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Home Enciclopedia Costantinopoli in Enciclopedia dell' Arte Medievale
Enciclopedia dell' Arte Medievale (1994)
COSTANTINOPOLI
di C. Barsanti
COSTANTINOPOLI (gr. ΚωνσταντινούπολιϚ; turco Istanbul)
Fondata da Costantino sul sito dell'antica Bisanzio (gr. Βυζάντιον), capitale
dell'impero romano d'Oriente e poi di quelli bizantino e ottomano, oggi centro
principale della Turchia, C. sorge su di un promontorio collinoso che chiude
l'imboccatura dello stretto del Bosforo, il canale naturale che mette in
comunicazione il mar Nero (l'antico Pontus Euxinus) con il mar di Marmara
(l'antica Propontide). Subito a N del promontorio si stende la profonda insenatura
del Corno d'Oro, che separa i quartieri centrali della città dai sobborghi di Pera e
Galata. Il profilo orografico del promontorio è movimentato da due gruppi di
rilievi collinosi: il primo, disposto immediatamente a ridosso della riva
meridionale del Corno d'Oro, è articolato in sei alture; il secondo, più basso e
costituito da un solo rilievo prospiciente il mar di Marmara, si colloca invece alla
base della penisola ed è separato dal precedente dalla valle del fiume Lycus, l'unico
modesto corso d'acqua che attraversa il territorio urbano.
Urbanistica e architettura
Benché nessuno dei rilievi collinosi superi l'altezza di m. 50 sul livello del mare, la
loro particolare conformazione orografica, con piani sommitali piuttosto stretti
separati da profondi valloni, condizionò sensibilmente fin dai primi secoli
l'espansione e l'assetto urbanistico della città, costringendo spesso i costruttori a
operare vasti sbancamenti e ad allestire grandi terrapieni o imponenti opere di
sostruzione per garantire agli edifici uno sviluppo sufficiente: le indagini
archeologiche hanno dimostrato come lo stesso Grande Palazzo imperiale fosse
costruito in larga misura su terrazzamenti artificiali affacciati sul mare, mentre
resti imponenti di opere di sostruzione sono visibili nella zona occupata dalla curva
dell'ippodromo o al di sotto del complesso monastico del Pantokrator, dove,
ancora nel corso del sec. 12°, vennero riutilizzate le vaste strutture di una grande
cisterna di epoca protobizantina (Müller-Wiener, 1977, p. 210).Come dimostrano i
ritrovamenti (Janin, 19642, pp. 9-11), il popolamento della regione avvenne già in
età preistorica (Studien, 1973) e interessò in una prima fase le zone
immediatamente a ridosso delle due coste del Bosforo. Il primo insediamento
urbano testimoniato dalle fonti risale al sec. 7° a.C., quando sull'estremità del
promontorio venne fondata una colonia dorica che assunse il nome di Bisanzio,
derivato, secondo le stesse fonti, da quello dell'eroe eponimo Byzas. Nel 196 d.C.
Bisanzio, che nella crisi dinastica romana aveva parteggiato per Pescennio Nigro,
venne conquistata da Settimio Severo, che ne soppresse lo statuto di città libera
distruggendone le difese e riducendola al rango di semplice villaggio. L'importante
CONDIVIDI
COSTANTINOPOLI
COSTANTINOPOLI
COSTANTINOPOLI
APPROFONDIMENTI
IN TRECCANI
COSTANTINOPOLI si trova anche nelle opere
EN CICLOPEDIA DELL' AR TE ANTICA (1959)
COSTANTINOPOLI (¿¿¿sta¿t¿¿¿¿p¿¿¿¿, o ¿¿¿sta¿t¿¿¿¿
p¿¿¿¿; Constantinopolis). - È l'antica capitale
dell'Impero di Oriente.La città sorse fin dalle origini su
un promontorio trapezoidale che si protende nel mare
con la sua punta arrotondata e leggermen...
EN CICLOPEDIA COSTANTIN IANA (2013)
Costantinopoli Sommario: ¿¿ ßas¿¿¿¿¿ p¿¿¿¿ ¿ Il
progetto ¿ La riqualificazione urbana dell’antica
Bisanzio. Il Palazzo imperiale e l’Ippodromo – L’area
dell’antica acropoli – Il ¿¿¿¿¿¿ e la Basilica ¿ La
monumenta...
EN CICLOPEDIA DEI RAGAZZ I (2005)
CostantinopoliUna città tra Europa e
AsiaCostantinopoli significa "città (in greco pòlis) di
Costantino". Si tratta del nuovo nome assunto
Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...
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posizione strategica della città fece però sì che lo stesso imperatore provvedesse in
seguito al suo ripopolamento e alla costruzione di una nuova cinta di mura a difesa
dell'estrema propaggine del promontorio.Nel 324 Costantino designò la città, che
da lui prese il nome di C., a capitale dell'impero d'Oriente, avviando un grande
programma urbanistico inteso a fare di C. una città in grado di rivaleggiare anche
sul piano monumentale con l'antica Roma e i cui assi portanti condizionarono in
maniera sensibile lo sviluppo urbano anche nei secoli successivi. Le fonti non
concordano sulla cronologia delle fasi di costruzione della città costantiniana, che
venne comunque ufficialmente inaugurata l'11 maggio del 330; da allora e fino alla
sua caduta nelle mani dei Turchi ottomani di Maometto II il 29 maggio 1453 - salvo
la parentesi costituita dall'occupazione latina nel corso della quarta crociata
(1204-1261), quando la sede imperiale fu trasferita a Nicea - C. fu per oltre un
millennio la capitale dell'impero bizantino e, insieme a Roma, il maggior centro
monumentale del mondo tardoantico e medievale.Lo sviluppo e la trasformazione
del tessuto urbano di C. furono segnati in ogni fase da una serie di catastrofi
naturali che contribuirono al continuo riassetto topografico e monumentale della
città. Costruita al centro di una regione fortemente tellurica, la capitale bizantina
fu interessata da un gran numero di terremoti (le fonti ne riportano ben
diciannove tra i secc. 5° e 6°; I terremoti, 1989, pp. 682-706) dagli esiti spesso
devastanti: per citare solo i più rilevanti, vanno ricordati quello del 447, che
distrusse buona parte delle mura di cinta della città, quelli succedutisi a più riprese
tra il 533 e il 538, che causarono tra l'altro danni alla cupola di Santa Sofia, e quelli
dei primi decenni del sec. 11°, che interessarono numerosi edifici religiosi,
determinando in particolare la distruzione della chiesa dei Quaranta martiri di
Sebaste. Lo sviluppo spesso disordinato dell'edilizia residenziale privata - che
ripetuti interventi legislativi imperiali tentarono almeno di controllare (Kriesis,
1960; Dagron, 1974, pp. 91-92) - contribuì inoltre ad accrescere il rischio di
incendi e la portata delle loro conseguenze anche nei confronti di importanti
monumenti pubblici: così, per citare solo i casi più eclatanti, la stessa Santa Sofia fu
distrutta dalle fiamme in due occasioni (404 e 532), nel 476 bruciarono il palazzo
di Lauso e la biblioteca cittadina, nel 1204, durante la presa della città da parte dei
crociati, vennero distrutti interi quartieri e ancora nel 1434 le fiamme divorarono
la chiesa della Theotokos, nel quartiere delle Blacherne (Schneider, 1941a).
Fonti per la storia urbana
Le fasi dell'evoluzione urbana di C. possono essere seguite solo parzialmente
attraverso i dati archeologici, dal momento che per motivi diversi gli scavi e le
ricerche topografiche non hanno mai assunto sul territorio della moderna Istanbul
carattere di sistematicità. Benché il territorio urbano di C. e le sue vestigia
monumentali siano stati al centro dell'attenzione dei viaggiatori e degli studiosi
occidentali già a partire dal Rinascimento - basti ricordare le diverse versioni della
veduta planimetrica della città presenti nelle copie del Liber insularum Archipelagi
di Cristoforo Buondelmonti, del 1420 ca. (Gerola, 1931), o la grande quantità di
informazioni che si possono trarre dal De topographia Constantinopoleos et de
illius antiquitatibus libri quattuor di Pierre Gilles, edito a Lione nel 1561, o ancora
la pianta monumentale della C. antica realizzata tra il 1566 e il 1574 (Mordtmann,
1892), o i disegni di alcuni dei monumenti più significativi a opera di un anonimo
artista tedesco nella seconda metà del sec. 16° (Mango, 1965) -, i decenni della
seconda metà del sec. 19° e degli inizi del 20°, che videro l'affermarsi delle prime
ricerche archeologiche dell'era moderna sulle diverse regioni del mondo bizantino
(Zanini, in corso di stampa), non segnarono di fatto progressi sensibili nella
dall'antica città greca di Bisanzio (oggi Istanbul, in
Turchia) dopo la sua consacrazione come second...
Vedi tutti
VOCABOLARIO
foziano
foziano agg. – Relativo a Fozio, patriarca di
Costantinopoli (9° sec.), e alle sue dottrine teologiche;
scisma f., quello verificatosi fra la Chiesa greca e la
Chiesa latina, causato dall’inserimento, nel Credo
niceno-costantinopolitano, della clausola Filioque dopo
le parole ex Patre (per cui si affermava che lo Spirito
Santo procede non soltanto «dal Padre» ma anche «dal
Figlio»).
costantinopolitano
costantinopolitano agg. e s. m. (f. -a). – Di
Costantinopoli, antica capitale dell’impero ottomano,
oggi la principale città della Repubblica di Turchia (con il
nome di Istanbul); abitante o nativo di Costantinopoli.
ALTRI APPROFONDIMENTI
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conoscenza dell'impianto topografico generale e dei singoli monumenti della
capitale imperiale. Solo con la fine della prima guerra mondiale si crearono le
condizioni per l'avvio dei primi scavi su scala urbana, anche se, a dispetto delle
ricerche fin qui condotte, la topografia di larghi settori della città antica risulta
comunque ancora poco chiara almeno dal punto di vista dell'analisi archeologica
(Müller-Wiener, 1977).A fronte della totale perdita della documentazione
archivistica (Mango, 1980, pp. 6-9), informazioni relativamente ricche di carattere
topografico si desumono dalle fonti storiche, trattatistiche e narrative. La più
antica descrizione della città è costituita dalla Notitia urbis Constantinopolitanae,
opera anonima del secondo quarto del sec. 5° (Mango, 1985), cui segue
cronologicamente la raccolta dei c.d. Pátria (Dagron, 1984; Berger, 1988): si tratta
di una collazione di testi a carattere storico e descrittivo, compilata intorno alla
fine del sec. 10° tenendo conto di numerosi testi non pervenuti e riportando i brani
più significativi di altre tre opere conservatesi - i Pátria Konstantinupóleos, di
Esichio di Mileto (sec. 6°), le Parastáseis sýntomoi chronikái, opera anonima della
prima metà del sec. 8° (Constantinople, 1984), e la Diéghesis perì tès oikodomès tù
naù tès megáles tù Theù ekklesías tès eponomazoménes Haghías Sophías,
anch'essa anonima e di incerta datazione -, che, nonostante la dubbia attendibilità
di molti passi, costituisce un importante riferimento per lo studio della topografia
di C. nei primi secoli della sua storia (Dagron, 1974).Per quanto riguarda l'epoca
protobizantina, si rivelano di notevole utilità le opere degli storici di tradizione
antica (nel sec. 5° Zosimo, nel successivo Agazia, Giovanni Malala e poi Teofilatto
Simocatta e Marcellino Comes), mentre il primo libro del De Aedificiis di Procopio
di Cesarea è interamente dedicato all'elenco e alla descrizione delle costruzioni
civili e religiose fatte erigere a C. da Giustiniano.Solo a partire dai secc. 9° e 10° la
ricerca storico-topografica può trovare nuove basi nelle opere dei cronachisti
(Teofane il Confessore, sec. 9°; il suo anonimo continuatore nel secolo successivo,
noto come Teofane Continuato; Teodosio Meliteno, sec. 11°) e soprattutto nel
trattato De caerimoniis aulae Byzantinae, una collazione di testi diversi operata
dall'imperatore Costantino VII Porfirogenito (912-959), dedicata alla descrizione
del complesso cerimoniale di corte e dei diversi luoghi a esso deputati (Mango,
1959).Per l'epoca immediatamente precedente e successiva all'occupazione latina
di C., la grande attività letteraria e cronachistica fiorita presso le corti dei Comneni
e dei Paleologhi (per es. Anna Comnena e Giovanni Zonara, sec. 12°; Niceta
Coniate, sec. 13°; Giorgio Pachimere, Giovanni Cantacuzeno e Niceforo Gregora,
sec. 14°; Michele Ducas e Giorgio Franze, sec. 15°) ha permesso la trasmissione di
una grande quantità di dati, soprattutto relativi ai quartieri occidentali della città
intorno ai quali ruotavano i nuovi centri aggregativi della capitale
tardobizantina.Alla lunga lista delle fonti per la storia urbana di C. debbono infine
aggiungersi le testimonianze esterne al mondo bizantino, a partire dal resoconto
del viaggio compiuto da Hārūn ibn Yaḥyā alla fine del sec. 9° (riportato nel Kitāb
al-A'lāq al-nafīsa di Ibn Rusta) e dalle relazioni del vescovo Liutprando da
Cremona che nel sec. 10° fu ambasciatore alla corte bizantina, per proseguire con
la Geografia di al-Idrīsī e con le descrizioni dell'ebreo Beniamino di Tudela (sec.
12°), per giungere infine ai resoconti dei numerosi pellegrini russi (Majeska, 1984)
e alle descrizioni redatte dagli stessi comandanti crociati all'indomani della presa
della città.Al tempo di Settimio Severo Bisanzio era dotata di una propria cinta di
mura, solo ipoteticamente ricostruibile sulla base di fonti più tarde. All'interno
della cinta furono realizzati già in quell'epoca alcuni dei monumenti che
continuarono poi per secoli a segnare la topografia del nucleo della capitale
bizantina: si debbono infatti probabilmente a Settimio Severo l'impianto del
Tetrastoon - un grande quadriportico sull'area dell'antica agorá della città
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ellenistica, a ridosso del quale sorsero poi il Grande Palazzo imperiale, uno degli
edifici del Senato e la Santa Sofia -, la primitiva costruzione dell'ippodromo e
l'edificazione delle grandi terme di Zeuxippos.La designazione di C. a capitale
dell'impero d'Oriente diede il via a una fase di rapida e intensa espansione,
inaugurata dalla costruzione di una nuova cinta muraria posta a km. 3 ca. a O della
precedente (Strube, 1973, pp. 131-147; Dagron, 1974, pp. 401-408; Mango, 1990).
Epoca protobizantina
L'età di Teodosio II (408-450) si pone come fondamentale cerniera nella storia
urbanistica di C., segnando il compimento del processo di espansione della città
tardoantica e avviando al tempo stesso quella fase di continua ridefinizione degli
spazi interni che sarebbe stata in seguito caratteristica della capitale bizantina. Il
nome di Teodosio II è legato in primo luogo alla costruzione della nuova cinta
delle mura terrestri, eretta a partire dal 413, che costituì per secoli il cardine del
sistema difensivo della città (Meyer, Schneider, 1943; Tsangadas, 1980). Le mura
teodosiane - oggetto di un recente e discutibile intervento di restauro e di parziale
ricostruzione - si dispongono lungo un arco di cerchio a una distanza di km. 5,5 ca.
dall'estremità della penisola su cui sorge la città; partendo dalla costa della
Propontide, esse si sviluppano verso N per oltre m. 5600 fino a raggiungere il
quartiere delle Blacherne, dove sembrano arrestarsi bruscamente all'altezza del
palazzo del Tekfur Sarayı e dove probabilmente si raccordavano con l'autonoma
cerchia muraria, oggi scomparsa, che già in epoca costantiniana doveva difendere
quel quartiere. Lungo tutta la sua estensione la cinta teodosiana presenta una
peculiare articolazione strutturale, che servì da modello per gran parte dei sistemi
difensivi costruiti in epoca protobizantina in molte delle regioni dell'impero.
Procedendo dall'esterno verso l'interno si incontrano: un fossato artificiale (largo
m. 15-20, profondo m. 5-7) ancora oggi ben riconoscibile sul terreno; una prima
area scoperta, compresa tra il fossato e il primo muro; l'antemurale, fiancheggiato
da novantadue torrette disposte in asse con le cortine libere tra le torri del muro
principale retrostante; una seconda e ampia fascia scoperta; e infine il muro
principale (alto m. 11 ca.), dotato di un cammino di ronda e difeso da novantasei
torri di forme diverse (settantaquattro quadrate, quattordici ottagonali, cinque
esagonali, due eptagonali e una pentagonale), regolarmente distanziate tra loro di
m. 55 circa. Altrettanto peculiare e caratteristica dell'edilizia pubblica
costantinopolitana dei primi secoli dell'impero bizantino appare la tecnica edilizia,
caratterizzata dall'impiego di una muratura a sacco con nucleo centrale in
conglomerato cementizio e cortine a fasce di laterizi alternate a fasce di conci di
pietra squadrati.Nella cinta teodosiana si aprivano dieci porte principali - le più
importanti erano, da S a N, la porta d'Oro, la porta di Peghé o di Silivri, la porta di
S. Romano e la porta di Charisius o di Adrianopoli - cui si aggiungeva un
consistente numero di posterule che davano accesso agli spazi aperti tra le mura e
il fossato.Pur conservando nella loro sostanziale integrità l'aspetto originale
assunto dopo la ricostruzione, ancora in epoca teodosiana, dei lunghi tratti
abbattuti nel corso del terremoto del 447, le mura terrestri di C. furono oggetto nel
corso dei secoli di una serie di restauri volti a risarcire i danni provocati da
catastrofi naturali; le iscrizioni attestano gli interventi di Giustino II (565-578), di
Leone III Isaurico e suo figlio Costantino V dopo il terremoto del 740, di Basilio II
e Costantino VIII nel 975, di Alessio III Angelo (1195-1203), probabilmente
eponimo di una serie di restauri condotti dai comneni Manuele I (1143-1180) e
Andronico I (1183-1185) e di Giovanni VIII Paleologo (1425-1448). All'età
comnena, infine, va probabilmente datata la ricostruzione del segmento delle mura
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nel quartiere delle Blacherne, tra il Tekfur Sarayı e il Corno d'Oro.Il Chronicon
Paschale (Mango, 1985, p. 25, n. 12) e lo pseudo-Codino (Janin, 19642, p. 287, n. 3)
riferiscono a Teodosio II anche la costruzione delle mura che difendono C. lungo i
lati prospicienti il mare, ma questo dato non sembra trovare riscontro in altre fonti
e nell'evidenza dei resti conservatisi, che lascerebbero ipotizzare un'articolata
successione di interventi culminata probabilmente con la costruzione delle mura
lungo il Corno d'Oro nella prima metà del sec. 7° (Grumel, 1964; Mango,
1985).L'epoca teodosiana vide anche il definitivo consolidarsi delle infrastrutture
legate ai diversi momenti della vita cittadina. Il più importante asse stradale
continuava a essere rappresentato, come in età costantiniana, dalla Mese, i cui
rami meridionale e settentrionale vennero prolungati fino a raggiungere la cinta
teodosiana rispettivamente in corrispondenza della nuova porta d'Oro e della
porta di Adrianopoli. Sull'asse principale della Mese - che collegava il nucleo
monumentale ruotante intorno al grande Tetrastoon, più comunemente definito
già in età teodosiana Augusteion, alla porta d'Oro - si disponeva una serie di piazze
che, riprendendo e rielaborando il tema del forum romano, costituivano altrettanti
punti focali nella vita cittadina.Intorno all'Augusteion sorgevano gli edifici più
importanti e intimamente legati con l'esercizio e la rappresentazione simbolica del
potere civile e religioso: a S si apriva infatti la Chalké, il monumentale vestibolo
che dava accesso al Grande Palazzo imperiale; a E sorgevano il Senato e il
complesso della Magnaura, anch'esso parte del palazzo; a N, già a partire
dall'epoca di Costanzo (337-361), sorgeva la chiesa della Santa Sofia, mentre a O si
staccava appunto la Mese, il cui inizio era marcato dalla presenza del
monumentale Tetrapylon del Milion (Verzone, 1956b; Fıratlı, Ergil,
1969).Procedendo verso O il percorso della Mese era scandito dal foro ellittico di
Costantino, il cui centro era segnato dalla grande colonna onorifica in porfido
ancora in parte conservata, quindi dal foro di Teodosio I, detto anche forum Tauri
(Barsanti, in corso di stampa), quindi, dopo la biforcazione del Philadelphion, il
c.d. forum Bovis, di localizzazione ancora incerta e, da ultimo, il foro di Arcadio, il
cui centro è ancora indicato dalla presenza del grande basamento - oggi pressoché
totalmente inglobato in modeste abitazioni - della colonna onorifica eretta agli inizi
del 5° secolo.Tra gli edifici monumentali che caratterizzavano la C. teodosiana tre
appaiono particolarmente importanti per il ruolo che ebbero in tutte le epoche
della storia della capitale bizantina: il Grande Palazzo imperiale, l'ippodromo e la
Santa Sofia. Il primo sorgeva fin dall'epoca costantiniana (ma le prime fondazioni
potrebbero risalire già all'intervento di Settimio Severo; Herrin, 1991) all'estremità
della penisola su cui si dispone C., su di un grande terrazzamento prospiciente il
mar di Marmara. Le indagini archeologiche condotte a partire dai primi decenni di
questo secolo (Brett, Macauly, Stevenson, 1947; Talbot Rice, 1956; 1957; The Great
Palace, 1958) hanno potuto chiarire solo in minima parte la disposizione e
l'effettiva consistenza dei molti edifici che, collocandosi intorno a corti e porticati,
costituivano l'enorme agglomerato del palazzo, anche se i limiti del complesso
risultano ben definiti dalla presenza di altri monumenti pubblici. Gli edifici che
sorgevano all'interno sono in gran parte noti solo attraverso numerose ma spesso
imprecise fonti antiche - in particolare il De caerimoniis di Costantino VII - che
hanno permesso ricostruzioni ipotetiche (Dirimtekin, 1965; Guilland, 1969;
Miranda, 1983). Sul lato settentrionale del palazzo, rivolto verso l'Augusteion, si
apriva la Chalké, un edificio di impianto quadrangolare ricostruito da Giustiniano
che prendeva il nome dalla grande porta bronzea destinata a mettere in
comunicazione il palazzo con la Santa Sofia e che ospitava nella sala centrale
cupolata una vera e propria collezione di opere d'arte fatte giungere dalle diverse
regioni dell'impero (Mango, 1959). Attraversata la Chalké, si giungeva alle scholae
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dei corpi di guardia e quindi a una serie di sale di rappresentanza che
conducevano direttamente al palazzo di Daphné, di fondazione costantiniana, che
costituiva ancora in età teodosiana il nucleo centrale dell'intero complesso. Già con
Giustino II e poi con il suo successore Tiberio I (578-582) vennero portate a
termine la costruzione e la sontuosa decorazione del Crisotriclinio - la grande sala
ottagonale cupolata e dotata di un'esedra destinata a ospitare il trono imperiale -
che comunicava attraverso una serie di ambienti intermedi con la tribuna
imperiale (Káthisma), posta lungo il lato orientale dell'ippodromo. La zona
meridionale del palazzo sembra avesse invece una connotazione più spiccatamente
religiosa: presso il limite della spianata artificiale si trovavano infatti tre importanti
chiese dedicate rispettivamente alla Vergine, a s. Demetrio e a s. Elia, mentre più
in basso, oltre il limite del terrazzamento, sorse in seguito la grande Nea Ekklesia
voluta da Basilio I il Macedone (867-886) e nota solo dalle fonti.La zona
nordorientale del Grande Palazzo era occupata dal complesso della Magnaura,
utilizzato come luogo di ricevimento degli ambasciatori stranieri, il cui nucleo era
costituito da un edificio di impianto basilicale a tre navate in fondo al quale una
nicchia sopraelevata ospitava il c.d. trono di Salomone, corredato da un'imponente
scenografia di automi (v.), usato dall'imperatore nelle udienze alle delegazioni
straniere.Iniziato già sotto Settimio Severo e completato in età costantiniana,
l'ippodromo, che sorgeva a N-O del Grande Palazzo e tanto vicino a quest'ultimo
da condizionarne in parte lo sviluppo topografico, fu oggetto di continui restauri
nel corso dei secoli e ancora alla metà del sec. 14° ospitava tornei cavallereschi
secondo le mode importate un secolo prima dai conquistatori latini. Benché le
indagini archeologiche condotte negli anni Venti e Trenta abbiano interessato solo
una parte relativamente limitata del grande complesso, le fonti letterarie e
iconografiche - in particolare un'incisione di Panvinio (De ludis circensibus,
Venezia 1600, p. 61, tav. R) - permettono di riconoscerne l'impianto tradizionale
con la doppia corsia separata dalla spina (decorata da un'imponente collezione di
colonne e obelischi portati a C. dalle diverse regioni dell'impero; Guberti Bassett,
1991) e conclusa verso N-E dai carceres e all'estremità opposta dalla grande curva
della sphendoné.Il terzo grande polo del centro monumentale della C.
protobizantina e bizantina era costituito dalla chiesa della Santa Sofia. L'avvio dei
lavori di edificazione di questo grande tempio cristiano, collocato proprio nel
cuore dell'acropoli della città antica, si deve probabilmente già a Costantino, anche
se la prima chiesa - che le fonti consentono di ricostruire ipoteticamente come
impianto basilicale a tre o cinque navate, coperto a tetto e forse dotato di gallerie -
venne consacrata solo nel febbraio del 360, sotto il regno di Costanzo. Le fonti e gli
scarsi dati archeologici non consentono di stabilire quanta parte della chiesa
originaria andò distrutta nell'incendio del 404 nel corso dei disordini legati alla
deposizione di Giovanni Crisostomo dalla carica patriarcale; non è quindi possibile
determinare se il successivo intervento di Teodosio II, culminato con la
riconsacrazione del 415, sia consistito in un semplice restauro o in una radicale
ricostruzione. All'epoca teodosiana debbono essere certamente assegnati i resti del
monumentale portico colonnato venuto alla luce nel corso degli scavi condotti
nell'area antistante l'esonartece della chiesa attuale (Schneider, 1941b), mentre
probabilmente ancora al sec. 4° risale la costruzione dello skeuophylákion che
sorge accanto all'angolo nordorientale dell'edificio (Dirimtekin, 1961; Mathews,
1971, pp. 11-18).Ai decenni centrali del sec. 5° si data inoltre una serie di importanti
chiese ubicate in diversi quartieri della città e che per le loro costanti
caratteristiche morfologiche sembrano costituire uno dei punti di partenza per i
successivi sviluppi dell'architettura della prima età bizantina. Nell'estremo
quartiere sudorientale sorge la chiesa di S. Giovanni di Studios, la cui costruzione
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può essere datata con certezza agli anni sessanta del secolo. Nella chiesa il
tradizionale impianto basilicale a tre navate, scandite da due file di colonne
architravate, con nartece e atrio quadrangolare, appare aggiornato attraverso una
serie di soluzioni peculiari: l'adozione di un impianto rettangolare sensibilmente
raccorciato nel suo asse longitudinale e ampliato in quello trasversale, con una
navata centrale fortemente dilatata in larghezza; la presenza di un'abside
semicircolare all'interno e poligonale all'esterno, che segna il debutto di una
tipologia che ebbe in seguito grande fortuna nel mondo bizantino; l'impiego di una
muratura a fasce alternate di pietra e mattoni che ricorda assai da vicino quella
usata pochi decenni prima nella realizzazione delle contigue mura teodosiane; la
creazione di un sistema di accessi assai articolato (Mathews, 1971, pp. 19-27;
Mango, 1974, p. 61).Le soluzioni adottate in S. Giovanni di Studios si ritrovano
pressoché identiche nella contemporanea chiesa della Theotokos Chalkoprateia - i
cui resti della zona absidale sono riemersi nel corso della sistemazione urbanistica
dell'area a O della Santa Sofia -, dove si registra però l'impiego di una muratura
completamente laterizia che in qualche misura anticipa le soluzioni strutturali
tipiche dell'architettura giustinianea (Lathoud, Pezaud, 1924; Kleiss, 1966;
Mathews, 1971, pp. 28-33). Gli stessi caratteri compaiono infine nella chiesa di
ignota dedicazione i cui resti sono venuti alla luce nel corso di indagini
archeologiche condotte in uno dei cortili del Topkapı Sarayı (il palazzo imperiale
ottomano) e che sembrerebbe poter essere datata prima della basilica di Studios
(Ogan, 1940; Mathews, 1971, pp. 33-38).Ancora all'età tardoantica e protobizantina
risale infatti l'allestimento delle principali infrastrutture di approvvigionamento e
di servizio della città: a partire dalla seconda metà del sec. 4° si assiste a un
continuo ampliarsi e moltiplicarsi delle installazioni portuali sulla costa della
Propontide (Teall, 1959; Mango, 1985, pp. 37-40); le fonti forniscono inoltre i
nomi, anche se non la precisa ubicazione, di numerosi magazzini, raggruppati tutti
nella quinta e nona regione amministrativa e quindi immediatamente a ridosso dei
porti principali (Janin, 1964, pp. 181-182). Ancora alla seconda metà del sec. 4°
risale l'impianto di un nuovo sistema di adduzione e di conservazione dell'acqua: il
vecchio e insufficiente acquedotto della Bisanzio romana venne sostituito da quello
fatto costruire da Valente nel 373 - collegato con una rete di canalizzazioni che
raggiungevano la foresta di Belgrado e forse addirittura i massicci montuosi al
confine con l'attuale Bulgaria - e in epoche diverse vennero allestite tre enormi
cisterne scoperte (c.d. di Ezio, di Aspar e di S. Mocio), che da sole garantivano una
riserva idrica pari a oltre un milione di metri cubi e un numero imprecisato di
cisterne coperte di dimensioni più o meno grandi (Forchheimer, Strzygowski,
1893; Ataçeri, 1965; Müller-Wiener, 1977, pp. 271-285). Fra la metà del sec. 5° e la
metà del successivo, prima della grande peste del 542 che dimezzò la popolazione,
si colloca infine probabilmente il momento di massimo sviluppo demografico della
città, che raggiunse in questo periodo il numero di trecentomila abitanti (Jacoby,
1961).
Età giustinianea
I grandi imperatori evergeti del sec. 6°, in primo luogo certamente Giustiniano, ma
anche Anastasio I (491-518) e Giustino I (518-527), la cui committenza appare
spesso sottaciuta dalle fonti antiche in favore di quella giustinianea (Mango, 1985,
p. 52), ereditarono dai loro predecessori una capitale già definita nelle sue linee
urbanistiche essenziali, che non vennero di fatto più alterate se non in direzione di
un sensibile potenziamento delle strutture. Procopio (De Aed., I), nel descrivere le
numerose opere legate alla committenza giustinianea a C., enumera una serie di
restauri, ricostruzioni e nuove edificazioni di importanti complessi civili, a partire
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dalla ricostruzione del vestibolo del Grande Palazzo, delle terme di Zeuxippos e di
una delle sedi del Senato, distrutti dall'incendio del 532, per giungere alla
realizzazione di enormi cisterne, portici, ospedali e palazzi urbani e suburbani; ma
questi interventi, peraltro anche simbolicamente in linea con la politica di
restauratio imperii perseguita da Giustiniano, appaiono certamente minoritari
rispetto al grande impulso che gli imperatori della prima metà del sec. 6° diedero
all'edilizia religiosa, sia monumentale sia semplicemente di servizio (v.
Architettura). Il catalogo di Procopio - la cui attendibilità a proposito del singolo
monumento può talvolta essere posta in discussione, ma che conserva comunque il
suo assoluto valore quale espressione della tendenza di un'epoca - assegna alla
committenza giustinianea ben trentatré chiese, vale a dire pressoché il doppio di
quelle esistenti fino a quel momento nella città, stando almeno alla citata Notitia
urbis.Agli inizi dell'epoca giustinianea, anche se non direttamente riferibile alla
committenza imperiale, si colloca la costruzione della chiesa dedicata a s.
Polieucto, ubicata nei quartieri centrali della città, lungo la diramazione
settentrionale della Mese; la chiesa, edificata tra il 524 e il 527 su commissione
della ricca aristocratica Anicia Giuliana (v.), andò totalmente distrutta
probabilmente alla fine del sec. 12°, a eccezione dell'alta piattaforma di sostruzione
e dei livelli di fondazione che sono stati indagati archeologicamente nel corso degli
anni Sessanta (Harrison, 1986; Hayes, 1992). Gli scavi hanno consentito di
ricostruire un impianto di base pressoché quadrato (lato m. 52), con un andamento
delle fondazioni che sembrerebbe indicare una tradizionale disposizione basilicale
a pianta raccorciata su tre navate: la potenza dei muri di fondazione lascia però
ipotizzare l'esistenza di una copertura pesante e articolata, probabilmente con una
cupola in muratura (Harrison, 1989).Molti degli stessi caratteri decorativi di S.
Polieucto si ritrovano nella contemporanea chiesa dedicata ai ss. Sergio e Bacco,
posta nel quartiere di Hormisdas, tra la curva dell'ippodromo e la riva della
Propontide (Mathews, 1971, pp. 42-51; 1976, pp. 242-259). La chiesa - che
originariamente faceva parte di un complesso costituito anche dalla contigua e
perduta chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, con la quale condivideva il muro meridionale
- era collegata con la residenza privata di Giustiniano e venne probabilmente
costruita immediatamente dopo la sua salita al trono (Mathews, 1971, pp. 47). I Ss.
Sergio e Bacco costituiscono un'ardita e inedita interpretazione del tema
dell'edificio religioso a pianta centrale, con una struttura a doppio involucro -
quadrangolare con abside poligonale aggettante quello esterno, ottagonale con
alternanza di colonnati rettilinei e di esedre angolari quello interno - coronata da
una grande cupola a ombrello. Il tema dominante dell'intera costruzione, tanto in
pianta quanto in alzato, è quello del ritmico alternarsi di elementi curvilinei e
rettilinei a partire dall'involucro esterno, segnato dalla singolare soluzione delle
quattro nicchie angolari che smussano l'intersezione dei muri perimetrali, per
proseguire nell'involucro interno, in cui gli assi diagonali sono esaltati da ampie
esedre semicircolari, e per svilupparsi poi in alzato con la contrapposizione della
classica trabeazione piana dell'ordine inferiore alla serie di archi aperti da trifore
nelle gallerie, concludendosi infine con l'originale alternanza di spicchi piani e
concavi nella cupola.La ricostruzione di questo edificio si rese necessaria a causa
delle devastazioni che esso aveva subìto nel corso della rivolta di Nika del 532 e
venne condotta a termine, sotto la direzione dei due mechanikói Antemio da Tralle
e Isidoro da Mileto, nell'arco di poco più di cinque anni. L'audacia del progetto
causò diversi problemi già in corso d'opera (Procopio, De Aed., I, 1, 70-78) e la
cupola originale, più bassa dell'attuale di m. 7 ca., crollò nel 558 per essere subito
ricostruita dopo aver convenientemente rinforzato pilastri e arconi di sostegno
(Mango, 1974, pp. 106-123; Mathews, 1976, pp. 162-312; Mainstone, 1987).Anche
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nel caso della Santa Sofia l'organismo architettonico, che peraltro nella sua
assoluta unicità sfugge a qualsiasi classificazione tipologica, si ricollega al tema
dell'impianto centrale a doppio involucro, accentuando in maniera evidente l'asse
principale O-E senza però rinunciare alla dilatazione delle direttrici trasversali e
oblique. Lo spazio rettangolare definito dal perimetro esterno appare scandito
all'interno da quattro enormi pilastri, su cui poggiano gli altissimi arconi che
sostengono la copertura, e articolato da un sistema di ampi colonnati e di profonde
esedre semicircolari che separano il vano centrale, coperto da una cupola e da due
semicupole, dai sei vani esterni risultanti. Analogamente a quanto realizzato nei Ss.
Sergio e Bacco, l'effetto globale di ricercata e assoluta armonia spaziale nasce
anche in questo caso da un ritmico giustapporsi di elementi diversi, con un
progressivo aumento del numero delle aperture - nei colonnati rettilinei si passa
dai cinque intercolumni del piano di base ai sette delle gallerie, così come nelle
esedre angolari il numero delle colonne sale da due a tre - e con una particolare
attenzione al valore architettonico della luce, che, prima delle diverse successive
alterazioni, filtrava dai sei ordini di finestre aperte nel corpo della chiesa e dalla
serie di finestroni posti alla base della gigantesca cupola. Ancora a una concezione
circolare della spazialità dell'edificio rimanda l'articolato sistema degli accessi, che
permetteva di passare dall'atrio nell'esonartece e da questo nel nartece e quindi nel
corpo centrale attraverso una serie di aperture alternate e in parte disassate,
favorendo nello spettatore una percezione non assiale del vastissimo spazio
cupolato. Un ruolo di primaria importanza era infine svolto dal ricchissimo
rivestimento parietale di marmi policromi e mosaici - questi ultimi oggi in
massima parte perduti - di cui resta un'eco nei versi composti da Paolo Silenziario
in occasione della seconda dedicazione della chiesa (Descriptio ecclesiae Sanctae
Sophiae; Majeska, 1978).Alla fase di ricostruzione dopo gli incendi del 532 va
ricollegata anche la riedificazione, avvenuta probabilmente in due tempi, della
chiesa della Santa Irene, posta anch'essa nell'area dell'antica acropoli a un
centinaio di metri a N della Santa Sofia. La storia costruttiva dell'edificio, che vide
almeno un secondo restauro ancora in epoca giustinianea e venne quindi
ulteriormente modificato in seguito al terremoto del 740, non è ancora del tutto
chiarita (George, 1913; Strube, 1973; Mathews, 1976, pp. 102-122; Peschlow, 1977);
ciò nonostante, nelle sue linee generali la Santa Irene si inserisce organicamente
nel percorso dell'architettura giustinianea a Costantinopoli. In questo caso
l'interpretazione del tema della pianta centrale cupolata appare semplificata con
l'abbandono del sistema delle esedre angolari e delle semicupole in favore di un
ampio invaso longitudinale - attualmente prolungato da un profondo imbotte la cui
originaria articolazione strutturale è tuttora oggetto di dibattito - con i quattro corti
bracci coperti da possenti volte a botte che sopportano il peso della grande volta
centrale. Analogamente a quanto accade nella Santa Sofia, le arcate settentrionale e
meridionale sono schermate da colonnati su cui corrono le gallerie.Probabilmente
all'epoca giustinianea o comunque nell'ambito del sec. 6° possono inoltre essere
datati altri due edifici di culto di minori dimensioni venuti alla luce nel corso di
indagini archeologiche: S. Eufemia e la c.d. basilica A del quartiere di Beyazit. Nel
primo caso si tratta di un edificio di culto ricavato all'interno delle strutture del c.d.
palazzo di Antioco, eretto agli inizi del sec. 5° nelle immediate vicinanze
dell'ippodromo: circa un secolo più tardi, un triclinio del complesso - a pianta
esagonale con nicchie semicircolari su ciascun lato escluso quello di ingresso -
venne trasformato in luogo di culto con l'inserzione di un sýnthronon in una delle
nicchie e la creazione di una recinzione presbiteriale all'interno della quale trovava
posto l'altare (Bittel, Schneider, 1941; Naumann, Belting, 1966; Mathews, 1971, pp.
61-67). Nel secondo caso invece si tratta di un edificio di impianto basilicale -
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facente parte di un gruppo di quattro unità scavate solo parzialmente (Fıratlı, 1951)
- le cui soluzioni strutturali (in particolare il nartece che si prolunga oltre i limiti
della facciata e il corpo dell'edificio più esteso in larghezza che in lunghezza) ne
fanno un interessante unicum nel panorama dell'architettura costantinopolitana di
epoca protobizantina (Mathews, 1971, pp. 67-73).Tra le chiese edificate ex novo o
ricostruite in età giustinianea e oggi note solo dalle fonti, quella dedicata ai ss.
Apostoli, che sorgeva sul sito dell'omonimo complesso di epoca costantiniana, è
descritta da Procopio (De Aed., I, 4, 9-18) come enorme impianto a croce libera,
con tutti i bracci scanditi in tre navate con gallerie e con un articolato sistema di
coperture che prevedeva una grande cupola centrale e quattro cupole di minori
dimensioni sui bracci della croce, secondo un modello che si ritrova esplicitamente
riprodotto, ancora in epoca giustinianea, nel S. Giovanni di Efeso.Nel campo
dell'edilizia civile, alla diretta committenza imperiale debbono essere ricollegati gli
interventi all'interno del Grande Palazzo (Mango, 1959), la ristrutturazione e
l'annessione allo stesso complesso imperiale del palazzo di Hormisdas, residenza
privata di Giustiniano, nonché una serie di restauri di edifici e spazi destinati alla
vita pubblica della città. Particolare rilievo in questo contesto assume la
costruzione delle due grandi cisterne coperte, note con i nomi turchi di Yerebatan
Sarayı e di Binbirdirek. In entrambi i casi si tratta di vasti spazi ipogei, scanditi in
moduli quadrangolari da serie di colonne di reimpiego (trecentosessantasei fusti
nel primo caso, quattrocentoquarantotto disposti su due livelli nel secondo) che
sorreggono volte a crociera in mattoni, nella cui realizzazione si coglie un'eco non
secondaria della capacità tecnica dei progettisti e delle maestranze che
realizzarono i grandi monumenti pubblici dell'epoca (Mango, 1974, pp. 123-129).
Secoli 7°-10°
La profonda crisi attraversata dall'impero bizantino nei secc. 7° e 8°, con la perdita
del controllo sulle regioni periferiche, dalla Siria, all'Africa settentrionale e ai
Balcani, non poté non segnare profondamente anche la storia urbana della
capitale. La scarsità delle fonti documentarie e dei dati archeologici impedisce di
fatto di tracciare un quadro preciso dell'involuzione subìta da C. (Mango, 1985, pp.
51-60). È comunque significativo che, fatta eccezione per il citato restauro della
Santa Irene dopo il terremoto del 740, del quale rimane però incerta la reale
portata, nessuno degli edifici religiosi o civili conservatisi possa essere datato,
anche solo per una fase, a questo periodo.Il secondo quarto del sec. 9° marca in
qualche misura una prima inversione di tendenza: la Chronographia di Teofane
Continuato fornisce una lista sufficientemente dettagliata degli edifici fatti
costruire o restaurare dagli imperatori Teofilo (829-842) e Basilio I (867-886). La
ripresa della committenza imperiale sembra comunque interessare solo una zona
piuttosto ristretta della città, limitata al Grande Palazzo e ai suoi immediati
dintorni. Su ristrutturazioni e nuove decorazioni del complesso palaziale appare
particolarmente incentrata l'attività di Teofilo, l'ultimo degli imperatori iconoclasti,
cui si deve peraltro una serie di restauri alle mura marittime testimoniati da
frequenti iscrizioni (Janin, 19642, pp. 287-300). Più ricca e articolata sembra
essere l'opera di Basilio I, al quale possono essere riferiti, secondo Teofane
Continuato (Chronographia, V; CSHB, XLIII, 1838, pp. 211-380), ben trentuno
interventi tra restauri e nuove costruzioni, su edifici religiosi di diversa dimensione
e importanza, a cominciare dall'edificazione della Nea Ekklesia dedicata alla
Vergine (880), posta nella zona meridionale del palazzo imperiale, che le fonti
permettono di ipotizzare con pianta a croce greca coperta da cinque cupole.Gli
inizi del sec. 10°, che costituiscono il momento forse più alto del rinnovamento
complessivo del mondo bizantino legato alla dinastia macedone, sono segnati a C.
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dall'edificazione di due chiese, entrambe legate in diversa misura alla cerchia
imperiale: la chiesa settentrionale del monastero di Costantino Lips (od. Fenari Isa
Cami), dedicata nel 907, e quella del Myrelaion (od. Bodrum Cami), fatta costruire
dall'imperatore Romano I Lecapeno (919-944).Il complesso voluto da Costantino
Lips, alto ufficiale al servizio di Leone VI (886-912), segna il definitivo consolidarsi
della pratica della costruzione di monasteri urbani legati alla committenza di
personaggi di altissimo rango, un fenomeno che, già attestato in epoca
protobizantina, caratterizzò in misura particolarmente significativa l'assetto
urbano di C. in età medio e tardobizantina (Lemerle, 1967). La chiesa
settentrionale, il cui impianto venne parzialmente alterato alla fine del sec. 13°
dall'addossamento di un secondo edificio di culto, è una costruzione di piccole
dimensioni (il vano centrale non raggiunge i m. 10 di lato), con pianta a croce greca
inscritta e tre absidi orientate, poligonali all'esterno, di cui quella centrale traforata
da tre ampie finestre; il naós, delimitato a N e S da pareti alleggerite da trifore e
finestroni, è preceduto da un nartece con volte a crociera, dotato di una galleria
accessibile per mezzo di un corpo-scala addossato al lato meridionale del nartece.
All'esterno, in netto contrasto con i grandi e spogli volumi delle chiese di età
giustinianea, fa la sua comparsa quella organizzazione delle superfici, movimentate
da finestre, nicchie e cornici, che, insieme ai motivi decorativi in laterizio qui solo
accennati nei due falsi oculi delle absidi laterali, caratterizzò l'architettura
costantinopolitana dei secoli successivi. Elementi peculiari di questo edificio sono
invece la terminazione orientale, con la moltiplicazione degli spazi destinati al
culto dovuta alle due cappelle che si affiancano ai pastophória, e la presenza di
quattro altre piccole cappelle, poste al piano superiore ai quattro angoli
dell'edificio e accessibili attraverso un sistema di camminamenti esterni a loro
volta raggiungibili attraverso il corpo-scala e la galleria del nartece (Megaw, 1963;
1964; Mango, Hawkins, 1964; Mathews, 1976, pp. 322-345).La chiesa del
Myrelaion, che sorge al centro del moderno quartiere di Aksaray, nell'area
compresa tra il segmento centrale della Mese e il mar di Marmara, venne fondata
intorno al 920 come chiesa di palazzo annessa alla residenza privata
dell'imperatore Romano I Lecapeno, sfruttando in parte, al pari del palazzo cui era
collegata, i resti di un grande edificio in opera quadrata di pianta circolare,
databile con buona probabilità al sec. 5°, ma la cui identificazione rimane ancora
assai problematica (Müller-Wiener, 1977, pp. 103-106; Striker, 1981). Al fine di
raggiungere la quota del terrazzamento artificiale ricavato sulla costruzione
preesistente, la chiesa venne dotata di un'alta sostruzione che, pur non avendo mai
avuto alcuna destinazione liturgica, ripete esattamente l'impianto dell'edificio
sovrastante. Quest'ultimo, realizzato al pari della sostruzione interamente in
laterizio, sviluppa su scala assai ridotta l'impianto a croce greca inscritta su quattro
sostegni - le colonne originali sono state sostituite in epoca turca da pilastri - con il
vano centrale coperto da una cupola con alto tamburo ottagono traforato da
finestre. Nonostante le dimensioni assai ridotte dell'invaso, la perfetta scansione
degli spazi interni - in particolare nei pastophória, che riprendono la suggestiva
articolazione parietale già sperimentata nella chiesa di Costantino Lips - conferisce
allo spazio dell'insieme nartece-naós-prebiterio un notevole slancio verticale,
esaltato all'esterno dalla rigorosa organizzazione parietale scandita da un inedito
sistema di paraste semicircolari e di cornici rettilinee aggettanti che denunciano
l'articolazione dei volumi interni.
Età dei Comneni
I cento anni di regno dei tre grandi esponenti della dinastia comnena, Alessio I
(1081-1118), Giovanni II (1118-1143), Manuele I (1143-1180), coincisero con un
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periodo di notevoli trasformazioni del tessuto urbano di C., rese evidenti in
particolare da due fenomeni tra loro strettamente collegati: il progressivo
abbandono del Grande Palazzo in favore della nuova residenza imperiale fatta
costruire nel quartiere delle Blacherne e il contemporaneo sviluppo
dell'insediamento nei quartieri settentrionali della città prospicienti il Corno d'Oro
a scapito di quelli meridionali affacciati sul mar di Marmara.La data di avvio della
costruzione del palazzo imperiale alle Blacherne non è precisamente definibile
(Papadopulos, 1928; Schneider, 1951; Dirimtekin, 1959). L'Alessiade (X, 11) di
Anna Comnena testimonia comunque che Alessio I Comneno, subito dopo la
conquista del potere, fece erigere in quel quartiere un nuovo palazzo, dove
ricevette i comandanti latini della prima crociata; altre fonti consentono inoltre di
stabilire che il palazzo sorgeva nelle immediate vicinanze se non addirittura a
ridosso delle mura terrestri. Il nipote di Alessio I, Manuele - cui si deve tra l'altro la
ricostruzione di nove torri e di un tratto di cortina in quel settore delle mura -, fece
restaurare e ampliare il palazzo e commissionò inoltre la costruzione di un
secondo edificio, posto a una certa distanza dal primo, lungo il pendio che si
affaccia sul Corno d'Oro. Di entrambi gli edifici non rimangono oggi tracce
archeologiche certe, anche se la complessità della stratificazione muraria in alcuni
settori della cinta nella zona delle Blacherne lascerebbe aperta la possibilità di
condurre indagini archeologiche più approfondite (Paribeni, 1991).Questo
spostamento della sede imperiale all'estremità nordoccidentale della città non fu
certamente estraneo alla grande rivitalizzazione che vissero in quest'epoca i
quartieri settentrionali di C. e che è dimostrata dall'ubicazione delle chiese
direttamente riferibili alla committenza comnena o comunque databili nell'ambito
del sec. 12°: a fronte del caso della chiesa di Cristo Philanthropos, ubicata nel
quartiere delle Mangane (Demangel, Mamboury, 1939), che costituisce l'unica
attestazione di intervento nei quartieri occidentali e meridionali, tutte le altre
chiese di quest'epoca appaiono infatti concentrate sulle alture che dominano il
Corno d'Oro.Non lontano dal sito del complesso dei Ss. Apostoli sorge la chiesa di
Cristo Pantepoptes (od. Eski Imaret Cami), originariamente annessa a un
monastero femminile fatto erigere da Anna Dalassena, madre di Alessio I, poco
prima del 1087 (Mathews, 1976, pp. 59-70). La chiesa, oggi in parte restaurata
dopo un lungo abbandono, sorge sulla sommità di una collina che domina gran
parte della città e presenta il consueto schema a croce greca inscritta, con nartece
ed esonartece, caratterizzato però da una serie di interessanti soluzioni strutturali.
All'interno spicca la presenza di una singolare galleria a U che sovrasta il nartece e
i due angoli occidentali del quinconce e che si apre attraverso un'ampia trifora
verso il corpo centrale cruciforme; all'esterno si fa invece notare un articolato
sistema di coperture, con la cupola centrale parzialmente inglobata da un tamburo
dodecagonale traforato da finestre, una bassa cupola sulla campata centrale
dell'esonartece e i tetti a profilo semicircolare sui bracci della croce. Notevole,
benché parzialmente alterata dai successivi restauri, è poi la qualità della
muratura, ove compare in una versione assai raffinata la tecnica del c.d. mattone
arretrato - realizzata disponendo alternatamente i filari di mattoni su due piani
sfalsati e mascherando in seguito i filari più arretrati con lisciature di malta - che
caratterizza specificamente l'architettura dell'epoca (Vokotopulos, 1979) e che in
questo caso si lega a una ricchissima articolazione parietale, in cui un sistema di
paraste e di archi a doppia e tripla ghiera scandisce le superfici, ospitando fino a
tre ordini sovrapposti di finestre.A poca distanza, su una larga spianata artificiale
ottenuta riutilizzando i resti di una grande cisterna di epoca protobizantina,
sorgono le tre chiese giustapposte del complesso dedicato a Cristo Pantokrator (od.
Zeyrek Kilise Cami), il monastero dei Comneni destinato a divenire luogo di
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sepoltura dei maggiori esponenti della dinastia (Megaw, 1963; Mathews, 1976, pp.
71-101). La prima chiesa, quella meridionale, dedicata a Cristo e commissionata
dall'imperatrice Irene (1118-1124), presentava in origine una struttura piuttosto
articolata, con due gallerie laterali (di cui si conserva solo la meridionale) che
fiancheggiavano l'ampio invaso centrale, coperto da una cupola su tamburo a
sedici lati che, con i suoi m. 7 di diametro, costituisce un'eccezione nel panorama
architettonico dell'epoca; naós e gallerie laterali erano inoltre preceduti da un
vasto nartece a cinque campate con galleria. Nel corso del decennio successivo e
comunque prima del 1136, data dell'atto di fondazione del monastero, l'imperatore
Giovanni II fece aggiungere al nucleo originario prima la chiesa settentrionale,
dedicata alla Vergine Eleúsa, che riprende il tradizionale impianto a quattro
colonne oggi sostituite da pilastri in pietra di epoca ottomana, poi l'edificio
centrale, dedicato a s. Michele: un corpo rettangolare a due campate coperte da
due cupole, ricavato dallo spazio rimasto tra le due costruzioni principali. A
dispetto delle diverse soluzioni strutturali adottate nella realizzazione di ciascun
corpo di fabbrica, nella sua configurazione definitiva il complesso appare come un
insieme armonico, la cui notevole mole è movimentata all'esterno, e
particolarmente nella zona absidale, da un sapiente gioco di nicchie, sfaccettature e
finestrature che rappresentano, insieme con la tecnica muraria a mattone
arretrato, il carattere saliente dell'architettura costantinopolitana di età comnena.
La chiesa meridionale e parte del mausoleo conservano inoltre all'interno uno
splendido pavimento in opus sectile, con medaglioni, motivi a intreccio e racemi
abitati, che, insieme con i resti di crustae marmoree e di vetri istoriati da finestra,
costituisce una concreta testimonianza della magnificenza degli edifici
direttamente collegati con la corte imperiale.Non riconducibili a diretta
committenza imperiale, ma certamente edificati, almeno nella loro fase originaria,
in età comnena, sono poi vari edifici religiosi che continuano a rifarsi al modello
planimetrico della croce greca inscritta, proponendone però di volta in volta
soluzioni in qualche misura originali. È il caso, per es., della Vefa Kilise Cami
(Mathews, 1976, pp. 386-401) e della Gül Cami, di cui è ancora ignota la
dedicazione originaria. Quest'ultima, di dimensioni eccezionali per l'epoca
mediobizantina, particolarmente nel suo sviluppo in altezza, sorge sulle pendici
delle colline a ridosso del Corno d'Oro e per essa l'analisi della tecnica muraria
sembrerebbe suggerire una datazione agli inizi del sec. 12°, anche se gli evidenti
interventi di restauro, in particolare nella zona absidale, lasciano spazio a ipotesi
diverse (Schäfer, 1973).A una spazialità relativamente dilatata simile a quella della
Gül Cami rinvia anche la Kalenderhane Cami, di ignota dedicazione, posta a
ridosso dei resti dell'acquedotto di Valente, che continua a rappresentare uno dei
casi più controversi dell'architettura mediobizantina di Costantinopoli. Le ricerche
archeologiche condotte in occasione dei restauri (Striker, Kuban, 1967-1971)
sembrano aver definitivamente chiarito la cronologia dell'edificio, che nel suo
nucleo essenziale risalirebbe almeno alla fine del sec. 12°, anche se non si possono
escludere fasi precedenti non più leggibili.Al tardo sec. 12° sembra potersi datare
anche l'impianto della chiesa di S. Maria Pammakaristos (od. Fethiye Cami), che
rivela nella ricca articolazione parietale dei muri del nartece caratteri costruttivi
ascrivibili alla tarda età comnena e che, al pari della Kalenderhane Cami, presenta
una particolare accezione del tema dell'impianto a croce greca inscritta, con gli
spazi tra i sostegni scanditi da coppie di colonne a formare, lungo i lati
settentrionale, occidentale e meridionale, una sorta di deambulatorio che fascia il
vano centrale cupolato (Mango, Hawkins, 1964b; Mathews, 1976, pp. 346-365).Più
incerta, nonostante le ricerche archeologiche condotte a partire dal 1948 (Oates,
1960), è infine la portata della fase comnena della chiesa del S. Salvatore di Chora
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(od. Kariye Cami), riconducibile all'epoca di Isacco Comneno, tra il secondo e il
terzo decennio del 12° secolo. A questo intervento risalirebbe infatti la sostituzione
di un preesistente piccolo impianto a quinconce, di cui sono stati rinvenuti resti
delle fondazioni, con l'attuale nucleo dell'edificio, costituito dalla grande abside e
dal corpo cupolato, cui in seguito si addossarono le importanti aggiunte di età
paleologa che ne caratterizzano il profilo esterno e l'articolazione degli spazi
interni (Ousterhout, 1987, pp. 11-36).
Epoca della dominazione latina
La fase di rinnovamento dell'impianto urbano di C. in età comnena si arrestò a
partire dall'ultimo decennio del sec. 12°, in coincidenza con l'aprirsi di un periodo
di aspre lotte dinastiche che indebolirono fortemente l'autorità imperiale e che
ebbero termine solo con la conquista della città da parte dei crociati nel 1204.La
fase della dominazione latina fu caratterizzata da una progressiva sottrazione di
materiali, con un processo che assunse di volta in volta l'aspetto del vero e proprio
saccheggio, segnato dal trasporto in Occidente anche di opere d'arte di notevoli
dimensioni, gran parte delle quali ebbe come destinazione ultima o almeno di
transito la città di Venezia.Se sul piano monumentale il sessantennio della
dominazione latina non lasciò tracce, se non di asportazione, sul piano
demografico e urbanistico, invece, la prima metà del sec. 13° vide giungere a
definitivo compimento il processo di insediamento a C. di gruppi di popolazione
diversi, la cui crescente consistenza numerica finì per caratterizzare in misura
sensibile anche l'articolazione spaziale della città. Le colonie mercantili italiane
occupavano una porzione significativa della zona settentrionale di C., affacciandosi
sul Corno d'Oro in corrispondenza delle porte dette del Neorion, del Drongario e
di Perama, direttamente collegate con gli impianti portuali antistanti. Meno chiara
risulta la disposizione delle colonie provenzale e tedesca, mentre l'insediamento
commerciale russo nei sobborghi lungo il Bosforo sembra inaugurare già alla metà
del sec. 10° una nuova direttrice di espansione urbana della capitale bizantina al di
là dell'antica cinta muraria.Dei numerosi edifici di culto documentati dalle fonti
come annessi alle colonie latine o appartenenti ai diversi ordini religiosi che
stabilirono proprie sedi a C. all'epoca della dominazione latina - Francescani,
Domenicani, Templari, Ospedalieri di s. Giovanni di Gerusalemme - non rimane
alcuna traccia archeologica (Janin, 1953, pp. 582-601; Dufrenne, 1972), al di là del
ciclo di affreschi di ispirazione francescana, databile intorno alla metà del sec. 13°,
rinvenuto nella cappella meridionale della Kalenderhane Cami (Striker, Kuban,
1967-1971), che testimonia un interessante caso di destinazione al culto cattolico
occidentale di una parte almeno di un edificio religioso preesistente.
Epoca paleologa
La rapida e inattesa riconquista della capitale da parte delle truppe bizantine nel
1261 e l'ascesa al trono di Michele VIII, primo esponente della dinastia dei
Paleologhi, che avrebbe regnato fino alla caduta di C. nelle mani dei Turchi,
diedero il via a una nuova fase dell'evoluzione urbana della città, contrassegnata da
un'intensa attività costruttiva. Benché allo stato attuale degli studi appaia ancora
prematuro trarre conclusioni circa l'assetto urbanistico della C. tardobizantina, i
pochi documenti e le sparse notizie delle fonti restituiscono un'immagine di una
città in fase di rapida trasformazione (Frances, 1969). La progressiva occupazione
dei grandi spazi aperti dei monumenti antichi, secondo un processo di
rovesciamento tra spazi liberi e spazi edificati ben noto nelle città del
Mediterraneo occidentale in epoca pieno e tardomedievale, appare documentata
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per es. da una chrysóbulla dello stesso Michele VIII, che si riferisce a case poste
tanto all'esterno quanto all'interno dell'antico Augusteion, la cui fisionomia
monumentale non era evidentemente più riconoscibile e che aveva assunto il
valore di semplice toponimo (Janin, 19642, p. 60). Al tempo stesso l'ubicazione di
tutti gli edifici religiosi e profani legati alla committenza paleologa nella larga
fascia di orti e giardini che si disponeva subito all'interno delle mura terrestri
testimonia chiaramente il definitivo compimento di quel processo, avviato già in
epoca comnena, di spostamento verso la periferia occidentale della città dei centri
direzionali e degli insediamenti privilegiati.Subito a ridosso delle mura, a non
grande distanza dal palazzo delle Blacherne, il figlio di Michele VIII, Costantino,
detto il Porfirogenito come il suo omonimo della prima metà del sec. 10°, fece
edificare un nuovo palazzo, oggi noto con il nome turco di Tekfur Sarayı, destinato
con ogni probabilità a divenire la sede degli esponenti della nuova dinastia
(Dirimtekin, 1952; Mango, 1965, pp. 335-336; Eyice, 19802; Ousterhout, 1991, pp.
78-79). Si tratta di un edificio di pianta rettangolare, articolato su tre piani, che
costituiva la parte nobile di un complesso di maggiori dimensioni disposto intorno
a un vasto cortile ricavato riutilizzando un tratto delle mura terrestri, con i cui
camminamenti era posto in diretta comunicazione. Perdute completamente le
strutture interne, il palazzo conserva ancora l'armonica facciata, la cui superficie,
traforata dall'ampio porticato del piano terreno e dai due ordini di finestre dei
piani superiori, è ulteriormente movimentata da un gioco di archi addossati e di
inserti decorativi a motivi geometrici in laterizio e ceramica invetriata, i quali,
insieme con la caratteristica muratura a fasce alternate di piccoli conci di calcare e
laterizi, in larga misura di reimpiego, costituiscono i caratteri salienti del
vocabolario architettonico dell'edilizia costantinopolitana di età paleologa.Nel
campo dell'architettura religiosa collegata direttamente o indirettamente agli
ambienti di corte, la fase tardobizantina si caratterizzò per due fenomeni
complementari: da un lato un'evidente e consapevole attenzione per il restauro e
l'ampliamento di edifici preesistenti, quasi a sottolineare l'ideale continuità che
legava la dinastia regnante con quelle macedone e comnena; dall'altro il
proliferare di chiese di piccole dimensioni e di struttura semplificata.Il primo
fenomeno è ben rappresentato dai tre casi della chiesa meridionale del monastero
di Costantino Lips, della chiesa di S. Maria Pammakaristos e di quella del S.
Salvatore di Chora, tutti condotti a termine entro il primo ventennio del 14° secolo.
La chiesa meridionale del monastero di Costantino Lips venne commissionata dalla
moglie di Michele VIII, Teodora, e fu probabilmente condotta a termine entro il
1282, anno della redazione dell'atto di fondazione del nuovo monastero.
L'addizione del nuovo corpo di fabbrica - che tipologicamente si rifà agli impianti a
deambulatorio di età comnena - venne realizzata inglobando e riutilizzando come
protesi la cappella meridionale della chiesa precedente, creando così una
terminazione orientale unitaria e articolata che, nel ritmato succedersi delle absidi
e delle nicchie, richiama da vicino, seppure su diversa scala dimensionale, l'effetto
ottenuto quasi due secoli prima nella realizzazione del complesso del Pantokrator.
Il possibile legame anche ideologico del rinnovato complesso con il mausoleo
dinastico dei Comneni sembrerebbe inoltre rafforzato dalla presenza nel nartece e
nel deambulatorio della nuova chiesa di numerosi arcosoli, nonché dall'ulteriore
addizione, intorno al 1300, di un parekklésion a destinazione funeraria.La chiesa
del S. Salvatore di Chora rappresenta forse un caso ancora più emblematico di
restauro e ampliamento di un impianto monastico preesistente a opera di un
personaggio strettamente legato con la corte paleologa, il logoteta Teodoro
Metochite, figura di alto rango, considerata dai suoi contemporanei tra le più
potenti e influenti nella C. degli inizi del 14° secolo. Nominato ktétor del
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monastero di Chora dallo stesso imperatore Andronico II, Teodoro, che risiedeva
in uno sfarzoso palazzo posto nella medesima regione, finanziò i restauri del
complesso a partire probabilmente dal 1315. I lavori erano pressoché terminati nel
1321 e comportarono una radicale trasformazione di quello che rimaneva
dell'impianto del sec. 12°, di cui furono conservati solo il vano centrale cupolato e
la zona absidale, modificandone però sensibilmente il sistema degli accessi dal
nartece e chiudendo la porta del diaconico, che venne così trasformato in una
cappella separata, accessibile solo dal parekklésion meridionale. Al corpo originale
vennero quindi annessi un nartece a due cupole, che riprendeva forse le forme di
una struttura preesistente, e un corpo di fabbrica addossato al lato settentrionale
della chiesa e articolato su due piani raccordati da un corpo-scala; l'impianto fu
completato dalla costruzione del parekklésion, addossato al fianco meridionale del
naós e dotato di arcosoli destinati a ospitare le sepolture dei membri della famiglia
del committente, e di un esonartece, dotato di campanile nell'angolo
sudoccidentale. Anche in questo caso ritornano gli elementi tipici delle strutture
murarie di età paleologa, con una particolare accentuazione degli inserti decorativi
in laterizi, tra cui spiccano alcuni monogrammi di Teodoro Metochite (Ousterhout,
1987).Allo stesso ambito cronologico e a una committenza altrettanto alta deve
essere ricondotta l'edificazione del parekklésion meridionale annesso alla chiesa di
S. Maria Pammakaristos (Hallensleben, 1963-1964; Mango, Hawkins, 1964b;
Mathews, 1976, pp. 346-365). Il nuovo corpo di fabbrica - dedicato, come recita
una lunga iscrizione sulla facciata meridionale, alla memoria di Michele Ducas
Glabas Tarchaniotes dalla vedova Marta - assume l'aspetto di una vera e propria
piccola chiesa del tipo a quattro colonne con nartece a due piani, attraverso cui si
accede a una piccola tribuna che si affaccia sul vano centrale dell'edificio,
permettendo all'osservatore di cogliere l'armonia di volumi che articola,
moltiplicandolo, il ridotto spazio interno dell'edificio. La stessa raffinatezza
compositiva presiede anche alla realizzazione delle superfici esterne, in particolare
nella facciata meridionale, dove l'impianto quadrangolare su tre livelli, scandito
dalle simmetriche trifore sovrapposte che danno luce al nartece e al naós, non
rivela quasi l'articolazione del corpo retrostante, avvicinando l'aspetto esterno
dell'edificio religioso a quello di un palazzo signorile. Questa caratteristica, che
appare essere una sigla architettonica frequente in età paleologa, si ritrova
esplicitata nell'esonartece aggiunto in un'epoca ancora imprecisata, ma
probabilmente di poco più tarda, all'originario corpo di età comnena della Vefa
Kilise Cami, il cui schema su due livelli con finto porticato al piano terreno e una
serie di bifore all'interno di nicchie semicircolari al primo piano ricorda il partito
compositivo del Tekfur Sarayı.Gli stessi caratteri tecnici e il medesimo vocabolario
architettonico applicato a una differente sintassi compositiva si colgono nel
secondo gruppo di edifici - noti oggi solo con la denominazione turca: Boğdan
Sarayı, Isa Kapısı Mescidi (Otüken, 1974), Manastir Mescidi, Sinan Paşa Mescidi
(Eyice, 19802, pp. 26-34) - che caratterizza la fase paleologa dell'architettura
costantinopolitana. Si tratta di costruzioni di modeste dimensioni, a navata unica a
eccezione del Manastir Mescidi, in cui si ritrovano l'impiego della muratura a corsi
alternati di pietra e mattoni e la ricca articolazione delle superfici attraverso l'uso
di nicchie e cornici. La destinazione di alcuni di questi edifici a cappelle di palazzo
e a uso funerario appare la più probabile ed è testimoniata con certezza almeno nel
caso del Boğdan Sarayı, i cui resti sono ancora visibili nel quartiere di Chora, non
lontano dalla chiesa del S. Salvatore. Si tratta di un piccolo edificio mononave a
due piani, dove, nel livello inferiore, seminterrato e privo di finestre, nel corso di
uno scavo archeologico condotto durante la prima guerra mondiale e di cui è
andata perduta ogni documentazione, sarebbero stati rinvenuti tre sarcofagi.Alla
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fase immediatamente successiva al rientro in città dei Paleologhi va ascritta anche
la riorganizzazione urbana dei sobborghi di Pera e Galata, posti sulla riva
settentrionale del Corno d'Oro e destinati a divenire la sede della colonia
mercantile genovese che, nel complesso panorama politico-economico venutosi a
creare dopo la caduta del regno latino, si avviava a ricoprire il ruolo di
interlocutore commerciale privilegiato della nuova dinastia imperiale (Sauvaget,
1934). Con i due trattati del 1267 e del 1303 i Paleologhi riconobbero in effetti ai
Genovesi il diritto di occupare una vasta area in quella regione, di edificarvi le loro
case e i loro magazzini, di crearvi una zona franca commerciale soggetta a leggi e
autorità autonome e infine, a partire dal 1335, di erigere una vera e propria cinta di
mura. L'insediamento genovese si disponeva su una superficie di ha 12 ca., con una
forma allungata e grosso modo rettangolare che seguiva il profilo di quel tratto di
costa, ed era delimitato da una cerchia difensiva di cui restano poche vestigia
(Gottwald, 1907). Nel 1348 una nuova concessione permise ai Genovesi di
espandere verso N l'insediamento, costruendo altri due tratti di mura facenti perno
su un grande torrione cilindrico, la c.d. torre del Cristo, il cui profilo, risultante di
diversi interventi successivi, domina tuttora il panorama della sponda
settentrionale del Corno d'Oro (Müller-Wiener, 1977, pp. 320-323). All'interno del
perimetro del nuovo nucleo urbano, accanto a case, botteghe e magazzini, le fonti
testimoniano dell'esistenza di diverse chiese, oggi pressoché totalmente perdute -
di quelle dei Domenicani (S. Paolo, od. Arap Cami) e dei Benedettini, conservatesi
quasi intatte fino alla fine del sec. 19°, rimangono comunque parti significative
(Müller-Wiener, 1977, pp. 79-80; 100-101) -, nonché di un palazzo comunale il cui
aspetto è noto attraverso alcuni disegni della fine del secolo scorso (Müller-
Wiener, 1977, p. 243).La costruzione e fortificazione di Pera e Galata segnarono di
fatto l'esaurirsi dell'attività edilizia di vasto respiro a Costantinopoli. A partire dalla
metà del sec. 14° e fino alla caduta della città nelle mani dei Turchi, né le
emergenze archeologiche né le fonti documentarie permettono di individuare
mutamenti significativi sul piano urbanistico o di assegnare a quest'epoca alcun
edificio conservatosi, eccezion fatta per diversi interventi di restauro condotti sulle
mura terrestri, in corrispondenza della porta d'Oro e nel settore delle Blacherne,
dove le iscrizioni rinvenute assegnano i lavori alla committenza di Giovanni VIII
Paleologo (1425-1448).
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stampa).E. Zanini
Scultura
La scultura costantinopolitana si fece depositaria e interprete dell'eredità delle
tradizioni classiche, sia nella produzione in funzione architettonica e decorativa sia
nel rilievo figurato (Kollwitz, 1941). Questi legami sono d'altronde palesemente
enunciati dai magniloquenti monumenti celebrativi che gli imperatori dei secc.
4°-5° vollero esemplati su modelli antichi anche per significare la perenne
continuità dell'Imperium romano. Negli aulici monumenti teodosiani - quali i
rilievi scolpiti sulla base dell'obelisco eretto sulla spina dell'ippodromo nel 390
(Kiilerich, 1993) e nei fregi delle colonne coclidi istoriate di Teodosio I (393) e di
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Arcadio (402-403) - se pure sedimentarono ancora tematiche e schemi
iconografici ereditati dall'arte celebrativa romana e tardoromana, si coglie tuttavia
una nuova sensibilità formale e soprattutto l'affermarsi dello spirito cristiano che
compenetrò di trascendenza il contenuto degli eventi narrati nei fregi (Becatti,
1960). Gli artisti della neocapitale non recuperarono pedissequamente i modelli
antichi, ma, sollecitati da nuove esigenze estetiche e semantiche, li
reinterpretarono elaborando uno stile che, se pure modulato sui valori formali
classici, rivela il lento dissolversi di ogni senso di realistica mimesi. Emblematica al
riguardo, ancor più dei citati rilievi, di cui è peraltro pervenuta una
documentazione assai frammentaria (restano solo esigui lacerti e una serie di
riproduzioni grafiche di entrambi i fregi delle colonne), è la testimonianza offerta
dall'enigmatico presunto ritratto di Arcadio (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990,
nr. 5), una scultura nella quale l'artista attenuò i guizzi dell'illusionismo
impressionistico, capace di fissare nel marmo ogni mobilità della fisionomia e ogni
cangiante fluttuazione della vita psichica. Il senso del naturalismo inteso come
rapida registrazione percettiva di una dimensione fisica svanisce in questa forma
perfetta, plasmata con piani fluidi e levigati, impercettibilmente carezzati da
sfumature epidermiche. Il ritratto diviene in questo caso una formula simbolica,
sovraindividuale, nella quale il naturalismo e l'umana fisicità vengono trascesi per
evocare piuttosto il concetto stesso di basiléus. Tale tipo di ritratto concede quindi
all'individuazione del personaggio solo una vaga caratterizzazione che, riferita in
senso lato a Teodosio I, ad Arcadio e anche a Teodosio II, spiega le discordanti
identificazioni proposte dagli studiosi. Con questa straordinaria scultura si
dischiuse dunque una nuova dimensione stilistica, modulata su una sottile tensione
dialettica tra realtà e astrazione, una tendenza che permase del resto sempre
latente nella concezione formale bizantina. Anche altre opere figurate
contemporanee o di poco posteriori manifestano i medesimi intendimenti formali,
volti a smaterializzare il senso della fisicità con volumi morbidissimi e sfumati, nei
quali della forma classica non resta in effetti che un larvato riflesso, come nel
rilievo da Bakirköy (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nr. 89).Nella stessa
direzione si mossero parallelamente le esperienze della scultura decorativa, che si
distaccarono gradualmente dai canoni formali del repertorio classico, attraverso
un percorso evolutivo scandito nel tempo da una serie di complessi monumentali
datati. Dai decori plastici del protiro teodosiano della Santa Sofia (415), a quelli
della basilica di S. Giovanni di Studios (453), sino alle esotiche invenzioni del S.
Polieucto e dei Ss. Sergio e Bacco (524-527) - le cui forme innovative trovarono
una perfetta sintesi nel superbo arredo scultoreo della Santa Sofia giustinianea -, è
infatti possibile ripercorrere tale metamorfosi sia nell'alterarsi dei valori organici e
proporzionali sia soprattutto nell'attenuarsi degli effetti tridimensionali - è
significativa al riguardo la mutazione del fregio a girali di acanto -, con esiti che
travalicarono il classico concetto di decorazione concepita per sottolineare il
plastico vigore delle membrature architettoniche. Sono appunto le immateriali
stesure decorative della Santa Sofia che si espandono senza apparente soluzione di
continuità a guisa di rabesco sui capitelli, sulle cornici e sulle pareti, a siglare il
punto di arrivo delle esperienze accumulate nel recente passato (Strube, 1984).
Tali esperienze erano state del resto perfettamente registrate dalla varietà delle
nuove forme di capitelli create dagli artisti costantinopolitani nel corso dei secc. 5°
e 6°, che ne rigenerarono altresì l'ornamentazione con esotici motivi ispirati al
repertorio sasanide, di cui è soprattutto il decoro plastico del S. Polieucto a offrire
la testimonianza più significativa.L'eleganza e la raffinatezza tecnico-formale che
caratterizzano la produzione scultorea dei secc. 5° e 6° sono apprezzabili anche nei
sarcofagi e negli arredi liturgici, come gli amboni, i plutei, le transenne e gli altri
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elementi delle recinzioni presbiteriali impreziositi anche da intarsi marmorei
policromi. Per gli amboni e i plutei furono privilegiate soprattutto nitide
composizioni decorative a disegni geometrici con elementi vegetali e animali,
ovvero serti di alloro e dischi cruciferi che si stagliano sul liscio piano di fondo,
come appunto è testimoniato dalla splendida serie ancora in opera nella Santa
Sofia (Barsanti, Guiglia Guidobaldi, 1992). Le medesime composizioni decorative si
ritrovano sui sarcofagi, per lo più del tipo a cassapanca, lavorati sia nel marmo
proconnesio, sia nella breccia verde di Tessaglia o in quella rossastra di Hereke, sia
nell'alabastro, come nel caso del monumentale esemplare, oggi all'Arkeoloji Müz.,
attribuito all'imperatore Eraclio (610-641). Predominano clipei lemniscati, dischi
cruciferi e semplici croci, ma non mancano richiami ad antiche tipologie
microasiatiche con partiture architettoniche includenti temi figurati e simbolici,
con cantari, elementi vegetali e animali (Farioli Campanati, 1983), come testimonia
appunto un interessante esemplare di marmo nero, ora all'Arkeoloji Müz. (Fıratlı,
1990, nr. 87). Nelle transenne l'ornamentazione, virtuosisticamente ritagliata a
giorno sulla superficie marmorea, riproduce invece fragili trame nastriformi siglate
da svariati motivi vegetali e animali, come testimonia per es. la serie del S. Vitale a
Ravenna (Ravenna, Mus. Naz.; Deichmann, 1989), in cui è possibile riconoscere
manufatti costantinopolitani e porre quindi l'accento sul fenomeno di vaste
dimensioni dell'esportazione dei materiali marmorei dall'area metropolitana, che
dalla fine del sec. 4° alla prima metà del 6° interessò tutti i territori dell'impero (v.
Capitello).Riveste poi un interesse documentario del tutto eccezionale la serie di
dieci pannelli figurati emersa dallo scavo del S. Polieucto, oggi all'Arkeoloji Müz.
(Harrison, 1986; Fıratlı, 1990, nrr. 485-492), sui quali sono scolpiti a bassorilievo i
busti in posizione frontale di Cristo e degli apostoli, i cui volti furono
probabilmente abrasi in epoca iconoclasta. Benché si tratti di sculture di qualità
piuttosto mediocre, rivelata soprattutto da una resa assai sommaria delle anatomie
e del panneggio, risulterebbe particolarmente interessante la loro eventuale
pertinenza a un témplon, che offrirebbe una concreta testimonianza circa la
presenza di cicli figurati nei témpla del sec. 6°, altrimenti noti solo dalla
descrizione della recinzione presbiteriale della Santa Sofia giustinianea tramandata
da Paolo Silenziario nella Descriptio ecclesiae Sanctae Sophiae (PG, LXXXVI, 2,
coll. 2145-2146; Epstein, 1981; Nees, 1983).Si possono citare altri esempi di
sculture figurate destinate all'arredo architettonico e liturgico degli edifici
dell'epoca: i frammenti di una colonna decorata con un esuberante tralcio di vite
che ospita diverse figurazioni (per es. il Battesimo di Cristo), caratterizzata da uno
stile di gusto naturalistico che richiama alla mente l'antico repertorio degli scultori
afrodisiensi (Fıratlı, 1990, nr. 190), o due capitelli con figure di serafini, destinati a
sorreggere un arco di ciborio (ivi, nrr. 230-231). Nello scavo del S. Polieucto furono
altresì recuperati numerosi frammenti di figure maschili e femminili di piccole
dimensioni che decoravano forse un rilievo o un sarcofago, nelle quali si avvertono
ancora stretti legami iconografici e stilistici con le tradizioni scultoree classiche di
ambito microasiatico (ivi, nrr. 425-484). Relativamente alla scultura figurata si
ricordano inoltre le due basi, con buona probabilità collocate in origine sulla spina
dell'ippodromo, che recavano le statue bronzee di Porfirio, famoso auriga dei
primi anni del 6° secolo. I suoi trionfi circensi sono celebrati appunto da una serie
di iscrizioni (già note nella testimonianza dell'Anthologia Palatina, XVI) e di scene
in cui compare lo stesso Porfirio con la palma della vittoria o sulla quadriga
incoronato dalle Níkai e acclamato dalla folla (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı,
1990, nrr. 63-64). Il codice rappresentativo replica peraltro quello dei
contemporanei dittici consolari d'avorio, nei quali all'immagine dominante del
protagonista si subordinano, anche dimensionalmente, soggetti di carattere
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narrativo organizzati in maniera più sciolta e con figure di modulo ridotto.Un pur
breve cenno va rivolto alla statuaria del sec. 6°, di cui purtroppo, al di là delle
testimonianze testuali che menzionano numerose statue-ritratto imperiali, non
resta altro che la riproduzione grafica (Papadaki-Oekland, 1990) della
problematica statua equestre di Giustiniano - forse un riassemblaggio di un
monumento di età teodosiana - posta sulla colonna dell'Augusteion, ove rimase sin
oltre la conquista turca della città, e l'ancora più enigmatica testa di porfido
diademata, oggi a Venezia (S. Marco), nella quale è stato riconosciuto persino il
ritratto di Giustiniano (Stichel, 1982, pp. 64ss., 104-115).La fine del sec. 6° siglò il
concludersi del primo grande capitolo della storia della scultura
costantinopolitana, il cui prosieguo sfugge purtroppo a qualsiasi concreto tentativo
di valutazione sino almeno a tutto il 9° secolo. La consistenza dei materiali è
piuttosto esigua - forse anche a causa di una sensibile flessione delle attività dei
laboratori marmorari che gravitavano nell'orbita delle cave del Proconneso - ed è
oltretutto priva di concreti referenti cronologici utili a ritesserne con coerenza le
trame evolutive. Bisogna infatti giungere ai primi anni del sec. 10° per 'scoprire'
nei decori plastici della chiesa nord del monastero di Costantino Lips (907) la
nuova fisionomia stilistica della scultura di C., che appare assai distante dalle
tradizioni classiche. Predominano infatti forme vegetali stilizzate e ibridate
all'interno di composizioni addensate, ritmate e coordinate da figure geometriche
con attenuatissimi effetti tridimensionali. In alcune stesure decorative venne anche
adottata la tecnica dell'incrostazione, che, conferendo all'ornato il levigato aspetto
dello smalto o del niello, ne esaltava ancor più l'effetto bidimensionale. Il
multiforme repertorio ornamentale di questo edificio esibisce altresì raffinati
motivi vegetali e animali di ascendenza sasanide, che, a guisa di erudite citazioni
antiquarie, riflettono la cultura contemporanea volta al recupero delle arti antiche,
ma anche il successo sempre più attuale delle mode orientali, mediato dalla
diffusione dei manufatti islamici (Grabar, 1963). Stilemi orientali caratterizzano
infatti sia le composizioni con astratti motivi geometrici e stilizzate sigle vegetali
sia quelle con figure di animali reali o fantastici, già ampiamente diffuse in età
iconoclasta, della scultura dei secc. 10°-11°, nonché la stessa resa formale di effetto
sempre più bidimensionale.Il gusto per una decorazione scultorea ridondante,
come è evidente appunto nella chiesa del monastero di Costantino Lips,
sembrerebbe tuttavia attenuarsi nei decenni successivi. Gli interni dei superstiti
edifici costantinopolitani dei secc. 11°-12° rivelano in effetti, tranne nel caso della
Kalenderhane Cami, un'estrema essenzialità nelle partiture ornamentali scolpite,
anche dal punto di vista repertoriale, come nel monastero del Pantokrator (Zeyrek
Kilise Cami) e nella chiesa del Cristo Pantepoptes (Eski Imaret Cami). La stessa
tendenza si registra anche in epoca paleologa, come attestano infatti le chiese del S.
Salvatore di Chora (Kariye Cami) e di S. Maria Pammakaristos (Fetihye Cami),
dove ricorrono peraltro fregi con tarsie marmoree. Si dovrà comunque tener conto
del fatto che purtroppo le chiese costantinopolitane sono ormai spoglie dei loro
arredi liturgici, i quali, come testimonia specificamente una serie di icone
marmoree e altri materiali scultorei, dovevano essere al contrario assai ricchi e
articolati. Le icone marmoree fecero la loro apparizione all'indomani
dell'iconoclastia e, come segnalano gli stilemi classicheggianti, questa trasposizione
iconografica dalla pittura alla plastica ben si collocherebbe sullo sfondo di quella
rinascita classica di cui si fece interprete la corte macedone (Lange, 1964; Grabar,
1976). Ma se pure si coglie in queste raffigurazioni un richiamo a modelli antichi,
l'eleganza formale di tradizione classica si stempera in un modellato ricco di effetti
smaterializzanti. Uno dei più antichi esempi è la lastra con la Vergine orante
(Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nr. 365) rinvenuta negli scavi della chiesa
Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...
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di S. Giorgio di Mangana in prossimità di una fontana di cui doveva senza dubbio
fare parte, come starebbe a indicare infatti la mano perforata dalla quale
probabilmente sgorgava l'acqua; tale funzione, come attestano il De caerimoniis di
Costantino VII Porfirogenito (II, 12) e altri pezzi analoghi, non sarebbe affatto
eccezionale per questo tipo di rilievo. Databile alla prima metà del sec. 11°, la
Vergine delle Mangane, nonostante il suo frammentario stato di conservazione, si
impone come un vero e proprio capolavoro: straordinariamente raffinato appare
infatti il modellato che definisce il chiasmo assolutamente frontale della figura di
modulo allungato, la cui eleganza formale viene peraltro esaltata dalla sobria
ritmica dei panneggi appena chiaroscurati.C. ha conservato altri rilievi di carattere
sacro, per es. una rara immagine della Vergine Odighítria, nonché alcuni
interessanti esempi con iconografie profane, mitologiche e allegoriche, come
l'Apoteosi di Alessandro Magno (Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 76,
131), per i quali è tra l'altro possibile individuare dei precisi paralleli iconografici e
stilistici nei contemporanei avori. Relativamente ai secc. 11° e 12° si rammentano
inoltre alcuni pezzi, molto probabilmente spoglie costantinopolitane, riutilizzati
nel S. Marco di Venezia, tra i quali il pannello con la Fortuna, quello con S.
Demetrio e soprattutto la Vergine Aníketos della cappella Zen, che preannuncia
significativamente lo stile paleologo, indicato dalla spazialità generata dalla figura
stessa assisa sul trono e dal panneggio, pur sempre denso, ma assai più
chiaroscurato (Grabar, 1976, nr. 123-124).Nell'età paleologa, infine, la scultura
costantinopolitana espresse i suoi ultimi guizzi creativi in una serie di opere che
manifestano un forte richiamo al passato. Le figure di angeli e i busti di apostoli e
santi scolpiti sull'archivolto della chiesa sud del monastero di Costantino Lips, del
1282-1303, su una cornice della chiesa di S. Maria Pammakaristos, del 1310-1315
(Istanbul, Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 414, 300), nonché su altri frammenti
di archivolti (ivi, nrr. 272-274) e su una serie di capitelli, alcuni dei quali pertinenti
agli arcosoli funerari della chiesa del S. Salvatore di Chora, della metà del sec. 14°,
si ispirano infatti a modelli paleobizantini, tentando di replicarne le morbide
volumetrie con un modellato quasi abbreviato. Non si tratta comunque di
pedisseque imitazioni poiché gli scultori paleologhi riuscirono a infondere alle loro
figure un nuovo senso di vibrante umanità che affiora nella tensione emotiva dei
volti e nel forte páthos espresso dagli sguardi, assai distante dall'icastica iconicità
delle raffigurazioni sacre comnene (Belting, 1972; Grabar, 1976; Hjort, 1979).
Anche nel repertorio specificamente ornamentale si percepisce un intenzionale
recupero dell'Antico: compaiono per es. fregi con girali e foglie di acanto che
sottolineano con effetto tridimensionale il disegno architettonico dei citati arcosoli
funerari della chiesa del S. Salvatore di Chora.Per quanto riguarda invece i decori
della chiesa sud del monastero di Costantino Lips, impreziositi da incrostazioni
plastiche policrome, si ha quasi l'impressione che volessero rievocare i sontuosi
arredi architettonici e liturgici di epoca macedone e comnena realizzati in oro o in
argento, tempestati di pietre e di sfavillanti smalti, ambite prede del bottino
latino.Relativamente all'epoca paleologa si segnalano infine alcune singolari
sculture a carattere profano con le figure di acrobata, di menadi, di danzatore e
anche di un dignitario, nonché un frammento con la raffigurazione di un
personaggio, imperatore o arcangelo, che indossa il lóros gemmato (Istanbul,
Arkeoloji Müz.; Fıratlı, 1990, nrr. 33, 241, 295-296, 77).
Bibl.: L. Bréhier, Etudes sur l'histoire de la sculpture byzantine, Nouvelles archives
des missions scientifiques et littéraires, n.s., 20, 1913, 3, pp. 19-105; id., Nouvelles
recherches sur l'histoire de la sculpture byzantine, ivi, 21, 1916, 9, pp. 1-66; J.
Kollwitz, Oströmische Plastik der theodosianischen Zeit (Studien zur spätantiken
Kunstgeschichte, 12), Berlin 1941; G. Becatti, La colonna coclide istoriata. Problemi
Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...
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storici iconografici stilistici, Roma 1960; A. Grabar, Sculptures byzantines de
Constantinople (IVe-Xe siècle) (Bibliothèque archéologique et historique de
l'Institut français d'archéologie d'Istanbul, 17), Paris 1963; R. Lange, Die
byzantinische Reliefikone (Beiträge zur Kunst des christlichen Ostens, 1),
Recklinghausen 1964; H. Belting, Zur Skulptur aus der Zeit um 1300 in
Konstantinopel, MünchJBK, s. III, 23, 1972, pp. 63-111; A. Grabar, Sculptures
byzantines du Moyen Age, II, (XIe-XIVe siècle) (Bibliothèque des CahA, 12), Paris
1976; E. Kitzinger, Byzantine Art in the Making. Main Lines of Stylistic
Development in Mediterranean Art, 3rd-7th Century, London 1977 (trad. it. L'arte
bizantina. Correnti stilistiche nell'arte mediterranea dal III al VII secolo, Milano
1989); Ø. Hjort, The Sculpture of Kariye Camii, DOP 33, 1979, pp. 199-289; A.W.
Epstein, The Middle Byzantine Sanctuary Barrier: Templon or Iconostasis?,
Journal of the British Archaeological Association 124, 1981, pp. 1-28; R.H.W.
Stichel, Die römische Kaiserstatue am Ausgang der Antike. Untersuchungen zum
plastischen Kaiserporträt Zeit Valentinian I (364-375) (Archaeologica, 24), Roma
1982; R. Farioli Campanati, Ravenna, Costantinopoli: considerazioni sulla scultura
del VI secolo, CARB 30, 1983, pp. 205-253; L. Nees, The Iconographic Programme
of Decorated Chancel Barriers in the Pre-Iconoclastic Period, ZKg 46, 1983, pp.
15-26; J.P. Sodini, K. Kolokotsas, Aliki II: la basilique double (Etudes Thasiennes,
10), Paris 1984; C. Strube, Polyeuktoskirche und Hagia Sophia. Umbildung und
Auflösung antiker Formen. Entstehen des Kämpferkapitells (Bayerische Akademie
der Wissenschaften. Philosophisch-historische Klasse, Abhandlungen, n.s., 92),
München 1984; R.M. Harrison, Excavations at Saraçhane in Istanbul, I, The
Excavations, Structures, Architectural Decoration, Small Finds, Coins, Bones, and
Molluscs, Princeton 1986; C. Barsanti, L'esportazione di marmi dal Proconneso
nelle regioni pontiche durante il IV-VI secolo, RINASA, s. III, 12, 1989, pp. 91-220;
F.W. Deichmann, Ravenna, Hauptstadt des spätantiken Abendlandes, II, 3,
Kommentar, Stuttgart 1989; N. Fıratlı, La sculpture byzantine figurée au Musée
archéologique d'Istanbul, a cura di C. Metzeger, A. Pralong, J.P. Sodini
(Bibliothèque de l'Institut français d'études anatoliennes d'Istanbul, 30), Paris
1990; S. Papadaki-Oekland, The representation of Justinian's Column in a
Byzantine Miniature of the Twelfth Century, BZ 83, 1990, pp. 63-71; C. Barsanti, A.
Guiglia Guidobaldi, Gli elementi della recinzione liturgica ed altri frammenti
minori nell'ambito della produzione scultorea protobizantina, in F. Guidobaldi, C.
Barsanti, A. Guiglia Guidobaldi, San Clemente. La scultura del VI secolo (San
Clemente Miscellany, IV, 2), Roma 1992, pp. 68-270; B. Kiilerich, Late Fourth
Century Classicism in the Plastic Arts. Studies in the So-Called Theodosian
Renaissance, Odense 1993.C. Barsant
Pittura
Tre eventi di portata epocale - la crisi iconoclasta (730-787, 813-843), la conquista
latina di C. (1204-1261), infine la caduta della stessa in mano ottomana (1453) -
hanno inferto a quello che fu il patrimonio più ricco e articolato del mondo
postclassico e premoderno una catena di distruzioni, spoliazioni e alienazioni
senza eguali nel corso del Medioevo. Alla storiografia russa, tedesca, viennese e
francese che fra l'avanzato Ottocento e i primi del Novecento cominciò a riflettere
sui processi dell'arte bizantina, la capitale dell'impero offriva un quadro
desolatamente vuoto. La pittura di C. nell'economia della figuratività bizantina era
un buco nero; solo la lettura delle fonti letterarie permetteva una qualche
conoscenza di cicli e immagini recuperabili, laddove possibile, esclusivamente in
termini iconografici.Ma dagli anni Trenta i connotati del panorama sono cambiati
profondamente. L'attività del Byzantine Inst. americano, volta a riportare alla luce
Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...
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e restaurare mosaici e pitture murali, e l'occasione offerta da varie campagne di
scavi sono all'origine di scoperte e ritrovamenti di straordinaria importanza. Perciò
oggi è possibile delineare un quadro della pittura di C. fitto di una quantità di
testimonianze inimmaginabile un secolo fa e, nonostante la non rimarginabilità
delle cesure inferte dalle distruzioni iconoclaste e dalle dispersioni a opera dei
dominatori occidentali, composto nei caratteri di un vero e proprio profilo. Tale
profilo appare cadenzato sui binari della lunga durata (secc. 5°-15°) e dunque
destinato a divenire nei confronti dell'intero sistema figurativo bizantino una
specie di spina dorsale, un asse di riferimento imprescindibile per tutte le
elaborazioni che si danno altrove, dentro e fuori i confini dell'impero.La prima
testimonianza nota riguarda le inedite pitture murali nella camera tombale
scoperta alla fine degli anni Ottanta fra le mura della cinta teodosiana, in un punto
non lontano dalla porta d'Oro (Deckers, 1991). I dipinti comprendono una serie di
figure in un contesto paradisiaco, la loro impaginazione compositiva è assai
semplice e tenuamente simbolico l'ordito tematico. Questo rinvenimento, se da
una parte rende più alta rispetto al passato la soglia cronologica della pittura di C.,
dall'altra concerne tuttavia un battesimo legato a dipinti dal carattere figurativo
'neutro', appartato nei riguardi dello sviluppo costantinopolitano successivo e
invece in sintonia con i tratti di quella pittura funeraria stilisticamente compatta e
poco differenziata che nei secc. 4° e 5° si diffuse abbondantemente in tutto il
territorio dell'impero, dall'Asia Minore alla Grecia, all'area balcanica, a Roma
(Andaloro, 1993). Né d'altra parte la memoria della perduta composizione absidale
probabilmente musiva (datata 473), ubicata nell'oratorio del monastero delle
Blacherne, raffigurante la Vergine, l'imperatore Leone I e vari membri della sua
famiglia, se pure risulta utile nel far luce sulla precoce politique de l'icône praticata
da parte degli imperatori bizantini (Grabar, 19842, p. 29), essendo nota solo
attraverso fonti letterarie (ivi, p. 54, n. 4), è in grado di rischiarare minimamente il
volto figurativo del sec. 5°, il quale continua dunque a rimanere oscuro.Il vero atto
di nascita della pittura di C. è tuttora da ravvisare nella serie di miniature
illustranti il Dioscoride compiuto per la principessa Anicia Giuliana intorno al 512
(Vienna, Öst. Nat. Bibl., Med. gr. 1; Lazarev, 1967; Gerstinger, 1970). Pervade le
miniature la naturalezza tutta sintattica della composizione, per cui figure, gesti e
spazio acquistano un significato concreto, effettivo ed è squisitamente alta
l'esecuzione pittorica, ricca e immediata ovunque, ma già incline a piegarsi -
nell'ambito della struttura figurativa di un'immagine come quella di Anicia
Giuliana al centro della miniatura contenuta a c. 6v - verso moduli di timbro
aulicamente astrattizzante e iconico. L'opera prima della pittura costantinopolitana
nasce dunque nel segno dell''ellenismo perenne', destinato a divenire la stella
polare del suo lungo percorso e a rendere C. il massimo centro di irradiazione di
quell'orientamento artistico e al contempo l'unico, quando si eclissarono le altre
capitali del mondo (Kitzinger, 1936; 1977).Risale agli anni 523-527 e ancora una
volta alla committenza di Anicia Giuliana la decorazione musiva che ornava la
chiesa di S. Polieucto e della quale è stata rinvenuta e raccolta una miriade di
frammenti e di tessere isolate. Molti dei frammenti sono provvisti della malta
d'allettamento, le tessere sono in prevalenza di pasta vitrea, d'oro e d'argento; non
mancano tuttavia quelle in marmo, pietra e terracotta. Poiché la percentuale delle
tessere d'oro rinvenute nella zona absidale è assai alta, è del tutto lecito ritenere
che un mosaico a fondo oro ornasse l'abside della chiesa (Harrison, 1986). Inoltre i
mosaici erano figurati, come attesta la presenza di alcuni frammenti, il più
significativo dei quali raffigura la parte inferiore di un volto virile e barbato. Quella
che tutt'oggi rappresenta la prima testimonianza della gloriosa catena dei mosaici
parietali di C. si trova dunque nella condizione di materia: materia lavorata ma
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svincolata dallo statuto d'immagine che le era proprio. Da qui i limiti di ogni tipo di
ricerca a riguardo. Tuttavia, analizzando le modalità esecutive dei tessuti musivi e
riflettendo sulla fisionomia dei loro tracciati, si sarebbe indotti ad accostare i
frammenti di S. Polieucto alla decorazione musiva del monastero Mar Gabriel,
presso Kartmin (Turchia sudorientale), per la quale appaiono assai convincenti il
termine cronologico del 512 e il collegamento con l'imperatore Anastasio. Con Mar
Gabriel i frammenti musivi di S. Polieucto condividono alcune delle caratteristiche
che, alla stregua di marchio distintivo, si trovano costantemente presenti nei
mosaici di C. o di stretta osservanza costantinopolitana, vale a dire l'allettamento
delle tessere auree in modo da assicurare loro l'inclinazione verso il basso,
l'impiego di quelle d'argento, il ruolo di valenza autonoma agita nel tessuto musivo
dalla singola tessera (Andaloro, in corso di stampa).Si devono all'attività del
Byzantine Inst. il recupero e il restauro di una ragguardevole serie di mosaici
all'interno della Santa Sofia - una volta rimosse le ridipinture a olio stese intorno
alla metà dell'Ottocento, durante il restauro di Gaspare Fossati, allo scopo di
rendere compatibile con la destinazione a moschea della chiesa la decorazione
pittorica - con il risultato che la sequenza di quei mosaici è divenuta
l'imprescindibile quadro di riferimento per l'intera pittura di Costantinopoli. La
più antica testimonianza è contestuale alla fase giustinianea della costruzione e
comprende due diversi momenti. Il primo riguarda la decorazione del nartece
(vele delle volte, intradossi degli archi trasversali, lunette orientali, intradossi degli
archi occidentali; Whittemore, 1933-1952, I) e, all'interno, l'ornamentazione degli
intradossi degli archi delle quattro esedre agli angoli della navata e infine la
decorazione delle grandi arcate dei quattro grandi pilastri. Di quest'ultima
ornamentazione sono superstiti solo dei frammenti, il più ampio dei quali si
conserva sotto la linea d'imposta dell'arco meridionale nella galleria nord
(Underwood, Hawkins, 1961). L'insieme dei mosaici citati (nel nartece motivi
geometrici, floreali, stelle, girali d'acanto e croci; all'interno serie di girali) è
ritenuto coerente con la fase giustinianea dell'edificio (532-537; Whittemore,
1933-1952, I; Underwood, Hawkins, 1961), del quale doveva costituire una
meravigliosa guaina luminosa. Il secondo momento coincide con il pannello,
decorato con motivo a girale contornato da un bordo ornamentale, posto
nell'intradosso dell'arco meridionale, contiguo al citato frammento giustinianeo. Il
bordo si ispira al mosaico preesistente, mentre il tipo del girale ne differisce; ma
soprattutto i due pannelli differiscono per tecnica e uso dei colori. Nel secondo i
filari non sono regolari e sono usate contemporaneamente tessere di colore
diverso: all'oro del fondo è mescolato ca. il 10% d'argento, ai blu sono spesso
mischiati i verdi. Questi rilievi, uniti alle osservazioni scaturite dall'analisi delle
strutture degli archi delle grandi arcate, hanno indotto a ipotizzare (Underwood,
Hawkins, 1961) che la sostituzione della prima decorazione giustinianea sia il
frutto della ricostruzione delle arcate e dei timpani in seguito al crollo del 7 maggio
558 e che dunque la seconda ornamentazione sia stata attuata entro il 562, anno
della ridedicazione della Santa Sofia.Pur nello stato di frammentarietà, quanto
rimane della decorazione giustinianea consente di definire alcuni punti
fondamentali: rivela innanzitutto la natura aniconica del suo programma, dettata
presumibilmente dal desiderio di non contrastare le posizioni dei monofisiti in
materia di immagini; svela il carattere supremamente aulico, raffinato e sublimato
delle stesure musive, scelte quale medium di decorazione pittorica quasi esclusivo;
agevola la comprensione di quella che dovette essere la concezione fondante alla
base dell'intero progetto della Santa Sofia giustinianea, originata dalla
compresenza e interazione dei vari sistemi decorativi agenti nei confronti degli
invasi spaziali: dai mosaici, alle decorazioni in stucco, alle sculture architettoniche,
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ai rivestimenti di lastre marmoree alle pareti, all'opus sectile del pavimento, a
quelli d'argento degli arredi e della suppellettile liturgica, noti attraverso la
descrizione di Paolo Silenziario.La decorazione pittorica giustinianea era inoltre
ideata come totale e diffusa, non doveva rimanerne esente alcuna parte, anche in
contesti di prevalente natura funzionale. Così la rampa sud-ovest conserva tuttora
frammenti di pittura murale nella volta dell'ottava galleria (medaglione con una
grande croce floreale) e sulla parete verticale ovest della decima galleria
(probabilmente motivi floreali), mentre rimane dubbia la cronologia (giustinianea
per Underwood, 1955-1956b; del sec. 9° secondo Cormack, Hawkins, 1977) dei
mosaici sulla volta e sui timpani (girali d'acanto su fondo bianco, medaglioni con
croci raggiate) e sulla semicupola nord e arco nord dell'alcova (girali di vite,
medaglione con bracci di croce o monogramma cruciforme); questo ambiente
aveva la funzione di torre-lucernaio della rampa sud-ovest in epoca giustinianea,
forse di diaconico per l'oratorio della stanza sopra il vestibolo in seguito alla
ristrutturazione della seconda metà del sec. 6° e infine forse quella di passaggio
cerimoniale fra i due sekréta nel sec. 9° (Cormack, Hawkins, 1977).L'immagine
iconica irrompe in ambiti correlati alla Santa Sofia negli anni di Giustino II
(565-578). Nella stanza sopra la rampa, facente parte insieme all'ambiente sopra il
vestibolo del patriarcato costruito da Giovanni III Scolastico (565-577), la
decorazione musiva comprende girali incornicianti un grande medaglione centrale
nella volta, mentre nei timpani, al centro di ogni campo triangolare, compare un
medaglione contenente una croce. Le croci risultano essere un inserto collegabile a
un atto iconoclasta, da identificare con ogni probabilità con quello del 768-769
attestato dalle fonti, compiuto a opera del patriarca Niceta I (Mango, 1962;
Cormack, Hawkins, 1977) e destinato a sostituire la serie di otto figure
accompagnate da iscrizioni, delle quali sono leggibili alcune lettere, collocate
originariamente nei timpani (Cormack, Hawkins, 1977), nonché la figura di Cristo
nel medaglione al centro della volta.Contestata la veridicità della testimonianza di
Corippo in base alla quale risalirebbero al tempo di Giustino II alcuni mosaici con
scene cristologiche (Lazarev, 1967, p. 66), occorre ritenere perdurante fino a epoca
posticonoclasta il carattere aniconico della decorazione musiva della Santa Sofia.
Diversamente ci sono ragioni per non escludere la presenza dei mosaicisti di
Giustino II in almeno una parte di quel ciclo cristologico della chiesa dei Ss.
Apostoli descritto da Costantino Rodio e da Nicola Mesarite.Si deve agli scavi
condotti nell'area della Kalenderhane Cami la scoperta del primo mosaico
parietale con soggetto figurato cristiano del quale sono leggibili le componenti
iconografiche e stilistiche. Il pannello di forma originariamente quadrata (lato cm.
130 ca.), ritrovato nel corso dei lavori di consolidamento del muro sud della
protesi, è isolato, ubicato a un'altezza modesta e rappresenta la scena
dell'Hypapanté. In base al contesto nel quale si trovava il mosaico - in seguito
staccato e restaurato per essere esposto al pubblico - si può affermare che,
risalendo alla fase più antica dell'edificio-chiesa, fu successivamente coperto
dall'innalzamento di un muro, il quale, eretto forse in periodo iconoclasta con il
proposito di sottrarre il rilievo alla vista, lo preservò dalla distruzione. Sulla base di
una serie di elementi di natura archeologica e storica è possibile porre la sua
datazione fra il sec. 6° avanzato e gli inizi dell'8° (Striker, Kuban, 1971). Per
Kitzinger (1977) il mosaico può essere attribuito al sec. 7° e confrontato con i
dipinti di carattere ellenistico di S. Maria Antiqua a Roma. È pienamente
condivisibile la convinzione che il mosaico della Kalenderhane Cami "dimostra
senza alcun'ombra di dubbio che in questo periodo l'arte religiosa della capitale era
profondamente influenzata dalla corrente ellenistica" (Kitzinger, 1977, trad. it., p.
129). Per il resto si attende di poter contare su una cronologia più precisa, sulla
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base di una valutazione che non escluda alcun elemento interno ed esterno. È da
valutare per es. il motivo del poligono ricorrente nell'importante cornice, che è
affine a quello adoperato all'interno della decorazione giustinianea nel nartece
della Santa Sofia; occorre riflettere sullo spostamento della soglia cronologica dal
sec. 7° all'avanzato 6° per ciò che riguarda l'epifania di una pittura di soggetto
cristiano pervasa da forti tendenze figurative ellenizzanti. È questo il nodo
ravvisabile in quello straordinario brano di pittura ellenizzante, di matrice e
formulazione costantinopolitana, che è l'Annunciazione sul secondo strato della
c.d. parete-palinsesto in S. Maria Antiqua, che un fascio di indizi sufficientemente
probanti permette di datare agli anni di Giustino II (Aggiornamento scientifico,
1987).Risale agli anni Trenta la scoperta degli importanti mosaici pavimentali
ubicati nel portico settentrionale e in quello meridionale del peristilio del Grande
Palazzo. Altri frammenti sono stati rinvenuti nel 1953-1954 (Lazarev, 1967). È in
atto la rivisitazione del restauro precedente e dal 1983 viene condotta una nuova
investigazione del sito (Jobst, 1987). A confronto con quelli conservati in Italia, in
Siria e in Africa settentrionale i mosaici del palazzo imperiale di C. sorprendono
per la varietà e la vivacità: combattimenti di belve e di volatili, caccia alla lepre, al
cinghiale, al leone e alla tigre; scene di vita campestre (caprone che bruca l'erba,
mungitura delle capre, cavalli); scene di genere (per es. bambini che pascolano
oche, o che cavalcano un cammello; un mulo che ha gettato a terra il padrone);
inoltre Pan con Bacco su una spalla, un moscoforo, una donna che porta una
brocca, giochi circensi. Sul fondo bianco animato dalla trama raffinatissima del
motivo a pelte, ma sostanzialmente neutro, le figure, vivide e tridimensionali, si
esprimono con una gestualità ricca e verosimile; come in una parata vengono alla
ribalta le immagini di edifici di salda radice ellenistica. Ciò che incrina felicemente
la pelle organica dell'insieme è il meraviglioso disinteresse verso qualsivoglia unità
o verosimiglianza di tipo spaziale. Non è tenuto presente il punto di vista, cosicché
le figure e i motivi appaiono 'galleggiare', disseminati sul fondo. Più in generale, se
si valutano i termini compositivi, il pavimento finisce per essere considerato a
ragione un ragguardevole esempio di tappeto figurato, secondo tipologie già
sperimentate ad Antiochia e altrove nel 5° secolo. Ma spostando l'analisi dallo
schema tipologico a quello della realizzazione, le affinità si affievoliscono e
perdono di efficacia (Kitzinger, 1977): altrove non sono stati raggiunti sia il livello
di perspicuità e padronanza formale ed esecutiva, che fa delle stesure dei mosaici
costantinopolitani un vero e proprio unicum, sia la grana senza sbavature della sua
cultura figurativa di segno profondamente ellenistico. Proprio quest'ultimo aspetto
anche recentemente (Trilling, 1989) ha spinto a individuare nella temperie che
maturò a C. durante gli anni di Eraclio (610-641) il clima storico, culturale,
ideologico più appropriato per i mosaici del palazzo imperiale, che dunque
verrebbero a rappresentare il versante dell'arte profana in felice parallelismo con
quello dell'arte a soggetto religioso della quale è superba espressione il gruppo
degli argenti con le Storie di Davide. Come per tante altre opere preiconoclaste,
anche per i mosaici del Grande Palazzo i problemi della datazione non possono
dirsi definitivamente chiusi. Tuttavia qualunque sia la datazione riferita al
complesso - gli anni di Giustiniano, di Giustino II, di Eraclio o anche dopo -, è
destinata a non accorciarsi la distanza che separa concettualmente, visivamente ed
esecutivamente tali mosaici pavimentali da quelli parietali preiconoclasti di C.: i
minimi frammenti da S. Polieucto, i mosaici di Giustiniano e di Giustino II nella
Santa Sofia, il pannello della Kalenderhane Cami, il frammento con il volto di un
angelo una volta nella chiesa di S. Nicola al Fanar (Lazarev, 1967).In sintesi, ciò che
si verifica è una divaricazione a chiasmo: tanto le stesure musive pavimentali
tendono alla resa quanto più possibile pittorica, attraverso l'iter di una raffinata e
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sorvegliatissima gamma di microvariazioni cromatiche e di passaggi di piani,
quanto le stesure dei mosaici parietali perseguono l'obiettivo di un percorso
autonomo nei riguardi della pittura: da qui il senso e il ruolo diverso che nei
mosaici parietali vengono ad assumere le scelte dei materiali (uso di tessere
d'argento) e le specifiche modalità tecnico-formali (per es. andamento,
allettamento e inclinazione delle tessere); da qui l'impiego della tessera in funzione
di cellula germinativa dell'intero sistema di rappresentazione.Diverse fonti testuali
(per es. Stefano Diacono, Vita sancti Stephani iunioris, PG, C, col. 1113; Lazarev,
1967, p. 106) consentono di penetrare nelle opposte dinamiche figurative
dominanti nella C. del lungo periodo iconoclasta: da una parte il moto di
distruzione applicato alle immagini sacre, dall'altra il rigoglioso rinnovamento
degli apparati decorativi. L'imperatore Costantino V ordinò la distruzione di un
ciclo evangelico nella chiesa delle Blacherne ma vi sostituì, come narra Stefano
Diacono, raffigurazioni di "alberi, fiori, vari uccelli e altri animali, circondati da
tralci d'edera, tra i quali brulicano in gran numero gru, cornacchie e pavoni",
trasformando in tal modo la chiesa in "un verziere e in un'uccelliera" (PG, C, col.
1120). L'imperatore Teofilo si prese cura di far adornare le pareti del palazzo
imperiale con dipinti rappresentanti figure che colgono frutta, vari animali, alberi,
ghirlande, armi. Una decorazione di questo tipo appare debitrice a quella
splendida fioritura che conobbe l'Oriente islamico alla corte dei califfi di Damasco
e di Baghdad (Grabar, 19842, pp. 192-193).A C. nulla è superstite del patrimonio
pittorico di carattere profano del periodo iconoclasta, inghiottito a sua volta dalla
drastica reazione iconodula. Tuttavia se ne può cogliere un riflesso, e non flebile,
nella superba serie di stoffe custodite nei tesori e reliquiari dell'Occidente: per es. i
frammenti di seta con quadriga (Aquisgrana, Domschatzkammer; Parigi, Mus. Nat.
du Moyen Age, Thermes de Cluny); quella della chiesa di Saint-Calais, presso Le
Mans, raffigurante la caccia di Bahrām Gūr, soggetto di origine sasanide utilizzato
a C. per esprimere la glorificazione del trionfo imperiale; la seta di Lione (Mus.
Historique des Tissus), anch'essa con la raffigurazione di una caccia imperiale; il
frammento con il busto d'imperatore di Sens (Trésor de la Cathédrale; Byzance,
1992, pp. 192-199).Un'idea delle grandi decorazioni profane di C.
irrimediabilmente perdute può essere fornita dalle decorazioni musive di epoca
omayyade - dai mosaici della Cupola della Roccia a Gerusalemme a quelli del
portico della Grande moschea di Damasco - nonché dai frammenti musivi che
decorano la parete nord della basilica della Natività a Betlemme, i quali, sebbene
siano stati compiuti tra il 680 e il 724 e in un contesto non iconoclasta, trattano il
tema della raffigurazione dei sei concili provinciali in modo simbolico e astratto,
secondo un'inclinazione alla quale non è estraneo l'influsso dell'arte islamica
(Stern, 1948).Esempi di quell'arte aniconica perseguita dagli iconoclasti all'interno
degli spazi sacri sono invece parzialmente noti. Immagine prediletta fu la croce.
Accanto al citato caso pertinente agli interventi nella stanza sopra la rampa nella
Santa Sofia occorre almeno menzionare il mosaico nell'abside della chiesa della
Santa Irene, dove sul fondo dorato campeggia ancora oggi una croce immensa.A C.
il ritorno all'ortodossia è segnato da un mosaico figurato di eccezionale qualità, in
un luogo denso quanto altri mai di valenze speciali. Il mosaico è quello raffigurante
la Theotókos in trono con il Bambino e due angeli stanti, dei quali rimane solo
quello di destra; il luogo è l'abside e il sottarco della Santa Sofia, tanto altamente
strategico da un punto di vista del 'potere dell'immagine', quanto spazialmente
indifferente o peggio inappropriato nei riguardi dei valori compositivi, e non felice
per la sua fruizione, che, di norma, può contare su punti di stazione troppo lontani
per consentire di cogliere tutta la forza e la sottigliezza di un'opera che a ragione si
annovera fra le più alte e significative dell'intera pittura bizantina. A ragionevole
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distanza sono godibili tanto l'effetto spaziale della figura della Vergine prodotto dal
piedistallo del trono arditamente scorciato, quanto il bel nodo compositivo e
gestuale fra la Vergine e il Bambino seduto sulle sue ginocchia; inoltre è possibile
sia apprezzare in tutta l'abbagliante luminosità la ieratica eppur nervosa e
dinamica figura dell'angelo e l'apertura delle superbe ali sia sorprendere il punto
di fusione fra seducente sensualità e ardente spiritualità nei volti della Theotókos e
dell'angelo (Lazarev, 1967). Ma solo a distanza ravvicinata è dato cogliere quelle
modalità tecnico-formali attraverso le quali si giunge agli esiti altissimi del
mosaico: la scioltezza pittorica delle forme, la liquida e digitale sensibilità a cui
rispondono docilmente le superfici e i lineamenti dei volti, eseguiti con tessere in
pietra naturale di piccole dimensioni, la trasparenza delle ombre, la carica
illusionistica degli sguardi e del pollice e del palmo della mano dell'angelo visti
dietro il globo in trasparenza, il disegno magistrale e astratto del panneggio, fino a
seguire la disposizione delle tessere, il gioco del loro andamento - ora attento e
organico al disegno, ora discontinuo, laddove sono richiesti più intensi gli effetti
impressionistici -, le modulazioni degli interstizi fra tessera e tessera, la mappatura
delle tessere vitree e di quelle lapidee, lo spettro cromatico delle tinte e delle
mezze tinte, per realizzare le quali si giunge a dipingere le tessere allorquando si
prevede che l'effetto cromatico delle tessere di pasta vitrea o lapidee non sia del
tutto soddisfacente in rapporto alla cosa da raffigurare. È questo il caso del colore
rosso delle pantofole della Theotókos. Alla confluenza delle cifre stilistiche e delle
modalità tecnico-formali emerge la consapevolezza di trovarsi davanti a una delle
opere che incarna vividamente e a un livello formalmente assai alto il fenomeno
della reviviscenza ellenistica a Costantinopoli. E tutto ciò avviene in un'opera che
per l'autorevolezza della sua ubicazione assume quasi il valore di una
dichiarazione di intenti. L'iscrizione ubicata nell'abside della Santa Sofia - della
quale sopravvivono quattro lettere del principio e nove della parte terminale, ma
che è nota dal testo di un epigramma dell'Anthologia Palatina ("Le immagini che
gli ingannatori avevano qui distrutto, i pii imperatori hanno ripristinato";
Antoniades, 1907-1909, I) - incontrovertibilmente attesta l'avvenuta riconciliazione
nei riguardi dell'immagine dopo la crisi iconoclasta. D'altra parte in seguito a
un'analisi autoptica delle stesure musive è assodato che il fondo oro e il gruppo
con la Theotókos in trono con il Bambino e gli angeli furono eseguiti prima della
fascia con le ghirlande del sottarco e della contestuale iscrizione (Mango, Hawkins,
1966). Da qui la datazione del mosaico dopo l'843 e prima dell'867, allorquando
l'immagine allora visibile nell'abside della Santa Sofia venne menzionata dal
patriarca Fozio. Senonché testimonianze scritte e figurative - dall'omelia del
patriarca Fozio fino alla biografia del patriarca Bucheiras (1347-1349) e a una serie
di medaglie - descrivono o riproducono le figure rappresentate nell'abside in
forme e iconografie palesemente differenti - la Theotókos stante che regge il Figlio
secondo l'aspetto dell'Odighítria - rispetto al mosaico esistente. Talché in passato si
è potuta anche far strada con vigore l'idea che al mosaico competa una
collocazione cronologica nel corso dell'avanzato Trecento, cronologia alla quale si
oppongono decisamente ragioni stilistiche e le prove a favore della contestualità
esecutiva delle parti figurate del mosaico e dell'iscrizione, di incontrovertibile
tenore iconodulo. L'evidente stallo in cui versa la questione ha suggerito un
andamento dei fatti che s'impernia sulla ipotesi che il mosaico oggi in vista sia stato
concepito ed eseguito negli anni successivi al secondo concilio di Nicea (787),
nell'interludio fra prima e seconda fase iconoclasta (787-813), durante il regno di
Costantino VI e di sua madre Irene. Scialbato in occasione del secondo periodo
iconoclasta, al suo posto alla fine della crisi sarebbe stata dipinta quell'immagine
della Vergine Odighítria in piedi alla quale farebbero riferimento le fonti scritte e
Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...
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iconografiche fino a quando, forse in conseguenza della terribile serie di terremoti
avvenuti a metà del Trecento (14 e 18 ottobre, 20 novembre 1344), con la caduta
degli intonaci si intravide il mosaico celato per cinque secoli e mezzo e si decise di
rimetterlo in luce. Sta di fatto che nella medaglia del patriarca Neilos (1380)
l'immagine della Theotókos in trono con il Bambino sulle ginocchia corrisponde
all'iconografia del mosaico dell'abside, che a quel tempo era dunque visibile
(Oikonomidés, 1985). Se la ricostruzione di Oikonomidés, per molti aspetti
convincente, trova conferma, il mosaico dell'abside della Santa Sofia, con il
sorvegliatissimo equilibrio fra illusionismo raffinato di radice ellenistica e processi
di spiritualizzazione, è da considerare come l'opera in grado di aderire, anzi di
incarnare le istanze e gli esiti del dibattito sull'immagine, la sua natura, la sua
funzione, la sua struttura, promosso dal secondo concilio di Nicea.Prevalgono
registri stilistici di matrice diversa negli altri mosaici della Santa Sofia risalenti al
momento posticonoclasta e alla temperie macedone. Nella stanza sopra il
vestibolo, identificata con il grande sekréton del palazzo patriarcale (Mango, 1959;
Cormack, Hawkins, 1977), i mosaici scoperti da Underwood (1955-1956b)
restituiscono un complesso frammentario ma ricostruibile nelle sue linee
principali. Sulla parete d'ingresso campeggia la Déesis; venti figure - fra le quali si
possono riconoscere il profeta Ezechiele, il martire Stefano, l'imperatore
Costantino - distribuite in due zone occupano la volta; sulle lunette delle pareti
erano rappresentate le mezze figure degli apostoli e dei quattro più accesi
avversari degli iconoclasti, i patriarchi Germano, Tarasio, Niceforo e Metodio. La
presenza di Metodio nel ciclo permette di fissare all'847, anno della sua morte, il
terminus post quem per i mosaici, dei quali a ragione è stato rinvenuto il filo
conduttore nel tema dell'ortodossia con richiami al Synodikón. Concepiti, come
indica il tema raffigurato, in un clima intellettuale particolarmente interessato al
problema delle immagini come era quello della capitale imperiale, allorquando nel
concilio di Fozio (861) e nel quarto concilio di C. (869-870) si discuteva ancora
dell'iconoclastia, i mosaici del grande sekréton non possono oltrepassare la soglia
degli anni settanta del sec. 9° (Cormack, Hawkins, 1977). In questi mosaici del
terzo quarto del sec. 9° i caratteri sono quelli di un'intonazione che ha
nell'icasticità e nel prosciugamento di una presentazione concentrata sullo statuto
iconico il suo punto di maggior forza.Sono di qualche anno posteriori, essendo
state eseguite non prima dell'877, data della morte del patriarca Ignazio, le figure
dei Padri della Chiesa (Giovanni Crisostomo, Ignazio Teoforo, Ignazio patriarca)
scoperte nel timpano nord della Santa Sofia (Underwood, 1955-1956b) e
appartenenti a un programma decorativo che comprendeva quattordici Padri della
Chiesa e sedici profeti. Le grandi figure, dallo squadro ampio, dalle teste piccole e
dalle vesti sobriamente panneggiate, sono accompagnate da scritte che
giganteggiano in modo volutamente coprotagonista sul fondo oro. Ugualmente
semplificata appare la tavolozza, imperniata sui toni chiari, in prevalenza sui grigi
e sui bianchi, tranne nei visi dove prevalgono tonalità rosate su fondo verde nella
duplice funzione di tono di base e di delineazione delle ombre.Non è dato invece
verificare in medias res il nuovo sistema di decorazione pittorica dell'organismo
ecclesiastico che, elaborato nel corso della seconda metà del sec. 9° e destinato a
divenire canone per ben tre secoli in tutti i territori di fede ortodossa, ebbe proprio
a C. le prime grandiose applicazioni. Descritti da Fozio, da Nicola Mesarite, da
Leone VI, i cicli che decoravano le chiese di nuova fondazione (la Nea Ekklesia di
Basilio I, dell'867-886; la chiesa della Vergine del Faro di Fozio; la chiesa del
monastero di Kauleas; la chiesa fondata da Stiliano, ministro e principale
consigliere dell'imperatore Leone VI) sono andati distrutti. Aderenti alla
concezione del tempio come 'un altro cielo' sulla Terra, 'dimora di Dio' (Jenkins,
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Mango, 1955-1956), le pitture avevano come punti di forza la rappresentazione del
Cristo Pantocratore, circondato da angeli nella cupola, la figura della Vergine
orante nell'abside e numerose immagini di patriarchi, profeti, apostoli e
martiri.Sono parimenti distrutti i mosaici della sala del Crisotriclinio nel palazzo
imperiale (856-866), dove sul trono dell'imperatore fu posto il mosaico con la
figura di Cristo re dei re assiso in trono e, sulla parete opposta, un altro mosaico
con la Theotókos in trono, circondata dall'imperatore, dal patriarca e dal loro
seguito; erano raffigurati inoltre angeli, apostoli, profeti.Subito dopo il terremoto
dell'869, sulla cupola della Santa Sofia comparve l'immagine di Cristo fra i
cherubini; sull'arco ovest, restaurato da Basilio I, la Vergine con il Bambino fra i ss.
Pietro e Paolo (Mango, 1962); nei timpani nord e sud le figure di Padri della
Chiesa, profeti e angeli, alcune delle quali sono state riscoperte di recente.Si
afferma che provenga dal monastero di S. Giovanni di Studios ed è ascritto al sec.
9° il frammento musivo con una testa, forse della Vergine, conservato ad Atene
(Benaki Mus.; Coche de la Ferté, 1981, tav. 69). Se venissero confermate
provenienza e cronologia, il brano - appartenente con ogni probabilità a una scena
cristologica, plausibilmente una Crocifissione - sarebbe una rara testimonianza
dell'esistenza a C. di cicli di datazione alta; l'ipotesi finora aveva il suo punto forte
nella menzione del ciclo evangelico nella chiesa della Vergine del Faro da parte di
Nicola Mesarite, ciclo che tuttavia da altri viene ritenuto un'aggiunta alla
decorazione originaria, che risale a epoca foziana (Jenkins, Mango, 1955-1956).Nel
nartece della Santa Sofia sulla lunetta sovrastante la porta Regia l'originario
mosaico giustinianeo a fondo oro e croce risulta essere stato sostituito in epoca
successiva. Il nuovo mosaico comprende la figura di Cristo seduto in trono che
regge il vangelo dove sono leggibili le parole: "La pace sia con voi. Io sono la pace
del mondo". Ai piedi di Cristo, nell'atto della proskýnesis, è raffigurato
l'imperatore - identificato dalla maggior parte degli studiosi con Leone VI
(886-912) - mentre sul fondo ai lati di Cristo stanno entro clipei la Vergine nel
gesto della Haghiosorítissa e l'arcangelo Gabriele.Pochi soggetti della pittura
costantinopolitana possono vantare un'attenzione esegetica paragonabile a quella
di cui ha goduto il mosaico sulla porta Regia dall'indomani della sua scoperta,
avvenuta in occasione della prima campagna di attività del Byzantine Inst. nel
nartece della Santa Sofia (Witthemore, 1933-1952, I). Una volta individuato
nell'incarnazione e nell'intercessione l'orizzonte dottrinario sotteso alla
raffigurazione, le letture divennero progressivamente meno generiche e più
concentrate su fonti e sfondo storico. Sulla base di un passo del De caerimoniis di
Costantino VII Porfirogenito, Grabar (1936) prospettò di vedere nel mosaico il
riflesso della solenne cerimonia concernente il momento dell'ingresso
dell'imperatore nella Santa Sofia e di leggere la scena come un omaggio
dell'autocratore al Pantocratore e la testimonianza della diretta derivazione del re
della terra dal re del cielo. Su questo asse interpretativo sono confluite poi altre
sfaccettature, elaborate alla luce delle opere di Leone VI, in particolare dell'omelia
dell'Annunciazione, cui sembrano ispirarsi le figure della Theotókos e
dell'arcangelo rappresentati nel mosaico in veste di intercessori e patroni
dell'imperatore genuflesso davanti al panbasiléus. Successivamente si fece strada
una nuova interpretazione complessiva in base alla quale l'imperatore raffigurato
sarebbe Leone, ma in atto di penitente. Il senso del mosaico collocato nel nartece,
lo spazio dei non battezzati e dei penitenti, sarebbe da ravvisare nel contesto
storico relativo alle conseguenze del quarto matrimonio di Leone, celebrato contro
le leggi ecclesiastiche, all'origine di uno scisma all'interno del patriarcato di C. che
si ricompose solo con il concilio del 920. Secondo questa nuova lettura il mosaico è
da datare dopo il 920, essendo raffigurato Leone alla destra del Cristo fra i salvati,
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dopo il pentimento avvenuto poco prima di morire (912) e dopo l'assoluzione nel
corso del concilio. La pace annunciata dalle parole di Cristo andrebbe appunto
riferita a quella dopo lo scisma; la funzione profonda della lunetta sarebbe quella
di monito verso i futuri imperatori (Oikonomidés, 1976).Il timbro specifico
dell'opera è dato soprattutto da due elementi: dall'accentuazione del principio
lineare che raffredda la temperatura delle reminiscenze dei prototipi antichi,
preiconoclasti, emergenti nei volti di Cristo, della Theotókos e dell'arcangelo;
inoltre dalle modalità tecnico-formali messe a punto nelle stesure musive. Fra
queste merita attenzione il procedimento dell'allettamento delle tessere nei filari
del fondo oro. Le tessere, ordinatamente disposte in linee orizzontali fra loro
distanziate, sono però allettate con accentuato angolo d'inclinazione (fino a 26°;
Nordhagen, 1984), raggiungendo così un duplice effetto: in primo luogo
neutralizzare gli spazi vuoti fra filare e filare, non visibili in tal modo dal normale
punto di stazione (ca. m. 10 di distanza), in secondo luogo rendere estremamente
dinamico il rapporto con la luce, accrescendone l'intensità.Risale al 912 il mosaico,
rinvenuto alla fine degli anni Cinquanta, ubicato sul pilastro nord-ovest della
tribuna nord, raffigurante l'imperatore Alessandro, fratello di Leone VI.
L'identificazione è sicura grazie al nome leggibile nel medaglione disposto sul
fondo e all'invocazione monogrammata contenuta in altri tre medaglioni: "Signore
aiuta il tuo servitore, imperatore ortodosso e fedelissimo" (Underwood, 1960;
Underwood, Hawkins, 1961). Strutturato come un ex voto, il pannello consegna
un'immagine dotata di concentrata e simbolica rappresentatività. Raffigura infatti
l'imperatore nelle vesti e con le insegne che indossava e portava durante la
processione della domenica di Pasqua nel tratto dai palazzi imperiali alla Santa
Sofia, come testimonia il De caerimoniis. L'imperatore Alessandro regge infatti
nella mano destra l'anexikakía o akakía - un fazzoletto di seta pieno di terra, simile
a un rotulo, simbolo del destino mortale dello stesso imperatore - ed è cinto da un
lungo lóros, tempestato di pietre preziose, alludente al lenzuolo funebre e
simboleggiante la morte e la risurrezione di Cristo (Underwood, 1960; Underwood,
Hawkins, 1961). Se l'impostazione della figura nei suoi connotati di monumentale
ieraticità riflette orientamenti cari all'arte macedone, la fattura musiva,
particolarmente sensibile, è la principale responsabile di quelle impercettibili
modulazioni che rendono il volto di Alessandro così mobile nella ferma ossatura
tipologica. In altra direzione si constatano interessanti 'messe a fuoco'. È
caratteristica peculiare dei mosaici bizantini, e costantinopolitani in particolare, la
tendenza a mescolare le tessere d'argento con quelle d'oro, onde intensificare lo
scintillío dello sfondo aureo. Nella Santa Sofia se ne reperisce un uso ricorrente,
ma variato di continuo nelle modalità, onde raggiungere di volta in volta fini
mirati. Nel fondo contestuale al pannello di Alessandro l'altissima percentuale di
tessere d'argento, che rappresentano addirittura un terzo del totale (Underwood,
1960), è certamente dettata dall'essere il luogo assai poco illuminato.
Diversamente la percentuale di tessere d'argento nel fondo del mosaico, forse
appena più tardo, ubicato sopra la c.d. porta dell'Orologio o porta Bella nel
vestibolo sud-ovest della Santa Sofia, raggiunge meno di un decimo del totale,
trovandosi il mosaico in un ambiente meno buio del precedente. È comunque
impiegata una concentrazione di tessere d'argento con effetti di intensa rifrazione
luminosa nel piano del suppedaneo del trono e nella resa delle vesti d'oro del
Bambino; mentre l'inclinazione delle tessere della lunetta (posta a m. 6,50 di
altezza) è meno della metà di quella precedente (Nordhagen, 1984).La cronologia
del mosaico, il cui soggetto - la Theotókos in trono con il Bambino, affiancata da
Costantino e Giustiniano che le offrono rispettivamente il modello della città di C. e
del tempio della Santa Sofia - rinnova il tema dell'offerta di radice antica, oscilla
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tra la fine del sec. 8° e il 12°, ed è forse da collocare nel corso dell'avanzato sec. 10°
(Lazarev, 1967). Il suo stile, espressione di un neoclassicismo maturo, segna
contemporaneamente l'inizio del nuovo processo che si sarebbe compiuto nel sec.
11° (Lazarev, 1967). Nei riguardi delle espressioni più precoci dell'arte macedone, il
mosaico del vestibolo sud si distingue per almeno tre diverse tendenze: una
concezione dello spazio percepito e costruito nella dimensione della profondità,
per cui appare abitato dalle figure; un'accentuazione del trattamento lineare,
particolarmente evidente nella formulazione dei volti dei due imperatori, della
quale è espressione nel registro delle modalità tecnico-formali la regolarità
dell'andamento delle tessere disposte in filari meno distanziati e discontinui
rispetto al mosaico del nartece; infine l'apertura verso una gamma cromatica densa
e severa, frutto di una scaltrita scelta di sfumature.Alcuni degli orientamenti già
intravisti nel mosaico del vestibolo sud, quali la tendenza alla riduzione grafica del
trattamento delle forme e la ricerca intorno al colore, compaiono anche nella più
tarda opera di pittura monumentale della temperie macedone di C., il mosaico
situato sulla parete est della tribuna sud della Santa Sofia, con Cristo assiso in
trono, al quale Costantino IX Monomaco (1042-1055) e l'imperatrice Zoe (m. nel
1050) offrono doni per la Santa Sofia. Gli esiti puntano verso una qualificazione
della cromia in termini di gemmea matericità e durezza, evidente nell'azzurro
scelto per le vesti del Cristo e nell'enfatizzazione delle stoffe e degli ornamenti, e
verso una graficizzazione che raggiunge nel volto di Zoe, specie nella definizione
dei pomelli, la valenza di una cifra. Questo mosaico risulta essere frutto di un
montaggio, dal momento che le teste di tutte e tre le figure sono state rifatte e
quella dell'imperatore sostituita alla preesistente, raffigurante il precedente marito
di Zoe, Michele IV Paflagone (1034-1041). La sostituzione nel pannello di Zoe,
dovuta soprattutto alla damnatio memoriae, è un esempio indicativo non solo del
potere delle immagini, ma anche delle capacità tecniche sviluppate nelle botteghe
bizantine, in grado di staccare superfici musive, integrarle, manipolarle in vario
modo.Il sec. 12° e la nuova temperie figurativa legata alla dinastia comnena si
aprono con un altro pannello musivo (1118), anch'esso un ex voto,
compositivamente e tipologicamente affine al precedente e, come quello, ubicato
nel vestibolo sud. Giovanni II Comneno e l'imperatrice Irene, stretti entro vesti
tempestate di gemme e con le corone - rispettivamente Kameláukion e modíolos -,
offrono doni per la chiesa e affiancano la figura della Vergine. Al pannello fu
aggiunta la figura del figlio di Giovanni, Alessio, sfruttando uno dei lati del pilastro
adiacente, allorquando Giovanni lo associò al trono nel 1122. Nel mosaico la svolta
verso esiti legati ai valori di pura superficie e alla graficizzazione estrema non solo
del disegno ma anche del colore è radicale, eppure il trattamento dei volti, specie
di Irene e in secondo luogo di Alessio, lascia trasparire un'orma vivida di inquieta
vitalità.I resti dei dipinti della chiesa inferiore di Odalar Cami e l'affresco con la
Vergine Blacherniótissa rinvenuto in una cappella in rovina nel quartiere di
Etyemez non illuminano particolarmente la pittura di un secolo che nella capitale,
diversamente da quello che accadde fuori C., rimane a livello di produzione
monumentale povero di testimonianze.Le monumentali icone a mosaico del S.
Giovanni Battista Pródromos e dell'Odighítria, oggi nella chiesa di S. Giorgio al
Patriarcato greco, ma provenienti dalla chiesa della S. Maria Pammakaristos
(Fethiye Cami), insieme all'innegabile qualità, ostentano uno stampo figurativo di
tipo ambiguo, non essendo pacifico se si tratti di opere della temperie macedone,
postmacedone ma con tratti arcaizzanti, oppure già del sec. 12° (Furlan,
1979).Ritenuto talora frutto supremo del percorso artistico di epoca comnena,
sulla base di confronti con i mosaici dell'abside di Cefalù (1148) e con l'icona della
Vergine di Vladimir, della prima metà del sec. 12° (Mosca, Gosudarstvennaja
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Tretjakovskaja Gal.; Lazarev, 1967), il mosaico con la Déesis, sulla parete
occidentale della tribuna sud della Santa Sofia, è da datare probabilmente al terzo
quarto del 13° secolo. In tal modo viene ad assumere il ruolo di apertura nei
riguardi del nuovo corso paleologo, all'indomani dello iato forzoso che conobbe la
pittura a C. durante i decenni dell'occupazione latina della città (Demus, 1949). La
sua scoperta a opera del Byzantine Inst. (Whittemore, 1933-1952, IV) ha restituito
una testimonianza musiva di qualità assolutamente eccezionale, sia sotto il profilo
stilistico sia sotto quello delle modalità tecnico-esecutive. Su un asse di riferimenti
rivolto da una parte al recupero di tipologie antiche - sono sintomatici al riguardo
la figura del Cristo, per cui vale il richiamo all'antica icona del Sinai, e il motivo a
pelte del fondo oro -, dall'altra all'orizzonte figurativo di radice comnena, l'artista
costantinopolitano, lavorando sul registro del disegno e del colore, giunse a
produrre esiti del tutto innovativi. Affinando al massimo quei canali espressivi e
riscattandoli dalla convenzionalità della cifra, dall'essiccamento manierista al quale
erano approdati nella fase tardocomnena, l'artista li reinserisce nel circuito
dell'organicità della forma con la funzione di griglia portante ma interna. Cosicché
tutto ha un respiro classicamente umano e naturale: i volti e i panneggi
grandemente lavorati, la trasparenza delle ombre, la gradualità piena di sapienza
dei piani e dei passaggi cromatici, fino alla declinazione di una tendenza al patetico
spiritualizzato. Il medium musivo si piega docilmente alle esigenze di questo
progetto stilistico e riesce a sostenerlo senza perciò abdicare alle proprie specifiche
prerogative. Si direbbe che nella Déesis della Santa Sofia il mosaico, in quanto
genere tecnico-formale della rappresentazione, raggiunge il traguardo di essere
massimamente pittorico, ma ancora mosaico e non pittura.Diversi altri dipinti
scoperti di recente aggiungono nuovi tasselli alla fisionomia ancora dai lineamenti
solo accennati dell'avanzato 13° secolo. Dovrebbe risalire a questa epoca
(Naumann, Belting, 1966) il ciclo, dallo stile asciutto e impersonale, con
quattordici scene della Vita di s. Eufemia nel martýrion della santa, ubicato vicino
all'ippodromo, che ostenta un'adesione a impaginazioni iconografiche e a modi
precedenti, mentre stilisticamente trova rapporti con le pitture originariamente
sulla facciata sud della chiesa di S. Maria Pammakaristos, databili poco dopo il
1292 (Belting, Mango, Muriki, 1978).Quanto variegata e vivace fosse la situazione
figurativa a C. al volgere del secolo lo suggerisce la serie dei dipinti scoperti nel
corso degli scavi all'interno della Kalenderhane Cami. Partecipa della temperie
paleologa il bel frammento di affresco rinvenuto, staccato e caduto, con la testa di
un apostolo dormiente nell'area dell'esonartece (Striker, Kuban, 1971); si ritiene di
epoca tardoduecentesca e di impronta paleologa anche il mosaico con la figura
frammentaria dell'arcangelo Michele (Striker, Kuban, 1967), seppure non siano né
pochi né marginali i legami con la pittura comnena. La stessa oscillazione tocca
l'affresco di eccellente qualità campito nella nicchia del diaconico e rappresentante
la Theotókos (in base al titulus la Vergine Kyriótissa) con il Bambino e il
donatore.Vanno infine ricordati i sorprendenti affreschi con scene della Vita di s.
Francesco, ubicati in origine nella semicupola della cappella nell'area del diaconico
(Istanbul, Arkeoloji Müz.). Degli undici assai piccoli pannelli originari, dislocati su
tre registri, si sono conservati i frammenti di quattro scene, fra le quali è
identificabile con certezza la Predica agli uccelli. Il tema degli affreschi, che
costituiscono la prima testimonianza nota di pittura murale dedicata alla vita di
Francesco, e i caratteri latini dell'iscrizione monumentale che corre sull'arco
d'ingresso permettono di datare le pitture entro l'arco di tempo compreso fra la
canonizzazione di Francesco (1228) e la conclusione del regno latino di C. (1261).
La coloritura stilistica da 'lingua franca' e da 'arte del Commonwealth
mediterraneo' rende gli affreschi con Storie di s. Francesco della Kalenderhane
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Cami, per i quali all'indomani della loro scoperta fu suggerita la prossimità con la
cerchia del pittore della Bibbia dell'Arsenale (Parigi, Ars., 5211; Striker, Kuban,
1967), un tassello assai prezioso all'interno delle dinamiche artistiche fra aree
orientali e occidentali nel corso del Duecento.Con l'affacciarsi del nuovo secolo le
tendenze paleologhe poco pronunciate nelle testimonianze pittoriche precedenti si
affermarono con vigore. Esse sono attestate in una rosa di opere sparse e talora
isolate, fra le quali vanno citati il frammento musivo della chiesa di S. Maria dei
Mongoli al Fanar, i mosaici delle cupole del nartece esterno della Vefa Kilise Cami;
i dipinti murali frammentari della Odalar Cami, di Isa Kapı Cami, della chiesa della
Theotokos Chalkoprateia, della Santa Irene, del secondo strato degli affreschi a
palinsesto rinvenuti nel quartiere di Etyemez (Lafontaine, 1959-1960). Ma laddove
esse trovano la massima espressione è nei complessi di S. Salvatore in Chora,
(Kariye Cami) e di S. Maria Pammakaristos. All'incirca coevi, risalendo al secondo
e terzo decennio del Trecento, i mosaici della chiesa di S. Maria Pammakaristos e i
mosaici e gli affreschi di quella del monastero di S. Salvatore di Chora condividono
oltre al comune orientamento figurativo anche il tipo di committenza aristocratica
e colta.I mosaici di S. Maria Pammakaristos ornano il parekklésion della chiesa del
monastero costruita dal protostratore Michele Ducas Glabas Tarchaniotes nel 1292.
Il parekklésion fu aggiunto in funzione di cappella funeraria in memoria appunto
dello ktétor o fondatore del monastero dalla vedova Marta dopo la morte di
Michele, avvenuta non prima del 1310. Marta commissionò al poeta di corte
Manuele Philes il compito di comporre gli epigrammi commemorativi per la nuova
costruzione; per ornarla scelse gli artisti nel milieu certamente più aggiornato
onde suggellare un'operazione promozionale e di prestigio assai ardita, come era
quella di destinare un'intera cappella a una sola sepoltura (Belting, Mango, Muriki,
1978).Nel loro complesso i mosaici sono un'opera unitaria, ma venata da molte
sottili variabili. Come è stato a ragione notato, la bottega e l'artista bizantini
possedevano agli inizi del Trecento modelli in una quantità e in una varietà non
accessibili in passato (Belting, Mango, Muriki, 1978) e ovviamente una
propensione a utilizzarli e a manipolarli come non mai. Le varie classi di immagini
(Cristo e i profeti nella cupola, la Déesis nella conca absidale, il Battesimo di Cristo,
la Dormizione della Vergine, quattro arcangeli, figure di santi e monaci) nascono
dall'impatto fra modello esterno e maniera personale, distinguibile quest'ultima
con molta nitidezza all'interno degli orientamenti più generali del cantiere. In
questo scenario trova anche posto il recupero di partiti decorativi antichi, come la
decorazione a girali su fondo bianco, scelta per le volte della protesi, del diaconico
e altrove, che rimanda pianamente a soluzioni del tipo di quelle incontrate nella
volta sopra la rampa sud-ovest della Santa Sofia, dell'inoltrato 6° secolo. Affini
specialmente ai mosaici della chiesa dei Ss. Apostoli di Salonicco, oltre che a quelli
di S. Salvatore di Chora, i mosaici di S. Maria Pammakaristos non sono tuttavia
attribuibili alla medesima cerchia di artisti.Nella mappatura intorno ai processi e
alle articolazioni stilistiche della pittura paleologa fra il 1260 ca. e il 1330,
formulata da Belting (Belting, Mango, Muriki, 1978), mentre i mosaici di S. Maria
Pammakaristos rappresenterebbero una fase denominata 'neoellenismo del I stile',
i mosaici e gli affreschi di S. Salvatore di Chora rappresentano al massimo grado le
tendenze del II stile, caratterizzato da un irrazionale trattamento delle superfici dei
panneggi e dall'inosservanza dei canoni delle figure classiche. I mosaici si stendono
nel nartece interno ed esterno (cicli dell'Infanzia di Cristo e della Vergine) e nel
naós (Dormizione della Vergine, pannelli con il Cristo e la Theotókos Odighítria);
gli affreschi nel parekklésion, dove sono raffigurati diversi soggetti fra i quali
l'Anastasi, vari episodi pertinenti al Giudizio universale, le scene evangeliche della
guarigione della figlia di Giairo e la risurrezione del figlio della vedova di Nain,
Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...
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diverse scene dell'Antico Testamento, soggetti che sono legati insieme dalla
funzione sepolcrale dell'ambiente aggiunto alla preesistente chiesa del Salvatore di
Chora da Teodoro Metochite, uno dei dotti bizantini più raffinati del sec. 14°, fine
conoscitore della letteratura antica, committente del vasto programma decorativo
e raffigurato appunto nel ruolo di ktétor ai piedi di Cristo sull'ingresso dal nartece
interno al naós.L'ottimo stato di conservazione rivelato pienamente dal restauro a
opera del Byzantine Inst. consente di cogliere la qualità e le caratteristiche di un
complesso eccezionale. Appaiono pervase da grande novità e forza la libertà delle
composizioni, dinamiche e piene di fantasia, la concezione delle figure eleganti,
slanciate, ora fasciate da panneggi aderenti, ora entro panneggi ampi e svolazzanti,
ma soprattutto il senso di un'unità spaziale che serra insieme in mille modi diversi
e figurativamente inediti sfondi architettonici complicati, paesaggi e figure, e infine
l'invenzione di un registro cromatico chiaro, festoso, fatto dalla combinazione di
colori molto accesi con l'inserto di sfumature delicate, con effetti di forte
cangiantismo nelle pieghe.Pochi complessi della pittura monumentale bizantina
possono vantare un dispiegamento di motivi, che va al di là della pura e semplice
economia dettata dalle ragioni iconografiche, e un piglio narrativo veloce, ricco di
spunti, assai mobile, come i mosaici di S. Salvatore di Chora. L'accumulo che
riguarda soprattutto gli sfondi dei paesaggi architettonici e il continuo movimento
che incalza le figure spesso raffigurate con tagli inediti, da tergo, con i profili
perduti - strutture compositive e ritmi di raffigurazione - squadernano un mondo
rappresentato assai ricco di uomini e cose, colorato, 'cinematografico', ma
antinaturalistico.Dietro le classi di immagini di S. Salvatore di Chora e dei loro
modi srotolano infatti i binari di un iter figurativo legato al filo ininterrotto delle
tradizioni ellenistiche a Costantinopoli. In questo senso le analogie fra i mosaici e
un'opera come il rotulo di Giosuè (Roma, BAV, Pal. gr. 431), della prima metà del
sec. 10°, sono assai illuminanti.Il processo della pittura a C. può dirsi che abbia il
suo ideale epilogo proprio nei mosaici di S. Salvatore di Chora. Successivamente
continuarono a farsi pitture nella capitale bizantina: nello stesso S. Salvatore, dove
sono stati rinvenuti affreschi e mosaici negli arcosoli di una serie di tombe fino
all'affresco nell'arcosolio della parete ovest del parekklésion, che rappresenta la
figura di una donna davanti alla Vergine in trono con il Bambino, eseguito intorno
alla metà del sec. 15° (Underwood, 1958), ma da un artista occidentale,
probabilmente italiano e dell'area padana.
Bibl.:
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flessione unitaria alla disgiunzione dei processi artistici, in Politica, cultura e
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F. Conca, I. Gualandri, G. Lozza, Napoli 1993, pp. 139-151; id., Tendenze figurative
a Ravenna nell'età di Teoderico, in Teoderico il Grande e i Goti d'Italia, "Atti del
13° Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo, Milano 1992" (in corso di
stampa).M. Andaloro
Miniatura
Non vi è dubbio che i più splendidi libri miniati del mondo bizantino siano stati
prodotti a C.; non è facile invece stabilire quali fossero i caratteri della produzione
costantinopolitana ordinaria e come la si possa distinguere da quella provinciale.
Uno dei problemi più complessi che la critica moderna deve affrontare consiste nel
far assumere all'aggettivo 'costantinopolitano' una connotazione topografica e non
qualitativa. Altrettanto arduo è definire il ruolo che ebbe la corte o l'imperatore
Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...
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nella produzione di opere di miniatura; i libri con ritratti imperiali sono, infatti,
per lo più doni per l'imperatore e non opere di sua committenza (Spatharakis,
1976) e il concetto di scriptorium imperiale, così ben definito nelle ipotesi degli
studiosi, potrebbe essere, nella maggior parte delle fasi della storia di C., appunto
nulla più che un concetto.Alla base di tali questioni si pone il problema
fondamentale di come fosse organizzata la produzione dei libri miniati nel mondo
bizantino, questione che ha favorito lo sviluppo di teorie pertinenti alla codicologia
piuttosto che alla pittura e ha inoltre accentuato il ruolo di C., in effetti l'unico
centro bizantino cui sia attribuibile con certezza un numero consistente di libri
miniati. Le indagini sui caratteri della produzione e della committenza sono state
agevolate dalle splendide riproduzioni degli elementi ornamentali e delle
miniature dei manoscritti conservati ad Atene (Marava-Chatzinikolau, Tuphexi-
Paschu, 1978-1985), a Oxford (Hutter, 1977), sul monte Athos (The Treasures of
Mount Athos, 1975-1992), a Patmo (Patmos, 1988), in Russia (Lichačeva, 1977), nel
monastero di S. Caterina sul monte Sinai (Weitzmann, Galavaris, 1990) e a Venezia
(Furlan, 1978-1988). È noto che anche artisti armeni e georgiani realizzarono a C.
codici di lusso, ma la presente trattazione riguarda la sola produzione greca.La
storia della miniatura costantinopolitana comincia a definirsi nel sec. 9°, giacché in
precedenza il solo Dioscoride di Anicia Giuliana, del 512 (Vienna, Öst. Nat. Bibl.,
Med. gr. 1; Gerstinger, 1965-1970), è attribuibile con certezza alla produzione
locale. Nella miniatura costantinopolitana apparsa dopo la crisi iconoclasta
confluirono tre tradizioni: quella della stessa capitale, legata a valori
classicheggianti, testimoniata per es. dal Tolomeo vaticano, del terzo decennio del
sec. 9° (Roma, BAV, Vat. gr. 1291), quella palestinese (Weitzmann, 1979) e quella
italiana, evidente nelle iniziali dipinte del codice con le Omelie di Gregorio
Nazianzieno (Parigi, BN, gr. 510), che segnano l'avvio di una tradizione bizantina
delle iniziali ornate distinta dalle illustrazioni a carattere figurativo (Brubaker,
1983).Gli elementi ornamentali dei cinque codici miniati di epoca post-iconoclasta
risultano trascurabili se messi a confronto con le miniature a carattere figurativo,
che sono invece numerose e complesse. Un codice del sec. 9° (Roma, BAV, Vat. gr.
699), che copia una Topographia christiana di Cosma Indicopleuste (sec. 6°), sia
nel formato sia, con alcune aggiunte, nel ciclo illustrativo attesta quell'elemento di
continuità che è tratto ricorrente di tutta la pittura costantinopolitana. Al contrario
il citato codice di Parigi, dono del patriarca Fozio all'imperatore Basilio I, illustra le
quarantacinque omelie di Gregorio Nazianzieno con miniature a piena pagina di
inedita e irripetuta complessità esegetica. Infine tre piccoli salteri a figurazioni
marginali, conservati rispettivamente a Mosca (Salterio Chludov; Gosudarstvennyj
Istoritscheskij Muz., Add.gr. 129), sul monte Athos (Pantocratore, 61) e a Parigi
(BN, gr. 21), rielaborarono i precedenti modelli dell'illustrazione libraria, creando
un ciclo che per secoli venne riprodotto nel mondo bizantino: essi traducono la
tipologia delle catene marginali in vere e proprie miniature marginali, che
interpretano il testo con intensità 'verbosa' e polemica, trasformando i salmi in
un'affermazione di ortodossia cristiana, spesso con valenze antisemite ed
enfaticamente iconodule (Corrigan, 1992).Nella seconda metà del sec. 10° si ha un
aumento significativo dei libri miniati. Tre manoscritti legati all'ambiente della
corte - il Salterio di Parigi (BN, gr. 139; Buchthal, 1983, pp. 188-191), la Bibbia di
Leone sakellários (Roma, BAV, Reg. gr. 1; Dufrenne, Canart, 1988), il rotulo di
Giosuè (Roma, BAV, Pal. gr. 431; Josua-Rolle, 1984) - hanno in comune
quell'ambizioso stile classicheggiante che ha indotto a contrassegnare con la
globale definizione di rinascenza macedone l'arte del 10° secolo. Anche numerosi
evangeliari del tardo sec. 10° presentano ritratti degli evangelisti in uno stile
pittorico spesso di notevole livello qualitativo (Weitzmann, 1935). I tre manoscritti
Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...
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citati costituiscono, tuttavia, casi eccezionali piuttosto che esempi rappresentativi
di quest'epoca, i cui caratteri possono essere invece meglio individuati attraverso
tre diversi aspetti. Il primo consiste nel fissarsi di schemi illustrativi in relazione a
determinati testi: l'evangeliario, in cui i ritratti dei quattro evangelisti vennero
ripetuti sistematicamente; il vangelo per uso liturgico o lezionario (Anderson,
1992), che, con alcuni esemplari del tardo sec. 10° (per es. S. Caterina sul monte
Sinai, Bibl., gr. 204), si avvia a divenire uno dei tipi librari più splendidamente
ornati del mondo bizantino; infine, il salterio con miniature entro cornici, attestato
nel sec. 10° dal suo più straordinario esempio, il Salterio di Parigi.La seconda
caratteristica dei manoscritti del sec. 10° è data dallo sviluppo autonomo del
repertorio ornamentale (Weitzmann, 1935; Madigan, 1987; Dufrenne, Canart,
1988), i cui elementi si distinguono per il colore e per i motivi decorativi da quelli
delle cornici delle miniature a carattere figurativo che venivano generalmente
realizzate su fogli aggiunti; ciò induce a ritenere che i pittori delle scene figurate
fossero diversi da coloro che realizzavano le decorazioni, i quali lavoravano invece
sulla pagina scritta, in modo analogo a quello degli scribi. Un indizio di entrambi i
processi sopra descritti si ritrova nel Menologio eseguito per Basilio II (Roma,
BAV, Vat. gr. 1613), un tipo di opera liturgica che in seguito - nella rivisitazione
testuale di Simone Metafraste redatta su suggerimento dello stesso Basilio -
divenne, insieme ai lezionari, uno dei tipi librari più riccamente illustrati del
mondo bizantino. Questo manoscritto, privo di decorazione ornamentale, presenta
oltre quattrocento miniature realizzate da otto pittori, il più importante dei quali è
stato identificato da Ševčenko (1972) come un pittore di icone che non faceva parte
di uno scriptorium organizzato - e men che mai di uno scriptorium imperiale -
bensì era stato appositamente ingaggiato per quel lavoro.Un terzo elemento che
caratterizza la miniatura del sec. 10° è costituito dal nascere di un rapporto di
scambio tra C. e quelle che possono essere definite le sue province. Questo fatto è
evidenziato dal folto gruppo di manoscritti in minuscola bouletée: una produzione
dapprima considerata propria di C., ma attualmente attribuita anche ad altri centri
(Agati, 1992). A questo tipo di minuscola si affiancò la decorazione c.d. a Laubsäge
(con elementi vegetali a intarsio), nota nella capitale, che divenne per secoli una
costante della decorazione dei manoscritti provinciali. Tale interscambio è
evidente nel campo dell'ornamentazione, ma non in quello delle miniature a
carattere figurativo.Nella seconda metà e in particolare nel terzo quarto del sec. 11°
si ebbe la fase più importante della miniatura costantinopolitana, caratterizzata da
un'abbondante produzione di libri riccamente miniati, da ampi cicli illustrativi e da
una squisita raffinatezza di stile e di impaginazione (Weitzmann, 1971). Dominato
da splendidi lezionari, come quelli conservati sul monte Athos (Dionisio, 587) e a
New York (Pierp. Morgan Lib., M. 639), nella cui redazione trovano un perfetto
equilibrio il repertorio ornamentale, le scene miniate entro cornice e i disegni
marginali, questo periodo vide anche la produzione a C. della maggior parte dei
menologi miniati conservati (Ševčenko, 1990) e delle edizioni liturgiche di
Gregorio Nazianzieno (Galavaris, 1969), nonché la creazione di vasti cicli miniati,
la cui aderenza letterale al testo è in forte contrasto con il carattere spiccatamente
esegetico di quelli post-iconoclasti. Per quanto riguarda questi ultimi vanno
menzionati gli ottateuchi (Lowden, 1992), i libri dei Re (Lassus, 1973), la Scala del
Paradiso di Giovanni Climaco (Martin, 1954), il 'romanzo' di Barlaam e Iosafat
(Der Nersessian, 1937) e i vangeli, in una particolare versione con fregi figurati
(Omont, 1908; Velmans, 1971). Il salterio fu decorato in diversi modi. Sono
conservati numerosi esemplari di piccole dimensioni con miniature entro cornice,
chiaramente ideati per un uso privato (Cutler, 1984); un salterio vaticano (Roma,
BAV, Vat. gr. 342) fu realizzato materialmente dal suo colto possessore, così come
Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...
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altri a figurazioni marginali. Tra questi ultimi, il più noto (Londra, BL, Add. Ms
19352; Der Nersessian, 1970) fu eseguito nel 1066, per l'abate del famoso
monastero costantinopolitano di S. Giovanni di Studios, da un Teodoro di Cesarea,
che, a quanto egli stesso afferma, eseguì sia la parte scritta sia la scrittura in oro,
vale a dire le miniature. Queste sono dipinte nel c.d. style mignon, minuto e
prezioso, scintillante d'oro, che compare in numerosi altri raffinati manoscritti
dello stesso periodo e che è stato individuato da parte della critica come elemento
caratteristico di un ipotetico scriptorium di Studios, adibito alla produzione di libri
miniati (Dufrenne, 1967). Sulla base di due codici di piccolo formato, conservati a
San Pietroburgo (Saltykov-Ščedrin, gr. 214) e a Mosca (Gosudarstvennyj univ. im.
M. V. Lomonosova, 2280), eseguiti per l'imperatore Michele VII, si è ipotizzata
invece l'esistenza di uno scriptorium imperiale (Lichačeva, 1976). Altre opere
danno invece l'impressione di un più articolato sistema di produzione proprio di
C., nel quale gli artisti venivano ingaggiati a seconda delle necessità per singoli
progetti e potevano scambiarsi le idee nel corso del lavoro (Anderson, 1978).Dopo
un periodo contrassegnato da varie tendenze stilistiche, il secondo quarto del sec.
12° vide l'emergere di una maniera decisa e fortemente decorativa, nella quale
l'ornamentazione che denota un vivace dinamismo acquista spazio, giungendo a
creare frontespizi simili ad arazzi e fantasiose iniziali zoomorfe, che si
armonizzano per colore e per vivacità con le miniature a carattere figurativo.
Praticata da diversi pittori (Anderson, 1979; Buchthal, 1983, pp. 140-149), tale
maniera è associata principalmente a un grande artista noto come Maestro di
Kokkinobaphos, definizione dovuta a due copie superbamente illustrate dei
sermoni sulla vita della Vergine del monaco Giacomo Kokkinobaphos, altrimenti
ignoto (Hutter, Canart, 1991). La ricca gamma cromatica, le caratteristiche
iconografiche e l'esuberante ornamentazione di tale maestro compaiono in altri
quattordici codici, soprattutto testi del Nuovo Testamento, almeno tre dei quali
furono donati alla famiglia regnante dei Comneni o da essa commissionati
(Anderson, 1982). Questo maestro collaborò con molti scribi diversi (Nelson, 1987)
e - sebbene fosse specialista di un'arte libraria per la quale figure e decorazione
erano parti integranti della stessa mansione - non sembra aver fatto parte di uno
scriptorium che associasse scribi e pittori ai fini di una produzione seriale.Le opere
miniate individuabili come costantinopolitane diminuirono decisamente nella
seconda metà del 12° secolo. In un codice conservato a Istanbul (Lib. of the
Ecumenical Patriarchate, 3; Nelson, 1978) il frontespizio multiplo con scene tratte
dai Vangeli è testimonianza dell'innovazione più importante di quest'epoca,
costituita da una modificazione delle scelte dei cicli evangelici raffigurati, atta a
riflettere il carattere intensamente devozionale delle immagini in età comnena, per
cui i Vangeli divenivano strumenti destinati a suscitare partecipazione emotiva.
Evidente nell'aumento sia delle pagine di frontespizio sia dei cicli di illustrazioni,
tale sviluppo ebbe il suo culmine nell'ultimo terzo del secolo con il cospicuo
gruppo di libri realizzati nel c.d. decorative style, la cui relazione con C. è
comunque estremamente problematica (Weyl Carr, 1987).La miniatura
costantinopolitana all'epoca del regno latino (1204-1261) costituisce un enigma, la
cui soluzione si basa su elementi di matrice latina e bizantina. Molti dei codici
miniati delle epoche precedenti la fase della dominazione latina dovettero
rimanere a C., come è testimoniato da una vera e propria abbondanza di cicli dal
carattere retrospettivo a partire dall'ultimo terzo del sec. 13°: i salteri, le cui pagine
di frontespizio sono frutto di accorti assemblaggi dalle miniature del Salterio di
Parigi (Belting, 1972), i ricchi cicli dei vangeli del monte Athos (Iviron, 5) e di
Parigi (BN, gr. 54), gli ottateuchi (Lowden, 1992), i salteri a figurazioni marginali, i
libri dei profeti, la catena del libro di Giobbe e diversi evangeliari. Come Buchthal
Costantinopoli in “Enciclopedia dell' Arte Medievale” – Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/costantinopoli_(Enciclopedia-dell'...
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(1979) ha dimostrato a proposito delle serie dei ritratti degli evangelisti nel
manoscritto di Atene (Nat. Lib., 118) e in quello del monte Athos (Iviron, 5), queste
opere non sono esenti dall'influsso occidentale. Un vangelo di Parigi (BN, gr. 54),
imparentato per iconografia con quello del monte Athos (Iviron, 5), e un salterio a
figurazioni marginali, il c.d. Salterio Hamilton (Berlino, Staatl. Mus., Pr.
Kulturbesitz, Kupferstichkab., 78.A.9), hanno testo bilingue, latino e greco.
L'effetto d'insieme è comunque quello di una vigorosa riaffermazione da parte di
Bisanzio della propria tradizione.Dei vasti cicli pittorici che caratterizzano queste
opere dell'epoca immediatamente successiva alla dominazione latina non vi è più
traccia nei secc. 14° e 15°, secondo un processo già evidente nel folto gruppo di
ventidue codici databili a cavallo tra il sec. 13° e il 14°, noti come gruppo
Paleologina (Buchthal, Belting, 1978; Nelson, Lowden, 1991). Questo gruppo - che
comprende opere di incomparabile eleganza, scritte in oro su pergamena
bianchissima, come un Vangelo (Roma, BAV, Vat. gr. 1158) e un codice con le
Epistole e gli Atti degli Apostoli (Roma, BAV, Vat. gr. 1208), le cui tavole dei canoni
recano il monogramma di un personaggio femminile della famiglia paleologa che
ha dato il nome al gruppo - non si caratterizza per le miniature, ma per
l'ornamentazione estremamente raffinata, con motivi con intricati tralci vitinei
propri del sec. 12° e profili di palmette tracciati in oro e blu intorno ad aree di
pergamena bianca che richiamano la Laubsäge del 10° secolo. I ritratti degli autori,
legati alla tradizione iconografica del sec. 10°, costituiscono le poche miniature
presenti nei codici del gruppo e appaiono dipinti da mani diverse su fogli inseriti,
assumendo così il ruolo aggiuntivo di appendice al libro. Il gruppo Paleologina,
l'ultimo insieme coerente di manoscritti costantinopolitani di lusso destinati a
essere miniati, segna il trionfo dell'arte miniatoria intesa come ornamento
piuttosto che come pittura.La miniatura costantinopolitana dei secc. 14° e 15°
costituisce un capitolo nuovo (Buchthal 1983, pp.157-172) e può essere
esemplificata dai molti manoscritti prodotti nell'arco di un secolo nel monastero di
Hodegon da una serie di scribi, che culmina con il grande uomo di lettere ed
egumeno Joasaf, noto per avere eseguito trentuno libri firmati e altri non firmati
tra il 1360 e il 1406 (Politis, 1977). Degli undici libri con miniature a carattere
figurativo realizzati da Joasaf, soltanto quattro furono sicuramente concepiti per
contenere immagini (Weyl Carr, 1981); negli altri sette le figure costituiscono
un'aggiunta e persino la parte ornamentale fu inserita spesso per desiderio dei
successivi proprietari dei manoscritti. Nello scriptorium del monastero di
Hodegon, che era il principale centro di produzione di codici di lusso, la miniatura
costituiva quindi un elemento aggiuntivo, inserita qualora ve ne fosse particolare
richiesta. Laddove compaiono, le miniature sono per lo più limitate a immagini
isolate a piena pagina, in sostanza icone su pergamena.Sebbene esistano libri di
epoca paleologa con un maggior numero di miniature, come per es. l'inno Acatisto
di Joasaf (Lichačeva, 1972), in essi non si ritrovano i cicli tradizionali che si erano
sviluppati per i libri di lusso a carattere devozionale o per uso liturgico. Si tratta
piuttosto di creazioni uniche, ideate appositamente; poche sono le miniature
direttamente correlate al testo e per lo più si tratta di ritratti degli autori o dei
donatori.La separazione tra testo e immagini in età paleologa viene generalmente
spiegata in termini economici, come crisi degli scriptoria integrati a causa del
ridotto mercato dei libri di lusso nel piccolo impero tardobizantino (Belting, 1970).
Va tuttavia sottolineato che lo scriptorium rigidamente integrato non era mai stato
caratteristico della produzione libraria costantinopolitana; sarebbe pertanto
necessario studiare con maggiore attenzione la concezione bizantina del libro
miniato, che permise ai grandi uomini di lettere della tarda epoca bizantina di
superare tale separazione.
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Weyl Carr
Arti suntuarie
I primi espliciti indizi sulle industrie suntuarie a C. sono individuabili già nella
legislazione dei secc. 4°-5°, volta a monopolizzare sotto l'egida dello Stato la
manifattura della seta, che si impose rapidamente soprattutto a partire dal sec. 6°
con l'introduzione della coltura del baco sul territorio bizantino. Il sec. 6° siglò
peraltro una fase di grande sviluppo per le arti suntuarie della capitale, in sintonia
con il periodo di generale fioritura artistica e culturale coincidente con il regno di
Giustiniano. Dalla seconda metà del sec. 7° al 9° l'esiguità delle opere superstiti
sembrerebbe invece segnalare una sensibile flessione della produzione artistica,
sebbene le testimonianze delle fonti contemporanee non diano questa impressione.
Fu comunque il sec. 9° a inaugurare, sullo sfondo di quella straordinaria rinascita
della cultura e delle arti di cui si fece interprete la dinastia macedone, l'età d'oro
delle arti suntuarie, che fino a tutto il sec. 12° divennero le incontrastate
protagoniste delle pompe imperiali e delle liturgie ecclesiali. Emblematica a
riguardo è la testimonianza del De caerimoniis di Costantino VII Porfirogenito,
dove viene registrato anche il ruolo attribuito agli oggetti, all'abbigliamento e agli
arredi suntuari nell'ambito della complessa etichetta palatina. Le vesti, a seconda
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del colore e della qualità, identificavano tra l'altro le diverse gerarchie, scandendo
altresì i tempi delle processioni e delle udienze imperiali, che prevedevano
reiterati cambi d'abito, di corona e di altri accessori. Ne emerge parallelamente il
messaggio politico affidato agli oggetti suntuari, esibiti nei grandi banchetti o
elargiti in dono agli ambasciatori, ai sovrani stranieri e ai papi di Roma, come segni
tangibili della ricchezza, della gloria e della potenza dell'impero bizantino. Per
quanto riguarda invece il ruolo delle arti suntuarie nell'economia urbana il Libro
degli Eparchi, del sec. 10° - raccolta di norme governative che regolamentavano
rigidamente la produzione e il commercio degli artigiani afferenti a ventidue
specifiche corporazioni professionali, dette systémata o somatéia -, tramanda le
informazioni più interessanti, specie sull'articolata organizzazione dell'industria
tessile.Nonostante i ricorrenti contrasti politici che turbarono nei secc. 11° e 12°
l'impero dei Ducas, dei Comneni e degli Angeli, non sembrerebbe delinearsi alcuna
recessione nelle produzioni suntuarie: il lusso ostentato dalla corte
costantinopolitana appariva anzi ancora più opulento, finché tutto si dissolse nel
saccheggio perpetrato dai crociati latini (1204), dal quale C. non si risollevò più. Il
suo declino offuscava ormai i passati splendori, il cui ricordo era tuttavia
perpetuato da quegli oggetti che in forma e situazioni diverse avevano preso da
tempo la strada dell'esilio (Riant, 1876-1878). Non in Oriente bensì in Occidente,
soprattutto nei tesori delle chiese, dove le stoffe preziose portate da C. servirono ad
avvolgere le reliquie dei santi o furono impiegate come arredi liturgici, vanno
infatti ricercati i frammenti dei tessuti creati dai prestigiosi laboratori
costantinopolitani. Molti pezzi, specie quelli conservati a Roma, provengono da
doni imperiali, altri furono acquistati da pellegrini e ambasciatori, mentre un
numero cospicuo faceva parte del bottino crociato.Molteplici difficoltà complicano
tuttavia lo studio delle sete bizantine, e non solo per la frammentarietà dei
materiali superstiti: assai problematiche sono infatti le datazioni e incerta è
l'identificazione dei luoghi di manifattura. Non sempre è facile distinguere le stoffe
bizantine da quelle sasanidi, alessandrine o siriache, e quindi islamiche,
accomunate da medesime connotazioni tecniche e da analoghi repertori decorativi,
sebbene la produzione costantinopolitana presenti solitamente composizioni più
equilibrate, eleganti abbinamenti cromatici e soprattutto raffinate sfumature delle
tinture porpora, riservate esclusivamente ai tessuti imperiali (Falke, 1913;
Beckwith, 1974).I lacerti superstiti, anche se danno solo in minima parte un'idea
della straordinaria varietà del repertorio ornamentale dei tessuti prodotti nei
laboratori metropolitani, ne offrono comunque un'interessante campionatura sia
per i soggetti cristiani, mitologici e imperiali, sia per i motivi zoomorfi, geometrici
e vegetali racchiusi in grandi medaglioni, ovvero ripetuti in serie simmetriche,
come nel tessuto porpora (Liegi, Mus. d'Art Religieux et d'Art Mosan) con ornati
vegetali stilizzati di colore giallo includenti il monogramma dell'imperatore Eraclio
(610-641; Liegi, Mus. d'Art Religieux et d'Art Mosan). Reiterati sono i richiami ai
modelli sasanidi, soprattutto nelle scene di caccia al leone del re Bahrām Gūr
(Lione, Mus. Historique des Tissus), utilizzate a C. per enfatizzare il trionfo
imperiale, e nelle decorazioni zoomorfe, con animali reali e fantastici come il
senmurv, il cavallo alato, il grifone, l'elefante, il leone e anche l'aquila, che sono tra
l'altro documentate senza soluzione di continuità dal sec. 6° al 12° da una
splendida serie di esempi: il bianco tessuto con grifoni porpora intessuti d'oro
(Sens, Trésor de la Cathédrale); quello con grandi aquile su fondo giallo (Auxerre,
Trésor de la Cathédrale); il tessuto porpora con leoni passanti e i nomi di Basilio II
e Costantino VIII (Colonia, Erzbischöfliche Diözesan- und Dombibl.); la seta
porpora con figure di elefanti, recuperata nel sarcofago di Carlo Magno ad
Aquisgrana (Domschatzkammer), con un'iscrizione che specifica eccezionalmente
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il luogo di fabbricazione, lo Zeuxippos, una manifattura imperiale situata in
prossimità del palazzo imperiale di C. e della c.d. casa delle Luci, denominazione
derivata dall'illuminazione notturna dell'edificio, ove si svolgevano le
compravendite degli articoli di lusso (Giorgio Cedreno, Historiarum compendium;
CSHB, IV, 1838, p. 648).Sovente i tessuti erano impreziositi da ricami d'oro e da
pietre preziose: celebri sono le cortine del ciborio della Santa Sofia giustinianea,
ricamate con le figure di Cristo, della Vergine e degli imperatori (Paolo Silenziario,
Descriptio ecclesiae Sanctae Sophiae, vv. 758-805). Fu del resto proprio il ricamo a
divenire protagonista dell'abbigliamento in età paleologa, siglando
emblematicamente anche l'ultimo atto della parabola bizantina; infatti le aquile
ricamate sulle calzature di seta purpurea permisero di identificare il corpo di
Costantino XI, morto nella difesa di C. il 29 maggio 1453 (Giorgio Franze, Annales,
III, 9).Fu tuttavia nell'oreficeria che i laboratori suntuari di C., padroneggiando con
grande maestria le tecniche ereditate dall'Antichità, riuscirono a esprimere al
meglio gli ideali estetici bizantini, il piacere del lusso e l'ostentazione della
ricchezza, soprattutto nei secc. 10°-12°, allorquando predominò la tecnica dello
smalto cloisonné, di cui il Tesoro di S. Marco a Venezia ha conservato alcuni tra gli
esempi più superbi (Il Tesoro, 1986). Di alta qualità appare comunque sin dal sec.
6° la lavorazione dei metalli preziosi, testimoniata da piatti, coppe, vasi, calici e
altri oggetti di carattere liturgico o di uso profano per lo più in argento, anche
dorato, con decori sbalzati, incisi o niellati, da cui si ricavano peraltro utili
informazioni sul lusso quotidiano e sulla cultura della società dell'epoca, le scelte
della quale riflettono da un lato lo sviluppo dell'iconografia cristiana e dall'altro la
forte impronta della cultura classica, evocata dai temi pagani su un gran numero di
suppellettili. Di tradizione classica è anche lo stile del modellato, che mostra una
piena comprensione della forma e del movimento delle figure sia nelle opere di età
di Giustiniano, come per es. un piatto con scena pastorale siglato appunto dal bollo
di questo imperatore (San Pietroburgo, Ermitage), sia in quelle leggermente più
tarde, come un secchiello con divinità pagane (Vienna, Kunsthistorisches Mus.) e
un piatto con Atalanta e Meleagro (San Pietroburgo, Ermitage), entrambi datati dal
bollo di Eraclio (Age of Spirituality, 1979). Nonostante la presenza dei bolli di
controllo su questi e numerosi altri oggetti (ca. 200), è assai problematico
ricondurne la lavorazione a C., non potendosi in effetti stabilire il momento della
stampigliatura (Dodd, 1961; Feissel, 1986).Dipendono ugualmente da modelli
classici i gioielli coevi: collane, braccialetti (Lepage, 1971), cinture matrimoniali
(Vikan, 1990), ornamenti di cinture, medaglioni, orecchini, soprattutto di forma
semilunata con pendenti, caratterizzati da delicati motivi vegetali e animali
ritagliati a traforo su una sottile lamina aurea (opus interassile), con raffinati
contrappunti cromatici di perle, pietre preziose o semipreziose e di smalti, nonché
di ornati a niello, specie gli anelli, su cui venivano iscritti monogrammi, indicazioni
gerarchiche e invocazioni cristiane. Frequenti sono del resto le raffigurazioni
cristiane sui gioielli bizantini, molti dei quali erano anche specificamente destinati
a contenere reliquie (enkólpia) e venivano indossati a guisa di amuleti (Vikan,
1984). In epoca mediobizantina i gioielli si appesantirono: gli orecchini, lavorati a
filigrana, assunsero forme più tridimensionali, le collane moltiplicarono i pendenti
e i braccialetti divennero fasce assai pesanti con figurazioni a rilievo. Ampiamente
documentata è anche una gioielleria 'minore', che imitava nel bronzo dorato i più
costosi modelli d'oro e d'argento (Hackens, Winkes, 1983).La disomogeneità dei
materiali e soprattutto l'ampia distribuzione geografica dei ritrovamenti rendono
assai problematica la localizzazione dei centri di produzione e quindi la precisa
individuazione dei gioielli di manifattura costantinopolitana. Non sussistono
invece dubbi sulla provenienza dalla capitale imperiale della croce-reliquiario del
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Tesoro di S. Pietro a Roma, con ogni probabilità donata da Giustino II (565-578) a
papa Giovanni III, decorata con pietre preziose e ornamentazioni a sbalzo, in cui,
nonostante interventi posteriori, è forse possibile cogliere un suggestivo riflesso
della ricchezza degli arredi liturgici della Santa Sofia giustinianea decantati da
Paolo Silenziario; in questo oggetto si preannunzia peraltro quel gusto per una
ridondante decorazione policroma che nelle oreficerie mediobizantine venne
superbamente amplificata dagli smalti.Tranne alcuni esempi riferibili forse a epoca
iconoclasta - i problematici smalti della brocca di Saint-Maurice d'Agaune (Trésor
de l'Abbaye de Saint-Maurice), un medaglione di Parigi (Louvre) e i braccialetti
(perikárpia) di Salonicco (Archaeological Mus.), tutti caratterizzati da temi
decorativi profani di ispirazione sasanide che ebbero appunto larga diffusione in
quel periodo -, la maggior parte degli smalti oggi nota si colloca in un periodo
compreso tra i secc. 11° e 12°; in quest'epoca abbondano tra l'altro testimonianze
letterarie circa le opere di oreficeria che accompagnavano la vita pubblica e privata
dei sovrani, dai preziosi oggetti esibiti nei ricevimenti imperiali agli arredi liturgici,
come la recinzione e il ciborio in oro e argento tempestati di perle e pietre preziose
della Nea Ekklesia fondata da Basilio I (867-886) e il témplon dell'oratorio di
Cristo Sotér, costruito dallo stesso imperatore, che presentava anche medaglioni
figurati a smalto (Teofane Continuato, Chronographia, V).Gli esempi di oreficeria
profana sono rari, mentre predominano gli oggetti di uso liturgico, quasi tutti
creati nelle botteghe orafe della capitale, che abbinano al pregio artistico un grande
interesse documentario che si incentra sia sui personaggi di rango imperiale o
comunque aristocratico, al cui nome sono legati il possesso o la committenza degli
oggetti stessi, sia sull'intrinseco significato storico dell'oggetto; è il caso del
coperchio di un reliquiario proveniente dalla chiesa della Vergine del Faro,
acquistato a C. da s. Luigi nel 1241 (Parigi, Louvre), o dell'encolpio del Santo
Sangue (Siena, Spedale di S. Maria della Scala), che faceva parte della collezione
imperiale e che fu venduto ai veneziani nel 1356-1357 dall'imperatrice Elena
Cantacuzena, moglie di Giovanni V Paleologo (Hetherington, 1988). Di
straordinario interesse documentario è anche il piccolo reliquiario smaltato di
Maastricht (Schatkamer van de Basiliek van Onze Lieve Vrouwe), il cui prototipo
iconografico ebbe forse come modello un'icona a smalto conservata nella chiesa di
S. Demetrio a C. (Wessel, 1967, nr. 39).Questa serie di oggetti fornisce inoltre
ampio materiale di studio a proposito delle tecniche esperite dagli orafi
costantinopolitani. Per quanto riguarda gli smalti cloisonnés, è possibile
ripercorrerne l'evoluzione attraverso alcuni esemplari che a loro volta
costituiscono i referenti cronologici per numerosi altri smalti privi di oggettivi
elementi di datazione: la corona votiva di Leone VI (886-912; Venezia, Tesoro di S.
Marco), le eleganti montature dei due calici di Romano (probabilmente
l'imperatore Romano II, 959-963; Venezia, Tesoro di S. Marco), la stauroteca di
Limburg an der Lahn (Staurothek Domschatz und Diözesanmus.), la cui
committenza è legata al nome di Basilio Proedro (940-986), figlio naturale di
Romano I Lecapeno, la corona di Costantino IX Monomaco (1042-1055) e quella
d'Ungheria (1074 ca.), entrambe a Budapest (Magyar Nemzeti Múz.), e infine le
placchette in opera nel grandioso palinsesto della Pala d'oro (secc. 11°-13°;
Venezia, S. Marco). Si tratta di un'evoluzione senza scadimenti di qualità,
caratterizzata dall'arricchimento delle gamme cromatiche e degli effetti traslucidi,
dall'abbandono delle stesure smaltate per gli sfondi delle figure (medaglione con
l'Ultima Cena in una patena d'onice: Bruxelles, Coll. Stoclet; legatura con
Crocifissione e Vergine orante: Venezia, Bibl. Naz. Marciana, lat. Cl.1.101),
privilegiando piuttosto l'isolamento delle immagini a smalto sul terso fondo della
lamina d'oro (calici di Romano, calice dei Patriarchi: Venezia, Tesoro di S. Marco),
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e soprattutto dalle più o meno fitte trame di cloisons che disegnano le figure, sino
al ridondante decorativismo di maniera delle opere del sec. 12° (icona
dell'arcangelo Michele stante; Venezia, Tesoro di S. Marco), che s'impone per
l'ineguagliabile maestria tecnica.Altrettanto pregevoli sono le altre tecniche orafe:
il niello, frequente nella decorazione di piccoli oggetti, in particolare anelli ed
encolpi; la filigrana, peculiare dei rivestimenti d'icona di epoca paleologa, ma nella
più economica versione in argento (Grabar, 1975); lo sbalzo (Bank, 1970), presente
soprattutto nelle incorniciature delle icone e nei rivestimenti delle stauroteche
(Frolow, 1965). Tra queste ultime l'esempio più celebre è la citata stauroteca di
Limburg an der Lahn, portata in Europa da C. nel 1207 da Heinrich von Ulmen,
oggetto che esibisce accanto alle altre tecniche orafe figurazioni a smalto di
elevatissima qualità, la cui peculiare sigla stilistica, individuabile nelle fluide
stesure bicrome delle vesti a due tonalità di azzurro, ricorre anche in altre opere,
come i citati calici di Romano, probabilmente realizzati nel medesimo
laboratorio.Per la maggior parte i calici del Tesoro di S. Marco di Venezia, ben più
sontuosi degli esemplari paleobizantini solitamente in argento dorato con decori
sbalzati o incisi, racchiudono entro preziose montature d'argento dorato, con
smalti, perle e cabochons, coppe di pietra dura, soprattutto agata e sardonica, che
nel caso dei calici di Romano e di quello di Sisinnio sono di antica fattura, mentre
negli altri sono di produzione bizantina. Infatti si segnalano alcune incertezze nella
lavorazione, verificabili soprattutto nell'irregolarità degli spessori, nelle levigature
approssimative e nella semplicità delle forme prive di anse e di piede, che si
riscontrano anche in una più ampia serie di vasi e di coppe di pietra dura che
testimoniano il recupero di questa antica tecnica nel corso del sec. 10°; tale ripresa
di gusto antiquario ben si colloca sullo sfondo della colta committenza macedone,
alla quale è stata del resto ricondotta anche una serie di piatti e di coppe di vetro
spesso e incolore con decori a dischi concavi (Venezia, Tesoro di S. Marco) che
riproducono probabilmente più antichi manufatti di cristallo di rocca di tradizione
sasanide.L'arte della glittica, specificamente per quanto riguarda intagli e cammei,
non sembrerebbe aver avuto invece soluzione di continuità dal sec. 6° al 14°, come
attesta il gran numero di esemplari pervenuti, per lo più con iconografie cristiane,
dei quali peraltro datazioni e luoghi di manifattura sono ancora una volta difficili
da definire. Ben pochi sono infatti i pezzi datati e, in considerazione del fatto che
questo tipo di produzione si rivolgeva a una clientela diversificata socialmente,
risulterebbe fuorviante attribuire a C. solo i pezzi iscritti con un nome imperiale,
tra i quali vanno comunque segnalati un diaspro con il Cristo benedicente e sul
verso la croce con il nome Leone, forse Leone VI (886-912), e un medaglione di
serpentino con il busto della Vergine orante che reca il nome di Niceforo III
Botaniate (1078-1081), entrambi a Londra (Vict. and Alb. Mus.; Wentzel, 1959), o i
pezzi di più alta qualità, come due cammei di lapislazzuli eccezionalmente
incrostati d'oro (Parigi, Louvre; Mosca, Cremlino, Oružejnaja palata). Quest'ultima
tecnica, assai rara, si ritrova solo su una coppa d'agata (San Pietroburgo, Ermitage)
e su un grande medaglione di lapislazzuli con la Crocifissione (Venezia, Tesoro di
S. Marco), tutte opere il cui stile ne orienta la datazione all'11°-12°
secolo.Altrettanto raro in epoca mediobizantina fu l'intaglio di pietre preziose o
semipreziose. Questa tecnica di antica tradizione sembrerebbe in effetti declinare
dopo la metà del sec. 7° e non è forse casuale che il suo riapparire sia collegato alla
corte macedone, come testimoniano uno smeraldo incastonato nell'anello che reca
iscritto il nome di Basilio parakoimómenos, identificato con Basilio I (867-886;
Parigi, BN, Cab. Méd.), e un'agata con i ritratti di Leone VI e Costantino VII, del
908 ca. (Baltimora, Walters Art Gall.). Anche questa ripresa ben si adeguerebbe al
contemporaneo clima culturale immerso nel culto dell'Antichità, che viene del
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resto suggestivamente evocato dal celebre vaso di vetro purpureo (Venezia, Tesoro
di S. Marco), dipinto a smalto con scene mitologiche, tratte forse da antiche
gemme, che si abbinano a iscrizioni pseudocufiche in una sorta di erudito pastiche
ispirato probabilmente dallo stesso Costantino VII Porfirogenito, grande
collezionista di gemme antiche (Cutler, 1974; Kalavrezou-Maxeiner, 1985b).Il vaso
veneziano configura tra l'altro un raro esempio dell'arte vetraria della capitale
bizantina. È infatti ancora tutta da verificare la provenienza da C. di una serie di
vetri caratterizzati da un'analoga tecnica decorativa ritrovati a Dvin, Corinto, Cipro,
Novogrudok e, più recentemente, a Otranto e Tarquinia, attribuiti ipoteticamente
ad ambito costantinopolitano (Lafond, 1968; Grabar, 1971; Harden, 1971;
Whitehouse, 1983). È stata piuttosto riconosciuta l'opera di artisti occidentali attivi
durante l'occupazione latina (Lafond, 1968) nei frammenti di vetrate dipinte
ritrovati nella chiesa meridionale del monastero del Pantokrator e in S. Salvatore
di Chora, già datati al sec. 12° e attribuiti a una bottega costantinopolitana (Megaw,
1963).Per quanto riguarda gli avori, la loro produzione può essere circoscritta in
due fasi distanti nel tempo e prive di espliciti collegamenti: la prima nel 6°, la
seconda compresa tra la seconda metà del 10° e l'11° secolo. Al di là della ben nota
serie di dittici consolari, imperiali e con iconografie cristiane e della problematica
cattedra di Massimiano (Ravenna, Mus. Arcivescovile), eclettico capolavoro
dell'arte giustinianea, occorre riconsiderare alcuni aspetti della splendida
produzione mediobizantina, il cui riapparire, dopo oltre tre secoli di eclisse,
coincise con il regno di Costantino VII Porfirogenito, ponendosi dunque ancora
una volta come intenzionale recupero di un'arte antica.Negli avori dei secc. 10°-11°,
che rappresentano forse la testimonianza più elevata della rinascenza macedone,
emergono due precise tendenze: da un lato le eleganti e raffinate rievocazioni
antiquarie dei decori profani ricorrenti nei c.d. cofanetti a rosette, che palesano
appunto il tentativo di restare il più possibile fedeli alle forme e allo stile del
modello antico, dall'altro gli avori con soggetti religiosi, solitamente in forma di
trittico, a guisa d'icona portatile, nei quali le tradizioni classiche appaiono
rielaborate e attualizzate in uno stile che è compiutamente bizantino.Assai più
articolata è la classificazione cronologica e stilistica proposta da Goldschmidt e
Weitzmann (1930-1934) secondo raggruppamenti che individuano la produzione
di differenti botteghe gravitanti nell'orbita della corte imperiale, come il c.d.
gruppo pittorico o antichizzante dei cofanetti a rosette e degli avori con vivaci
iconografie sacre derivate forse da modelli pittorici e il 'gruppo di Romano', che
include anche due avori legati al nome di Costantino VII (trittico: Roma, Mus. del
-Palazzo di Venezia; tavoletta con l'imperatore incoronato da Cristo: Mosca,
Gosudarstvennyj Istoritscheskij Muz.). Proprio questo gruppo, e più precisamente
l'avorio da cui deriva il nome, con la raffigurazione di Cristo che incorona Romano
ed Eudocia (Parigi, BN, Cab. Méd.), è stato oggetto di una revisione cronologica
implicante un problematico prolungamento nel tempo, oltre la metà del sec. 11°,
dello stile 'Romano' (Kalavrezou-Maxeiner, 1977).Sembrerebbe coincidere con il
declino e la scomparsa degli avori la diffusione degli oggetti, per lo più piccoli
rilievi con soggetti esclusivamente sacri, lavorati in steatite, una pietra assai
morbida di colore grigio-verde sovente provvista di policromia; anche se gli esordi
di questa produzione si individuano già sul volgere del sec. 10° - per es. il rilievo
con l'Etimasia e santi militari (Parigi, Louvre), che imita in tono minore alcuni
peculiari stilemi degli avori del 'gruppo di Romano' - il suo grande sviluppo,
alimentato da numerosi laboratori attivi non solo a C., si focalizza nei secc. 11° e 12°
e ancora in epoca paleologa (Kalavrezou-Maxeiner, 1985a).Il sec. 11° vide anche
un'intensa ripresa nella fabbricazione di porte di bronzo, i cui precedenti sono
testimoniati a C. dalle grandiose porte della Santa Sofia, sia quelle giustinianee
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(Bertelli, 1990) sia la c.d. porta dell'Orologio o porta Bella, un vero e proprio
palinsesto di elementi antichi, assemblati in epoca giustinianea e nuovamente
ristrutturati nella prima metà del sec. 9° (Borrelli Vlad, 1990). La produzione del
sec. 11° è documentata dal gruppo di porte con intarsi d'oro e d'argento offerte da
una committenza italiana alle chiese di Amalfi, Montecassino, Roma, Monte
Sant'Angelo, Atrani, Salerno, Venezia (Matthiae, 1971; Frazer, 1973; Mango, 1978).
La porta donata nel 1070 alla basilica romana di S. Paolo f.l.m. da Pantaleone di
Amalfi, prima di essere danneggiata dall'incendio del 1823, recava iscritto in greco
il nome del fonditore Staurachio e in siriaco il nome, purtroppo perduto, del
decoratore. Le porte della cattedrale di Amalfi, ugualmente donate da Pantaleone
nel 1060 ca., sono invece firmate da Simeone il Siriaco. Le iscrizioni latine delle
porte di S. Paolo f.l.m. e del santuario di Monte Sant'Angelo (1076) esplicitano
inoltre la loro provenienza costantinopolitana. Questa inconsueta commistione di
lingue diverse da un lato evidenzia la fisionomia cosmopolita della fabbrica
costantinopolitana, dall'altro - tenendo conto del fatto che nell'iscrizione della
porta di Monte Sant'Angelo Pantaleone si dichiara come colui che portas has
struxit e raccomanda nel contempo un modo speciale per pulirla - potrebbe
lasciare spazio all'ipotesi che Pantaleone e il figlio Mauro, al cui nome sono legate
le porte di Montecassino (1066), fossero a capo di una sorta d'impresa
internazionale che impiegava specialisti orientali per fabbricare a C. oggetti
destinati all'esportazione (Mango, 1978). Anche le porte bronzee della Grande
Lavra e del katholikón del monastero di Vatopedi sul monte Athos, l'una con
decori a sbalzo, l'altra con ornati damaschinati, datate rispettivamente al 1000 ca. e
al sec. 14°, furono probabilmente fabbricate a C. (Lala Comneno, 1990).Nell'ambito
della produzione ceramica costantinopolitana testimoniata da molte suppellettili di
uso comune (Peschlow, 1977-1978; Hayes, 1992) vanno segnalati la serie di
elementi (placche, cornici, colonnette, con decori policromi anche figurati)
rinvenuti nella basilica di S. Giovanni di Studios e in quella del Topkapı (Istanbul,
Asari Atika Müz.; Ettinghausen, 1954) e altri pezzi conservati a Parigi (Louvre) e a
Sèvres (Mus. Nat. de Céramique), ugualmente attribuiti a manifatture attive
nell'orbita metropolitana tra i secc. 9° e 10° (Coche de la Ferté, 1957). Non è
improbabile che questi materiali facessero parte, come quelli di Preslav (Totev,
1987), di un'iconostasi. Dal punto di vista stilistico il confronto più calzante è
individuabile nei decori plastici della chiesa nord del monastero di Costantino Lips
(907), caratterizzati peraltro da un analogo lessico ornamentale d'ispirazione
sasanide. In questo monastero furono recuperati anche numerosi frammenti di
pannelli figurati con incrostazioni di marmi colorati, forse in origine pertinenti a
un'iconostasi che potrebbe essere stata addirittura concepita a imitazione dei
preziosi arredi delle fondazioni di Basilio I (Grabar, 1963).
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COSTANTINOPOLI > ENCICLOPEDIA DELL' ARTE ANTICA (1959)
COSTANTINOPOLI (¿¿¿sta¿t¿¿¿¿p¿¿¿¿, o ¿¿¿sta¿t¿¿¿¿ p¿¿¿¿; Constantinopolis). - È l'antica capitale dell'Impero di
Oriente.La città sorse fin dalle origini su un promontorio trapezoidale che si protende nel mare con la sua punta
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COSTANTINOPOLI > ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI (2005)
CostantinopoliUna città tra Europa e AsiaCostantinopoli significa "città (in greco pòlis) di Costantino". Si tratta del
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