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Università Iuav di Venezia DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE E PIANIFICAZIONE IN AMBIENTI COMPLESSI CORSO DI LAUREA IN URBANISTICA E PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIO cultura della valutazione 2015-2017 lezione 1 introduzione alla valutazione come filosofia pratica revival dell’approccio evidence-based in attesa della ‘rugiada’ ermeneutica argomenti: valori, proposizioni valutative, giudizi e responsabilità prof. Domenico Patassini

cultura della valutazione - iuav.it · lezione 1 introduzione alla valutazione come filosofia ... scientifico’ sarebbe connaturato all’essenza stessa della scienza, ... della

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Università Iuav di Venezia DIPARTIMENTO DI

PROGETTAZIONE E

PIANIFICAZIONE

IN AMBIENTI COMPLESSI

CORSO DI LAUREA

IN URBANISTICA

E PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIO

cultura della valutazione

2015-2017

lezione 1 introduzione alla valutazione come filosofia

pratica

revival dell’approccio evidence-based

in attesa della ‘rugiada’ ermeneutica

argomenti: valori, proposizioni valutative, giudizi

e responsabilità

prof. Domenico Patassini

Premessa

La valutazione può essere veicolo di intelligenza o di stupidità, di cultura o di ignoranza, a prescindere

dagli approcci, dai metodi, dalle tecniche e dallo stesso ruolo attribuito al valutatore. La sua utilità

sembra dipendere da una ‘giusta distanza’ dell’azione valutativa rispetto all’opportunità sociale (sia

essa oggetto o relazione): distanza che consentirebbe di avere una visione capace di abbracciare il

dettaglio e il contesto, scoraggiando ogni semplificazione. Come avremo modo di scoprire, la

valutazione è una sospensione, una pausa intenzionale: estranea, nel senso di esterna, quando si cerca a

tutti i costi l’evidenza in un oggetto; interna, quando non si abbandona, o si pretende di abbandonare,

l’interazione sociale.

A seconda delle circostanze, le pratiche valutative si pongono a distanze diverse e sono più o meno

consapevoli della loro giustezza. Le distanze possono essere considerate la principale fonte

dell’itinerario proposto da questo testo: un itinerario che oscilla, come vedremo, fra le due sponde

appena intraviste.

Il testo intende, infatti, ridimensionare i discutibili (e diversamente motivati) revival della valutazione

basata sull’ evidenza (evidence-based, EV), cercando di verificare il possibile contributo dell’approccio

ermeneutico o, come più comunemente definito, della valutazione basata sulle pratiche (practice based,

PV)1. Mentre per EV è sufficiente testare e dimostrare l’evidenza di una ipotesi, mettendo all’opera

modelli analitico-interpretativi su ‘oggetti’, PV costruisce l’oggetto e la sua interpretazione

nell’interazione sociale, evitando soluzioni consolatorie, artifizi e immotivate interruzioni del processo.

PV trae paradossalmente spunto da una evidenza propria delle relazioni sociali contemporanee: il loro

essere ‘dato ambientale’ più che esigenza morale2. L’apertura all’altro si presenta come atto dovuto non

per generosità, ma per necessità, per l’infinita diversità che aggiorna l’ambiente di vita. Rinunciarvi

non è superbia o intolleranza, non è appunto questione morale, ma, semplicemente, confinamento,

negazione di se stessi, solitudine. La rinuncia è stanchezza di vivere3, una sorta di resa, incapacità di

evadere dalla sterilità di routine, solo in parte evitabile con l’indifferenza o la discrezione: i valori

verrebbero riconosciuti (misconosciuti) e attribuiti (negati) in modo interlocutorio, quasi ‘sommesso’;

non si metterebbero a disagio gli altri e non si presterebbe il fianco a osservazioni4.

L’apertura è un riconoscimento di sé e una condizione per ogni tipo di azione, compresa la valutazione.

Ma per riposizionare PV nelle pratiche valutative occorre misurarsi con la indeterminatezza e la

parzialità delle relazioni sociali (in un mondo oggi iper-connesso), con diverse forme dialogiche e

l’inevitabile inerzia dei dialoganti, riconoscendo senza indugio la scomoda posizione del valutatore.

Il revival di EV

Gli argomenti addotti per provare l’evidenza si fondano generalmente sull’idea che ‘ogni cosa esistente

deve avere una causa’. Come rileva H Arendt, questa idea non è ‘specifica dal punto di vista

naturalista’ in quanto ‘il naturalismo cerca di dimostrare che tutti gli eventi hanno cause ‘naturali’, ma

1 Si deve a T A Schwandt la dizione qui sintetizzata in PV ed EV e allo stesso autore l’utilizzo della ‘evidenza nella

valutazione’ come spunto critico. Questo spunto acquista forza quando l’autore si apre all’approccio ermeneutico; si

indebolisce quanto tratta la valutazione come professione. Acquista forza in T.A. Schwandt, 2002, Evaluation practice

reconsidered, Peter Lang, New York, mentre sembra indebolirsi in T.A. Schwandt, 2015, Evaluation foundations revised.

Cultivating a life of the mind for practice, Stanford University Press. Notando questa questa oscillazione, che potrebbe

sembrare contraddittoria, ho potuto sviluppare le principali tesi contenute nel testo. T A Schwandt è stato allievo di Egon G

Guba e insegna filosofia all’Università dell’Illinois, Urbana-Champaign, Usa. 2 M Gauchet, 2010, La democrazia da una crisi all’altra, Ipermedium Libri. 3 P Handke, 2000, Saggio sulla stanchezza, Garzanti, Milano. 4 Sul vivere discreto vedi P Zaoui, 2015, L’arte di scomparire. Vivere con discrezione, Il Saggiatore; D Le Breton, 2016,

Fuggire da sé, Raffaello Cortina Editore e la novella sul personaggio Baratto in G Celati, 2016, Quattro novelle sulle

apparenze, Feltrinelli, Milano.

considera il principio di naturalità come un assunto’5. Non è questa una affermazione di poco conto dal

momento che il principio di causalità ha giocato e gioca un ruolo cruciale nella valutazione e non

soltanto in essa. Questo principio si contrappone al principio contrario che nega l’esistenza di catene di

causalità e che parte ‘dall’assunto del carattere accidentale e coincidenziale di tutti gli eventi’. Se si

assume la causalità come principio valido diventa necessaria la ricerca di una dimostrazione e ‘il

problema di tali dimostrazioni è sempre il solito, come ha notato Kant: non è possibile dimostrare

l’esistenza di un fatto attraverso una deduzione logica; allo stesso modo, non è neppure possibile

mostrarne la non-esistenza…Un ‘approccio scientifico’ che si ritenga in grado di svolgere questi

compiti, in realtà non è altro che un punto di vista viziato da una superstizione acritica…L’ ‘approccio

scientifico’ sarebbe connaturato all’essenza stessa della scienza, che è innanzitutto interessata ai fatti; la

nostra informazione sui fatti non solo è limitata, ma le risposte alle domande sui fatti più importanti che

concernono la condizione umana e l’esistenza in generale vanno oltre la conoscenza e l’esperienza

fattuale’6.

Il revival di EV si presenta con una certa convinzione e determinazione in diversi settori e contesti,

come evidenziano studi, ricerche e pratiche, e rinvia ad alcuni aspetti solo apparentemente non

correlati. Senza pretese di completezza ci si limita ai più significativi: la forza degli enunciati

performativi; l’attenzione esclusiva al risultato; l’ ‘ignoranza dei poteri’ dominanti; l’assunzione del

denaro come simbolo del bene; l’impotenza dell’etica (‘rivelata’ e non) nei confronti della tecnica,

ovvero la subordinazione dei fini ai mezzi che rendono possibili risultati ‘inimmaginabili’; il diktat

della trasparenza e della contabilità accompagnato alla obsolescenza della fiducia; l’imporsi del

paradigma della complessità come rappresentazione della ‘società del rischio ’; l’autoreferenzialità

della politica, la modifica del concetto di azione pubblica e le opportunistiche forme di legittimazione

dello Stato; il riemergere della battaglia redistributiva. Due aspetti riassuntivi alla base del revival di

EV riguardano la cosiddetta ‘fine della teoria’ e l’aumentata plasticità del linguaggio.

In How to do things with words7 il filosofo del linguaggio J L Austin sviluppa la teoria degli enunciati

performativi. Si tratta di enunciati in cui il solo dire rende vero o verosimile ciò che si dice. Essi

sembrano descrivere un’azione quando, in realtà, la compiono, rispettando alcune condizioni: esiste

una procedura convenzionale che prevede il proferimento dell’enunciato; le circostanze devono essere

appropriate; la procedura viene eseguita in modo corretto e completo; le condizioni (anche

psicologiche) di chi esprime l’enunciato sono coerenti a quanto previsto dalla procedura e conformi alle

aspettative. Questa teoria evidenzia l’importanza del linguaggio che, come vedremo più avanti, tende a

legittimare sub-culture valutative.

Il pensiero occidentale, nelle forme ‘positiviste’ e ‘realiste’, ci abitua a privilegiare il risultato

indipendentemente dal processo che lo genera. I tempi di maturazione e permanenza di un processo

vengono ritenuti ‘ostacoli’ da eliminare, ridurre o, peggio, scardinare, quando invece sono le

interazioni sociali con i loro tempi e modi a dare senso all’azione. Cancellando o riducendo il tempo a

scansione ne perdiamo ogni cognizione

Nella sua ultima fatica8, P Leon evidenzia i limiti dei modelli standard di indagine economica,

cogliendo con finezza i rapporti fra profitto e accumulazione, fra questi e la distribuzione del reddito e

della ricchezza. Quest’ultima, ‘conseguenza macroeconomica’ della accumulazione in un mondo

finanziarizzato oltremisura, sarebbe ignota agli operatori pubblici e privati, e incompresa

dall’ortodossia economica. Quando ‘la causa della caduta non origina nel mercato, ma nella

5 ‘Hanna Arendt e la banalità della scienza’, La Repubblica, 4/2/2017, testo trattao da Partisan Review (1950) e riprodotto

in Micromega, febbraio 2017. Il ‘naturalismo’ viene declinato come positivismo, materialismo dialettico o pragmatismo. 6 Ivi. 7 Il testo raccoglie le lezioni tenute ad Harvard nel 1955, pubblicate postume una prima volta nel 1962 e in edizione riveduta

nel 1975. La più affidabile traduzione italiana è del 1987. 8 P Leon, 2016, I poteri ignoranti. Ascesa e caduta dell’economia dell’accumulazione, Castelvecchi, Roma.

distribuzione del reddito e dell’accumulazione, gli eventi hanno natura collettiva, riguardano

l’economia nel suo complesso, e perciò diventano imprevedibili…e questo è un buon esempio di

incertezza fondamentale, non riconducibile ad aspettative soggettive’, quelle studiate dalla Scuola di

De Finetti e da quella Bayesiana9. Ignorare la domanda effettiva, anche quando è evidente l’inefficacia

della politica monetaria, è segno di ignoranza e non volontà di agire con la spesa pubblica. E’ questa

una evidenza che prende forma se la riduzione del deficit avviene utilizzando il mercato finanziario:

‘con nuove privatizzazioni, ad esempio, che restituiscono al mercato (oligopolistico) servizi, e mentre

si arricchiscono gli stati patrimoniali, crescono anche i profitti, prima rappresentati dai benefici sociali

delle attività pubbliche, e con questi i conti economici’10. Leon ricorda che ‘nel prodotto nazionale i

benefici sociali delle attività pubbliche non appaiono, perché la contabilità nazionale misura

quell’attività con i suoi costi, data l’assenza di ricavi; di conseguenza, la privatizzazione traduce quei

benefici in prezzi di mercato e in profitti, facendo crescere una sorta di prodotto nazionale nominale.

Analogo, ma in senso opposto, è il caso dei costi sociali, anch’essi non quantificabili nella contabilità

nazionale’11. La presunta evidenza (certo più condivisa di qualsiasi tentativo di dimostrazione

contraria) è che ogni tipo di intervento pubblico generi più costi che benefici.

In quanto simbolo del bene, il denaro diventa più importante dei beni, perde la forza ‘liberatrice’ che ha

avuto storicamente nel riscatto dello schiavo e nella oggettivazione dei rapporti di produzione. Non

solo: diventando fine ultimo, condiziona se e come riconoscere i bisogni, come trasformarli in domanda

e come, eventualmente, soddisfare quest’ultima; obbliga i prezzi di mercato a logiche consumistiche e a

regole di obsolescenza programmata; rafforza posizioni nichiliste proprio perché ‘il rapporto

produzione-consumo che regge il mercato prevede che tutte le cose siano portate al nulla nel tempo più

rapido possibile’12. Anche il più sublime, spirituale ed eccelso espresso da un paesaggio, da un’opera

d’arte o da un monumento della storia diventa riconoscibile se entra nel mercato, se viene caricato di

‘valore di scambio’, se viene definito ‘utile’, a prescindere dal giusto, dal buono, dal vero, dal santo. Il

pensiero si rattrappisce al ‘far di conto’, all’imperversare del value for money.

Ciò che caratterizza il presente non è tanto la presunzione di controllare la Natura, ma sono i metodi

scientifici predisposti per guidare la vita sociale. ‘La tecnica, come universo di mezzi, è riuscita più di

qualsiasi altra espressione apparsa nella storia a trasformare i mezzi in fini’ e, come ricorda U

Galimberti13, un limite provvisorio alla tecnica è oggi costituito dall’economia ‘a cui da tempo la

politica14 ha ceduto il suo potere decisionale’. Se economicamente vantaggiose, le innovazioni

tecniche/tecnologiche vengono assecondate indipendentemente dai valori etici. Inoltre, ‘la capacità

della tecnica di “fare” è enormemente superiore alla nostra capacità di “prevedere”, siamo tornati

all’angoscia che i primitivi provavano davanti all’imprevedibile…e il problema che si pone…non è che

cosa possiamo fare noi con la tecnica, ma che cosa la tecnica può fare di noi’15.

9 Ivi, p. 49. 10 Ivi, p. 55. In questa direzione sembrano andare anche alcuni modelli di business che tendono alla politicizzazione del

mercato. 11 Ibidem. Si può dire che ‘nell’economia non sia successo veramente nulla con la privatizzazione (c.d.a.), perché ciò che

era ottenuto attraverso le tasse o il debito pubblico, ora è ottenuto con le vendite ai prezzi sul mercato’, Ivi, p. 55. Non è

invece cresciuta la domanda effettiva e diverse politiche pubbliche sono state indebolite sul piano sociale, ambientale,

territoriale, redistributivo o della stessa innovazione. 12 U Galimberti, ‘Quanto vale il denaro? ’, D la Repubblica, 15/10/2016, p. 218. 13 U Galimberti, ‘No, non saranno i filosofi a salvare l’umanità’, D la Repubblica, 23/7/2016, p.106. 14 Il riferimento è all’occupazione dello ‘spazio politico’ (polity), al ‘gioco di potere’ (politics) e all’ ambito delle ‘politiche

pubbliche’ (policy). 15 U Galimberti, ‘Che progresso è se fa a meno degli uomini? ’, D la Repubblica, 20/8/2016, p.106. Il tema affrontato da

Galimberti rinvia alla ‘razionalità tecnica’ e al lavoro di G Anders, L’uomo è antiquato.

L’evidenza sta dunque nella disponibilità di mezzi e nell’incapacità di prevedere, nell’insensibilità

individuale che può tradursi in irresponsabilità collettiva. Così, viene messo a dura prova il presupposto

umanistico secondo cui sta all’uomo decidere se e come utilizzare la tecnica/tecnologia.

‘ Ai cacciatori d’informazione le istanze del potere appaiono come barriere per le informazioni: per

questo la loro strategia è pretendere trasparenza’16. Diversamente dai media analogici, quelli digitali

‘pretendono’ una comunicazione simmetrica, perché il destinatario è anche fonte di informazione. La

trasparenza, declinazione dell’evidenza, appare così biunivoca e costitutivamente ambigua. Perde il suo

carattere narrativo: ‘rende trasparente, ma non è illuminante’17. Inoltre, ‘l’imperativo della trasparenza

genera una potente costrizione al conformismo…induce la sensazione di essere osservati’18. Il suo

‘effetto panottico’ porta ad un ‘livellamento della comunicazione o alla ripetizione dell’Uguale’19,

rende obsoleta e inutile la fiducia20. L’alleato più fedele della trasparenza è, dunque, il digitale che

‘totalizza l’additivo, il contare e il contabile’21. Non è forse evidenza la quantità di ‘sì’ o di ‘mi piace’?

E non lo sarebbero anche i ‘no’ e i ‘non mi piace’, nonostante vengano ritenuti ‘giudizi’ poco inerziali

dai big data? La contabilità denigra la narrazione, così come l’informazione (cumulativa e additiva) si

contrappone alla verità (esclusiva e selettiva). E così ‘il narrativo perde notevolmente di significato:

oggi tutto viene trasformato in qualcosa di contabile, per poter essere tradotto nel linguaggio della

prestazione e dell’efficienza. Così, tutto ciò che non è contabile cessa di essere’(c.d.a.)22. Ci si

allontana anche dalle più banali verità. Un ulteriore balzo nella direzione della coincidenza fra essere e

informazione viene favorito da protesi sempre più invasive, come i Google Glass anche se non

garantiscono la soddisfazione percettiva. ‘La soddisfazione più profonda nella percezione, nel vedere,

consiste…nell’inefficienza: nasce dallo sguardo prolungato che si sofferma sulle cose senza

sfruttarle’23. La tendenza all’ostensione e all’esposizione, essere in vetrina ed essere trasparenti, sono

sia imperativi che pratiche di depoliticizzazione che vanno ben oltre la spettacolarizzazione

dell’evidenza. Già agli inizi del secolo scorso (il XX) con W Benjamin e altri si ‘inizia a collegare le

fantasmagorie della trasparenza alle mire della società amministrata’24.

Il paradigma della complessità influisce sui modi di vedere le cose e sui comportamenti, ma con

aggiornati modelli cognitivi e di apprendimento tende a riabilitare l’approccio sistemico nella

mappatura delle interazioni sociali. Le nuove tecnologie ridefiniscono a velocità crescente i confini fra

creatività e routine (con implicazioni di grande momento sull’organizzazione, la divisione e il senso del

lavoro umano), ma tendono anche ad avvicinarci alla ‘singolarità’, ovvero al momento in cui

l’intelligenza artificiale supererà la nostra, o costringerà i diversi tipi di intelligenza a inedite forme

negoziali. La riabilitazione generalizzata dell’approccio sistemico, anche nelle forme più reticolari,

flessibili e adattative, sembra spingere verso la prospettiva EV. Ed è qui che emerge un paradosso. Il 16 Byung-Chul Han, 2015, Nello sciame. Visioni del digitale, Figure Nottetempo, Roma (ed. or. 2013, Berlino), p. 58. 17 Ivi, p. 69. 18 Ivi, p. 33. 19 Ibidem. 20 ‘Così la società della trasparenza presenta una prossimità strutturale alla società della sorveglianza: dove le informazioni

possono essere procurate in modo estremamente facile e veloce, il sistema sociale passa dalla fiducia al controllo e alla

trasparenza. Da qui deriva la logica dell’efficienza’, ivi, p.88. L’efficienza è da intendersi come rendimento delle

informazioni. Diversamente dal panottico di Bentham, il panottico digitale controlla mediante la connessione in rete e

l’iper-comunicazione. E ciò è reso possibile dall’auto-sfruttamento che si accompagna all’illusione di libertà. ‘Il panottico

digitale non è una società disciplinare biopolitica, ma una società della trasparenza psicopolitica: al posto del biopotere

subentra la psicopotere (c.d.a.)’, ivi, p. 95. Vedi Byung-Chul Han, 2016, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche

del potere, Nottetempo, Roma (ed. or. 2014 Berlino). 21 Byung-Chul Han, 2015, p.52. 22 Ibidem. 23 Ivi, p. 60. 24 Vedi R Donati, 2016, Critica alla trasparenza, Rosenberg&Sellier e la recensione di M Gatto, ‘L’immaginario fantastico

della società amministrata’, il Manifesto, 3/9/2016.

dispositivo (apparato) digitale opera con modalità semplificate di input-output e, marginalizzando ogni

forma di negatività, impedisce di pensare in maniera complessa25. A fronte di un considerevole e

veloce aumento della complessità sembra ridursi la capacità di interpretazione mentre aumenta la

‘delega’ all’artificiale.

Le democrazie occidentali soffrono di un deficit di legittimità che tende ad aggravarsi con la frattura

che si è aperta fra valori e norme26. Il principio di legalità può regolare i comportamenti mediante

sanzione, ma non riempie ‘ il bisogno simbolico di valori universali cui le stesse leggi devono

adeguarsi. A questa esigenza, non esaudita dalla legalità, risponde il principio di legittimità’. Ma con la

sua secolarizzazione27, il criterio di legittimità si riduce al ‘rispetto delle regole formali della

democrazia rappresentativa’ e tende ad identificarsi con la legalità. Ciò contrasta con la legittimazione

come processo. Infatti, ‘essa non serve solo a giustificare i significati già costituiti, ma anche ad

integrarli con le nuove esigenze che salgono dalla società’.28 Si aggiusta continuamente la relazione fra

rappresentatività, legittimità e governabilità.

Una eventuale democrazia digitale non può basarsi sulla positività della rete, in una sorta di smart

policy (o, meglio, polity) incapace di cogliere il senso della disintegrazione e della riformulazione dei

concetti di ‘pubblico’. Ammettere la negatività significherebbe ripensare al discorso sulla (della)

democrazia con esiti abbastanza incerti. I nessi fra politica, dominio pubblico e legittimazione dello

Stato configurano nuovi orizzonti. Una politica sempre più autoreferenziale e ‘liquida’ cerca di

catturare le partizioni più dense della interazione reticolare, ed essendo queste effimere lo diventano

anche la politica e le forme-partito. Queste dinamiche, disancorate da principi e ideologie, sono attivate

da occasioni e linguaggi mediatici e aggiornano continuamente l’agenda politica. I temi vitali

dell’occupazione, del welfare, delle diseguaglianze, ecc. diventano ostaggio di ponderazioni ad hoc e di

approcci distributivi. Non solo: contribuiscono a definire ciò che volta per volta viene ritenuto un

plausibile concetto di ‘pubblico’. Questo continuo aggiornamento genera reazioni diverse. Vi è chi lo

ritiene causa della ciclica decadenza della sfera pubblica e chi lo ritiene invece una opportunità per

interpretare ciò che sta accadendo oggi e per ridefinire in modo plurale i concetti di pubblico. In

condizioni simili lo Stato e l’amministrazione pubblica in generale vengono messi sotto stress nella

25 Byung-Chul Han, 2015, Nello sciame. Visioni del digitale, cit., p. 37. Citando l’Heidegger della macchina da scrivere,

l’autore ricorda che ‘il pensare è un lavoro manuale: perciò l’atrofia digitale della mano atrofizzerebbe lo stesso pensare’. E

osserva ‘come Heidegger sottragga in modo tanto deciso la mano all’agire e l’accosti al pensiero: non l’ethos, bensì il logos

ne definisce l’essenza … logos come habitus del contadino, che coltiva il linguaggio come un campo, lo ara e lo dissoda,

comunicando così con la terra chiusa che si nasconde, ed esponendosi alla sua imprevedibilità e alla sua velatezza’, ivi, p.

54. Il digital turn richiederebbe una nuova antropologia. 26 R Esposito, ‘Povere democrazie in cerca d’autore’, la Repubblica, 17/8/2016. 27 Per Hobbes la legittimazione del potere statale si fonda su un patto istitutivo, per Locke sul consenso dei governati,

concetto questo criticato da Rousseau in quanto potrebbe legittimare la tirannia. Con ‘la rivoluzione francese il principio di

legittimità tende a coincidere con la volontà popolare, diventando un prerequisito dei sistemi politici democratici senza più

rapporto con la sua origine sacrale’. Max Weber riconosce ‘tre forme di legittimità: la tradizione dell’eterno ieri, il dono di

grazia del capo carismatico e la fiducia razionale nella legge’. Rimasta la terza, ‘ si è cominciata ad appiattire l’autorità sul

potere e la legittimità sulla legalità’. Già Carl Schmitt riconosceva come ‘lo svuotamento dell’autorità a favore della pura

legalità finisce per autonomizzare il sistema politico dalle esigenze dei governati’. E’ una minaccia per la democrazia

‘sempre più schiacciata su un versante di pura amministrazione’, ridotta a ‘tecnica formale’. Ciò viene ‘praticato’ riducendo

la legittimità alla governabilità. In molte democrazie parlamentari la legittimità coincide con la legalità. Niklas Luhmann

arriva a riconoscere la legittimazione come ‘adattamento dei cittadini alle procedure tecniche dei sistemi sociali’. In queste

tendenze dissolutive dovute alla sostituzione del principio di legalità con quello di legittimità, o al suo assorbimento nella

legalità, il diritto tende a perdere ogni rapporto con la giustizia. Sul tema vedi G Agamben, Crisi della legittimità e

ipertrofia della legalità, Il mistero del Male, Benedetto XVI e la fine dei tempi (Laterza) e P Ignazi, Forza senza legittimità.

Il vicolo cieco dei partiti (Laterza). Vedi R Esposito, cit. passim. 28 R Esposito, cit. passim.

loro architettura ma, soprattutto, nel loro funzionamento29. L’amministrazione pubblica, trovandosi fra

‘effimero’ ed interessi economico-finanziari consolidati, diventa sempre più vulnerabile ed

opportunista trascinando la stessa valutazione in pericolose avventure.

Secondo Byung-Chul Han, la decadenza (scomparsa) della sfera pubblica avviene per mancanza di

rispetto. ‘La sfera pubblica presuppone, tra le altre cose, che si distolga rispettosamente lo sguardo dal

privato: il prendere le distanze è costitutivo dello spazio pubblico’30. Ma queste distanze vengono

ridotte, se non annullate, dal fatto che ‘la connessione digitale favorisce la comunicazione

simmetrica’31. In assenza di distanza si forma una ‘commistione di pubblico e privato’ che, oltre a

ridefinire entrambi, muta radicalmente il ruolo della amministrazione pubblica e dello Stato in

particolare. Se la simmetria e il connesso ‘reflusso comunicativo’ sono pericolosi per il potere, la cui

comunicazione procede dall’alto al basso, lo diventano anche per l’amministrazione pubblica che, per

quanto democratica, si dovrebbe porre ‘un tantino sopra’. D’altro canto, se lo Stato (nelle sue diverse

concezioni giuridiche e declinazioni pratiche) deve legittimarsi (reinventarsi) nei confronti di nuovi

‘pubblici’ e nuove domande (terrorismo, diritti umani, corruzione, migrazioni, finanza, diseguaglianze,

clima, ecc.), arretrando in domini da tempo frequentati (quello del welfare sociale, fra tutti), deve

dimostrare le sue capacità operative quasi in tempo reale. In un mondo interconnesso e sempre più

predisposto al controllo, l’efficacia non può che essere nella Rete, o in sue selettive partizioni, ma

comunque sistemica e glocal.

Riconosciute o ignorate, le questioni distributive sono da sempre strategiche nelle politiche economiche

e sociali. Esse hanno messo al centro dell’attenzione genesi ed effetti della diseguaglianza in diversi

momenti storici: soprattutto a cavallo fra XIX e XX secolo, e negli anni ’60 e ’70 del XX. In entrambi i

casi questa attenzione venne contrastata da liberismo e neo-liberismo, ben consapevoli del trade-off fra

efficienza ed equità. Veniva ad imporsi il dogma della crescita secondo il quale ‘quando sale, la marea

alza tutti i battelli, grandi e piccoli’. Questo dogma, espresso con metafora di cattivo gusto, si è infranto

contro l’evidenza dell’effetto depressivo della diseguaglianza32. Non solo: l’eccesso di diseguaglianza

contribuirebbe alla cosiddetta ‘stagnazione secolare’ e al blocco della crescita. L’attenzione alla

diseguaglianza perderebbe così il suo connotato ‘ideologico’, legittimando modelli diversi, come quello

della decrescita e ridando fiato a politiche redistributive33.

29 Siamo oramai lontani dall’occupazione partitica dello Stato denunciata da E Berlinguer all’inizio degli anni ’80 del secolo

scorso, vedi intervista di E Scalfari in parte riproposta in ‘La questione morale’, La Repubblica, 28/7/2016. Oggi ‘la crisi

delle figure della rappresentanza politica e dei corpi intermedi pone all’ordine del giorno la questione della creazione di

nuove istituzioni’, M Guareschi, ‘L’impotenza della specie’, il Manifesto, 3/9/2016, p. 10. 30 Byung-Chul Han, 2015, cit., p. 11. 31 Ivi, p. 14. Si tratta comunque di un impoverito concetto di simmetria, perché la comunicazione è azione

multidimensionale. Lo stesso Byung-Chul Han dice: ‘nella comunicazione la componente verbale è assai limitata: la

comunicazione umana è costituita da forme di espressione non verbali come la gestualità, la mimica facciale o il linguaggio

del corpo, che le conferiscono tattilità. Con il tatto con s’intende il contatto corporeo, bensì la pluridimensionalità e la

polistratificazione della percezione umana, cui concorrono anche altri sensi oltre alla vista. Il medium digitale priva la

comunicazione della tattilità e della corporeità’, ivi, pp. 36-37. 32 T Piketty, 2014, Capital in the twenty-first century, The Belknap Press of Harvard University Press. 33 Nei primi anni del XXI secolo vengono effettuati approfonditi studi empirici sulla diseguaglianza, in termini ‘prospettici’

e non soltanto storici. Un esempio è il recente rapporto del McKinsey Global Institute, 2016, Poorer than their parents? A

new perspective on income inequality. Sulle diseguaglianze a livello nazionale influirebbero i rapporti di forza sociali (ad

esempio, il grado di sindacalizzazione della forza-lavoro), le normative a protezione dei salari reali, l’orario di lavoro, le

assunzioni a tempo determinato nei settori dei servizi pubblici per contrastare disoccupazione e privatizzazioni, incentivi

fiscali per le assunzioni di giovani e disoccupati nel lungo periodo, il contenimento degli oneri sociali e del cuneo fiscale per

le imprese, la stessa evasione fiscale e la spesa pubblica. Vi sarebbe anche una relazione fra debito (pubblico e privato) e

diseguaglianze. Verrebbe così confermata l’efficacia della ricetta keynesiana che riconosce nello Stato l’unico soggetto in

grado di tenere in vita il sistema capitalistico. Se i poteri dello stato vengono disattivati, in tutto o in parte, le diseguaglianze

tenderebbero inevitabilmente a crescere. Il rapporto McKinsey evidenzia come i paesi con più autonomia nel decidere

E veniamo alla presunta ‘fine della teoria’, forse l’aspetto più saliente del revival EV. Nel capitolo

conclusivo dedicato alla psicopolitica34, Byung-Chul Han rinvia ad un articolo di C Anderson,

caporedattore di Wired, dal titolo The end of the theory: the data deluge makes the scientific method

obsolete35. Con un discutibile riferimento a tre articoli del 1976, del 1978 e del 1987 scritti dallo

statistico Box36, Anderson dichiara che l’odierna disponibilità di dati, di diversa genesi e fonte, rende

superflui i modelli teorici orientati a test di ipotesi causali e alla previsione. La semplice correlazione

potrebbe sostituire la causalità e, con essa, ogni sforzo tassonomico, ontologico o psicologico. I modelli

teorici compenserebbero la mancanza di dati e si legittimerebbero solo in loro assenza o in condizioni

di evidente scarsità. I modelli comportamentali di consistenti popolazioni (comprese le interazioni con

le cose) sarebbero ricavabili dall’utilizzo di big data, configurando così una sorta di psicopolitica

digitale per certi versi affine alla psico-storia di I Asimov che di quei dati faceva uso. Secondo Byung-

Chul Han ‘il data mining rende visibili modelli di comportamento collettivi dei quali, come singoli,

non siamo mai consci. Così, esso rende accessibile l’inconscio collettivo. Possiamo chiamarlo, in

analogia all’inconscio-ottico, anche inconscio-digitale: lo psicopotere è più efficace del biopotere in

quanto sorveglia, controlla e influenza gli uomini non dall’esterno, ma dall’interno’ (c.d.a.)37.

L’iper-connessione rende il linguaggio più elastico, favorendo processi semantici spesso degenerativi.

L’elasticità del linguaggio ammette una continua ridefinizione dei termini sulla base di simultanee e

diverse appartenenze e ‘chiunque tenti di bloccare un linguaggio con una definizione "plastica" ad un

significato fisso si trova costantemente di fronte a un medium altamente variabile’38.

Tutti questi aspetti motivano il revival di EV, ma consentono anche di evidenziare alcune possibilità su

cui il testo intende soffermarsi. L’innovazione tecnologica non lascia grande spazio al ‘libero arbitrio’:

semmai, succede il contrario e non tanto per i nuovi condizionamenti della ‘trasparenza coatta’, quanto

per aggiuntive possibilità di interazione. L’interazione è uno snodo di possibilità e virtualità, fra enti

(non solo umani) che tendono a perdere l’identità di soggetto, perché non esistono più oggetti di cui

potrebbero esserlo. Questo annientamento trasforma l’interazione da snodo di possibilità e virtualità

altruiste in manifestazione narcisistica. La topologia della connessione digitale39 potrebbe aiutare a

riconoscere queste nuove geografie e a indicare come e quanto la comunicazione digitale nella società

politiche di bilancio neo-keynesiane riescano a contenere le diseguaglianze (in questo caso, il riferimento è alla Svezia le cui

performance vengono comparate a quelle di diversi paesi). 34 Ivi, pp. 94-98. 35 L’articolo è stato pubblicato il 23/6/2008. 36 I tre articoli citati sono: G E P Box, 1976, ‘Science and Statistics’, Journal of the American Statistical Association, n. 71,

pp. 791–799; G E P Box, N R Draper, 1987, Empirical Model-Building and Response Surfaces, John Wiley & Sons; G E P

Box, W G Hunter,1978, Statistics for Experimenters, John Wiley & Sons. Le citazioni, trasformate nell’ aforisma ‘all

models are wrong’ forza l’opinione di Box e dei co-autori degli articoli citati. Box suggerisce parsimonia nella costruzione e

nell’uso dei modelli statistici e, proprio a partire dalle sue diverse frequentazioni pratiche, consiglia una continua spola

(interazione) fra teoria e pratica. Di fine dei modelli non parlava neppure l’approccio esplorativo che, con la scuola francese,

ha contribuito a sviluppare negli anni ’70 interessanti dispositivi di analisi multidimensionali dei dati, discussi in molti testi

e nella rivista Analyse des données. Questo approccio era consapevole dei limiti della correlazione (per tavole di misura)

così come dei limiti del chi-quadro (per tavole di contingenza) e utilizzava le ‘variabili latenti’ come input per

classificazioni gerarchiche o non gerarchiche. L’interesse della procedura era innanzitutto esplorativo e consentiva di

costruire ipotesi su base empirica. Un esito importante è il software ADDAWIN, messo a punto presso DAEST-IUAV negli

anni ’90 con il decisivo contributo di S Griguolo. Molti studi epidemiologici hanno utilizzato diversi modelli di clustering

su grosse tavole di dati, rinviando a metriche euclidee, neurali o ad automi cellulari. 37 Byung-Chul Han, cit., p. 97. Dello stesso autore vedi anche Psicopolitica, 2016 (prima edizione 2014), Nottetempo,

Roma. 38 P Fabbri, ‘La forza "politica" del linguaggio: creare e trasformare testi e contesti’, intervista a cura di Manuel Semprini,

ScrittInediti, pubblicato online il 29 marzo 2014.

scrittinediti.wordpress.com/2014/03/29/la-forza-politica-del-linguaggio-creare-e-trasformare-testi-e-contesti. 39 Byung-Chul Han, cit., pp. 62-63.

della prestazione ‘distrugge lo spazio pubblico e aggrava l’isolamento dell’uomo’40. Sfruttando se

stesso all’inverosimile l’uomo può sviluppare forme di auto-aggressività, collassare o rivolgersi contro.

‘Il magnifico progetto si rivela un proiettile’41.

In un mondo reticolare i presupposti e gli effetti delle interazioni sociali sono alquanto imprevedibili e

non è scontato che le seduzioni, gli obblighi e i controlli della Rete abbiano sempre la meglio.

L’oscuramento, la disinformazione, l’accesso o la violazione della privacy ne sono una prova. Questa

imprevedibilità apre a possibilità anche sperimentali sul piano discorsivo, dialogico e auto-riflessivo.

Lo Stato e le diverse forme di governo pubblico, dal canto loro, alternano arretramenti e avanzamenti a

seconda delle opportunità (una specie di ‘Stato-risacca’), aprendo e chiudendo in questi spazi

importanti occasioni di dialogo e di negoziazione.

In attesa della ‘rugiada ermeneutica’

E’ proprio in ragione di queste possibilità che il testo non si limita ad una tassonomia binaria

(l’attribuzione di teorie e metodi a EV o PV) o alla costruzione di ‘alberi’ del pensiero e delle pratiche

valutative. Questi, semmai, sono citati come spunto critico. Partendo dalla crisi dell’approccio neo-

positivista e dalle implicazioni epistemologiche che ne derivano, cerca piuttosto di riconoscere come

possa formarsi una fertile ‘rugiada ermeneutica’ sulle teste dei valutatori di buona volontà, ovvero di

chi ritiene ‘politico’ ogni discorso su persone, esistenze e relazioni sociali. Non è relativismo, ma non è

neppure l’idolatria ermeneutica che accusa EV di stare nella storia solo come spettatore.

E’ superfluo sottolineare l’irriducibilità delle tradizioni filosofiche che più di altre hanno influenzato le

teorie della valutazione (positivismo, pragmatismo, costruttivismo, realismo). Queste tradizioni vivono

certo di una spinta endogena, ma il loro successo paradigmatico è connesso a quanto accade nel mondo,

in modo continuo e parzialmente prevedibile. Ciò determina a volte fruttuose sovrapposizioni o lascia

‘tracce’ dei loro passaggi, qualificando numerose testimonianze. Interpretare e comprendere i modi in

cui esse ispirano le pratiche valutative, assumendole volta per volta come ‘interlocutori’ veri, può

essere un esercizio utile.

Come vedremo più avanti, la valutazione è interazione sociale. E’ una affermazione quasi tautologica

(fenomenologica, potremmo dire), ma che consente di spostare l’attenzione sulla interazione, di

riconoscere la valutazione per il modo in cui si considera l’interazione e per che cosa la si considera.

L’interazione evidenzia la ‘specificità dell’umano’, ne segna la distanza dall’animale in un quid dai più

considerato positivo (anima razionale, spirito, immaginazione, autocoscienza, ecc.) e, da certuni,

negativo. La positività della distanza attribuirebbe l’uomo ad un ambiente e ne riconoscerebbe

autonome capacità di sopravvivenza. Ma cosa accade se l’uomo è ‘un animale privo di ambiente e per

ciò aperto al mondo, biologicamente indeterminato, istintualmente carente, despecializzato’?42

‘La carenza istintuale comporta il fatto che nell’uomo non si attivino risposte automatiche agli stimoli

dell’ambiente. La sollecitazione suscita l’ ”esigenza di fare qualcosa”, un “sentimento” la cui

traduzione in azione resta indeterminata. La despecializzazione…spinge gli uomini a ricorrere

all’esonero (Entlastung) ossia all’esternalizzazione, tramite gli strumenti tecnici, delle funzioni (…)

che altri animali affidano a organi specializzati’43. La questione della soggettività si combina con il

dominio della tecnica, rinvia alle tematiche del post-umano e del cyborg, ponendo al centro la

questione delle istituzioni. Per questo ‘le forme di soggettività appaiono sempre più indissociabili dai

dispositivi istituzionali che le producono e che, a loro volta, da esse sono tenuti in vita. L’uomo, essere

40 Citando V Flusser di La cultura dei media, ivi, p. 65. 41 Byung-Chul Han, cit., p. 66. 42 Vedi M Guareschi, ‘L’impotenza della specie’, il Manifesto, 3/9/2016, p. 10, un commento alle opere di A Gehlen

L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (ed. or. 1940, ora Mimesis) e L’uomo delle origini e la tarda cultura. Tesi e

risultati filosofici (ed. or. 1956, ora Mimesis), riproposto da Vallori Rasini. 43 M Guareschi, cit., ivi.

plastico e istintualmente indeterminato e, per questo, pulsionalmente in eccesso, necessita di

stabilizzazioine. E ciò può avvenire solo tramite esoneri, tramite le esternalizzazioni interiorizzate

offerte dalle istituzioni’44. E’ ‘un complesso gioco in cui la routinizzazione delle pratiche conduce alla

loro autonomizzazione dai fini originari e all’emergere in primo piano di effetti secondari’45.

Potremmo considerare l’interazione come oggetto in sé (genesi, forma, sviluppi, esiti), cercare di

comprenderne significati e valori in un mondo sempre più condizionato dall’ordinamento digitale. In

questo ordinamento le azioni diventano operazioni e ‘le operazioni sono actomes (c.d.a.), ovvero azioni

atomizzate all’interno di un processo ampiamente automatico, al quale manca l’estensione temporale

ed esistenziale’46.

E’ ciò che ci aiuta a fare l’epistemologia. Ma potremmo anche chiederci se nella interazione ci

comprendiamo l’un l’altro, se si attiva cioè un dialogo, una conversazione che ci può cambiare

entrambi, magari un po’. L’oggetto, in questo caso, non è l’interazione in sé, ma la comprensione delle

forme dialogiche che attiva e degli esiti che genera sui dialoganti. L’interazione è condizione al dialogo

(no interaction, no dialogue), ma è soprattutto il dialogo che si fa portatore di significati e valori e

quindi merita di essere interpretato. L’interpretazione, in questo caso, non si limita all’esegesi, ma

assume un carattere esistenziale, fa parte del dialogo. Qui entra in campo l’ermeneutica nelle versioni

più conservatrici di Gadamer o Ricoer o nelle versioni più radicali (post-strutturaliste) di Derrida e

Foucault. Mentre l’approccio epistemologico ci consente di osservare e capire l’interazione

‘dall’esterno’, riconoscendone il potenziale informativo, con l’approccio ermeneutico si è

nell’interazione con forme dialogiche e di conversazione che la caratterizzano e la possono modificare.

Valutare secondo i due approcci è molto diverso. Nel primo caso si valuta una rappresentazione

‘discreta’ dell’interazione, nel secondo il dialogo la qualifica nel continuo e la può consegnare ad una

sintesi inevitabilmente provvisoria. Cambiano, dunque, le modalità e il senso della comprensione

(understanding).

A questo punto ci potremmo chiedere: ma quali sono le condizioni che orientano il dialogo e la

comprensione? Un’operazione di denominazione o naming sulla base di diversi caratteri (una sorta di

mapping) delle interazioni potrebbe diventare utile per rispondere al quesito. Può essere utile a

riconoscere aspetti che si danno troppo spesso per scontati o anche aspetti che vengono assunti come

generici determinanti, come nel caso del feeling o del framing. La comprensione riguarderebbe così sia

le interazioni (come genesi, processo ed esito), sia i dialoghi che esse stimolano, sia il loro contributo al

prosieguo della interazione stessa.

Vi sono approcci valutativi, con i loro metodi e le loro tecniche, che pretendono di fondarsi su solidi

impianti epistemologici; altri, sono più di tipo ermeneutico; altri ancora propongono forme di

ibridazione. I primi sono orientati all’ osservazione di interazioni opportunamente riconosciute come

possibili oggetti di indagine (modellizzati, tipizzati e quindi astratti); i secondi sono più orientati a stare

dentro le interazioni con tutte le possibilità e le implicazioni esistenziali che ciò comporta. Gli altri non

possono che disorientare con il loro eclettismo o farci scoprire qualcosa di nuovo. Ci si potrebbe

chiedere, ad esempio, che cosa succederebbe alla valutazione sperimentale o quasi-sperimentale, alla

valutazione orientata alla teoria, di tipo realista, pragmatico o costruttivista se alcuni loro elementi

rientrassero in un discorso dialogico: come verrebbero modificati e che contributo potrebbero dare?

Oppure, cosa succederebbe se in una crepa di un impianto epistemologico si innestasse un po’ di

ermeneutica. In fin dei conti, non è sufficiente ‘scivolare tranquilli’ lungo i piani inclinati

dell’interazione, per quanto imprevedibile e avventurosa. Non sapendo chi avrà il sopravvento fra

provocazione e inerzia, occorre effettuare qualche ‘salto’ soprattutto quando si fa ricerca. Ma, queste,

44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 Byung-Chul Han, cit., p.68.

sono solo possibilità che sembrano emergere dai modi, dai tempi di maturazione e dalla legittimazione

delle proposizioni valutative nelle interazioni sociali.

Argomenti: valori, proposizioni valutative, giudizi e responsabilità

Una definizione fin troppo generale per essere condivisa indica la valutazione come duplice processo:

riconoscimento di significati dell’azione umana e attribuzione di valori (merit e worth)47. Si argomenta

l’attribuzione di senso a ciò che si fa, ma si cercano anche cause, connessioni e conseguenze che vanno

oltre l’orizzonte dei significati della pratica quotidiana48. L’attribuzione di valori a significati

riconoscibili nella interazione sociale (azioni, eventi, oggetti o agenti) è di per sé un valore in quanto

esplicita percezioni, sensibilità alle cose e informa eventuali giudizi. La stessa interazione sociale ha un

valore intrinseco al di là delle sue cause e degli effetti che genera. In essa, l’incrocio di diverse

soggettività, spesso in conflitto per temporalità discordanti, può far emergere relazioni di potere49

anche indipendenti da regole e norme, così come piani valoriali e di esistenza in apparenza o realmente

non somiglianti.

Per realizzare questo duplice processo si formulano proposizioni valutative denotate linguisticamente50,

sulla base di capacità, atteggiamenti e più o meno definite intenzioni d’uso. Queste orientano a loro

volta i giudizi e, oltre a riconoscere l’azione valutativa come pratica fondata sul giudizio, connotandola

di valore, contribuiscono a legittimarla, sviluppando quella che viene comunemente denominata

‘cultura della valutazione’51. Questa cultura si forma, nello specifico, a partire dalle questioni più calde

della valutazione come pratica fondata sul giudizio, ovvero dalle sue basi, dai mezzi impiegati per

costruirlo e dalle responsabilità assunte da chi lo formula. Più in generale, essa si sviluppa nelle

pratiche professionali e comuni, anche indipendentemente da processi di istituzionalizzazione, spesso

attivati a distanze siderali dalle effettive interazioni sociali. E non è raro che dove la valutazione viene

abusata, la parola ‘cultura’ sia depotenziata fino ad assumere un significato dispregiativo52.

In netto contrasto con la dottrina value-free e le inerzie di parte delle scienze sociali, i valori permeano

la pratica valutativa perché l’interazione sociale li riconosce e li attribuisce con dinamiche e modalità

sue proprie; per ragioni contestuali e di scopo. Le diverse ‘culture’ si propongono con propri sistemi di

valore, e li aggiornano continuamente in modo multidirezionale.

Ma cosa significa avere un valore? Come possiamo riconoscerlo?

47 L’esito del processo può essere negativo in assenza di significati e valori o in presenza di disvalori. 48 Questo andare oltre connota la valutazione come pratica riflessiva e comparativa, diversamente da altre pratiche analitiche

o normative, vedi B Fay, 1996, Contemporary philosophy of social science, Blackwell, Oxford (citato da T Schwandt, 2002,

cit. p. 187. 49 Il potere indica un rapporto sociale e non è compatibile con il concetto di utilità che rinvia all’individuo. Il potere non si

legittima con l’utilità. 50 Come evidenziano Y S Lincoln e E Guba, l’uso dei termini correnti è fragile, instabile, condizionato dai valori, Y S

Lincoln, E Guba, ‘ The roots of fourth generation evaluation. Theoretical and methodological origins’ in M C Alkin (ed),

2013, Evaluation Roots. A Wider perspective of Theorists’ Views and Influences, Sage, LA (second edition), pp. 218-219.

Dall’uso di termini come utilità, stakeholder, accountability, effetto, causa, processo, contesto, ma anche progetto, piano,

programma o politica si possono ricavare diversi significati di valutazione ed evidenziare come il loro uso connoti gli stessi

approcci. 51 L’attribuzione di valori (values inquiry) è operazione consueta, mentre il riconoscimento di significati (interattivo o

assistito) è operazione critica in fase formative. Le due operazioni si condizionano a vicenda e il riconoscimento di questo

condizionamento può influire su usi e metodi. Sulla seconda operazione vedi M M Mark, G T Henry, ‘ Multiple routes.

Evaluation, assisted sensemaking, and pathways to betterment’, in M C Alkin (ed), 2013, cit., pp. 144-156. 52 Gli esempi sono molteplici. In campo educativo, ad esempio, si denuncia la ‘cultura della valutazione’ incapace di

valorizzare le reali risorse formative e di ricerca, vittima com’è di dispositivi formali e procedurali. Alcuni autori

riconoscono in questo apparato una sorta di ‘fabbrica della qualità’. Nelle politiche ambientali la valutazione può diventare

ancillare a strategie non sostenibili, mentre nella gestione del rischio la valutazione può essere vittima di teorie e modelli

percettivi parziali.

La parola ‘valore’ ha diversi significati e implica molti usi53. Può essere intesa come merito, prezzo o

qualità, ma anche come audacia, coraggio, convinzione, attaccamento a principi morali o, al contrario,

come viltà. C’è chi rischia il lavoro, la carriera o la vita per i propri principi o ideali e chi non esita a

venderli al miglior offerente. Ma possono emergere anche problematiche equiparazioni, come

riconoscere nel denaro o nel profitto un valore dogmatico, ritenendo il valore morale equivalente a

quello economico.

Consideriamo, a titolo esemplificativo, l’uso del termine ‘buono’. ‘La performance dell’orchestra è

stata buona’. ‘Il sindaco è un buon amministratore pubblico’. ‘Il programma urbano della mobilità è

buono’. ‘Il materiale usato per gli arredi del parco è di buona qualità’. Si potrebbe dire che nella prima

affermazione ‘buono’ rinvii soprattutto (anche se non esclusivamente) ad un valore estetico, correlabile

a ciò che si intende per bellezza: ad esempio, la bellezza di un’opera classica nell’interpretazione di

un’orchestra. Nella seconda affermazione ‘buono’ rinvia ad un valore morale, a virtù o ad un codice di

comportamento morale (etico o deontologico). Il sindaco può essere molto aperto alle istanze della

cittadinanza e impegnato nella lotta alla corruzione e al sopruso procedurale. Nella terza affermazione

‘buono’ può essere inteso come sinonimo di efficacia o di efficienza: un valore strumentale (di utilità)

riconoscibile nella riduzione della congestione, dell’incidentalità o dell’inquinamento dell’aria, ma

anche nell’uso efficiente delle scarse risorse a bilancio. Nell’ultima affermazione ‘buono’ sta per

qualità dei materiali, può essere considerato un valore d’uso che dura nel tempo, a lenta obsolescenza.

Nella valutazione i giudizi possono ricorrere a valori strumentali e/o morali, possono riguardare le

implicazioni morali di valori strumentali. Un programma urbano della mobilità potrebbe essere efficace

in termini di sicurezza, ma discutibile per il modo in cui vengono gestiti gli appalti delle opere. In

questo caso è importante ricorrere oltre che a valori strumentali anche a valori morali se si vuol dare un

giudizio sul programma. Lo stesso accade per i valori estetici.

Ma se la valutazione formula giudizi di valore, questi giudizi sono appannaggio di chi? Vi è chi ritiene

che la valutazione debba limitarsi alla descrizione e alla spiegazione scientifica. Se l’azione in

questione è il programma urbano della mobilità (X) vanno evidenziate le caratteristiche di X (di design,

attuazione e gestione), le relazioni fra X e i risultati attesi (W, Z) considerando i fattori (B, C) che

possono influire sulle relazioni. Si può verificare se X raggiunge in modo efficiente i risultati, ad

esempio sulla base dei costi o dei benefici netti. Su questa base potrebbe prendere forma un giudizio

del tipo ‘tenendo conto delle condizioni B e C, X genera i risultati W e Z’. Per essere formulato in

termini valutativi, il giudizio deve appartenere ad una proposizione valutativa e consentire una

comparazione54. Quest’ultima avviene comparando ad alcuni riferimenti (o basi) osservazioni raccolte

in modo sistematico su un progetto. La basi comparative possono essere standard, performance in

assenza di progetto o di altri progetti, ma anche standard e performance in momenti temporali diversi.

Ma questo giudizio si limita ad apprezzare il valore strumentale di X, ovvero la sua efficacia ed

efficienza nel raggiungere i risultati attesi. Si tratta di un modo di ragionare che da certuni viene

considerato incompleto o addirittura privo di dignità valutativa perché si limita all’utilità, alla

efficienza e all’efficacia del programma. Siamo certi che il programma sia plausibile, che gli obiettivi

che si pone siano corretti rispetto al contesto territoriale, alle sue domande sociali ed eco-sistemiche?

53 Vedi, ad esempio, i tre scenari del romanzo di C Usόn, 2016, Valori, Sellerio. 54 Ogni giudizio origina da una proposizione valutativa, implicita o esplicita del tipo: X è accettabile per le performance

misurate o semplicemente descritte su un set di criteri (si attribuisce X ad una ‘regione di ammissibilità’); il valore di X

supera quello di Y con riferimento ad un set di criteri (comparazione a fini di scelta o di ordinamento); il valore di X supera

quello di Y perché X genera i risultati attesi, mentre Y non li genera nonostante le realizzazioni previste (attribuzione di

risultato a realizzazione, di outcome a output); il valore di X supera quello di Y perché, nonostante i risultati siano gli stessi,

X li genera in modo più efficiente, efficace o equo (considerazione di effetti distributivi, compensativi o di trade-off); a

parità di risultato, il valore di X supera quello di Y perché più importante, sostenibile (cattura di esternalità e considerazioni

di elementi aggiuntivi); e così via.

Se ci si limita a valutare il raggiungimento di obiettivi dichiarati si dà per scontato che il programma sia

plausibile e che siano corretti i suoi obiettivi.

Ma sulla plausibilità del programma e sulla sua rilevanza sociale e ambientale si potrebbero formulare

giudizi diversi. E qui entra in campo il quesito: ‘giudizio di chi?’

I ‘soggettivisti’, ad esempio, potrebbero obiettare che i giudizi derivano da frame, preferenze, emozioni

o attitudini di chi è convolto nel programma55. Questi giudizi vanno distinti da descrizioni e spiegazioni

basate su fatti razionalmente trattabili e quindi giudicabili veri o falsi. Per i soggettivisti l’utilità del

programma in termini di efficacia e di efficienza è l’unico giudizio che conta. Ogni altro giudizio di

valore esprimerebbe soltanto uno ‘stato emotivo’, intrattabile con mezzi razionali. Gli ‘oggettivisti’

contestano questa posizione, perché raramente la valutazione tratta fatti oggettivi o preferenze

puramente soggettive. In genere, le affermazioni sono simultaneamente descrittive e valutative, e quelle

55 Il concetto di frame viene esplicitamente introdotto dalla prospect theory di D Kahneman e A Tversky nel

1979 come alternativa descrittiva alla teoria dell'utilità attesa di J von Neumann e O Morgenstern. Va rilevato

che O Morgensten aveva arricchito questa teoria dell’utilità utilizzando la teoria dei giochi con effetti rilevanti

sulla costruzione delle funzioni di domanda e offerta. La formulazione di Kahneman e Tversky si basa su

evidenze empiriche prodotte con esperimenti di psicologia cognitiva. In questi esperimenti le scelte degli esseri

umani sembrano violare con una certa regolarità i principi della razionalità economica almeno per tre ragioni

psicologiche connesse: l’effetto contesto (framing), l’avversione alle perdite e l’effetto isolamento. Il contesto in

cui opera il soggetto influisce sul modo i cui egli percepisce il ‘punto di partenza’ (ad esempio, l’intenzione di

riflettere su una interazione o su una azione, di attribuire ad essa significati e valori, di formulare una

proposizione valutativa). L’effetto framing evidenzia come ‘messaggi con lo stesso contenuto di verità’ possono

avere diverso impatto su processi di giudizio e di decisione, sulla valutazione degli esiti della propria azione

(vedi l’asian disease problem citato dai due autori, facilmente estendibile ai diversi modi di percepire il rischio

al variare del messaggio comunicativo, del modo di presentarlo o degli stessi scenari, che sono di fatto forme di

comunicazione). L’avversione alle perdite indica che la motivazione a evitare una perdita è superiore alla

motivazione a realizzare un guadagno con possibili scelte contrastanti. E’ quanto comunemente accade

nell’analisi di contingenza dove la disponibilità a pagare (willingness to pay) è generalmente inferiore alla

disponibilità di accettare compensazioni (willingness to accept). Definire politiche fiscali o compensative su

questa base potrebbe creare qualche problema come evidenziano politiche ambientali, territoriali e urbanistiche.

Nell’analisi costi-benefici questa differenza comportamentale può avere effetti rilevanti sia sul saggio di sconto

che sui fattori di correzione delle voci monetarie di costo e di beneficio. L’effetto isolamento deriva dalla

propensione delle persone a isolare probabilità consecutive invece di trattarle in modo combinato. Per

semplificare la scelta, e tralasciando l’insegnamento bayesiano, le persone spesso ignorano le componenti

probabilistiche delle opzioni, concentrandosi su ‘rami degeneri’. Le implicazioni ‘valutative’ sono evidenti sia in

termini di riconoscimento di significati che di attribuzione di valori (non solo per quanto concerne la

ponderazione). In molti casi si presenta il cosiddetto reflection effect, con inversione dell’ordine delle preferenze.

Infatti, nel dominio delle perdite (negativo) se il soggetto è avverso al rischio, per premi positivi diventa più

propenso al rischio in contrasto con la teoria normativa neoclassica di J von Neumann che ipotizza

l'indipendenza dell'ordine di preferenza nei domini positivo (guadagni) e negativo. Kahneman e Tversky

propongono una value function non lineare (sigmoidale) in cui le probabilità degli eventi possibili è ponderata

con un peso per ogni attribuito dall'individuo. La funzione viene rappresentata rispetto alle perdite-guadagni

(asse x) e rispetto al valore (propensione al rischio, asse y). L’origine degli assi rappresenta una ipotetica

situazione di partenza del decisore, mentre la funzione presenta andamento concavo nella regione dei guadagni

(a destra) e convesso (con maggiore pendenza) nella regione delle perdite. La maggiore pendenza rappresenta

l’avversione alle perdite. Ciò significa che per piccole variazioni nei pressi dell’origine in entrambe le regioni si

possono generare effetti decisionali maggiori che per grandi variazioni lontane. Ad un medesimo valore assoluto

di guadagno o perdita possono corrispondere scelte diverse, con effetto di perdita proporzionalmente maggiore.

Pur rimanendo in ambito utilitarista, mentre la teoria neo-classica definisce le condizioni normative (astratte) per

una decisione ‘razionale’, la prospect theory cerca di rappresentare come gli individui si comportano nella

pratica, prendendo decisioni in condizioni di rischio.

descrittive lo sono soltanto apparentemente perché spesso contengono giudizi di valore. Questi giudizi

sarebbero motivabili e difendibili, consentendo di riconoscere verità e obiettività alle affermazioni, ma

anche disaccordo, deliberazione e decisione morale.

Emerge così la questione che più di altre influisce sul ruolo del valutatore, la responsabilità del

giudizio. Vi è chi ritiene che il valutatore si debba limitare ad evidenziare le diverse ‘posizioni di

valore’ e lasciare la decisione a chi partecipa al programma. Il valutatore dovrebbe limitarsi a dire ‘se il

tuo valore è A, aspettati Z’. Questa è la posizione dei soggettivisti, ma anche di chi considera l’azione

valutativa una pratica scientifica. Una diversa scuola di pensiero, comprensiva di chi condivide un

approccio oggettivo ai valori, sostiene che il valutatore debba analizzare e sintetizzare le diverse fonti

di valore, anche se sulla sintesi vi potrebbe non essere convergenza. La valutazione verrebbe così intesa

come processo intenzionale, inclusivo e guidato da valori56. Per sviluppare un sintetico schema

argomentativo si può ricorrere all’inferenza e a diversi tipi di ponderazione, a matrici di gioco, a

procedure euristiche o a ragionamenti non deduttivi57. Diversi tipi di sintesi possono arricchire le

‘prospettive di valore’ contribuendo ad espandere, piuttosto che limitare, il dominio di giudizio. Questa

possibilità non dipende soltanto dalla logica argomentativa, ma dal suo ‘stile’. Lo stile può essere

ironico, mordace, canzonatorio o satirico e al contempo tagliente; oppure saccente, aggressivo,

offensivo o addirittura violento. Uno stile ironico, che non si limita socraticamente alla dissimulazione

dell’ignoranza o allo scherno, può essere indizio di intelligenza nel riconoscere con un certo equilibrio

significati e valori. Richiede un bonario e divertito distacco dalle cose, ma anche quell’autoironia che è

sinonimo di serietà, severità e capacità di interpretare l’‘ironia della sorte’ spesso banalizzata ad

imprevedibilità degli eventi.

Come vedremo, i processi di formazione dei giudizi di valore sono altrettanto se non più importanti

della loro sintesi oggettiva o soggettiva. E’ su questi processi che matura la distinzione fra EV e PV.

56 E J Davidson propone ‘rubriche valutative’ per esplicitare i valori e aggregarli in evidenze performative. Una

rubrica, detta anche ‘scala di valutazione globale’ (global assessment scale), propone un insieme di criteri (e

relativi standard di riferimento o soglie) in corrispondenza dei quali sono definite possibili performance. Ogni

performance viene descritta da un profilo e graduata su scala ordinale generica o specifica (ad esempio, da

insufficiente a eccellente, oppure da estremamente rischioso a estremamente sicuro, ecc.). Può essere costruita

un'unica rubrica per tutte le performance o possono essere costruite diverse rubriche per ogni performance e

relative modalità. Rimane il problema dell’aggregazione sia metrica che semantica per formulare un giudizio valutativo complessivo. Le rubriche sono utilizzate per valutazioni partecipative (participatory plus) o in valutazioni

trasversali su programmi multipli, vedi J Davidson, N Wehipeihana, K McKegg, The rubric revolution, Paper presented at

Australian Evaluation Society Conference (September 2011). 57 Vedi voce ‘Values’ curata da T A Schwandt in Encyclopedia of Evaluation (S Mathison ed.), Sage Publications, 2005, pp.

443-444. Lo sviluppo della ‘voce’ trae spunto da T A Schwandt, ‘The landscape of values in evaluation: charted terrain and

unexplored territory’, in D J Rog and D Fournier (eds), Progress and future directions in evaluation: Perspectives on theory,

practice, and methods, New Directions for Evaluation, 76, 1997, pp.11-23. Vedi anche E R House, K Howe, 1999, Values in

evaluation and social research, Sage, Thousand Oaks, CA.