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S.d.S. C.O.N.I. I.U.S.M. CORSO NAZIONALE DI SPECIALIZZAZIONE PER TECNICI DELLA F.I.T. EQUIVALENTE AL IV° LIVELLO EUROPEO “L’ansia nel tennis” Direttore Tecnico Tutor Project Work Centro Studi e Ricerche Federazione Italiana Tennis Dottor Roberto LOMBARDI Prof. Massimo Di Paolo Relatore Maestro Nazionale Paolo Pambianco Anno Accademico 2002-2004 1

CORSO NAZIONALE DI SPECIALIZZAZIONE PER TECNICI … pambianco.pdf · gestione dell’ansia utilizzate in ambito tennistico. Dopo una ricerca, ho focalizzato la mia attenzione sulle

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S.d.S. C.O.N.I. I.U.S.M.

CORSO NAZIONALE DI SPECIALIZZAZIONE PER TECNICI

DELLA F.I.T. EQUIVALENTE AL IV° LIVELLO EUROPEO

“L’ansia nel tennis”

Direttore Tecnico Tutor Project Work Centro Studi e Ricerche Federazione Italiana Tennis Dottor Roberto LOMBARDI Prof. Massimo Di Paolo

Relatore Maestro Nazionale Paolo Pambianco

Anno Accademico 2002-2004

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INDICE

Introduzione……………………………………………………………..…...3 CAPITOLO 1 EMOZIONI E MOTIVAZIONI

- Il ruolo delle emozioni nell’attività sportiva…………………………..4 - Le motivazioni dell’attività sportiva…………………………………..5 - Stress e coping…………………………………………………....…....9

CAPITOLO 2 ANSIA E SPORT

- Concetto di ansia………………………………………………………12 - L’ansia negli sport di squadra e negli sport individuali……………….15 - L’ansia nel tennis……………………………………………………...17 - L’ansia fuori e dentro il campo (rapporto allenatore-allievo)…………19

CAPITOLO 3 TECNICHE DI GESTIONE DELL’ANSIA

- Cenni storici……………………………………………………..…….23 - Tecniche di rilassamento muscle-to-mind…………………………….25 - Tecniche di rilassamento mind-to-muscle…………………………….26 - Self talking…………………………………………………………….29 - Goal setting……………………………………………………..……..31

Conclusioni…………………………………………………………………..33 Bibliografia………………………………………….……………………….35

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Introduzione

I ritmi frenetici imposti dalla società moderna sottopongono l’individuo a stati di continua tensione. Pensiamo alle difficoltà che possono insorgere nel conciliare gli impegni familiari con quelli lavorativi e il mantenere rapporti positivi con entrambi. Probabilmente è questo il motivo per cui, da circa venti anni, si è avuto un notevole incremento della pratica sportiva a fini non agonistici. Ma, mentre l’attività sportiva finalizzata esclusivamente ad uno stato di benessere interiore contribuisce ad alleviare stati di tensione, lo sport ad alto livello, al contrario, può recare condizioni di notevole coinvolgimento emotivo tali da condizionare in maniera determinante l’esito della competizione. Attualmente, a livello professionistico, si è raggiunta una omogeneizzazione inerente alla preparazione Tecnico-Tattica-Atletica ; proprio per questo una maggiore “solidità mentale” costituisce elemento di fondamentale importanza per la vittoria finale. Negli ultimi anni ho osservato che un sempre maggior numero di tennisti PRO necessita della presenza dello psicologo ai bordi del campo. Allo stesso modo, nelle grandi accademie, si è avuta una maggiore integrazione di questa figura professionale all’interno dello staff. A conferma di quanto scritto posso ricordare una mia esperienza presso la “Nick Bollettieri Tennia Academy” nel ’90 in cui la preparazione mentale era prassi quotidiana. Essendo il mio lavoro incentrato sul concetto di ansia nel contesto tennistico, ho ritenuto opportuno introdurre, nel capitolo uno, gli stati motivazionali ed emotivi con riferimento in particolare al ruolo rivestito da questi elementi nell’attività sportiva. Nel capitolo due è mia intenzione definire il concetto, non certo semplice, di ansia, individuandone le differenze riscontrabili negli sport individuali e di squadra. Ho ritenuto opportuno, inoltre, trattare le differenti modalità di gestione dell’ansia da parte dei giocatori e dell’allenatore, avendo rivestito entranbi i ruoli.

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Infine, nel capitolo tre, ho svolto un analisi delle differenti tecniche di gestione dell’ansia utilizzate in ambito tennistico. Dopo una ricerca, ho focalizzato la mia attenzione sulle metodiche a mio giudizio più utili. Capitolo 1 Emozioni e motivazioni Paragrafo 1.1: il ruolo delle emozioni nell’attività sportiva La rilevanza dei fattori emotivi in ambito sportivo è evidente agli occhi di tutti. Le emozioni, infatti, costituiscono il perno delle spinte motivazionali, sebbene in ambito sportivo si faccia di solito riferimento ad emozioni positive e negative, usate rispettivamente per giustificare vittorie o sconfitte. Molti tennisti giustificano un risultato negativo attribuendolo a fattori emotivi: le emozioni vengono quindi intese come un ostacolo al proseguimento della meta finale: la vittoria. Nella concezione comune, quindi, le emozioni vengono viste come elemento distrattore, come antagoniste della concentrazione. Anche sul piano strettamente scientifico questa visione ha influenzato negativamente la ricerca, che si è soprattutto focalizzata esclusivamente sui rapporti fra prestazioni sportive ed emozioni negative, come l’ansia e la paura. Lo stesso concetto di attivazione (arousal), ovvero l’intensità della risposta emotiva, il grado di coinvolgimento, l’incremento delle funzioni fisiologiche, concetto di per sé neutrale, e quindi privo di connotati a valenza negativa o positiva, recentemente è divenuto sinonimo di ansia in psicologia dello sport. Le attività sportive hanno in comune, più che l’attività motoria fine a se stessa, il portare una determinata abilità a condizioni di prestazione ottimale e superiore. Il desiderio di ottenere la vittoria in un torneo dello Slam induce il tennista pro a raggiungere le massime prestazioni mediante allenamenti personalizzati: conseguentemente le intensità emozionali risulteranno massimamente amplificate, sia se vengono valutate come emozioni negative, che se vengano considerate nella loro valenza positiva. Un fattore importante da considerare nel condizionamento degli stati emotivi riguarda il ritmo, quindi la velocità, di una data attività sportiva: una partita di tennis ad alti livelli è certamente più emozionante di una competizione amatoriale, e allo stesso tempo l’intensità emozionale di chi pratica attività e di chi la osserva è direttamente proporzionale

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all’importanza della manifestazione. L’attività sportiva, inoltre, rientra fra i fattori di autoregolazione delle emozioni: lo sport determina un maggior raggiungimento del benessere psicofisico, quindi un miglior controllo del proprio livello di attivazione neurofisiologica, con un ulteriore miglioramento anche nel tono dell’umore. Il concetto di attivazione (arousal), concetto, come scritto precedentemente, che indica il grado di intensità con cui viene vissuta una data emozione, è strettamente legato a quello prettamente fisiologico di attivazione a livello di sistema nervoso periferico, che comporta quindi un aumento della frequenza cardiaca e di quella respiratoria, oltre che una vasodilatazione periferica, secrezione di adrenalina e noradrenalina, aumento di metabolismo e tensione muscolare. Stati di alta attivazione possono condurre, a seconda dell’intensità dello stato motivazionale, a condizioni che vanno dalla semplice eccitazione a livelli di ansia vera e propria. Allo stesso modo, una scarsa attivazione può essere vissuta dallo sportivo sotto forma di rilassamento o sotto uno stato di noia. Paragrafo 1.2: Le motivazioni nell’attività sportiva Il concetto di motivazione, relativamente recente, concerne tutta quella varietà di fenomeni che hanno rappresentato l’area di indagine inerente ai bisogni, agli scopi, ai fattori cognitivi e ai processi affettivi che orientano l’individuo verso il raggiungimento di un obiettivo finale. La motivazione è quindi un agente fisiologico, cognitivo, emotivo, che organizza il comportamento dell’individuo verso uno scopo preciso, ovvero la soddisfazione di un bisogno. Lo stesso concetto viene utilizzato quando ci si interroga sui fattori che determinano un dato comportamento: si cerca di trovare i fini che lo giustificano, anche per renderci meglio conto delle nostre azioni e di quelle degli altri. Sono state avanzate moltissime teorie inerenti alle motivazioni: dall’idea freudiana sugli istinti inconsci, alla negazione comportamentistica di tutto ciò che non è osservabile, fino ai più recenti studi inerenti al rapporto motivazione-cognizione. Riferendoci prettamente al contesto sportivo, possiamo citare la teoria di Terreni e Occhini (1997) che, ribadendo che lo sport è un’attività praticata per libera scelta, ne articola tre momenti costitutivi:

- la scelta, ovvero una valutazione degli elementi pro e contro un’attività sportiva, con conseguente presa in esame di tutte le alternative possibili, sia a livello soggettivo che oggettivo;

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- la decisione di praticare sport, inteso come effetto conseguente alla scelta svolta;

- l’attuazione, ovvero l’atto concreto della pratica sportiva, come conseguenza della scelta e della decisione presa.

Il tennista che, con costanza, si allena per due, tre volte la settimana, può essere spinto dalle più svariate motivazioni (per mantenersi in forma, per scaricare la tensione, per vincere competizioni..), ma sicuramente, dopo un’accurata valutazione in termini di costi e benefici, ha trovato più elementi favorevoli nel dedicarsi alla pratica di tale sport che non elementi contrari. Una distinzione importante va fatta se consideriamo motivazioni innate, ovvero connaturate ai bisogni fisiologici fondamentali nell’uomo, oppure se consideriamo motivazioni derivate da apprendimenti legati a condizionamenti culturali: parliamo allora, nel primo caso, di motivazioni primarie e, nel secondo caso, di motivazioni secondarie. Sono questi due termini che rimandano ad una scala gerarchica dei bisogni, che presuppone la condizione che solo una volta esauriti i bisogni primari sia poi possibile, in seguito, il soddisfacimento di quelli secondari. Maslow (1954) ha messo in sequenza e ordinato i bisogni secondo una struttura a piramide, illustrata nella fig. 1.1 La struttura vede alla base i bisogni fisiologici (fame, sete, per esempio) la cui soddisfazione garantisce la sopravvivenza dell’individuo, cui seguono i bisogni di sicurezza (bisogno di protezione o di evitamento del pericolo), sui quali poi si innestano i bisogni di appartenenza (bisogno di affiliazione, di accettazione, di amore). I bisogni di stima (desiderio di successo, bisogno di essere apprezzati) scaturiscono dalla soddisfazione di quanto elencato precedentemente, così come i bisogni di autorealizzazione, o metabisogni (senso di giustizia, qualità spirituali, piena realizzazione delle proprie potenzialità). Maslow sostiene che, una volta soddisfatti, i bisogni alla base della piramide scompaiono, in quanto sono bisogni di carenza, mentre quelli ai vertici continuano a crescere anche una volta soddisfatti, in quanto sono bisogni di crescita.

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Figura 1.1 La scala dei bisogni secondo Maslow

Murray esamina 12 bisogni di natura fisiologica e 28 di natura psicologica. Singer (1938) invece suddivide le motivazioni in: -intrinseche (permettere alle proprie capacità di progredire o svolgere un’attività sportiva per il proprio gusto personale); -estrinseche (trarre vantaggi materiali, come ricompense e apprezzamenti, quindi cercare un rinforzo esterno). Secondo Antonelli e Salvini (1987) lo sport è un gioco con finalità agonistiche, pertanto le motivazioni primarie di riferimento sono esclusivamente il gioco e l’agonismo stesso. Terreni e Occhini (1997), in accordo con la precedente teoria, affermano che, indipendentemente dal fatto che le motivazioni siano intrinseche o estrinseche, lo sportivo pone sempre alla base della attività praticata il gioco e l’agonismo. Sul fatto se il gioco sia intrinsecamente competitivo o se siano le regole imposte a renderlo tale vi sono teorie contrastanti. La società attuale sembra attribuire valore solo ed esclusivamente ad ogni genere di confronto, favorendo quindi comportamenti e atteggiamenti competitivi. Il confronto sul piano fisico è una delle prime esperienze vissute dai bambini, come dimostrano giochi tipo: “nascondino” o “mosca cieca”. Allo stesso modo acquisiscono notevole importanza fattori come furbizia, destrezza, prontezza di riflessi, fattori resi ancora più importanti dalla famiglia, dalla scuola, dai media, che esaltano situazioni competitive. Venendo invece a considerare le prestazioni sportive di alto livello, si tiene conto, in questo caso, della capacità del singolo di giostrare al meglio il 7

proprio potenziale, tenendo conto delle risorse fornite dall’ambiente. Il tennista professionista, avendo acquisito un notevole senso di competenza, si assegna autonomamente i propri obiettivi per esercitare quella che è poi una sfida con sè stesso. In tal caso anche un risultato negativo può concorrere a migliorare la propria efficacia. Gli obiettivi troppo semplici, al contrario, rischiano di sminuire la propria efficacia, soprattutto se non mettono l’individuo nella condizione di affrontare con interesse e impegno la competizione. Prospettare un obiettivo irraggiungibile sicuramente può permettere un impegno maggiore rispetto a quello che si associa ad un semplice incoraggiamento. Riportiamo qui di seguito le motivazioni che spingono gli individui alla pratica sportiva. FATTORI ESEMPLIFICAZIONI 1. Motivazioni legate alla riuscita personale o allo status

Desiderio di vittoria Sentirsi importanti Acquisire popolarità Migliorare il proprio status Fare qualcosa che rientra nelle proprie capacità Ricevere premi e riconoscimenti

2. Spirito di squadra Desiderio di essere parte di una squadra 3. Forma fisica Sentirsi in forma

Fare esercizio 4. Spendere energia Desiderio di scaricare le tensioni, di fare

una qualunque cosa, di muoversi, di stare fuori casa

5. Rinforzi estrinseci Sostegno da parte di persone quali genitori, amici, allenatore

6. Sviluppo e miglioramento di abilità sportive

Migliorare la performance Sviluppare lo schema d’azione nella squadra

7. Bisogno di amicizia Desiderio di farsi delle nuove amicizie 8. Divertimento Piacere tratto dall’azione e desiderio di

eccitamento Tab. 1.1

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Paragrafo 1.3: stress e coping Come definire un concetto così ampiamente usato, anche a sproposito, come quello di stress? La parola in questione sembra la chiave onnicomprensiva per definire la situazione dell’individuo nei tempi moderni. Innanzitutto gli eventi che scatenano tale reazione, definiti “stressor”, o agenti stressanti, sebbene nell’immaginario collettivo vengano associati a condizioni di disagio psicofisico, e quindi vengano associati ad emozioni negative, possono essere associati anche ad emozioni considerate di valenza positiva, di notevole impatto emotivo (Mason). Parliamo di eustress quando lo stress è positivo e di di stress quando è negativo. Possiamo riferirci alla definizione di stress data da Fisher (1986) che definisce lo stress come il prodotto di un processo cognitivo che confronta la minaccia percepita con la possibilità percepita di controllarla. Si tratta di una reazione di adattamento utile, non necessariamente patologica. L’adattamento prevede una prima fase di allarme, nella quale, di fronte a un pericolo, avvengono modificazioni biochimiche e ormonali nel proprio corpo; una seconda fase di resistenza, durante la quale l’organismo si organizza per difendersi; e infine una fase di esaurimento, con un crollo delle difese. Lo stress è quindi interpretabile in termini di deficit, di difficoltà di controllo e di gestione della situazione. L’accento viene posto soprattutto a livello di percezione: l’ampiezza della richiesta e la difficoltà percepita nel farvi fronte sembrano configurarsi come le principali componenti dello stress. Lo stress si manifesta spesso con sintomi che incidono negativamente sulla prestazione sportiva: diminuzione delle attività motorie, eccessivo stato di arousal precompetitivo, diminuzione della concentrazione, inadeguatezza rispetto al compito, e via dicendo. I sintomi dello stress si manifestano, a seconda delle caratteristiche dell’individuo e delle circostanze, su uno o più versanti di tipo fisiologico, comportamentale e cognitivo. A livello fisiologico l’incremento dello stato di arousal porta a segni dello stress evidenti, quali maggior frequenza cardiaca, sudorazione, maggior frequenza respiratoria, aumento della pressione del sangue, maggior flusso di adrenalina, accompagnati da evidenti segni di disagio psicofisico come difficoltà ad addormentarsi, oppure sonno irregolare, cefalee tensive, inappetenza, problemi digestivi, maggior affaticamento... Sul piano comportamentale, abbiamo manifestazioni di tensione, rigidità a carico muscolare, oltre che sintomi quali crampi, dolore, con conseguenti rischi maggiori di infortuni, oltre che perdita delle coordinazioni fini e 9

diminuzione della fluidità nei movimenti, che appaiono quindi quasi “meccanici”. Infine, analizzando l’aspetto cognitivo, si presentano disturbi dell’attenzione e della concentrazione (maggior distraibilità, difficoltà nel sostenere un adeguato focus attentivo), oltre che una presenza massiccia di pensieri catastrofici e di fallimenti personali. L’atleta in questione si sentirà eccessivamente preoccupato per gli esiti della gara o per le valutazioni negative che potranno eventualmente scaturire se la sua prestazione dovesse essere scadente. L’attivazione di un sistema di pensiero disfunzionale provoca una distorsione nella codifica e valutazione degli stimoli interni ed esterni. L’atleta, in questo caso, tende sempre a pensare al peggio, ignorando gli eventi positivi e giungendo in anticipo a conclusioni in assenza di fatti concreti, minimizzando o accrescendo eccessivamente il significato di un evento. Il tennista, per esempio, può trasformare situazioni momentanee, (durante una partita svolge molti doppi falli, pur essendo il servizio uno dei suoi colpi migliori), in decisioni categoriche ( ritiene quindi di non essere capace a eseguire tale colpo). Questo sistema disfunzionale di pensiero conduce a risposte sotto il profilo non solo prettamente cognitivo (distrazione, basso autocontrollo, inadeguatezza..) ma anche fisiologico e comportamentale. Stress e coping sono due aspetti dello stesso fenomeno. La loro correlazione è già ravvisabile nelle prime produzioni di Seyle, quando fa riferimento al maggior peso che ha il modo con cui si prendono e si accettano i fatti (“the way you take it”) rispetto ai fatti stessi. Entrando nella definizione del concetto di coping, possiamo prendere come riferimento la teoria di Folkman e Lazarus: “il coping sono gli sforzi cognitivi e comportamentali delle persone di gestire (ridurre, minimizzare, padroneggiare, tollerare) le richieste interne ed esterne del rapporto transazionale tra persona e ambiente, che vengono valutate come gravose o eccedenti (Folkman, 1986)”. E’ oggi generalmente accettata la differenziazione tra coping centrato sul problema e coping centrato sull’emozione, originariamente delineata da Folkman e Lazarus nel 1980. Il primo include gli sforzi rivolti a cambiare il problema esterno o la fonte interna della sua intensità, ovvero la sua formulazione cognitiva. Il secondo tipo di coping è invece volto a cercare un sollievo dagli aspetti piacevoli-spiacevoli del problema. Endler e Parker (1990) hanno proposto un terzo tipo di coping denominato di esitamento che si riferisce a strategie consistenti verso la ricerca di diversivi o distrazioni. Nella formulazione di Lazarus il coping viene descritto come una reazione dinamica, specifica

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alla determinata situazione in cui lo stress è percepito. Tuttavia altri studiosi ritengono che esistano differenti stili di coping che le persone tendono ad adottare in diverse situazioni. Integrando i diversi suggerimenti della letteratura, è giusto quindi teorizzare che le dinamiche situazionali influenzano la differente strategia di coping che viene utilizzata di volta in volta. A titolo esemplificativo, si possono riportare differenti strategie di coping, riscontrabili anche in un contesto sportivo. Strategia Descrizione

-Distrazione -Ridefinizione della situazione -Azione diretta -Catarsi -Accettazione -Cercare supporto sociale -Rilassamento -Fede

-Distogliere l’attenzione dal problema pensando ad altre cose o intraprendendo qualche attività -Tentare di vedere il problema sotto una luce diversa, che lo rende più sopportabile -Pensare alle soluzioni del problema,raccogliere informazioni su di esso, o fare effettivamente qualcosa per cercare di risolverlo -Esprimere le emozioni in riferimento al problema per ridurre l’ansia, l’angoscia, le frustrazioni da esso causate -Accettare il fatto che il problema si sia presentato, ma che non sia possibile fare nulla in merito -Cercare o accettare supporto sociale da persone che si amano, da amici (la squadra, per esempio), da professionisti -Fare qualcosa con l’esplicita intenzione di rilassarsi -Cercare o accettare conforto spirituale

Tab. 1.2

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Capitolo 2 Ansia e sport Paragrafo 2.1: definizione del concetto di ansia Secondo Weinberg e Gould (1995) l’ansia può esser definita come uno stato emozionale negativo accompagnato da nervosismo, preoccupazione, apprensione associati ad un’aumentata attivazione corporea. Martens et al.(1990) hanno distinto due aspetti degli stati ansiogeni. Quando l’individuo si trova in una condizione di ansia fa esperienza di stati fisiologici coincidenti con un’alta attivazione. Si ha quindi un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, oltre che un respiro aumentato e un visibile arrossamento del volto. Sono effetti, questi, molto simili ai sintomi indotti da stati di euforia o di rabbia. L’esperienza di questi cambiamenti fisiologici fanno riferimento all’ansia somatica (dal greco sόma, corpo). L’ansia somatica può esser misurata direttamente misurando indici fisiologici o indirettamente mediante questionari di autovalutazione, come lo STAI. Misure fisiologiche dirette possono essere, per esempio, l’analisi delle urine, che permette di rilevare la presenza di ormoni come adrenalina, noradrenalina e cortisolo, secreti in condizioni di stress, oppure si può effettuare la misurazione della conduttanza cutanea o della pressione arteriosa. Quando l’individuo è in stato ansiogeno tende a sudare di più, soprattutto nelle mani, e la conduttanza cutanea misura la facilità di passaggio sulla pelle della mano di una debole corrente, essendo il sudore, proprio perché salato, un buon conduttore. Questo passaggio di corrente viene appunto definito conduttività. Ne consegue che maggiore sarà il livello di attività delle ghiandole sudoripare e maggiore sarà il livello di conduttanza della nostra pelle. Uno strumento denominato sfigmomanometro permette infine di misurare l’aumento di pressione sanguigna, fattore presente negli stati ansiosi. Importante tenere conto dell’ampia variabilità dei livelli di attività fisiologica fra gli individui: pertanto in qualsiasi studio occorre effettuare diverse misurazioni, rispettivamente con e senza induzione d’ansia; una volta fatto questo occorre confrontare il livello di base con quello che fa seguito allo stato d’ansia. La registrazione fisiologica deve comunque far uso sovente di apparecchiature da laboratorio, che non permettono studi

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sul campo. Tuttavia, tenendo conto dell’avanzamento tecnologico operato negli ultimi tempi, il problema della registrazione si è piuttosto limitato: mediante la miniaturizzazione degli apparati di registrazione si è reso possibile misurare sia la pressione che le frequenze cardiache e respiratorie in modo continuato. Gli strumenti portatili in dotazione agli sportivi, infatti, possono tranquillamente essere portati anche al di fuori del laboratorio. I questionari di autovalutazione invece possono essere usati per misurare indirettamente l’ansia somatica ma presentano l’inconveniente che l’oggetto della loro misurazione è ciò che lo sportivo pensa che accada nel proprio corpo, e non quello che avviene effettivamente.. Il vissuto di ansia somatica è spesso accompagnato da un altro concetto, che si riferisce all’ansia cognitiva. E’ questo un concetto che fa riferimento alle attività di pensiero, ai ragionamenti, alle aspettative e alle memorie associate all’ansia di tipo somatico. Un pensiero associato a vissuti ansiosi implica preoccupazione, dubbi sulle proprie effettive capacità, anticipazione di una sconfitta con conseguente umiliazione. Uno studio condotto da Swain e Jones (1993) condotto sul campo su 49 atleti, ha potuto constatare che nella mezz’ora che precede l’inizio di una gara vi è un incremento notevole di pensieri ansiosi; l’aumento dell’ansia somatica, invece, è presente già da più tempo. Una volta iniziata la competizione l’ansia somatica crolla immediatamente, mentre l’ansia cognitiva fluttua e varia a seconda dell’esito della competizione. Una distinzione di notevole importanza viene fatta in merito all’ansia cosiddetta di tratto, e all’ansia di stato. La teoria è stata formulata in un primo tempo da Cattel e Scheier (1961), per poi essere ulteriormente elaborata da Spielberger e collaboratori (1966), nello sviluppo della loro scala di autovalutazione, la State-Trait Anxiety Inventory- STAI (1970). In linea di massima si può affermare che l’ansia di tratto può essere considerata una caratteristica relativamente stabile della personalità, ovvero un atteggiamento comportamentale, che riflette la modalità con cui il soggetto tende percepire come pericolosi o minacciosi stimoli e situazioni ambientali. Una persona con ampia ansietà di tratto sarà costantemente ansiosa, in modo quasi del tutto indipendente dalla situazione specifica che sta vivendo: in questo soggetto la modalità ansiosa sarà una abituale risposta agli stimoli. Questi soggetti mostrano quindi una più marcata reattività ad un numero maggiore di stimoli e, secondo Cattel e Scheier, sono caratterizzati da elevato arousal, debolezza dell’Io, tendenza alla sensitività e al senso di colpa; sono questi i soggetti che, un

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tempo, venivano classificati sotto la voce “nevrosi d’ansia”. Eysenck credeva che certe persone fossero generalmente più ansiose di altre in quanto geneticamente programmate a reagire in modo maggiore a pericoli potenziali nel loro ambiente. Venendo in specifico all’ambito sportivo, è stata riscontrata un’ansia definita competitiva, che si manifesta proprio nelle situazioni agonistiche, che può esprimersi come ansia di tratto o come ansia di stato. La teoria di Martens approfondisce proprio la condizione dell’atleta nelle situazioni competitive, viste come eventi che si affrontano con tensione , con la messa in discussione delle proprie capacità, con l’affiorare di insicurezze e timori. Lo stesso Martens (1977) ha sviluppato una scala denominata Sport Competition Anxiety Test, il cui scopo consiste nel misurare l’ansia di tratto negli sportivi agonisti. In questo questionario sono presenti affermazioni come: “Prima di una competizione mi sento a disagio”, “Prima di una competizione temo di non essere all’altezza”, “Durante una competizione mi preoccupo di fare degli errori”, “Prima di una competizione mi sento tranquillo”, e il soggetto deve indicare la frequenza con cui tali affermazioni si adattano al suo caso specifico. L’ansia di stato può essere definita come un’interruzione temporanea del proprio continuum emozionale, che si esprime attraverso una sensazione soggettiva di tensione, apprensione, nervosismo, inquietudine, ed è associata ad una attivazione del sistema nervoso autonomo. I soggetti con una elevata ansia di tratto hanno maggiore probabilità, rispetto agli altri, di presentare ansia di stato in circostanze di basso potenziale ansiogeno e, a parità di stimoli, potranno sperimentare livelli più elevati di ansia di stato. Alti livelli di ansia di stato risultano estremamente spiacevoli, dolorosi e disturbanti e stimolano il soggetto a mettere in atto meccanismi comportamentali di adattamento per evitare o ridurre queste sensazioni; questi meccanismi hanno successo solo se riescono ad allontanare lo stimolo ansiogeno o a valutarlo come meno minaccioso. Se, al contrario, questi meccanismi non riescono nel loro scopo, il soggetto può ricorrere a meccanismi di negazione o di repressione che, però non aggrediscono alle radici la causa dell’ansia e possono risultare altamente disadattivi. In questo caso i meccanismi sono antieconomici: finiscono per aumentare l’ansia di tratto avviando una spirale continua. Martens et al. (1990) hanno sviluppato un ulteriore questionario, il Competitive State Anxiety Inventory-2, avente lo scopo di misurare selettivamente l’ansia di stato che precede una competizione. Dal 1990 questo questionario è stato lo

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strumento più utilizzato nella misura dell’ansia legata a prestazioni sportive. Esso include tre sottoscale che misurano l’ansia cognitiva, quella somatica e l’autostima. E’ comunque importante, in fase di trattamento dei disturbi ansiosi, tenere distinte l’ansia di stato da quella di tratto. Solamente valutando l’ansia di stato, infatti, potremo evidenziare i modi e i tempi delle variazioni del quadro clinico, che difficilmente potremo rilevare esplorando solo l’ansia di tratto. Molti autori si sono occupati dell’ansia nei suoi diversi aspetti e dei suoi riflessi nella prestazione. Adam e Wieringen (1988) hanno riscontrato come a moderati livelli di ansia cognitiva corrispondesse una prestazione superiore rispetto a livelli bassi o elevati, mentre tale reazione non era evidente per l’ansia somatica. Quest’ultima tende a danneggiare la prestazione quando diventa così forte da costringere il soggetto da distogliere l’attenzione dal compito per rivolgerla allo stato interno. Altri autori hanno anche analizzato l’andamento temporale, notando come l’ansia di stato aumentasse rapidamente fino a pochi istanti prima della competizione, per poi calare altrettanto rapidamente con un andamento grafico di una V inversa (cfr. Fenz, 1988). Altri studiosi, tra cui Weinberg (1984) hanno osservato che tale incremento è correlato all’ansia somatica e non a quella cognitiva. Un alto arousal fisiologico, con l’ansia somatica ad esso associata, non è necessariamente negativo per la prestazione, ma lo diventa quando l’ansia cognitiva supera un determinato livello. Solamente in questa situazione si manifesta quindi un catastrofico deterioramento della performance, a seguito del quale diviene molto difficile recuperare una situazione accettabile. Paragrafo 2.2: sport individuali e sport di squadra Una importante distinzione va fatta per il gruppo di atleti che svolge discipline sportive di carattere prettamente individuale, rispetto a coloro che svolgono attività all’interno di una squadra. La presenza di un concorrente indica già di per sé una situazione competitiva, sia se si parla di sport individuali, che se si parla di sport di squadra. Nel caso di attività individuali che prevedono lo scontro diretto di uno con l’altro, è presente la consapevolezza di dover contare esclusivamente sulla propria forza, sulle abilità personali, sull’incondizionata disponibilità al contatto fisico e alla distanza intima, unite a una consistente componente di aggressività

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che, pur mediata da un regolamento codificato e dal raziocinio, trova sfogo nell’atto atletico. Sebbene possa sembrare che nel tennis non vi sia la presenza massiccia di tali elementi (pensiamo al contatto fisico), dobbiamo considerare il tutto secondo simbolismo e astrazione: si tende ancora a violare il campo dell’altro, ma non direttamente, bensì tramite strumenti intermediari(la pallina). Nello sport individuale non viene meno il fattore dell’aggressività, che si presenta però in forma quasi sublimata, stemperata nella soddisfazione di colpire un oggetto inanimato piuttosto che direttamente l’avversario. Anche se nello sport individuale gli allenamenti spesso vengono svolti con altri soggetti o in gruppo, il risultato della gara dipende esclusivamente dalla prestazione del singolo atleta ed è attribuibile soltanto a lui, malgrado possa contare sul supporto di una equipe. Solitamente le discipline individuali, tra cui il tennis, prevedono anche una competizione a squadre. Pensiamo, per esempio, alle staffette nell’atletica, nel nuoto, ai doppi tennistici e più in generale, pensiamo alle valutazioni a squadre che sommano i risultati individuali degli atleti appartenenti ad una società sportiva per una o più specialità. Le azioni degli atleti della stessa squadra sono sostanzialmente indipendenti tra loro e ognuno gareggia singolarmente, ma i risultati individuali convergono in una valutazione collettiva di squadra. In sostanza: praticare uno sport individuale non significa fare sport da soli o non fare parte di un gruppo, ma piuttosto assumersi pienamente la responsabilità e le conseguenze inevitabili del risultato ottenuto durante i tornei, anche quando questo è parte di una valutazione collettiva. Anche quando partecipa ai campionati a squadre per il proprio circolo, il giocatore di tennis, nella sua gara di singolare, è da solo, in campo. Anche negli sport di squadra, del resto, è possibile riscontrare le medesime motivazioni e atteggiamenti comuni agli sport individuali, ma emergono ulteriori variabili di personalità, come il sapersi integrare con gli altri componenti, sacrificarsi per il gioco collettivo, essere ricettivi e pronti a considerare il piano d’insieme del gioco. Nello sport di squadra si accede solitamente motivati dal desiderio di far parte di un gruppo, di supplire alla propria timidezza e alla insicurezza, condividendo con gli altri la responsabilità del risultato. Focalizzando l’attenzione sulla struttura dell’azione competitiva, Mantovani (1994) distingue gli sport individuali dagli sport di squadra sottolineando che nei primi l’individuo compete da solo con uno o più avversari, mentre nei secondi l’individuo è parte di una squadra che

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gareggia con un’altra squadra. In questo caso acquista rilevanza il fatto che la responsabilità della prestazione è condivisa da tutti i membri del team. Focalizzandoci invece sull’intensità dell’interazione di coloro che sono coinvolti in una competizione, Tassi (1993) distingue gli sport in due differenti tipologie: sport fianco a fianco, e sport faccia a faccia. Nel primo caso l’autore si riferisce a sport in cui l’avversario è distante: non si riscontra cioè alcuna manifestazione materiale di interferenza dell’azione dell’atleta con quella del suo antagonista. Due esempi possono essere riscontrati nella corsa o nello sci alpino; negli sport faccia a faccia, al contrario, l’avversario è in vicinanza: l’azione dell’atleta, cioè, si lega direttamente a quella del suo concorrente, modificandola ed essendone da questa modificata: il tennis ne è un esempio, così come il calcio o la pallanuoto. All’interno di ciascuna delle categorie è opportuna una ulteriore divisione. A seconda dell’interazione possiamo distinguere gli sport fianco a fianco in paralleli e differiti: nei primi, come nel ciclismo o nella maratona, la prestazione di un concorrente è contemporanea a quella dell’avversario; nei secondi, come nelle gare di tuffi o nello sci alpino, l’esecuzione di ciascun atleta è successiva a quella degli altri. Gli sport faccia a faccia, invece, possono essere differenziati in mediati e di contatto: nei primi, come nella pallavolo o nel tennis stesso, l’interazione tra gli avversari non è diretta ma si realizza attraverso un mezzo, che di solito è la palla; i secondi, come la boxe o il calcio, prevedono l’interazione diretta e si risolvono in un vero e proprio contatto fisico. Rapportando i concetti fianco a fianco-faccia a faccia con la distinzione fra sport individuale e di squadra, Tassi (1993) parla di giochi e discipline. Il riferimento a “disciplina” richiama l’attenzione su attività motorie da svolgere in maniera molto precisa, in base a regole predefinite (pensiamo a un numero di ginnastica artistica, ad una gara di tuffi, al nuoto sincronizzato), mentre il parlare di “gioco” rimanda ad attività motorie che includono infinite variazioni dettate da un limite regolamentare racchiuso entro tale attività. Paragrafo 2.3: l’ansia nel tennis Per poter mantenere continuità nella propria prestazione, il tennista deve conoscere sia il proprio sé corporeo, che quello mentale. Infatti è proprio attraverso la cognizione di entrambi gli elementi che per il giovane atleta è poi possibile raggiungere la cosiddetta “peak performance”. Questo stato

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di ottimizzazione della prestazione è fornita all’atleta la cui condizione mentale viene definita appunto “flow state” (“stato ideale di performance”); in tale situazione il soggetto è completamente coinvolto e stimolato a perseguire i propri obiettivi. La peak performance è un momento magico, durante il quale tutto si svolge nella maniera ideale; uno stato dettato non tanto dalla forma fisica ma bensì da un flusso di potenza i cui effetti sono riconducibili ad uno stato di condizione ipnotica. Per molti atleti intervistati (Orlick e Partington, 1988) è di fondamentale rilevanza entrare , prima dell’inizio della competizione, in una condizione cognitiva del tutto simile a una forma di sogno che diventava realtà. Questo stato accompagna i trionfi sportivi e permette quindi di raggiungere la prestazione efficiente senza sentire la fatica. E’ questo uno stato molto comune nei giocatori di livello che affiancano all’allenamento tradizionale anche quello delle abilità mentali (autostima, autoregolazione, consapevolezza di sé, goal settino, imagery..). Un giovane tennista ricerca proprio le abilità mentali che l’uomo maturo trova in sé come sviluppo cognitivo naturale: egli spesso le vive, ma non riesce a riprodurle. Quando, prima di un incontro importante, l’atleta prova a ricercare queste capacità cognitive, pur se convinto delle proprie prestazioni fisiche, molto spesso si rende poi conto che ciò che credeva di avere raggiunto è in realtà un obiettivo fallito. Il ricordo di queste esperienze negative vissute avrà un effetto certamente negativo sul livello di autostima del giovane atleta. L’allenatore risulterà direttamente coinvolto e dovrà cercare di ridare al proprio atleta la carica giusta per affrontare le tappe successive. Uno dei motivi fisici di importanza fondamentale che rappresenta un ostacolo al raggiungimento di sensazioni piacevoli, strettamente legate alla fluidità dei movimenti è determinato da uno stato di rigidità a livello muscolare, determinato non solo da un sovraccarico determinato da un allenamento troppo intenso, ma anche da situazioni di alto stress, che determinano stati di tensione, ansia, disordine psicomotorio. Attualmente, osservando i giovani atleti, sembra vogliano mostrare agli altri, ciascuno con il proprio metodo, la potenza, la forza esplosiva determinata dal loro sviluppo a livello muscolare. Aumentando, però, la potenza muscolare, si corre il rischio di trascurare la precisione, a scapito di una maggior forza esplosiva. In questi casi, infatti, avremo i seguenti effetti fisiologici:

- mano a mano che lo stato di stress aumenta, i muscoli entrano in uno stato parziale di contrazione;

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- l’incremento di tensione a livello muscolare determinerà maggior disorientamento nell’atleta, che sarà rigido, impacciato, scoordinato;

- lo sforzo eccessivo è inversamente proporzionale alla potenza e alla precisione dei colpi;

- troppa forza costituisce fattore interferente nella prestazione dell’atleta.

Gli atleti dalle migliori prestazioni sono sempre particolarmente attenti verso l’identificazione di lievi aumenti a livello della propria tensione muscolare, in modo poi da riuscire a controllarli nella maniera appropriata. Paragrafo 2.4: l’ansia dentro e fuori dal campo: rapporto allenatore-allievo Una squadra sportiva viene considerata come unità sociale: essa si distingue non solo dagli altri gruppi in generale, ma da tutte le altre squadre. L’abbigliamento, per esempio, costituisce l’uniforme della singola squadra, che spesso è caratterizzata anche da un soprannome specifico. E’ proprio la distinzione dall’esterno che aumenta il senso di appartenenza e incrementa il sentimento collettivo del “noi”. All’interno di una squadra i componenti possono sviluppare cooperazione o antagonismo, quest’ultimo inteso sia come “competizione” che come “conflitto”. La dimensione ottimale viene sottolineata da Cei (1998): collaborare all’interno della squadra e tenere verso l’esterno un atteggiamento competitivo: tutti uniti contro l’avversario. Questo concetto solitamente viene espresso con la frase: “sinergia all’interno e competitività all’esterno”. La cooperazione interna risulta incrinata ogni qual volta alcuni atleti infrangono le regole tecniche o esternano lamentele, (per esempio se non sono protagonisti durante la competizione), rivolgendo il proprio malcontento verso la figura dell’allenatore, che ha il compito non facile di riconoscere e utilizzare tutte le risorse a disposizione, usando saggiamente il tempo per portare i propri atleti ai massimi livelli di prestazione. Molti allenatori, non a caso, ritengono che un sistema efficace per valutare il buon affiatamento nella propria squadra sia quello di osservare lo stato di umore delle proprie riserve: se anche l’ultima riserva risulta soddisfatta, allora il clima che si respira all’interno della squadra è positivo, e tutti i membri sono impegnati verso il raggiungimento di un obiettivo comune. Indubbiamente una squadra può raggiungere i massimi livelli di prestazione unicamente tenendo conto di

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numerosi fattori, come l’abilità tecnica e le caratteristiche fisiche e psicologiche degli atleti, il contesto nel quale si svolge la competizione, il rapporto atleti-allenatore, l’equilibrio emozionale che questo rapporto genera nel singolo atleta, nella squadra, nell’allenatore stesso. Pensiamo, ad esempio, alle difficoltà che possono presentarsi durante la scelta dei giocatori che dovranno disputare una competizione di tennis a squadre: in base allo stato di forma degli atleti, agli avversari, al loro tipo di gioco, alla superficie del campo e al livello di affiatamento fra gli eventuali compagni di doppio, il capitano dovrà prendere una decisione definitiva, con la certezza che, a prescindere dalle proprie motivazioni, si genereranno di sicuro dei malcontenti. Antonelli e Salvini (1987) affermano che l’allenatore deve darsi una serie di obiettivi generali, il cui raggiungimento richiede da parte sua non solo doti organizzative e competenza tecnica, ma anche requisiti di personalità, quali intelligenza, un buon livello socio-culturale (soprattutto se ha a che fare con giovani atleti), capacità di stabilire rapporti sociali. L’allenatore, nel proprio compito, dovrebbe porsi i seguenti obiettivi: a) sviluppare gli atleti sul piano fisico, tecnico, psicologico, sociale; b) soddisfare i loro bisogni; c) formare atleti con mentalità vincente, capaci di dar fondo a tutte le loro energie per vincere, amanti della competizione, capaci di mantenere calma e concentrazione durante la gara e di assumersi le proprie responsabilità in situazioni delicate; d) naturalmente.. vincere; e) rendere piacevole e divertente sia il momento dell’allenamento, sia quello della gara; f) creare e gestire il gruppo . La competizione non è un bisogno primario, innato negli individui, ma un comportamento appreso e il suo effetto sulla prestazione sportiva dipende sia dalle abilità degli atleti coinvolti che dalla capacità dell’allenatore di gestire le differenti individualità dei propri giocatori. Oltre alla situazione sportiva in sé stessa, anche i fattori personali degli atleti presentano alcuni aspetti più o meno motivanti su cui l’allenatore non ha possibilità di agire direttamente. L’allenatore, infatti, può ricorrere a differenti tecniche motivazionali e/o psicologiche per aiutare gli atleti ad incrementare la loro prestazione, ma è proprio la personalità di questi ad incidere in maniera determinante sull’efficacia di queste tecniche. I tre più importanti tratti di personalità che influenzano la motivazione sono:

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- l’ansia; - la capacità attentiva; - la motivazione al successo. E’ stato dimostrato che l’ansia, applicata ad un contesto generale, non ha rapporto alcuno con la prestazione agonistica, mentre l’ansia legata alla competizione tende a diminuire con l’età e l’esperienza degli atleti. Passer (1981) indica sei elementi variabili che influiscono sullo stato di stress che una competizione provoca in atleti molto giovani: a) disciplina sportiva (gli sport individuali producono maggior stress); b) importanza della gara (direttamente in relazione con lo stress); c) risultato (se positivo avremo una diminuzione dello stress, se negativo un aumento); d) livello di autostima (indirettamente proporzionale allo stress); f) livello congenito di ansia (direttamente proporzionale allo stress). Allenare significa, tenendo conto di questi fattori, assumere contemporaneamente le funzioni di educatore/formatore, di tecnico/organizzatore, oltre che di leader: la capacità di passare da una funzione all’altra scegliendo di volta in volta il ruolo più adatto determina il patrimonio professionale più prezioso per l’allenatore (Antonelli, Salvini, 1987). Molti studiosi sostengono che, in quanto educatore, l’allenatore ha il compito di formare atleti maturi sia dal punto di vista fisico che psicologico, oltre che il più possibile completi tecnicamente. Il maestro di tennis non deve essere solo bravo a presentare l’esecuzione tecnica dei colpi, ma deve riuscire anche a farsi capire dai ragazzi nel trasmettere il proprio sapere: deve riuscire a tradurre la propria competenza in un linguaggio più semplice, a loro comprensibile. In ogni seduta di allenamento si cercherà di sviluppare e migliorare le abilità cognitive in atto durante il processo di elaborazione dell’informazione (percezione, memoria, attenzione), di selezione della risposta (un semplice gesto può divenire un gesto tattico) e di automatizzazione (liberare quindi la mente dal controllo del gesto per poi indirizzarla verso l’analisi della situazione). La funzione di istruttore è quindi la caratteristica più importante del ruolo dell’allenatore: acquisire competenze è molto più semplice che trasmetterle. Moderne teorie dell’apprendimento applicate a questo settore indicano all’allenatore le modalità più idonee per far acquisire gesti motori e sistemi tattici in maniera “plastica”, cioè utilizzabili dall’atleta nelle più svariate situazioni di gioco. Quindi, una volta mostrato all’allievo l’esecuzione tecnica, per esempio, dello smash,

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anche con l’ausilio di immagini filmiche, occorre insistere ulteriormente sulla presa di coscienza delle informazioni propriocettive ed eterocettive, sull’analisi dell’aggiustamento motorio e sulla sua ripetizione affinché si crei l’automatismo nell’esecuzione di tale colpo. Questo processo di apprendimento contribuisce più in generale allo sviluppo di autonomia e di controllo nell’atleta. Per un allenatore, soprattutto se si parla di tennis, è importante, che gli atleti imparino a conoscere bene la tecnica di conduzione dei colpi, oltre che la modalità tattica: egli deve insegnare al singolo a prendere proprie decisioni sulla base di proprie valutazioni. Un buon allenatore deve intervenire per ridurre qualsiasi forma di dipendenza: “allenare” dovrebbe proprio significare un incremento della propria indipendenza, in maniera tale che gli atleti si abituino a pensare e ad agire da soli. Se resi più autonomi e indipendenti, infatti, essi sono in grado di riconoscere e quindi controllare i sintomi generatori dello stress, ad esempio, in occasioni di situazioni emotive molto forti che necessitano di autocontrollo (come la rimonta dell’avversario su un set dato per vincente), quando subentra la stanchezza e non si riesce più a pensare in maniera limpida, oppure quando il pubblico rumoreggia e inveisce contro un atleta (episodi frequenti in incontri di “Coppa Davis”). Fra i compiti dell’allenatore vi è anche quello di occuparsi della motivazione, intesa come “spinta” soggettiva delle pulsioni, dei bisogni e degli stimoli che dirigono il comportamento dei suoi atleti. Senza motivazione, questo è certo, non vi è apprendimento significativo: le nozioni si acquisiscono cioè in maniera passiva, senza partecipazione. Per tenere la motivazione a livelli alti, occorre indicare, per ogni seduta di allenamento, le mete da raggiungere, quindi variare spesso gli esercizi senza dilungarsi in spiegazioni monotone, creare brevi momenti di competizione e far sì che ogni atleta migliori, provando piacere, le proprie capacità. Altro errore da non commettere: mai rimproverare duramente gli atleti o esprimere valutazioni negativi per gli errori commessi, quando questi non dipendono da scarso impegno. E’ importante, invece, sottolineare gli elementi positivi dando leva su questi ultimi, permettendo al singolo giocatore di misurarsi con gli altri. Peterson, Bauer e Tiburzio (1987) riassumono in nove punti le responsabilità dell’allenatore:

a) sviluppare il senso di appartenenza, attraverso l’utilizzo del pronome “noi”, per far sentire allenatore e allievi un tutt’uno, una forza collettiva;

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b) fissare obiettivi comuni, chiari, realistici e condivisi, in quanto avere mete precise è fondamentale;

c) definire ruolo e mansioni dei propri atleti, affinché possano fare riferimento a un codice comportamentale valido per tutti, senza valutazioni interpretabili soggettivamente;

d) utilizzare un rinforzo positivo evitando sanzioni e punizioni che non farebbero che aumentare la paura dell’errore: esse infatti riducono la motivazione e possono generare un rifiuto collettivo verso la figura dell’allenatore;

e) favorire la partecipazione attiva e interessata; f) trattare tutti allo stesso modo, valutando con gli stessi criteri,

evitando favoritismi (rischio molto frequente nel tennis..); g) premiare i sacrifici, che denotano passione e impegno; h) trovare soluzioni tecnico-tattiche per equilibrare i rapporti tra gli

atleti ; i) promuovere occasioni per stare insieme anche al di là di allenamenti

e gare. Spesso l’allenatore non è consapevole che il proprio stile comunicativo non è adeguato e rischia di causare situazioni di stress, oltre a determinare problemi intorno alla dinamica del gruppo (interazione allenatore-atleta, con le modalità da seguire per mantenere un positivo rapporto). Da qui l’esigenza di possedere sul piano relazionale e comunicativo un set di abilità e di competenze indispensabili per svolgere adeguatamente il proprio ruolo. Capitolo 3 Tecniche di gestione dell’ansia Paragrafo 3.1: cenni storici Varie procedure sono utilizzate per ridurre, o, se possibile, eliminare gli effetti debilitanti, così come vi sono molte tecniche atte a modulare gli effetti di arousal sull’organismo. Anche le prime applicazioni di tecniche di rilassamento in psicologia dello sport riportate nei testi di letteratura riferiscono, seppur basandosi esclusivamente su dati descrittivi, risultati soddisfacenti. Tutt’ora differenti tecniche vengono utilizzate nella cura del disturbo d’ansia generalizzato: il rilassamento progressivo di Jacobson, il feedback elettrobiografico, la meditazione trascendentale, tra le più note. Nei tempi attuali gli studi in proposito sono ancora molto pochi, e non

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essendo omogenei e poco controllati è difficile poter stabilire con certezza la validità di tali metodi. L’origine delle tecniche attive (definite muscle-to-mind, in quanto partono dal corpo, per poi indurre uno stato di rilassamento) di gestione ansiogena può esser fatta risalire agli anni ‘30, con l’utilizzo, da parte di Jacobson (1938), del rilassamento progressivo, ricerca ripresa poi in tempi successivi con l’utilizzo della desensibilizzazione sistematica (Wolpe, 1969): una presa di coscienza, cioè, dello stato di tensione muscolare attraverso la contrazione e il rilassamento di gruppi muscolari. In tempi successivi venne scoperto il feedback elettrobiografico, utilizzato per ottenere, per mezzo di elettrodi posizionati nel corpo, che rilevano la tensione muscolare o viscerale (rimandata al soggetto per mezzo di stimoli acustici o visivi), il rilassamento muscolare. Il training autogeno (TA), molto noto, è una tecnica di rilassamento passivo (definita mind to muscle, in quanto prevede un approccio mentale o cognitivo) messa a punto da Schultz nel 1932 come metodo di autodistensione da concentrazione psichica, per finalità psicoterapeutiche: attualmente è una delle pratiche più usate in ambito di psicologia dello sport. La meditazione trascendentale (anch’essa mind-to-muscle), derivata in genere da antiche pratiche orientali (meditazione Zen, Hatha Yoga) potenzia le capacità attentive e permette, tramite queste, uno stato di benessere psicofisico, pur richiedendo un’attività mentale capace di avviare risposte psicobiologiche di rilassamento. Tornando all’efficacia di determinate tecniche, Nideffer e Deckner descrissero già nel 1970 il caso di un atleta eccessivamente ansioso in competizione, che in seguito ad un intervento con rilassamento progressivo incrementò la sua prestazione nel getto del peso. Differenti tecniche sono state messe a punto per gestire gli stati ansiosi in ambito sportivo, molte delle quali si basano ampiamente su tecniche di rilassamento. Se le reazioni ansiogene si manifestano prevalentemente a livello fisiologico o comportamentale saranno maggiormente indicate tecniche somatiche, mentre se la reazione si riscontra nei contenuti dei pensieri sarà più appropriato un approccio di tipo cognitivo (per esempio, la meditazione di Benson, 1975). Il controllo dell’ansia somatica viene conseguito efficacemente attraverso tecniche quali il rilassamento progressivo e il biofeedback; il controllo dell’ansia cognitiva è invece realizzato adeguatamente per mezzo di strategie di self talk (vedi paragrafo 3.4). Mahoney e Meyers (1989) consigliano di allenare le abilità di gestione dello stress in situazioni competitive reali e simulate, e di ridefinire il significato personale dei concetti quali:

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prestazione, ansia, successo, fallimento. Alcune più importanti metodiche di intervento derivano dall’ambito clinico (Dishman, 1983) e presentano rilevanza esplicativa nel mondo dello sport. Molte di queste tecniche presentano rilassamento e visualizzazioni. Una partecipazione più diretta del soggetto è ricercata anche attraverso tecniche che richiedono l’acquisizione di molteplici abilità per affrontare lo stress. Si tratta di tecniche multimodali che, derivate dall’ambito clinico, hanno trovato un’efficace applicazione in psicologia dello sport per aiutare l’atleta ad affrontare le diverse manifestazioni e reazioni personali allo stress. Una di queste è lo Stress Inoculation Training (SIT). Messo a punto da Meichenbaum (1977, 1985), è un programma di apprendimento di abilità cognitive e fisiologiche per controllare lo stress. Un altro programma multimodale è lo Stress Management Training (SMT), sviluppato da Smith (1980, 1984). Nella gestione dello stress, alcune ulteriori modalità prevedono la simulazione di situazioni competitive che replicano le condizioni tecniche, tattiche, psicologiche, sociali e situazionali della competizione (Vanek e Cratty, 1970). Il modeling covert è invece un’altra procedura che prevede l’apprendimento di nuovi comportamenti, o la modifica di quelli esistenti, visualizzando scene in cui altre persone, definite “modelli”, agiscono in modo efficace. Paragrafo 3.2: tecniche di rilassamento muscle-to-mind Attraverso questo genere di tecniche si ricerca l’apprendimento di uno stato di rilassamento partendo da sensazioni corporee. Gli atleti, per l’abitudine di lavorare spesso con il proprio corpo, ricorrono molto spesso all’uso di queste tecniche. Alla base di molteplici altre respirazioni vi è l’esecuzione di atti respiratori semplici e profondi. Nell’inspirazione diaframmatici, il diaframma si muove lentamente verso il basso, spingendo l’addome in fuori e cercando in tal modo di facilitare l’entrata di aria nei polmoni. Un atto respiratorio completo è eseguito se l’atleta si concentra nel riempimento della parte inferiore dei polmoni, poi della porzione mediale (espandendo il torace poco alla volta), ed infine della zona superiore, innalzando lentamente petto e spalle. Questi tre momenti andrebbero eseguiti in maniera continua e fluida. Il respiro va trattenuto per alcuni secondi, e nella successiva espirazione vanno eseguite le tappe successive, svuotando i polmoni. La respirazione controllata si rivela di

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notevole utilità anche per recuperare le energie nei momenti di disimpegno dell’attività motoria. La procedura di rilassamento progressivo, sviluppata da Jacobson, si basa sulla teoria che afferma come rilassamento e tensione (questa derivata dall’ansia) siano due stati contrapposti e che non possono quindi presentarsi contemporaneamente. La tecnica prevede la contrazione sistematica e via via più intensa di gruppi muscolari specifici, mantenuti per alcuni secondi in tensione isometrica prima di essere rilasciati. Le contrazioni coinvolgono in via progressiva ed in maniera analitica tutti i gruppi muscolari: braccia, gambe, busto, collo e capo. Con l’allenamento la procedura viene notevolmente abbreviata, considerando solo i principali settori muscolari. Tramite la contrazione volontaria si ottiene maggior consapevolezza e sensibilità agli stati tensivi; dopo la tensione la fase successiva, di rilassamento, è vissuta con maggior intensità, per effetto contrastante. Questo gioco di continua tensione/rilassamento permette di concentrare l’attenzione sull’attività muscolare, contribuendo quindi ad incrementare i propri livelli di concentrazione. Con l’allenamento potremo avere sensazioni di calore e pesantezza, associate al rilassamento, favorite dalla distensione muscolare e da un miglior flusso sanguigno. Per indurre uno stato di rilassamento, è utile l’utilizzo di parole stimolo come “calma”, o di colori (blu o verde) immaginati e associati all’atto respiratorio. Tutto questo deve accadere senza alcuno sforzo che, al contrario, produrrebbe stati di ulteriore tensione. Un’altra procedura attiva è quella del rilassamento progressivo differenziale, metodica che richiede sì contrazioni/decontrazioni di gruppi muscolari, controllando però l’intensità della tensione (leggera, media, massimale). Il rilassamento differenziale si realizza frequentemente nell’esecuzione delle tecniche sportive: durante azioni coordinate, infatti, alcuni gruppi muscolari si rilassano ed altri invece si contraggono in maniera più adattata alle richieste del compito. Con questa metodica gli atleti imparano a ridurre la tensione disfunzionale e a risparmiare quindi energie. Paragrafo 3.3: tecniche di rilassamento mind-to-muscle Tutte le strategie di rilassamento mind-to-muscle richiedono un’attività mentale capace di avviare risposte psicobiologiche di rilassamento. La meditazione, che riprende antiche pratiche orientali, richiede quattro componenti indispensabili: un ambiente tranquillo, una posizione

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confortevole, un “dispositivo mentale” ed un atteggiamento passivo. Il dispositivo mentale è caratterizzato dalla ripetizione di un mantra, ovvero un suono ritmico di una o due sillabe, o dalla fissazione dello sguardo su di un oggetto. Con questo sistema di focalizzazione dell’attenzione è favorito il passaggio da un orientamento esterno (gli stimoli ambientali), ad uno interno (riguardante il proprio corpo). Le distrazioni occasionali vanno recepite in maniera passiva, riportando l’attenzione sempre sulla meditazione. La risposta di rilassamento sviluppata da Benson nel 1975, è sì una tecnica meditativa derivata da pratiche orientali, ma è comunque adattata al mondo occidentale. Il rilassamento viene ottenuto concentrandosi passivamente sull’attività respiratoria e ripetendo mentalmente la parola “calma” (o parole che inducano al rilassamento). Si ottiene dunque uno stato psicofisico diverso da altri stati di coscienza, quali il sonno, il sogno o la veglia; abbiamo un elevato livello di consapevolezza e vigilanza, raggiungibile solo attraverso un completo rilassamento corporeo e mentale. Oltre ad agire direttamente sullo stato di attivazione (vi è diminuzione dell’attività del sistema simpatico), la pratica costante della tecnica di Benson determina riduzione degli stati ansiosi determinati dallo stress. Dopo che è stato avviato il rilassamento, di norma vengono introdotte le visualizzazioni. Si possono impiegare immagini ambientali o scene distensive (esser stesi in spiaggia sentendo il calore del sole, sotto il suono ritmico delle onde), purchè vengano percepite in maniera tale dal soggetto. Per ottenere uno stato ottimale di attivazione prima di una competizione è utile rievocare esperienze sportive positive, individuando in maniera approfondita comportamenti, emozioni e ulteriori elementi in grado di contribuire ad uno stato di arousal adeguato. Molteplici immagini vengono utilizzate per innalzare il livello energetico dell’organismo: da animali a forze della natura, a dispositivi meccanici. Esse vanno comunque scelte e adattate in base a necessità sportive e a preferenze individuali, utilizzando un piano dettagliato su come e quando impiegare gli stimoli. Uno studio di Kavanagh e Hausfeld (1986) ha dimostrato che l’esposizione dei soggetti ad immagini di emozioni positive determinava incrementi di forza significamene superiori rispetto all’esposizione ad immagini evocanti vissuti di tristezza o di condizione neutra. Anche l’energia che origina da sentimenti di rabbia, frustrazione e altre emozioni forti che tendono a influenzare la prestazione, andrebbe convertita in maniera proficua, al fine di incrementare la prestazione sportiva. Ne sono un esempio gli atleti che imparano ad utilizzare le

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stimolazioni che derivano dalle incitazioni del pubblico, trasformandole, qualora fossero di natura ostile, in incentivi positivi. Nel rilassamento passivo (inventario corporeo) non si richiede alcuna tensione muscolare, ma la concentrazione graduale sui vari distretti corporei da rilassare. Può essere eseguito in forma ampia e completa oppure, dopo un periodo di allenamento, in forma abbreviata (inventario rapido). Durante la seduta di rilassamento è utile soffermarsi soprattutto, ma non in maniera eccessiva, sui gruppi muscolari nei quali si avverte un certo livello di tensione; quando inizia a calare la concentrazione si prosegue con i restanti distretti corporei. Aree comunemente sede di tensione, soprattutto in atleti ansiosi, sono quelle del collo e delle spalle; il rilascio della contrazione eccessiva in questi settori facilita l’avvio del rilassamento anche al resto del corpo. Prima di un match importante, è molto efficace la distensione dei distretti muscolari, come appunto quelli delle spalle e del collo. Il training autogeno (TA) consiste in una serie di esercitazioni strutturate, autosuggestioni, al fine di controllare alcuni importanti processi psicofisiologici e sviluppare una serie di sensazioni partendo da quelle di calma, pesantezza e calore. L’attenzione, passiva e senza alcuno sforzo fisico, è diretta alla produzione spontanea di cambiamenti nel tono muscolare, nelle funzioni cardiovascolari e respiratorie, nell’equilibrio neurovegetativo e nello stato di coscienza, attraverso formule verbali specifiche riconducibili essenzialmente a due categorie fondamentali:

a) formule d’organo (mirate alla modifica di funzioni organiche); b) formule intenzionali (volte a modifiche funzionali di comportamento

e vissuti). Un lato positivo del TA consiste nel responsabilizzare il soggetto, enfatizzando la necessità dell’impegno sistematico personale per raggiungere risultati positivi; tuttavia, nelle prime fasi di apprendimento della tecnica, è necessario un operatore esterno. Il TA prevede 6 tappe consequenziali di allenamento (ciclo inferiore), caratterizzate dallo sviluppo di sensazioni e manifestazioni corporee, ognuna delle quali funge da preparatoria alla successiva:

1) pesantezza; 2) calore; 3) percezione e regolazione del battito cardiaco; 4) regolazione del respiro; 5) sviluppo di calore al plesso solare;

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6) sviluppo di freschezza alla fronte. Ogni esercizio deve essere ben acquisito, fino ad ottenere in maniera soddisfacente i risultati desiderati: solo allora si passerà all’esercitazione successiva. Dopo il ciclo inferiore è poi previsto un ciclo superiore nel quale vengono visualizzati colori, immagini, concetti, ecc. che attiveranno una specifica sequenza emotiva. A livello prettamente sportivo, una volta acquisiti gli esercizi standard del ciclo inferiore, e il soggetto è quindi in grado di produrre i relativi fenomeni agevolmente e in tempi brevi, sono introdotte immagini specifiche rivolte agli obiettivi della preparazione mentale, compresa la regolazione del proprio stato di arousal. Una volta appresa la tecnica di base si procederà alla sua applicazione in situazioni di allenamento e gara. Vanek e Cratty (1970) hanno proposto una specifica successione per l’applicazione del TA nello sport:

1) l’assunzione di una posizione confortevole (solitamente è la posizione supina);

2) concentrazione sul respiro profondo; 3) tensione e rilassamento dei muscoli corporei (simile al

rilassamento progressivo di Jacobson); 4) concentrazione su sensazioni di rilassamento e pesantezza; 5) sviluppo di sensazioni di calore gradualmente coinvolgenti i

diversi settori corporei; 6) visualizzazione di se stessi in competizione con conseguente

contrazione della muscolatura, modifica del respiro (che diviene più superficiale e frequente) e raggiungimento del livello ottimale di attivazione.

Per imparare a regolare lo stato di attivazione è utile alternare più volte, durante la seduta, fasi di rilassamento e fasi di tensione. Spigolon e Dell’Oro, nel 1985, hanno messo a punto un sistema di TA applicato in acqua, atto a favorire uno stato di profondo rilassamento. Paragrafo 3.4: il self talk Normalmente l’individuo passa molto del suo tempo a dialogare con sé stesso. Questo dialogo personale, denominato self talk, non sempre viene vissuto in maniera consapevole, al punto che ne viene trascurato anche il contenuto. I pensieri sono in grado di influenzare direttamente le sensazioni, le azioni, la visione del mondo. Pensieri appropriati generano sentimenti positivi e piacevoli, facilitando una buona prestazione, ma

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pensieri inappropriati, al contrario, agiranno negativamente sulle proprie competenze. Pochi sono gli atleti che, nel corso della propria carriera, non sperimentano vissuti dubbiosi circa le proprie capacità; se questi stati diventano via via più frequenti, si corre il rischio diventino cronici, soffocando quindi le potenzialità del giocatore. Atleti fiduciosi solitamente riferiscono dialoghi interni, fantasie e sogni in cui immaginano di primeggiare in una data competizione, inneggiati dal pubblico; il contenuto dei pensieri è centrato in questo caso sulla capacità di gestire la situazione sportiva. Le aspettative sulle capacità personali non potranno che agire positivamente sulle competizioni future: attese negative, al contrario, potranno generare solo insuccesso. Entrando nella dimensione operativa, è importante che l’atleta impari a controllare i pensieri gestendo il self talk in maniera proficua. Solo in tale maniera potrà apprendere nuove abilità, correggere i propri errori, controllare la soglia attentiva. Il self talk, in un primo momento, viene suggerito per mezzo di parole-stimolo (possono essere suggerite dallo psicologo, dall’allenatore), il cui scopo è quello di fissare aspetti chiave dell’esecuzione motoria. Possono essere parole che riconducono ad una dinamica del movimento (“Terminare con la racchetta alta” nel diritto, per esempio) o ad una determinata sequenza di azioni (per esempio: lancio della palla, movimento del braccio, impatto, spinta con le gambe nel servizio). Il self talk deve comunque essere il più essenziale possibile: attraverso l’apprendimento si cerca la riduzione del controllo volontario, a favore di una esecuzione automatica. Se in principio l’attenzione è diretta alle caratteristiche rilevanti per l’esecuzione del gesto tecnico, quando il movimento è stato automatizzato va rivolta ad altri aspetti, come quelli tattici. Anche una volta avviata l’esecuzione tecnica del movimento, uno stimolo verbale sintetico può sempre essere utile per avviare l’azione. Per quanto riguarda invece la correzione di errori consolidati, è necessaria l’attivazione di un controllo cosciente sulla precedente esecuzione automatica. Il self talk, in questo caso, permette di costruire nuove risposte togliendo progressivamente automaticità all’esecuzione precedente. E’ chiaro che più è drastico il cambiamento da apportare, più dettagliata dovrà essere l’esecuzione del self talk da riapprendimento.

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Paragrafo 3.5: il Goal Setting Indipendentemente dal contesto nella quale viene sviluppata, la formulazione di obiettivi (goal setting) rappresenta una tappa cruciale in ogni programmazione. Un obiettivo rappresenta un comportamento osservabile che l’individuo desidera realizzare in condizioni definite, rispettando comunque uno standard di prestazione conseguibile in un arco di tempo a breve, medio o lungo termine. Anche nel contesto sportivo la formulazione di obiettivi concreti e raggiungibili si è rivelata una valida strategia, in grado di influenzare positivamente la prestazione di atleti di differenti fasce di età e livello. Oltre ad agire in termini motivazionali, la consapevolezza dei propri obiettivi aiuta a migliorare la prestazione e la qualità dell’allenamento; accresce motivazione intrinseca al successo, soddisfazione e fiducia nelle proprie capacità. Nel goal setting vengono individuati quattro aspetti che influiscono positivamente sulla prestazione (Tubbs, 1986):

a. Gli obiettivi difficili si dimostrano più efficaci rispetto a quelli facili. Il livello di difficoltà andrebbe comunque mantenuto entro livelli realistici, costituendo una sfida ed uno stimolo per il miglioramento della propria prestazione personale (o collettiva, se l’individuo si trova in gruppo). Gli obiettivi e le attività, pertanto, vanno individualizzati;

b. gli obiettivi vanno specificati dettagliatamente e formulati in maniera chiara e comprensibile: in questo caso avremo un’esito di prestazione certamente migliore;

c. vanno forniti al soggetto feedback sul risultato conseguito. Informazioni sulla prestazione, fondamentali per apprendere e correggere gli errori, generano maggior impegno e costituiscono ottimo incentivo nel perseguire il compito;

d. sia a livello individuale che collettivo la scelta di obiettivi condurrà a esiti migliori. Si ottiene infatti maggior responsabilizzazione ed una appropriazione autonoma dei contenuti delle attività. Se una persona viene coinvolta nella scelta dei propri obiettivi, tende a sceglierli più ambiziosi rispetto a quando sono assegnati da qualcun altro.

L’esito positivo del goal setting è legata strettamente all’accettazione degli obiettivi da parte di chi deve conseguirli: se questi vengono imposti

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dall’esterno, difficilmente saranno accettati dal soggetto e, mancando il suo interesse, non potranno agire efficacemente nei loro effetti motivazionali.

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CONCLUSIONI Vorrei, per concludere, riportare una esperienza che ho fatto e che considero molto importante per far capire la confusione che esiste in materia di “mental training”. Durante una riunione di una associazione di maestri di tennis in Romagna ho preso la parola ed ho rivolto alcune domande ai miei 48 colleghi che come me sono responsabili di scuole S.A.T.. Ho chiesto, come prima domanda, quanti di loro credevano importante il “mental training”: risultato 42 mani alzate. Come seconda domanda ho chiesto quanti di loro usufruivano della figura dello psicologo all’interno della propria struttura: nessuna mano alzata. Come terza domanda ho domandato se qualcuno aveva nozioni riguardanti l’allenamento mentale e strutturava lezioni nella propria programmazione: nessuna mano alzata. Per finire come ultimo quesito ho chiesto quanti di loro avrebbero accettato l’introduzione di un programma di mental training se uno psicologo affermato in materia si fosse offerto gratuitamente: 40 mani alzate. Io credo che l’ esempio Romagnolo possa rispecchiare fedelmente come sia la realtà e l’opinione dei maestri in Italia. Le scuole S.A.T. non possono più permettersi di presentare bilanci in rosso; costi aggiuntivi, come l’utilizzo dello psicologo sportivo, sono considerati inutili dai dirigenti dei circoli e spesso non vengono presi in considerazione. Anche nei casi in cui la cosa risultasse possibile verrebbe sicuramente preso con una certa diffidenza da parte dei genitori degli allievi. Solo certi “team privati”, più sensibili al problema, si avvalgono del contributo di uno psicologo con la finalità di formare giocatori di tennis professionisti. È usanza comune consultarsi con uno psicologo solo dopo l’insorgere di problemi a cui non si trovano rimedi. Penso che il maestro debba possedere i mezzi per poter riconoscere gli effetti fisiologici causati da uno stato di stress durante un allenamento o una gara ed essere in grado di fare un primo intervento di mental training sul giocatore. L’intervento dello psicologo deve essere rivolto anche ad incrementare le competenze dell’allenatore che dovrà essere in grado di proporre programmi relativi alla gestione dello stress , alla gestione delle risorse umane , sulla capacità

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di mantenere a lungo un alto livello di concentrazione e sulla scelta degli obiettivi. In conclusione vorrei sottolineare quanto sia importante introdurre corsi ed aggiornamenti di psicologia applicata al tennis per maestri e tecnici perchè non si può non considerare un lato così importante nello sviluppo di un giocatore di tennis professionista.

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