchita e resa più specifica dagli inputculturali. Ogni individuo diviene rapidamente uno dei molti luoghi in cui siripartisce il 'pool' di rappresentazioni culturali che abitano la popolazione.La storia culturale di una popolazione è al contempo quella del suo pool dirappresentazioni culturali e quella del suo ambiente culturale. Questimacroinsiemi - il pool di rappresentazioni e

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l'ambiente - evolvono come effetti di microprocessi nei quali le causeappartengono all'ambiente e gli effetti al pool, o viceversa.

In generale, l'espressione 'ambiente culturale' è usata in un senso moltolato, e si riferisce a un insieme di significati, valori, tecniche, e così via.Così intesa, essa ha poco a che fare con l'ambiente fisico; il suo statutoontologico è, nella migliore delle ipotesi, molto vago; i suoi poteri causalisono misteriosi. Con 'ambiente culturale' intendo un insieme di oggettimateriali: tutte le produzioni pubbliche nell'ambiente che sono cause ed ef -fetti delle rappresentazioni mentali. L'ambiente culturale così inteso siconfonde con quello fisico di cui fa parte. I poteri causali che esercita sullamente umana non danno problemi: le produzioni pubbliche stimolano gliorgani sensoriali nel modo materiale usuale. Essi causano la costruzione dirappresentazioni mentali dotate di un contenuto determinato in parte dalle proprietà degli stimoli che le hanno provocate, e in parte da risorse mentali preesistenti.

Gli attrattori culturali emergono, svaniscono o si muovono nella storia,alcuni rapidamente altri lentamente, altri ancora all'improvviso. Alcuni diquesti cambiamenti hanno cause ecologiche comuni: nicchie ecologicheeccessivamente sfruttate perdono la loro attrazione economica; sentieritroppo raramente calpestati si ricoprono d'erba; alcune pratiche tendono adaumentare l'ampiezza della popolazione che potrebbe essere attratta daesse, altre a diminuirla.

La maggior parte dei cambiamenti storici negli attrattori deve esserespiegata in termini di interazioni tra fattori psicologici ed ecologici di untipo particolare di evoluzione culturale. L'ambiente culturale determina inogni momento la formazione delle rappresentazioni mentali, che poi a lorovolta possono essere la causa di produzioni pubbliche, e così via. Questo processo modifica la densità relativa delle rappresentazioni mentali, cosìcome quella delle produzioni pubbliche, in aree differenti dello spazio di possibilità. In particolare, la densità tende ad aumentare la vicinanza degliattrattori. Un aumento di densità delle produzioni pubbliche in vicinanza diun attrattore tende a rinforzare l'attrattore, anche solo perché aumentano le  probabilità che si presti attenzione a queste produzioni più numerose.D'altra parte, l'aumento della densità di rappresentazioni mentali nellavicinanza dell'attrattore può indebolirlo: la ripetizione di rappresentazioniche hanno lo stesso contenuto può diminuirne infatti la pertinenza e far sìche gli individui perdano interesse in esse o le reinterpretino in mododiverso.

Le pratiche stabilite (in materia di abbigliamento, cibo, etichetta, ecc.)sono forti attrattori. Allo stesso tempo, è proprio la

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loro prevedibilità a diminuirne la pertinenza a vantaggio di un chiarodistacco dalle pratiche stabilite che costituiscono un modo tacile per attirare l'attenzione e raggiungere un grado elevato di pertinenza. Unavolta che le produzioni pubbliche convergono in massa su qualcheattrattore culturale, possono provocare l'emergenza di un attrattoreconcorrente vicino, come ben illustrano i cambiamenti repentini dellemode, che perdono rapidamente interesse proprio a causa del lorosuccesso.

Quando invece si incontrano pratiche che restano stabili per generazioni, si può supporre che mantengano un livello sufficiente di pertinenza nonostante la loro ripetizione, e vedere se sia davvero così e

 perché. Una pratica ripetitiva può rimanere pertinente perché lo sono i suoieffetti. Ciò succede, per esempio, con le pratiche tecnologiche che hannoeffetti economici importanti sul benessere degli individui o addiritturasulla loro sopravvivenza. Una pratica ripetitiva può rimanere pertinente perché è in competizione con altre pratiche, e la scelta di una invece chedell'altra da parte di un certo individuo a un dato momento può essereestremamente significativa - è il caso delle pratiche usate per affermareche qualcuno appartiene a una minoranza. Una pratica ripetitiva può essere pertinente perché individui differenti si contendono il diritto di adottarla e perché il successo in questa competizione è importante - è il caso delle pratiche rituali che segnano la promozione a uno status desiderato. Una  pratica ripetitiva può restare pertinente perché, senza modificare percepibilmente la sua forma pubblica, si presta a interpretazioni differentia seconda dell'agente, delle circostanze e dello stadio della vita. Questa possibilità di reinterpretazione è tipica delle pratiche religiose (si vedaSperber 1974b).

Anche sulla scala temporale dei cicli della vita individuale i fattoriecologici e psicologici interagiscono in una maniera specifica; a stadidifferenti del loro sviluppo psicologico, gli individui sono attratti indirezioni differenti. Inizialmente i principali fattori ecologici di attrazionesono geneticamente determinati; ma l'esperienza - ossia gli effetti cognitividelle interazioni passate con l'ambiente - diventa un fattore di attrazionesempre più importante.

Durante l'infanzia, l'informazione che permette al bambino disviluppare competenze per le quali egli ha una disposizione innata èregistrata e usata a questo scopo. Il bambino acquista le competenze per  parlare, arrampicarsi, mangiare, bere, maneggiare gli oggetti, prevedere ilcomportamento altrui, riconoscere gli animali, e così via. In tutti questidomini, la nuova informazione risulta facilmente pertinente perchésoddisfa i bisogni ancora insaturi di moduli specializzati. Una voltaacquisite le com

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 petenze di base, l'attrazione tende alla nuova informazione pertinente nelcontesto della conoscenza di base già acquisita. Essa tende ancheall'informazione pertinente per i vari scopi che l'individuo è ora in grado diimmaginare e perseguire.

Il contributo degli individui alla trasmissione culturale varia durante ilciclo di vita. Non solo gli individui trasmettono quantità differenti econtenuti differenti, ma trasformano anche quello che trasmettono indirezioni differenti, e lo trasmettono a pubblici differenti a seconda dellafase della loro vita. L'ampiezza delle trasformazioni varia anche con l'età eil ruolo sociale del comunicatore e con quelli del suo pubblico. In alcuneconfigurazioni, una comunicazione relativamente più conservatrice puòsembrare più pertinente; in altri casi, la ricerca della pertinenza richiedeinnovazione. Dal punto di vista degli individui, gli attrattori culturalisembrano muoversi lungo un percorso che in realtà combina cambiamentistorici con movimenti individuali nel loro ciclo di vita e nelle lororelazioni sociali.

Sono i microprocessi di trasmissione culturale che rendono possibile lacoevoluzione gene-cultura e che provocano l'evoluzione storica dellacultura e lo sviluppo culturale degli individui. L'idea di questo libro è chequesti microprocessi non siano in generale processi di replica. Non stonegando che possano avvenire riproduzioni che giocano un ruolonell'evoluzione culturale. Sostengo semplicemente che sia meglio vederele riproduzioni come casi limite delle trasformazioni. I processi cognitivicostruttivi sono coinvolti sia nella rappresentazione degli input culturali sianella produzione degli output pubblici. Tutti gli output dei processi mentaliindividuali sono influenzati dagli input passati; solo pochi output sonosemplici copie degli input passati. Il modello neodarwinista della cultura è basato su un'idealizzazione - fenomeno abituale nella pratica scientifica -ma, e qui sta il problema, su un'idealizzazione a sua volta basata su unaseria distorsione dei fatti pertinenti.

Il modello neodarwinista e le idee di riproduzione e selezionesembrano offrire una spiegazione all'esistenza e all'evoluzione di contenuticulturali relativamente stabili. Com'è possibile, se la riproduzione non è lanorma, che tra tutte le rappresentazioni e le produzioni pubbliche cheabitano una popolazione umana e il suo ambiente condiviso sia così faciledistinguere tipi culturali stabili, come le posizioni comuni su SilvioBerlusconi, le narrazioni di Cappuccetto Rosso, gli enunciati italiani, eanche le strette di mano, i funerali e gli autobus di linea? Per due ragioni: primo, perché attraverso meccanismi interpretativi, il cui controllo è partedella nostra competenza sociologica, tendiamo a esagerare la somiglianzadegli oggetti culturali e la

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distinzione dei tipi (si veda il capitolo 2); secondo, perché nel formarerappresentazioni mentali e produzioni pubbliche, ogni uomo in qualchemisura, e sicuramente tutti i membri di una■stessa popolazione, sono attratti nella stessa direzione.

Benché in contrasto con i modelli neodarwinisti della cultu- ra presentati da Dawkins e da altri, il modello dell'attrazione culturale che ho proposto è di ispirazione darwinista nel senso che spiega regolarità su largascala come l'effetto cumulativo di microprocessi. La cultura di una data popolazione è descritta come la distribuzione di rappresentazioni mentali e produzioni pubbliche. L'evoluzione culturale è spiegata come l'effetto delledifferenze di frequenza tra diverse trasformazioni possibili dirappresentazioni e di produzioni nel processo di trasmissione. Nello studiodell'evoluzione culturale, prendere a prestito il mo-■dello di selezione darwinista non è il solo modo, e forse non il migliore, diservirsi delle intuizioni fondamentali di Darwin.9

9 Per questo capitolo, ringrazio Ned Block, John Maynard Smith ed Eliot So- berper i loro utili commenti.

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6. Modularità del pensiero ed epidemiologia dellerappresentazioni

Dieci anni fa, Jerry Fodor pubblicò La mente modulare, un libro chericevette una grande e meritata attenzione. L'obiettivo polemico era l'ideaallora dominante secondo la quale non esistono discontinuità importanti tra processi percettivi e processi concettuali. L'informazione scorre libera tra idue tipi di processi: le credenze forniscono informazione alla percezionecosì come ne ricevono da essa. Contro questa visione della mente Fodor sostenne che i processi percettivi (e quelli di decodifica linguistica) sonoeffettuati da meccanismi specializzati e rigidi. Ognuno di questi 'moduli' haun suo dominio specifico, e non tratta informazione prodotta dai processiconcettuali.

In realtà La mente modulare era un titolo paradossale (anche se forsenon intenzionalmente, e il fatto non fu notato) dato che, secondo Fodor, lamodularità può essere ricercata solo alla periferia della mente, nei suoisistemi di input.1 La parte centrale e più estesa della mente è per Fodor decisamente non modulare. I processi concettuali, cioè il pensiero vero e  proprio, sono presentati come un grande blocco olistico, in cui èimpossibile ritagliare articolazioni.

Le principali controversie si sono concentrate più sulla tesi dellamodularità dei processi percettivi e linguistici che su quella della nonmodularità del pensiero.

Due sono gli obiettivi di questo articolo. In primo luogo difenderò latesi che anche il pensiero può essere modulare (quello che Fodor [1987a, p.27] chiama "la teoria della modularità impazzita"... ahimè!), pur riprendendo Fodor nel sostenere che

1 Fodor menziona la possibilità che anche i sistemi di output, ossia i sistemi motori,possano essere modulari. Assumo che sia così, senza discutere qui il problema.

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"quando dico che un sistema è modulare intendo modulare 'in un sensointeressante'" (Fodor 1983, p. 37; tr. it. p. 69). Il secondo obiettivo è quellodi articolare una visione modulare del pensiero umano con la concezionenaturalistica della cultura umana che sto sviluppando sotto il nome diepidemiologia delle rappresentazioni (Sperber 1985). I due obiettivi sonostrettamente correlati: la diversità culturale è stata sempre presa a esempio  per mostrare la plasticità della mente umana, mentre la tesi dellamodularità del pensiero sembra negarla. Mi interessa mostrare che,diversamente dall'immagine tradizionale, organismi forniti di mentigenuinamente modulari generano culture genuinamente diverse.

 Due argomenti di buon senso contro la modularità del pensiero

La distinzione tra processi percettivi e processi concettuali è, almeno agrandi linee e a livello molto astratto, chiara: i processi percettivi ricevonoin input l'informazione fornita dai recettori sensoriali, e producono inoutput una rappresentazione concettuale che categorizza l'oggetto percepito. I processi concettuali hanno rappresentazioni concettuali sia ininput che in output. Vedere una nuvola e pensare: Ecco una nuvola! è un processo percettivo; inferire da questo: Potrebbe piovere è un processoconcettuale.

L'idea di base della modularità è anch'essa molto semplice. Un modulocognitivo è un meccanismo computazionale specificato geneticamentenella mente/cervello (d'ora in poi: la mente) che lavora soprattutto da solosu input che appartengono a domini cognitivi specifici e che sono forniti

da altre parti del cervello (per esempio, recettori sensoriali, o altri moduli).Date queste nozioni, la visione secondo la quale i processi percettivi possono essere modulari è effettivamente molto plausibile, come sostieneFodor. D'altra parte, esistono due argomenti tratti dal senso comune (oltrea molti altri più tecnici) che fanno pensare che i processi concettuali nonsiano modulari.

Il primo argomento tratto dal buon senso contro la modularità massivadel pensiero ha a che fare con l'integrazione dell'informazione. Il livelloconcettuale è il livello al quale l'informazione che proviene da differentimoduli di input, ognuno presumibilmente legato a una modalità sensoriale,viene integrata in un mezzo indipendente dalla modalità. Si può vedere,udire, sentire, toccare, parlare di un cane: i percetti sono differenti, ilconcetto è lo stesso. Come dice Fodor:

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 Nella sua forma più generale, questo ragionamento risale almeno adAristotele; le rappresentazioni che vengono realizzate dai sistemi diinput devono interfacciarsi da qualche parte e i meccanismicomputazionali che effettuano tale interfacciamento devono avere ipso

 facto accesso ad informazioni provenienti da più di un dominiocognitivo. (Fodor 1983, pp. 101-102; tr. it. p. 159)

Il secondo argomento intuitivo contro la modularità del pensieroriguarda la diversità e la novità culturale. I processi concettuali di unessere umano adulto coinvolgono gli argomenti più diversi, dai partiti  politici alla storia del calcio alla manutenzione delle motociclette, dal  buddhismo Zen alla cucina francese all'opera italiana, dal gioco degli

scacchi alle collezioni di francobolli e all'esempio scelto da Fodor: lascienza moderna. La comparsa di una grande quantità di questi domininella cognizione umana è molto recente, e non è correlata in modorilevante con cambiamenti nel genoma umano. Molti dei domini variano dicontenuto in modo cruciale da una cultura all'altra e non si trovano in tuttele culture. Sarebbe assurdo quindi assumere che esista una disposizione ad hoc, specificata geneticamente per i domini concettuali che si sviluppanocon la cultura.

Questi due argomenti di buon senso sono così convincenti che leconsiderazioni più tecniche di Fodor (che hanno a che fare con l'isotropia,le illusioni cognitive, la razionalità, ecc.) sembrano davvero uccidereun'idea già morta. Il mio scopo è di scuotere l'immagine del senso comunee suggerire che si possa raccogliere la sfida di articolare modularità,integrazione concettuale e diversità culturale per migliorare la nostra

comprensione della psicologia e dell'antropologia.Si noti subito che sia l'argomento dell'integrazione sia quello della

diversità culturale sono abbastanza compatibili con una parziale

modularità a livello concettuale. È vero che sarebbe inutile riprodurre alivello concettuale la stessa partizione di domini che si trova a livello  percettivo, e avere un modulo concettuale differente per trattareseparatamente l'output di ciascun modulo percettivo. Non ci sarebbenessuna integrazione: il cane visto e il cane sentito non potrebbero maiessere lo stesso mastino Fido. Ma chi dice che i domini concettualidebbano corrispondere ai domini percettivi? Perché non pensare, a livelloconcettuale, a una partizione di domini completamente differente, più omeno ortogonale ai domini percettivi, con meccanismi concettuali chericevono gli input da più moduli percettivi? Per esempio, tutti gli outputconcettuali dei moduli percettivi che contengono il concetto MASTINO (e chesono quindi

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capaci di riconoscere la presenza di un mastino) possono essere inseriti inun modulo specializzato (ossia un meccanismo in- ferenziale che tratta iconcetti di specie vivente) e che si occupa, tra l'altro, di Fido in quantomastino. Allo stesso modo, tutti gli output concettuali dei moduli di inputche contengono il concetto  TRE possono essere inseriti in un modulospecializzato che si occupa delle inferenze sui numeri e così via. In questomodo, l'informazione che proviene da diversi sistemi di input può essereintegrata genuinamente, anche se non in un solo sistema concettuale, ma inmolti.

Ovviamente, se per esempio avete una regola prudenziale che vi dicedi allontanarvi quando incontrate più di due cani litigiosi, non vi basteràessere informati dal modulo degli esseri viventi che nel vostro ambiente sitrova la categoria CANE LITIGIOSO, e dal modulo numerico che ci sono più didue cose di un certo tipo. Una maggiore integrazione deve aver luogo. Si può addirittura sostenere - anche se questo non è per nulla ovvio - che unmodello plausibile della cognizione umana debba permettere a qualchelivello un'integrazione completa di tutta l'informazione concettuale. In unaltro senso, l'integrazione parziale o totale può avere luogo 'in alto', tra glioutput dei moduli concettuali, invece che in basso, tra quelli dei moduli percettivi. L'integrazione concettuale non è incompatibile con almeno un po' di modularità concettuale.

Anche l'argomento della diversità concettuale sembra escludere chealcuni domini concettuali (una competenza filatelica, per esempio) possanoessere modulari, ma certo non implica che nessuno di essi possa esserlo.Per esempio, nonostante le variazioni superficiali, la classificazione degliesseri viventi presenta forti somiglianze attraverso le culture (si veda

Berlin 1978) in modo tale da suggerire la presenza di un modulo cognitivospecifico per il dominio (si veda Atran 1987, 1990).

La tesi che alcuni processi di pensiero centrali siano modulari riceveconferma da un consistente numero di lavori (ben presentati in Hirschfelde Gelman 1994) che tendono a mostrare come molti processi concettuali di base presenti in tutte le culture e in tutti gli esseri umani completamentesviluppati sono governati da competenze specifiche a seconda del dominio.Per esempio, è stato sostenuto che la comprensione ordinaria che la genteha del movimento di un oggetto solido inerte, della sembianza di unorganismo, o delle azioni di una persona sia basata su tre meccanismimentali distinti: una fisica ingenua, una biologia ingenua e una psicologiaingenua (si vedano Atran 1987, 1994; Carey 1985; Keil 1989,

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1994; Leslie 1987, 1988, 1994; Spelke 1988). Sembra inoltre che talimeccanismi siano, almeno in una forma rudimentale, partedell'equipaggiamento che rende possibile l'acquisizione della conoscenza,e che non si tratti quindi di competenze ac- quisite.

Accettare come possibilità un certo grado di modularità nei sistemiconcettuali è abbastanza innocuo. Anche Fodor ha recentemente preso inconsiderazione favorevolmente la posizione secondo la quale "la psicologia intenzionale del senso comune è essenzialmente un repertoriomodularizzato innato" (1992, p. 284, corsivo mio) senza per questodistaccarsi dalle sue posizioni precedenti sulla modularità. Ma cosa diredell'ipotesi di una consistente modularità a livello concettuale? È davveroesclusa dai due argomenti del senso comune, l'integrazione e la diversità?

Modularità ed evoluzione

Se la modularità è un fenomeno naturale autentico, un aspettodell'organizzazione del cervello, allora la sua definizione deve essere fruttodi una scoperta scientifica, non di una delibera. Fodor stesso discute unaserie di caratteristiche tipiche e diagnostiche della modularità; i moduli,secondo lui, sono "specifici per un dominio particolare, determinatigeneticamente, preprogrammati, autonomi" (1983, p. 36; tr. it. p. 53). Leloro operazioni sono obbligate e rapide. Sono "incapsulati

informazionalmente": ossia la sola informazione di background che è lorodisponibile è quella che si trova nel loro proprio repertorio di dati. Essisono "associati a un'architettura neuronale fissata". Fodor discute anchealtre caratteristiche che non sono essenziali per la discussione presente.

C'è un aspetto della modularità che segue dalla descrizione di Fodor,anche se egli non ne fa menzione. Se, come sostiene, un modulo èspecificato in modo innato, preprogrammato e autonomo, allora un modulocognitivo è un meccanismo evoluto con una storia filogenetica distinta. Sitratta di una caratteristica tipica, ma non diagnostica, perché non sappiamoquasi niente della reale evoluzione dei moduli cognitivi. Leda Cosmi- dese John Tooby mi hanno però convinto che sappiamo abbastanzasull'evoluzione da un lato, e sulla cognizione dall'altro per arrivare adassunzioni ben motivate (anche se, ovviamente, non sicure) su quando ci si  può aspettare la modularità, quali proprietà dei moduli aspettarsi e

addirittura quali moduli (si veda Cosmides 1989; Cosmides e Tooby 1987,1994; Tooby e

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Cosmides 1989, 1992).2 Questa sezione del capitolo deve molto alle loroidee.

Fodor stesso menziona le considerazioni evoluzionistiche, ma solo di passaggio. Egli sostiene che, filogeneticamente, i sistemi modulari di inputdevono avere preceduto quelli centrali non modulari:

L'evoluzione cognitiva sarebbe allora avvenuta nella direzione di unaliberazione graduale di certi tipi di sistemi per la soluzione di problemida certi vincoli a cui sono soggetti gli analizzatori di input - e di quidella produzione, come acquisizione relativamente tarda, di capacitàinferenziali comparativamente libere rispetto al dominio diapplicazione, che evidentemente mediano i voli più alti dei processicognitivi. (Fodor 1983, p. 43; tr. it. p. 77)

Consideriamo alcune delle implicazioni dell'indicazione evo-luzionistica di Fodor. A uno stadio iniziale dell'evoluzione dovremmotrovare analizzatori modulari degli input sensoriali connessi direttamentecon i sistemi motori di controllo. Non c'è ancora un livello in cuil'informazione proveniente da diversi sistemi percettivi possa essereintegrata attraverso un processo concettuale. Emerge poi un sistemaconcettuale, ossia un meccanismo di inferenza che non è direttamentelegato ai sistemi motori. Il sistema concettuale accetta input da due o piùsistemi percettivi, costruisce nuove rappresentazioni che sono garantite daquesti input, e trasmette informazioni ai meccanismi motori.

All'inizio questo sistema concettuale è semplicemente un altro modulo:è specializzato, preprogrammato, rapido, automatico, e così via. Ma, seseguiamo Fodor, il meccanismo cresce e diventa sempre meno

specializzato; è possibile che si unisca ad altri sistemi concettuali simili,fino a diventare un grande sistema concettuale, capace di processare tuttigli output di tutti i moduli percettivi e di trattare tutta l'informazionedisponibile all'organismo. Nell'eseguire un compito cognitivo questo siste-ma veramente centrale non può attivare tutti i dati che gli sono accessibilio sfruttarli nelle sue diverse procedure; l'automaticità e la velocità nonsono più possibili. Se il sistema centrale facesse automaticamente tutto ciòche è capace di fare, avremmo un'esplosione computazionale senza fine.

Una spiegazione evoluzionistica dell'emergere di un moduloconcettuale in una mente che ha conosciuto solo processi per-

2 Si vedano anche Rozin 1976; Symons 1979; Rozin e Schull 1988; Barkow 1989;Brown 1991; Barkow et alii 1992.

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iettivi è abbastanza facile da immaginare, ma la sua demodularizzazionesarebbe più difficile da spiegare.

Facciamo un esempio, usando un modellino-giocattolo. Supponiamoche esista una specie di organismi, i 'protorg', minacciata da un pericolo diun certo tipo. Questo pericolo (l'avvicinarsi degli elefanti che possonocalpestarli) è segnalato dalla presenza simultanea di un rumore R e di unavibrazione del suolo V. I protorg hanno un modulo di percezione acusticache riconosce R e un modulo di percezione delle vibrazioni che riconosceV. Il riconoscimento di R da parte di un modulo percettivo o di V dell'altroattiva una procedura di fuga. Sarebbe perfetto, se non che la presenza delsolo R o del solo V spesso non implica nessun pericolo. I protorg siritrovano con molti 'falsi positivi', inutili fughe che fanno loro sprecareenergie e risorse.

Alcuni discendenti dei protorg, gli 'org', hanno sviluppato un nuovomeccanismo mentale: un meccanismo concettuale di Inferenza. I moduli percettivi non attivano più direttamente la procedura di fuga. I loro input pertinenti - ossia l'identificazione del rumore R e delle vibrazioni V - sonotrattati dal nuovo sistema. Questo meccanismo concettuale agisceessenzialmente come quello di 'AND-gate' di un programma di computer.Quando, e solo quando, sia R che V sono stati identificati percettivamente,il meccanismo concettuale entra in uno stato che si può dire rappresenti la presenza del pericolo, ed è questo stato che attiva la procedura di fugaappropriata.

La storia continua con la vittoria degli org sui protorg nellacompetizione per le risorse di cibo, ed è questa la ragione per cui non sivedono in giro più protorg. Il meccanismo concettuale degli org, anche se

non è un modulo di input, è comunque un caso evidente di modulo: è unrisolutore di problemi specifico per un dominio, è rapido, incapsulatoinformazional- mente, associato con un'architettura neuronale fissa, e cosìvia. Ovviamente è un modulo piccolo, ma niente ci impedisce diimmaginare che diventi più grande. Invece di accettare solo due input dadue moduli percettivi semplici, il modulo concettuale può arrivare a gestire più informazione da più fonti, e a controllare più di una procedura motoria,ma essere ancora automatico, specifico, rapido, ecc.

A questo punto, abbiamo due scenari evolutivi possibili tra cuiscegliere. Secondo lo scenario suggerito da Fodor, il modulo concettualedovrebbe evolvere verso una specificità ridotta, una minore incapsulazioneinformazionale, una minore velocità, e così via. In altre parole, dovrebbediventare sempre meno modulare, possibilmente confondersi con altrimeccanismi

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demodularizzati e diventare infine una sorta di sistema centrale del tipo diquelli che Fodor pensa siano i nostri ('quinenani', 'isotropici', ecc.). Questoscenario presenta due problemi. Il primo riguarda i meccanismi mentali, edè messo in luce da Fodor stesso nella sua "Prima legge della non esistenzadella scienza cognitiva". La legge dice in sostanza che i meccanismi dei  processi di pensiero non modulari sono troppo complessi per esserecompresi. Si deve prendere per buono che esistano, senza chiedere perché.

Il secondo problema nello scenario di Fodor riguarda il processoevolutivo che dovrebbe provocare lo sviluppo di un meccanismo cosìmisterioso. Associare un certo numero di micromoduli inferenziali in unamacrointelligenza avanzata generale, se qualcosa di simile esiste, potrebbeavere qualche vantaggio. Per esempio, dei 'superorg' dotati di intelligenzagenerale potrebbero sviluppare tecnologie per eliminare il pericolo unavolta per tutte, invece che continuare a fuggire. Ma l'evoluzione non offrescelte così contrastanti: le alternative disponibili in ogni momento sidistaccano di poco dalla situazione esistente. La selezione, la forza principale che determina l'evoluzione, è miope (mentre le altre forze -come la deriva genetica, ecc. - sono cieche). Un'alternativaimmediatamente vantaggiosa ha molte probabilità di essere selezionata trale poche alternative disponibili, e questo può bloccare la strada adalternative più vantaggiose nel lungo termine. Uno scenario didemodularizza- zione non è plausibile proprio per questa ragione.

Si supponga infatti che in alcuni org mutanti l'analizzatore concettualedi pericolo sia modificato non per essere più efficace nell'esecuzione diquesto compito preciso, ma in modo da essere meno specializzato. Ilsistema concettuale modificato tratta non solo informazione pertinente alle

  possibilità immediate di fuga, ma anche informazione che riguardacaratteristiche innocue della situazione di pericolo, e di altre situazioni che presentano le stesse caratteristiche; il meccanismo non fa solo inferenze pratiche urgenti, ma anche inferenze di carattere più teoretico. Quando un pericolo viene avvertito, il nuovo sistema meno modulare non innescaimmediatamente il comportamento di fuga, e quando lo fa, lo fa piùlentamente - la velocità e l'automaticità vanno insieme alla modularità - maha idee interessanti che immagazzina in memoria per il futuro, se per questi org mutanti dotati di un simile meccanismo demo- dularizzato c'è unfuturo.

Ovviamente, la velocità e l'automaticità sono particolarmenteimportanti per gli analizzatori di pericolo, ma lo sono meno per altrimoduli plausibili, per esempio quelli che governano la scel

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la dei partner sessuali. Resta ovviamente il punto generale: i modulicognitivi dovrebbero essere risposte a problemi ambientali specifici.Ridurre il grado di specializzazione del modulo non avrà tanto l'effetto direndere l'organismo più flessibile, quanto di diminuire l'automaticità dellasua risposta al problema. Nella misura in cui l'evoluzione tende verso ilmiglioramento delle capacità di una specie, dovremmo allora aspettarci deimiglioramenti nel modo in cui i moduli esistenti svolgono il loro compito,o l'emergere di nuovi moduli per gestire nuovi problemi, invece di unademodularizzazione.

È vero che è possibile immaginare situazioni in cui una marginaledemodularizzazione di un meccanismo concettuale possa essere

vantaggiosa, o almeno non negativa, nonostante la perdita di velocità eaffidabilità che essa implica. Si immagini per esempio che scompaiadall'ambiente il pericolo per riconoscere il quale il modulo era statoselezionato; il modulo non è   più adatto e una demodularizzazione nonsarebbe dannosa. Ma in che modo potrebbe essere utile? Tali possibilitàteoriche sono lontane dal suggerire una spiegazione positiva del modo incui, per dirlo con le parole di Fodor, "l'evoluzione cognitiva [...] sarebbeconsistita nel liberare progressivamente certi tipi di sistemi di risoluzionedi problemi dai vincoli sotto i quali lavorano i loro analizzatori di input". Non che questa affermazione non possa essere giusta, ma ci sono pocheragioni di pensare che sia vera. In realtà, la sua sola giustificazione sembraessere il desiderio di integrare l'idea che i processi centrali non sonomodulari in una vaga prospettiva evolutiva. Meglio rendere ufficiale lalacuna nella spiegazione con una "Seconda legge della non esistenza della

scienza cognitiva", secondo la quale le forze che hanno determinatol'evoluzione cognitiva non possono essere identificate.3 Prendete per   buono che l'evoluzione cognitiva è avvenuta (risultando nellademodularizzazione del pensiero) e non domandate come.

Invece di cominciare con un'immagine enigmatica dei processi di pensiero dell'Homo sapiens e concludere che la loro evoluzione passata èun mistero insondabile, perché non cominciare con qualche considerazioneevoluzionistica plausibile

3 La questione non è solo che le forze che hanno determinato l'evoluzione nonpossono essere identificate con certezza; questo è banalmente vero. Il punto deve essereche queste forze non possono neanche vagamente essere identificate, a differenza diquelle che hanno determinato, per esempio, gli organi della locomozione. Si vedanoPiattelli-Palmarini 1989 e Stich 1990 per argomenti intelligenti ma non convincenti infavore di questa seconda legge.

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e chiedersi quale organizzazione cognitiva possiamo aspettarci in unaspecie che per la sua sopravvivenza si basa fortemente sulle sue capacitàcognitive. Questo ci porta al nostro secondo scenario.

Come ho già detto, è ragionevole aspettarsi che i moduli concettualiaumentino in complessità, sottigliezza e ricchezza inferenziale nello

 svolgere la loro funzione. Come per ogni sistema biologico, la funzione diun modulo può variare nel tempo, ma non c'è ragione di aspettarsi che lenuove funzioni siano sistematicamente più generali delle vecchie. Èragionevole invece aspettarsi che emergano nuovi moduli concettuali inrisposta a diversi tipi di problemi e opportunità e, di conseguenza, l'accu-mulo di un numero sempre maggiore di moduli.

Dato che i moduli cognitivi sono il risultato ciascuno di una storiafilogenetica differente, non c'è ragione di aspettarsi che siano costruitisullo stesso modello generale e poi interconnessi in maniera elegante.Benché la maggior parte dei moduli concettuali, anche se non tutti, sianomeccanismi inferenziali, le procedure inferenziali che utilizzano possonoessere molto diverse. Quindi, da un punto di vista modulare, non èragionevole domandarsi quale sia la forma generale dell'inferenza umana(regole logiche, schemi pragmatici, modelli mentali, ecc.) come vienespesso fatto nella letteratura sul ragionamento umano (si veda Manktelowe Over 1990 per una rassegna recente).

I domini dei moduli possono variare per grandezza e sostanza: non c'èragione di aspettarsi moduli specializzati ognuno dei quali tratti undominio della stessa dimensione. In particolare, non c'è ragione diescludere micromoduli il cui dominio abbia la dimensione di un concetto,invece che di un dominio semantico. Sostengo infatti che molti concetti

sono modulari: dato che i moduli concettuali sono probabilmentenumerosi, le loro interconnessioni e le loro connessioni con i moduli percettivi e di controllo possono essere molto diverse. Come ha sostenutoAndy Clark (1987, 1990), faremmo meglio a pensare alla mente come a unassemblaggio di pezzi e componenti aggiunti in momenti diversi einterconnessi in un modo che farebbe orrore a un ingegnere.

Modularità e integrazione concettuale

L'input al primo modulo concettuale apparso nell'evoluzione cognitivanon poteva venire che dai moduli percettivi. Ma una volta apparsi i moduliconcettuali, i loro output potevano servire da input ad altri moduliconcettuali.

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Supponiamo che gli org possano comunicare tra di loro at- attraversoun piccolo repertorio di segnali vocali; supponiamo inoltre chel'interpretazione ottimale di alcuni di questi segnali sia sensibile a fattoricontestuali. Per esempio, un segnale ambiguo di pericolo indica la presenza di un serpente quando è emesso da un org sopra a un albero, e diun elefante quando è emesso da un org a terra. I moduli percettiviidentificano i segnali e l'informazione contestuale pertinente. L'output pertinente di questi moduli percettivi è trattato da un modulo concettualead hoc che interpreta i segnali ambigui. Ora, potrebbe essere unmiglioramento significativo se il modulo concettuale specializzatonell'inferire l'avvicinarsi degli elefanti accettasse in input non solol'informazione percettiva sui rumori specifici e sulle vibrazioni del suolo,ma anche le interpretazioni dei segnali pertinenti emessi dagli altri org.Questo meccanismo concettuale di inferenza del pericolo riceverebbeallora input non soltanto dai moduli percettivi, ma anche da un altromodulo concettuale, l'interprete dei segnali sensibile al contesto.

  Nel caso umano, è generalmente dato per scontato che le capacitàspecifiche possano trattare non solo informazione primaria che appartieneal loro dominio ed è fornita dalla percezione, ma anche informazionecomunicata verbalmente o figurativamente. Per esempio, gli esperimentisullo sviluppo della conoscenza zoologica usano come materiale non sologli animali reali, ma anche le figure e le descrizioni verbali. Questametodologia meriterebbe di essere discussa; ma non sembra far sorgere problemi molto seri, e già questo è interessante.

Alcuni moduli concettuali possono poi ricevere tutti i loro input da altrimoduli concettuali. Immaginate, per esempio, che un org emetta un

segnale di pericolo solo quando sono soddisfatte due condizioni: da un latoquando ha inferito la presenza di un pericolo e, dall'altro, quella di orgamici in pericolo. Entrambe le inferenze sono fatte attraverso moduliconcettuali. Se è così, allora il modulo concettuale che decide se emettereo no il segnale di pericolo riceve tutti i suoi input da altri moduliconcettuali, e nessun input dai moduli percettivi.

L'immagine è adesso quella di una rete complessa di moduliconcettuali, alcuni dei quali ricevono i loro input dai moduli percettivi,mentre altri ne ricevono almeno alcuni dai moduli concettuali, e così via.Ogni informazione può venir combinata in molti modi con molte altre siatra i diversi livelli che all'interno di un solo livello (anche se una completaintegrazione concettuale è da escludere). Quale può essere ilcomportamento di un organismo dotato di questi processi di pensieromodulari? Non lo sappiamo. Si comporterebbe in maniera flessibile,

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come fanno gli esseri umani? Sicuramente le sue risposte sarebbero molto precise e adeguate. Ma flessibilità significa qualcosa in più? 'Flessibilità' èuna metafora senza una chiara interpretazione letterale, e quindi difficileda definire. Quando però pensiamo alla flessibilità umana, abbiamo inmente in particolare la capacità di apprendere dall'esperienza. Un sistemacompletamente modulare può imparare?

L'imprinting è un esempio molto semplice di apprendimento modulare.Cosa sanno, per esempio, gli org l'uno dell'altro? Se gli org sono animaliche non apprendono, almeno devono essere forniti di un riconoscitore deiconspecifici e di riconoscitori di alcune proprietà degli altri org, come ilsesso o l'età, senza per il resto essere capaci di riconoscere un individuo inquanto tale, nemmeno la propria madre. Oppure, se hanno capacità primitive di apprendimento, possono avere un modulo per riconoscere la propria madre il cui funzionamento è fissato una volta per tutte dalla prima percezione dell'org neonato di una grande creatura che si muove nellevicinanze immediate (con un po' di fortuna, sua madre), e dall'imprintingrisultante dell'informazione pertinente. Il modulo diventa allora un ricono-scitore per l'individuo particolare che ha causato l'imprinting.

In generale, vorrei introdurre a questo punto una nozione tecnica,quella di 'inizializzazione', presa a prestito dal vocabolario informatico. Unmodulo cognitivo può, esattamente come un programma di computer,essere incompleto nel senso che un certo numero di informazioni deveessere specificato prima che il programma possa funzionare normalmente.Un programma di posta elettronica, per esempio, può chiedervi di fissarealcuni parametri (per esempio la velocità di trasmissione, o il tipo diterminale) e di riempire alcune caselle vuote (per esempio i numeri ditelefono o le password). Solo dopo essere stato inizializzato il vostro programma può funzionare. Allo stesso modo, secondo Chomsky (1986)(il cui lavoro è stato fondamentale per lo sviluppo di un approcciomodulare alla mente umana - si veda l'introduzione di Hirschfeld e Gelman1984), l'acquisizione della prima lingua implica la fissazione, per molti  parametri grammaticali comuni a tutte le lingue, dei valori che tali  parametri hanno nella lingua da acquisire, e che vengano riempite lecaselle vuote del lessico. L'inizializzazione del riconoscitore della propriamadre descritto nel paragrafo precedente richiede semplicemente diriempire la casella vuota di tale modulo con la rappresentazione percettivadi un singolo individuo.

Se si tratta di una specie con capacità di apprendimento un po' piùsofisticate, gli org possono avere la capacità di costruire

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diversi riconoscitori per diversi individui della stessa specie. Potrebberoavere un modulo-stampo molto simile a un ricono- scitore della propriamadre, con la differenza che può essere inizializzato molte volte, proiettando ogni volta una copia ini- zializzata differente di se stesso, cheè specializzata per l'identi- ficazione di un individuo differente. Le copieinizializzate del modulo-stampo sono anch'esse moduli? Non vedo perchéno. La sola differenza importante è che i diversi moduli proiettati nonsembrano essere hard-wired, ossia già predisposti nel cervelo, nello stessomodo in cui lo è il modulo responsabile del processo di imprinting. Al dilà di questo, i due tipi di moduli sono inizializzati e operano esattamenteallo stesso modo. I nostri org più sofisticati hanno, per così dire, unacapacità modulare speciale per rappresentare mentalmente individui dellastessa specie, una capacità che dà come risultato la generazione di unmicromodulo per ogni individuo rappresentato.

Consideriamo in questa prospettiva la capacità specializzata umana dicategorizzare le specie viventi. Una possibilità è che ci sia un moduloiniziale che costituisce lo stampo della specie vivente e viene inizializzatomolte volte, producendo ogni volta un nuovo micromodulo checorrisponde al concetto di un essere vivente (il modulo  GATTO, il moduloCANE, il modulo PESCE ROSSO, ecc.). Pensare che questi concetti siano modulari può essere, a prima vista, sconcertante. Ma riflettiamo: i concetti sonoovviamente specifici di un dominio, hanno un repertorio di informazione  propria (l'informazione enciclopedica che si trova sotto il concetto), emeccanismi computazionali autonomi (lavorano, a mio avviso, surappresentazioni al cui interno si trova il concetto appropriato, così comegli enzimi della digestione lavorano sul cibo in cui si trova la molecolaappropriata). Quando, oltre a tutto ciò, i concetti sono in parte specificatigeneticamente (attraverso qualche stampo concettuale specializzato) essisono modulari almeno in qualche misura interessante, o no?

Può succedere che la relazione stampo-copia coinvolga più livelli. Unmetastampo generale di categorizzazione degli esseri viventi può proiettare non i concetti direttamente, ma altri stampi più specifici per diversi domini di esseri viventi. Per esempio, un parametro fondamentaleda fissare potrebbe specificare se si tratta di oggetti semoventi o no(Premack 1990), generando due modelli, uno per i concetti zoologici el'altro per quelli botanici.

Un'altra possibilità è che il metastampo iniziale abbia tre tipi dicaratteristiche: 1) proprietà stabili che caratterizzano gli esseri viventi ingenerale - per esempio, una parte inalterabile

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di qualsiasi concetto di essere vivente potrebbe essere l'esistenza diun'essenza sottostante (Atran 1987; Gelman e Coley 1991; Gelman eMarkman 1986, 1987; Keil 1989; Medin e Ortony 1989); 2) parametri cheabbiano valori di default e che possano essere alterati nelle copie deimodelli - per esempio 'semovente', 'non umano' possono essere proprietàrivedibili dello stampo iniziale; 3) caselle vuote per l'informazione sui tipiindividuali. In questo caso, lo stampo con i valori di default potrebbeservire così com'è per i concetti animali non umani. Usare lo stampo per iconcetti botanici o per includere gli esseri umani nella tassonomia deglianimali implicherebbe una variazione dei valori di default dello stampoiniziale.

Com'è governato il flusso di informazione tra i moduli? Esiste un

meccanismo di regolazione? È un pandemonio? È un'economia dimercato? Si possono considerare molti tipi di stampi? Ecco una possibilitàsemplice.

L'ouput dei moduli concettuali e percettivi è costituito darappresentazioni concettuali. I moduli percettivi categorizzano gli stimolidistali (come le cose viste) e ciascuno di loro possiede il repertorioconcettuale necessario per le categorizzazioni che sono capaci di fornire inoutput. I moduli concettuali possono inferire le nuove categorizzazioni  prodotte dalle rappresentazioni concettuali che essi trattano in input; per fare questo devono avere un repertorio concettuale in input e in output.Assumiamo che i moduli concettuali accettino in input qualsiasirappresentazione concettuale in cui sia presente un concetto che appartieneal loro repertorio di input. In particolare, i micromoduli di un solo concettotrattano tutte le rappresentazioni in cui è presente proprio quel concetto, e

solo quelle. Questi micromoduli generano trasformazioni dellarappresentazione di input sostituendo il concetto con qualche suaespansione garantita inferenzialmente. Essi sono altrimenti ciechi per lealtre proprietà concettuali delle rappresentazioni che trattano (come le procedure di 'calcolo' nei programmi di videoscrittura, che analizzano iltesto ma 'vedono' solo numeri e segni matematici). Generalmente, la  presenza di concetti specifici in una rappresentazione determina qualimoduli saranno attivati e quali processi di inferenza avranno luogo (si vedaSperber e Wilson 1986, cap. 2).

Una caratteristica fondamentale della modularità nella descrizione diFodor è l'incapsulamento informazionale. Un vero modulo usa unrepertorio di dati limitato e non è in grado di servirsi di informazione pertinente per eseguire il suo compito, se questa non si trova nel suorepertorio. I processi centrali non hanno invece tali vincoli, ma sono

caratterizzati da un flusso li-

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 bero dell'informazione. Le credenze sul formaggio Camembert possonosvolgere allora un ruolo nell'elaborazione di conclusioni sui quark, anchese è difficile pensare che appartengano allo stesso dominio concettuale. Equesto è un fatto, che non mi sogno di negare. Ma quali sono le sueconseguenze per la modularità dei processi concettuali? Il fatto che unacerta visione non può essere corretta. Immaginate un solo strato di pochigrandi moduli, non connessi tra di loro; l'informazione trattata da unmodulo non può servire da input a un altro. Se, d'altra parte, l'output di unmodulo concettuale può servire come input a un altro, i moduli possonoessere incapsulati informazio- nalmente, mentre le catene di inferenza  possono trasferire le premesse concettuali da un modulo all'altro, eintegrare così il contributo di ognuno alla conclusione finale. Un effettodistico non deve essere il risultato di una procedura distica.

Una volta raggiunto un certo livello di complessità nel pensieromodulare, possono emergere moduli la cui funzione non è di trattare i  problemi sollevati esternamente dall'ambiente, ma internamente dalfunzionamento della mente stessa. Un problema che un sistema modularericco del tipo che stiamo immaginando potrebbe incontrare, così come i processi centrali non modulari di Fodor, è quello dell'esplosione computa-zionale.

Assumiamo che emerga un dispositivo con la funzione di 'fare unalista' delle informazioni che devono essere trattate con priorità. Chiamiamoquesto dispositivo 'attenzione', e concepiamolo come una memoria dilavoro temporanea. Solo le rappresentazioni presenti in questa memoriatemporanea sono trattate (per i moduli dei quali esse soddisfano lecondizioni di input) e ciò non avviene fino a quando restano nella memoriatemporanea. Tra le rappresentazioni mentali c'è una sorta di competizione per ottenere un posto nell'attenzione che tende ad effettuarsi in modo damassimizzare l'efficacia cognitiva, ossia a selezionare le informazioni più pertinenti disponibili a un dato momento perché abbiano posto nellamemoria di lavoro, e quindi un ruolo nelle inferenze. Ci sarebbe una storiamolto più lunga da raccontare qui: l'abbiamo narrata in Sperber e Wilson1986.

 Naturalmente l'attenzione non è specializzata nel trattamento di undominio cognitivo particolare, ma costituisce un adattamento evidente a un  problema di funzionamento interno, quello cui va incontro qualsiasisistema cognitivo in grado di identificare percettivamente e di conservarein memoria molta più informazione di quella che può trattare simultanea-mente a livello concettuale. Un sistema siffatto deve avere un

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modo di selezionare l'informazione che sarà trattata concettualmente. Unmeccanismo di attenzione guidato da considerazioni di pertinenza puòcostituire un mezzo di questo tipo. Non importa se sia meglio chiamarequesto dispositivo 'modulo' o no: l'attenzione così concepita trova perfettamente il suo posto in un'immagine modulare del pensiero.

  Non spero che queste speculazioni vi convincano - non ne sonocompletamente convinto neanche io; lo sarò un po' di più alla fine delcapitolo - ma spero che siano comprensibili. Possiamo immaginare unsistema altamente modulare che integri le informazioni in tanti modi parziali cosicché non sia più affatto evidente che noi esseri umani leintegriamo meglio. L'argomento contro il pensiero modulare basato su unasupposta impossibilità di un'integrazione modulare dovrebbe almeno perdere il fascino immediato che il buon senso sembra conferirgli.

 Dominio reale e dominio proprio dei moduli

Ogni modulo ha il suo dominio proprio, ma un gran numero di dominidel pensiero umano, forse la maggioranza, sono troppo nuovi e troppodiversi tra le culture perché a essi corrisponda un modulo geneticamentedeterminato. Questo secondo argomento di buon senso contro lamodularità è rinforzato da alcune considerazioni sull'adattamento. Nel casodi un gran numero di moduli, sarebbe difficile attribuire a una competenzaculturale il carattere di un adattamento biologico. Ciò vale non solo per domini relativamente nuovi, come il gioco degli scacchi, ma anche per domini antichi, come la musica. Non è quindi verosimile che ci sia un

meccanismo biologico la cui funzione sarebbe quella di conferire agliindividui una competenza in questi ambiti. Naturalmente è sempre possibile imbastire una storia che tenda a dimostrare che, per esempio, lacompetenza musicale è un adattamento biologico e contribuisce alsuccesso riproduttivo degli individui che ne sono dotati. Ma postulare ilcarattere adattivo di un tratto senza che ci sia una dimostrazione plausibilecostituisce un abuso ben noto della teoria dell'evoluzione.

Vorrei provare una strada completamente diversa. Un adattamento è ingenerale un adattamento a condizioni ambientali date. Se si considera untratto adattivo fuori contesto, all'interno dell'organismo, e si dimenticatutto ciò che si sa dell'ambiente e della storia, non si è in grado di direquale sia la funzione di questo tratto, a cosa si sia adattato. La funzione del

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collo lungo della giraffa è di aiutarla a raggiungere il cibo sugli alberi, main un altro ambiente - per liberare l'immaginazione, diciamo su un altro  pianeta - la funzione di una parte identica di un organismo identico potrebbe essere quella di permettere all'animale di vedere più lontano, o dievitare di respirare un'aria viziata troppo vicino al suolo, o ancora diingannare dei predatori giganti facendo loro credere che la propria carne ètossica.

Un'idea molto simile - o meglio, un'applicazione particolare di questaidea - ha giocato un ruolo centrale nei dibattiti recenti in filosofia dellinguaggio e della mente tra 'individualisti' ed 'esternisti'. Secondo gliindividualisti, il contenuto di un concetto è nella testa dell'individuo, o, inaltri termini, il contenuto concettuale è una proprietà intrinseca dello statocerebrale di un individuo. Secondo gli esternisti, con i quali concordo, lostesso stato cerebrale che realizza un concetto dato in un certo ambiente  potrebbe realizzare un concetto differente in un altro, così come tratti  biologici identici, considerati da un punto strettamente internoall'organismo, possono realizzare funzioni diverse in ambienti diversi.4

Il contenuto di un concetto non è una proprietà intrinseca, ma una proprietà relazionale5 del sistema di neuroni che realizza tale concetto. Ilcontenuto dipende dall'ambiente e dalla storia (compresa la preistoriafilogenetica) del sistema neuronale dato. L' osservazione si estende inmodo evidente ai casi dei moduli specializzati nel trattamento di undominio concettuale particolare. Un dominio è definito in terminisemantici, ossia a partire dal concetto che comprende gli oggetti a essoappartenenti. Il dominio di un modulo non è dunque una proprietà dellasua struttura interna (sia che la si descriva in termini neurologici sia intermini computazionali).

  Niente permetterebbe a un modulo cognitivo specializzato diappropriarsi di un dominio in virtù della sua sola struttura interna o anchedelle sue connessioni con altri moduli cognitivi. Tutto ciò che la strutturainterna fornisce è quello che Frank Keil (1994) chiama un "mode of construal", un insieme di regole di costruzione che permette di organizzarel'informazione in un certo modo e trarre alcune inferenze. Un modulocognitivo

4 Putnam 1975 e Burge 1979 hanno presentato gli argomenti iniziali per l'e-sternismo (per quanto mi riguarda, sono convinto da Putnam ma non da Burge). Peruna discussione sofisticata, si veda Recanati 1993.

5 Si può sostenere che il contenuto sia una funzione biologica, intesa in senso largo -si vedano Dennett 1987; Dretske 1988; Millikan 1984; Papineau 1987. Le mie posizionisono state influenzate da quelle di Millikan.

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ha anche rapporti strutturali con gli altri dispositivi mentali con i qualiinteragisce. Questi rapporti determinano in particolare le condizioni diinput del modulo, vale a dire attraverso quali altri dispositivil'informazione deve pervenirgli, e come deve essere categorizzata daquesti. Ma fino a quando restiamo all'interno della mente, ignorando leconnessioni tra i moduli percettivi e l'ambiente, la conoscenza delleconnessioni di un modulo cognitivo specializzato all'interno del cervellonon basta a determinarne il dominio.

Le istruzioni per l'uso che rendono possibile un modulo mentale, potrebbero in linea di principio adattarsi anche ad altri domini. Questo nonrenderebbe il modulo meno specializzato. Lo stesso discorso vale per lachiave della mia porta: pur potendo aprire molte altre porte, essa ha l'unicafunzione di aprire la mia. Le istruzioni per l'uso e il dominio, così come lamia chiave e la mia serratura, hanno una lunga storia in comune. Comefanno allora le interazioni con l'ambiente a determinare nel tempo ildominio di un modulo cognitivo? Per rispondere a questa domanda, bisogna distinguere tra dominio reale e dominio proprio di un modulo.

Il dominio reale di un modulo concettuale è l'insieme delleinformazioni nell'ambiente dell'organismo che possono (una volta trattatedai moduli percettivi e in certi casi da altri moduli concettuali) soddisfarele condizioni di input di un modulo. Il suo dominio proprio è l'insiemedelle informazioni che il modulo ha la funzione biologica di trattare.Semplificando, la funzione di un dispositivo biologico è costituita da uninsieme di effetti di tale dispositivo, che contribuiscono a fare del disposi-tivo un tratto permanente di una specie duratura. La funzione di un moduloè di trattare un insieme particolare di informazioni in modo specifico.

Questo trattamento contribuisce al successo riproduttivo dell'organismo.L'insieme di informazioni che un modulo ha la funzione di trattarecostituisce il suo dominio proprio. Ora, quello che un modulo trattaeffettivamente, sono le informazioni che si trovano nel suo dominio reale,che appartengano o meno al dominio proprio.

Ritorniamo agli org. Il pericolo caratteristico che inizialmente lispaventava era di essere schiacciati dagli elefanti. Grazie al modulo, gliorg avevano reagito selettivamente a vari segnali normalmente prodotti nelloro ambiente dall'awicinarsi degli elefanti. Ovviamente, certe cariche dielefanti a volte non venivano riconosciute, mentre altri eventi indipendentie innocui provocavano l'attivazione del modulo. Ma anche se il modulonon riusciva a selezionare tutte e sole le cariche di elefanti descriviamo lafunzione come se fosse solo questa (invece di

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descrivere quello che realmente ha fatto). Perché? Perché è il successorelativo nel realizzare questo scopo che spiega il fatto che sia un tratto  permanente di una specie duratura. Anche se non sono esattamentecoestensivi, il dominio proprio e quello reale coincidono in modosufficiente con il dominio delle cari- che degli elefanti. Solo quest'ultimo è però il dominio proprio del modulo.

Molte generazioni dopo, gli elefanti sono scomparsi dall'ambientedegli org, mentre gli ippopotami si sono moltiplicati e ora sono loro aschiacciare gli org distratti. Lo stesso modulo che aveva reagito allamaggior parte delle cariche degli elefanti e a pochi altri eventi, reagisceora alla maggior parte delle cariche degli ippopotami e a pochi altri eventi.Si può dire che il dominio proprio del modulo sia diventato il dominiodelle cariche di ippopotami? Sì, e per le stesse ragioni di prima: il successorelativo nel reagire all'avvicinarsi degli elefanti spiega perché il modulosia rimasto un tratto permanente di una specie duratura.6

Oggi, anche gli ippopotami sono scomparsi, e c'è una linea ferroviariache passa nel territorio degli org; dato che gli org non si avvicinano allerotaie, i treni non sono un pericolo per loro. Ma è sempre lo stesso moduloche ha reagito selettivamente agli elefanti e agli ippopotami che orareagisce ai treni in avvicinamento (e provoca un inutile panico negli org).Il dominio reale del modulo include ora anche i treni che si avvicinano.Ma il suo dominio proprio è diventato quello dei treni che passano? Larisposta questa volta è no': reagire ai treni è ciò che il modulo fa, non lasua funzione. Il fatto che il modulo reagisca ai treni non spiega perché essorimanga un tratto permanente della specie. In realtà, se il modulo e laspecie sopravvivono, lo fanno nonostante questo effetto marginalenegativo.7

Uno psicologo animale potrebbe ugualmente arrivare alla conclusioneche essi hanno una capacità specifica di reagire ai

6 Ci sono qui alcuni problemi concettuali (si vedano Dennett 1987; Fodor 1987b). Sipotrebbe sostenere per esempio che il dominio proprio del modulo non fossero né glielefanti né gli ippopotami, ma qualcosa come 'grandi animali in avvicinamento capaci dischiacciare gli org'. Sono con Dennett nel ritenere che qualsiasi descrizione scegliamo lecose non cambiano di molto: la spiegazione generale resta esattamente la stessa.

7 Questa è la ragione per la quale sarebbe un errore dire che la funzione di unsistema è di reagire a qualsiasi cosa possa soddisfare le sue condizioni di input, rendendocosì equivalenti domini propri e domini reali. Anche se non ci sono dubbi sulla correttaassegnazione di un dominio proprio a qualche sistema (si veda la nota precedente), ladistinzione tra dominio proprio e dominio reale è tanto solida quanto quella trafunzione ed effetto.

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treni. Si potrebbe chiedere come l'hanno sviluppata, dato che i treni sonostati introdotti nell'area troppo recentemente per permettere l'emergere diun adattamento biologico specifico (il cui valore adattivo sarebbecomunque piuttosto misterioso). La verità ovviamente è che i domini  propri più antichi del modulo, ossia le cariche degli elefanti e degliippopotami, sono ora vuoti; che il suo dominio reale, per caso, coincide praticamente con quello dei treni in avvicinamento; e che la spiegazione diquesto caso è che le condizioni di input del modulo, che sono stateselezionate positivamente in un ambiente differente, si trovano soddisfattedai treni e da quasi nient'altro nell'ambiente attuale degli org.

Basta con gli esperimenti mentali. Nel mondo reale, è raro che glielefanti vengano sostituiti dagli ippopotami e gli ippopotami dai treni, eche ognuna di queste categorie soddisfi le condizioni di input di un modulospecializzato. Gli ambienti naturali, e quindi le funzioni cognitive, sonorelativamente stabili. È più facile che si verifichino piccole trasformazionidella funzione cognitiva piuttosto che cambiamenti radicali. Quandonell'ambiente avvengono cambiamenti importanti - per esempio comerisultato di un cataclisma naturale - la cosa più probabile è che si perdanoalcune funzioni cognitive. Se gli elefanti se ne vanno, se ne va anche ilvostro riconoscitore di elefanti. Se un modulo perde la sua funzione, o, ilche è lo stesso, se il suo dominio proprio si svuota, allora è difficile che ilsuo dominio reale sia riempito da oggetti che rientrano sotto una categoria,come i treni che passano. È più probabile che lo spettro degli stimoli checausano la reazione del modulo finisca per essere un tale insieme dicianfrusaglie da scoraggiare qualsiasi descrizione del dominio reale delmodulo in termini di una categoria specifica. I domini reali solitamentenon sono domini concettuali.

 Domini culturali ed epidemiologia delle rappresentazioni

La maggior parte degli animali ricevono dai loro conspecificiinformazione occasionale e altamente prevedibile. I loro rari stimoliintellettuali vengono dunque dall'ambiente. Gli esseri umani sono speciali.Essi sono per natura produttori, trasmettitori e consumatori diinformazione in dose massiccia; acquisiscono dai loro conspecifici unaquantità e una varietà di informazioni considerevole, e producono eregistrano informazione anche per un consumo personale e privato. È per questo, come cercherò di mostrare, che il dominio reale dei moduli co

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gnitivi umani ha avuto la tendenza a diventare molto più vasto dei lorodominio proprio. Inoltre i domini reali, invece di costi- tuire un caos cheimpedisce qualsiasi categorizzazione, tendono a essere parzialmenteorganizzati e categorizzati dagli esseri umani stessi. In queste condizioni, èmeglio distinguere il dominio culturale sia da quello proprio che da quelloreale.

Una rapida illustrazione, prima di passare a uno schizzo piùsistematico e a un paio di esempi più seri. Prendiamo un neonato nella suaculla, dotato di una comprensione ingenua, ma tuttavia specializzata emodulare, del mondo fisico. Il dominio proprio del modulo in questione èl'insieme degli eventi fisici che si producono tipicamente nella natura e lacui comprensione sarà cruciale alla sopravvivenza dell'organismo.Sicuramente esistono altri primati dotati di un modulo simile. Il modulodella fisica ingenua del cucciolo di scimpanzé (e del cucciolo di Homo-non-ancora-sapiens nel Pleistocene) reagisce alla caduta occasionale di unfrutto o di un ramo, alla buccia di banana gettata via, agli effetti deimovimenti che lui stesso produce, e può stupirsi davanti a movimentiirregolari, come la caduta di una foglia. Nel nostro neonato umano, invece,il modulo è stimolato non solo dagli eventi fisici che si producono per caso, ma anche da una 'lavagna di attività' attaccata a un lato del lettino, daun carillon che pende sopra di lui, dai palloni tirati dai suoi fratelli, dalleimmagini che si muovono sullo schermo televisivo, e da un insieme digiocattoli educativi concepiti proprio per stimolare il suo interesse innatonei processi fisici.

Che cosa rende il caso umano così speciale? Gli esseri umanimodificano il loro ambiente a un ritmo che la selezione naturale non puòseguire. Il risultato è che certi tratti geneticamente determinatidell'organismo umano sono adattamenti a certi tratti dell'ambiente chehanno cessato di esistere o che sono molto cambiati. Lo stesso può valerenon solo nel caso di adattamenti all'ambiente non umano, ma anche diadattamenti a stadi primitivi dell'ambiente sociale degli ominidi.

In particolare non è molto verosimile che il dominio reale di unmodulo cognitivo umano, quale che sia, possa essere coestensivo, anchesolo approssimativamente, con il suo dominio proprio. È molto probabileal contrario che il dominio reale di un intero modulo cognitivo umanocomprenda una grande quantità di informazioni culturali che soddisfano lesue condizioni di input. Questo stato di cose non dipende né dal caso, néda un piano. È l'effetto del processo sociale di distribuzionedell'informazione.

Gli esseri umani non costruiscono solo rappresentazioni mentali

individuali dell'informazione, ma producono anche infor 

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mazione gli uni per gli altri sotto forma di rappresentazioni pubbliche, per esempio di enunciati, di testi scritti, di immagini, o sotto forma di oggetti odi comportamenti informativi. La maggior parte delle informazionicomunicate sono comunicate d'altronde solo a un piccolo numero di persone, spesso una sola, in un'occasione particolare, e là si fermano. Avolte, però, il destinatario di un primo atto di comunicazione comunical'informazione ricevuta ad altri destinatari che la comunicano a loro voltaad altri, e così via. Questo processo di trasmissione ripetuto può continuarefino alla formazione di una catena di rappresentazioni mentali e pubblichelegate causalmente e simili nel contenuto - proprio grazie ai loro legamicausali - che percorrono un'intera popolazione umana. Le tradizioni e i pet-

tegolezzi si diffondono in questo modo. Altri tipi di rappresentazioni possono essere distribuite da catene causali di forma differente (attraversol'imitazione, con o senza istruzioni, o attraverso la comunicazione dimassa). Definiamo cultura' tutte queste rappresentazioni causalmentecollegate e largamente distribuite.

Ripeto, spiegare la cultura significa spiegare perché certerappresentazioni sono molto diffuse: una scienza naturalistica della culturadeve essere un 'epidemiologia delle rappresentazioni e spiegare perchécerte rappresentazioni hanno più successo - sono più contagiose' - di altre.

In questa prospettiva epidemiologica, tutte le informazioni che gliesseri umani introducono nel loro ambiente comune possono essere viste incompetizione8 per lo spazio e il tempo privato e pubblico, ossia per l'attenzione, la memoria interna, la trasmissione e la memoria esterna.Molti fattori determinano il successo di un'informazione e il

raggiungimento un alto livello di distribuzione, cioè se si stabilizza in unacultura. Alcuni sono psicologici, altri ecologici; la maggior parte di essisono relativamente locali, altri molto generali. Il fattore psicologico piùgenerale che influenza la distribuzione dell'informazione è la suacompatibilità con l'organizzazione cognitiva umana.

In particolare, l'informazione pertinente, la cui pertinenza è

8 Qui, come nel caso delle rappresentazioni che sono in competizione per

l'attenzione, il termine competizione' è solo una vivida metafora che non implicanessuna intenzione o disposizione a competere. Quello che significa è che, tra tutte lerappresentazioni presenti in un gruppo umano in un dato momento, alcune, a unestremo, si diffonderanno e dureranno, mentre altre, all'altro estremo, avranno solouna breve esistenza locale. Non si tratta di un processo casuale, e per ipotesi leproprietà dell'informazione giocano un ruolo causale nel determinarne la distribuzioneampia o limitata.

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relativamente indipendente dal contesto immediato, ha più possibilità,ceteris paribus, di raggiungere un livello culturale di distribuzione. La  pertinenza garantisce la motivazione sia per memorizzare che per trasmettere informazione, e l'indipendenza da un contesto immediatosignifica la pertinenza in un contesto più ampio di aspettative e credenzestabili. In una prospettiva modulare dei processi concettuali le credenzeche sono stabili all'interno di una popolazione sono quelle che giocano unruolo centrale nell'organizzazione modulare e nel trattamento dellaconoscenza. L'informazione che arricchisce o con- traddice questecredenze modulari ha quindi maggiori possibilità di successo.

Ho sostenuto altrove (Sperber 1974b, 1980 e nei capitoli 3 e 4) che lecredenze che violano le aspettative che determinano in noi i modulicognitivi (per esempio quelle in esseri sovrannaturali capaci di azioni adistanza, ubiquità, metamorfosi, ecc.) acquisiscono proprio per questofatto una visibilità e una pertinenza che contribuisce al loro vigoreculturale. Pascal Boyer (1990) ha giustamente sottolineato che taliviolazioni di aspettative intuitive nella descrizione degli esserisovrannatura- li sono in realtà poche, e avvengono su uno sfondo diaspettative modulari soddisfatte. Kelly e Keil (1985) hanno mostrato chel'uso culturale delle rappresentazioni delle metamorfosi è strettamentevincolato da una struttura concettuale specifica. In generale, dovremmoaspettarci che molte rappresentazioni culturali di successo sianosolidamente ancorate a un modulo concettuale, differenziandosisufficientemente dalle informazioni che figurano ordinariamente neldominio proprio del modulo per catturare l'attenzione.

Un modulo cognitivo stimola in ogni cultura la produzione e la

distribuzione di un grande ventaglio di informazioni che soddisfano le suecondizioni di input. Queste informazioni, prodotte artificialmente eorganizzate dagli individui stessi, sono concettualizzate dall'inizio eappartengono a domini concettuali che propongo di chiamare dominiculturali dei moduli. In altri termini, la trasmissione culturale suscita neldominio reale di ciascun modulo cognitivo una proliferazione di informa-zioni parassitarie che imitano il dominio proprio del modulo.

Proverò a illustrare il mio approccio epidemiologico partendo da uncaso non concettuale, quello della musica; il mio intento è semplicementedi mostrare il funzionamento di tale approccio, non di formulare un'ipotesiscientifica seria, che non avrei le competenze per sviluppare.

Immaginiamo che la capacità e la disposizione a prestare attenzione acerte sequenze sonore e ad analizzarle abbiano con

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tribuito al successo riproduttivo per un periodo sufficientemente lungonella preistoria umana. Le sequenze sonore saranno state identificategrazie alle variazioni in altezza e ritmo. Quali suoni presentavano questastruttura? La prima possibilità che viene in mente è quella dei suoni vocali prodotti dagli umani per comunicare. Non è necessario che si tratti deisuoni delle lingue dell'Homo sapiens, ma si può immaginare un antenatoumanoide dotato di capacità articolatorie molto più povere, che si basasse ben più degli umani moderni sul ritmo e sull'altezza per produrre segnalivocali. In queste condizioni sarebbe stata possibile l'evoluzione di unmodulo cognitivo specializzato.

Questo modulo avrebbe dovuto combinare le capacità percettive di

discriminazione necessarie con un aspetto motivazionale che avrebbeincitato gli individui a prestare attenzione alle sequenze sonore pertinenti.Tale motivazione avrebbe potuto essere di carattere edonistico: aspettative positive di piacere invece di paura del dolore. Supponiamo che le sequenzesonore si producessero in mezzo a rumori dai quali era difficile distin-guerle. Le capacità vocali di questi antenati avrebbero potuto essere moltolimitate, così che la sequenza sonora voluta potesse essere parassitata da unflusso di suoni senza pertinenza (come per esempio quando si parla con lavoce rauca o raffreddata o con la bocca piena). In queste condizioni, lacomponente motivazionale del modulo avrebbe dovuto essere calibrata inmodo tale che il riconoscimento di un livello relativamente basso della proprietà pertinente fosse sufficiente a procurare un piacere motivante.

Il dominio proprio che propongo di immaginare è quello delle proprietà acustiche delle comunicazioni vocali primitive. È possibile che il

dominio proprio sia oggi vuoto: un altro adattamento, l'apparato vocaleumano, può averlo reso obsoleto. Oppure è possibile che le proprietàacustiche pertinenti giochino ancora un ruolo nelle lingue umane (in particolare in quelle tonali) e che il modulo sia ancora funzionale. I suoniche il modulo analizza, causando così piacere all'organismo di cui fa parte- ossia i suoni che soddisfano le condizioni di input del modulo - sonoraramente presenti in natura (con l'eccezione evidente del canto degliuccelli), ma possono essere prodotti artificialmente. E così è stato, cosache ha fornito al modulo un dominio culturale particolarmente ricco, lamusica. La sequenza acustica pertinente della musica è molto più facile dadistinguere e più piacevole di qualsiasi altro suono nel dominio proprio delmodulo. Il meccanismo motivazionale, sintonizzato naturalmente sugliinput difficili da discriminare, è stato ora

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• limolato a un grado tale da creare una vera dipendenza neiconfronti dell'intera esperienza.

L'idea allora è che gli esseri umani hanno creato un dominioculturale, la musica, che è parassitario di un modulo cognitivoil cui dominio proprio esisteva prima della musica e non avevanulla a che fare con essa. L'esistenza di questo modulo cogniti-vo ha favorito la diffusione, la stabilizzazione e la progressivacrescita e diversificazione di un repertorio che soddisfa le con-dizioni di input. All'inizio furono scoperti per caso suoni piace-voli, poi vennero prodotte deliberatamente sequenze sonoreche divennero vera e propria musica. Questi pezzi di culturacompetono per lo spazio e il tempo pubblici e mentali e per avere la possibilità di stimolare il modulo in questione in piùindividui possibile per il tempo più lungo possibile. In questacompetizione, alcuni brani musicali riescono a sopravvivere al-meno per qualche tempo, mentre altri vengono eliminati, e cosìmusica e competenza musicale evolvono.

  Nel caso della musica, il dominio culturale del modulo èmolto più sviluppato e visibile del suo dominio proprio (nell'i-   potesi che un dominio proprio esista ancora), al punto che èl'esistenza stessa di un dominio culturale e della specificità di

competenze che sono manifestamente coinvolte a giustificarela ricerca, nel presente o nel passato, di un dominio proprioche non è immediatamente manifesto.

In altri casi, l'esistenza di un dominio proprio è almeno tan-

to immediatamente manifesta quanto quella del dominio cultu-rale. Consideriamo la conoscenza zoologica. L'esistenza di unacompetenza specifica in questo caso non è difficile da ricono-scere, se si ammette l'idea di una specificità di domini cognitivi.Si può pensare, come ho suggerito, che gli esseri umani abbianouno stampo modulare per costruire i concetti degli animali. Lafunzione biologica di questo modulo è fornire agli umani unmodo di categorizzare gli animali che possono incontrare nelloro ambiente e di organizzare l'informazione che hanno su diloro. Il dominio proprio di questa capacità modulare è la faunalocale vivente. Succede in realtà che, grazie all'input culturale, sifinisca per costruire concetti di specie animali con cui non siavrà mai nessuna interazione. Se siamo occidentali del ventesi-mo secolo, possiamo per esempio avere un sottodominio cultu-

rale di dinosauri, o persino essere esperti di dinosauri. In un'al-tra cultura, avremmo potuto essere esperti di draghi.Questa invasione del dominio reale di un modulo concettua-

le da parte dell'informazione culturale avviene indipendente-mente dalla grandezza del modulo. Consideriamo un micromo-dulo come il concetto di un animale particolare, il topo per 

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esempio. Anche in questo caso, probabilmente avremo fissato tra i dati diquel modulo l'informazione culturalmente trasmessa sui topi, sia dicarattere scientifico che di carattere folcloristico, che va ben al di là deldominio proprio di quel micromodulo, vale a dire ben al di làdell'informazione derivabile dalle interazioni con i topi e pertinente a esse. Naturalmente questa informazione culturale sui topi può essere utile allenostre interazioni con gli altri esseri umani, fornendo per esempio un re- pertorio che si può sfruttare nella comunicazione metaforica.

Dal lato macromodulare, ammettiamo per la discussione che lo stampomodulare su cui sono costruiti i concetti zoologici sia esso stesso unaversione inizializzata (forse la versione per default) di un metastampo piùastratto per gli esseri viventi. Questo metastampo è inizializzato in altri

modi per altri domini (per esempio la botanica) e proietta diversi stampispecifici, come ho suggerito prima. Ciò che determina una nuova ini-zializzazione è la presenza di informazione che (1) soddisfa le condizionigenerali di input specificate dal metastampo, ma (2) non soddisfa lecondizioni più specifiche di input che si trovano nel modulo delmetastampo. Non è necessario che l'informazione si trovi nel dominio proprio del modulo del metastampo. In altre parole, il metastampo puòessere inizializzato in una maniera che non corrisponde affatto al suodominio proprio, ma solo a un dominio culturale. Un dominio culturale cuisi può pensare in questo contesto è quello delle rappresentazioni degliesseri sovrannaturali (si veda Boyer 1990, 1993, 1994), ma ci possonoanche essere casi meno evidenti.

Consideriamo in questa prospettiva il problema sollevato da Hirschfeld(1988, 1993, 1994), secondo il quale i bambini hanno una disposizione a

categorizzare gli esseri umani in 'gruppi razziali'. Essi fanno ancheinferenze a partire da questa categorizzazione, come se i gruppi razzialidifferenti avessero 'essenze' o 'nature' differenti, paragonabili alle diversenature attribuite alle diverse specie animali. I bambini possiedono unacompetenza la cui funzione è quella di sviluppare tali categorizzazioni? Inaltri termini, esiste una disposizione naturale al razzismo? Per evitarequesta conclusione così poco attraente, è stato suggerito (Atran 1990;Boyer 1990) che i bambini trasferiscano alla sfera sociale una competenzache hanno in precedenza sviluppato per gli esseri viventi, e che lo fanno  per dare un senso alle differenze sistematiche nell'aspetto umano (per esempio, il colore della pelle) che possono avere osservato. In realtà, gliesperimenti di Hirschfeld mostrano che la categorizzazione razziale sisviluppa senza che ci si appoggi inizialmente a input percettivi rilevanti.Questo sembra

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mostrare che esista, dopotutto, una competenza specializzata per laclassificazione razziale.

Ciò che suggerisce un approccio epidemiologico è che laclassificazione razziale può risultare da uno stampo specializzato, ma noninnato, derivato dal metastampo per gli esseri viventi, attraversoun'inizializzazione provocata da un input cul- lurale. Esperimenti recentimostrano infatti che, in certe condizioni, il solo fatto che un oggetto siadesignato con un'etichetta verbale modifica il modo in cui il bambino locategorizzerà in direzione di un costrutto 'essenzialista', secondo il quale itratti percepibili delle specie sono manifestazioni di un'essenza sottostante(Markman e Hutchinson 1984; Markman 1990; Davidson e Gelman 1990;Gelman e Coley 1991). È possibile allora che, quando i bambini sentonoche alcuni esseri umani sono designati con etichette verbali particolari chea prima vista non rivelano nessuna descrizione o definizione specifica, siattivi, in un contesto appropriato, l'inizializzazione di un modulo-stampoad hoc. Se così è, allora la percezione delle differenze fisiche tra gli esseriumani non è in realtà il fattore che determina il processo di classificazionerazziale.

Esiste, come propone Hirschfeld, una competenza geneticamentedeterminata che governa le classificazioni razziali senza importarne imodelli da un altro dominio concreto. Ma questa competenza soggiacente può anche non avere il suo dominio proprio nelle classificazioni razziali, lequali possono costituire un dominio puramente culturale, ossia fondato suuna competenza soggiacente che non ha un dominio proprio. L'inizializza-zione di uno stampo specializzato per la classificazione razziale potrebbequindi non essere altro che un effetto di informazioni culturali parassitarie

di un modulo di apprendimento di più alto livello, la cui funzione ègenerare stampi specializzati per diversi domini di specie viventi vere e  proprie, come il dominio zoologico o quello botanico. Se l'ipotesi ècorretta - non lo affermo, evoco solo la possibilità -, allora nessunadisposizione al razzismo è stata oggetto di una selezione biologica positiva presso gli esseri umani (non è stata selezionata per, nel senso di Sober 1984). Ciononostante, le disposizioni che sono state l'oggetto di unaselezione positiva rendono gli umani anche troppo ricettivi al razzismoquando incontrano un input culturale minimale e in apparenza inoffensivo.

Il rapporto fra il dominio proprio e i domini culturali dello stessomodulo non è un rapporto di trasferimento; il modulo non ha preferenze trai due generi di domini e, in realtà, ignora completamente la distinzione,che è fondata sull'ecologia e sulla storia.

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Anche adottando una prospettiva evoluzionistica ed epidemiologica, ladistinzione tra il dominio proprio e culturale di un modulo non è semprefacile. I domini propri e quelli culturali possono sovrapporsi. Inoltre, datoche i domini culturali sono oggetti di questo mondo, tra le funzioni di unmodulo ci può essere quella di gestire un dominio culturale, cosa che lotrasforma in un dominio proprio.

Si osservi che l'esistenza stessa di un modulo culturale è un effettodell'esistenza di un modulo; conseguentemente, almeno in partenza, unmodulo non può essere un adattamento al suo dominio culturale. Unmodulo deve essere stato selezionato a causa di un dominio proprio preesistente. In linea di principio, potrebbe acquisire come funzione quelladi gestire il proprio dominio culturale; dovrebbe avvenire così quando lacapacità del modulo di gestire il dominio culturale contribuisce alla so- pravvivenza della specie. Il solo caso chiaro dell'adattamento di un moduloai suoi propri effetti è quello della facoltà linguistica che, nella sua formainiziale, non può essere stata un adattamento a un linguaggio pubblico chenon poteva esistere senza di essa. D'altra parte, sembra difficile dubitaredel fatto che il linguaggio sia diventato il dominio proprio della facoltà dellinguaggio.9

Se esistono capacità modulari per prendere parte a forme particolari diinterazione sociale (come ha suggerito Cosmides 1989) allora, come nelcaso della facoltà del linguaggio, il dominio culturale di tali capacità devealmeno intersecare il loro dominio proprio. Un altro esempio interessantein questo contesto è quello dei rapporti tra la numerosità, che costituisce ildominio proprio di un modulo cognitivo, e il sistema dei numeri, checostituisce un dominio culturale dipendente dal linguaggio (si vedano

Gelman e Gallistel 1978; Gallistel e Gelman 1992; Dehaene 1992). Ingenerale però, non c'è ragione perché la produzione e la gestione deidomini culturali costituiscano una funzione biologica di tutti i modulicognitivi umani, o anche della maggior parte di essi.

Se questa concezione è corretta, ha implicazioni importanti per lostudio della specializzazione modulare nella cognizione umana: essasmonta a mio avviso l'argomento contro la modularità del pensiero fondatosulla diversità culturale. Perché, anche se il pensiero fosse interamentemodulare, si dovrebbe trovare un gran numero di domini culturali cosìdiversi da cultura

9 Si vedano Pinker e Bloom 1990 e il mio contributo alla discussione del loro articolo(Sperber 1990b).

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Capacità metarappresentazionali ed esplosione culturale

Se ancora non siete convinti che il pensiero umano potrebbe esseretotalmente modulare, se avete la sensazione che l'integrazione concettuale

sia maggiore di quanto permettano di spiegare le ipotesi avanzate finora, sescorgete domini del pensiero che non corrispondono a nessun modulo plausibile, allora siamo d'accordo. Non solo le credenze sul Camembert potrebbero svolgere un ruolo nella formazione delle conclusioni sui quark,ma non abbiamo nemmeno problemi a immaginare e comprendere unarappresentazione concettuale dove figurano contemporaneamente ilCamembert e i quark. Il solo fatto che abbiate compreso la frase precedente ne è un esempio.

In ogni caso, con o senza Camembert, le idee sui quark non hanno un posto evidente in un'immagine modulare del pensiero. È chiaro che nonappartengono al dominio effettivo della fisica ingenua, così come le ideesui cromosomi non appartengono al dominio della biologia ingenua, quellesugli uomini-lupo non appartengono a quello della zoologia ingenua, equelle sulla Santissima Trinità o sugli automi cellulari non corrispondono anessun modulo possibile.

Ciò significa che esiste un insieme di credenze extramodulari di cui lecredenze religiose e scientifiche sarebbero gli esempi più evidenti? Noncredo. Non abbiamo ancora esaurito le risorse dell'approccio modulare.

Gli esseri umani hanno la capacità di formare rappresentazioni mentalidi rappresentazioni mentali; in altri termini, hanno una capacitàmetarappresentazionale che è così particolare, sia per il suo dominio che per le sue proprietà computazionali, che chiunque sia disposto a prenderesul serio la tesi della modularità del pensiero deve essere disposto a consi-derare questa capacità come modulare. Lo stesso Fodor è disposto a farlo(Fodor 1992). Il modulo metarappresentazionale10 è un modulo concettualespeciale, un modulo di secondo

10 La capacità di formare e trattare le metarappresentazioni potrebbe ri-

a cultura che sarebbe assurdo scambiarli per i domini propri dei modulistabiliti dall'evoluzione biologica. Il fatto che un dominio cognitivo abbiaun carattere culturale tipico e non con- tribuisca all'adattamento biologico,non ne impedisce l'appartenenza, in quanto dominio culturale, a un modulogeneticamente determinato.

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ordine, per così dire. Mentre gli altri moduli concettuali trattano di concettie di rappresentazioni di cose, normalmente di cose percepite, quellometarappresentazionale tratta di concetti di concetti e di rappresentazioni dirappresentazioni.

Il dominio reale del modulo metarappresentazionale è abbastanzachiaro: è l'insieme di tutte le rappresentazioni di cui l'organismo è capacedi inferire o di apprendere in qualche modo l'esistenza e il contenuto. Incosa potrebbe consistere il dominio proprio di questo modulo? Molti lavorirecenti (per esempio Astington, Harris e Olson 1989) avanzano l'ipotesiche la funzione della capacità di formare e trattare metarappresen- tazionisia di fornire agli umani una psicologia ingenua. In altri termini, questomodulo è un 'modulo di teoria della mente' (Leslie 1994) e il suo dominio proprio è costituito dalle credenze, dai desideri e dalle intenzioni che sonole cause del comportamento umano. La capacità di comprendere e dicategorizzare il comportamento non solo in termini di semplici movimentifisici, ma anche di stati mentali soggiacenti, costituisce un adattamentoessenziale per organismi che devono cooperare ed entrare in competizionegli uni con gli altri in modi molto differenti.

Una volta che nella nostra ontologia si trovano gli stati mentali e lacapacità di attribuirli agli altri, c'è solo un passo da fare perché abbiamodesideri su questi stati mentali - il desiderio che quella persona credaquesto, che desideri quello, ecc. - e perché elaboriamo l'intenzione dimodificare gli stati mentali altrui. La comunicazione umana è sia un mododi soddisfare questi desideri metarappresentazionali, sia di sfruttare lecapacità metarappresentazionali degli altri. Come ha suggerito òrice (1957)e come ho sviluppato con Deirdre Wilson, attraverso il comportamentocomunicativo chi comunica aiuta in modo deliberato e manifesto il suodestinatario a inferire il contenuto della rappresentazione mentale chevuole fargli adottare (Sper- ber e Wilson 1986).

La comunicazione è radicalmente facilitata dall'emergere di una lingua pubblica, la quale soggiace a un altro modulo, la facoltà del linguaggio. Noi sosteniamo però che lo sviluppo stesso di una lingua pubblica non è lacausa, ma l'effetto dello sviluppo di una comunicazione resa possibile dalmodulo meta- rappresentazionale.

Lo sviluppo della comunicazione, e in particolare della co-

guardare non un singolo modulo, ma molti, ognuno dei quali metarappresenta undominio o un tipo di rappresentazione differente. Per mancanza di argomenticonvincenti, ignorerò questa reale possibilità.

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municazione linguistica, ha per effetto che il dominio effettivo del modulometarappresentazionale sia pieno di rappresentazioni rese manifeste daicomportamenti comunicativi: le intenzioni di chi comunica e i contenuticomunicati. La maggior parte delle rappresentazioni sulle quali ci sarebbeuna storia epidemiologica interessante da raccontare sono comunicate inquesto modo ed entrano dunque nella mente degli individui at- traverso iloro moduli metarappresentazionali.

Come ho già suggerito, i contenuti comunicati, possono arrivare almodulo pertinente anche se penetrano attraverso il modulometarappresentazionale. Quello che ci viene detto sui gatti è integrato conquello che vediamo dei gatti in virtù del fatto che la rappresentazionecomunicata contiene il concetto GATTO. Disponiamo ora dell'informazione indue formati: quello di una rappresentazione di gatto trattata da un moduloconcettuale di primo ordine e quello di una rappresentazione dirappresentazione (di secondo ordine) di gatto trattata da un modulo meta-rappresentazionale. Il modulo metarappresentazionale non sa nulla deigatti, ma può sapere qualcosa dei rapporti semantici Ira lerappresentazioni, può avere una certa capacità di valutare la validità diun'inferenza, il valore dimostrativo di una certa informazione, la plausibilità relativa di due credenze contraddittorie, ecc. Può essere capaceanche di valutare una credenza non a partire dal suo contenuto, ma a partire dall'affidabilità della fonte. Il modulo metarappresentazionale puòquindi formare e accettare credenze sui gatti per ragioni che non hannoniente a che fare con il genere di conoscenze intuitive fornite dal moduloGATTO (O dal modulo, quale che sia, che si occupa dei gatti).

Un organismo dotato di moduli percettivi e di moduli concettuali di

 primo ordine ha delle credenze fornite da essi, ma non ha credenze suqueste credenze né su quelle degli altri, né dunque un atteggiamentoriflessivo rispetto alle proprie credenze. Il vocabolario delle credenze di untale organismo è limitato al vocabolario di output dei suoi moduli; non puòconcepire o adottare un nuovo concetto, né criticare o respingere vecchiconcetti. Un organismo che ha in più un modulo metarappresentazionale può rappresentare concetti e credenze in quanto tali, valutarli in modocritico e accettarli o respingerli per ragioni metarappresentazionali. Puòformare rappresentazioni di concetti e di credenze che dipendono daqualsiasi dominio concettuale, concetti e credenze fatti in modo tale che imoduli specializzati in questi stessi domini sarebbero incapaci di elaborarlio di assimilarli. Così facendo, questo organismo più dotato non fa cheutilizzare il

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  proprio modulo metarappresentazionale per trattare gli oggetti cheappartengono al dominio di tale modulo, ossia alcune rappresentazioni.

Gli esseri umani, in virtù delle loro notevoli capacità meta-rappresentazionali, possono dunque avere credenze relative allo stessodominio concettuale ma radicate in due moduli ben diversi: il modulo di primo ordine, specializzato nel dominio concettuale in questione e quellometarappresentazionale di secondo ordine, specializzato nellerappresentazioni. Si tratta però di due credenze differenti, 'credenzeintuitive', basate sul modulo di primo ordine, e 'credenze riflessive', basatesu quello metarappresentazionale (si vedano Sperber 1982, cap. 2, 1985,1990a). Le credenze riflessive possono contenere dei concetti (per esempio'quark', 'Trinità') che non appartengono al repertorio di nessun modulo esono dunque disponibili agli esseri umani solo in modo riflessivo,attraverso le credenze e le teorie all'interno delle quali appaiono taliconcetti. Le credenze e i concetti che variano di più da cultura a cultura (eche spesso sembrano inintelligibili, ossia irrazionali dal punto di vista diun'altra cultura) sono le credenze riflessive e i concetti acquisiti attraversodi loro.

Le credenze riflessive possono essere controintuitive (più precisamente possono essere controintuitive rispetto all'oggetto in questione, mentre allostesso tempo le ragioni meta- rappresentazionali per accettarle sonointuitivamente imperative). Ciò è rilevante per l'argomento tecnico piùinteressante che Fodor invoca contro la modularità dei processi centrali. Ilcarattere incapsulato e automatico dei moduli percettivi è messo, inevidenza, come sottolinea Fodor, dalla persistenza delle illusioni percettive, anche quando il loro carattere illusorio è manifesto. Non c'è

niente, secondo lui, di equivalente a livello concettuale. È vero che leillusioni percettive hanno la qualità di vissuto e la vivacità delle esperienze percettive, qualità che non si incontrano a livello concettuale, ma ci puòcapitare di abbandonare una credenza sentendone ancora la forza intuitiva,e insieme sentendo il carattere controintuitivo della credenza con la qualel'abbiamo sostituita.

Si può credere con una fede totale alla Santissima Trinità ed esseretuttavia coscienti della forma intuitiva dell'idea secondo la quale un padre eun figlio non possono essere una sola e la stessa persona. Possiamocomprendere perché non si può vedere un buco nero, e sentire però la forzadell'idea che un oggetto solido, grosso e denso non può che essere visibile.L'opposizione tra la fisica ingenua e la fisica moderna fornisce numerosi

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altri esempi lampanti.11 Quello che avviene, a mio avviso, è che il modulodella fisica ingenua resta essenzialmente impenetrabile alle idee dellafísica moderna, e persiste nel fornire le stesse intuizioni anche quando cisembrano sbagliate, almeno a livello riflessivo.

Più in generale, il modulo metarappresentazionale, la dualità dellecredenze che questo modulo rende possibile e il passaggio che apre alcontagio culturale completano l'immagine modulare della mente che hocercato di abbozzare. Ho raffigurato una mente a tre strati: uno strato unicoe spesso di moduli di input, come afferma Fodor; poi una rete complessa dimoduli concettuali di primo ordine di tutti i generi, e infine un modulometarappresentazionale di secondo ordine. All'origine, il modulometarappresentazionale non è molto diverso dagli altri moduli concettuali,ma permette lo sviluppo della comunicazione e dà avvio a un'esplosioneculturale di tale grandezza che il suo dominio effettivo si estende oltremisura e finisce per ospitare una moltitudine di rappresentazioni culturaliche dipendono da diversi domini culturali.

Ecco come si può avere una mente realmente modulare che svolga unruolo causale primario nell'emergere di una reale diversità culturale.

11 E un folto numero di esempi più sottili sono stati analizzati in una prospettivacognitiva da Atran (1990).

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Conclusione: la posta ingioco

Quando si cerca di ripensare in modo nuovo un vecchio ambito diricerca, quando si procede nel buio, a tentoni, cercando punti diriferimento, percorsi, passaggi, si è ben lontani dal concludere. A ogni passo però, ci si può chiedere: qual è la sfi- da? Quali sono i rischi?

La sfida scientifica è chiara. Si tratta di costruire un nuovo strumento  potente per spiegare e comprendere i fenomeni sociali. Ripeto,un'epidemiologia delle rappresentazioni non intende sostituire i mezzi dicomprensione esistenti, ma vuole essere complementare a essi. Sarebbe però ingenuo pensare che tutti i programmi di ricerca possano convivere inarmonia. Per cominciare, nelle istituzioni accademiche le risorse umane e

materiali sono limitate e la competizione è inevitabile, per cui ciascunotende a valorizzare il proprio programma, presentando semplici speranzecome promesse - se non come risultati - e screditando i programmiconcorrenti.

Ma ci sono anche autentici conflitti teorici più interessanti. Per esempio i freudiani e gli junghiani non possono avere con-temporaneamente ragione, e neppure i funzionalisti classici e i loro criticimarxisti. Non esiste un conflitto teorico - o almeno non dovrebbe esistere -tra gli approcci interpretativi che cercano di rendere i fenomeni socialiintuitivamente comprensibili e un approccio epidemiologico che cercaspiegazioni causali. D'altra parte, esso è oggettivamente in conflitto con i programmi teorici che cercano di spiegare i fenomeni sociali causalmentesenza riconcettualizzare l'intero dominio. L'approccio epidemiologico presentato in questo libro è diverso anche da altri approcci naturalistici che

si basano quasi esclusivamente sulla biologia, e nella spiegazione delleculture accordano solo un ruolo minore e banale alla psicologia umana.

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Al di là delle questioni che riguardano la pratica o i contenuti dellascienza, dobbiamo riflettere anche sulle nostre ragioni profonde per  proporre un'analisi dei fenomeni sociali da un punto di vista scientifico,  più specificamente naturalistico. Ogni sforzo di analizzare i fenomenisociali e culturali in modo scientifico, in particolare ogni sforzonaturalistico, rischia di suscitare accuse di riduzionismo. Non è difficilemostrare come, in questo caso, l'etichetta 'riduzionista' sia doppiamenteimpropria: in primo luogo perché nessuno propone una riduzione deifenomeni sociali; in secondo luogo perché, se una simile proposta fossefatta sul serio, dovrebbe destare più interesse che disprezzo, dato che levere riduzioni costituiscono un fondamentale avanzamento della scienza.Si può anche sostenere che un'analisi naturalistica dei meccanismi mentali

e sociali tenderebbe a evidenziarne la ricchezza e sottigliezza, invece disvalutarli, come spesso si teme. Si può cercare di mettere i critici con lespalle al muro perché mostrino che i programmi cosiddetti riduzionistisono scorretti, o trovino le ragioni morali per censurarli.

Benché queste accuse non siano molto articolate né forniscanoargomenti seri contro il progetto, esse provengono tuttavia da un disagiolegittimo. Ogni ricerca implica responsabilità e rischi. Nelle scienze socialiresponsabilità e rischi sono morali e politici. I movimenti politici moderni,siano essi reazionari, conservatori, progressisti o rivoluzionari, si basanosu teorie delle scienze sociali e fanno del loro carattere 'scientifico' unmotivo di legittimazione. Spesso sono gli stessi scienziati sociali aincoraggiare tale uso delle proprie teorie. Che la scienza possa guidarel'azione: cosa potrebbe essere più desiderabile? In realtà gli abusi dellascienza sono frequenti, e vanno dall'arroganza al crimine. È ragionevoledunque stare in guardia; un approccio naturalistico al sociale suscitainquietudini di due tipi, alcune legate al ruolo attribuito alla biologia, altrea quello che può sembrare scientismo.

Le scienze sociali, e in particolare l'antropologia, hanno avuto la loro  parte di responsabilità nei crimini del colonialismo e del razzismo.Sempre, lo sfruttamento e lo sterminio sono stati giustificati nel nome diuna presunta superiorità biologica degli sfruttatori sugli sfruttati, o deglisterminatori sulle vittime; ci sono ancora oggi persone che difendono varieforme di discriminazione sociale o razziale in nome della biologia. Ciòimplica forse che ogni richiamo alla biologia nelle scienze umane non possa che aprire le porte al razzismo? Si tratta di un sospetto in se stessosospetto, perché sarebbe giustificato

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solo se lo studio della biologia avesse fornito argomenti a favore delrazzismo.

Esiste in realtà una differenza radicale e lampante tra gli scopiscientifici di una psicologia e un'antropologia evoluzionistiche e le preoccupazioni pseudoscientifiche di chi è motivato da un'attrazione per ilrazzismo. Ciò che può contribuire a una migliore comprensione dellevicende umane è una prospettiva biologica su quello che gli esseri umanihanno in comune; quello che cercano i razzisti sono differenze biologichetra i gruppi umani che spieghino e giustifichino destini ineguali. Anchesenza approfondire i dati e gli argomenti che mostrano il contrario (ma siveda Cavalli Sforza et alii 1994), dovrebbe risultare chiaro che la ricerca

razzista non ha meriti scientifici.Ogni essere umano (con l'eccezione dei gemelli monozigoti) ègeneticamente diverso da tutti gli altri. Ma gli esseri umani sono anchetanto simili da essere in grado di imparare qualsiasi lingua umana e diacquisire qualsiasi cultura. Non si tratta solo di una possibilità teorica, madi un fatto essenziale per la comprensione della storia dell'uomo. Nellastoria umana sono ricorrenti i movimenti di popolazione da una societàall'altra; essi presuppongono e sono basati sull'unità fondamentale dellaspecie. La specie umana non è divisa in sottogruppi distinti egeneticamente omogenei; non esistono razze umane; le differenzegenetiche tra gruppi umani, se se ne trovano, sono superficiali e transitoriee non possono svolgere che un ruolo estremamente marginale nellaspiegazione (che ancora stiamo cercando) della diversità delle cultureumane.

Chi - nonostante la mancanza di giustificazione scientifica - investeenergia nella ricerca di una spiegazione genetica delle differenze storiche eculturali tra i gruppi, o è uno studioso incapace, o, più probabilmente, unrazzista che cerca di investire la propria causa del prestigio e dell'autoritàdella scienza, senza sottomettersi ai vincoli di oggettività e fecondità.Questi pseudoscienziati vanno tenuti alla larga, cosa che si può faresemplicemente mantenendo elevati gli standard scientifici, soprattuttoquando le cosiddette affermazioni scientifiche hanno implicazioni socialisignificative (come in tutte le scienze, la ricerca che può colpire interessiumani è valutata con particolare rigore).

Un approccio naturalistico può causare altre inquietudini, più diffuseforse, ma non meno pertinenti. In quanto attori sociali, tutti noi abbiamouna forma di comprensione dei meccanismi della vita sociale che ci aiuta avalutare le scelte, a decidere e ad agire. In una società democratica, le

scelte non riguardano solo le relazioni sociali in cui siamo personalmente

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coinvolti, ma anche l'avvenire della società in generale. La nostra praticaindividuale ci dà soltanto una comprensione grezza, e probabilmentetendenziosa, dei fenomeni sociali globali. Le scienze sociali, dunque,hanno un ruolo fondamentale da svolgere nella vita democratica: quello diaiutare i cittadini a comprendere.

La ricerca nelle scienze sociali si sviluppa in larga misura in rispostaalle richieste degli attori politici: cittadini, militanti e autorità. Esistefortunatamente una continuità tra gran parte di questa ricerca e lacomprensione della realtà sociale che ci è data dal nostro senso comune.Una ricerca puramente teorica nelle scienze sociali non risponde allostesso tipo di bisogno sociale. Ciononostante, dato che i concetti che usa

 provengono dal senso comune, anche la maggior parte della ricerca teoricaè comprensibile al lettore comune. Ci si può chiedere se ciò sarebbe veroanche nel caso di un programma naturalistico del tipo di quello chedifendo. Dopotutto, si tratta di ridefinire proprio i concetti ordinariamenteusati nel pensiero sociale.

Dobbiamo accettare la sfida di allontanare le scienze sociali dal sensocomune? Anche se i programmi naturalistici sono, nella migliore delleipotesi, allo stadio iniziale, non c'è il rischio che un giorno gli scienziaticoinvolti si possano presentare come esperti che discutono tra esperti e che pretendono di poter decidere al posto nostro? Anche se il pericolo èremoto, non si tratta di una preoccupazione assurda e, di conseguenza, si potrebbe essere tentati di trarre la conclusione che sia meglio opporsi in partenza a qualsiasi programma naturalistico. La mia conclusione è che sidebba difendere una pluralità di metodi e di punti di vista. Il pluralismo è

essenziale nelle scienze in generale, in quanto è una condizione del loro progresso. Qualsiasi prospettiva nuova e potenzialmente feconda merita diessere esplorata. Il pluralismo è doppiamente essenziale nelle scienzesociali, che devono - non singolarmente, ma insieme - rispondere arichieste sociali diverse, in particolare a quella di intelligibilità che suscitala democrazia (per imperfetta che sia).

Un programma naturalistico può far nascere un'altra preoccupazione.Come in uno specchio, le scienze sociali riflettono la nostra immagine.  Non riconoscerci nell'immagine riflessa ci disturba. La psicologiacognitiva non riflette un'immagine di noi stessi immediatamentericonoscibile, né lo fa un'epidemiologia delle rappresentazioni. Ancor  peggio, ciò che riteniamo essenziale e primario - la nostra esistenza di persone coscienti - risulta essere una combinazione instabile, proiettatasocialmente su una struttura biologica, essa stessa precaria. Se ci do-vessimo accontentare di questa singola immagine inquietante,

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ci sarebbe da allarmarsi. Ma le immagini più comuni che abbiamo di noistessi non subiscono alcuna minaccia. La fìsica moderna lasciaessenzialmente intatta l'immagine del mondo materiale che guida i nostri passi; così, nessuna scienza sociale del futuro potrà sostituire la nostracomprensione comune di noi stessi. La scienza potrà tutt'al più mettere in prospettiva il senso comune.

Le scienze sono capaci di darci un tipo speciale di piacere intellettuale:quello di vedere il mondo in una luce che in un primo momento sconcerta,ma poi costringe alla riflessione e approfondisce la nostra conoscenza,relativizzandola. Mi piacerebbe che le scienze sociali ci dessero più spessoun piacere di questo tipo.

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Fonti

Il capitolo 1 è una sintesi (con alcune revisioni) di due articoli precedenti: Issues in the Ontology of Culture, pubblicato in R.B. Marcus et alii (eds), Logic, Methodology and Philosophy of Science, vol. 7, Elsevier Science Publishers,Amsterdam 1986, pp. 557-571 e Les sciences cogni- tives, les sciences sociales et le matérialesme, in "Le Débat", 47, 1987, pp. 105-115. Una versione ingleserivista del secondo articolo, intitolata Culture and Matter, è stata pubblicata inJ.-C. Gardin e C.S. Peebles (eds), Representations in Archeology, University of Indiana Press, Bloo- mington 1991, pp. 56-65.

Il capitolo 2 è una revisione dell'omonimo articolo pubblicato in G. Palsson(ed.), Beyond Boundaries: Understanding, Translation and Anthropological  Discourse, Berg, Oxford 1993, pp. 162-183. Una versione più breve è statapubblicata in francese con il titolo L'Étude anthro- pologique desrepresentations: problèmes et perspectives, in D. Jodelet (ed.), Les Représentations sociales, Puf, Paris 1989, pp. 115-130.

Il capitolo 3 è stato originariamente presentato come Malinowski MemorialLecture nel 1984 e poi pubblicato in "Man", 20, 1985 pp. 73- 89. Viene quiristampato con il consenso del Royal Anthropological Institute of Great Britainand Ireland.

Il capitolo 4 è stato precedentemente pubblicato in C. Fraser e G. Gaskell(eds), The Social Psychological Study of Widespread Beliefs, Clarendon Press,Oxford 1990, pp. 25-44; tr. it. L'epidemiologia delle credenze, Anabasi, Milano1994.

Il capitolo 5 è stato presentato per la prima volta al Darwin Seminar dellaLondon School of Economics nel maggio 1995 e come conferenza al ConvegnoInternazionale di Logica, Metodologia e Filosofìa della Scienza a Firenzenell'agosto 1995.

Il capitolo 6 è basato su un intervento a un congresso organizzato nel 1990

ad Ann Arbor, Michigan da Scott Atran, Susan Gelman, Larry Hirschfeld e dame, dal titolo Domain Specificity in Cognition and Culture. Gli interventi sonopubblicati in L.A. Hirschfeld, e S.A. Gelman, (eds), Mapping the Mind: Domain Specificity in Cognition and Culture, Cambridge University Press, New York 1994, pp. 39-97.

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Indice dei nomi

Altena, J.van 6 Andler, D. 6Aristotele 127 Armstrong, D. 90 n.Astington, J. 154Atran, S. 6, 72 n„ 97 e n., 98, 128,

138, 150, 157 n.Axelrod, R. 6

Barkow, J. 130 n.

Barth, F. 58 n.Berlin, B. 72 n„ 98, 99, 128Bloch, M. 6, 51, 73 n.Block, N. 84, 123 n.Bloom, P. 119, 152 n.Bogdan, R. 6, 90 n.Bossert W. 108 n.Boyd, R. 9, 35, 106 e n„ 119Boyer, P. 6, 106 n., Ili, 147, 150Brandt, M. 90 n.Brewer, W.F. 77 n.Brown, A. 130 n.Bruner, J. 70 n.Bürge, T. 82, 141 n.

Campbell, D. 9, 106Cara, F. 6Carey, S. 97, 99, 128Carpenter, P. 6

Cavalli-Sforza, L.L. 9, 35, 61, 106,161

Changeux, J. 6Chomsky, N. 13, 16, 29, 112, 136Churchland, P. 20Clark, A. 134Colby, B. 77 n.Cole, M. 77 n.Coley, J. 138,151Comte, A. 12Conein, B. 6Cosmides, L. 6, 9, 106 n„ 118, 129,

130, 152Cronin, H. 6

D'Andrade, R. 60 n. Darden, L. 63 n.Darwin, C. 123 Davidson, N. 151Dawkins, R. 9, 13, 35, 62, 106-

107, 108, 109, 123Dehaene, S. 152Dennett, D. 6,20,90 n„ 106 a, 141 n„

143 n. Dijk, T.A. van 77n. Döring, F. 6 Douglas, M.21, 46, 51 Dretske, F. 84, 90n„ 141 n. Dumézil, G. 47-48 e

n., 50 Dupuy, J.-P. 6Durham, W. 9, 106 e n.

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Durkheim, E. 64, 73

Elgin, C. 6Ellen, R. 72 n.Engels, E 17

Favret-Saada, J. 58 n. Feldman,M.W. 6, 9, 35, 61, 106 Fodor, J. 11,14, 19, 74, 82, 84, 92, 125-127, 129,130, 131-132, 133, 138, 139, 143 n.,153, 156, 157 Freud, S. 18

Gallistel, R. 152Gamst, F. 21Geertz, C. 23, 73, 83, 85Gelman, R. 97, 152Gelman, S. 128, 136, 138, 151Gibbard, A. 6, 60 n.Gigerenzer, G. 55 n.Gilbert, M. 6Girotto, V. 6Godei, K. 68, 100, 101, 102Goldenweiser, A. 21Goody, J. 6, 77 n.

Grice, P. 154

Harman, G. 6, 90 n. Harnish, M. 90 n.Harris, P. 154 Hintikka, J. 90 n.Hirschfeld, L. 6, 97, 128, 136, 150, 151Hoffrage, U. 55 n. Hutchins, E. 106 n.Hutchinson, J. 151

Jacob, O. 6

Jacob, P. 6Jahoda, G. 59 n.Johnson, N.S. 77 n.Johnson-Laird, P. 72 n.Jorland, G. 6

Kahneman, D. 55 n.Kaplan, D. 20, 21Katz, J.J. 6, 66 n.Kay, P. 72 n„ 98, 99Keil, F. 72 n., 97, 128, 138, 141,

147 Kelly, M.147 Kintsch, W. 77n. Kluckholn, C.21 Kroeber, A.L.21

Leach, E. 5,21,22,24, 52 n. Lees, H. 6

Leslie, A. 129, 154 Levine, R. 59 n.Lévi-Strauss, C. 21, 24, 31, 46, 48e n., 50, 65, 77 n.

Lewis, I.M. 60 n.,Lichtenstein, E.H. 77 n.Lloyd, B. 72 n.Lumsden, C.J. 9, 35, 62, 106 n„ 119

MacMahon, B. 61 n.Malinoswki, B. 59, 60, 78Mandler, J. 77 n.

Manktelow, K. 134Markman, E. 138, 151Maull, N. 63 n.Maynard Smith, J. 108 n., 123 n.Medin, D.L. 72 n., 138Menget, P. 40-45, 46, 48-49, 56Miller, G. 72 n.Millikan, R. 106 n., 107 n., 141 n.Molière 39Monod, J. 106

Nagel, E. 62Needham, R. 21, 22, 24, 52 n„ 90 n.Nisbett, R. 6

Norbeck, E. 21Nowak, A. 110

Olson, D. 154Origgi, G. 6

178

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Ortony, A. 138

Over, D. 134

Papineau, D. 141n.Piattelli-Palmarini, M.133 n. Pinker, S. 119,152 n. Popper, K. 66n„ 106 Premack, D. 6,137 Pugh, T.F. 61 n.Putnam, H. 11, 141 n.

Reason, D. 72n.Recanati, F. 6, 141 n.Richerson, P. 9, 35, 106 e n„ 119

Rivers, W.H. 59Rivière, P. 25, 41Rosch, E. 72 n.Rozin, P. 130 n.Ruhmelhardt, D. 77 n.Ityle, G. 90 e n.

Schiffer, S. 90 Schull, J. 130 n.Schweder, R. 60 n. Searle, J.27 n. Shakespeare, W. 86Smith, E.E. 72 n. Smith, P. 48n. Sober, E. 106 n„ 123 n„ 151

Spelke, E. 97, 98 n., 129 Sperber, D.

13, 20, 27, 39 n„ 48 n„ 56, 73 n., 77 n„83, 86, 87, 88, 90,91,92 n„ 93 n„ 95, 97e n., 101, 119, 121, 126, 138, 139, 147,152 n., 154, 156 Sperber, J. 6 Steiner,F. 21 Stich, S. 20, 90 n„ 133 n.Symons, D. 130 n.

Tarde, G. 8, 86Tooby, J. 6, 9, 106 n„ 118, 129Turing, A. 18, 20 Tversky, A. 55 n.Tyler, S. 70 n.

Vygotsky, L. 70 n. 82

Wilensky, R. 77 n. Williams, G. 107-108 e n. Wilson, D. 6, 39 n„ 56, 87,91, 92 n„

101, 108 n., 119, 138,139,154Wilson, E.O. 9, 35, 62, 106 n„ 108 n„119Wittgenstein, L. 22, 82, 90 n. Wundt,

W. 59

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Indice

Pag. 5 Prefazione

7 Introduzione

151. Come essere un vero materialistain antropologia

16Antropologia e ontologia

18 L'ontologia della psicologia: un esempio da seguire?

21 Un vocabolario interpretativo

23 'Matrimonio' 

26  Implicazioni 

28  Di cosa sono fatte le cose culturali?

30Un'epidemiologia delle rappresentazioni 

31'Mito' 

33  Ancora sul 'matrimonio' 

372. Interpretare e spiegare le rappresentazioniculturali

38 Interpretare le rappresentazioni culturali 

45 Spiegare le rappresentazioni culturali 

46Generalizzazioni interpretative

47  Spiegazioni strutturaliste

50   Spiegazioni funzionaliste

53  I modelli epidemiologici 

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593. Antropologia e psicologia: verso un'epidemiologiadelle rappresentazioni

60 Epidemiologia

63  Rappresentazioni 

66  Presupposti 

69 Disposizioni e ricettività

70Concetti di base

72  Rappresentazioni culturali 

76 Memoria e letteratura orale

77Osservazioni conclusive

81 4. L'epidemiologia delle credenze81 Speculazioni antropologiche

89  Speculazioni psicologiche97 Tipi differenti di credenze, meccanismi differenti 

di distribuzione

103 5. Selezione e attrazione nell'evoluzione culturale

105  II modello della selezione

11 1 II modello dell'attrazione

1 1 7 Fattori ecologici e psicologici di attrazione

1256. Modularità del pensiero ed epidemiologia dellerappresentazioni

126 Due argomenti di buon senso contro la modularitàdel pensiero

12 9 Modularità ed evoluzione

134  Modularità e integrazione concettuale

140  Dominio reale e dominio proprio dei moduli 

144  Domini culturali ed epidemiologia delle rappresentazioni 

153 Capacità metarappresentazionali ed esplosione culturale

159 Conclusione: la posta in gioco

165 Bibliografia

175 Fonti

177 Indice dei nomi

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 Stampa Grafica Sipiel  Milano, marzo 1999