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MARCO KROGH NOTAIO 1 CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Ufficio per gli incontri di studio Incontro di studio sul tema: La comunione legale tra i coniugi.Roma, 23 - 24 aprile Hotel Ergife Palace “L’oggetto della comunione legale; il regime degli acquisti; l’amministrazione. ” Relatore Dott. Marco KROGH Notaio in Napoli

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Ufficio per gli incontri di studio

Incontro di studio sul tema:

“La comunione legale tra i coniugi.”

Roma, 23 - 24 aprile Hotel Ergife Palace

“L’oggetto della comunione legale; il regime degli acquisti; l’amministrazione. ”

Relatore Dott. Marco KROGH Notaio in Napoli

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PANORAMA GIURISPRUDENZIALE SU ALCUNE QUESTIONI RELATIVE AGLI

ACQUISTI DI BENI NEL REGIME DELLA COMUNIONE LEGALE

In una prospettiva di massima sintesi delle molteplici problematiche riguardanti gli acquisti

da parte dei coniugi in regime di comunione legale dei beni, può osservarsi che i due nodi critici principali che l’operatore del diritto deve sciogliere nella ricostruzione del sistema normativo applicabile alle singole fattispecie concrete da regolamentare sono riconducibili a due principali aree tematiche che sebbene siano tra loro distinte si condizionano a vicenda.

Una prima area riguarda l’individuazione dello spazio, più o meno ampio, che il Legislatore

ha inteso riconoscere all’autonomia privata dei coniugi all’interno del regime della comunione legale dei beni ed, un’altra area riguarda, invece, il rapporto che il Legislatore ha inteso stabilire tra la disposizione contenuta nell’art. 177 lett. a) e le altre disposizioni contenute negli artt. 178 e 179 .

E’ evidente che il minor o maggior spazio che l’interprete riconosce all’autonomia privata

all’interno del microsistema della comunione legale condiziona, in modo significativo, anche la collocazione delle specifiche fattispecie all’interno del paradigma degli artt. 177, 178 e 179.

All’interno della prima area tematica, gli interrogativi principali riguarderanno,

prevalentemente, la valenza che deve riconoscersi alla dichiarazione di cui all’ultimo comma dell’art. 179 c.c. e la possibilità per i coniugi di perfezionare convenzioni di tipo dispositivo volte ad includere od escludere determinati beni dal regime della comunione legale.

All’interno della seconda area tematica gli interrogativi principali riguarderanno, da un lato,

la maggiore o minore ampiezza che deve darsi all’espressione “acquisti compiuti” utilizzata dal Legislatore nell’art. 177 lett. a) e, da altro lato, l’individuazione di una scala gerarchica tra i valori e le ragioni giustificatrici implicitamente o esplicitamente contenuti negli artt. 177, 178 e 179, posto che è possibile ritenere, in via alternativa:

Ø che l’art. 177 lett. a) sia la norma generale e le altre disposizioni contenute negli artt. 178 e 179 sia derogatorie e, quindi, eccezionali, rispetto alla prima cosicché le singole fattispecie concrete che si presentano all’interprete potranno essere collocate all’interno degli artt. 178 e 179 nei soli casi in cui coincidono perfettamente con il dato letterale della norma, non essendo possibile alcuna applicazione analogica delle norme eccezionali (art. 14 delle preleggi);

Ø che gli artt. 177, 178 e 179 siano sullo stesso piano e ciascuna disposizione è diretta a tutelare specifici valori riferibili alla persona all’interno della famiglia, alla sfera personalissima della persona, alla persona nell’esplicazione della sua attività professionale ovvero alla tutela di interessi estranei ai coniugi e riferibili al donante o al familiare che intende effettuare una chiamata ereditaria escludendo uno dei coniugi.

Nella seconda ipotesi alternativa prospettata, le fattispecie concrete andranno collocate

all’interno dell’art. 177 lett. a) ovvero all’interno degli artt. 178 e 179 dopo aver individuato i valori emergenti dalle fattispecie stesse ed averli bilanciati, operando un giudizio di comparazione e privilegiando quegli interessi che appaiono maggiormente meritevoli di tutela in un determinato momento storico.

L’indirizzo che emerge dai più recenti pronunciati della Suprema Corte è riconducibile alla

prima ipotesi alternativa prospettata. C’è una tendenza che si sta via via affermando ad aumentare notevolmente la forza attrattiva dell’art. 177 lett. a) in tutti i casi in cui non ricorrono, in modo

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preciso, nella fattispecie tutti gli elementi che integrano una delle ipotesi riconducibili agli artt. 178 e 179.

L’inversione di tendenza è percepibile da una serie di recenti pronunciati diretti ad

escludere il rifiuto del coacquisto, ad escludere la possibilità per i coniugi di concludere convenzioni matrimoniali di tipo dispositivo, ad includere, nel meccanismo acquisitivo di cui all’art. 177 lett. a), salvo eccezioni, i diritti di credito, così come gli acquisti a titolo originario, fino a giungere al recentissimo pronunciato in tema di acquisti di quote di società di persone.

Questo orientamento che sembra in via di consolidamento, sebbene fondi le sue ragioni sulla

necessità di non annientare, attraverso deroghe ed eccezioni, il contenuto ed il significato della comunione legale, non è, tuttavia, esente da critiche per più motivi che possono sinteticamente così riassumersi:

1) la comunione legale non è il regime esclusivo che regola i rapporti tra i coniugi, ciò significa che i valori fondamentali della famiglia non trovano la loro esclus iva realizzazione all’interno del regime della comunione legale dei beni. Esistono altri istituti, all’interno dei rapporti familiari ed in caso di crisi matrimoniale o di cessazione degli effetti del matrimonio deputati a riequilibrare eventuali sperequazioni che si sono originate nel corso del matrimonio. Tra le norme inderogabili dirette ad assicurare la piena realizzazione dei valori fondamentali, riconducibili al modello familiare voluto dal Legislatore del 1975 (cd. regime primario della famiglia) non sono comprese le norme che riguardano il regime patrimoniale tra i coniugi (cd. regime secondario); di conseguenza, la comunione legale costituisce, idealmente, il regime che più degli altri, meglio interpreta i valori del modello di famiglia legittima, ma non costituisce lo strumento unico ed inderogabile per l’attuazione dei valori stessi;

2) i coniugi possono realizzare, lecitamente, lo stesso risultato, mediante un percorso giuridico costituito da più atti (scelta della separazione dei beni, acquisto del bene, ritorno alla comunione legale). L’eccessiva chiusura nell’interpretazione delle norme sulla comunione legale sembra, sotto quest’aspetto, contrastare con il principio dell’economia dei mezzi giuridici;

3) di fatto, stiamo assistendo ad una sorta di fuga, soprattutto da parte delle nuove coppie, dal regime della comunione legale. Al momento del matrimonio le coppie tendono a scegliere il regime della separazione dei beni e, nel caso in cui ciò non avvenga, la scelta della separazione dei beni, il più delle volte è compiuta prima di un acquisto o un’operazione economica importante. Ciò dovrebbe forse consigliare l’interprete ad una rilettura delle norme che dia maggior spazio all’autonomia privata dei coniugi.

Passando all’esame concreto delle fattispecie che più o meno quotidianamente si presentano

all’operatore del diritto, non può non rilevarsi che, nonostante l’apparente semplicità della lettera dell’art. 177 lett. a), la terminologia usata risente di un’eccessiva genericità. La norma infatti testualmente dispone: “Costituiscono oggetto della comunione: a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali”.

L’enunciazione si distingue per il suo atecnicismo. Come fu evidenziato sin dai primi

commentatori della riforma, il primo dubbio è se il termine acquisto si riferisca alla fattispecie o all’effetto e, su questo punto, mi sembra che siano tutti d’accordo a ritenere che il termine si riferisca all’effetto e non alla fattispecie e ciò non è di poco conto: se si ritenesse il contrario, il coniuge non partecipante all’atto ne diverrebbe comunque parte con tutte le conseguenze giuridiche, anche negative, che ne deriverebbero.

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In realtà, con il termine “acquisto” il Legislatore sembra voler più che definire in modo preciso la fattispecie che intende regolamentare, evidenziare un intento programmatico dell’assetto patrimoniale dei coniugi.

Come è stato notato, la disposizione sembra assumere il connotato di clausola generale,

descrittiva degli obiettivi di politica familiare e sociale voluti dal Legislatore, lasciando all’interprete il compito di definire il contenuto della norma, secondo un opera ermeneutica capace di conformare il dato letterale della disposizione ai valori che di volta in volta saranno ritenuti prevalenti in un determinato momento storico o nella comparazione dei vari interessi in conflitto.

Il contenuto a “bassa definizione” della norma e l’estrema genericità della locuzione

“acquisti compiuti” emerge, peraltro, dalla copiosa diversità di opinioni che si è formata e tuttora si riscontra nel panorama dottrinale e giurisprudenziale sul tema.

La maggiore o minore estensione del perimetro della comunione legale è di conseguenza

giustificata, non dalla lettera della norma, ma dalla diversa rilevanza che l’interprete riconosce ai valori che caratterizzano il regime della comunione legale dei beni e, come si è accennato, al rapporto tra la disposizione contenuta nell’art. 177 lett. a) e le disposizioni contenute negli artt. 178 e 179.

Infatti, la comunione legale, in astratto, potrebbe ricomprendere: 1) Tutti gli acquisti, senza distinguere tra diritti reali e diritti di credito, tra acquisti a titolo

originario ed acquisti a titolo derivativo, tra situazioni strumentali e situazioni definitive. Qualunque bene, suscettibile di valutazione economica, entrerebbe a far parte della comunione legale, con la sola esclusione (espressa) dei beni personali. La comunione legale, avrebbe, dunque, un carattere universale e le sole eccezioni consentite sarebbero quelle espressamente e tassativamente previste dal Legislatore;

2) ovvero, i soli acquisti che rivestono un carattere di definitività e di stabilità riconducibili a fattispecie che hanno prodotto un incremento patrimoniale certo e definitivo;

3) ovvero, i soli diritti reali ed i diritti personali di godimento, con esclusione, quindi, dei diritti di credito;

4) ovvero, i soli diritti che possono ricollegarsi a fattispecie negoziali derivative, escludendo gli acquisti a titolo originario.

Questo quadro ricostruttivo, ricco di sfumature e distinguo, trova ampio riscontro nella

ricchissima produzione dottrinale e nei mutevoli indirizzi giurisprudenziali. Giova innanzitutto accennare ai primi due interrogativi che nascono dalla lettura dell’art.

177 lett. a) e, precisamente se l’automatismo acquisitivo previsto dalla disposizione riguardi solo gli acquisti a titolo derivativo ovvero anche quelli a titolo originario ed in che misura la disposizione coinvolga i diritti di credito.

Riguardo agli acquisti a titolo originario, le fattispecie che sono principalmente prese in

considerazione riguardano gli acquisti a titolo di usucapione e gli acquisti a titolo di accessione. Le due fattispecie troverebbero una soluzione omogenea se si ritenesse che gli acquisti a

titolo originario sia tout court esclusi dal sistema della comunione legale, come è ritenuto da coloro che traggono argomenti dall’espressione “acquisti compiuti” usata dal Legislatore nell’art. 177 lett. a) , che evocherebbe lo svolgimento di un’attività negoziale da parte del coniuge acquirente e da una comparazione tra la stesura del previgente art. 217 cod. civ., in tema di comunione

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convenzionale , che espressamente si riferiva agli acquisti a qualunque titolo compiuti e l’attuale stesura dell’ art. 177 lett. a) .

Le argomentazioni proposte non sono sicuramente decisive nella risoluzione della

problematica generale ed, invero, la Cassazione (chiamata a pronunciarsi in ordine alla fattispecie relativa alla costruzione eseguita su suolo di proprietà personale di uno dei coniugi), come è noto, con la sentenza a sezioni unite dell’8 maggio 1996 n. 4273 (cfr. altresì, ex multis: Cass. 8 maggio 1996 n.4273, 27 gennaio 1996 n. 651, 16 febbraio 1993 n. 1921, 14 marzo 1992 n. 3141), dopo aver proposto le accennate argomentazioni, ha arricchito la sua motivazione con considerazioni più convincenti di carattere sistematico per giungere alla conclusione che la deroga al principio di cui all’art. 936 c.c., può avvenire nei soli casi in cui sia costituito volontariamente un diritto di superficie ovvero nei casi espressamente previsti dalla legge. Nel caso in cui un coniuge in comunione legale sia proprietario esclusivo del suolo su cui, in costanza di matrimonio, è edificata una costruzione, la proprietà della stessa non si estende anche all’altro coniuge, non potendosi applicare il disposto dell’art. 177 lett. a).

Si afferma, peraltro, l’analogia tra la fattispecie de qua e le ipotesi in cui un coniuge proceda

ad ampliamento o ristrutturazione di un appartamento di cui è proprietario esclusivo. Nessuno dubita, in questi ultimi casi, che il bene oggetto di ampliamento o ristrutturazione non entri a far parte della comunione legale in conseguenza dei lavori eseguiti e della provenienza delle somme impiegate per eseguire i lavori stessi.

Questo principio che sembra consolidato in tema di accessione, tuttavia, non è confermato

dalla Cassazione nelle pronunce in materia di acquisti per usucapione (la n. 2983 del 20 marzo 1991 la 14347 del 3 novembre 2000 e la recente n. 20288 del 23 luglio 2008) affermandosi espressamente che, secondo il meccanismo previsto dall’art. 177 lett. a), l’eventuale riferimento del bene alla comunione, nel caso di possesso esercitato da uno solo dei coniugi, si verifica ope legis, sempre che allo spirare del termine previsto per tale acquisto sussista tra i coniugi il regime della comunione legale.

Nella motivazione della recente sentenza del 2008, in modo tranciante, si afferma che il

Legislatore non distinguendo nell’art. 177 lett. a) tra acquisti a titolo originario e quelli a titolo derivativo e non essendo elencati nell’art. 179, tra i beni personali, quelli acquistati a titolo originario, non vi è motivo per escludere tali acquisti dall’ambito di operatività della regola generale di cui al citato art. 177 e, quindi, dalla comunione legale.

Resta, tuttavia, da verificare l’affermazione secondo cui momento qualificante per accertare

l’ingresso in comunione è il momento in cui si perfeziona l’usucapione stessa. Tale affermazione non sembra che sia coerente con il recente pronunciato della Suprema Corte che ha affermato il principio della retroattività dell’usucapione (sentenza 28 giugno 2000 n. 8792). Secondo quest’ultima sentenza l’acquisto a titolo originario è da far risalire al momento in cui inizia il possesso utile.

Come conciliare le due sentenze? Se riteniamo che siano giuste le conclusioni cui è giunta la

suprema Corte con la sentenza n. 8792 del 2000, gli effetti dell’acquisizione alla comunione legale dei beni acquistati per usucapione potrebbero avere una portata dirompente in più di un caso, posto che si dovrebbe verificare lo stato civile ed il regime patrimoniale del soggetto usucapente nel momento in cui inizia il possesso utile; momento in cui l’usucapiente potrebbe non essere coniugato o coniugato con un altro soggetto.

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Le opposte conclusioni cui è giunta la cassazione in tema di acquisti a titolo di usucapione e di accessione lasciano aperta l’ulteriore problematica relativa all’applicazione degli arttt. 178 e 179 agli acquisti a titolo originario.

Invero, una volta acclarato che nel perimetro applicativo dell’art. 177 lett. a) rientrano anche

gli acquisti a titolo di usucapione, le fattispecie concrete vanno risolte non trascurando le ragioni sostanziali che sono alla base delle disposizioni contenute negli artt. 178 e 179 e, pertanto, deve ritenersi che se si usucapiscono beni destinati all’esercizio dell’impresa troverà applicazione l’art. 178, così come troveranno applicazione le disposizioni contenute nell’art. 179 nel caso di usucapione di beni personalissimi o destinati all’esercizio dell’impresa ed eventualmente.

Peraltro, è da ritenere, come evidenziato dalla migliore dottrina che si è occupata del tema

(Cian), che nel caso di usucapione che si fonda su un acquisto a non domino e buona fede, per verificare se la fattispecie rientri o meno nell’art. 177 lett. a) o debba invece essere collocata all’interno delle ipotesi di esclusioni di cui all’art. 179 o nella disciplina di cui all’art. 178 debba farsi riferimento al contenuto del titolo.

La citata sentenza n. 20288 del 2008 in tema di usucapione sembra, peraltro, preannunciare,

per il modo perentorio con cui è stato espresso il principio della valenza dell’art. 177 lett. a), un cambio di indirizzo anche sull’indirizzo giurisprudenziale consolidato, sopra accennato, che ritiene che siano esclusi dal regime della comunione legale dei beni acquistati per accessione su area personale di uno dei coniugi.

Anche per questa fattispecie, tuttavia, ove cambiasse l’indirizzo giurisprudenziale

l’interprete dovrebbe, nelle singole fattispecie, verificare, di volta in volta, se ricorrono ragioni sostanziali che richiedano l’applicazione non dell’art. 177 lett. a) ma delle disposizioni contenute negli artt. 178 e 179. In coerenza con i principi ricavabili dal sistema della comunione legale si dovrebbe, altresì, indagare, se la costruzione è stata effettuata utilizzando le ricchezze di entrambi i coniugi, se la costruzione è stata effettuata utilizzando denaro personale di uno dei coniugi, se la costruzione è stata effettuata utilizzando denaro donato o ricevuto per successione, o denaro frutto della vendita di beni personali, ovvero se la costruzione è stata effettuata a titolo di liberalità indiretta (seguendo i più recenti orientamenti dottrinari che ritengono che all’interno dell’art. 809 rientrino anche queste fattispecie sotto forma di “negozi configurativi”).

In buona sostanza, se è vero che negli acquisti a titolo derivativo i Legislatore consente che

in presenza di determinati elementi il bene acquistato sia escluso dalla comunione legale, dovremmo chiederci se ciò può deve essere affermato anche in caso di acquisto a titolo originario, accettando l’idea che gli artt. 178 e 179 riconoscano determinati valori che sono espressione di un principio generale utilizzabile per risolvere potenziali conflitti d’interessi tra i coniugi in fattispecie non espressamente previste dal Legislatore.

Riguardo ai diritti di credito, in una prima fase applicativa delle norme, si riteneva che gli

stessi fossero esclusi dalla comunione, sotto un triplice profilo: la lettera della legge (art. 180 secondo comma) che fa espresso riferimento ai soli diritti

personali di godimento, facendo presumere a contrario l’esclusione dalla comunione dei diritti di credito;

1) l’impossibilità (peraltro molto discussa in dottrina e giurisprudenza) per i diritti di credito di essere oggetto di comunione ordinaria (e, secondo questa interpretazione, la comunione legale sarebbe comunque soggetta alle regole generali della comunione ordinaria, ricostruzione assai discutibile nella misura in cui sembra pacifico che la comunione legale è di fatto una comunione senza quote);

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2) infine, altro dato preso in considerazione al fine di escludere i diritti di credito dalla comunione è il carattere strumentale del diritto di credito rispetto ad una situazione finale in corso di realizzazione.

La problematica relativa all’inclusione o all’esclusione dei diritti di credito nella comunione

legale, allo stato attuale, si è articolata in una serie di distinzioni che tendono a cogliere spunti non tanto dal tenore letterale delle disposizioni ma dalla logica del sistema.

Sotto quest’ultimo profilo, si è distinto, ai fini dell’inclusione o dell’esclusione dalla

comunione legale, tra diritti di credito che assumono caratteristiche di investimento (ad esempio gli investimenti mobiliari, i titoli di stato, i fondi d’investimento, etc.) e diritti di credito con caratteristiche strumentali più accentuate, più direttamente finalizzate all’acquisizione di ulteriori situazioni (sull’esclusione dei diritti di credito dalla comunione cfr.: Cass. sez.1°, 9 luglio 1994 n.6493; Cass. sez.I°,18 agosto 1994, n.7437; Cass. sez.II°, 27 gennaio 1995 n.987; Cass. sez.II°, 18 febbraio 1999 n.1363 e le recentissime n.1197/2006 e 9 ottobre 2007 n. 21098).

Ampia giurisprudenza si è sviluppata all’interno delle problematiche relative alle somme di

denaro depositate presso banche su libretti o conti correnti. Gli interrogativi principiali riguardano: 1) la possibilità di continuare a ritenere beni personali o “propri” (secondo la definizione

proposta da Oberto) le somme di denaro depositate su libretti bancari o accantonate su conti correnti, in ragione della fattispecie che ha originato il denaro stesso (reddito di lavoro, frutti di beni personali, somme donate, ricavo della vendita di beni personali etc.);

2) la sorte delle somme di denaro impiegato per l’acquisto di titoli obbligazionari che spesso rappresentano forme di risparmio di agevole smobilitazione che nella loro formazione, spesso, presentano connotazioni simili ai depositi bancari, dfa questi distinguendosi per una maggior remuneratività;

3) i diritti che il coniuge non produttore del reddito può far valere, in forza dell’art. 177 lett. c) , sulle somme depositate dal coniuge presso la Banca o, più in generale sulle somme che costituiscono reddito di lavoro o frutti di beni personali e destinate alla comunione de residuo.

La Suprema Corte nella recente sentenza n.1197/2006 ha affermato il principio che le

somme depositate su un conto corrente non perdono il loro connotato di beni personali ovvero di beni destinati alla comunione de residuo. In buona sostanza, il denaro depositato o accantonato su conto corrente mantengono la qualificazione che le ha “targate” in ragione della loro origine: il diritto di credito vantato da un coniuge verso la Banca alla restituzione della somme di denaro non entra a far parte della comunione legale in forza dell’art. 177 lett. a).

Inoltre, l’utilizzo di somme di denaro “personale” per l’acquisto di ulteriori beni rende

questi ultimi “personali”. In sostanza , è necessario distinguere, secondo la suprema Corte tra beni “personali” (elencati nell’art. 179) e beni “propri” che comprendono anche i redditi di lavoro, i frutti di beni personali e quant’altro non sia né bene comune né personale ai sensi dell’art. 179. Di conseguenza, mentre i beni acquistati con questi denaro “proprio” entrano a far parte della comunione legale ai sens i dell’art. 177 lett. a) i beni acquistati con denaro “personale” sono esclusi dalla comunione legale, ricorrendo i presupposti di cui all’art. 179.

In coerenza con questo indirizzo va ricordata anche la ancor più recente sentenza 21098 del

2008 nella qua le la Suprema Corte, dopo aver puntualizzato che deve ritenersi superata la posizione

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secondo la quale solo i diritti reali, e non anche i diritti di credito possono entrare a far parte della comunione legale, ha affermato che i titoli obbligazionari acquistati dal coniuge in regime patrimoniale di comunione legale con i proventi della sua attività lavorativa sono da considerare una forma di investimento, e come tali rientrano nella nozione di “acquisti” di cui all’art. 177 lett.a) ed entrano subito a far parte della comunione, e non ricadono nella comunione de residuo.

Quest’ultima sentenza, sembra che faccia definitivamente giustizia del criterio di inclusione

od esclusione dei beni dalla comunione legale basato sulla distinzione tra diritti reali e diritti relativi, privilegiando, invece, aspetti più sostanzialistici diretti a verificare l’attitudine del bene a costituire un incremento patrimoniale immediato e definitivo ovvero uno strumento per la realizzazione di posizioni giuridiche ulteriori.

La difficoltà, per l’interprete, sarà quella di distinguere tra diritti di credito che abbiano

caratteristiche strumentali e diritti di credito con caratteristiche d’investimento. Il problema, quindi, si sposta dalla natura giuridica del diritto alla finalità che ha determinato un coniuge all’acquisto del diritto. Finalità che, tuttavia, per avere una valenza oggettiva dovrà esser ricondotta a precisi requisiti idonei a sorreggere la distinzione tra acquisto a titolo di investimento ed acquisti strumentali per la realizzazione di ulteriori interessi che giustificano un’esclusione dell’acquisto stesso dalla comunione legale. Peraltro, questo indirizzo giurisprudenziale che distingue tra denaro giacente sul conto corrente ed acquisto titoli obbligazionari non sembra considerare che spesso l’acquisto di titoli obbligazionari (si pensi ai BOT) più che una forma d’investimento costituiscono un mezzo per dare maggior redditività al proprio risparmio ad agevole smobilizzo.

Sotto altro aspetto, la distinzione tra acquisti con finalità strumentale e finalità

d’investimento non sembra esser stata seguita dalla S.C. nella recentissima sentenza n. 2569 del 2 febbraio 2009, in tema di partecipazioni in società di persone, tradizionalmente escluse dall’art. 177 lett. a) ed incluse nell’art. 178, proprio sotto il profilo della loro strumentalità rispetto all’esercizio di un’attività d’impresa da parte del titolare della quota stessa. Con la citata sentenza 2569/2009 la Suprema Corte ha affermato il principio che anche le quote di snc di pertinenza di un solo coniuge rientrano nella comunione legale immediata.

E’ una sentenza che consolida una lettura fortemente dominante dell’art. 177 lett. a) rispetto

alle disposizioni contenute nell’art. 178 e 179 anche se lascia all’interprete numerosi dubbi su come conciliare i principi regolatori del sottosistema societario con i principi regolatori del sottosistema della comunione legale, principalmente in tema di responsabilità illimitata del socio, in tema di amministrazione, in tema di rilevanza dell’intuitus personae nelle società di persone ed in tema di socio occulto e fallimento.

Sull’ultimo aspetto evidenziato, relativo ai diritti spettanti al coniuge non produttore del

reddito sulle somme spettanti all’altro coniuge a titolo di rendita di beni personali o di reddito di lavoro la Suprema Corte con la sentenza n. 2597 del 2006 ha affermato che l’art. 177 lett. c) del codice civile esclude dalla comunione legale i proventi dell’attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione.

Con la suddetta sentenza la Suprema Corte ribalta un precedente indirizzo (8865 del 1996 e

14897 del 2000) secondo cui il coniuge percettore di redditi di lavoro al momento dello scioglimento della comunione per sottrarre i redditi stessi dalla comunione de residuo avrebbe dovuto provare di aver impiegato il reddito stesso per i bisogni della famiglia o per l’estinzione delle obbligazioni di cui all’art. 186 c.c. In caso contrario il coniuge non percettore del reddito avrebbe potuto rivendicare diritti sulle somme il cui impiego non fosse stato “virtuoso” da parte del

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coniuge percettore (perché non destinato a soddisfare i bisogni della famiglia, anche al di là del dovere di contribuzione) o per le quali il coniuge percettore non avesse dato prova dell’impiego “virtuoso” (Oberto).

Il nuovo indirizzo affermato dalla Suprema Corte è condivisibile soprattutto perché la

diversa interpretazione proposta non trovava alcun riferimento nella lettera della norma e, soprattutto perché andava a gravare di un onere di rendiconto eccessivamente gravoso il coniuge percettore del redito.

Non può, peraltro, non considerarsi, a latere delle suddette problematiche, la possibilità che

il deposito di somme di denaro su conto corrente o libretto contestato sia sorretto dall’animus donandi del depositante idoneo a qualificare la fattispecie come liberalità indiretta (sul punto: Cass. 12 novembre 2008 n. 26983, cass. 10 aprile 1999 n. 3499, cass. 22 settembre 2000 n. 12552).

Peraltro, anche sul versante dei diritti reali, l’operatore del diritto si trova di fronte a

problematiche ancora irrisolte o, più precisamente, che danno luogo ad interpretazioni non uniformi. Mi riferisco, innanzitutto, all’acquisto del diritto di usufrutto vitalizio da parte di un solo coniuge in regime di comunione legale dei beni. La durata dell’usufrutto deve esser riferita al più longevo dei due coniugi o, come a me sembra, alla vita del coniuge che è stato parte nell’atto ? Coloro che ritengono esatta la prima interpretazione pongono un onere a carico del terzo di verificare lo stato civile ed il regime patrimoniale dell’acquirente per evitare di trovarsi di fronte ad una imprevedibile durata del diritto costituito. A mio giudizio, applicando il principio secondo cui il coniuge estraneo all’atto non diventa parte dell’atto ma beneficia degli effetti incrementativi prodotti dall’atto stesso, dovrebbe concludersi che il diritto si estende al coniuge estraneo con il contenuto definitivamente fissato nell’atto costitutivo, contenuto che non può non riguardare anche la durata del diritto stesso, con la conseguenza che, alla morte del coniuge che è stato parte dell’atto si estingue anche il diritto di usufrutto vitalizio.

Tornando a verificare le ipotesi discusse di acquisto dei beni in regime di comunione legale

e lo spazio che, all’interno del regime della comunione legale dei coniugi è dato all’autonomia privata dei coniugi stessi, nella panoramica degli interventi interpretativi ad opera della Cassazione, la fattispecie che in modo esemplare sintetizza i contrasti e l’evoluzione della giurisprudenza relativamente allo spazio più o meno ampio concesso ai coniugi all’interno del regime della comunione legale è rappresentata dal tema del rifiuto del coacquisto da parte di un coniuge in comunione legale.

Va evidenziato che la locuzione “rifiuto del coacquisto” è utilizzata in modo promiscuo per

descrivere sia le fattispecie in cui i coniugi, nell’esplicazione della loro autonomia contrattuale, intendono escludere un determinato bene dal regime della comunione legale e sia i casi in cui uno solo dei coniugi intende escludere un bene dalla comunione legale applicando in via estensiva o analogica le disposizioni contenute nell’art. 179.

Il dato di partenza è costituito dalla sentenza n. 2688 del 2 giugno 1989, nella quale la

Cassazione afferma la validità del rifiuto del coacquisto da parte del coniuge non acquirente al fine di evitare la caduta del bene in comunione. Si afferma, in buona sostanza, che è possibile una deroga al disposto dell’art. 177 lett. a) per volontà concorde dei coniugi, resa nelle forma richiesta per le convenzioni matrimoniali .Secondo, questo indirizzo giurisprudenziale il coniuge non interessato alla caduta in comunione legale di un bene, ha il potere di rendere una dichiarazione negoziale dismissiva (una rinunzia all’acquisto).

Vengono espressamente ritenuti prevalenti dalla Suprema Corte i seguenti principi:

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1) nessuno, neppure un coniuge in comunione legale dei beni, può essere costretto contro la sua volontà ad acquistare un diritto, ciò in omaggio al principio generalmente osservato dall’ordinamento secondo cui nemo locupletari potest invito;

2) il rifiuto sarebbe pienamente lecito, in quanto l’art. 2647 c.c. prevede che i coniugi deroghino, con apposita convenzione in forma pubblica, parzialmente alla disciplina della comunione legale.

Non vi è alcuna ragione, quindi, per escludere che un coniuge possa consentire all’altro di

procedere ad un determinato acquisto a titolo personale, sempre che tale consenso sia espresso nel medesimo atto con il quale si opera l’acquisto e che, per questo atto venga adottata la forma dell’atto pubblico.

In effetti queste ultime considerazioni, per quanto condivisibili sul piano sostanziale degli

effetti, lasciano aperto un problema altrettanto fondamentale relativo alla circolazione dei beni immobili, ossia quello della pubblicità legale. Infatti, come è noto, l’opponibilità ai terzi di un regime patrimoniale diverso dalla comunione legale è possibile solo se annotato a margine dell’atto di matrimonio.

Le soluzioni, prospettabili in questa ipotesi, di deviazione una tantum dalla disciplina della

comunione legale, sono astrattamente due: Ø o si ritiene che i rapporti patrimoniali dei coniugi siano regolati dal regime della

comunione legale (di tipo programmatico) e da un’ulteriore convenzione matrimoniale, di tipo dispositivo che, di conseguenza, va annotata a margine dell’atto di matrimonio per renderla opponibile ai terzi, secondo la logica dell’art. 162, comma 4° c.c.

Ø ovvero, si ritiene che il regime della comunione legale abbia un contenuto più esteso di quello meramente programmatico che consente accordi relativi a singoli beni e, di conseguenza, il sistema di pubblicità delle convenzioni matrimoniali andrebbe integrato dal sistema di pubblicità previsto per gli specifici beni oggetto di deroga (Registri Immobiliari, etc,).

Questo aspetto evidenzia una problematica di carattere più generale legata alla pubblicità

legale delle convenzioni matrimoniali, che viene ad incidere in modo marcato con la circolazione dei beni immobili, provocando in tutte quelle ipotesi (e gli esempi che si potrebbero fare sono tanti ed alcuni di essi li esamineremo più avanti) in cui non ci sia un allineamento tra le risultanze dell’atto di matrimonio e l’effettivo regime patrimoniale tra i coniugi, un bene che di fatto è soggetto a due diversi statuti, uno valido per i rapporti interni tra i coniugi ed un altro valido per i terzi, un bene che, in modo descrittivo, potrebbe essere definito “schizofrenico”, in quanto dotato di una doppia personalità, una che vale per i coniugi ed un’altra che vale per i terzi.

Tornando alla panoramica degli indirizzi giurisprudenziali, la Cassazione spingendo

ulteriormente in avanti il ragionamento contenuto nella sentenza di riconoscimento del rifiuto del coacquisto, con la sentenza n.7437 del 18 agosto 1994, aggiunge un ulteriore elemento a tale indirizzo, affermando che l’acquisto di un immobile può essere escluso dalla comunione legale, anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 179 c.c. purché l’acquisto avvenga mediante utilizzo di denaro proveniente dal proprio lavoro o, più genericamente, personale.

Un’altra deroga, dunque, al disposto dell’art. 177 lett. a), questa volta fondata non

sull’interesse del coniuge che rifiuta l’arricchimento, ma su un’estensione della tutela dell’interesse del coniuge che intende procedere all’acquisto escludendo l’altro coniuge.

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Nella suindicata sentenza viene espressamente affermato che il disposto dell’art.179 lett.f) c.c., che prevede l’esclusione dei beni dalla comunione legale nel caso in cui sia utilizzato quale prezzo di acquisto danaro proveniente dalla vendita di beni personali, può essere applicato analogicamente, ai sensi dell’art. 12 comma 2 delle preleggi, ricorrendo identità di ratio, anche nell’ipotesi in cui il danaro utilizzato sia stato acquisito per donazione, per successione o anche perché “frutto del proprio lavoro”

La portata di queste due sentenze era effettivamente dirompente nel sistema della

comunione legale. Ancor più dirompente se accompagnata da tutta una serie di pronunciati diretti a qualificare come meramente facoltativa e surrogabile la dichiarazione prevista dall’ultimo comma dell’art.179 c.c. da parte del coniuge escluso.

In questi pronunciati si può cogliere il momento di massima espansione del rilievo dato

all’autonomia negoziale dei coniugi all’interno del regime della comunione legale ed il ruolo del regime della comunione legale all’interno della famiglia era fortemente ridimensionato.

Effettivamente la portata di queste sentenze riduceva ai minimi termini il significato della

comunione legale, trasformandola da regime patrimoniale con regole tassative in regime patrimoniale contenente un programma di massima, estremamente flessibile e suscettibile di continui adattamenti in progress. In questi termini l’assoggettamento o meno di un singolo bene al regime della comunione legale sarebbe superabile da una diversa volontà dei coniugi o anche di uno solo di essi ricorrendo determinati presupposti.

Le obiezioni a tale impostazione si muovono all’interno di una visione della famiglia e del

regime patrimoniale della comunione legale, caratterizzati da una importanza sociale che determina vincoli di indisponibilità sottratti all’autonomia contrattuale dei coniugi; questi possono operare le loro scelte entro i limiti tracciati dal Legislatore, non trovando tutela gli interessi del singolo coniuge se non nella misura in cui corrispondono a valori espressamente considerati meritevoli di tutela all’interno degli schemi precostituiti.

Superando, quindi, questo originario indirizzo la Cassazione, nelle più recenti sentenze,

riconoscendo un ruolo fondamentale alla comunione legale negli obiettivi della riforma, ha affermato:

1) In primo luogo, con la sentenza n.9355 del 23 settembre 1997, che i beni acquistati con i proventi dell'attività separata di uno dei coniugi entrano immediatamente e di pieno diritto a far parte della comunione, senza che sia possibile escluderli mediante la dichiarazione prevista dall'art. 179, lett. f) c.c., applicabile soltanto all'acquisto effettuato mediante utilizzo dei proventi della vendita di beni personali (sentenza che però faceva riferimento all’acquisto di azioni). Questo indirizzo è riaffermato anche nella recentissima sentenza emessa dalla Cassazione sul punto (la 1197 del 20 gennaio 2006) la quale ha ribadito due principi: innanzitutto che l’acquisto di un bene (nel caso di specie dei fondi patrimoniali) è escluso dalla comunione legale qualora ci sia certezza che il danaro utilizzato sia provento della vendita di beni personali, pur in assenza di una espressa dichiarazione in tal senso nell’atto, operandosi, quindi una surrogazione reale tra i due beni; inoltre, che il danaro ricavato dalla vendita di beni personali non perde tale sua connotazione anche nel caso in cui sia depositato sul conto corrente appartenente ad entrambi i coniugi, non operandosi alcuna trasformazione del diritto esclusivo di un coniuge su una determinata somma di danaro, che può definirsi “targata”, in diritto di credito rispetto al saldo di conto corrente che in caso di cointestazione del conto corrente farebbe presumere uguali diritti e pretese a favore di entrambi i coniugi.

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2) In secondo luogo, con la sentenza n.2954 del 27 febbraio 2003 (emessa nello stesso solco tracciato dalle precedenti sentenze n.1917 del 2000 e n.1556 del 1993) si afferma, da parte della Cassazione, che, nell’ambito della comunione legale, l’art.179 c.c. si pone come norma eccezionale, che consente l’esclusione dalla comunione legale, di alcuni beni tassativamente indicati, nel solo caso in cui ricorrano tutti i presupposti oggettivi previsti dalla norma stessa. Una deroga è consentit a ai coniugi esclusivamente attraverso la stipulazione di una convenzione matrimoniale, nel rispetto dei requisiti di forma e di sostanza previsti dagli artt. 161 e 210 del codice civile (atto pubblico, irrinunciabilità ai testimoni, presenza personale dei coniugi, indicazione specifica e concreta dei patti con i quali intendono regolare i loro rapporti).

Peraltro, la convenzione matrimoniale potrà avere esclusivamente un contenuto cd.

programmatico, cioè riferito a categorie di beni, non essendo possibile, secondo questo indirizzo, la stipulazione di convenzioni matrimoniali che abbiano ad oggetto singoli beni, le cd. convenzioni matrimoniali “dispositive” (“inclusive” o “esclusive”).

Quest’ultimo orientamento, come accennato, è stato oggetto di critiche, anche condivisibili,

da parte della dottrina che ha ritenuto eccessivamente restrittiva la posizione della Cassazione ed in parte contraddittoria.

Come ho detto all’inizio di questa esposizione, le norme che regolano il regime

patrimoniale, prevedono la possibilità per i coniugi di regolare in modo pattizio i loro rapporti. I limiti richiesti dalle norme in materia (artt.159, 161 e 210 del c.c.) attengono al rispetto delle forma e di alcuni principi ritenuti inderogabili, tra questi nulla è previsto relativamente all’impossibilità di stipulare convenzioni matrimoniali cd. dispositive, riguardanti cioè il regime giuridico di singoli beni. Tra l’altro, i coniugi potrebbero, comunque, pervenire allo stesso risultato non in modo diretto ma attraverso un percorso segmentato, formato da più atti giuridici.

Non sembra, dunque, che ci siano validi motivi ostativi a ritenere meritevole di tutela

l’interesse dei coniugi a dare una regolamentazione “diversa” a singoli beni, all’interno dello schema più generale della comunione legale, il problema sembra più legato al regime di pubblicità cui assoggettare questo tipo di “regolamentazione speciale” di singoli beni, deviante rispetto al regime ordinario. Quest’ultima considerazione è sicuramente di supporto per comprendere il cambio di rotta della Cassazione nei suoi ultimi pronunciati.

La Suprema Corte, come espressamente affermato soprattutto nell’ultima delle sentenze

indicate (la n. 2954 del 2003), interpreta le norme sulla comunione legale e soprattutto le disposizioni contenute nell’art. 179, in modo restrittivo, oltre che per l’asserito ruolo fondamentale della comunione legale nella realizzazione degli interessi della famiglia, anche nella primaria esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi; valore quest’ultimo che vedremo emergere ed assumere una posizione centrale e risolutiva anche nelle più recenti sentenze della Cassazione del settembre del 2004 (la n. 19250), in tema di acquisti ex art. 179 e del dicembre 2003 (la n. 18619), in tema di riconciliazione tra coniugi separati.

La più recente sentenza della Suprema Corte relativamente agli acquisti di beni personali ex art. 179 c.c. (n.19250 del 24 settembre 2004 appena richiamata) nel prendere in esame la problematica relativa all’affidamento dei terzi, affronta, in modo espresso il problema relativo alla NATURA GIURIDICA DELLA DICHIARAZIONE RESA DAL CONIUGE ESCLUSO DALL’ACQUISTO (ai sensi dell’art.179 c.c.) ed alla necessità o meno che essa sia contestuale all’atto di vendita e, più in generale, affronta il problema della funzione che svolge la dichiarazione stessa nel procedimento previsto dall’art. 179 c.c.

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In dottrina ed in giurisprudenza ritroviamo le tesi più varie in ordine alla natura giuridica

della dichiarazione resa dal coniuge escluso: Ø atto avente contenuto negoziale, con il quale il coniuge escluso partecipa all’effetto finale

dell’esclusione del bene dalla comunione; Ø mera dichiarazione di scienza con effetti ricognitivi o di controllo; Ø atto reso per ragioni di tutela e di affidamento dei terzi.

E’ evidente che la natura giuridica negoziale è riconosciuta da quella parte della giurisprudenza (soprattutto il primo indirizzo che ho riportato) e da quella parte della dottrina che riconoscono maggiori spazi all’autonomia negoziale dei coniugi all’interno degli schemi precostituiti dal Legislatore.

Il nuovo indirizzo ritiene, invece, che l’intervento dell’ ”altro coniuge” all’atto di acquisto,

ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 179 c.c., abbia natura di dichiarazione di scienza.

La ratio giustificatrice di questa norma, che richiede l’intervento dell’altro coniuge in modo essenziale e tassativo, si è individuata, secondo una parte della dottrina, in una funzione di controllo assegnata al coniuge escluso, in ordine alla sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per l'esclusione del bene dalla comunione.

Una verifica della personalità del bene trasferito in permuta o del prezzo pagato in

corrispettivo. Può darsi, infatti, che il danaro ricavato da una precedente vendita sia già stato speso per altri scopi; può darsi che il bene ricevuto in permuta abbia un valore molto superiore al bene alienato.

La Cassazione, con la richiamata ultima sentenza, ha assegnato, invece, alla suddetta

dichiarazione un’importanza soprattutto in funzione della certezza che la partecipazione del coniuge escluso riesce ad assicurare, nel sistema della circolazione dei beni immobili e della pubblicità immobiliare. L’interesse primario tutelato dall’art. 179, ultimo comma sarebbe l’affidamento dei terzi.

In quest’ottica, la dichiarazione deve essere resa necessariamente contestualmente all’atto

di acquisto. Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza meno recente, al contrario, si

riteneva che la dichiarazione del coniuge escluso non fosse essenziale, in quanto surrogabile con altri mezzi di prova. L’unico dato fondamentale per l’esclusione del bene dalla comunione legale sarebbe l’esistenza dei presupposti oggettivi. In altri termini, la certezza della provenienza del danaro dalla vend ita di beni personali. E’ da osservare che l’ultima sentenza della Cassazione sull’art. 179 lett. f) (la 1197 del 2006), sebbene si riferisca all’acquisto di beni mobili e non di beni immobili, sembra sottolineare l’importanza, ai fini dell’esclusione del bene dalla comunione legale, della certezza che il denaro impiegato provenga dalla vendita di beni personali, a sottolineare l’automatismo della surrogazione reale ogni qualvolta ricorrano tutti gli elementi della fattispecie.

Esasperando il discorso potrebbe concludersi che se effettivamente esiste questo

automatismo legale, forse non sarebbe possibile nemmeno impedirlo in mancanza di una convenzione matrimoniale idonea ad impedire l’effetto di cui all’art. 179 lett. f), in presenza di un acquisto effe ttuato con danaro che sia frutto della vendita di beni personali, altrimenti ci troveremmo ad assegnare, comunque valore negoziale ad una volontà “omissiva” del coniuge che non intende partecipare all’atto.

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La Cassazione, al contrario, quanto meno negli ultimi pronunciati è decisamente orientata a

ritenere che la dichiarazione del coniuge escluso sia un elemento costitutivo della fattispecie e che pertanto la sua esistenza contestuale vale a perfezionare, in materia di acquisti immobiliari, l’esclusione del bene dalla comunione.

La maggiore obiezione che si è opposta alla tesi della fungibilità della dichiarazione del

coniuge escluso è fondata soprattutto sul dato letterale dell’art. 179 c.c. il quale dispone, tassativamente, che il bene è escluso dalla comunione legale quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge; dunque, la norma non richiede genericamente che sia provato con qualunque mezzo che ricorrono i presupposti oggettivi richiesti, bensì richiede espressamente l’intervento del coniuge da escludere.

La tesi della surrogabilità della dichiarazione del coniuge escluso era stata accolta proprio

dalla sentenza (emessa dalla Corte di Appello di Roma) cassata da quest’ultimo pronunciato della Suprema Corte.

La Cassazione, nel respingere, questa interpretazione ha conferito alla dichiarazione del

coniuge escluso un ruolo fondamentale facendo leva, come ho già accennato, soprattutto sui profili di particolare certezza, che nell’ottica del codice del 1942 debbono accompagnarsi alla circolazione dei beni immobili .

La Cassazione individua dunque un valore, quello della certezza nella circolazione dei beni

immobili, prioritario o comunque meritevole di maggior tutela rispetto all’interesse del coniuge a realizzare la surrogazione reale tra prezzo ricavato dalla vendita di un bene personale e nuovo acquisto immobiliare.

Automatismo che invece si realizzerebbe perfettamente, almeno secondo l’ultima sentenza

della cassazione (la 1197 del 2006), in materia di beni mobili. Dunque, un regime a doppia corsia tra beni mobili e beni immobili in ragione della tutela dell’affidamento dei terzi.

La norma, di conseguenza, sembra far riferimento, ai fini dell’inclusione o dell’esclusione di

un acquisto ex art. 179 lett. f) in assenza della partecipazione del coniuge escluso all’atto e nella ricorrenza dei suoi presupposti oggettivi, non alla maggiore o minore importanza o valore di alcune categorie di beni, ma esclusivamente alla primaria esigenza di tutela dell’affidamento dei terzi all’interno del sistema di pubblicità legale costituito dalla trascrizione nei pubblici registri.

In buona sostanza, nei confronti dei terzi, unico soggetto deputato a verificare la sussistenza

dei presupposti oggettivi richiesti dalla norma è il coniuge escluso, assegnando alla sua partecipazione all’atto una valenza assoluta. Più precisamente la Cassazione afferma che la dichiarazione del coniuge escluso ha un contenuto di ricognizione del ricorso dei presupposti per la “personalità” dell’acquisto (nel medesimo senso anche la citata sent. Cass.2954/2003) rilevante sia sul piano meramente interno dei rapporti tra coniugi, sia sul piano esterno concernente invece l’affidamento dei terzi.

La tassatività della norma, sempre secondo detta sentenza, potrebbe trovare una sua deroga nella sola ipotesi (peraltro già esaminata dalla Cassazione con sent.1556/93) in cui l‘acquisto di un bene si realizza attraverso lo strumento della permuta di un bene personale. In relazione a questo caso, ritiene la Suprema Corte, vi è indubbiamente spazio per ritenere che le esigenze di certezza possano risultare equivalentemente soddisfatte anche sulla base delle risultanze assicurate dal sistema della continuità delle trascrizioni.

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Vale la pena ricordare che, comunque, come chiarito, sempre dalla Cassazione nella

sentenza n.1917 del 2000 la dichiarazione del coniuge escluso, pur avendo carattere ricognitivo e non negoziale, ha valenza di testimonianza privilegiata e vale a fondare una presunzione juris et de jure di esclusione dalla contitolarità dell'acquisto, che può essere rimossa solo per errore di fatto o per violenza, nei limiti in cui ciò è consentito per la confessione.

E’ evidente che sul piano della certezza della circolazione dei beni sembra tutto risolto, sul

piano interno dei rapporti interpersonali tra i coniugi, invece si assiste ad una contraddizione, tra una posizione rigida della Cassazione tendente ad escludere la possibilità di convenzioni matrimoniali di carattere dispositivo (riferite cioè a singoli beni) ed a comprimere, quindi in modo notevole l’autonomia negoziale dei coniugi, viceversa, su un altro piano, si conferisce valenza assoluta (sul piano processuale che poi si riflette su quello sostanziale) alla dichiarazione del coniuge escluso, anche se resa nella consapevolezza dell’insussistenza dei presupposti oggettivi.

Nel quadro del bilanciamento, poi, delle posizioni dei coniugi, relativamente ai beni che

possono essere esclusi dalla comunione ai sensi dell’art. 179 c.c., resta aperta la problematica relativa al rifiuto opposto dal coniuge ad intervenire al relativo atto di acquisto del bene personale dell’altro coniuge , pur nella ricorrenza di tutti i presupposti oggettivi richiesti dalla norma.

Il coniuge escluso, come abbiamo visto, così come non ha alcuna possibilità di rifiutare

l’acquisto al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dall’art. 179 c.c., ugualmente non può opporsi all’esclusione del bene dalla comunione legale, qualora ricorrano tutti i presupposti oggettivi richiesti; infatti, come abbiamo detto, la cassazione assegna alla dichiarazione del coniuge escluso una rilevanza meramente ricognitiva priva di qualunque contenuto negoziale.

In caso di mancata sua collaborazione, l’unica soluzione, sembra essere il ricorso

all’Autorità Giudiziaria. Tuttavia, tale soluzione produce nel sistema inconvenienti ed incertezze gravi che, tenuto conto dei normali tempi della giustizia, potrebbero lasciare la situazione in uno stato di incertezza per un lungo periodo.

Un Autore (F. Bocchini) ha proposto come soluzione l’apposizione all’atto di acquisto di

una clausola che condizioni l’acquisto esclusivo al buon esito dell’accertamento sostitutivo da parte dell’Autorità Giudiziaria. Circostanza da inserire nella rela tiva nota di trascrizione che sarà oggetto poi di annotazione a giudizio concluso.

DONAZIONE INDIRETTA - Situazione che presenta profili analoghi a quelli sin qui

esaminati, ma con peculiarità proprie, è quella relativa all’acquisto di beni immobili, da parte di un coniuge in comunione legale, mediante utilizzo di danaro ricevuto mediante atto di liberalità.

In questo caso, l’esclusività dell’acquisto è riproposta sotto il profilo che si tratta di una

donazione indiretta e, come tale esclusa dalla comunione legale ai sensi dell’art. 179 lett.b), anche al di fuori dei limiti consentiti dall’art. 179 lett. f).

La più recente sentenza che si è occupata dell’argomento è la n.15778 del 14 dicembre 2000.

Tuttavia l’orientamento della Cassazione sul punto è costante. E’ interessante esaminare il fatto che ha dato luogo a quest’ultimo pronuciato della Suprema

Corte: Tizio coniugato in comunione legale acquista un immobile (più precisamente riceve in assegnazione da una cooperativa un immobile) ed il danaro impiegato per l’acquisto dell’immobile

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proviene (in gran parte) dal genitore che, per spirito di liberalità, ha concorso al pagamento del prezzo per favorire l’acquisto a favore del figlio.

La fattispecie nelle sue linee generali ha grande frequenza nella pratica. Spesso, i genitori che intendono acquistare un immobile al figlio, invece di intestare

l’immobile prima a se stessi e poi donarlo al figlio, con un’operazione che di fatto è sicuramente più semplice, senza porsi tanti problemi successori o di diritto di famiglia, consegnano a questi la somma di danaro affinché sia utilizzata per pagare il prezzo dell’acquisto immobiliare.

La questione rientra nel più generale problema del negozio indiretto, del collegamento

negoziale, degli atti di liberalità diversi dalla donazione e, quindi della donazione indiretta. Allo stato, l’orientamento costante della Cassazione (soprattutto dopo la sentenza a sezioni

unite del 5 agosto 1992 n.9282) , non condiviso da una parte della dottrina, ritiene che, ai fini successori (o più esattamente ai fini della collazione successoria) non si deve guardare a ciò che è fuoriuscito dal patrimonio del donante (il danaro), ma a ciò che costituisce il fine ultimo della liberalità: l’immobile; ciò adottando una soluzione non formalistica, fondata sullo scopo della donazione, avendo riguardo al collegamento funzionale tra l’elargizione del danaro ed il successivo acquisto dell’immobile.

La Cassazione con la sentenza n.15778 del 14 dicembre 2000 ribadisce il proprio

orientamento costante ed infatti dopo aver riaffermato il principio secondo cui si deve distinguere l’ipotesi della donazione diretta del danaro, impiegato successivamente dal figlio in un acquisto immobiliare, in cui ovviamente, oggetto della donazione rimane il danaro stesso, da quella in cui il donante fornisce il danaro quale mezzo per l’acquisto dell’immobile che costituisce il fine ultimo della donazione. Nel qual caso ci troviamo in presenza di una donazione (indiretta) dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto.

L’esclusione del bene immobile dalla comunione, ad avviso della sentenza in esame e nel

solco di altre sentenze emesse in precedenza (n.5310 del 1998; 4680 del 1998; 11327 del 1997; 4231 del 1997) può essere evinto da più di un elemento e, precisamente:

1) l’art.179 lett.b) esclude dalla comunione legale genericamente i beni oggetto di “atti di liberalità” e quindi anche quelli previsti dall’art. 809 c.c. tra i quali sono ricomprese le “donazioni indirette”;

2) la legge per includere un bene che proviene da un atto di liberalità (o successione ereditaria) nella comunione legale richiede un’espressa dichiarazione di volontà in tal senso del donante;

3) l’insussistenza di ragioni di ordine sistematico per escludere le donazioni indirette dalla stessa disciplina dettata per le donazioni dirette: la ratio della comunione legale è quella di rendere comuni i beni alla cui acquisizione abbiano contribuito (direttamente o indirettamente) entrambi i coniugi onde sarebbe iniquo ricomprendervi le liberalità, ancorché indirette, a favore di uno solo dei coniugi. E’ evidente che la soluzione della Cassazione, condivisibile sul piano della tutela sostanziale

dei diritti, va circoscritta ai rapporti interpersonali tra i coniugi, ma sicuramente non può essere utilizzata per intraprendere eventuali azioni di riduzione nei confronti dei terzi acquirenti in buona fede ovvero per opporre eccezioni a terzi creditori che hanno fatto affidamento sulle risultanze dei Registri dello Stato Civile e dei Registri Immobiliari.

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Su quest’ultimo punto sicuramente ci si può riallacciare all’indirizzo ultimo della Cassazione che ha considerato come valore primario, rispetto anche agli interessi dei coniugi in comunione legale, l’affidamento dei terzi all’interno del sistema della pubblicità legale immobiliare.

Se fosse ammissibile il contrario dovrebbe ritenersi che nessun acquisto immobiliare sarebbe

esente da incertezze sul vero titolare del bene sia perché è ben difficile che da un atto di acquisto risulti che il danaro proviene da una donazione indiretta ed in secondo luogo, perché anche se ciò risultasse, ma a mio avviso è solo un’ipotesi di scuola, non ci sarebbe nessuna certezza della verità della dichiarazione.

Nella panoramica delle fattispecie previste dagli artt.177, 178 e 179 c.c., una

regolamentazione speciale è dettata per gli acquisti compiuti dal coniuge professionista e dal coniuge imprenditore .

La problematica che si è sviluppata in tema di acquisti del coniuge imprenditore in regime di

comunione legale dei beni attiene, principalmente alla visibilità esterna dell’acquisto stesso e, quindi nei già ricordati aspetti di tutela del coniuge escluso e dei terzi.

In quest’ottica va inquadrata la problematica relativa all’applicabilità o non della procedura

prevista dall’art.179 lett.d) c.c. anche al coniuge imprenditore. Le questione, che attualmente ha un rilievo soprattutto storico, in quanto il problema

sembra abbia ormai avuto pacifica soluzione, anche alla luce della recentissima sentenza della Suprema Corte sul tema (la n. 18456 del 2005), riguardava il coordinamento tra l’art. 178 e l’art. 179 c.c. e, precisamente:

1) una prima tesi riteneva che la disciplina dell’acquisto da parte del coniuge imprenditore fosse contenuta interamente nell’art. 178 c.c. e, quindi che, bastasse la destinazione del bene acquistato a servizio dell’azienda per sottrarlo al regime della comunione legale immediata;

2) una seconda tesi, al contrario, riteneva, che l’esclusione dell’acquisto dalla comunione legale dovesse attuarsi attraverso il meccanismo previsto dall’art. 179 lett.d) e, quindi che occorresse, comunque la partecipazione all’atto del coniuge escluso. L’art. 178 c.c. si limiterebbe ad integrare il disposto dell’art. 179 prevedendo, a favore del coniuge dell’imprenditore, la comunione de residuo sui beni aziendali.

Entrambe le tesi ebbero autorevoli sostenitori: la prima tesi fu sostenuta dalla Corte di

cassazione nella sentenza 7060 del 1986, la seconda dal Consiglio di Stato in un parere datato sempre 1986 (il n.979).

La tesi del Consiglio di Stato faceva leva soprattutto su un’interpretazione estensiva del

termine “professione” contenuto nell’art. 179 lett.d), tale da ricondurla ad un concetto più generale includente ogni attività lavorativa svolta abitualmente, ivi compresa quella strettamente imprenditoriale.

Questa interpretazione, va chiarito, è stata sin dall’inizio poco condivisa ed attualmente ha

un interesse soprattutto storico nella ricostruzione dell’istituto, essendo nettamente prevalente l’interpretazione della Cassazione (che ha trovato conferma nella successiva sentenza n.4533 del 1997 in modo conforme un obiter dictum Trib. Monza 14 novembre 1988 e Trib. Piacenza 9 aprile 1991 e nella recentissima sentenza della Suprema Corte sul punto la 18456 del 2005) che distingue le due fattispecie:

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1) sia per il diverso ruolo che i coniugi rivestono al momento dell’acquisto del bene: il coniuge imprenditore è tenuto esclusivamente a destinare il bene all’esercizio dell’impresa, a conferirgli il carattere strumentale; il coniuge professionista, al momento dell’acquisto, invece, dovrà chiedere l’intervento anche dell’altro coniuge perché renda la dichiarazione prevista dall’ultimo comma dell’art.179 c.c.

2) sia per la posizione del coniuge dell’imprenditore rispetto al coniuge del professionista al momento dello scioglimento della comunione: per il primo si avrà la comunione de residuo, l’altro rimarrà, comunque escluso dall’acquisto.

I motivi per cui il Legislatore ha compiuto questa scelta di separare nettamente la posizione

del coniuge imprenditore rispetto alla posizione del coniuge professionista non sono di facile comprensione.

Alcuni interpreti segnalano il maggior valore dei beni di impresa e quindi l'opportunità che

allo scioglimento della comunione di essi si avvantaggi anche il coniuge non imprenditore; altri ancora sottolineano il carattere di investimento dei beni imprenditoriali e, quindi, nel quadro sistematico delle norme sulla comunione, sarebbe coerente che l’altro coniuge non ne fosse totalmente escluso, ma potesse goderne, seppure residualmente; non manca infine chi ha ravvisato nel tradizionale favore di cui godono le professioni intellettuali il vero motivo che ha indotto il legislatore della riforma ad escludere totalmente dal regime comunitario i (soli) beni professionali.

In realtà è difficile ricondurre ad un criterio di rigorosa logica sistematica la scelta del

Legislatore, tuttavia il dato normativo esiste e non può che essere applicato come tale. L’esclusione dalla comunione legale immediata dell’acquisto del coniuge imprenditore

dipende dall’effettiva destinazione senza che occorrano altre formalità. La soluzione, sebbene coerente con il dettato normativo, sicuramente pone degli interrogativi in ordine alla riconoscibilità da parte dei terzi, ed anche dell’altro coniuge, dell’esclusione del bene dalla comunione.

DESTINAZIONE – E’ interessante, quindi, soffermarsi brevemente sul requisito della

destinazione. Va subito precisato che la destinazione oggettiva, che comunque richiede un atto volitivo

dell’imprenditore, deve esistere sin dal momento dell’acquisto dell’immobile, non potendosi ammettere una destinazione successiva all’acquisto del bene a servizio dell’impresa.

Se così non fosse, si avrebbe: 1) un acquisto i cui effetti rimarrebbero sospesi, senza termine, fino al verificarsi

dell'oggettiva destinazione, 2) ovvero un acquisto immediato del bene alla comunione legale, ai sensi dell'at.177 lett.a)

e, quindi, una modifica del regime del bene stesso, in virtù di un atto di disposizione di un coniuge (la destinazione del bene all'impresa), in contrasto con l'art.180 c.c., il quale dispone che gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione (e l'atto di destinazione sicuramente sarebbe tale), relativamente ai beni oggetto di comunione, devono essere compiuti congiuntamente da entrambi i coniugi .

La tutela del terzo, pertanto, come affermato dalla Cassazione nella citata sentenza del 1986,

va risolta sulla base di altri principi: in particolare, qualora dall'atto risulti soltanto che un acquisto di bene immobile è stato compiuto da persona coniugata, soccorrerà la presunzione juris tantum che il bene è caduto immediatamente in comunione. Starà, dunque, a carico di chi

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pretende giovarsi della situazione differente dare la prova che tale situazione differente esiste davvero (titolarità esclusiva dell’imprenditore e comunione de residuo).

Naturalmente il coniuge imprenditore che ha interesse a far risultare che il bene è escluso

dalla comunione immediata, ai sensi dell’art. 178 c.c., avrà l’onere di farlo risultare dall’atto pubblico in modo da vincere la presunzione di acquisto del bene alla comunione ed eventualmente potrà anche chiedere la partecipazione del coniuge escluso in modo da conferire alla fattispecie una maggiore trasparenza.

E’ evidente che alla dichiarazione deve poi accompagnarsi anche la destinazione oggettiva,

altrimenti il coniuge imprenditore verrebbe ad arrogarsi il potere unilaterale di escludere un bene dalla comunione ad libitum, dunque, una modifica peraltro, unilaterale, della comunione legale.

L'eventuale falsità della dichiarazione resa comporterà l'inopponibilità al coniuge escluso

ed ai terzi interessati, dell'acquisto del bene secondo la normativa prevista dall’art. 178 c.c. (esclusione immediata e successiva comunione de residuo).

Il coniuge non acquirente ed i terzi interessati, dunque, nel caso di falsa dichiarazione da

parte del coniuge imprenditore, avranno l'onere di esperire tempestivamente un'azione di accertamento della proprietà e trascrivere la relativa domanda, per gli effetti di cui all'articolo 2653 n.1 c.c. ovvero, qualora il bene sia stato già alienato, chiedere il risarcimento dei danni subiti secondo i principi generali.

Quindi nella fattispecie disciplinata dall’art. 178 c.c. arbitro della circolazione del bene

immobile è soprattutto il coniuge imprenditore e sono di importanza fondamentale le dichiarazioni da lui rese all’interno dell’atto di acquisto.

COMUNIONE DE RESIDUO – Per quanto riguarda la comunione de residuo, prevista dasll’art. 178, va precisato che momento qualificante è lo scioglimento della comunione e non la cessazione della destinazione, e ciò costituisce una scelta di politica legislativa che si è tradotta in un dato normativo espresso.

Le soluzioni possibili, sugli effetti della comunione de residuo sui beni già oggetto di proprietà esclusiva, sono due:

Ø efficacia reale della comunione de residuo e, quindi ingresso automatico del bene nella titolarità dei due coniugi;

Ø efficacia obbligatoria della comunione de residuo e, quindi, maturazione di un diritto di credito del coniuge provvisoriamente escluso nei confronti dell’altro coniuge.

Le conseguenze applicative, aderendo alla prima soluzione, sono in termini di certezza, di

affidamento dei terzi e di tutela della libera iniziativa privata sicuramente gravi. Questa soluzione sarebbe soddisfacente ed appagante solo per il coniuge provvisoriamente escluso.

Per i terzi e per lo stesso coniuge imprenditore le conseguenze potrebbero incidere in modo

decisivo sulla sorte dell’impresa. La sottrazione di una quota di beni strumentali potrebbe avere per il coniuge imprenditore

connotati negativi che in alcuni casi potrebbero rendere estremamente difficile, se non impossibile, la continuazione dell’impresa; così come potrebbe avere effetti pregiudizievoli sui terzi che potrebbero aver fatto affidamento sui beni dell’imprenditore, secondo le risultanze dei Registri delle Stato Civile e dei Registri Immobiliari.

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Un equilibrato bilanciamento degli interessi del coniuge imprenditore, del coniuge escluso e

dei terzi fa preferire la seconda delle soluzioni proposte e, quindi, effetti meramente obbligatori per la comunione de residuo. In sostanza il coniuge non imprenditore al momento dello scioglimento della comunione maturerebbe nei confronti dell’altro coniuge un diritto al valore corrispondente alla quota del bene strumentale e mi sembra che questo sia anche l’orientamento espresso dalla Cassazione nelle sentenze sopra citate del 1986 e del 1997 in tema di acquisti da parte del coniuge imprenditore, laddove afferma il principio che l’operatività della comunione de residuo è comunque successiva al soddisfacimento dei creditori del coniuge imprenditore.

Di notevole interesse, per le analoghe e numerose problematiche che hanno dato luogo, in

tema di circolazione dei beni immobili, sono le vicende patrimoniali collegate alle crisi dei rapporti matrimoniali.

Mi riferisco soprattutto alle vicende relative alla individuazione del momento in cui si

scioglie il regime della comunione legale tra coniugi che si separano ed al regime patrimoniale che si instaura tra i coniugi nell’ipotesi della riconciliazione.

In questo caso i profili di incertezza coinvolgono in modo netto non solo i terzi e

l’affidamento che gli stessi hanno diritto di avere, visionando i registri dello Stato Civile ed i Registri Immobiliari, ma anche i coniugi stessi in un momento particolare della loro vita familiare in cui spesso non c’è spazio per ulteriori accordi o intese.

La norma di riferimento relativamente al primo profilo, quello della cessazione del regime

della comunione legale, è l’art.191 del codice civile il quale espressamente dispone che la comunione legale si scioglie per la separazione personale.

Gli interrogativi che si sono posti dottrina e giurisprudenza attengono: Ø al momento a decorrere dal quale i coniugi non sono più in comunione legale; Ø alla pubblicità da dare all’evento a tutela dell’affidamento dei terzi. Il secondo problema ha trovato la sua soluzione con l’entrata in vigore del D.P.R. 3

Novembre 2000 n. 396 che all’art. 69 espressamente dispone che negli atti di matrimonio si fa annotazione delle sentenze, anche straniere, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio; di quelle che dichiarano efficace nello Stato la pronuncia straniera di nullità o di scioglimento del matrimonio; di quelle che dichiarano efficace nello Stato la pronuncia dell'autorità ecclesiastica di nullità del matrimonio; e di quelle che pronunciano la separazione personale dei coniugi o l'omologazione di quella consensuale.

Prima dell’entrata in vigore di questa norma non si riteneva possibile l’annotazione a

margine dell’atto di matrimonio della separazione personale in virtù del principio della tassatività delle annotazioni a margine dell’atto di matrimonio sancito dall’art.133 del R.D. 9 luglio 1939 n.1238 e ribadito dall’art.453 c.c. per cui nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto già iscritto nei pubblici registri se non è disposta per legge, ovvero non è ordinata dall’autorità giudiziaria.

Si era ritenuto di applicare in via estensiva la normativa sulle annotazione previste per le

sentenze di divorzio sulla base del richiamo allart.23 della legge n.74 del 1987 che aveva disposto che fino all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile, ai giudizi di separazione personale, si applicavano, in quanto compatibili le regole di cui all’art4 della legge 898/1970, come modificato dalla stessa legge n.74.

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La norma, tuttavia, non aveva trovato alcuna applicazione pratica; anzi, la sua applicazione

era stata ritenuta, addirittura fuorvianti in assenza di una norma che prevedesse anche l’annotazione di una possibile riconciliazione (cass.12098/1998).

La questione, allo stato attuale, mi sembra possa considerarsi superata tenuto conto che il

coniuge che ha interesse a far conoscere ai terzi il proprio regime patrimoniale potrà effettuare l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio; in difetto nulla potrà essere opposto al terzo.

All’interno del sistema della pubblicità legale ciò è di importanza fondamentale in quanto

rispetto ai terzi sarà opponibile esclusivamente quanto annotato a margine dell’atto di matrimonio a nulla valendo eventuali dichiarazioni inserite nell’atto di compravendita e riportate nella nota di trascrizione, essendo pacifico che, relativamente al regime patrimoniale dei coniugi, le risultanze dei Registri Immobiliari hanno valore di mera pubblicità notizia, ma non sono idonee a fondare aspettative tutelate da parte dei terzi.

Va ricordato, peraltro, che le risultanze dei registri immobiliari, relativamente al regime del

bene si fonda non su accertamenti ufficiali o sull’esibizione di estratti anagrafici ma esclusivamente sulla dichiarazione del contraente. Inve ro, in base alla la lettera della norma (art. 2659 comma 1°, n°1), nella nota di trascrizione deve essere indicato il regime patrimoniale delle parti, “secondo quanto risulta da loro dichiarazione resa nel titolo o da certificato dell’ufficiale di stato civile”.

Probabilmente, è questo un caso in cui la diligenza del notaio, al di là degli obblighi di

legge, potrà esser fondamentale per evitare che ci siano disallineamenti tra situazione di fatto, pubblicità nei RR.II. e annotazioni a margine dell’atto di matrimonio.

Tornando invece al problema relativo al momento in cui cessa il regime della comunione

legale in presenza di una crisi del rapporto matrimoniale, le tesi proposte dalla dottrina e dalla giurisprudenza sono tre: secondo alcuni il regime della separazione dei beni aveva inizio con la semplice presentazione della domanda di separazione, secondo altri all’esito del tentativo di conciliazione che autorizza i coniugi a vivere separatamente, secondo altri ancora con l’omologa del provvedimento di separazione ovvero con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione.

Allo stato attuale sembra che vi sia una quasi unanime convergenza per la terza tesi che ha

trovato accoglimento anche nella giurisprudenza della suprema Corte (Cass. n.560/1990 e Cass.n. 12098/1998), in particolare nella prima delle due sentenze, espressamente si afferma che lo scioglimento della comunione legale dei beni fra coniugi si verifica, ex nunc, con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione (ed aggiungerei o con l’omologa del provvedimento di separazione) mentre non spiega effetti al riguardo il precedente provvedimento, con cui il Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art.708 c.p.c. abbia autorizzato i coniugi ad interrompere la convivenza.

LA RINCONCILIAZIONE TRA I CONIUGI - La precarietà della situazione che si

realizza con la separazione personale evidenzia l’ulteriore problema, nell’ambito della circolazione dei beni immobili, riferito al caso della riconciliazione.

In giurisprudenza la questione è stata affrontata da due recenti sentenze della Cassazione

(la n.11418 del 12 novembre 1998 e la n.18619 del 5 dicembre 2003) le quali hanno affermato il principio secondo il quale, posto che, ai sensi dell’art.191 c.c., la separazione personale dei coniugi costituisce causa di scioglimento della comunione dei beni, una volta rimossa con la riconciliazione

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tale causa, si ripristina automaticamente tra le parti il regime di comunione legale se esistente prima della separazione.

In dottrina la questione, invece, era stata variamente risolta, sostenendosi: Ø da alcuni Autori, che a seguito della riconciliazione viene automaticamente a ripristinarsi

il regime di comunione esistente prima della separazione, con efficacia ex tunc; Ø da altri, che per effetto della riconciliazione si realizza una nuova comunione legale,

senza alcuna retroattività (ex nunc); Ø da altri ancora, invece, si riteneva che tra i coniugi riconciliati non veniva meno il regime

di separazione dei beni in considerazione dell’impossibilità di collegare la reviviscenza della comunione legale alla riconciliazione che costituisce un evento spesso estremamente difficile da accertare da parte dei terzi, potendo realizzarsi, così come sovente si realizza, anche con comportamenti concludenti. In buona sostanza, ritenendo prevalente l’esigenza di affidamento dei terzi e di certezza della situazione giuridica patrimoniale della famiglia, si affermava che la separazione dei beni, che trae origine dalla separazione personale è reversibile solo con un’apposita convenzione matrimoniale che ripristina il regime della comunione.

La prima tesi, peraltro ampiamente minoritaria, è stata oggetto di critiche, a mio avviso

condivisibili, in quanto la riconciliazione, quale fatto sopravvenuto, non può cancellare effetti medio tempore prodotti dalla situazione che aveva determinato la cessazione della comunione.

La tesi preferibile, condivisa dalle citate sentenze della cassazione, è la seconda esposta, che

ritiene che la riconciliazione abbia l’effetto di ricostituire il regime della comunione legale con efficacia ex nunc.

Questa ricostruzione della norma è preferibile perché riconosce al regime patrimoniale della

comunione legale il ruolo di regime con valenza suppletiva, salvo diversa determinazione dei coniugi, in quanto perfettamente aderente ai valori che hanno ispirato il Legislatore della Riforma: uguaglianza tra i coniugi, tutela e riconoscimento del lavoro in qualunque forma esso sia svolto, riconoscimento di una parità di ruoli tra i coniugi nella produzione della ricchezza familiare. La separazione dei beni ponendosi come regime di carattere sussidiario, che si instaura al verificarsi di eventi particolari che non consentono la prosecuzione del regime della comunione legale ovvero a seguito di una libera scelta dei coniugi che intendono dar rilievo a situazioni contingenti che consigliano la scelta di un regime patrimoniale convenzionale, richiederebbe, cessato l’evento ostativo alla comunione legale, un’espressa volontà dei coniugi, da manifestare ne lle rigorose forme dell’atto pubblico ed alla presenza dei testimoni.

In questo quadro ricostruttivo, perfettamente coincidente con le motivazioni della Suprema

Corte, è ampiamente comprensibile ritenere che una volta cessata la causa che aveva originato lo scioglimento (o meglio la sospensione) del regime legale della comunione, quest’ultimo torni a spiegare tutti i suoi effetti.

Le critiche opposte alla prima delle due sentenze citate, affrontate anche dalla Cassazione

nella motivazione della sentenza stessa, sono riferite soprattutto alla difficoltà di riconoscimento da parte dei terzi dell’avvenuta riconciliazione, non appaiono decisive ed, almeno in parte, superate dai principi espressi dalla più recente sentenza della cassazione sul punto.

Invero, l’ostacolo a riconoscere un automatico ritorno al regime della comunione legale era

(ed in parte lo è tuttora) rappresentato dalla sua riconoscibilità esterna, posto che l’art. 157 c.c. dispone che i coniugi possono, di comune accordo, far cessare gli effetti della sentenza di

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separazione, con un’espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.

In presenza di una riconciliazione effettuata con dichiarazione espressa non sorgono

problemi di opponibilità ai terzi in quanto l’art. 69 del citato D.P.R. 3 Novembre 2000 n. 396 dispone: dispone che: Negli atti di matrimonio si fa annotazione: (…) delle dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione; (…). Quando, invece, ci troviamo in presenza di una riconciliazione che deriva da un comportamento di fatto non esternata in una espressa dichiarazione assume piena evidenza la problematica relativa alla tutela del terzo e dell’affidamento che il terzo può fare in ordine alle risultanze delle annotazioni a margine degli atti di matrimonio.

L’onere che può essere chiesto al terzo è quello di verificare eventuali annotazioni a margine

dell’atto di matrimonio. Certamente non potrà essere chiesto al terzo di verificare e valutare se i coniugi hanno posto in essere comportamenti incompatibili con lo stato di separazione.

In quest’ottica, la Suprema Corte nella sentenza n. 18619 del 2003 afferma che in assenza di

una segnalazione esterna dell’evento riconciliativo, il ripristino della comunione legale non è opponibile ai terzi, poiché operano le norme generali che governano la pubblicità delle vicende giuridiche a tutela dei terzi.

La riconciliazione, in mancanza di una annotazione a margine dell’atto di matrimonio, avrà

effetti, dunque, esclusivamente nei rapporti interni tra i coniugi, mentre riguardo ai terzi andrà tutelata la situazione apparente, conoscibile attraverso l’esame dei Registri dello Stato Civile e ciò mi sembra tanto più equo dal momento che con l’entrata in vigo re del DPR n.396 del 2000 sopra richiamato è possibile dare pubblicità alla riconciliazione mediante l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio.

Annotazione che riguarderà, naturalmente l’intervenuta riconciliazione e non il regime

patrimoniale, posto che la comunione legale si ripristinerà ope legis quale effetto espansivo della soluzione della crisi matrimoniale e non quale scelta di un nuovo regime patrimoniale.

Aprile 2009 Notaio Marco Krogh