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Corso di Laurea magistrale in Scienze filosofiche Tesi di Laurea Il gusto compassionevole Relatore Ch. Prof. Luigi Vero Tarca Laureando Andrea Galetti Matricola 831705 Anno Accademico 2012 / 2013

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Corso di Laurea magistrale in Scienze filosofiche

Tesi di Laurea

Il gusto compassionevole

Relatore

Ch. Prof. Luigi Vero Tarca

Laureando

Andrea Galetti

Matricola 831705

Anno Accademico

2012 / 2013

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SOMMARIO

INRODUZIONE 2

I. PARTE PRIMA DUALISMO ANIMA-CORPO LA SVALUTAZIONE DELLE

MEMBRA LA CONCEZIONE DUALISTICA 7 SOMA-SEMA: LA PRIGIONE DEL CORPO 10 SOCRATE: DIALOGO CON POLO SULLA CULINARIA 16

II. PARTE SECONDA LA RIVALUTAZIONE DEL CORPO

LA NUOVA CONCEZIONE DEL CORPO NELLA FILOSOFIA MODERNA 25

III. PARTE TERZA IL GUSTO

L’APPARATO GUSTATIVO 39 LE EMOZIONI E I RICORDI NEL GUSTO 44 L’IDENTIFICAZIONE SOCIALE DELL’ALIMENTAZIONE: CULTURA E TRADIZIONI 48 IL GUSTO DELL’INFANZIA 53 L’EDUCAZIONE AL GUSTO 57

IV. PARTE QUARTA IL GUSTO COMPASSIONEVOLE

LA SCELTA VEGETARIANA 65 IL GALLO CON GLI SPERONI 77 LO STILE SOMATICO 85

BIBLIOGRAFIA 97

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INTRODUZIONE

“Non meno che saper, dubbiar m’aggrada”.

Dante Alighieri

La ricerca svoltasi nelle seguenti pagine è iniziata con la presa di coscienza

della mancanza di una filosofia alimentare, con la constatazione della

necessità di affrontare tale tema attraverso l’osservazione dei suoi possibili

campi d’impiego. L’alimentazione, per sua natura, è necessariamente legata al

corpo, quindi prima di poter affrontare le problematiche legate alla filosofia

alimentare, si devono prendere in considerazione le teorie filosofiche che

concernono il rapporto anima-corpo. La tradizione, nella maggioranza dei

casi, ha misconosciuto e denigrato il corpo con i suoi sensi e ha riconosciuto

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nella psiche la principale sede di conoscenza e verità. Alla base di questo

pensiero vi è la concezione dualistica; questa cominciò a propagarsi con lo

sviluppo delle religioni persiane. Prese forma con lo Zoroastrismo e con le

tribù sciamaniche che influenzarono inizialmente i circoli orfici e pitagorici,

per poi protrarsi nel tempo fino alla filosofia platonica e neoplatonica.

L’epicentro teorico di tale concezione emerge nella filosofia moderna con

Cartesio e con la famosa divisione della realtà da lui compiuta in res cogitans

e res extensa. La rappresentazione dualistica s’innesta profondamente nella

cultura occidentale così da influenzarne gli aspetti religiosi, culturali e sociali.

Il dualismo ha posto una netta divisione tra anima e corpo e ha emarginato

quest’ultimo, ritenendolo privo d’interesse e poco degno di studio. Con la

filosofia contemporanea si comincia a riconoscere una certa valenza alla

corporeità e al suo rapporto con il mondo. Il corpo non è più la prigione

dell’anima, ma assume una propria identità: è vivente e partecipe, comunica

con e attraverso il mondo. Il corpo e i suoi sensi vengono riconosciuti come

elementi con capacità conoscitive. Nonostante ciò, assistiamo a una forma di

gerarchizzazione dei sensi che tende a squalificare il gusto e l’olfatto: essi

vengono associati all’idea di futilità e di superficialità. Il gusto, in particolar

modo, è stato storicamente riconosciuto come mero strumento pratico, utile

solo alla ricerca e al riconoscimento del cibo per la sopravvivenza. Inoltre, è

stato spesso associato all’idea di peccato: senso legato al piacere carnale,

capace di sibilare all’uomo la possibilità di liberare i suoi istinti animaleschi,

distraendolo dai suoi più alti impegni come la spiritualità o la ricerca della

verità. Molte religioni, forse inconsapevolmente, hanno contribuito a questa

forma di denigrazione, accostando i digiuni e le rinunce carnali alla

purificazione dell’anima.

Questo studio si propone di ridare importanza alle sfere sensoriali

storicamente misconosciute e si concentra in particolar modo sul gusto

alimentare.

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Vogliamo quindi proporre una rivalutazione filosofica del gusto alimentare

come potenziale elemento creatore di cambiamenti etici nella sfera sociale.

Presentiamo dapprima un’analisi del gusto attraverso differenti punti di vista

che ne illuminino le sue principali caratteristiche: il gusto come apparato

gustativo, quindi le sue forme legate alla sfera prettamente fisica e corporea; il

gusto come facoltà mentale, ovvero come senso portatore e trasmettitore di

vissuti psicologici del soggetto; il gusto come condizione di bisogno primario

dell’uomo, quindi i suoi costituenti aspetti di necessità e di piacere nel

soddisfacimento.

Il gusto non è un carattere marginale dell’esistenza, ma anzi ne influenza

diversi ambiti: la famiglia e il rapporto con la madre (aspetto affettivo),

l’infanzia e i ricordi (memoria ed esperienze), la tradizione culturale e la

socialità (rapporto con l’altro e identificazione di sé). Constatando le varie

influenze che il gusto ha nel soggetto e quindi nell’assetto sociale, proponiamo

una sfida educativa che possa riconoscere, sviluppare e incanalare

positivamente le sue potenzialità. Vogliamo quindi pensare a un’educazione

che abbia una valenza etica e che sia prima di tutto uno strumento di

conoscenza: per questo motivo la chiameremo “educazione esplicativa”.

La valenza etica, in questo caso, sarà data dall’avvicinare il gusto alimentare

al vegetarianismo, una pratica alimentare che insegna a soddisfare il piacere

della nutrizione, senza la necessità di creare dolore o di causare morte. Con

educazione esplicativa s’intende una modalità di formazione che non implichi

alcuna forma di imposizione, ma che offra la maggior conoscenza del reale

senza i vincoli di una scelta predefinita. Spiegare, portare a conoscenza

significa dare informazioni, presentare le possibile scelte, aiutare a

comprendere il valore della scelta e quindi l’importanza e il piacere di portarla

a termine. In questo caso l’educazione esplicativa, che è appunto legata al

vegetarianismo, consisterà, ad esempio, nel dare al bambino tutte le

informazioni sulla provenienza degli alimenti, sull’esistenza delle diverse

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forme di nutrizione, sugli effetti fisici, morali e sociali di un’alimentazione di

derivazione animale rispetto a una di tipo vegetale. Le spiegazioni e il grado di

conoscenza dovranno essere ovviamente correlati all’età del soggetto educato:

essi possono variare e appartenere a diversi ambiti o avere differenti intensità.

Si possono spiegare l’impatto del cibo sulla salute, la relazione uomo-

ambiente, il concetto di violenza, il funzionamento dei macelli, il diritto alla

vita, i diritti animali, il significato della mistificazione sociale legato ai sistemi

pubblicitari e al marketing.

L’altro punto di forza è quello che chiameremo “gusto compassionevole”, cioè

la valenza etica e morale del gusto dovuta alla scelta di un’alimentazione

vegetariana. Il vegetarianismo ha una doppia valenza etica: la prima, quella

intrinsecamente compassionevole, che si fonda sulla volontà di non voler

creare dolore e nel considerare gli animali esseri viventi con diritto di vita in

egual modo degli uomini; la seconda è costitutiva della filosofia vegetariana

poiché votata alla non violenza. La non violenza nel vegetarianismo consiste

nell’assenza dell’uso della forza e della coercizione, come mezzo o strumento

per raggiungere un fine o per soddisfare un bisogno, che sia esso necessario o

futile.

Questa seconda parte di tesi si focalizza sul rapporto tra la violenza sugli

animali e la violenza tra gli uomini e sulle contraddittorietà legislative legate a

questo ambito all’interno degli stati. Ad esempio, come esista da un lato la

salvaguardia dei diritti animali e contemporaneamente dall’altro la

regolamentazione della loro uccisione o della loro strumentalizzazione. Le

nostre società crescono su questa ambigua struttura legislativa, che fa leva su

una sorta di fittizia morale, dove si diversificano impropriamente test e

sperimentazioni da maltrattamenti e casi di abbandono.

Il rischio all’interno di queste contraddizioni morali è quello di accettare l’uso

della violenza come strumento. Il passo dalla violenza sugli animali a quella

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tra uomini non è poi così lungo: la violenza non ha etnia, non ha specie e

nemmeno razza. L’uso della violenza deve essere considerato in modo

univoco. Parlare di violenze utili o di violenze accettabili può creare confini

labili, dove, alla fine, l’esercizio della violenza viene gestito dalla

maggioranza o dai poteri forti. La storia ha dimostrato che può essere un

percorso pericoloso e incontrollabile. Per evitare questa escalation si propone

di non utilizzare la violenza come mezzo, in primis per un senso di

autoconservazione: per la salvaguardia del nostro futuro come umanità.

La violenza non può essere considerata o divisa in sottogruppi o

sottocategorie, poiché è sempre e solo violenza. Se non acconsentiamo il suo

uso, non possiamo accettarlo in nessun ambito a partire dai piccoli atti

quotidiani come quello dell’alimentazione. Il percorso del gusto

compassionevole è un cammino lento, ma costante: la compassione non

riguarderà in modo esclusivo l’ambito alimentare, ma influenzerà le più

svariate sfere delle personalità contribuendo a crearne uno stile. Tale modalità

potrà essere riversata anche nella soddisfazione degli altri bisogni umani. Non

accettando quella violenza, non accetteremo nemmeno l’uso di quel

linguaggio, non lasceremo che il suo “germe” s’insinui e si propaghi nelle

nostre vita, nella nostra personalità, nel nostro mondo.

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I. PARTE PRIMA

DUALISMO ANIMA-CORPO: LA SVALUTAZIONE DELLE

MEMBRA

“Vorrei trovare un’espressione per la dualità, vorrei scrivere capitoli e frasi dove fossero sempre visibili contemporaneamente canto e controcanto, dove accanto ad ogni varietà vi fosse l’unità, accanto ad ogni scherzo la serietà. Perché solo in questo consiste per me la vita, nel fluttuare tra due poli, nell’oscillazione tra i due pilastri portanti del mondo. Vorrei con gioia far vedere la beata varietà del mondo ed anche sempre ricordare che al fondo di questa verità vi è un’unità”.

H. Hesse

LA CONCEZIONE DUALISTICA

La concezione dualistica ha favorito il sedimentarsi di considerazioni

pressoché negative su ciò che intendiamo con corpo. Questo, infatti, è stato

denigrato e svalutato dalla maggior parte della tradizione filosofica, letteraria e

teologica. Il dualismo vede e concepisce il mondo come separazione

ontologica tra anima e corpo. Tale termine fu introdotto da R. Descartes, che

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distinse principalmente la realtà in due ambiti: res cogitans (realtà psichica) e

res extensa (realtà fisica).1 In effetti, R. Descartes non fu il fautore del

dualismo, ma solo uno dei suoi massimi e più conosciuti esponenti.

L’origine del termine può essere ricercata nella filosofia pitagorica e nella

concezione religiosa legata all’orfismo. 2 Secondo lo studioso e storico

Giovanni Reale infatti:

“Nei documenti letterari greci a noi pervenuti compare per la prima volta

in Pindaro una concezione della natura e dei destini dell'uomo pressoché

totalmente sconosciuta ai Greci dell'età precedenti ed espressione di una

credenza per molti aspetti rivoluzionaria, la quale, giustamente, è stata

considerata come elemento di un nuovo schema di civiltà. In effetti, si

comincia a parlare della presenza nell'uomo di qualcosa di "divino" e non

mortale, che proviene dagli Dei ed alberga nel corpo stesso, di natura

antitetica a quella del corpo che dorme o addirittura si appresta a morire,

e dunque, quando allenta i vincoli con esso e lo lascia in libertà. [...] Il

nuovo schema di credenza consiste, dunque, in una concezione

"dualistica" dell'uomo, che contrappone l'anima immortale al corpo

mortale e considera la prima come il vero uomo o, meglio, ciò che

nell'uomo veramente conta e vale. Si tratta di una concezione, come è

stato ben notato, che inserì nella civiltà europea un'interpretazione nuova

dell'esistenza umana. Che questa concezione sia di genesi orfica non

parrebbe cosa dubbia.”3

                                                                                                                         1 R. DESCARTES, Meditationes de prima philosophia (1641); tr. it. Meditazione metafisiche sulla filosofia prima, in Opere filosofiche, Utet, Torino 1981, vol. I.  2 AA.VV., Enciclopedia garzanti di filosofia, Garzanti, Milano 2003: “Orfismo: movimento religioso dell’antica Grecia, fondato, secondo la tradizione, dal leggendario poeta tracio Orfeo. […] La tradizione orfica la cui prima compiuta codificazione scritta è attribuita a Onomacrito, risale almeno al sec. VI a.C. […] Con le sue purificazione ascetiche, la «vita orfica» si propone di eliminare nell’anima umana questo elemento titanico e di accedere al divino, evidenziando la dimensione immortale della natura umana.[…]. Al centro delle speculazioni orfiche e delle sue pratiche catartiche, che sottolineano il ruolo estatico di nuove dimensioni spirituali come il tempo e la memoria, si colloca il proposito di una rinuncia all’ordine mondano per conseguire la salvezza integrale dell’anima, intesa come parte divina dell’uomo”. 3 G. REALE, La novità di fondo dell'Orfismo, in Storia della filosofia greca e romana vol.1, Bompiani, Milano 2004, pp. 62-63. Il testo a cui fa riferimento e da cui estrae tale considerazione è un frammento di Pindaro ed è il seguente: “Il corpo di tutti obbedisce alla morte possente, e poi rimane ancora vivente un'immagine della vita, poiché solo questa viene dagli dèi: essa dorme mentre le membra agiscono, ma in molti sogni mostra ai dormienti ciò che è furtivamente destinato di piacere e sofferenza.” Traduzione di Giorgio Colli in, La sapienza greca vol.1, Adelphi, Milano 2005, p.127.

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  9  

Questa nuova 4 concezione dualistica assieme alla considerazione

dell’esistenza di una parte divina insita nell’uomo, furono anche sottolineate

dal grecista Eric R. Dodds:

“Corrisponda o meno al fatto che per un Ateniese del V secolo la parola

psyché avesse o potesse avere in sé un vago sentore di soprannaturale,

certo non aveva nessuna intenzione puritana, né alcuna suggestione

metafisica. L'anima non era prigioniera riluttante del corpo; era la vita, lo

spirito del corpo, nel quale si trovava come a casa propria. Ma ecco che il

nuovo schema di religione portò il suo contributo carico di conseguenze:

attribuendo all'uomo un "io" occulto di origine divina, e contrapponendo

così l'anima al corpo, inserì nella civiltà europea, un'interpretazione che

noi diciamo puritana.”5

Anche nella tradizione giudaico-cristiana si ritrova questa divisione anima-

corpo, dove l’anima è fonte di vita, animante, guidatrice del corpo. Invece la

carne, le membra sono la parte fragile e possibile fonte di peccato. Nella

Genesi, (capitolo 2, versetto 21) infatti, si legge quanto segue:

“Carne: la carne (basar) è per prima cosa, nell’animale e nell’uomo, la

parte molle, tenera del corpo, i muscoli. […] L’anima o lo spirito,

animano la carne senza aggiungersi ad essa, rendendola vivente. Tuttavia

spesso la “carne” sottolinea ciò che c’è di fragile e di perituro nell’uomo

e a poco a poco si percepirà una certa opposizione tra i due aspetti

dell’uomo. L’ebraico non ha una parola per designare il corpo. Il Nuovo

Testamento supplirà a questa lacuna sviluppando il termine sôma a fianco

di sarx.”6

                                                                                                                         4 Con “nuova concezione” ci riferiamo alla nascita del dualismo e alle sue influenze sulle teorie filosofiche nell’antica Grecia. 5 E. R. DODDS, The Greeks and the Irrational (1951); tr. it. I Greci e l'irrazionale, Rizzoli, Milano 2009, p. 18. Inoltre Eric R. Dodds fa risalire questa innovazione al contatto della cultura greca con le culture sciamaniche intorno al VII secolo a.C.  6 Genesi cap. 2, v. 21 in La Bibbia di Gerusalemme, testo biblico di La Sacra Bibbia della CEI “editio princeps” 1971, note e commenti di La Bible de Jerusalem, nuova edizione 1973, Editions du Cerf, Paris. Per l’edizione italiana, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 1974.

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In molti passi si ritrova questo continuo sottolineare l’importanza dell’anima a

discapito della debolezza del corpo. Nel libro del profeta Geremia (capitolo

17, versetto 5), ad esempio, si sottolinea l’inaffidabilità del corpo-carne e il

suo essere ontologicamente distante dal bene.

“Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo

sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore. Egli sarà come un

tamerisco nella steppa, quando viene il bene non lo vede; dimorerà in

luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può

vivere.”7

Un altro passo fa invece riferimento al corpo come tomba o prigione

dell’anima. La stessa concezione si ritrova nella tradizione greca, anzi più

correttamente in quella socratico-platonica. In questo testo biblico del profeta

Isaia, estratto dal Libro della consolazione di Israele, il dualismo anima-corpo

è riassunto nella metafora del fiore e la sua linfa.

“Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del

campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira

su di essi. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del Signore dura

sempre.”8

SOMA-SEMA: LA PRIGIONE DEL CORPO

Anche in Platone l’anima viene indicata come un qualcosa di necessariamente

e fondamentalmente separata dal corpo. L’anima è altro, concepita come

                                                                                                                         7 GEREMIA, cit., cap. 17, v. 5. 8 ISAIA, cit., cap. 40, vv. 6-8.

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qualcosa di incorporeo e sovrasensibile, essa viene imprigionata nel

“contenitore” corpo (sôma) che le fa da prigione (sêma). Come il filosofo

spiega nel famoso passo del Cratilo:

“Dicono alcuni che il corpo è sêma (segno, tomba) dell’anima, quasi che

ella vi sia sepolta durante la vita presente; e ancora, per il fatto che con

esso l’anima semaínei (significa) ciò che semaíne (significhi), anche per

questo è stato detto giustamente sêma. Però mi sembra assai piú

probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo; come a

dire che l’anima paghi la pena delle colpe che deve pagare, e perciò abbia

intorno a sé, affinché sózetai (si conservi, si salvi, sia custodita), questa

cintura corporea a immagine di una prigione; e cosí il corpo, come il

nome stesso significa, è sêma (custodia) dell’anima finché essa non abbia

pagato compiutamente ciò che deve pagare. Né c’è bisogno di mutar

niente, neppure una lettera.”9

In questo passo si evidenzia bene come l’anima sia imprigionata nel corpo per

espiare le colpe. Inoltre, come sostiene nel Fedone, finché saremo legati al

corpo non potremo nemmeno giungere alla sapienza; solo quando l’anima sarà

libera dal corpo avremo ciò che desideriamo.

“Se mai vogliamo conoscere qualche cosa nella sua purezza, dobbiamo

separarci dal corpo e guardare le cose in sé con la sola anima. E a quanto

pare, solo allora, cioè dopo la morte e non finché siamo in vita [...]

avremo ciò che desideriamo e di cui ci dichiariamo amanti, cioè la

sapienza. [...] E non è proprio questo che si chiama morte: liberazione e

separazione dell’anima dal corpo? [...] e l’esercizio dei filosofi è proprio

questo: liberazione e separazione dell’anima dal corpo.”10

Molte volte per spiegare situazioni o concetti che trascendono la realtà Socrate

e Platone utilizzavano metafore o racconti mitici. Il carro alato è uno di questi

esempi, dove Socrate spiega come l’anima prima volasse libera e dall’alto

governasse il mondo. Caduta nella terra sarà imprigionata nel corpo e solo

                                                                                                                         9 PLATONE, Opere, vol. I, Laterza, Bari 1967, pp. 213-214. 10 PLATONE, Fedone, tr. it. a cura di Giovanni Reale, editrice La scuola, Brescia 1970, 66 d-e; 67 d.

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dopo un periodo di espiazione riuscirà a ritrovare le sue ali e a riprendere il

volo.

“[...] Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla

sua natura c’è questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe

una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche

lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e piú breve.

Questo sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come

la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i

corsieri degli dei e i loro aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli

degli altri esseri sono un po’ sí e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini,

l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e

di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di

qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero

difficile e penoso. Ed ora bisogna spiegare come gli esseri viventi siano

chiamati mortali e immortali. Tutto ciò che è anima si prende cura di ciò

che è inanimato, e penetra per l’intero universo assumendo secondo i

luoghi forme sempre differenti. Cosí, quando sia perfetta ed alata,

l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perde

le ali, essa precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si

accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per

merito della potenza dell’anima. Questa composita struttura d’anima e di

corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. La definizione di

immortale invece non è data da alcun argomento razionale; però noi ci

preformiamo il dio, senza averlo mai visto né pienamente compreso,

come un certo essere immortale completo di anima e di corpo

eternamente connessi in un’unica natura. Ma qui giunti, si pensi di tali

questioni e se ne parli come è gradimento del dio. Noi veniamo a

esaminare il perché della caduta delle ali ond’esse si staccano

dall’anima.”11

Ancora un altro celeberrimo frammento dello stesso testo in cui Platone

ripropone il famoso paradosso della vita e della filosofia come esercizio di

                                                                                                                         11 PLATONE, Fedro, tr. it. a cura di Roberto Veraldi, Bur, Milano 2006, 246 a-d.  

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morte. L’anima, essendo appunto prigioniera del corpo, avrà come obiettivo

quello di lasciare la terra e di ricongiungersi al Divino.

“ «Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi

inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non

quella di morire e di essere morti. E se questo è vero, sarebbe veramente

assurdo per tutta la vita non curarsi d’altro che della morte, addolorarsi di

ciò che da tanto tempo si desiderava e di cui ci si dava tanta cura».

E Simmia, ridendo, disse: «Per Zeus, o Socrate, mi hai fatto ridere, anche

se ora non ne avevo proprio voglia! Io penso che la gente, se sentisse dire

questo, penserebbe che sia davvero ben detto dei filosofi – e lo

riterrebbero in particolar modo i nostri concittadini –, ossia che essi sono

veramente dei moribondi; e direbbe di essersi ben accorta che i filosofi

sono degni di subire la morte!».

«E direbbe la verità, o Simmia! Però non è vero che la gente se ne sia

davvero accorta. Infatti non si è accorta in che senso i veri filosofi siano

dei moribondi e in che senso siano degni di morte, e di quale morte!

Ragioniamo, dunque, tra noi e lasciamo andare la gente. Riteniamo noi

che la morte sia qualche cosa?».

«Certo», disse Simmia.

«E riteniamo che sia altro che non una separazione dell’anima dal corpo?

E che essere morto non sia altro che questo: da un lato, l’essere il corpo,

separatosi dall’anima, da sé solo, e dall’altro, l’essere l’anima, separatasi

dal corpo, da sé sola? O dobbiamo ritenere che la morte sia qualcos’altro

e non questo?». «No, questo», disse.”12

Abbiamo visto come, per il filosofo, la morte sia un importante argomento di

studio e come diventi appunto la meta cui giungere. La morte viene

considerata come luogo di divisione tra anima e corpo: la liberazione

dell’anima dalla sua prigione. Nell’esercizio della morte il filosofo non deve

farsi distrarre dai piaceri corporei e dalla tentazioni terrene, ma necessita di

concentrarsi sulla cura della propria anima. Infatti il passo continua nel

seguente modo:

                                                                                                                         12 Ibidem.

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“ «Guarda, ora, o carissimo, se anche tu sei del mio parere; infatti, da

quello che ora diremo, penso, risulterà chiaro ciò che noi ricerchiamo. Ti

pare che sia degno di un filosofo avere cura dei piaceri di questo tipo,

vale a dire dei cibi e delle bevande?».

«Assolutamente no, o Socrate», disse Simmia.

«E dei piaceri d’amore?».

«Nient’affatto».

«E che ne dici delle altre cure del corpo? Ti pare che il filosofo li tenga in

pregio? Per esempio, il possesso di bei mantelli, di bei calzari e degli altri

ornamenti del corpo, ti pare che egli li abbia in pregio o in dispregio, se

non per quel poco che è costretto a farne uso?».

«Mi pare – rispose – che non li apprezzi, chi è veramente filosofo».”13

Il filosofo, nel non curarsi dei piaceri e delle passioni del corpo,

esercita l’esperienza di morte: essa diventa la liberatrice dell’anima

che permette alla verità di essere svelata. Per questo motivo, il filosofo

deve essere attratto dalla morte e non deve averne paura; occorre

ch’egli si ricordi come la cura del corpo, il suo nutrimento e gli

interessi a esso legati siano tutti ostacoli atti a impedire la vera

conoscenza della cosa in sé, nella sua essenza e purezza.

“ «E dunque non ti pare – disse – che la preoccupazione del filosofo non

sia rivolta al corpo; ma che anzi, per quanto egli può, si ritragga da quello

e si rivolga, invece, all’anima?».

«Mi pare di sì».

«E allora, non è evidente, innanzi tutto, che il filosofo, diversamente

dagli altri uomini, per quanto riguarda questo genere di cose, cerca di

liberare l’anima dal corpo, quanto più gli è possibile?».

«É chiaro».

«E la gente, poi, o Simmia, crede che, per colui che di tali cose non gode

e non partecipa, non valga la pena di vivere, e che colui che non si cura

dei piaceri che si hanno per mezzo del corpo, tenda, in certo senso, a star

vicino alla morte?».

«Verissimo quello che dici».                                                                                                                          13 Ibidem.

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  15  

[...] «Orbene, è necessario» – disse –, in base a queste cose, che nei veri

filosofi si formi un’opinione di questo tipo, di guisa che, ragionando fra

loro, dicano all’incirca quanto segue.

«Sembra ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento,

direttamente a questa considerazione: fino a quando noi possediamo il

corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non

raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente

desideriamo, vale a dire la verità. Infatti, il corpo ci procura innumerevoli

preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando

ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso

ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di

molte vanità, di guisa che, come suol dirsi, veramente, per colpa sua, non

ci è neppure possibile pensare in modo sicuro alcuna cosa. In effetti,

guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal

corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre si originano per brama di

ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa

del corpo, in quanto siamo asserviti alla cura del corpo. E così noi non

troviamo il tempo per occuparci della filosofia, per tutte queste ragioni. E

la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un

momento di tregua e riusciamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa,

ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e,

dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per

colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro

che se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza dobbiamo

staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se

medesime».”14

Anche nel Gorgia, si fa riferimento al corpo come tomba dell’anima e si

evidenzia come passioni e i desideri creino bisogni all’uomo rendendolo

infelice.

“ […] e davvero può darsi che noi, in realtà, siamo morti! Come già ho

sentito dire da alcuni filosofi: noi attualmente, siamo morti e nostra

                                                                                                                         14 PLATONE, Fedone, cit., 64a-65a; 65b-e.

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  16  

tomba [sêma] è il corpo [sôma] e quella parte dell’anima nella quale

hanno sede le passioni.”15

SOCRATE: DIALOGO CON POLO SULLA CULINARIA

All’interno di questo dialogo ci sono, inoltre, alcuni frammenti in cui Socrate,

attraverso un’analogia tra culinaria e retorica, vuole dimostrare come

entrambe non siano da considerarsi un’arte. Infatti la culinaria, che è pratica

legata al corpo, non si basa su fondamenti scientifici, ma solo sull’esperienza.

“POLO Ma cosa allora ti sembra la retorica?

SOCR. Un dato16 che tu sostieni aver trasformato in arte in un tuo

trattato, del quale ho preso conoscenza da poco.

POLO E cioè?

SOCR. In qual certa esperienza direi.

POLO Ma che tipo di esperienza sarebbe?

SOCR. Quell’esperienza che suscita in noi un qual certo diletto e

piacere.”17

In questo breve estratto di dialogo, Socrate indica alcune importanti nozioni

che risultano caratterizzanti per la comprensione del suo concetto di retorica.

Egli la definisce, appunto, non solo una «certa esperienza», bensì

un’esperienza che suscita nell’uomo «un qual certo piacere e diletto». Nella

filosofia greca antica l’esperienza non era del tutto esclusa dall’ambito della

                                                                                                                         15 PLATONE, Gorgia, tr. it. di Francesco Adorno, Laterza, Bari 1997, 493a.  16 In greco πργµα che tradotto è “fatto”, nel significato di fatto accaduto o che accade. La scelta lessicale di Adorno si può interpretare come una volontà di volere diminuire il significato ontologico della parola. La parola «dato» infatti è meno carica di valore giudizio e di verità di «fatto accaduto» ed è anche slegato dallo spazio e dal tempo. 17 PLATONE, Gorgia, cit., 462c-462d.

Page 18: Corso di Laurea magistrale in Scienze filosofiche Tesi di

  17  

conoscenza, ma vi partecipava in modo periferico: l’esperienza, troppo

imprecisa e transitoria perché legata ai fenomeni sensibili, veniva piuttosto

considerata come uno stimolo e quindi risultava vana per la ricerca della

verità e della conoscenza.

In un secondo momento, il dialogo prosegue:

“SOCR. Chiedimi, dunque, ora, in che cosa, secondo il mio parere

consiste l’arte del cucinare.

POLO Ecco, ti chiedo: in che consiste l’arte del cucinare?

SOCR. Non è un’arte Polo.”18

Parlando della culinaria, Socrate sottolinea subito come essa non si possa

considerare un’arte, bensì «un’esperienza». In questo contesto, occorre

ricordare che Socrate, quando parla di arte nel suo significato positivo, si

riferisce spesso al concetto di maieutica. Per maieutica s’intende il metodo

socratico attraverso il quale egli conduce il soggetto alla conoscenza: esso si

basa su una particolare forma di dialogo che presuppone l’interlocutore come

il «partoriente» stesso della conoscenza. Attraverso questa forma d’arte, il

filosofo interroga anime e non corpi. Attraverso il parallelismo con la retorica,

Socrate fa procedere il dialogo al fine di definire la culinaria:

“POLO Ma cos’è allora? Parla!

SOCR. Sì e dico che è un qual certa esperienza.19”

Dunque, cucinare è un’esperienza:

“POLO E di che tipo? Dimmi!

SOCR. Un’esperienza che suscita in noi diletto e piacere, Polo.”20

Cucinare è «un’esperienza che suscita in noi diletto e piacere», ma non rientra

nell’ambito di ricerca della verità e della conoscenza. L’uomo se ne serve per

divertimento, gode del suo utilizzo. Fin qui essa non si aggrava di

                                                                                                                         18 Ibidem.  19 PLATONE, Gorgia, cit., 1997, 462e-462d. 20 Ibidem.

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  18  

caratterizzazioni che concernano la sfera del positivo o negativo, del giusto o

sbagliato. Certamente l’esperienza del cucinare è relegata alla corporeità ed è

esclusa dalla dimensione dell’anima.

“POLO Culinaria e retorica sono, dunque la stessa cosa?

SOCR No di certo! Sebbene la culinaria sia una parte di una stessa

professione.

POLO Di quale ?

SOCR. Non vorrei fosse troppo scortese dire la verità, e perciò esito a

parlare, per un riguardo a Gorgia: non pensi che io prenda in giro la sua

professione! E poi, neppure so se la retorica di cui parlo sia la retorica

che Gorgia professa, ché dal nostro discorso non è affatto venuto in luce

ciò che davvero egli ne pensi. Senza dubbio, comunque, la retorica di cui

parlo io è parte di una cosa niente affatto bella.”21

Durante il dialogo, continua il parallelismo tra retorica e culinaria e si giunge a

definire quel certo tipo di retorica «una cosa niente affatto bella». Spesso

Socrate accosta al concetto di bello quello di giusto in senso morale;

similmente, in questo caso, si può pensare che quel tipo di retorica sia ritenuta

dal filosofo una cosa non bella, quindi non giusta. Proseguendo con l’analisi

del dialogo si nota che Socrate vuole delineare l’inutilità e la negatività di una

certa retorica e di certe pratiche.

“SOCR. Sì, Gorgia, a me sembra che la retorica sia un’attività estranea

all’arte, pur richiudendo spirito che sa cogliere nel segno, coraggio e una

naturale disposizione nei rapporti umani. Nel nocciolo io chiamo la

retorica "adulazione", e una di queste è l’arte del cucinare. Ha

l’apparenza di un’arte, ma, penso, arte non è, bensì esperienza ed

esercizio.”22

In questo estratto Adorno mantiene la tradizionale traduzione “adulazione” per

il termine κολακεία, ma egli stesso sostiene che nel suo significato originario

esso è arricchito da alcune sfumature che lo avvicinano al concetto di

                                                                                                                         21 Ivi, 462e-463a.  22 Ivi, p. 463 a-b.

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  19  

«seduzione» (ψυχαγωγία)23. Quest’ultimo termine appare effettivamente più

adeguato per ciò che Socrate vuole far capire ai suoi interlocutori.

L’adulazione, come si può notare proseguendo nella lettura del dialogo, è

utilizzata nel suo significato più negativo, infatti la seduzione invita a

considerare maggiormente l’aspetto ingannevole della retorica. L’inganno di

voler presentarsi senza farsi conoscere veramente, impossessandosi di

qualunque tecnica pur di rendersi attraenti. Secondo Socrate la retorica è solo

una pratica di convincimento e di raggiro che allontana l’uomo dal retto

cammino. Anche per il termine tradotto nell’ultima frase con «esercizio»,

Adorno propone l’uso più corretto del sostantivo dispregiativo «praticaccia»24.

Per praticaccia s’intende, per esempio, l’attitudine di quei medici non

scienziati a ultimare la loro conoscenza a forza di esperienza e pratica. La

retorica, così come la culinaria, seduce servendosi del diletto e del piacere al

fine di, socraticamente parlando, voler vendere come pieno un vaso vuoto.

Successivamente Socrate pone rispettivamente la retorica e la culinaria come

copie o spettri della politica e della medicina, con la differenza che

quest’ultime non fanno affidamento a un metodo e a delle regole, ma si

servono dell’esperienza e della pratica, basandosi sulle conseguenti risposte

che da esse ricevono.

“SOCR. Ma riuscirai a capire la mia risposta? La retorica, secondo il mio

pensiero è un idolo di una parte della politica.

POLO Ma che vuoi dire con questo? Intendi dire che è bella o brutta?

SOCR. Brutta, secondo me – brutto io chiamo tutto quello che è male -,

dal momento che ti si deve rispondere come se tu già sapessi quello che

penso.[…]

GORGIA E tu lascia da parte e rispondimi su cosa intendi dire quando

affermi che la retorica è un idolo di parte della politica.”25

                                                                                                                         23 κολακεία: manteniamo la tradizionale traduzione «adulazione» anche se in greco v’è qualcosa di più che, forse, meglio potrebbe tradurre “seduzione”. Cfr. Soph. 222e-223° [nota dell’autore]. 24 Cfr. Phaedr. 279b. Cfr anche Phil. 55e; Leg. 938° [nota dell’autore].  25 PLATONE, Gorgia, cit., 463 d-e.

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  20  

Qui e successivamente Socrate sostiene che la retorica e la culinaria sono

"Idoli", nel senso di copie, fantasmi o apparenze che non hanno una vera

consistenza, né un regime di regole da seguire. I cosiddetti "venditori di

fumo". Nel passaggio seguente Socrate divide le arti tra quelle valide per la

cura dell’anima e quelle inerenti alla cura del corpo: per la cura dell’anima

individua la politica nelle sue parti di legislazione e di amministrazione della

giustizia; per la cura del corpo indica la ginnastica e la medicina.

“SOCR. L’adulazione, accortasi di queste quattro arti, così costituite e

volte sempre a curare nella maniera migliore le une il corpo le altre

l’anima – non per via conoscitiva, dico, ma per congettura – si divise essa

stessa in quattro, e, strisciando sotto ciascuna delle quattro parti

corrispondenti, simula d’essere quella certa parte sotto cui si è insinuata

e, senza affatto preoccuparsi del meglio, ma sempre con dilettosi mezzi,

caccia ed inganna l’ignoranza, si da apparire cosa di supremo valore.

Sotto la cucina scivolò la culinaria, che simula di sapere quali siano i

migliori cibi per il corpo, […].”26

Nel prossimo passo sottolinea nuovamente la negatività dell’adulazione e ne

spiega le varie sfumature significative. Sostanzialmente per Socrate

l’Adulatore è colui che si mostra per quello che non è, colui che sostiene di

essere un medico, ma che in realtà non lo è. Ritorna infatti sulla differenza tra

medico scienziato e medico empirico: chi non usa la ragione e la razionalità

non può definirsi “Medico” perché non ha una vera conoscenza della materia.

Gli adulatori non conoscono realmente la materia di cui parlano proprio

perché posseggono una conoscenza fallace basata sull’esperienza e sulla

pratica.

“ Ecco dunque, dunque quello che io chiamo "adulazione", e la dico una

gran brutta cosa, Polo – è a te che mi rivolgo – perché, senza

preoccuparsi affatto del meglio, è tutta tesa al piacere soltanto; né arte io

la dico, ma esperienza, poiché non ha nessuna comprensione razionale

                                                                                                                         26 Ivi, 464 c-e.

Page 22: Corso di Laurea magistrale in Scienze filosofiche Tesi di

  21  

della natura delle cose cui si riferisce, in virtù della qual comprensione

possa appunto, riferirsi: ecco perché non sa di ciascuna cosa indicare la

causa. Io, perciò, non chiamo arte un dato che tale resti, un dato cioè

senza ragione. E se ora ha da muovermi obbiezioni su tutto questo, sono

pronto a rendertene ragione.”27

Il corpo e le pratiche che a lui fanno riferimento non hanno capacità

conoscitiva e di giustezza. In questa parte conclusiva Socrate ipotizza

l’inversione di ruoli tra Anima e Corpo. Se il Corpo avesse il compito di

giudicare e di scegliere sarebbe guidato solamente dall’istinto del piacere e

dell’auto-deliziarsi. Per questo, appunto, la cucina sarebbe facilmente

scambiabile con la medicina e tutte le cose, senza distinzione, sarebbero

confuse. Solo attraverso l’anima, portatrice di verità, ogni cosa sarebbe scelta

in modo giusto considerando ciò che sarebbe «migliore» per l’uomo.

“ Sì, perché se l’anima non governasse il corpo, ma fosse il corpo a

governarsi da sé, e non fosse l’anima che esamina e giudica ciò che

compete alla cucina e ciò che compete alla medicina, ma cucina e

medicina fossero giudicate dal corpo sulla base delle delizie che ne

riceve, ebbene ampio valore avrebbe il principio di Anassagora, amico

Polo – tu di tale dottrina sei esperto -, e cioè “tutte le cose, senza

distinzione , sarebbero insieme confuse”, poiché non vi sarebbe più

possibilità di giudicare ciò che compete alla medicina, all’igiene, alla

culinaria.”28

La denigrazione del corpo, sollevata sia dalla tradizione filosofica che da

quella teologica, è stata largamente studiata, proprio perché la concezione

dualistica ha influenzato gran parte del modo di pensare degli ultimi duemila

anni. Nicola Perullo e Rosalia Cavaliere sono due filosofi contemporanei che

hanno approfondito questi studi con specifico riferimento alla svalutazione dei

sensi. In particolare, hanno notato e sottolineato come il gusto, tra tutti, sia

stato quello più negativizzato e come i sensi cognitivi fossero considerati unici

                                                                                                                         27 Ivi, 465a.  28 Ibidem.

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  22  

delegati alla conoscenza; «diversamente dagli oggetti visivi, più stabili e più

duraturi (e diversamente, anche, dagli oggetti sonori formalizzati in una forma

scritta), i sapori e i profumi sono radicati nell’effimero. Essendo volatili ed

evanescenti passano: una ragione in più per escluderli dall’indagine teoretica e

dal dibattito epistemologico sulla percezione sensoriale». 29 La prima

trattazione del gusto, con concezione scientifica, avviene nel 1825 con J.A.

Brillant-Savarin che scrive Physiologie du goût, ou Méditations de

gastronomie transcendante, saggio con cui si data la nascita della

gastronomia. Tale saggio ha riscosso successo ed è stato scritto perché, come

vedremo anche nel prossimo capitolo, il corpo cominciava a riacquistare

valenza e importanza all’interno della concezione filosofica. Perullo, nel

seguente passo, sostiene l’impossibilità di discutere sul gusto gastronomico

nella Grecia classica e conferma le nostre teorie sopra citate: egli sottolinea

come, nel pensiero filosofico del tempo, la culinaria non potesse essere né

scienza, né arte e come il gusto fosse solo legato al piacere effimero.

“Come è possibile una riflessione filosofica sul gusto e sulla

gastronomia? Non è una domanda retorica. Già Platone – in dialoghi

come il Fedro, il Gorgia e il Fedone – rifiutava di assegnare alla cucina

lo statuto di scienza e quello di arte, condannandone i piaceri. Platone

paragone la cucina alla retorica: un’attività empirica volta al sedurre,

mentre soddisfa solo un bisogno primario; non ha niente a che vedere

con la conoscenza perché non procede da leggi generali e deducibili né

con l’arte perché non soddisfa piaceri intellettuali. I suoi piaceri sono

infatti corporali, effimeri e poco degni dell’uomo razionale: «Ti pare che

un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del

bere?», afferma Socrate nel Fedone.”30

La svalutazione del gusto non è un concetto relativo solo al lontano passato;

ne ritroviamo alcuni esempi, infatti, sia nella filosofia moderna sia in quella

                                                                                                                         29 R. CAVALIERI, Gusto l’intelligenza del palato, Laterza, Bari 2011, p.VI. 30 N. PERULLO, Il gusto come esperienza. Saggio di filosofia e estetica del cibo, Slow Food Editore, San Mauro Torinese 2012, p. 30.

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  23  

contemporanea: essi si riferiscono al gusto sottolineando il suo aspetto

“carnale”, denigrandolo alla sfera della bassa sensualità ed escludendolo da

quella della conoscenza e da quella dell’arte. Rosalia Cavalieri, nel testo

Gusto, L’intelligenza del palato, riporta un passo hegeliano del 1823, dove il

filosofo sancisce l’inferiorità di tali sensi .

“La svalutazione filosofica dei nostri sensi più carnali si è spinta al

punto da contaminare l’arte, in quanto forma di conoscenza affidata ai

sensi. L’estromissione della sensibilità materiale dai giudizi artistici è

sancita chiaramente da Hegel: «Il sensibile dell’arte si riferisce solo ai

due sensi teoretici della vista e dell’udito, mentre risultano esclusi dal

godimento artistico olfatto, gusto e tatto. Infatti questi tre sensi hanno da

fare con la materialità e con le sue qualità immediatamente sensibili».

[…] Appunto per il loro carattere viscerale e affettivo, gusto e olfatto

hanno finito per rappresentare facoltà del tutto opposte all’intelletto.”31

Come vedremo nel prossimo capitolo, la filosofia moderna e contemporanea ha

rivalutato il corpo sia nelle sue funzioni che nel suo rapporto con il mondo,

tendendo a superare, così, la classicistica visione dualistica anima-corpo. Se

nel versante filosofico si giungeva a una conciliazione del corpo con i suoi

sensi, elevando anche il tanto maltrattato gusto alimentare a oggetto di studio,

nel versante gastronomico si scorgevano nascere nuove mode e stili di

concepire la cucina e gli alimenti, pensiamo ad esempio alle mode

rappresentate da Ferràn Adrià e dalla sua cucina molecolare. Queste innovative

concezioni volevano avvicinare arte e scienza e proporre la loro combinazione

proprio attraverso la gastronomia. La cucina di Adrià fu veloce a farsi

conoscere e, per alcuni aspetti, fu apprezzata e premiata, ma riscosse

ugualmente molte critiche. Tra queste, ricordiamo quella di Fernando Savater

che, nell’articolo “L’arte della digestione”, descriveva questa cucina come uno

spazio a misura di ricchi, snob e “intellettuali”, costruito ad arte da

commedianti con un unico fine che si può riassumere con la celebre frase di

                                                                                                                         31  R. CAVALIERI, Gusto l’intelligenza del palato, cit., pp. 5-6.  

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  24  

Paul Bocuse: «Niente nel piatto, tutto nel conto». Savater inoltre risollevò le

questioni della differenza tra arte e artigianato e dell’impossibilità della cucina

di uscire dal suo essere una pratica.

“Certo, in senso lato ci sono sicuramente «artisti» dei fornelli, gente che

li usa con destrezza e abilità particolari, che si documenta con cura su

materie prime e condimenti o che ha una speciale inventiva

nell’armonizzare i sapori. Non è cosa da poco e meritano tutto il nostro

apprezzamento. Ma la loro bravura appartiene all’onesto mondo

dell’artigianato, non a quello della creazione artistica, il cui obiettivo non

è soddisfare i sensi, ma risvegliare sentimenti e spingere alla scoperta di

inediti significati. […] L’incoronazione di Ferrán Adriá durante la Fiera

dell’arte di Kassel non aggiunge una virgola alla sua «genialità», ma

rivela quanto siano insulsi i chierici dell’attuale decadenza artistica.”32

Le principali critiche e obiezioni mosse al gusto alimentare e alla culinaria

possono essere raggruppate sotto tre grandi sfere: quella epistemologica,

quella estetica e quella etica. La prima ritiene la culinaria una disciplina non

scientifica perché legata al corpo e ai suoi sensi minori: questi non vengono

considerati elementi adatti a una scienza esatta e non sono portatori di

conoscenza, facoltà appartenente all’intelletto. La seconda delinea come la

culinaria non possa essere considerata un’arte: essa è ritenuta una materia più

vicina all’artigianato, perché costituita da un’esperienza fugace e non

permanente, quindi effimera. La terza relega il gusto all’ambito del piacere

inteso nella sua forma più istintuale e animalesco, quindi la culinaria come

forma potenzialmente più incline al peccato e all’immoralità.33

Prima però di rivalutare il gusto alimentare, affrontandone le critiche ad esso

rivolte, ci soffermeremo sulla considerazione del corpo e dei suoi sensi.

                                                                                                                         32 F. SAVATER, L’arte della digestione, “La Stampa”, 26 settembre 2007. 33 Cfr. N. PERULLO (2012: 35).  

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  25  

II. PARTE SECONDA LA RIVALUTAZIONE DEL CORPO

“C’è più ragione nel corpo che nella tua migliore sapienza.

F. Nietzsche

“Amate le bestie: Dio ha dato loro il principio e la gioia pacifica. Non tormentatele, non turbatele, non togliete loro la gioia, non opponetevi all’intento di Dio. Uomo, non innalzarti sugli animali”.

F. Dostoevskij

LA NUOVA CONCEZIONE DEL CORPO NELLA FILOSOFIA MODERNA

La riconsiderazione del corpo nella filosofia del Novecento non è solamente

legata al rapporto dualistico di questo con l’anima e non è nemmeno una

banale considerazione della sua importanza. Il corpo, infatti, si appropria di

una nuova considerazione, nei termini di ruolo e soggetto. Non appare più

come corpo-oggetto o come corpo rappresentativo. Esso non è più accessorio

dell’anima ma diviene corpo vissuto, ricettore e creatore di mondo, in rapporto

con esso. Primo strumento – per dirla con Schopenhauer – per trascendere il

velo di Maya.

“Non è tanto la nozione di corpo genericamente inteso a diventare

centrale nella filosofia del Novecento. Sono, più in specifico, le nozioni

di “corpo animato” e di “corpo vissuto” in quanto affermano

Page 27: Corso di Laurea magistrale in Scienze filosofiche Tesi di

  26  

un’esperienza della corporeità diversa dalla concezione che può

riassumersi nelle nozioni di “corpo-oggetto” o di “corpo-

rappresentazione”. Quest’ultime esprimono a loro volta la concezione che

ha tradizionalmente sotteso il pensiero dell’Occidente, contribuendo in

modo decisivo a caratterizzarlo in senso metafisico: a caratterizzarlo cioè

quale pensiero che colloca la verità oltre le cose sensibili. Le nozioni di

“corpo-oggetto” o “corpo-rappresentazione” servivano infatti a separare

il corpo dall’anima ponendolo in una posizione subordinata rispetto a

questa. Ciò vale tanto per la caratterizzazione platonica del corpo quale

prigione dell’anima, quanto per quella cartesiana del corpo come res

extensa distinta dalla res cogitans. In ogni caso si trattava di un corpo che

ho, mentre il Novecento è andato piuttosto sottolineando una

caratterizzazione del corpo quale corpo che sono.”34

Ed è proprio Schopenhauer uno dei precursori che, già ai primi dell’Ottocento,

imposta una nuova riflessione sul corpo, considerandolo veicolo attraverso cui

ciascuno di noi può trascendere il mondo rappresentato e raggiungere

l’essenza, la volontà. Nella sua opera Il mondo come volontà e

rappresentazione, egli infatti caratterizza il corpo sì come rappresentazione –

all’interno di una più ampia caratterizzazione del mondo come mia

rappresentazione – poi però si chiede come sia possibile superare il velo di

Maya delle rappresentazioni e giungere a individuare nella volontà l’essenza

stessa del mondo. Ed è qui che il filosofo tedesco inserisce un «passaggio

sotterraneo», da ritrovare proprio nel corpo.

“In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti

come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in quanto pure

rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere

oltre di ciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se

l’indagatore medesimo non fosse nient’altro che il puro soggetto

conoscente (alata testa d’angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo

le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è

                                                                                                                         34  Intervista a M. CARBONE in Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, a cura di C. Rozzoni e M. Binchetti, “Chora”, anno IV, N. 9, luglio 2004, p. 1.  

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  27  

condizione dell’esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione,

avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni, come s’è

mostrato, sono per l’intelletto il punto di partenza dell’intuizione di quel

mondo.”35

Non possiamo considerare il corpo e la mente in modo separato, sarebbe come

immaginare di inserire la coscienza all’interno di una macchina, o la coscienza

di una persona in un altro corpo. Mente e corpo sono un tutt’uno e il loro

rapporto e vicendevole, essi si influenzano e si evolvono l’uno rispetto

all’altro e tramite l’altro. Il rapporto che si crea è costituito da un continuo

interscambiarsi d’informazioni e influenze, questo scambio continuo prende

una forma circolare dove non si riesce più a distinguere l’inizio dalla fine.

Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una

rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi

movimenti, le sue azioni, non sono da lui, sotto questo rispetto,

conosciute altrimenti le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e

gli sarebbero egualmente estranee ed incomprensibili, se il loro senso non

gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto diverso. In caso

contrario, vedrebbe la propria condotta regolarsi con la costanza di una

legge naturale sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni

degli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi. Ma non

comprenderebbe l’influsso dei motivi più di quanto comprenderebbe il

nesso di ogni altro effetto, a lui visibile, con la causa rispettiva.

All’intima, per lui incomprensibile essenza di quelle manifestazioni e

operazioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora a dare i nomi di forza,

qualità, carattere, a piacere: e non vedrebbe più addentro.”36

Il gioco che s’instaura tra mente e corpo non è un semplice rapporto causa-

effetto, il corpo diviene allo stesso tempo costruttore di mondo e parte di

mondo; è attraverso il corpo che io abito un mondo e ne faccio conoscenza

incontrandomi con esso.

                                                                                                                         35 A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819); tr. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari 1972, pp. 152-154. 36 Ibidem.  

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  28  

“Ma le cose non stanno così: al soggetto conoscente, che appare come

individuo, è data la parola dell’enigma; e questa parola è volontà. Questa,

e questa sola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno, gli

manifesta il senso, gli mostra l’intimo congegno del suo essere, del suo

agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la

sua identità con il proprio corpo ci si presenta come individuo, questo

corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione

nell’intuizione dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle

leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt’altro modo,

ossia come quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la

parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è

immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli

non può voler davvero l’atto, senza accorgersi che esso appare come

movimento del corpo.”37

Ecco qui esplicitata in modo chiaro l'unità tra corpo e volontà, il loro essere

unità agente nel mondo, il loro essere un tutt'uno che agisce.

L’atto volitivo e l’azione del corpo non sono due diversi stati conosciuti

oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro

nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati

in due modi affatto diversi, nell’uno direttamente, e nell’altro mediante

intuizione per intelletto. L’azione del corpo non è altro, che l’atto del

volere oggettivato, ossia penetrato dall’intuizione.”38

Come evidenzia bene Carbone:

“Egli sottolinea infatti che nell’appetito, nelle tensioni, nel desiderio

sessuale noi facciamo un’esperienza del nostro corpo che ci fa andare

oltre la sua caratterizzazione in termini di “rappresentazione”,

rivelandocelo piuttosto un’incarnazione della volontà. Tale rivelazione ci

consente allora di passare al di là della conoscenza del mondo quale

                                                                                                                         37 Ibidem. 38 Ibidem.

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  29  

rappresentazione, arrivando, infine, a considerare la volontà come il

principio che costituisce, appunto, l’essenza di tutta la realtà.”39

D’altro canto anche Roberto Lolli sottolinea la ritrovata funzione conoscitiva

del corpo e la sua costitutiva istintualità: una «volontà che va oltre la nostra

volontà»:

“Nel tracciare la parabola della concezione filosofica del corpo, assume

grande importanza la svolta introdotta da Schopenhauer che ne Il Mondo

come Volontà e Rappresentazione si distacca dalla gnoseologia

settecentesca e da Kant liquidando la pretesa che la mente possa essere

solo un occhio che puramente guarda la realtà. Non siamo “alate teste

d’angelo”, ma esseri radicati in un corpo e proprio il corpo diventa lo

strumento per un’esplorazione che permette di oltrepassare il limite della

rappresentazione del mondo e di attingere a cosa vi sia di là da quel che

viene denominato “il Velo di Maya”, l’apparenza fenomenica. Il corpo,

con i suoi movimenti spontanei e incontrollabili, coi suoi processi

metabolici, con la sua circolazione cardiovascolare e i suoi infiniti micro

eventi chimico-fisici si presenta come qualcosa di più di un oggetto fra

gli oggetti e ci rivela la presenza di una volontà che va oltre la nostra

volontà, di un istinto che è anteposto a ogni altro impulso che crediamo

di definire "nostro". Si tratta di un passaggio fondamentale, destinato ad

avere un’enorme influenza sul pensiero degli ultimi due secoli. Non si

tratta più, infatti, di riconoscere nel corpo un bel contenente o uno

strumento cognitivo, una specie di antenna di ricezione della mente

orientata verso l’esterno, bensì di distinguervi una specificità ontologica e

gnoseologica, ossia il rango di chiave d’accesso a qualcosa che,

diversamente, resterebbe per sempre celato.”40

Questa riscoperta del corpo coincide anche con l’affermazione della sua

ontologica ambivalenza. Ambivalenza che, però, non passa più attraverso il

dualismo cartesiano dove, ci ricorda Husserl, l’anima, la res cogitans «è il

residuo di un’astrazione preliminare del puro corpo; dopo quest’astrazione

                                                                                                                         39 M. CARBONE, Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, cit., p. 2. 40  R.  LOLLI, Il corpo nella filosofia occidentale. La riscoperta del corpo nel XIX e XX secolo Vol. 4, Treccani il Portale del Sapere, ( consultato il 20 novembre 2013).

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  30  

essa non è, almeno apparentemente, che un elemento integrativo del puro

corpo»41. Il corpo, infatti, come noi lo viviamo, non è solamente un corpo-

oggetto - ridotto e limitato dalla scienza per essere compatibile con i suoi

metodi e le sue ipotesi – ma è innanzitutto un corpo vivente, come dice

Carbone: il corpo che sono. «Tra i corpi di questa natura trovo il mio corpo

nella sua peculiarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico

(Körper), ma corpo vivente (Leib)»42. Non possiamo pensare che il corpo

assuma una rilevanza psicologica se continuiamo a considerarlo una «cosa»,

mera estensione fisica, e non gli riconosciamo quella intenzionalità che gli è

data dall’essere corpo vivente. Noi sentiamo, viviamo il nostro corpo in

rapporto non a un’anima distaccata, ma a un mondo. Non più anima-corpo, ma

corpo-mondo.

“Il corpo può infatti attuarsi e rivelarsi in infiniti modi, tempi e luoghi,

per cui noi ad esempio siamo là in carne e ossa fin dove ci trascendiamo,

in quel mondo sociale (Mit-welt) e circostante (Um-welt) dove siamo con

qualcuno o con qualcosa d’altro da noi. Questa è la ragione per cui, fin

dove si estende la presenza, là si estende il mio corpo, perché suo è

quello spazio, come è del danzatore lo spazio di cui si appropria nel

danzare. Ogni mio atto rivela infatti che la mia presenza è corporea e che

il corpo è la modalità del mio apparire. Questo organismo, questa realtà

carnale, i tratti di questo viso, il senso di questa parola portata da questa

voce non sono le espressioni esteriori di un Io trascendentale e nascosto,

ma sono io, così come il mio volto non è un’immagine di me, ma sono io

stesso. Nel corpo, infatti, c’è perfetta identità tra essere e apparire, e

accettare questa identità è la prima condizione dell’equilibrio.”43

Tra intelletto e mondo non c’è distanza, ma correlazione. Luogo di questa

correlazione è il corpo: senza di esso, infatti, non c’è anima o intelletto che

possa intendere qualcosa del mondo. Perché attraverso il mio corpo vivente                                                                                                                          41 E. HUSSERL, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie (1934-1937, pubblicata nel 1954); tr. it. La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, il Saggiatore, Milano 2002, p. 108. 42 Ivi, p. 107.  43 U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 15-16.

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  31  

(Leib), io faccio esperienza del mondo, sono impegnato in un mondo, agisco

nel mondo.

“L’intenzionalità del corpo non è oggettivante come quella dell’intelletto

che possiede le cose solo distanziandosene, ponendosele di contro a guisa

di oggetti (Ge-gen-stand, ob-jectus); l’intenzionalità del corpo è nel suo

essere destinato a un mondo che non abbraccia né possiede, ma verso cui

non cessa di dirigersi e di progettarsi. L’intelletto può giudicare le cose

del mondo, può tematizzarle, oggettivarle, solo perché queste cose sono

già esposte ad un corpo che le vede, le sente, le tocca, sono già solidali

con esso, in quell’unità naturale e pre-logica che fa da sfondo ad ogni sua

costruzione logica. Il mondo, infatti, è "già là", offerto al nostro corpo

prima di ogni giudizio e di ogni riflessione, così come il nostro corpo è

già esposto al mondo in quel contatto ingenuo che costituisce la prima e

originaria riflessione.”44

La correlazione tra corpo e mondo si sostituisce, secondo la fenomenologia, al

dualismo cartesiano e fa sì che il corpo sia il veicolo attraverso il quale

facciamo conoscenza del mondo. Tale agire del corpo nel mondo percettivo

però, sia chiaro, può esercitarsi anche nei confronti del nostro stesso corpo: io

posso percepire la mia mano attraverso il mio occhio o attraverso l’altra mano

e così via. Questo significa che io sono Leib sempre sul punto di rovesciarsi in

Körper, da corpo vissuto posso sempre passare a corpo-oggetto. Per questo

possiamo dire che siamo sempre altro da noi stessi, perché possiamo sfuggirci

e oggettivarci a noi stessi in un continuo equilibrio dinamico.

“Così la coscienza del mondo è in un movimento costante; il mondo è

sempre presente alla coscienza attraverso le strutture oggettuali e

nell’evoluzione dei diversi modi di coscienza (intuitivo, non-intuitivo,

determinato, indeterminato, ecc.), ma anche nell’evoluzione

dell’affezione e dell’azione; tanto che esiste sempre un ambito

complessivo dell’affezione, e gli oggetti che vi sono compresi e che

producono affezioni sono ora tematici e ora non-tematici. Tra essi anche

                                                                                                                         44 Ivi, p. 117.  

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  32  

noi stessi, che rientriamo sempre, inevitabilmente, nell’ambito delle

affezioni, che siamo sempre fungenti in quanto soggetti di atti, ma che

soltanto occasionalmente diventiamo nematicamente oggettuali in quanto

oggetti delle nostre auto-considerazioni.”45

Questa nuova riconciliazione tra anima e corpo non interessa solo il campo

filosofico, ma influenzerà anche la psicoanalisi, l’antropologia, la sociologia e

la letteratura.

Per quel che riguarda la psicoanalisi freudiana, si assiste a un fenomeno

particolare: se da un lato è possibile vedere ancora una forte eredità cartesiana

per quel che concerne la teorizzazione del metodo, la pratica psicoanalitica

sembra invece seguire le linee nuove dettate dall’approccio fenomenologico al

problema del corpo.

«Nonostante la terminologia impiegata, la teoria di Freud si propone come una

sorta di naturalismo fisico-biologico, dove la psiche è intesa come un

epifenomeno dell’organismo che la sottende»46. L’intento originario di Freud

era quello di far rientrare la psicologia all’interno delle scienze naturali

cercando quindi di costituirla come discorso scientifico attorno al problema

uomo. Questo fece sì che egli mantenesse sempre un atteggiamento causale di

fronte al manifestarsi di ciascun fenomeno da lui analizzato. Trasse dalla fisica

e dalla biologia del suo tempo le basi per costruire il suo sistema teorico e le

applicò poi all’essere umano: concepì la libido e le pulsioni, ad esempio, come

la rappresentazione di forze organiche, secondo modelli quantitativo-

energetici.

“Nella teoria psicoanalitica non esitiamo ad affermare che il flusso degli

eventi psichici è regolato automaticamente dal principio di piacere;

riteniamo che il flusso di questi eventi sia sempre stimolato da una

tensione spiacevole, e che prenda una direzione tale che il suo risultato

finale coincide con un abbassamento di questa tensione, e cioè col fatto di

                                                                                                                         45 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 138-139. 46 U. GALIMBERTI, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano 2007, p. 124.  

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  33  

aver evitato dispiacere o prodotto piacere. Considerando i processi

psichici da noi studiati in relazione a questo flusso, introduciamo nel

nostro lavoro il punto di vista economico. Riteniamo che un’esposizione

che cerchi di valutare anche questo fattore economico, oltre a quello

topico e dinamico, sia la più completa che possiamo attualmente

immaginare, e meriti la denominazione di esposizione

«metapsicologica».”47

Quindi, una volta applicati i principi topologici, dinamico, economico e

meccanico, risulta quasi naturale concepire la nevrosi come un arresto della

corrente energetico-libidinale. Anche i rapporti psico-fisici sono letti in chiave

di equilibri tra corpo e mente, volti a mantenere una stabilità tra le forze

dinamico-energetiche.

“Una volta tradotto in termini fisici l’ordine dei significati psichici, Freud

non può evitare quell’oggettivazione del soggettivo per cui, in armonia

con l’ideale esplicativo delle scienze naturali, il soggetto diventa oggetto

come tutti gli oggetti del mondo. Ciò è particolarmente evidente nel

linguaggio, dove l’uomo non dice di sé: «Io», ma si comprende a partire

da quell’apparato psichico che ha un Io, così come ha un Es e un Super-

Io. Siamo alla spersonalizzazione come nella psichiatria classica, e come

è inevitabile che sia in ogni scienza che ex professo si dichiara

naturalistica.”48

Questa oggettivazione non esclude di certo il corpo, che viene descritto

esclusivamente da un punto di vista naturalistico-biologico; non si può qui

parlare quindi di uomo fenomenologicamente inteso. «La psicoanalisi reputa

che i presunti processi concomitanti di natura somatica costituiscano il vero e

proprio psichico»49: identificare lo psichico con il fisiologico quindi.

                                                                                                                         47  S.   FREUD, Jenseits des Lustprinzips (1920); tr. it. Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 17, (corsivo mio).  48 U. GALIMBERTI, Psichiatria e fenomenologia, cit., p. 127. 49 S. FREUD, Abriss der Psychoanalyse (1938); tr. it. Compendio di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 29.

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  34  

La svolta nel pensiero freudiano arriva, come si è detto, nell’analisi della

prassi terapeutica. Si legge, infatti, nell’Introduzione al narcisismo:

“Evidentemente nozioni come quelle di libido dell’Io, energia delle

pulsioni dell’Io e così via non sono né particolarmente perspicue né

abbastanza ricche di contenuto; una teoria speculativa delle relazioni che

le riguardano dovrebbe essere intesa innanzitutto a darsi un fondamento

concettuale rigorosamente delimitato. È appunto questa, io credo, l’unica

differenza fra una teoria speculativa e una scienza fondata

sull’interpretazione empirica. Quest’ultima non invidierà alla

speculazione la sua prerogativa di fondarsi su nozioni precise e

logicamente inattaccabili; al contrario si accontenterà di buon grado di

alcuni sfuggenti e nebulosi principi di fondo di cui quasi non si riesce a

farsi un concetto, sperando che essi si chiariscano strada facendo e

ripromettendosi di sostituirli eventualmente con altri. Questi principi non

costituiscono infatti la base della scienza sulla quale poggia tutto il

resto; solo all’osservazione spetta questa funzione. Essi non sono le

fondamenta, ma piuttosto il tetto dell’intera costruzione e si possono

sostituire o asportare senza correre il rischio di danneggiarla. È quello

che sta accadendo anche alla fisica contemporanea, le cui vedute di fondo

relative alla materia, ai centri di forza, all’attrazione e così via, sono poco

meno dubbie delle corrispondenti vedute della dottrina psicoanalitica.”50

Ogni processo scientifico è quindi provvisorio e sempre possibile di modifica.

È fondamentale e necessario, dunque, separare la prassi terapeutica dalla

teoria scientifica. Ed è nella prassi che Freud recupera un’idea di uomo nella

sua interezza, distanziandosi dagli schemi meccanicistici e scientifici. Nel

rapporto antropologico e non biologico tra il terapeuta e il paziente si

riconosce un’apertura fenomenologica ed esperienziale tra corpi che vivono,

non meri oggetti.

“Questo mondo in comune che si crea "in pratica" è un altro elemento

che smentisce l’impianto teorico causalistico della psicoanalisi. Se infatti

                                                                                                                         50 S. FREUD, Zur Einführung des Narzissmus (1914); tr. it., Introduzione al narcisismo, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 21-22, (corsivo mio).  

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  35  

nel trattamento analitico il malato "guarisce" non è certo perché gli si

indicano le “causalità inconsce” che hanno determinato le sue

manifestazioni morbose. Non basta che il paziente sappia, egli deve

vivere con l’analista gli avvenimenti su cui in precedenza ha dato

informazione e ragguaglio.”51

Questa conclusione è possibile solamente se si rinuncia al dualismo cartesiano

e si accede alla visione fenomenologica che esprime una nuova concezione del

corpo e del suo rapporto col mondo.

“Certo, nei primi testi di Freud si parte da una concezione ancora

meccanicistica del corpo, in cui l’istinto risulta una sorta di struttura che,

appunto meccanicisticamente, condiziona l’intera esistenza

dell’individuo. Successivamente Freud procede però a un progressivo

anche se forse mai completo affrancamento da questa concezione,

descrivendo i rapporti tra sessualità ed esistenza in modo tale da offrire

una caratterizzazione della corporeità convergente con quella prima

indicata con l’espressione «corpo vissuto».”52

Io sono il mio corpo e vivo attraverso esso la mia esistenza. Seguendo questo

ragionamento posso, dire che io sono anche i miei sensi, attraverso cui faccio

esperienza nel rapporto col mondo. Si può quindi parlare di gusto

intendendolo come uno dei modi in cui il mio corpo vivente incontra il

mondo.

Nonostante la rivalutazione del corpo e del suo essere mondo attraverso i

sensi, il gusto e l’olfatto, tra gli altri, risultano ancora elementi percettivi

marginali e inferiori: essi sono legati a concezioni negative e denigrati alla

sfera della superficialità o, al massimo, elevati a strumenti per «la tutela del

nostro benessere».53 Solo con l’arrivo di Feuerbach, il gusto non solo recupera

una valenza conoscitiva, ma si avvale anche di una qualità appagante: il

piacere gustativo. Il gusto non è solo uno strumento di ricerca del cibo atto alla

                                                                                                                         51  U.  GALIMBERTI, Psichiatria e fenomenologia, cit., p. 142. 52 M. CARBONE, Leib e Körper, chairs e corpus: la filosofia e la nozione di corpo, cit., p.52.  53  R. CAVALIERI, Gusto l’intelligenza del palato, cit., pp. 7.  

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sopravvivenza, ma diviene esperienza di piacere sensoriale, infatti Feuerbach

descrive l’uomo come “il superlativo vivente del sensualismo […] il più

sensuale e il piu sensibile di tutti gli esseri del mondo. […] Soltanto in lui la

sensazione da essere relativo, subordinato ai basso scopi della sopravvivenza,

diventa essere assoluto, fine in sé, godimento in se stesso.”54 Con Feuerbach si

entra in una concezione olistica dell’uomo, in una vera e propria “filosofia dei

sensi”55: non troviamo una gerarchia sensuale, poiché tutti i sensi collaborano

all’esperienza e alla vita umana.

“Anche i sensi inferiori, come l’odorato e il gusto, si elevano nell’uomo,

alla dignità di atti spirituali e scientifici, perché diversamente dal

determinismo animale, oltrepassano i vincoli che ligano ai bisogni

fisiologici: libertà e universalità sono, infatti, tratti specifici dell’uomo

preso nella sua totalità.”56

Allo stesso modo Nicola Perullo, parafrasando alcuni passi di Wittgenstein e

Barthes, ricorda come gli aspetti più importanti e significativi per l’essere

umano risiedano nascosti nella sua quotidianità: spesso, l’uomo, si ritrova a

vivere tali atti quotidiani in modo convenzionale, senza attenzione e

consapevolezza57, reputandoli insignificanti e privi di importanza.

                                                                                                                         54  L.  FEUERBACH, Winder den Dualismus von Leib und Seele, Fleisch und Geist (1846); tr. it. Contro il dualismo di anima e corpo, di spirito e carne, in A. PACCHI, Materialisti dell'Ottocento, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 105-127, in R.CAVALIERI, Gusto il palato intelligente, Laterza, Bari 2011, p.14. 55 Cfr. G. MOSCATI, Dalla filosofia della morte alla filosofia della vita, Morlacchi editore, Perugia 2009, p. 59. Leggiamo dunque dal Contro il dualismo di corpo e anima, di carne e spirito: “ La separazione dell’uomo in corpo e anima, in un essere sensibile, è una separazione soltanto retorica; nella patica la neghiamo, tanto che quando abbracciamo un essere amato siamo convinti di abbracciare non i suoi organi o la sua apparizione, ma l’essere stesso” (Feuerbach 1846: 166). Le parole di Feurbach meritano attenzione: c’è qui, innanzitutto, l’idea della vita che afferma di fatto lo stretto, vitale direi, legame che unisce lo spirituale al corporeo; di conseguenza c’è poi la sottolineatura del carattere meramente speculativo della divisione, operata dai dualisti, dell’uomo in materia e anima; e c’è, ancora, la convinzione per cui è la sensibilità (l’essere amato) a permetterci di cogliere, direttamente l’essere tout court dell’uomo: l’essere che è al di là delle apparenze e che è in più rispetto all’elemento organico. Feurbach avrebbe ribadito in piu occasioni che il suo intento è quello di rivolgersi all’uomo integrale, “ l’intero essere umano, dalla sommità della testa fino al calcagno” (Feuerbach 1846: 47).  56 L. FEUERBACH, Grundsätze der Philosophie der Zukunft (1843); tr. it. Principi della filosofia dell’avvenire, Einaudi, Torino 1946, p.137, in R.CAVALIERI, Gusto il palato intelligente, Laterza, Bari 2011, p.15. 57 Cfr. N. PERULLO, Il gusto come esperienza, saggio di filosofia e estetica del cibo, cit., p. 44: “Ludwing Wittgestein diceva: «Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro

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“Barthes ribadiva: «Noi non percepiamo il nostro cibo, o, cosa ben

peggiore, lo consideriamo insignificante: anche (o soprattutto?) per lo

studioso, il cibo è argomento futile e colpevolizzato». Impegniamoci

dunque a osservare e a percepire il nostro cibo quotidiano, con pazienza e

fiducia.”58

Per superare questa visione unidirezionale, occorre osservare gli aspetti del

cibo e del gusto alimentare da un'altra prospettiva: il gusto, oltre ad apparato

di soddisfazione del bisogno e del piacere, deve essere considerato uno

strumento conoscitivo, comunicativo e rappresentativo. Attraverso il cibo

dobbiamo imparare a educare, a fare crescere sia fisicamente che

intellettualmente la persona: esso è un possibile mezzo di creazione della

coscienza critica. Il gusto, come vedremo, è pregno di significati che vagano

dalla sfera affettiva a quella etica, culturale e sociale e non riconoscerli vuol

dire ridurre la capacità critica dell’uomo e sminuire il potenziale delle sue

facoltà corporee.

In questo senso abbiamo in Italia uno dei più importanti esempi di utilizzo del

gusto come strumento educativo: il concetto di Slow Food, a cui fa riferimento

Carlo Petrini. La sua idea è che il gusto non serva soltanto allo sostentamento

del corpo, ma che sia piuttosto uno strumento educativo, di convivialità e di

cultura. Attraverso questi elementi si possono insegnare ai bambini e agli

adulti valori come il rispetto della terra, l’educazione al piacere, la

partecipazione responsabile alla società. Rosalia Cavalieri riassume nel Gusto

- L’intelligenza del palato, in poche righe, la storia e i principi di questo noto

movimento:

“La formazione del gusto si rivela dunque tanto un fatto biologico quanto

un fatto culturale. A Slow Food, l ‘associazione internazionale fondata

nel 1989 da petrini, con sedi in tutto il mondo. […] con l’obbiettivo di

promuovere e valorizzare il piacere legato al cibo, e di studiare,                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          semplicità e quotidianità. (Non ce ne possiamo accorgere – perché gli abbiamo sempre sotto gli occhi)».”  58  Ivi, p. 45.  

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  38  

difendere e divulgare le tradizioni agricole ed enogastronomiche di ogni

parte del mondo – va il merito di aver ideato già da diversi anni un

progetto di educazione al gusto rivolto a bambini e ad adulti, divenuto

l’obbiettivo chiave del movimento. […] La vera cultura sta nello sviluppo

de gusto non nel suo immiserimento, da qui una promozione di

educazione alimentare e al gusto basata sul presupposto che il cibo non

sia soltanto nutrimento ma soprattutto piacere e sapore, […] coniugati a

cultura e convivialità, un valore quest’ultimo che è sinonimo di dialogo,

di condivisione, di ricerca di affinità e di confronto.”59

                                                                                                                         59 R. CAVALIERI, Gusto il palato intelligente, cit., p. 26.

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  39  

III. PARTE TERZA

IL GUSTO

“Detesto l'uomo che manda giù il suo cibo affettando di non sapere che cosa mangia. Dubito del suo gusto in cose più importanti”.

C. Lamb

“Il gusto è, per così dire, il microscopio del discernimento”.

J.J. Rousseau

L’APPARATO GUSTATIVO

L’ampia rivalutazione del corpo e dei suoi sensi operata dalla filosofia

contemporanea e il loro reinserimento come elementi degni di studio e di

ricerca, danno senso e motivazione all’analisi del funzionamento dell’apparato

gustativo su cui ci soffermeremo ora.

La spiegazione di tale apparato interessa questo studio per dimostrare come il

sistema gustativo nell’ambito scientifico sia ritenuto comune a tutti gli esseri

umani. In un secondo momento vedremo come, nel determinare il gusto

personale di ogni soggetto, entrino in gioco l’esperienza, il vissuto e

l’educazione particolare dell’individuo. Da ciò determineremo come il

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  40  

giudizio di gusto sia un giuoco60 tra corpo e mente, un sistema che per sua

costituzione trascende il tradizionale dualismo psyché-sôma. Non più una

visione conflittuale tra corpo e mente o la classica concezione di separazione,

ma una collaborazione, un tutt’uno che lavora per lo stesso fine: la percezione

e la vita umana. Il sistema gustativo funziona nel seguente modo:

“Forma di sensibilità a contatto che risponde a sostanze in soluzione

agenti a livello dei recettori che si trovano sulle papille gustative dei

margini e della parte posteriore della lingua. Ogni papilla gustativa

contiene dalle 10 alle 15 cellule gustative che si riproducono

continuamente a un ritmo che permette il rinnovamento completo ogni

sette giorni. Il numero delle papille gustative decresce con l’età per cui i

vecchi sono meno sensibili ai sapori rispetto ai bambini. Gli impulsi delle

fibre nervose che originano dalle cellule gustative vengono trasmessi,

attraverso vari nervi cranici e collegamenti sinaptici, con neuroni del

tronco dell’encefalo, sino al talamo da cui proseguono verso la corteccia

dove nell’area sensitivo-somatica trovano la rappresentazione della

lingua e della faringe. Si riconoscono nel gusto quattro qualità primarie:

il dolce, il salato, l’amaro e l’acido, a cui sarebbero deputati recettori

diversi collocati per il dolce sulla punta della lingua, per l’amaro sulla

parte posteriore, per l’acido sui lati, mentre la sensibilità al salato sarebbe

diffusa. Il senso del gusto dà luogo a sensazioni immediate che, a

differenza dei suoni e delle immagini, non sono riproducibili

mentalmente, ma restano come gli odori, associati agli elementi presenti

nella situazione in cui sono prodotti.”61

Il sistema gustativo quindi si esplica principalmente in tre fasi: la percezione

tramite il poro gustativo e le sinapsi, la trasmissione del dato attraverso le fibre

nervose e la ricezione sino al talamo e alla corteccia. Suddetto apparato sarà

quindi universale per tutti gli esseri umani, potrà variare d’intensità e di

sensibilità62, ma un cibo acido sarà percepito dalle mucose della lingua come

                                                                                                                         60 Cfr. I. KANT, Kritik der Urteilskraft (1790); tr. it. Critica del giudizio, Laterza, Bari 1997. 61 AA. VV., Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano 2003, p. 489. 62 La diversa sensibilità può dipendere da alcuni fattori: la costituzione propria del soggetto; l’età biologica; la nascita di alcune patologie (come l’augesia, ovvero il deterioramento o l’assenza di

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acido dalla maggioranza63 dei soggetti. In questa sede, ciò che riteniamo di

particolare interesse è il giudizio di gusto personale di ogni soggetto. Ad

esempio, il gusto amaro sarà definibile amaro per la maggioranza, ma

solamente ad alcune persone piacerà, per altre, invece, sarà detestabile.

Abbiamo però appena visto che la percezione dell’amaro, la sua trasmissione e

la sua recezione nella corteccia, è uguale in tutti i soggetti. La domanda che ci

poniamo, a cui proveremo a dare risposta con questo studio, è la seguente:

cosa entra in gioco nel dare differenti pareri di piacevolezza e non?

Come vedremo, la possibilità di gustare il cibo in modo diverso non dipende

solo dal sistema gustativo, ma anche da quello visivo, olfattivo e tattile. Non

solo, andremo soprattutto a mettere in evidenza quanto siano importanti, nel

contesto dello sviluppo del gusto, i fattori come l’esperienza, il vissuto

personale, l’educazione e le tradizioni. Pensiamo ad esempio ai ricordi legati

alle proprie emozioni: assaporare una pietanza che rimanda alla memoria di

una persona affettivamente importante, come il piatto creato grazie alla

“ricetta della nonna”, può dare l’effetto di tornare per un istante al mondo

emotivo infantile. Il gustare, a una prima analisi, può sembrare un atto

semplice e istintivo (questo piace e quest’altro no), ma occorre precisare che,

proprio attraverso queste semplici asserzioni, creiamo la nostra personalità, le

nostre abitudini, il nostro stile di vita: in una parola, il nostro Gusto. Esso non

può quindi essere ridotto a un mero atto meccanico, ma bisogna rivalutarlo

come uno dei sensi più complessi, un momento che comprende molti aspetti e

funzioni dell’essere umano. Possiamo trovare una considerazione simile

leggendo l’articolo di Mariangela Lopopolo che offre alcuni passi e nomi di

autori interessanti per la prosecuzione della presente ricerca:

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         gusto, imputabile a lesioni cerebrali o a difetti nello sviluppo degli organi di senso); lo scatenarsi di forme psicogene (come l’isteria o la depressione). 63 Il gusto acido sarà recepito acido dai soggetti non colpiti da malattie legate all’apparato gustativo o da malattie che incidono sulla percezione degli odori e dei gusti. L’età del soggetto incide molto sulla sensibilità e quindi sulla percezione del gusto; tra gli altri fattori che alterano la percezione troviamo l’uso di medicinali, il tabagismo e l’acolismo.  

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  42  

“Il senso comune potrà senz’altro confermare che il cibo è un’esperienza

di gusto ed un piacere per chiunque. Anche se mangiamo per fame, ossia

in risposta alla «voce del corpo» che ci richiama alla necessità fisiologica

di alimentarci, mangiamo di gusto e con piacere. Beninteso, con piacere

positivo (“mi piace”) oppure negativo (“non mi piace”). Quello che

siamo soliti chiamare “gusto” risulta, in realtà, dal concorso di vari sensi

che si incontrano nella percezione dei sapori. Esso è originato dalle

papille gustative, dai recettori tattili e termici della lingua, dalla mucosa

olfattiva stimolata dagli odori del cibo, dal presentarsi del cibo stesso alla

vista, ma anche dalle sollecitazioni dell’udito, quest’ultimo in gioco

quando cogliamo la consistenza di un alimento (si pensi al croccante).

Dalla poli-sensorialità del gusto allo stato edonico, il passo è breve: il

sapore del cibo fornisce un accesso diretto al piacere (al dispiacere, se

quanto mangiamo non ci piace).”64

L’apparato gustativo, oltre a quello che abbiamo visto finora, presenta, come

proprio elemento costitutivo, un metro di giudizio che diversifica ciò che è

buono da ciò che è cattivo e ciò che è commestibile da ciò che non lo è.

Possiamo definirlo un sistema difensivo atto a riconoscere ciò che è dannoso

per il corpo da ciò che gli è salutare:

“L'importanza della sensibilità gustativa è collegata soprattutto alla

nutrizione e all'assunzione di liquidi. Il sapore di un cibo o di una

bevanda è infatti fondamentale nel determinarne la commestibilità e

l'appetibilità; il rifiuto di un cibo a causa del suo sapore sgradevole è

importante per la sopravvivenza di molte specie animali.

Schematicamente, si possono associare ai 4 sapori fondamentali funzioni

diverse: assicurare le riserve energetiche (dolce), mantenere l'equilibrio

elettrolitico (salato), monitorare il pH (acido, amaro), evitare sostanze

tossiche (amaro). Di norma, le sostanze dolci provocano una sensazione

piacevole e l'innesco di riflessi di salivazione, di deglutizione e di

preparazione del tubo digerente alla digestione e all'assorbimento. Invece,

il sapore amaro provoca sovente il rifiuto del cibo o della bevanda e, se

                                                                                                                         64 M. LOPOPOLO, Cibo, emozioni e scrittura. L’etica dei foodblog, Centro studi Camporesi, Alma Mater Studiorum, Bologna 2012, (consultato il 16 settembre 2013).

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  43  

molto intenso, stimola il riflesso del vomito: questo è presumibilmente in

relazione al fatto che la maggior parte delle sostanze tossiche presenti in

natura ha sapore amaro. Il grado di piacevolezza di un sapore è tuttavia

soggettivo e può essere influenzato dall'esperienza e dalle necessità

nutrizionali. Sia l'animale che l'uomo tendono a rifiutare un cibo dal

quale in passato siano stati intossicati. In base alle informazioni gustative

e olfattive si ha la capacità di operare una scelta tra diversi cibi e preferire

quello che fornisce l'apporto nutritivo più consono alle esigenze

dell'organismo.”65

La parte istintuale e biologica dell’apparato gustativo crea rimandi di tipo

emozionale nella persona. Questi stati emotivi possono essere positivi o

negativi rispettivamente all’assunzione da parte del soggetto di alimenti

salutari o dannosi. Infatti, la Lupton, dopo alcune interviste e ricerche,

afferma:

“Dai racconti di alcune persone è anche palese che il percepire il cibo

come "sano" o "malsano" serve a farle sentire in determinati modi quando

mangiano. Dunque introdurre nel proprio corpo certi alimenti ha un

effetto emotivo, poiché influenza la soggettività: «Ci si sente molto

meglio quando si mangia la cosa migliore».”66

Invero, un soggetto sottoposto a diverse ricerche empiriche e statistiche così

descrive il cibo salutare durante un’intervista proposta dalla stessa dottoressa:

“Non necessariamente il cibo mi fa sentire bene a livello mentale.

Secondo me il cibo dovrebbe essere qualcosa che aumenta le mie energie

ed è facile da digerire, non mi dà alcun problema, non mi dà disturbi di

stomaco, né problemi di indigestione […] Io lo mangio e so che fa bene

al mio corpo – mi fa sentire bene perché so che fa bene al mio corpo.”67

                                                                                                                         65 P. BATTAGLINI, Appunti di fisiologia dell’apparato stomatognatico, Università degli studi di Trieste, Trieste 2011, (consultato il 17 settembre 2013). 66 D. LUPTON, Food, the Body and the Self (1996); tr. it. L’anima nel piatto, il Mulino, Bologna 1999, p. 138. 67 Ivi, p. 139.  

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  44  

Analizzato il sistema gustativo dal punto di vista biologico, prenderemo in

considerazione gli altri input che vanno a formare e modificare le preferenze

alimentari. Il gusto, in ognuno di noi, è influenzato e formato dai ricordi

personali, dalle emozioni e dal piacere, così come dall’ambiente sociale e dal

confronto con l’alterità. Inoltre, un peso particolare sulla formazione del Gusto

è dato dall’educazione e dal contesto familiare, in particolare dal rapporto

figlio-genitori.

LE EMOZIONI E I RICORDI NEL GUSTO

Come abbiamo visto, il sistema gustativo di base è universale per tutti gli

esseri umani: esso può essere differenziato qualitativamente, nel senso che ci

sono soggetti più o meno sensibili (si pensi al cosiddetto palato fine), ma come

struttura, funzioni di base e costituzione, rimane un apparato comune e uguale

per tutti. In questo contesto, la parte più rilevante di tale sistema non è quella

prettamente biologica, ma quella mentale, che viene formata dalla cultura,

dalla società, dall’educazione, così come dai vissuti e dai ricordi. In questo

caso andremo ad argomentare come il gusto abbia un forte legame con i

ricordi, ovvero come, ad esempio, attraverso un aroma o un profumo, la

memoria sia in grado di farci fare salti spazio-temporali portandoci così a

rivivere le emozioni piacevoli ormai dimenticate, legate all’infanzia o a un

remoto passato.

“C’è un nesso potente tra il ricordo e la dimensione emotiva del cibo.

Dato che il cibo è un elemento del mondo materiale che incarna e

organizza le nostre relazioni con il passato, secondo modalità socialmente

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  45  

significative, la relazione tra preferenze alimentari e ricordi può essere

considerata simbiotica. I ricordi sono concretizzati, spesso rievocati,

tramite il gusto e l’odorato. Gli effetti dei ricordi sono impressi sul corpo,

nella postura, nel modo di camminare, nei gesti e nell’appetito per alcuni

cibi. Il sapore, l’odore, la consistenza di un cibo possono perciò servire

ad innescare ricordi di avvenimenti ed esperienze alimentari precedenti,

mentre il ricordo può servire a delimitare le preferenze alimentari e le

scelte basate sull’esperienza.”68

Posiamo notare, quindi, che non si crea solo il ricordo, non si forma un legame

unilaterale tra alimento e ricordo, ma bilaterale anche dal ricordo verso

l’alimento. Il ricordo sarà quindi strumento e motivazione nella creazione del

nostro gusto personale e motore agente delle nostre scelte. I ricordi, anche se

spesso idealizzati, sono sempre portatori e fonti di emozioni. Non possiamo

non ricordare il famoso episodio narrato nell’opera di Marcel Proust, Alla

ricerca del tempo perduto, dove il protagonista si ritrova trasportato nella sua

infanzia assaggiando delle briciole del "dolce Madeleine":

“Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio

palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me.

Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E

subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci,

illusoria la brevità della vita...non mi sentivo più mediocre, contingente,

mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che

era connessa col gusto del tè e della madeleine. Ma lo superava

infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva?

Che senso aveva? […] Sento in me il trasalimento di qualcosa che si

sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande

profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e

odo il rumore degli spazi percorsi... All’improvviso il ricordo è davanti a

me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la

domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua,

                                                                                                                         68 Ivi, p. 57.

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zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di

tiglio.”69

Il legame tra alimentazione, emozioni e ricordi è così strutturale e forte che è

stato spesso usato anche in vere e proprie strategie di marketing e di vendita,

influenzando inoltre scelte stilistiche di molti chef e ristoranti lussuosi [Cfr.

Lupton 1999: 58]. Le famose frasi popolari che spesso si sentono dire, come

“mi ricordano quelli che faceva la nonna” oppure “ha lo stesso profumo della

minestra della mamma”, non sono casualità o mere coincidenze, ma sono

studiate strategie che mirano a vendere quel determinato prodotto facendo leva

sui ricordi, sugli affetti e sulle forti emozioni che scaturiscono

dall’immaginario legato all’infanzia.

“La forza del legame tra cibo, ricordo ed emozione è tale che sono stati

creati profumi mirati proprio a incanalare le nostre risposte emotive verso

i sapori e gli odori del cibo. Tra i profumi, attualmente è molto in voga la

vaniglia, perché ha un effetto calmante e rassicurante, evoca ricordi

infantili legati a piaceri semplici, come le torte fatte in casa, ed emozioni

di conforto, familiarità e sicurezza. […] Secondo i ricercatori, l’odore dei

biscotti al cioccolato riduce l’aggressività; infatti, un esperto ha

dichiarato che le note "raffinate" dei profumi di successo sono «tutte

legate a ricordi di vacanze e dell’infanzia».”70

Lopopolo, oltre a confermare quanto detto sopra, riporta altri punti di interesse

per la spiegazione del gusto e del bisogno alimentare. Alimentarsi è un

bisogno primario dettato dall’autoconservazione del soggetto e della specie e,

nell’essere soddisfatto, procura piacere.71 Il gusto quindi fornisce “un accesso

diretto al piacere” come molte altre situazioni, comportamenti e ambienti. Una

particolarità del piacere sta nell’essere sempre accompagnato dalle emozioni,

                                                                                                                         69  M.  PROUST, A’ la recherche du temps perdu. Du côté de chez Swann (1913); tr. it. Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann, Mondadori, Milano 2005, pp. 47-54. 70 D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., il Mulino, Bologna 1999, p. 58. 71 Come tutti i bisogni primari e di conservazione nell’essere soddisfatti procurano piacere al soggetto agente. Il soggetto o la specie sono attratti da questi bisogni e nel soddisfarli si conservano.

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  47  

anche se possono essere di diversa intensità o origine.72 Le emozioni saranno

molto importanti per questo studio perché giocano il ruolo di collante tra varie

situazioni di cui proporremo l’analisi in seguito.

“Il piacere del cibo resta un piacere nell’esperienza di tutti. Ora, come

osserva Damasio, noto neuro-scienziato, il piacere è sia l’innesco, sia la

qualità costitutiva di molte emozioni. Esistono emozioni primarie (gioia,

tristezza, paura, rabbia, sorpresa, disgusto), secondarie (imbarazzo,

gelosia, colpa, orgoglio), di base (benessere, malessere, calma, tensione).

Non è detto che le proviamo solo in concomitanza con uno stato di

piacere, ma per ogni stato edonico è certo che ci emozioniamo. Dunque il

cibo, attraverso il gusto ed il piacere che ci provoca, comporta

l’emozione. […] Sorgendo nell’interiorità privata del soggetto,

l’emozione73 si pone nell’interfaccia tra corpo e mente, nonché sulla

soglia tra l’individuale e il sociale. Come indica la parola stessa,

l’emozione è connessa al movimento, in particolare, può essere definita

«movimento delle carni». In effetti, i fenomeni emotivi producono, in un

primo momento, le concrete manifestazioni corporee caratteristiche

dell’individuo emozionato: si pensi alle modificazioni facciali dovute al

sapore di un cibo che ci piace o no, e a tutti i vari cambi posturali,

comportamentali e nell’andamento vocale assunti quando ci

emozioniamo.”74

L’alimentarsi produce piacere, quest’ultimo è portatore di emozioni. Come

appena visto, le emozioni sono anche manifestazioni corporee e il tramite di

espressioni facciali, vocali e fisiche. Attraverso le emozioni e il loro

rappresentarsi ci relazioniamo con gli altri e con la società a noi circostante.

                                                                                                                         72 Cfr. P. DUMOUCHEL, Le corps et la coordination sociale ou les émotions (2000); tr. it. Emozioni. Saggio sul corpo e il sociale, Medusa, Milano 2008.  73 Cfr. B. RIMÉ, Le partage social des émotions (2005); tr. it. La dimensione sociale delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2008. 74 M. LOPOPOLO, Cibo, emozioni e scrittura. L’etica dei foodblog, Centro studi Camporesi, Alma Mater Studiorum, Bologna 2012, (consultato il 16 settembre 2013).  

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L’IDENTIFICAZIONE SOCIALE DELL’ALIMENTAZIONE: CULTURA

E TRADIZIONI

Il confronto con l’altro, la cultura, le tradizioni, la religione, l’ambiente sociale

in cui il soggetto nasce e vive hanno forti interazioni con l’identificazione del

sé e con la personificazione. Il linguaggio, le abitudini, gli stili, il modo di

vestirsi, sono molti gli ambiti che creano unità e identificazione all’interno di

una società. Tra questi ci sono anche le abitudini alimentari. Possiamo anzi

spingerci ad affermare che l’abitudine alimentare è una delle modalità con più

influenze, essendo anche la prima. Infatti sia il linguaggio, sia la cultura, sia le

scelte legate alla religione avvengono in età adulta; invece, le abitudini

alimentari sono il primo modo di integrarsi nella società.

“Le preferenze alimentari sono strettamente connesse con meccanismi di

autoidentificazione sociale; in tale senso ogni nuovo alimento va

incorporato nel sistema alimentare vigente, va fatto proprio, attraverso un

processo di autenticazione che lo renda autoctono, locale, "genuino", così

come avviene quando un neologismo o un vocabolo straniero viene

"accolto" in una lingua. Solo attraverso il riconoscimento dell’origine in

seno a quella comunità il nuovo nato acquistava un ruolo e uno status nel

gruppo sociale, un’identità accettata in quanto negoziata e condivisa.”75

L’alimentazione e il cibo, quindi, non sono soltanto utili per l’auto-

sostentamento, il nutrimento e il piacere che deriva dal consumare i pasti a noi

graditi. La scelta alimentare, le modalità con cui viene consumato il cibo e la

sua condivisione sono “fondamentali” per la costruzione della personalità di

ogni soggetto, delle sue abitudini e del suo carattere .

“Le abitudini e le preferenze alimentari non riguardano solo il

"rifornimento" dell’organismo, la necessità di lenire i morsi della fame o

                                                                                                                         75 A. GUIGONI, L'alimentazione mediterranea tra locale e globale, tra passato e presente, in A. GUIGONI - R. BEN AMARA, Saperi e Sapori del Mediterraneo, AM&D edizioni, Cagliari 2006, p. 1.

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il piacere offerto dalle sensazioni gustative. Il cibo e l’alimentazione sono

fondamentali per la soggettività, il senso del sé e la personificazione o il

modo decisamente soggettivo con cui "occupiamo" il nostro corpo e

sopravviviamo. Da questo punto di vista, dunque, le abitudini alimentari

e i significati o i discorsi connessi al cibo sono degni di analisi culturali e

interpretazioni dettagliate.”76

Quindi, sia in ambito sociologico che in quello psico-fisiologico, il nutrimento

ha una grande valenza. Il corpo ha bisogno di nutrirsi per sopravvivere e tale

necessità è sempre stata considerata come essenzialmente biologica, ma non

bisogna dimenticare la sua valenza socio-culturale, ambientale e simbolica.

“In qualsiasi società le pratiche alimentari sono oggetto di discussione e

interpretazione culturale; il cibo è infatti lo strumento simbolico per

eccellenza.”77

Le abitudini alimentari, pur strettamente correlate con le necessità corporee,

sono essenziali per il delineamento sociale. Definiscono infatti cultura,

tradizioni, regioni geografiche, religioni, riti, abitudini, momenti del giorno e

modalità educative.

“Il cibo è uno snodo centrale nella costruzione dell’identità, sia

individuale, sia di gruppo, etnica. Nelle società tradizionali è al centro di

cure, preoccupazioni ed ansie che coinvolgono l’intera comunità; per

questi motivi il cibo si carica di valore etico-sociale, religioso, simbolico,

esistenziale che va oltre la sfera economicistica, e che impegna l’intero

sistema etico-religioso.”78

Momento di condivisione e di socializzazione in tutte le culture, il cibo

diviene il tramite nel rapporto con l’altro. Attraverso di esso ci sentiamo parte

di un gruppo, di un’etnia, creiamo la nostra identità sia personale che sociale.

                                                                                                                         76 D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 7. 77  S.  TOSI, Sociologia, cibo, alimentazione: alcuni punti, Polo tecnologico NETTUNO Milano-Bicocca, Milano 2012, (consultato il 23 ottobre 2013).  78 A. GUIGONI, L'alimentazione mediterranea tra locale e globale, tra passato e presente, in A. GUIGONI - R. BEN AMARA, Saperi e Sapori del Mediterraneo, cit., p. 1.

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  50  

Il cibo è rapporto con l’altro: nell’uso e nel consumo di esso sono insite la

socialità, la condivisione e la convivialità:

“La convivialità si esplica soprattutto a tavola quando le persone si

incontrano e dialogano fra loro. In essa c’è l’espressione più completa

della vita relazionale, della condivisione, della solidarietà. A tavola

dialoga la famiglia, si incontrano gli uomini d’affari e i politici, si

festeggia qualcuno. È il momento della solidarietà e della condivisione.

Anche in questa relazione possono subentrare la finzione e l’inganno.

Convivialità rimane comunque il condividere fra gli uomini i beni della

terra.”79

Non possiamo dimenticare i più famosi esempi di tutta la storia dove il cibo

diventa momento di condivisione e simbolo di salvezza: “L’ultima cena” di

Gesù con i dodici Apostoli e la celeberrima moltiplicazione dei pani e dei

pesci. Tutti gli evangelisti riportano questi due eventi. Gesù, con il miracolo

della moltiplicazione dei pani e dei pesci, educa i propri discepoli alla

solidarietà e alla condivisione e, per fare questo, coglie proprio il momento del

pasto.

“Al loro ritorno gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano

fatto. Allora egli li prese con sé e si ritirò in un luogo solitario, verso una

città chiamata Betsaida. Ma la gente, appena lo seppe, lo seguì; ed egli

l'accolse e prese a parlare del regno di Dio e a guarire quelli che ne

avevano bisogno. Il giorno cominciava a declinare, e i dodici gli si

avvicinarono e gli dissero: Congeda la moltitudine, perché vadano nelle

borgate dintorno e nelle campagne per alloggiare e per mangiare, perché

qui siamo in un luogo deserto. Ed egli rispose loro: Date voi loro da

mangiare. Ma essi soggiunsero: Noi non abbiamo che cinque pani e due

pesci; a meno che non andiamo a comperare dei viveri per tutta questa

gente. In realtà erano circa cinquemila uomini. Gesù disse ai suoi

discepoli: Fateli sedere a gruppi di cinquanta. Così fecero disponendoli

tutti a sedere. Ed egli, presi i cinque pani e i due pesci, alzò lo sguardo al

                                                                                                                         79 G. DAL FERRO, La convivialità della tavola unisce ed aggrega le persone, in “Rezzara notizie”, Vicenza 2012, p.1, (consultato il 27 novembre 2013).

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cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero

alla gente. E mangiarono e si saziarono tutti; e dei pezzi loro avanzati ne

portarono via dodici panieri.”80

La tavola, anche per Gesù, è il luogo dell’intimità, delle confidenze e

della relazione.

“Quando fu l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: “Ho

desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della

mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si

compia nel regno di Dio”. E preso un calice, rese grazie e disse:

“Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento

non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio”. Poi,

preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il

mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso

modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova

alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”. “Ma ecco, la mano di

chi mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va,

secondo quanto è stabilito; ma guai a quell’uomo dal quale è tradito!”.

Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto

ciò.”81

Nella narrazione evangelica della vita e della missione di Gesù Cristo,

l’esperienza del banchetto, dello stare a tavola ritorna ancora numerosissime

volte. Si può dire che Gesù, proprio a tavola, esprime molto di sé e del suo

messaggio: a tavola, compie miracoli per rallegrare gli sposi rimasti senza

vino (Gv 2,1-11), è ospite di pubblicani e peccatori (Levi, Zaccheo) per poter

vivere con loro l’emozione della conversione e del perdono. La tavola, per

Gesù, è il luogo dell’intimità e dell’ospitalità, delle confidenze e della

relazione, della cura di sé e dell’attenzione all’altro. È dunque il luogo degli

insegnamenti, ma talvolta anche della denuncia.

                                                                                                                         80 Per la moltiplicazione dei pani e dei pesci cfr. Mt 14, 13-21; Mc 6, 39-44; Lc 9, 10-17; Gv 8, 5-14. 81 Per l’ultima cena cfr. Mt 26, 19-29; Mc 14, 12-25; Lc 22, 7-13.  

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  52  

Il cibo e il suo uso, oltre ad essere momento di socializzazione, è anche

strumento e metro di giudizio, soprattutto nelle società contemporanee perché

“determina il modo in cui un individuo viene considerato nella nostra cultura.” 82Attraverso l’assunzione del cibo e la scelta qualitativa del medesimo,

modelliamo il nostro corpo con il quale ci presentiamo agli altri.

L’alimentazione e il cibo, quindi, sono utili anche come strumento per

l’accrescimento dell’autostima e la modificazione caratteriale.

“Le abitudini dietetiche vengono utilizzate per stabilire e rappresentare il

controllo sul corpo. Il cibo può essere classificato in numerose categorie

dicotomiche: buono o cattivo, maschile o femminile, forte o debole, vivo

o morto, sano o malsano, consolante o punitivo, raffinato o volgare,

peccaminoso o virtuoso, animale o vegetale, crudo o cotto, riferito a sé o

all’altro. Ciascuna di queste opposizioni binarie ha in sé il potere di

modellare le credenze e le preferenze alimentari nella vita quotidiana, di

incoraggiare alcune scelte dietetiche e opporle alle altre e di contribuire

alla costituzione della soggettività e della personificazione.”83

Cibo e preferenze alimentari delineano quindi i confini delle società con la

stessa cultura e le stesse tradizioni84. Fin dall’antichità è stato uno strumento

simbolico di comunicazione, utilizzato per creare metafore, miti, storie e

parabole attraverso cui tramandare la cultura e gli insegnamenti. Il momento

del pasto è momento di ritrovo e confronto, l’atto quotidiano per eccellenza

che crea e unisce quel nucleo che noi chiamiamo famiglia, prima forma di

società a noi conosciuta dove l’alimentazione e il Gusto giocano un ruolo

fondamentale. Quest’ultimi sono, infatti, il primo strumento di comunicazione

tra madre e figlio, primo sistema educativo sia istintuale che culturale.                                                                                                                          82  Cfr. D. CURTIN, Food/body/person, in D. CURTIN – L. HELDKE, Cooking, Eating, Thinking: Trasformative Philosophies of Food, Bloomington, IN, Indiana University Press, pp. 3-22, in D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 32.  83 D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 54. 84 Con l’avvento della globalizzazione molte abitudini alimentari si sono mescolate, ma è anche vero che lo “scheletro” della tradizione è rimasto sempre uguale. Mantenendo la metafora dello scheletro possiamo dire che il corpo è cresciuto e la carne ha avuto le sue modificazioni, ma la struttura portante è rimasta sempre la stessa: ci sono stati scambi, influenze e contaminazioni tra culture e, quindi, innovazioni nei gusti alimentari, ma la base delle preferenze alimentari su cui poggiano le innovazioni rimane atemporale e immutabile.  

Page 54: Corso di Laurea magistrale in Scienze filosofiche Tesi di

  53  

IL GUSTO DELL’INFANZIA

Il gusto alimentare si forma sin dalla primissima infanzia con ricordi e

sensazioni che si rifanno a quando il soggetto stava ancora nel grembo della

madre ed era alimentato tramite il cordone ombelicale. Infatti, alcuni studi

dimostrano come il gusto inizi già a formarsi prima della nascita. Il bambino si

ciba attraverso il liquido amniotico della madre che, come dimostrato, cambia

sapore in base a ciò che la madre ingerisce. Si potrà quindi constatare la

predisposizione del gusto del bambino prima della nascita:

“Nell’utero il feto si nutre già attraverso la circolazione placentale […].

Come hanno rilevato gli studi, il suo sapore non è costante, ma varia

secondo ciò che mangia la madre. Si è scoperto che il piccolo ancora

nella pancia ha già i suoi gusti: infatti se lei mangia qualcosa di dolce,

anche il suo liquido amniotico si addolcisce, e il feto sembra gradire,

perché la frequenza e la durata delle sue fasi di deglutizione

aumentano.”85

Inoltre, ingerendo alcuni cibi, il feto comincerà a riconoscerne i gusti e, una

volta nato, sarà portato a ricercarli nel mondo esterno:

“Cosi c’è da presumere che gli alimenti assunti possano dare al liquido

amniotico tutta la gamma dei sapori. E il bambino si abitua, già prima di

nascere a quei sapori, andandoli così a ricercare (e a ritrovare) dopo la

nascita, nel latte materno prima, ed in seguito nel cibo solido.”86

La predisposizione fisica del bambino all’assunzione del cibo tradizionale

viene dimostrata anche attraverso gli studi sulle abitudini alimentari in uso

nelle diverse etnie:

“Gli stili alimentari umani variano infinitamente da un luogo all’altro del

globo terrestre, eppure grazie a questo meccanismo semplice ma

                                                                                                                         85 E. BARBERO - A. SAGONE, La cucina Etica, Sonda, Casale Monferrato 2010, p. 15. 86 Ibidem.

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  54  

efficiente il neonato nasce già pronto a inserissi nei menù abituali della

sua famiglia.”87

Quindi il primo rapporto bambino-gusto avverrà attraverso la figura materna e

poi attraverso quella genitoriale. Nei primi anni di vita i genitori, con le loro

scelte alimentari, trasmettono al bambino quelle che diventeranno le sue

abitudini e, in parte, i suoi gusti:

“Non ci sorprende che proprio attraverso l’alimentazione si possano

predisporre alcune basi psicologiche per l’avvio della costruzione

dell’identità e della personalità del bambino. Il sé ha già degli

antecedenti. Il cibo acquista, quindi, valore nelle prime fasi della vita

nell’ambito del rapporto madre-neonato, rapporto che può condizionare il

modo di nutrirsi del soggetto nel corso dell’intera esistenza e di percepire

la propria dimensione corporea. Cibo e alimentazione non favoriscono

l’unica condizione e necessità oggettiva per la sopravvivenza, ma

contribuiscono molto fortemente al soggettivismo con cui contattare il

mondo esterno che si appresta a incontrare. Il cibo e il gusto

rappresentano una manifestazione del contesto socio-culturale in cui

l’individuo s’inserisce.”88

In aggiunta, all’interno dell’ambito familiare, il cibo diviene il tramite

dell’amore e dell’affetto di questo nucleo: l’amore nel vedere riunita la

famiglia e l’amore della madre nel regalare piacere soddisfacendo il palato di

ognuno:

“Le credenze e i comportamenti alimentari si sviluppano dalla prima

infanzia e sono strettamente legati al nucleo familiare. Essi sono una

dimensione integrante della prima relazione che un neonato ha con chi si

prende cura di lui e dell’acculturazione dei bambini nella società adulta.

La famiglia è anche diventata il luogo più importante del coinvolgimento

emotivo, tant’è che ci si aspetta che le relazioni familiari forniscano un

sostegno emotivo duraturo e continuo. Un’emozione fondamentale

                                                                                                                         87 Ibidem. 88  R. PANI – S. SAGLIASCHI, Gusto alimentare: rigida ostinazione o educare all’apertura al mondo, Bologna 2011, (consultato il 21 dicembre 2013).  

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  55  

costantemente legata al cibo è l’amore, in particolare l’amore materno,

l’amore romantico… Nella pubblicità dei prodotti alimentari e nelle

considerazioni popolari sul cibo, queste emozioni vengono

frequentemente accostate. Le riviste femminili e gli slogan pubblicitari

hanno, per decenni, abitudinariamente costruito l’immagine della madre

come di colei che dimostra il suo affetto e la sua premura disinteressata

per i figli tramite il cibo che serve loro a casa.”89

Da qui nasce il famoso detto “cucinato con amore”, quell’amore che si sente

durante i pranzi quotidiani, le feste, le ricorrenze religiose. Attraverso lo stare

a tavola si definiscono i limiti personali e si instaurano relazioni con cariche

affettive che andranno a costituire ricordi e modi d’essere.

“A tavola, abbiamo detto, si realizza la convivialità perché la relazione

diviene condivisione. Se è vero che l’uomo è tale nella misura in cui si

relaziona con gli altri, il sedersi a tavola insieme è espressione di una

relazione profonda. Le persone si trovano una di fronte all’altra con la

propria individualità, con il proprio volto, ed insieme condividono i beni

della terra e la propria vita. Non pretendono di essere uguali, come in altri

momenti della vita, ma si accettano come diversi però uniti da una

motivazione comune e da un condiviso interesse. “Convivialità - scrive

Antonio Nanni - dice certamente più di interdipendenza, più della

solidarietà, più della convivenza democratica. Convivialità è coabitazione

e coesistenza pacifica, con-divisione piena dei beni della terra, nel faccia

a faccia dei commensali”. È una “inclusività senza imposizione”. Per

questo gli uomini celebrano i loro rapporti più significativi a tavola e

risolvono i loro conflitti con il mangiare insieme, quale segno di

riappacificazione.”90

Quindi l’alimentarsi, le preferenze alimentari, il gusto e tutti gli atti che a

questi fanno riferimento sono essenziali per la costruzione "dell’Io" e per

avere esperienza “dell’Altro”. Proprio attraverso l’Altro si comprende il nostro

essere Altro (Io, Sé), l’essere differenti:                                                                                                                          89  D.  LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 66.  90 G. DAL FERRO, La convivialità della tavola unisce ed aggrega le persone, “Rezzara notizie”, Vicenza 2012, p. 1.  

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  56  

“In tale rapporto si riesce ad accettare la diversità, anzi la si assume come

stile di vita, strumento di maturazione personale: «O la provocazione

dell’alterità disgrega quel cumulo e mette in moto la sua predisposizione

a trascendermi per cogliere nell’altro un nuovo connotato della mia

identità di uomo, o quel cumulo resiste con rigidità, come un nocciolo

duro, assumendosi come misura unica di autenticità umana, e allora in

nome dell’uomo respingo l’uomo» (Balducci). Dalla convivialità nasce la

reciprocità di cui parla Paul Ricoeur, paradigma fondamentale della

relazione basata sul valore della differenza. Una relazione è autentica

quando realizza lo scambio, il dare-avere, l’interazione, la reciprocità: «è

l’aspirazione ad una vita felice, con e per gli altri, in situazioni giuste».”91

Come sostiene anche Emmanuel Lévinas, nel momento di "prossimità" con

l‘altro si possono costruire relazioni autentiche:

“Il primo passo rappresentato dalla convivialità, secondo Emmanuel

Lévinas, è la "prossimità". Nell’incontro non è possibile possedere

l’altro: «Viviamo sempre nella tentazione di voler inglobare l’altro nel

nostro orizzonte di significato, di ridurlo a parte di noi stessi, di

esorcizzare la sua estremità». Nasce così l’esigenza di uscire da noi

stessi: «Il volto dell’altro, in quanto epifania della sua differenza da me,

infrange la mia sicurezza, mette in questione la tranquilla identità

dell’io». Nasce così la consapevolezza di condividere con l’altro i beni

della terra e la vita, superando ogni sopraffazione. Si matura così una

relazione autentica.”92

L’amore che trasmette la famiglia, le relazioni autentiche che si costruiscono

attraverso il cibo e l’insieme di questi momenti di socialità instaureranno sui

ricordi e sulla persona quella carica emotiva su cui l’educazione e la memoria

involontaria andranno a fare presa.

                                                                                                                         91 Ibidem. 92 Ibidem.  

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L’EDUCAZIONE AL GUSTO

La parte soggettiva del gusto, che per semplicità definiamo "criterio di Gusto"

(gusto personale, gusto mentale, gusto psichico) è di rilevante interesse per

questo studio, perché diviene l’unica parte passibile di modificazione e di

educazione non invasiva. Quindi, la parte soggettiva-emozionale, congiunta

alle preferenze alimentari, è strettamente connessa all’identità del soggetto e

alle sue modalità comportamentali all’interno della società.

La teoria di questo elaborato è quella che un piccolo, ma significativo

cambiamento nel soggetto porti a un possibile e importante cambiamento a

livello sociale. La teoria, che è supportata da argomentazioni e tesi ottenute in

vari campi, sia scientifici che filosofici (per questo si vedano la bibliografia e

le molte citazioni), sostiene l’educazione al Gusto, educazione che noi

chiameremo “esplicativa” con finalità compassionevole. Ciò significa educare

il soggetto a un gusto e a delle preferenze alimentari che non comportino

l’uccisione, lo sfruttamento e l’allevamento brutale di altri esseri viventi, in

modo da insinuare una lieve, ma cosciente traccia di non violenza nella vita

delle persone. Tale traccia andrà così a influenzare il suo abito sociale, il suo

stile, il suo modo di vedere e comprendere il mondo, al fine di determinare

cambiamenti significativi (parziali o totali) nella società.

Possiamo chiederci quale sia la motivazione che sta alla base di questa

particolare scelta: perché l’alimentazione sarebbe un fenomeno così

importante e complesso e perché sarebbe così opportuno educare gli esseri

viventi al "gusto compassionevole" e al vegetarianismo.

Gli studi e le ricerche compiute, assieme alla tesi qui presentata, individuano

nel gusto alimentare uno dei primi identificatori sociali, creatore di abitudini,

strumento di formazione dell’identità del soggetto uomo.

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  58  

Inoltre, come spesso dimostra lo svolgersi della storia umana, sono i

cambiamenti più lenti, più capillari e individuali che si dimostrano duraturi e

realmente significativi: dalla coscienza dei singoli soggetti prendono vita

movimenti e abitudini sociali che determinano svolte culturali ed epocali (si

pensi ad esempio al femminismo, al diritto di voto, alle leggi che hanno

regolamentato il divorzio o l’aborto).

Il cambiamento che qui proponiamo, inoltre, non è invasivo e ogni soggetto

può scegliere o meno se applicarlo alla propria vita; d’altro canto, il gusto

alimentare inizia a formarsi fin dal grembo materno rafforzandosi via via con

l’età tramite l’educazione, l’esperienza, le abitudini e il vissuto di ognuno

(confronto sociale e alterità). Il bisogno di nutrirsi è una realtà costitutiva

dell’essere umano, dunque questa necessità è, allo stesso tempo, una risorsa

insita nell’uomo che, attraverso un atto quotidiano, può essere educata al fine

di sviluppare tutte le sue potenzialità socialmente positive.

Il gusto, come dice l’etimologia93, è portatore di piacere e, di conseguenza,

carico di emozioni, quindi, avrà molto impatto sul soggetto. Una volta provato

un piacere l’uomo, come gli animali, va alla ricerca nuovamente del modo

attraverso cui soddisfarlo al fine di ottenere la sensazione di godimento.

Il cibo, sia durante la gravidanza, sia dopo la nascita del feto, è il mezzo

attraverso il quale si creano forti legami affettivi con la madre.

L’allattamento materno, inoltre, è la prima forma di contatto che l’infante

ha con un altro corpo. Il corpo della madre, entrando in contatto con il

bambino, assume una doppia valenza: da un lato funge come corpo

"contenitore" che nutre e protegge l’infante trasmettendogli amore e

comprensione; dall’altro lato è la prima figurazione del limite io-mondo

                                                                                                                         93 Lat. GǗS-TUS, che secondo il Curtis e il Bopp trae dalla radice GUŚ che è pure nel sscr. (sanscrito o antico indiano) g’ùsè trovo buono, ho di buon grado, sono contento, soddisfatto, GUŚ-TIS (ted. GUNST) favore, soddisfazione, in O. PIANIGANI, Vocabolario della lingua Italiana, Società editrice Dante Alighieri, Roma 1907, digitalizzato 11 feb. 2008, (consultato 12 novembre 2013).

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  59  

che pone il bambino a individuarsi come Altro rispetto alla madre e

lentamente come Altro rispetto al mondo.

“La relazione del neonato con il corpo materno – fonte di conforto e

nutrimento - è fondamentale per lo sviluppo della soggettività. Oliver

sottolinea che «il primo alimento che la maggior parte di noi riceve,

proviene dai corpi delle nostre madri […]. La nostra prima relazione con

un’altra persona è fondata su una relazione fisica nella quale un corpo ne

nutre un altro». Il neonato ricava piacere non solo dal ricevere nutrimento

e dal piacere di placare i morsi della fame, ma dal contatto fisico con il

corpo materno e dal ricevere amore. Tale esperienza è intensamente

carica di voluttà: il contatto con la pelle, l’odore e il calore del corpo

della madre, il sapore del latte, forniscono conforto e piacere al

neonato.”94

Il modo relazionale che il bambino vive con la madre non è di tipo

esclusivo e, durante lo sviluppo, lo spazio di confronto/individuazione

coinvolge tutto il nucleo familiare.

Questi legami affettivi, se sereni, sono cruciali per la formazione di ricordi

a cui il soggetto, una volta cresciuto, farà riferimento per elaborare un suo

equilibrio e per costruire una sua dimensione affettiva ed emozionale. Il

ricordo dell’alimentazione, se legato a momenti di tensione o di scontro

all’interno della famiglia, può sviluppare dinamiche relazionali poco sane,

legate a sentimenti di potere e frustrazione:

“Questi ricordi lasciano trasparire come, nel contesto della famiglia, il

cibo e l’alimentazione non siano associati solo alle emozioni positive –

come felicità, piacere e sicurezza – e al legame familiare. Le pratiche

alimentari all’interno della famiglia sono caratterizzate anche da lotte per

il potere e dalle frustrazioni connesse – come infelicità e ostilità – sia da

parte dei genitori che dei figli. Gli intervistati ricordano nitidamente i

sentimenti di dispiacere, rabbia, risentimento e fastidio che

                                                                                                                         94 D. LUPTON, L’anima nel piatto, cit., p. 76.

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  60  

accompagnavano le esperienze alimentari all’interno del nucleo familiare.

In situazioni nelle quali sono costretti a mangiare cibi sgraditi, spesso i

bambini si sentono impotenti, e le emozioni negative associate a queste

esperienze possono avere un’influenza e proseguire nell’età adulta.”95

L’intento è di insegnare un certo tipo di educazione alimentare e che tale

educazione vada a influenzare gli altri aspetti della vita, come le scelte

ambientali, la modalità caratteriale, la considerazione e il confronto con

l’altro. Se il ricordo dell’oggetto-cibo è legato a qualche forma di conflitto

emozionale vissuto dal soggetto, questi può sviluppare dinamiche di rifiuto

e di opposizione rispetto allo stesso oggetto-cibo. Il cibo e l’alimentazione

sono spesso usati come forme di dimostrazione d’alterità e di ribellione da

parte dell’adolescente. Dunque, notando la forte influenza che

l’alimentazione ha negli aspetti della vita, dalla formazione dell’identità del

soggetto fino ai meccanismi di relazione con l’Altro, dobbiamo considerare

il pericolo che una legittima presa di posizione del soggetto al fine, per

esempio, di rendere evidente la sua contrarietà verso i genitori, possa

degenerare fino a trasformarsi in una vera e propria patologia.

“Il conflitto che ha luogo nell’ambiente familiare può essere ricordato

non solo a causa delle dispute sul cibo in sé, ma anche per le discussioni

o le azioni malvagie messe in atto dagli adulti in risposta al

comportamento dei loro figli. Spesso le discussioni scaturiscono da

argomenti come le buone maniere a tavola o il parlare fuori turno durante

i pasti. […] Preparare pasti diversi rispetto a quelli offerti dai loro

genitori hanno rappresentato vere e proprie strategie di ribellione.”96

Invece nel caso più grave:

“Alcuni studiosi hanno sostenuto che l’anoressia rappresenta un tentativo

analogo, sebbene più estremo, di ribellarsi al potere genitoriale ed

esercitare l’autonomia tramite il rifiuto del cibo preparato in casa.

                                                                                                                         95 Ivi, p. 94. 96 Ivi, pp. 95-97.  

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  61  

Attraverso il rifiuto del cibo, quella che una volta era la figlia ubbidiente

e accondiscendente diventa una ribelle ostinata, che dimostra autonomia

sia evitando di assumere cibo, sia attraverso l’espressione fisica del suo

rifiuto, il dimagrimento.”97

Inoltre l’educazione impartita, che in questo caso sarà quella legata alla non

violenza e quindi al vegetarianismo, dovrà essere un’educazione

"esplicativa", condivisa con il soggetto e mai a lui imposta. Se vogliamo

che l’educazione faccia presa e che il soggetto la porti con sé durante la sua

crescita, deve essere un’educazione consapevole. L’imposizione è già di

per sé una violenza, non possiamo quindi pretendere di spiegare la non-

violenza attraverso la violenza. L’educazione deve essere una spiegazione

libera, poi sarà il soggetto, una volta appresa la conoscenza, a decidere se

scegliere o meno quel tipo di percorso. La violenza e il dolore che stanno

alla base di una nutrizione carnivora non vengono mai delineati nella loro

complessità, ma nascosti. In questo contesto la nostra sfida risulta ardua

perché dobbiamo combattere contro una società che mistifica questi fatti,

omettendo la vera e crudele realtà dei macelli e del trattamento animale.

Dobbiamo, inoltre, risvegliare nella coscienza umana la consapevolezza di

come l’allevamento intensivo degli animali porti, oltre al dolore e alla

morte, anche al disuso e alla perdita delle proprietà del terreno. Lo stesso

terreno, se utilizzato per la coltivazione, avrebbe più possibilità di

mantenere le proprie intrinseche proprietà (grazie, per esempio, alla forma

di coltivazione a rotazione) e, anche se ciò potrebbe essere meno proficuo a

livello economico, darebbe un notevole contributo alla risoluzione del

problema della fame nel mondo.

Quindi, per poter spiegare e dare la possibilità al soggetto di crearsi una

coscienza critica, bisognerà portarlo a conoscenza del valore degli animali,

delle loro sensibilità e capacità di essere in empatia sia con gli umani sia                                                                                                                          97 Ivi, p. 99.

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con gli animali della loro specie e non. Nel fare ciò si potrebbe mettere a

contatto il soggetto con animali vivi, fargli conoscere e capire la loro

modalità di relazionarsi, l’importanza della vita. Inoltre spiegargli il

funzionamento degli allevamenti e dei macelli e il sopruso della condanna a

morte. Queste immagini possono sembrare troppo forti e cruente per un

bambino, ma, rappresentando purtroppo la verità dei fatti, sono

significative al fine di fornirgli una conoscenza completa e complessa:

occorre dare al fanciullo, in primo luogo, la possibilità di conoscere e, in

secondo luogo, di decidere liberamente. Da un altro punto di vista, si

potrebbe affermare che omettendo queste conoscenze, ci troveremo di

fronte a un’imposizione nei confronti del bambino: quella di essere

costretto a subire indirettamente una nostra scelta. Lo stiamo

involontariamente costringendo ad accettare sia l’uso della violenza sugli

animali, sia la libertà di poter scegliere diversamente o comunque

personalmente. Purtroppo, a volte, imponiamo una scelta al fine di

distogliere il nostro pensiero da queste situazioni, o meglio, neghiamo alla

nostra volontà di pensarci, di porsi il problema, così esso, un po’ alla volta,

finisce con il non esistere.

Un’altra problematica, che tra poco affronteremo, sarà quella legata alla

relazione transitiva tra violenza sugli animali e violenza sugli uomini. Se

noi accettiamo la violenza sugli animali, infatti, stiamo comunque

accettando, in parte, la violenza come modalità di relazione: la prepotenza

nella sua forma generale, il suo uso per l’ottenimento di qualcosa, quindi, la

violenza come strumento. Questo tipo di accettazione insinua in noi la

giustificazione e ci conduce a ritenere la violenza qualcosa di normale e

quotidiano, che esiste e che fa parte del mondo, non come un atto terribile,

inumano e inaccettabile. L’accettazione è il primo segno di giustificazione

dell’utilizzo della forza come strumento verso il più debole, verso

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  63  

l’indifeso, verso ciò che è diverso. Germoglia la possibilità di porre l’uomo

contro l’uomo, l’opportunità di pensare al significato della vita e del mondo

attraverso la lente della guerra. Una volta accettata la violenza, essa si

riserverà nei vari ambiti della nostra vita: nella società, nel linguaggio, nel

confronto relazionale, nella sfera sessuale, ovvero in ogni ambito che

riguarda l’umanità, quindi nell’uomo. Ciò che abbiamo sin qui evidenziato

è quello che intendiamo per educazione esplicativa: spiegare la complessità

dei fatti, porre a conoscenza, dare una visione delle cose ad ampio raggio,

al fine di aiutare il soggetto a formarsi una coscienza critica. La coscienza

critica può permettere la scelta, l’educazione deve fornire gli strumenti

attraverso i quali il soggetto possa decidere e prendere la propria strada in

piena coscienza. Non ritrovarsi per inganno, mistificazione o ignoranza a

perdere la possibilità di scegliere autonomamente, cioè la possibilità di

riconoscere uno tra gli aspetti più significativi della dignità umana.

Questi temi non sono in realtà nuovi e nemmeno contemporanei o moderni:

già i Pitagorici ne discutevano, Teofrasto, ad esempio, ne fece uno scritto

che diventò il Della pietà. Inoltre molti sono gli esempi che si possono

trarre dall’ambito letterario, da quello psicologico o economico. Quindi

attraverso l’educazione al gusto alimentare possiamo educare al Gusto, nel

senso di stile di vita, di abitudine e di carattere. Queste argomentazioni

sovra citate supportano la tesi secondo la quale il Gusto e l’alimentazione

non definiscono solo le nostre preferenze alimentari, ma sono fondamentali

e incisivi per l’edificazione della personalità, del carattere, dello stile di

vita, dell’habitus. L’educazione al gusto alimentare e la sua valenza etica

influenzano, quindi, tutte le sfere private e sociali del soggetto in crescita.

Dopo aver constatato questo, andremo ad analizzare il motivo della scelta

vegetariana, il suo collegamento con la non violenza e la sua ascendenza

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sul carattere del soggetto e, quindi, in ultimo, le influenze che essa

comporta a livello sociale.

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IV. PARTE QUARTA

IL GUSTO COMPASSIONEVOLE

“Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”.

M. Gandhi

“Verrà un tempo in cui considereremo l'uccisione di un animale con lo stesso biasimo con cui consideriamo oggi quella di un uomo”.

L. Da Vinci

LA SCELTA VEGETARIANA

Sin dall’antichità si sostiene che è sbagliato mangiare carne per molteplici

motivi che ora andremo a elencare, spiegare e argomentare. L’unico motivo

che non affronteremo, poiché non risulta di diretto interesse per il nostro

studio, è il legame tra l’assunzione di carne e le conseguenti ripercussioni sulla

salute; però, per correttezza, lo accenneremo brevemente. Molti medici

nutrizionisti affermano che l’assunzione di carne98 ha impatti negativi di vario

genere e sostengono, invece, le influenze positive che derivano dalla scelta di

una nutrizione vegetariana. Sono molti, infatti, i grandi intellettuali nella storia

che aderirono a questa scelta: Alexander Pope, Benjamin Franklin, Thomas

Tryon, Gassendi, Samuel Richardson, Cartesio (vegetariano solo per salute,

ma promotore della vivisezione), Voltaire (assiduo sostenitore del vegetarismo

                                                                                                                         

98 Cfr. U. VERONESI, Verso la scelta vegetariana, Giunti, Milano 2011.

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e contrario alla vivisezione, che definisce un “atto di crudeltà verso gli

animali”).

Un’argomentazione che affronteremo e che ha origini antiche è quella che

dimostra la comunanza degli affetti tra esseri umani e animali con particolare

riferimento al sentimento della sofferenza: la capacità dell’animale di provare

dolore, paura, panico è simile a quella umana. L’animale, posto di fronte alla

propria uccisione, prova le stesse sensazioni di un uomo che capisce di essere

prossimo alla propria morte. La differenza tra animale e uomo in quell’attimo

terribile, in cui la possibilità di vivere la propria esistenza viene a mancare per

scelta altrui, sta nel fatto che l’essere umano ha la capacità di comunicare e di

ascoltare.

L’uomo che sta per morire chiede aiuto, implora pietà, si spiega attraverso la

parola e il linguaggio; l’animale, invece, purtroppo no: rimane lì, terrorizzato,

può solo guardare per implorare di essere lasciato in vita e, con lo sguardo

indifeso, muove la sua richiesta di aiuto silenziosa che non viene mai

ascoltata. Quella forma di preghiera, che dice: “Lasciami vivere”, è lasciata

cadere nel vuoto. Com’è arrivato l’uomo a decidere di arrogarsi tale diritto e

di sentirsi anche nel giusto a farlo? La tradizione del pensiero filosofico ha

cercato di rispondere a queste domande: troveremo chi era a sostegno di

un’alimentazione carnivora e considerava gli animali esseri inferiori e utili al

soddisfacimento dei propri bisogni e chi riteneva, invece, che essi fossero

esseri viventi degni di vita al pari degli uomini. Infatti, la cosa interessante è

che i filosofi sostenitori del “diritto animale” affermavano come il

maltrattamento e l’uccisione animale portassero l’uomo sulla strada della

violenza e della guerra tra gli uomini stessi.

Fin dai testi più antichi si cerca di esprimere e descrivere lo stretto rapporto tra

mondo animale e mondo umano, tra violenza animale e violenza umana; ora

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  67  

faremo un excursus per riassumere alcune opinioni della storia che serviranno

come supporto alla nostra tesi.

Nel testo Avestä, dove sono contenuti i brani che tramandano la storia e la

filosofia di Zarathustra, vengono descritte, sotto forma di dialogo, quali sono

le migliori azioni per onorare dio e la terra.

“Qual è l’uomo che colma la terra della gioia più grande? Rispose Ahura

Mazdâ: «È colui che maggiormente semina frumenti e pascoli e piante

fruttifere o Spitama Zarathustra; che porta l’acqua ad una terra che ne è

priva procurandosela là dove essa abbonda e bonifica le paludi».

Colui che coltiva frumento, coltiva la fede, accresce la Legge Mazdeana

di cento residenze, di mille dimore, di diecimila preghiere Yaçna.

Quando venne creato il grano, i daêva trasalirono; quando crebbe, i daêva

perdettero coraggio; quando spuntò la spiga, i daêva fuggirono come

bruciati in bocca da un ferro rovente.

Chi semina il grano semina la giustizia.

Sono da lodare tanto le anime degli animali selvaggi quanto quelle degli

animali domestici.”99

Il testo ci invita a una riflessione sul rispetto per le anime animali e per la

terra, infatti, secondo l’Avestä e lo Zoroastrismo, il cibo utile all’uomo

dev’essere raccolto da ciò che la terra, curata e nutrita, offre e l’uomo,

nell’atto d’impossessarsene, non deve creare dolore. Viene anche spiegato,

potremo dire in senso logico, come sia insensato cibarsi della carne. Uccidere

un animale per cibarsi delle sue membra è molto meno produttivo che usare

questo animale per coltivare; per esempio, il bue: sarà molto più produttivo un

bue vivo, che può essere di aiuto a tirare l’aratro in agricoltura e che attraverso

le sue feci rende fertile il terreno, piuttosto di un bue morto che viene

utilizzato per cibarsi della sua carne. Lo stesso esempio si può applicare alla

                                                                                                                         

99  AA. VV., I filosofi e gli animali, tr. it. di Giorgio Celi, a cura di GINO DITADI, Isonomia, Este 1994, vol. I, p. 258.

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gallina per le uova o ad altri animali che producono latte. Qui viene data una

spiegazione meramente economica, che tratteremo ampiamente più avanti,

senza tenere in considerazione le ripercussioni morali ed etiche rispetto al

consumo di carne.

“I demoni (daêva) disprezzano la vita animale e gli uomini malvagi

deificano il Furore con sacrifici animali. La difesa degli animali è il punto

di partenza dell’azione e del pensiero etico e sociale di Zarathustra,

impegnato nella sua lotta contro l’ingiustizia nel mondo umano. La sua

predicazione è chiaramente contraria ai preti ariani e ai potenti

dell’epoca. Iconoclasta, abbatte tutte le rappresentazioni antropomorfe e

zoomorfe, sostituendovi un’etica universale nella quale l’unico culto del

signore è il sacrificio dei nostri cattivi pensieri. La condanna contro chi

uccide gli animali è violenta. Chi uccide il bue, uccide il motore

dell’agricoltura, il produttore di fertilizzante, l’animale benefico. Non i

corpi degli animali, ma ciò che la terra ci dà senza procurare dolore ad

alcun vivente deve essere nostro cibo. «Chi semina il grano – afferma l’

Avestä – semina la giustizia». Il ciclo è completo. La terra dona

spontaneamente l’erba, il bue se ne nutre, fertilizza i campi, fatica e

lavora con l’uomo che semina il grano, ossia la pace, la giustizia.

Esaminando il problema di fondo posto da Zarathustra dal punto di vista

meramente pratico, notiamo come egli si fosse reso conto che allevare

animali per macellarli significa distruggerne il valore in quanto forze di

trazione, produttori di fibre, fornitori di fertilizzanti. Da più specie

domestiche si poteva ricavare una quantità costante di proteine animali

nella forma di latte e latticini. Insomma erano più utili da vivi che da

morti.”100

Un ultimo, ma significativo esempio, che ci fa capire la volontà di alcune

religioni, più di altre, di essere ambigue e di lasciare spazio a fraintendimenti è

il famoso passo che descrive il peccato originale che ritroviamo sia

nell’Antico Testamento, sia nella tradizione dello Zoroastrismo, ma con

alcune significative differenze:

                                                                                                                         100 Ivi, pp. 8-9.

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  69  

“Il peccato originale, consiste per Zarathustra non nel consumo di un

frutto, sia pure simbolico, ma nel consumo di carne. Yima, discendente di

Gayomart (il primo uomo), uccise un bue e ne consumò le carni

divenendo così, da buon pastore, assassino. Il bestiame è stato creato per

rendere fertili i campi. L’ Avestä vede nell’agricoltura una vittoria contro

il Male: «Qual è l’uomo che colma la terra della gioia più grande? Ahura

Mazdâ rispose: - È colui che semina più grano, piante e alberi da

frutta».”101

Invece nell’Antico Testamento :

“Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di

tutti gli alberi del giardino, ma dall’albero della conoscenza del bene e

del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente

moriresti». […] Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse

mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato dell’albero di non

mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi

ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna:

«Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io l’ho

mangiata».”102

Come si nota da una prima lettura, nella concezione Zoroastrista, il peccato

originale è legato all’uccisione dell’animale e all’uso della violenza nei

confronti dell’essere indifeso. Facendo un’analisi anche solo metaforica si

capirà come nello Zoroastrismo si voglia far capire come l’uso della violenza

e della forza sia sbagliato, anche se utilizzato per l’ottenimento della

conoscenza divina. Il fine, quindi, non giustifica i mezzi, nonostante si sappia

come, nella concezione della tradizione, la verità risieda nella conoscenza

divina. Se il raggiungimento della conoscenza prevede l’uso della violenza o,

ancor peggio, la violazione della vita, esso diviene un atto inaccettabile.

Questo passaggio è molto importante perché valorizza maggiormente la

concezione sulla non violenza rispetto alla meta, ideale o meno, da

                                                                                                                         101 Ivi, p. 9. 102 Genesi cap. 2 vv. 16-17, cap. 3 vv. 11-13, in La Bibbia di Gerusalemme, cit.

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raggiungere: se tale posizione fosse stata presente nelle legislazioni sociali e

nelle religioni, molte “guerre Sante”, atrocità e barbarie sarebbero state

evitate.

Intorno al 590 a.C. nasce Pitagora che, come abbiamo precedentemente

delineato nel primo capitolo di questo testo, si rifaceva alle credenze degli

orfici, i sostenitori e gli adoratori di Orfeo. Essi, nonostante fossero tra i primi

fautori del dualismo anima-corpo, professavano i principi della non violenza,

nel rispetto di uomini e animali. Pitagora fu uno dei primi a credere e a seguire

quello che noi chiamiamo vegetarianismo e a rifiutare i sacrifici violenti che si

servivano dell’animale come capro espiatorio.

“A coloro che tra i filosofi erano più dotati di capacità speculativa ed

erano pervenuti alle vette supreme della contemplazione, proibiva

assolutamente i cibi superflui e ingiustificati, raccomandando di non

mangiare mai animali né di bere assolutamente vino né mai di immolare

agli dei animali né di arrecare a questi il minimo danno e di rispettare col

massimo scrupolo le norme della giustizia anche nei loro riguardi. Ed egli

stesso visse in modo conforme, astenendosi dalla carne degli animali e

adorando solo gli altari incruenti e adoperandosi perché neanche gli altri

uccidessero gli animali affini a noi per natura, e correggendo ed educando

le bestie selvatiche con le parole e gli atti piuttosto che offendendole con

i castighi.”103

Vogliamo citare altri due brevi esempi che raffigurano ed esplicano il

comportamento e l’animo di Pitagora, ovvero di come egli considerasse la

violenza contro gli animali e quella contro gli uomini un atto così ignobile da

rendere disumano chi lo compiva (non degno di essere frequentato, contagioso

nel suo essere male). Un primo esempio:

                                                                                                                         103 AA. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. I, p. 263.

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“Tanto aborriva da uccisioni e uccisori, che non solo si asteneva da

mangiare esseri viventi, ma neppure si accostava a macellai e

cacciatori.”104

Un secondo esempio:

“Afferma di lui Senofane: «Dicono che egli passando accanto a in

cagnolino che veniva percosso ne abbia avuto pietà e abbia detto a chi lo

percuoteva così: - Cessa, non percuoterlo, poiché di un uomo amico è

l’animo che io riconobbi, udendo la sua voce».[…] Era Pitagora un

saggio tale che egli le carni non toccava, dicendo che era cosa empia, ma

agli altri consentiva di cibarsene. Ammiro il saggio: egli diceva di non

voler essere empio, ma ammetteva che gli altri fossero empi.”105

Teofrasto, invece, sostiene la comunanza tra uomini e animali per la

costituzione corporea delle carni, ma soprattutto per la loro capacità di provare

gli stessi affetti.

“I bambini provenienti dalle stesse origini ossia dallo stesso padre e dalla

stessa madre sono, diciamo, apparentati per natura gli uni agli altri;

inoltre diciamo che i discendenti degli stessi nonni sono apparentati gli

uni agli altri proprio come i cittadini di una stessa città lo sono per la

comunanza della terra e delle loro mutue relazioni […]. E così, penso,

che noi diciamo egualmente di un Greco di fronte ad un altro Greco, di

un Barbaro di fronte a un altro Barbaro, di tutti gli uomini, gli uni di

fronte agli altri, che sono parenti, parte della stessa razza per una di

queste due ragioni: sia per avere gli stessi avi, sia per avere in comune il

nutrimento, i costumi e la stessa razza. Similmente riteniamo che tutti gli

uomini, ma anche tutti gli animali sono della stessa razza, perché i

princìpi dei loro corpi sono per natura gli stessi (parlando così non mi

riferisco ai primi elementi dai quali provengono le piante, ma penso alla

pelle, alle carni, a quel genere di umori inerenti gli animali), e ancor più

perché l’anima che è in loro non è diversa per natura in rapporto agli

appetiti, ai movimenti di collera, ai ragionamenti e soprattutto alle

sensazioni. Ma, come per i corpi, certi animali hanno l’anima perfetta                                                                                                                          104 Ivi, p. 261. 105 Ivi, p. 265.

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mentre in altri lo è di meno; tuttavia per tutti i principi sono per natura gli

stessi. Anche la parentela delle affezioni lo mostra. Se ciò che si dice

dell’origine dei costumi è vero, tutte le specie sono intelligenti, ma

differiscono per l’educazione e per la composizione del miscuglio dei

primi elementi. Sotto tutti i rapporti, dunque, la razza degli altri animali

ci è apparentata ed è la stessa della nostra; poiché i mezzi di sussistenza

sono gli stessi per tutti come l’aria che respirano, secondo Euripide, e un

sangue rosso scorre in tutti gli animali e tutti mostrano d’avere in comune

per padre il cielo e per madre la terra.”106

Come noi proviamo dolore, anche loro provano dolore, rabbia, paura; quindi,

arrogarsi il diritto di togliere loro la vita è un’ingiustizia. Così Teofrasto:

“Sacrificando esseri viventi, si commette contro di loro un’ingiustizia, perché

si fa rapina della loro vita”.107 Teofrasto, inoltre, vede nelle cause delle

catastrofi e delle maledizioni che colpiscono l’umanità, la conseguenza di quei

riti e sacrifici di sangue commessi da molti uomini nel nome degli dei. Anche

in Plutarco si ritrovano echi della concezione di Zarathustra, così come nei

Pitagorici e negli Orfici. Plutarco, infatti, non riuscì a concepire chi fu il primo

uomo che ebbe il coraggio di mangiare carne e di sporcarsi del suo sangue;

come afferma nel testo Del mangiar carne:

“Ardì il primo fra gli uomini insanguinarsi la bocca, appressarsi alle

labbra la carne del moro animale, ponendosi avanti i serviti, le vivande e

il cibo dei corpi uccisi […] le membra che poco avanti belavano,

mugghiavano, andavano e vedevano? Come poterono soffrire gli occhi di

scorgere l’uccisione degli animali scannati, scorticati, smembrati?.”108

Plutarco fa risalire questa scelta a un tempo in cui l’uomo viveva nella fame e

nel pieno abbandono, ma oggigiorno la società è cambiata e quindi questa

modalità dev’essere combattuta e dismessa. Inoltre, sostiene che l’uomo non è

per sua costituzione carnivoro, non ha né denti, né mandibola da carnivoro e

nemmeno la sua delicata percezione dei sapori può essere accostata a quella                                                                                                                          106 Ivi, p. 297. 107 B. DE MORI, Che cos’è la bioetica animale, Carocci , Roma 2007, p. 64. 108 AA. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. I, p. 63.

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dei carnivori. Tale teoria, come riporta Gino Ditadi, è stata ampiamente

dimostrata: «Plutarco intuì ciò che oggi è acquisito e scientificamente

accertato: l’uomo è stato per millenni vegetariano».109 Come sosteniamo in

questo studio, Plutarco vede nell’inizio dell’uccisione animale ciò che permise

il cominciamento dell’uso della violenza in genere (da uomo versus animale a

uomo versus uomo): «Fino ad uccidere il bue, nostro operaio, la pecora che ci

veste, il gallo guardiano della nostra casa, e così appoco appoco, cresciuta

l’insaziabile cupidigia si pervenne al sangue, agli omicidi, alle guerre».110

Ora accenneremo brevemente ad altri filosofi che supportavano e credevano in

tale filosofia. Le argomentazioni differiscono le une dalle altre, infatti, ad

esempio, Democrito sostiene che l’uomo sia stato discepolo delle bestie e se

ne sia servito finché ne ebbe bisogno, «noi siamo stati discepoli delle bestie

nelle arti più importanti: del ragno nel tessere e nel rammendare, della rondine

nel costruire le case, degli uccelli canterini del cigno e dell’usignolo nel canto,

con l’imitazione».111 Roario, invece, paragona le affinità, le abitudini e i

sentimenti simili tra uomo e animale con le modalità nella cura dei figli o

degli anziani:

“Non esiste alcun animale per quanto debole che, deposto ogni timore,

non affronti la morte per i propri cuccioli. Questa carità è naturale e

necessaria […] senza di essa non potrebbe esserci vita animale. L’amore

dei figli per i genitori si chiama pietas ed è ben presente negli animali. I

ghiri nutrono con somma pietas i loro genitori ormai vecchi. […] Le

cicogne nutrono gli inabili per l’età avanzata. C’è, per così dire, una sorta

di venerazione verso i più anziani anche tra gli animali.”112

Anche Erasmo da Rotterdam sostiene come, attraverso la scelta di uccidere e

cibarsi di animali, l’uomo abbia colto la facilità dell’atto di uccidere e come,

di questo passo, sia giunto a considerare di facile portata anche l’omicidio tra

                                                                                                                         109 Ivi, p. 64. 110 Ibidem. 111 Ivi, p. 90. 112 Ivi, pp. 96-97.

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uomini. È seguendo questa strada che si arriva alla considerazione della guerra

come presenza inevitabile nella storia, guerra che, oggi, è divenuta

permanente.113

“Non esiste pratica, per quanto infame, per quanto atroce, che non si

imponga, se ha la consuetudine dalla sua parte. […] a forza di sterminare

animali, s’era capito che anche sopprimere l’uomo non richiedeva un

grande sforzo […] da quella frase siamo arrivati a tal grado di frenesia,

che tutta la nostra vita è dominata dalla guerra.”114

Inoltre è interessante vedere quanto la concezione dualistica abbia contribuito

a rafforzare e giustificare l’idea che la soppressione animale sia utile per

l’alimentazione o per la sperimentazione da laboratorio. Come sosteneva Jean

Meslier, il dualismo cartesiano spostava l’attenzione sul concetto e sulle

funzioni dell’anima degradando il corpo a semplice macchina e strumento.

Difatti, per Cartesio, non sussisteva alcuna differenza tra il decostruire una

macchina per capirne il funzionamento e il vivisezionare un animale per farne

strumento di studi in laboratorio.

“È una crudeltà, una barbarie uccidere, accoppare, sgozzare animali che

non fanno niente di male, essi sono sensibili al male e al dolore come noi,

malgrado ciò che dicono vanamente, falsamente e ridicolamente i nostri

nuovi cartesiani che guardano a loro come pure macchine senz’anima e

senza alcun sentimento e che per questa ragione – e su un vano

ragionamento che fanno sulla natura del pensiero di cui pretendono

l’incapacità a produrlo da parte della materia – li dicono interamente privi

di ogni conoscenza e di ogni sentimento di piacere e di dolore. Ridicola

opinione, massimamente perniciosa, detestabile dottrina che tende

manifestamente a soffocare nel cuore degli uomini tutti i sentimenti di

bontà, di dolcezza e di umanità che potrebbero avere per questi poveri

animali.”115

                                                                                                                         113 Cfr. G. ORWELL, 1984 (1949); tr. it. di Stefano Manfredotti, Mondadori, Milano 2003.  114  AA. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. I, p. 91. 115 Ivi, p. 141.

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Molti altri si scagliarono contro la concezione meccanicistica cartesiana; ad

esempio, Voltaire, sulla famosa “Correspondance”, attacca duramente e

pubblicamente Cartesio, in difesa del mondo animale. Egli sosteneva che fosse

un’assurdità considerare gli animali come delle macchine per il semplice fatto,

ad esempio, che essi non si sapessero esprimere attraverso il linguaggio.

Infatti, dice Voltaire, come risulta intuibile capire se un uomo è inquieto,

arrabbiato o gioioso anche senza che ciò venga dimostrato verbalmente, così è

chiaro e palese capire cosa possa provare un animale tramite la considerazione

delle sue movenze e delle sue proprie modalità di espressione. Vediamo ora il

passo sovra citato:

“Che vergogna, che miseria aver detto che le bestie sono macchine prive

di conoscenza e sentimento, che fanno sempre tutto ciò che fanno nella

stessa maniera, che non imparano niente, non si perfezionano ecc.!

Come? Quell’uccello che fa il suo nido a semicerchio quando lo attacca a

un muro, che lo fa a quarto di cerchio se lo mette in un angolo, e a

cerchio intero intorno a un ramo, quell’uccello compie sempre i suoi atti

allo stesso modo? Quel cane da caccia che tu hai allevato per tre mesi non

ne sa forse di più dopo quel tempo, di quanto ne sapesse prima delle tue

lezioni? Quel canarino a cui tu insegni un’aria la ripete forse

immediatamente? Non è forse vero che ci mette un certo tempo a

impararla; e non hai osservato che talvolta egli sbaglia e si corregge?

Forse è perché io ti parlo, che tu giudichi ch’io abbia sentimento, la

memoria, delle idee? Ebbene! Non ti parlerò più: tu mi vedrai rincasare

con aria afflitta, cercare una carta con inquietudine, aprire l’armadio dove

mi ricordo d’averla rinchiusa, trovarla, leggerla con gioia. E tu ne deduci

che io ho provato il sentimento dell’afflizione e quello del piacere, che ho

memoria e conoscenza. Giudica allora allo stesso modo questo cane, che

non trova più il suo padrone, che lo ha cercato per tutte le vie con grida

dolorose, che rincasa inquieto e agitato, sale, scende, va di stanza in

stanza, trova infine nello studio il padrone che egli ama, e gli testimonia

la propria gioia con la dolcezza del suo mugolio, coi salti e le carezze. I

barbari uomini prendono questo cane che suol vincerli così facilmente

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  76  

nell’amicizia: lo inchiodano su una tavola, e lo sezionano vivo per

mostrarti le vene mesenteriche. Tu scopri in lui gli stessi organi di

sentimento che sono in te. Rispondimi, o meccanicista, la natura ha

dunque combinato in lui tutte le molle del sentimento affinché egli non

senta? Il cane ha dei nervi per essere impassibile? Non fare più di queste

balorde supposizioni.”116

Applicando tale concezione agli esseri umani e considerando che il dualismo

cartesiano valorizza maggiormente l’anima rispetto al corpo, tramite la nota

asserzione del «cogito ergo sum», si giunge a capire come il corpo, per

Cartesio, non fosse altro che una “macchina”, se pur ben strutturata. Ora,

seguendo questo tipo di pensiero, risulta più semplice ammettere e giustificare

la violenza sul corpo, essendo appunto l’anima l’essenza della vita. Sarà

quindi anche più facile accettare l’uso delle torture per l’estirpazione del male

così come l’efficacia delle “guerre Sante” per la causa divina. Si

giustificheranno i metodi dell’Inquisizione perché “mirati” alla purificazione,

si tollererà la lapidazione assieme a tutte quelle forme di violenza che, nel

corso della storia, sono state strumentalizzate al fine di promuovere la

salvezza eterna dell’anima (il corpo muore ma l’anima si salva).

Ulteriormente, se l’uomo usa cotanta violenza verso il suo simile, possiamo

considerare a quale livello di bassezza morale giunga nei confronti di un

essere che ritiene a lui inferiore.

                                                                                                                         116  VOLTAIRE, Correspondance, Génève 1953-1965, vol.IV, p.193, in I filosofi e gli animali, tr. it. di Giorgio Celi a cura di GINO DITADI, Isonomia, Este 1994, vol. I.  

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  77  

IL GALLO CON GLI SPERONI

In questo paragrafo affronteremo l’arduo problema dei diritti degli animali, la

morale condivisa e l’uso giustificativo del non sapere e del non informarsi per

comodità o paura. Dimostreremo come, nelle società odierne, sia già punita la

violenza contro gli animali, ma solo per alcuni casi e come invece, per altri,

sia legale. Noteremo quindi come la regolamentazione sui diritti degli animali

sia fittizia, ovvero come essa mascheri il bisogno umano di una coscienza

pulita e quindi non partecipe ad atti crudeli e violenti. Infatti, sotto la

protezione della favola-legge, scarichiamo la responsabilità di scelte votate

all’impiego della violenza sulla legislazione, permettendo così,

quotidianamente, l’uso della forza e dell’uccisione. Inoltre porteremo alla luce

alcuni esempi atti a rendere noto come non esistano violenze minori

accettabili, poiché la violenza è una, uguale a se stessa e non accettabile.

Anzi, cercheremo di portare alla consapevolezza di come, in realtà, già nessun

uomo di per sé accetti la violenza, ma come si ritrovi senza saperlo ad

accettarla e ad appoggiarla o, nei casi peggiori, a fingere di non sapere.

Vedremo, inoltre, come la scarsa informazione e la mistificazione della realtà

partecipino largamente al processo che conduce al consenso sulla violenza.

Ora, il concetto sembra un gomitolo aggrovigliato, ma affrontando un passo

logico alla volta, esso apparirà presto con chiarezza ed evidenza.

Per addentrarci nel discorso proponiamo un passaggio di Tom Regan, nel

quale egli afferma come possa oggi sembrare ridicolo e far sorridere il parlare

di diritti degli animali, ricordando però come potesse sembrar ridicolo, in

passato, il parlare di diritti da attribuire alle donne o ai “negri”: ciò sembrava,

infatti, totalmente assurdo agli occhi della popolazione maschile e a quelli dei

cosiddetti “bianchi”.

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“Ora, a molti l’idea di diritti animali parrà ridicola, simile, quanto a

serietà, alla proposta, avanzata qualche anno fa da un personaggio

rimasto anonimo, di far indossare agli animali in pubblico dei vestiti, in

quanto altrimenti essi violerebbero una consolidata legislazione

antinudismo. L’obiettivo di cambiare la testa agli spiritosi, ammesso che

sia un assoluto realizzabile, non lo sarà facilmente. La cosa da capire,

tuttavia, è che quanto troviamo comico a volte ci dice, di noi stessi e della

nostra epoca, più di quanto potremmo supporre. Inganneremmo noi stessi

se pensassimo che razzisti e sessisti non trovano ridicola l’idea di diritti

attribuiti ai negri o alle donne. Dobbiamo guardarci dal nostro riso, per

timore di assumerlo come segno rivelatore della verità o della

ragionevolezza del pregiudizio che talvolta esso esprime. Così, benché

qualcuno possa mettersi a ridere, questo non surroga di certo una

dimostrazione. Ed è proprio una dimostrazione che manca.”117

Questo discorso, quindi, può sembrare incomprensibile a quelle persone che

non sono abituate a porre in discussione le proprie idee, le proprie usanze e i

propri costumi: oggi sembra inaccettabile che i diritti delle persone possano

essere legati al colore della pelle o alla sessualità, ma tutto può cambiare se

cambia la prospettiva da cui guardiamo le cose. Per poter cambiare

prospettiva, però, bisogna essere disposti a conoscere, sapere, ascoltare,

informarsi. Questa disposizione d’animo riguarda gli adulti, per i bambini,

invece, necessitiamo di un tipo d’educazione particolare. L’orientamento

interiore alla conoscenza si concreta attraverso un particolare tipo di ascolto,

libero da preconcetti o sistemi di giudizio prestabiliti. Per rendere l’idea

usiamo la seguente immagine: pensiamo a un bambino che si fa raccontare

una fiaba. Per quanto possa già averla udita, il piccolo si porrà in ascolto con

lo stupore e la curiosità tipiche di chi la sente per la prima volta e non si

permetterà mai di creare un’interruzione tra il “C’era una volta...” e il “...E

vissero felice a contenti”. Dunque, per comprendere la complessità del reale                                                                                                                          

117 AA. VV., I filosofi e gli animali, cit., vol. II, p. 929.

 

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che ogni giorno si arricchisce di sfumature e movimenti, occorre allenare

l’anima a una certa flessibilità di ascolto e avere, soprattutto, la pazienza di

ascoltare tutto, fino alla fine. Per poter comprendere bisogna saper ascoltare in

completezza. Questo è quello che siamo oggi chiamati a fare, ricordando

quegli uomini che hanno permesso i cambiamenti più significativi della storia

dei diritti umani.

Ora, in questo contesto, dobbiamo prima di tutto cominciare a pensarci come

abitanti di questo pianeta assieme ad altri abitanti che sono gli animali. Noi ci

siamo arrogati il diritto di dominare gli animali solo perché siamo in grado di

farlo, per superiorità di capacità mentali e talvolta fisiche, ma la questione è

come giustifichiamo il diritto di farlo o comunque perché ci ritroviamo a farlo.

In sintesi, possiamo affermare che essendo più potenti abbiamo usato il nostro

potere con violenza sul mondo animale, ma senza ritenere opportuno avere un

motivo per fare questo. Parliamo di moralità e giustizia nelle nostre società

moderne e allora ci chiediamo: “È giusto permettere questa violenza? Essa

rientra nella morale umana? È la stessa morale che tanto ci innalza dagli altri

animali e ci rende appunto umani?”. Cercheremo ora di rispondere in parte a

queste domande, cominciando a capire come giungiamo alla giustificazione

della violenza sugli animali.

Il motivo principale che giustifica queste nostre azioni è quello utilitaristico,

che, come abbiamo visto anche nei capitoli precedenti, trae le sue origini da

concezioni antiche: prima di tutto quella del dualismo anima-corpo. Il corpo,

nella tradizione filosofica occidentale, viene svalorizzato rispetto all’anima,

viene concepito come una macchina. Proponiamo ancora un breve passo

cartesiano, L’homme, che delinea i tratti del corpo-macchina:

“Vi prego poi di considerare che tutte le funzioni da me attribuite a

questa macchina, digestione dei cibi, battito del cuore [...] recezione della

luce, dei suoni [...] impressione delle loro idee nell'organo del senso

comune e dell'immaginazione, ritenzione o impronta di tali idee nella

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  80  

memoria; movimenti interni degli appetiti e delle passioni; e infine

movimenti esterni di tutte le membra [...] vi prego, dico, di considerare

che tutte queste funzioni derivano naturalmente, in questa macchina,

dalla sola disposizione dei suoi organi, né più né meno di come i

movimenti di un orologio o di un altro automa derivano da quella dei

contrappesi e delle ruote; sicché, per spiegarle, non occorre concepire

nella macchina alcun'altra anima vegetativa o sensitiva, né altro principio

di movimento e di vita oltre al suo sangue e ai suoi spiriti agitati dal

calore del fuoco che brucia continuamente nel suo cuore, e che non è di

natura diversa da tutti i fuochi che si trovano nei corpi inanimati.”118

Per Cartesio, però, l’uomo ha l’anima che si configura nella parte razionale e

nella capacità dell’uso del linguaggio, a differenza degli animali che non sono

né in grado di ragionare, quindi non coscienti, né in grado di usare il

linguaggio:

“Questo non attesta soltanto che le bestie hanno meno ragione degli

uomini, ma che esse non ne hanno affatto. Perché si vede che per saper

parlare ne basta pochissima. [...] né si deve pensare, come qualche antico

[Lucrezio], che le bestie parlino anche se noi non ne intendiamo il

linguaggio: se questo fosse vero, poiché sono provviste di parecchi organi

che corrispondono ai nostri, potrebbero farsi intendere da noi altrettanto

bene quanto dai loro simili.”119

Quindi, per Cartesio, l’animale è solo corpo e non possiede affatto la ragione.

Ora, però, sappiamo, come abbiamo largamente visto nel paragrafo

precedente, che non possiamo considerare l’animale solo corpo perché gli

affetti, le modalità espressive, la pietas dell’animale e molti suoi

comportamenti riconducono similmente a quelli umani e, inoltre, non abbiamo

le facoltà per dimostrare l’esistenza o la non esistenza dell’anima, sia animale

che umana. A questo proposito:

                                                                                                                         118  R. DESCARTES, L’homme (1664); tr. it. L’uomo, Boringhieri, Torino 1960, p. 120.  119  R.  DESCARTES, Discours de la method (1637); tr. it. Il discorso del metodo, in Opere filosofiche, Utet, Torino 1981, vol. IVI, p. 58.

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  81  

“Anche Pierre-Louis Moureau de Maupertuis, filosofo e scienziato che

nel 1732 introdusse in Francia il newtonianesimo, non accetta le tesi

cartesiane. Maupertuis ritiene del tutto inadeguato il meccanicismo per

spiegare i fenomeni della vita e della sua riproduzione. Egli aderisce

all’ipotesi vitalistica di molecole organiche dotate di un qualche grado

di coscienza. La distinzione tra sensazione e pensiero è per Maupertuis

frutto di scarsa conoscenza del vivente. Ogni sensazione, ogni

percezione è un pensiero. Non ha senso attribuire all’uomo un’anima

pensante e alle bestie un’anima sensitiva; come non ha senso – perché è

impossibile – dimostrare che le bestie hanno un’anima o provarne che

ne sono prive.”120

Ci soffermiamo, ora, un po’ più dettagliatamente, sull’analisi di alcune

concezioni e contraddittorietà insite nella morale attuale e nelle leggi che

regolano la nostra ambigua società. Tutto gira attorno all’indefinita

concezione che abbiamo degli animali, una concezione che sembra mutare in

base alla situazione, all’uso, alla morale vigente, al giudizio che la cultura dà

di quel determinato fenomeno. Non sembra esistere un pensiero unico, non

sembrano esistere né una morale, né un sistema legislativo coerenti.

Prendiamo come esempi l’abbandono degli animali, il maltrattamento, i

combattimenti illegali: tutti questi comportamenti violenti sono puniti dalla

legge e sono considerati dall’opinione pubblica come moralmente non

accettabili. Invece, l’uccisione di animali per scopi alimentari, il loro

allevamento costrittivo in gabbie, la realtà dei macelli e la somministrazione di

farmaci, sembrano essere una consuetudine quotidiana, accettabile e condivisa

dalla morale comune, nonché difesa e regolamentata dalle leggi. Un altro

aspetto è quello della vivisezione che, pur essendo una realtà condivisa

moralmente da meno persone, è ancora una forma di violenza regolamentata,

difesa e permessa all’interno dello Stato. Ci domandiamo allora come possano

esistere queste contraddizioni, come sia possibile che la violenza venga

                                                                                                                         120 AA. VV., I filosofi e gli animali, cit.,vol. II, pp. 144-145.  

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  82  

diversificata: ciò pare assurdo, e non intendiamo assurdo in senso meramente

etico, vogliamo dire che questo è paradossale per logica e per coerenza. Un

certo tipo di violenza viene legittimata e condivisa, invece un altro tipo di

violenza viene messa al bando e marchiata d’infamia. Il dilemma è come si

possa parlare di violenze particolari, di tipi di violenze diverse: violenze giuste

o violenze ingiuste. A questo punto le domande sorgono spontaneamente: “È

logico questo? Si può parlare di tipi diversi di violenza? Uccidere un animale

per mangiarlo è diverso da ucciderlo per testare cosmetici e medicinali?

Lasciarlo morire in solitudine, perché si è deciso di non accudirlo o picchiarlo,

è da considerare più grave di farlo nascere al fine di rinchiuderlo in gabbie e

poi ucciderlo? È corretto? In che modo può crescere un bambino con questi

messaggi contradditori? Che tipo di morale e che capacità critica andrà a

formarsi finché i messaggi che gli arrivano sono confusi e mescolati con la

violenza? Non andrò ora ad approfondire queste domande, ma mi riserverò

uno spazio alla fine per cercare di illustrarne le risposte.

Cerchiamo di capire se può esistere un’uccisione giustificata e moralmente

accettabile e una, invece, immorale e inaccettabile: uccidere è sempre

uccidere? Come si può decidere se uccidere una specie animale al posto di

un’altra sia giusto o no? Come possiamo affermare che uccidere un maiale,

una mucca, un coniglio sia accettabile e normale e invece uccidere un cane o

un gatto non lo sia? Per spiegare come la violenza sia sempre violenza e come

non esista violenza accettabile o meno, sposteremo la discussione dagli

animali agli umani: l’atto in sé e la crudeltà che lo accompagna sono sempre

gli stessi. Le affermazioni fatte circa le violenze sugli animali potrebbero

presentarsi in modo simile e parallelo per gli uomini: usare la violenza su un

uomo che ha commesso un atto ingiusto e inaccettabile, come uccidere, è

condiviso o può essere condiviso dalla morale comune (ad esempio, la pena di

morte), così come la violenza su una persona indifesa è considerata sbagliata e

punibile dalla legge. Quindi si può affermare che nelle nostre società, se la

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  83  

violenza è condivisa e accettata dalla maggioranza, è moralmente giusta e

applicabile attraverso la legge. Entrando in questo ambito ci accorgiamo della

pericolosità di tali argomentazioni (ad esempio l’inaffidabilità del concetto di

maggioranza), infatti, a rigor di logica, seguendo quanto detto, dovremo

accettare come moralmente giuste e legali le leggi razziali fasciste e il

nazismo, perché all’epoca furono accettate dalla maggioranza. Ovviamente

stiamo usando degli esempi volutamente forti e provocatori al fine di indicare

come esista solo un tipo di violenza: la Violenza.

La Violenza non può essere definita particolare, non può essere legittimata in

alcuni casi e in altri no: o la si accetta o la si rifiuta. Non può esistere una

violenza utile e una violenza inutile. La violenza porterà sempre all’uso di

ulteriore violenza, il più piccolo gesto violento ci porterà lentamente ma

quotidianamente, verso grandi tragedie.

Il primo gesto violento di cui noi parliamo è proprio la violenza sugli animali.

Quindi, tornando a noi, perché la violenza sugli animali in alcuni casi è

accettata (esempio: vivisezione) e in altri no (esempio: abbandono di un cane).

La giustificazione più usata è l’utilità, cioè se uccidiamo un animale per

qualcosa di utile come il cibo allora uccidere l’animale sarà giusto. Ma è

veramente utile uccidere un animale per l’alimentazione? Soprattutto, se

fossimo a conoscenza di come gli animali vengono uccisi e di cosa provano,

vorremmo ancora cibarci dei loro corpi?

La produzione di carne non è utile e tantomeno necessaria, come dimostrato

da molti studi; in termini di risorse prime è molto più dispendiosa di quella

vegetale e, allo stesso tempo, sfama molta meno popolazione. Come sostiene

la campagna pubblicitaria dell’Expo 2015 nel prossimo futuro dovremo

abituarci all’idea di consumare sempre più verdura e sempre meno alimenti di

derivazione animale.

“2050: solo frutta e verdura per la popolazione mondiale. Produrre 200

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  84  

grammi di carne rossa comporta l’utilizzo di 3.000 litri di acqua. Ecco

perché nel prossimo futuro gli esperti prevedono una dieta vegetariana in

grado di ridurre il consumo di acqua e terreni, risorse sempre più rare.

[…] Dietro ai pasti che consumiamo quotidianamente ci sono enormi

quantità di acqua: circa 3.600 litri per un’alimentazione a base di carne e

2.300 litri per una dieta vegetariana». La popolazione aumenta e le

risorse diminuiscono. Una dura verità per i cittadini di mezzo mondo che

dovranno presto abituarsi a diminuire le dosi di carne consumata,

preferendovi abbondanti quantitativi di frutta e di verdura.”121

Allora, perché si continua a consumare carne se è dispendioso per il pianeta?

Le risposte sono molteplici; una, ad esempio, riguarda gli interessi economici

dei produttori di carne. Questo è dimostrato dalla anche risposta che ha

ricevuto lo spot dell’Expo che si è visto chiamare in causa dai produttori e

allevatori di carne argentini. Inoltre, dobbiamo pensare a tutte le

multinazionali che vivono attorno al mercato della carne: le molte case

farmaceutiche, gli addetti ai controlli, le miriadi di fast food. Non dobbiamo

dimenticare che il controllo alimentare è una forma di potere. Molti stati del

terzo mondo sono tuttora sottomessi dal colonialismo finanziario per problemi

legati alla fame. Se questi stati risolvessero il problema dell’emergenza

“fame” forse non sarebbero più costretti a svendere le loro preziose risorse,

utili spesso solo al mantenimento dello stile di vita dei paesi più sviluppati.

Questi argomenti avrebbero bisogno di una lunga trattazione e di un adeguato

approfondimento, ma non è questa la sede appropriata per farlo. Ci sembrava

ad ogni modo corretto accennare brevemente anche a queste situazioni

collegate all’uso di carne nelle nostre tavole. Il nostro studio, più che riferirsi

ai problemi legati all’economia e al sociale, vuole concentrarsi sui legami tra

alimentazione, cultura ed educazione.

                                                                                                                         121 EXPO 2015 CONTACT, 2050 solo frutta e verdura per la popolazione mondiale, in FOOD 4 LIFE -Stili di Vita -, (consultato il 18 settembre 2012).

 

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  85  

LO STILE SOMATICO

Abbiamo visto in questi capitoli la grande interazione e l’influenza che

esiste tra gusto alimentare e i vari ambiti che vanno a formare il carattere e

la personalità: l’ambiente sociale, la cultura, la famiglia, l’identificazione di

sé, il rapporto con l’altro e l’educazione. La teoria supportata con il

presente studio sussiste nella modificazione del gusto alimentare tramite

l’educazione di tipo «esplicativo» e non autoritario. Il punto cruciale fa

forza sul concetto che, attraverso l’educazione alimentare, si possano

influenzare tutti gli altri aspetti ad essa collegati, o collegati alla formazione

dello stile di vita del soggetto. Attraverso l’influenza cosciente del

soggetto, influenzeremo le scelte che egli farà all’interno della società e

quindi, indirettamente, cambieremo il campo sociale. Più semplicemente la

società risentirà delle influenze e dei cambiamenti dello stile di vita del

soggetto.

La teoria prosegue mirando ad avvicinare il soggetto al vegetarianismo e

quindi, anche alla non violenza. Il vegetarianismo è una scelta alimentare

che ha già insite in sé delle valenze etiche e dei principi morali di non

violenza, quindi ha sostanzialmente un doppio supporto per la nostra tesi.

Attraverso un’educazione esplicativa e diretta si daranno al soggetto tutte le

conoscenze di cui ha bisogno per comprendere la diversità tra una

alimentazione vegetariana e una di derivazione animale.

Facendo riferimento a teorie dello sviluppo e di psicosomatica vediamo

come le prime esperienze istintuali, in particolare quella dell’alimentazione,

servano a organizzare le operazioni psichiche: le buone esperienze di

soddisfazione e di gratificazione sono legate alla pulsione libidica. Inoltre

cominciano a formarsi le seguenti nozioni: io e non io, i primi ricordi legati

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  86  

all’infanzia, le prime forme di scambio e di relazione con il mondo e con

l’altro, tutti eventi che influenzeranno in modo determinante il

funzionamento della persona in età adulta. Abbiamo già visto come

l’alimentazione sia il primo mezzo di approccio alle emozioni: attraverso il

rapporto con la madre, il riconoscimento sociale e il rapporto con l’altro

(tradizione, cultura e convivialità), la creazione di ricordi (rapporto con la

famiglia e infanzia). Un’ulteriore forza educativa e incisiva del gusto

alimentare è data dal suo essere un atto quotidiano, quindi ripetitivo e

strutturale.

Il gusto alimentare, una volta appreso e condiviso dal soggetto, influenzerà

anche altri gusti particolari, ad esempio la scelta di non usare pellicce o

quella di non usare prodotti testati sugli animali. Questo è, usualmente, un

percorso lento, ma appreso dalla maggior parte delle persone che si

avvicinano al vegetarianismo e, di conseguenza, alla non violenza.

Lo stile di vita è somatico, soprattutto nel suo venire esteriorizzato, ma

anche nella sua costituzione, come ben descrive Richard Shusterman nel

testo Stili di vita:

“Senza appoggiare la prospettiva di Thoreau sullo stile quale mezzo

fisico per scopi mentali (e lasciando sospesa la critica successiva di

questo punto di vista negli stessi scritti di Thoreau), possiamo affermare

che ha riconosciuto la natura fondamentale somatica dello stile. Se lo

stile mentale e di pensiero di qualcuno è in qualche modo corporeo – sia

tramite la voce che attraverso la scrittura (come affermano anche questi

due famosi trascendentalisti) -, allora sembrerebbe che ogni stile umano

sia in qualche modo somatico.”122

Lo stile di vita, oltre a essere un atto corporeo, è anche la nostra

rappresentazione mentale, quindi lo potremo meglio definire come “stile di                                                                                                                          122 R. DREON – D. GOLDONI – R. SHUSTERMAN, Stili di vita. Qualche istruzione per l’uso, Mimemis, Milano 2012, p. 16.

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vita psicosomatico”. Shusterman, infatti, lo definisce come espressione

creativa di sé attraverso l’uso del corpo e dell’esperienza.

“ Studio cruciale e migliorativo dell’esperienza e dell’uso del proprio

corpo come luogo di apprezzamento estetico-sensoriale (aisthewsis) e di

modellamento creativo di sé avrebbe potuto anche essere formulato in

termini di “stilizzazione creativa di sé.””123

Tali teorie sono di pubblico interesse perché non rimangono solo teorie

espresse, ma trovano un vero e concreto riscontro nella realtà dei fatti.

Effettivamente, la personalità viene spesso espressa tramite lo stile e

l’atteggiamento della persona stessa.

“La propria personalità è davvero espressa nello stile somatico. Un

individuo mite o timido spesso può essere riconosciuto da una postura

curva, da uno sguardo basso che non ce la fa a guardare negli occhi, da

una camminata esitante e da un movimento gestuale trattenuto o inibito.

Wittgenstein sicuramente lo sapeva, poiché affermò non solo che «il

corpo umano è la migliore immagine dell’anima umana”, ma anche” che

lo stile di uomo è la sua immagine».”124

Lo stile somatico non è un rimando a un’immagine di sé o a una banale

rappresentazione, ma è la vera espressione della personalità, conscia e

inconscia. «Lo stile somatico, dunque, non è semplicemente un’immagine

esterna del carattere, ma una sua espressione o una sua parte integrante, perché

il carattere non è meramente un’essenza interna segreta, quanto piuttosto

qualcosa che è espresso intrinsecamente o è costituito attraverso il

comportamento somatico, il modo di fare, l’atteggiamento».125 Tramite lo stile

somatico non si rivelano solamente l’atteggiamento, i modi o gli interessi.

Esso diviene piena espressione del «vero carattere»,126 facendo emergere

                                                                                                                         123 Ivi, p.17.  124 Ivi, p.19. 125 Ivi, p.20. 126 Cfr. G. L. LECLERC DE BUFFON, Le style cèst l’homme même (“Lo stile è l’uomo stesso”), in Discours sur le style (1749); tr. it. Discorso sullo stile, Edizione Studio Tesi, Pordenone 1994.

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  88  

anche quelle parti di noi che non vogliamo far trapelare, ma che attraverso

la comunicazione non verbale, ad esempio con lo sguardo, esprimiamo.

“(Analects 17:9) Perciò il suo discepolo Mencio potè scrivere. “Ogni suo

membro porta testimonianza senza parole. Questo ruolo cruciale dello

stile somatico nell’istruzione etica è il motivo per cui il Libro Decimo

degli Analecta è dedicato a descrivere il comportamento somatico di

Confucio (i diversi modi in cui mangiava, vestiva, si inchinava,

camminava, e così via, in quanto si accordavano con i differenti contesti

in cui l’azione si situava). Il corollario di questa idea è che non si può

nascondere il proprio carattere morale, anche se lo si vuole perché si è

malvagi. “Come può un uomo” si chiede Mencio, “nascondere il suo vero

carattere” quando non solo “le sue parole”, anche le pupille dei suoi occhi

lo rivelano (Libro di Mencio IV, A:15).”127

Si potrebbe incorrere nel pericolo di confondere lo stile somatico con

l’abbigliamento o con la moda vigente nella società. Non dobbiamo

dimenticare, invece, che lo stile somatico comprende vari aspetti della

persona come: il modo di parlare (attraverso la scelta lessicale e il tono

della voce), l’atteggiamento nel porsi verso l’altro, il modo di camminare, il

modo di mangiare e la scelta delle pietanze.

“Ma anche togliendo l’abbigliamento dalla nozione di stile somatico,

possiamo osservare i modi di camminare, di fare gesti, di mangiare o

sedersi e alzarsi dalla propria sedia, che sebbene siano più o meno

stilizzati nel senso onorifico, esemplificheranno lo stile nel senso

descrittivo. Per esempio, possiamo notare uno stile goffo e non attraente,

ma idiosincratico nel mangiare o nel camminare.”128

Lo stile trasmette ed esprime la personalità dell’individuo, la morale, le

convinzioni etiche, ma non si ferma solo a questo. Esso è mezzo di

aggregazione e di distinzione, ad esempio nell’aderire o meno a un gruppo,

a un ceto sociale o a culture e sub-culture.                                                                                                                          127 R. DREON - D. GOLDONI - R. SHUSTERMAN, Stili di vita. Qualche istruzione per l’uso, cit., p. 21. 128 Ivi, p. 23.  

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“Questo desiderio assume tipicamente la forma paradossale di volersi

adattare e, tuttavia, di distinguersi. In altre parole, la stilizzazione di sé

comporta il conformarsi in qualche modo alle norme del gusto sociale di

qualche gruppo (che potrebbe essere una sottocultura che resiste al gusto

dominante), non consentendo, tuttavia, a una simile conformità allo stile

generale di precludere l’espressione individuale propria di qualcuno.”129

Lo stile, oltre a essere espressione della nostra personalità sia conscia che

inconscia, può essere “profondamente condizionato” dall’esterno.

Attraverso i mass media, il marketing e le varie forme di comunicazione e

di mercato possiamo apprendere inconsciamente modi, espressioni e stili

che non ci rappresentano, ma che sono, anzi, espressione della società in

cui viviamo e, ancor peggio, soggetti a strumentalizzazione legata

all’economia o al potere vigente. Altri condizionamenti o influenze

possono compiersi tramite l’educazione, la famiglia, la cultura (per

imitazione o per riflesso).

“L’individuo assorbe semplicemente una preferenza per certe modalità o

per certi modelli somatici dell’ambiente umano circostante (che è già

sempre anche un ambiente sociale) e poi esprime irriflessivamente tale

preferenza emulandoli spontaneamente nel suo comportamento somatico

volontario; come cammina, mangia, si veste, si pettina, e così via.”130

“Così come lo stile somatico può essere acquisito e mostrato

irriflessivamente senza scelta cosciente, parimenti può essere acquisito e

mostrato in assenza totale di nostre deliberazioni. Questa forma

involontaria di stile può risultare, per esempio, dal modo in cui siamo

stati allenati a camminare o mangiare o da abiti corporei sviluppati

attraverso le nostre occupazioni, […].”131

                                                                                                                         129  Ivi,  p.  25.  130  Ibidem.  131  Ivi,  p.  26.  

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  90  

Ora è importante capire come modificare il nostro stile di vita e in che

modo apprenderlo coscientemente così da renderlo nostro, così che sia la

reale espressione della nostra personalità, del nostro carattere e delle nostre

convinzioni etiche-morali.

“Più interessante è la domanda pratica su come lavorare su se stessi per

creare o migliorare il proprio stile. Sebbene la questione sia troppo

complessa per essere affrontata adeguatamente in questa sede,

sicuramente parte di questo lavoro sul sé è uno sforzo di conoscenza di

sé, che include un esame delle nostre forze, debolezze e propensioni. Ma

include anche uno studio critico di modelli d’ispirazione, di teorie e di

metodi di coltivazione di sé, che ci possono aiutare a trasformarci

stilisticamente nei modi che giudichiamo desiderabili. In quello che

rimane di questo saggio vorrei soltanto suggerire come il lavoro sulla

trasformazione somatica del proprio stile può essere perseguito secondo

due direzioni complementari, la cui interazione collaborativa rivela

ancora in un altro modo che lo stile somatico trascende la distinzione

semplicistica tra un animo interiore, o sostanza, e una forma esteriore, o

maniera.”132

Attraverso questo passo, Shusterman dà un considerevole sostegno alla tesi

di questo studio. In primo luogo, egli afferma e sostiene la trascendenza del

dualismo anima-corpo basandosi sull’univocità del fine e sulla loro duplice

funzione correlata. La struttura dello stile e del gusto alimentare fanno

essenzialmente perno sulla stessa base: la collaborazione tra anima e corpo.

Inoltre, il gusto e lo stile sono a loro modo simultaneamente influenzati e

influenzanti, sia nel rapporto soggetto-mondo, sia nella loro costituzione

anima-corpo. Questo passaggio si riassume in un breve passo, tratto da

Walden133, citato dallo stesso Shusterman nella sua opera:

                                                                                                                         132  Ivi,  p.  37.    133 Cfr. D. HENRY THOREAU, Walden Life in the Woods (1845); tr. it. Walden o vita nei boschi, BUR, Milano 1988.

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“Ogni uomo è il costruttore di un tempio chiamato corpo, per il dio che

venera, secondo uno stile che è puramente suo, né può esentarsi

martellando marmo al suo posto. Siamo tutti scultori e pittori, e il nostro

materiale è la nostra stessa carne e il sangue e le ossa. Ogni nobiltà

comincia col raffinare i tratti di un uomo, ogni grettezza o sensualità con

l’imbruttirli.” Questo argomento sembra combinare due diverse direzioni

di stilizzazione e di creazione del sé.”134

La prima direzione va quindi verso la cura del corpo in senso prettamente

più fisico e viene riassunta nella frase “il corpo è un tempio di dio”; legata

a un valore estetico e a una “lavorazione del corpo” (nel senso di

“scolpire”), essa si realizza anche attraverso il sacrificio, la rinuncia e la

fatica. Noi, parallelamente, facciamo coincidere questa prima fase più

corporea con la scelta alimentare vegetariana: l’abbandono dell’uso della

carne diviene allo stesso tempo scelta salutare e di cura del corpo, ma anche

sacrificio nella rinuncia a un alimento (che piace o è legato a ricordi o

abitudini). La seconda direzione, invece, può essere sintetizzata nella frase

“scolpire se stessi”.

“Piuttosto, i nostri sentimenti e le disposizioni morali sono già somatici,

proprio come il nostro stile somatico è già sempre informato dallo spirito

e dalle norme etiche del mondo sociale. Il soma in quanto corpo umano

vissuto, senziente, intelligente – è fatto intrinsecamente di carattere

quanto di globuli; è soggettività interiore quanto forma esteriore.

Lavorare al suo esterno può essere un mezzo per lavorare sulle sue virtù e

sulle sue disposizioni interne, proprio come lavorare nell’interno

(attraverso pratiche meditative) può migliorare il modo in cui

appariamo.”135

In questo passo, si nota come le disposizioni interiori si rispecchiano nel e

attraverso il corpo, tramite quindi l’espressione del corpo, ma anche tramite

la modificazione dello stesso. Il rapporto tra corpo e disposizioni è a doppio                                                                                                                          134 Ivi, pp. 37-38.    135 Ivi, p. 39.

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  92  

senso: lavorare sul corpo influenzerà “l’animo”, lavorare sull’animo

influenzerà il corpo. Tale doppio legame è emerso anche tra gusto

alimentare e identità, educazione, società, rapporto con l’altro (alterità),

stile di vita e gusto.

“Se lo stile somatico rimane un aspetto percepibile della superficie del

corpo, esso raggiunge anche fino in fondo le profondità del sé e del

carattere. È troppo profondo per essere disprezzato come una materia

triviale di gusto, di gran lunga troppo centrale per trascurarne la

coltivazione e l’analisi.”136

Lo stile di vita, oltre a esprimere il carattere dell’uomo, guida e rappresenta le

sue scelte all’interno della società dando forma ad essa. Il percorso che lega

alimentazione, società, educazione e violenza può sembrare complicato e

discontinuo, così come può apparire che tali concetti non abbiano evidenti

correlazioni tra loro e che, nella pratica, rimangano comunque distanti.

L’alimentazione, per esempio, spesso non viene ritenuta un argomento di

interesse etico o sociale, ma non possiamo però nascondere la sua assidua

presenza nei momenti più significativi di socialità: essa assume un ruolo

gestionale nella scansione del tempo quotidiano e talvolta diviene un mezzo di

livellamento sociale tra le diverse classi. Negli uomini, la centralità del

pensiero, a volte della preoccupazione, del cibarsi è sempre presente e viene

ben descritta nel passo tolstoiano che segue:

“Guardate la vita dei ricchi, ascoltate le loro conversazioni.

Che argomenti elevati! Filosofia, scienza, arte, poesia e la questione

dell'equa ripartizione delle ricchezze e l'elevazione del popolo e

l'educazione dei giovani. Ma in realtà per i più si tratta di una menzogna.

Tutto ciò non li occupa che di passaggio, fra un pasto e l'altro, quando lo

stomaco è pieno e non è più possibile continuare a mangiare.

L'unico vero interesse di uomini e donne, specie non più giovani, è

mangiare. Come mangiare? Che cosa mangiare? Quando? Dove?

                                                                                                                         136 Ivi, p. 40.  

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  93  

Non c'è una solennità, un avvenimento gioioso, una inaugurazione, che

trascorra senza un banchetto. Osservate la gente che viaggia, ciò risulta

ancor più evidente. «I musei, il parlamento, le biblioteche come sono

interessanti!... E dove mangeremo? Dov'è che si mangia meglio?».”137

La ricerca alimentare non ha come scopi solo la soddisfazione della fame e

l’auto-sostentamento, ma diviene ricerca del piacere: attraverso il consumo di

cibi sempre più raffinati, da mezzo di sopravvivenza si trasforma in strumento

di piacere e quindi in risorsa alla base di un eventuale cambiamento sociale. In

tali passaggi, la difficoltà concettuale più sentita sta nel riconoscere

nell’alimentazione una possibile forma etica di non-violenza e di

compassione: l’uomo riesce a provare sentimenti di commozione e di

partecipazione emotiva nel momento in cui si appresta a vivere l’atto “banale”

del nutrimento? Ci serviamo ancora delle parole del grande Tolstoj che,

attraverso una descrizione lucida e cruenta, ci obbliga a visualizzare la realtà

così come abitualmente non appare ai nostri occhi:

Credevo che, come spesso accade, la realtà dovesse produrre poi in me

una impressione meno forte di quanto immaginavo. Ma mi sbagliavo. La

volta seguente arrivai al macello in tempo. Era il venerdì prima della

Pentecoste, in una calda giornata di giugno, l'odore del sangue era ancora

più forte della prima volta, il lavoro era molto. La corte polverosa era

piena di animali, ed altri si trovavano in vari recinti. In strada vi erano

alcuni carri fermi ai quali erano attaccati buoi, vitelli, vacche. Altri carri

pieni di vitellini vivi, le teste legate basse, sopraggiungevano e subito

venivano scaricati. Altri carri uscivano dal macello carichi di buoi già

uccisi, con le gambe penzoloni, che traballavano secondo i movimenti

della vettura, le teste inerti, i polmoni rosei e i fegati brulli allo scoperto.

[…] Dalla parte opposta a quella dove io mi trovavo, stavano facendo

entrare un grosso bue, rosso e grasso, due uomini lo trascinavano per le

corna. Il bue aveva appena varcato la soglia, che un macellaio lo colpì

alla nuca con un'ascia a manico lungo. Come se gli fossero state tagliate

                                                                                                                         137 L. TOLSTOJ, Il primo gradino (1891), Il bastoncino Verde, pp.11-12, in H. WILLIAMS, The Ethics of Diet (1883).

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tutte e quattro le gambe di un sol colpo, il bue cadde pesantemente sul

ventre, poi si girò su un fianco e si mise ad agitare convulsamente le

gambe e la parte posteriore del corpo. Allora uno dei macellai si precipitò

su di lui, badando a non farsi colpire dagli zoccoli, lo prese per le corna e

gli abbassò con forza la testa contro il suolo, mentre un altro gli tagliava

la gola. Dalla larga ferita un sangue rosso bruno sgorgò a fiotti e venne

raccolto in un recipiente di metallo da un ragazzo, tutto intriso di sangue.

Durante tutto questo tempo il bue non aveva cessato di girare e scuotere

la testa e di agitare convulsamente le gambe nell'aria. Il catino si riempiva

rapidamente di sangue, ma il bue era ancora vivo, respirava pesantemente

e continuava a scalciare, tanto che i macellai si tenevano a distanza.

Appena il catino fu pieno, il ragazzo se l o mise sulla testa e lo portò via

alla fabbrica dell'albumina; prese il suo posto un secondo ragazzo con un

altro recipiente e anche questo cominciò a riempirsi, mentre il bue

continuava ad alzare ed abbassare il ventre nel respiro e a dibattersi

disperatamente. Appena il sangue cessò di sgorgare, il macellaio sollevò

la testa alla bestia e si mise a scorticarla; l'animale si dibatteva ancora. La

testa venne messa a nudo, divenne rossa con le vene bianche e prendeva

le posizioni che le dava il macellaio, la pelle pendeva dalle due parti. Il

bue non cessava però di scalciare. Un altro macellaio lo afferrò allora per

una gamba, la spezzò e gliela tagliò: sul ventre e sulle altre gambe

correvano ancora delle convulsioni. Poi gli furono tagliate le gambe

rimaste e furono gettate nel mucchio con le altre. Infine l'animale

abbattuto fu trascinato verso la carrucola e fu appeso. Allora solamente la

bestia non diede più segno di vita.138

In questo terribile, ma realistico, passo vengono descritte la brutalità,

l’indifferenza e la morte, così come emergono nell’atto della macellazione. Il

lusso del piacere gustativo si scontra in modo evidente con la realtà sopra

descritta: la carne, che giunge sulle nostre tavole imbandite per regalare

momenti di convivialità, ha una sua storia di derivazione che rasenta il

macabro. Il macabro entra con più forza nelle nostre percezioni quando

pensiamo allo sforzo animale di voler restare attaccato alla vita o quando ci

                                                                                                                         138  L. TOLSTOJ, Il primo gradino, cit., p. 17.

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rendiamo conto che la carne non è un alimento utile e necessario alla crescita

umana. Tolstoj prosegue descrivendo come questi atti di violenza animale

abbiano ripercussioni negative sulla sfera umana: compiere, accettare o

condividere simili atti significa cozzare contro i sentimenti di “simpatia” e di

“compassione” che abitano l’animo umano e quindi rischiare di perdere una

significativa parte di umanità. L’uomo che fa violenza su un altro essere,

anche se animale, fa violenza a se stesso:

“Tempo fa parlai con un macellaio militare ed egli pure fu stupito della

mia osservazione che è male uccidere. Anche lui rispose che è una

abitudine inevitabile, ma finalmente convenne che è male e aggiunse:

«Soprattutto quando la bestia è docile, addomesticata, come si avvicina

poveretta, tutta fiduciosa. È una gran pena!». È orribile! Orribile, non

solo la sofferenza e la morte di questi animali, ma il fatto che l'uomo,

senza alcuna necessità, fa tacere in sé il sentimento di simpatia e di

compassione verso gli altri esseri viventi e diviene crudele, facendo

violenza a se stesso. E quanto è profondo nel cuore umano il divieto di

uccidere un altro essere!.”139

Dunque, alla base della perdita dei sentimenti di umanità e compassione sta la

mancanza di conoscenza: l’educazione “esplicativa”, proposta in questo

studio, vuole supplire a questa deficienza della nostra società. La conoscenza

deve mirare alla formazione di una coscienza critica che permetta ai soggetti

di scegliere una vita etica, una vita guidata da un gusto compassionevole. Il

gusto compassionevole, divenendo parte dello stile di vita del soggetto, non

riguarderà esclusivamente l’ambito alimentare, ma giungerà in modo capillare

agli altri aspetti del vivere sociale. L’individuo che vive in modo responsabile

e consapevole la propria quotidianità sarà portato a relazionarsi con l’altro

attraverso il filtro della coscienza critica e vivrà il dovere morale di portare il

suo personale contributo alla società a lui circostante. Un cieco, che ha

recuperato la vista, non può fingere di vivere ancora come se fosse al buio:

                                                                                                                         139 Ivi, p. 14.

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“Non si può far finta di ignorare tutto questo. Non siamo struzzi, né

possiamo pensare che se noi non guardiamo quello, che ci rifiutiamo di

vedere, non c'è. Soprattutto quando la cosa che non vogliamo vedere è

ciò che stiamo mangiando.”140

Concludiamo assieme alle ultime parole che chiudono il testo tolstoiano:

l’educazione, la conoscenza e la compassione ci hanno posto inevitabilmente

davanti a questo “primo gradino”:

“Questo progresso deve rallegrare in modo speciale coloro che cercano

di realizzare Il Regno di Dio sulla terra; non solo perché il vegetarismo,

di per sé, è già un passo importante verso questo regno, ma perché è la

prova che il cammino dell'umanità, verso la perfezione morale, sta

procedendo in modo serio ed autentico. Infatti, tale cammino implica una

progressione specifica ed invariabile e questa ne è la prima tappa.

Dunque non si può che rallegrarsene. Così come si rallegrerebbero quegli

uomini, che volendo raggiungere la sommità di un edificio, dopo aver

tentato invano e disordinatamente di scalarne da tutte le parti le mura, si

accorgono che l'unico modo per salire è passare dalla scalinata e si

riuniscono finalmente davanti al suo primo gradino.”141

                                                                                                                         140 Ivi, p. 19.  141 Ivi, p. 21.

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