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Historians have often tried to find some predecessors of Evo-Devo dating back to Geoffroy Saint-Hilaire, Karl Von Baer, Ernst Haeckel or D'Arcy W. Thompson. The aim of this paper is to show that Aristotle could be considered as a more ancient starting point, particularly concerning the following key concepts: the body-plan, i.e. the representation of an organism's symmetry and morphology; the zootype, i.e. a common morphological blueprint shared by all animals; the morphospace, i.e. the representation of the forms, shapes or structures an organism could virtually have; and the theory of transformations, i.e. the geometrical representation of the differences between the forms of related species. Nonetheless, in order both to avoid anachronism, and to be more productive, this comparison is made on the field of comparative science.
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5/12/2018 Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno - slidepdf.com
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1 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”, Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44.
Andrea L. Carbone
Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno
L’andirivieni al quale mi riferisco parafrasando la celebre formula coniata da Etienne
Gilson a proposito di Aristotele e Darwin1 vuole estendersi, per quel che concerne il polo a noi
cronologicamente più prossimo, ai recenti esiti della biologia evoluzionistica dello sviluppo
(Evo-devo) che costituiscono un mutamento da più parti considerato radicale e rivoluzionario
nella concezione dell’evoluzione delle forme organiche.
Nata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento e oggi in vivace sviluppo, la
«biologia evoluzionistica dello sviluppo»2, solitamente indicata mediante l’informale
abbreviazione Evo-devo, è un tentativo di unificare due branche della biologia rimaste in
precedenza piuttosto distanti: la biologia dello sviluppo e la biologia evoluzionistica.
L’affermarsi della cosiddetta «sintesi moderna», interamente focalizzata sul problema di
individuare e definire i meccanismi fondamentali dell’ereditarietà e della selezione naturale, e a
studiarne l’interazione, per molti anni aveva determinato una netta separazione tra i due campifondamentali della biologia. Infatti, gli studiosi interessati alla filogenesi, cioè all’evoluzione
delle specie, poco o punto si interessavano all’ontogenesi, vale a dire alle modalità dello sviluppo
e della crescita degli individui dai gameti all’organismo adulto e dunque alla crescita e alla
differenziazione cellulare che determinano la morfogenesi, cioè il processo generativo di tessuti e
organi. O, per meglio dire, i due gruppi di studiosi interpretavano il medesimo fenomeno –
perché un certo essere vivente è fatto proprio così e non altrimenti – secondo due prospettive che
apparivano inconciliabili e davano luogo a programmi di ricerca divergenti.
Per queste ragioni, molti scienziati intravedono oggi nell’Evo-devo il nucleo di una
nuova sintesi (« più moderna», come l’ha ironicamente qualificata S.B. Carroll). L’obiettivo di
1 E. Gilson, D’Aristote à Darwin et retour. Essai sur quelques constantes de la biophilosophie, Paris, Vrin, 1971. 2 La discilpina prende il nome dal titolo della pionieristica monografia di B.K. Hall, Evolutionary Developmental
Biology, London, Chapman & Hall, 1992.
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questa nuova sintesi consiste dunque nell’indagare le origini della diversità e della complessità
morfologica degli esseri viventi anche grazie a uno studio comparato dei geni che ne regolano lo
sviluppo, cioè integrando le acquisizioni dell’embriologia nello studio dell’evoluzione delle
specie.
Quanto ai suoi presupposti teorici più recenti, l’Evo-devo si fonda esssenzialmente su due
importanti acquisizioni: i meccanismi di regolazione dell’espressione dei geni scoperti da
François Jacob e Jacques Monod nei batteri Escherichia coli, che valse ai due scienziati il premio
Nobel per la medicina nel 1965 insieme ad André Lwoff; e la scoperta dell’esistenza di un
corredo di «geni master» che controllano lo sviluppo e regolano la morfogenesi del moscerino
della frutta (drosophila melanogaster) da parte di E.B. Lewis, che ricevette il premio Nobel per
la medicina nel 1995, esattamente trent’anni dopo Jacob e Monod, ma aveva pubblicato i risultati
delle sue ricerche già a partire dagli anni Cinquanta del Novecento e soprattutto negli anni
Ottanta e Novanta3. In estrema sintesi, l’idea centrale dell’Evo-devo è che tutti gli organismi
viventi appartenenti al regno animale e caratterizzati da un elevato grado di complessità
morfologica (metazoi) condividono un uguale corredo di geni (HOX) preposti alla formazione e
all’organizzazione della struttura corporea generale e della conformazione delle singole parti;
che questo corredo di geni è molto antico da un punto di vista evoluzionistico; che la
straordinaria molteplicità e diversità delle forme viventi, apparentemente paradossale rispetto a
questa identità – identità che non solo è originaria in senso filogenetico, ma è straordinariamenteconservata ed è determinante dal punto di vista ontogenetico nelle specie attuali – si spiega con i
meccanismi di inibizione e regolazione dell’espressione genica, i quali fanno sì che uno stesso
gene possa dare esiti fenotipicamente differenti a seconda che si esprima oppure no e in base alla
fase (o alle fasi) dello sviluppo in cui si esprime.
I geni che determinano la formazione di una struttura o di un organo nella posizione
«corretta» sono i geni omeotici, definiti da una sequenza di DNA formata da 180 nucleotidi
denominata Homeobox che codifica per un dominio proteico detto omeodominio. I geni omeotici
3 Conviene in effetti far coinidere la data di nascita dell’Evo-devo con la scoperta del ruolo dei geni homeobox e delsottogruppo HOX intorno alla metà degli anni Ottanta. Per una bibliografia e un orientamento generale si può fareriferimento a S.B. Carroll, Infinite forme bellissime. La nuova scienza dell’Evo-Devo, Torino, Codice edizioni, 2006e A. Minelli, Forme del divenire. Evo-devo: la biologia evoluzionistica dello sviluppo , Torino, Einaudi, 2007. Sivedano anche W. Arthur, The emerging conceptual framework of evolutionary developmental biology, in «Nature»,415, 2002, pp. 757-764 e G.B. Müller, Evo-devo: extending the evolutionary synthesis, «Nature Reviews», 8, 2007,pp. 943-949.
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sono molto vicini tra loro nel cromosoma, dove sono raggruppati in clusters («grappoli») e sono
caratterizzati dalla cosiddetta «colinearità», sia spaziale che cronologica. La loro funzione, come
si è detto, cosniste nel regolare l’espressione di altri geni, che a loro volta determinano la
formazione dei tessuti, delle strutture o degli organi. I geni omeotici sono determinanti a un
livello strutturale più elevato, poiché regolano la struttura generale del corpo, suddivisa in
regioni che si succedono ordinatamente, una dopo l’altra, secondo l’asse antero-posteriore. Ora,
la colinearità consiste nel fatto che l’ordine in cui si trovano i geni omeotici corrisponde
spazialmente a quello delle regioni del corpo, e la sequenza temporale in cui si esprimono nel
corso dello sviluppo dell’embrione corrisponde anch’essa al loro allineamento spaziale.
Grazie allo studio dei geni omeotici, della loro colinearità e dei meccanismi regolativi che
li caratterizzano, l’Evo-devo offre dunque basi nuove alla descrizione del corpo vivente nei
termini di un body plan, ovvero di una mappa del corpo ripartito in «regioni» spaziali salienti.
L’individuazione degli assi di simmetria, la delimitazione delle parti, la schematizzazione
dell’organizzazione degli esseri viventi, e in particolare il reperimento di omologie tra specie
distinte, finora basati sulla ricognizione di elementi visibili allo sguardo anatomico e
morfologico, possono essere letti, ora, come l’espressione di geni la cui attività è
microscopicamente visualizzabile nei tessuti degli embrioni in via di sviluppo. Per queste ragioni
l’Evo-devo costituisce un modo nuovo di concepire la relazione tra ontogenesi e filogenesi, tra lo
sviluppo embrionale e i mutamenti fenotipici che si producono nel corso dell’evoluzione, epermette, almeno potenzialmente, di estendere all’intero regno animale la comparazione tra le
strutture e le forme organiche di specie diverse, anche molto distanti tra loro, ben al di là delle
somiglianze morfologiche esteriori.
Se da Aristotele all’Evo-devo il cammino è lungo, la strada del ritorno appare ancor più
tortuosa e accidentata. Le ragioni d’interesse che la biologia aristotelica riveste per la biologia
contemporanea4 attengono a mio avviso essenzialmente alla sua discontinuità rispetto alla
4 Non mancano nella letteratura i precedenti, anche illustri. Si veda la straordinaria ricostruzione della biologiaaristotelica, in chiave moderna, proposta da E.S. Russell, Form and function. A contribution to the History of Animal
Morphology, London, J. Murray, 1916; H.B. Torrey, F. Felin, Was Aristotle an Evolutionist?, in «The QuarterlyReview of Biology», 12, 1937, pp. 1-18; M. Delbrück, Aristotle-totle-totle, in J. Monod, E. Borek, Of Microbes and
Life, New York, Columbia University Press, 1971, pp. 50-55: «Nobody would deny that Aristotle’s physics was acatastrophe, while his biology abunds in aggressive speculative analysis of vast observations on morphology,anatomy, systematics, and, most importantly, on embryology and development. […] If that committee in Stockholm,which has the unenviable task each year of pointing out the most creative scientists, had the liberty of giving awards
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scienza odierna. La concezione della scienza elaborata da Aristotele non appartiene, e non può
più appartenere, al sapere scientifico attuale: altro è il suo statuto, diversi sono i criteri della
selezione delle fonti, l’impiego delle forme di ragione e dei modelli di argomentazione. Ogni
nuova generazione di scienziati tende a costruire, a «inventare» la sua propria tradizione5, la cui
freccia del tempo punta allora in realtà dal futuro verso il passato6. Diversamente, i tentativi di
indicare «precursori» o «anticipatori» di dottrine più moderne mettono capo inevitabilmente ad
anacronismi. Nel caso specifico del rapporto tra Aristotele e i più recenti sviluppi della biologia,
interpretazioni di questo genere rivelano peraltro un risvolto paradossale: se, per un verso, si
associa l’avanzamento della scienza biologica allo svincolarsi dall’«ostacolo epistemologico»
rappresentato dal (presunto) provvidenzialismo della teleologia aristotelica, la possibilità stessa
che qualche idea di Aristotele «precorra i tempi» e ne «anticipi» una più moderna si inquadra in
una visione eminentemente teleologica della storia della scienza.
Per altro verso, l’interpretazione del pensiero di Aristotele è ben lungi dall’essere univoca
nell’ambito degli studi specialistici, e l’opera biologica, in particolare, è stata di fatto ignorata
per secoli dai commentatori: l’attuale straordinaria fioritura di studi critici sul tema e traduzioni è
molto recente, poiché ha inizio negli anni Settanta del Novecento. Parallelamente, l’affacciarsi di
nuove teorie scientifiche innesca risonanze inedite, e permette di intravedere nell’opera di un
pensatore del passato aspetti che in precedenza potevano rimanere nascosti7.
posthumously, I think they should consider Aristotle for the discovery of the principle implied in DNA» (pp. 53; 54-55); M. Grene, Aristotle and Modern Biology, in «Journal of the History of Ideas», 33, 1972, pp. 395-424; le paginededicate ad Aristotele da E. Mayr, The Growth of Biological Thought , Cambridge (Mass.)-London, HarvardUniversity Press, 1982 e J.C.Greene, From Aristotle to Darwin: Reflections on Ernst Mayr’s Interpretation in TheGrowth of Biological Thought, in «Journal of the History of Biology», 25, 1992, pp. 257-284; M.T. Ghiselin, Can
Aristotle be Reconcilied with Darwin?, in «Systematic Zoology», 34, 1985, pp. 457-460; W.A. Muller, From the
Aristotelian soul to genetic and epigenetic information: the evolution of the modern concepts in developmental
biology at the turn of the century , in «International Journal of Developmental Biology», 40, 1996, pp. 21-26; T.Vinci e J.S. Robert, Aristotle and Modern Genetics, in «Journal for the History of Ideas», 66, 2005, pp. 201-221; D.Walsh, Evolutionary Essentialism , in « British Journal for the Philosophy of Science», 57, 2006, pp. 425-448. 5 Cfr. E. Hobsbawm, Introduction: inventing traditions, in E. Hobsbawm, T. Ranger, The Invention of Tradition,Cambridge, Cambridge University Press, 1983, pp. 1-14: «“Invented tradition” is taken to mean a set of practices,
normally governed by overtly or tacitly accepted rules and of a ritual or symbolic nature, which seek to inculcatecertain values and norms of behaviour by repetition, which automatically implies continuity with the past. Infact,where posssible, they normally attempt to establish continuity with a suitable historic past». 6 Mi servo naturalmente del lessico di Koselleck: «I concetti non ci insegnano solo a capire l’unicità di significatipassati (per noi), ma contengono anche possibilità strutturali, tematizzano contemporaneità del non-contemporaneo,che non possono essere ridotte al puro decorso cronologico della storia» (R. Koselleck, Rappresentazione, evento e
struttura, in Id., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, Marietti, 1986, pp. 123-134). 7 Si veda ad esempio T. Vinci e J.S. Robert, Aristotle and Modern Genetics, cit., ben documentato sugli esiti piùrecenti degli studi aristotelici di area anglosassone. Con acuta ironia, gli autori osservano che «Mayr and Müller’sAristotle is a child no mother would recognize» (p. 205).
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Body plan
Il body plan, il «piano» o la «mappa» del corpo, è una schematizzazione della
disposizione spaziale delle parti costitutive degli esseri viventi secondo assi polari che
permettono di apprezzarne la simmetria e la generale delimitazione e disposizione, consentendo
di enumerarne le porzioni rilevanti, con particolare riferimento alle strutture ricorsive. Uno degli
obiettitvi fondanti dell’Evo-devo consiste nel comprendere le basi genetiche dell’evoluzione
morfologica, cioè nel ricondurre la diversità del body plan di taxa distinti ad antenati comuni,
ricostruendo la storia evolutiva che da un corredo di geni relativamente ristretto e, in prospettiva
filogenetica, altamente conservato, è sfociato nella varietà di forme degli organismi più recenti 8.
La schematizzazione sistematica dell’organizzazione degli esseri viventi e di un modello
di riferimento per la comparazione della loro morfologia fu per la prima volta messa a punto da
Aristotele, e costituisce probabilmente il suo apporto più rilevante allo sviluppo dell’anatomia
comparata. Il criterio generale della rappresentazione aristotelica dell’organizzazione del corpo
consiste nella corrispondenza tra la collocazione delle parti nello spazio e la loro funzione. Il
corpo umano costituisce il modello normativo per l’indagine sull’intero mondo vivente. La
schematizzazione consiste essenzialmente di coordinate polari denominate «assi dimensionali»,
cioè destra/sinistra, davanti/dietro e alto/basso; dell’opposizione tra centro e periferia; e delladistinzione di diversi tipi di parti e di regioni del corpo definite da un punto di vista
sostanzialmente spaziale e funzionale: la distinzione (1) di tre livelli di composizione
[synthêseis] delle parti del corpo, cioè elementi semplici, parti omeomere e parti non omeomere;
(2) delle «membra» [melê ]; (3) delle «parti maggiori» [megista tôn merôn], ovvero testa, collo,
tronco, le due estremità anteriori e le due posteriori; (4) di un «corpo necessario» [anagkaion
sôma], che racchiude le parti indispensabili per il mantenimento delle funzioni vitali, distinto
dalle «estremità» [kôla]. È dunque facendo riferimento al medesimo schema che Aristotele
studia la diversità dell’organizzazione del corpo umano e di quello di tutti gli animali diversi
dall’uomo a lui noti, dalle spugne e le ascidie agli insetti, dai «molluschi», gli «ostracodermi» e i
8 Cfr. W. Arthur, The Origin of Animal Body Plans: A Study in Evolutionary Developmental Biology, Cambridge,Cambridge University Press, 1997; J. Garcia-Fernandez, The Genesis and Evolution of Homeobox Gene Clusters, in«Nature Review», 6, 2005, pp. 881-892; B.J. Swalla, Building divergent body plans with similar genetic pathways,in «Heredity», 97, 2006, pp. 235-243.
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crostacei ai quadrupedi sanguigni, ecc.
L’applicazione forse qui più interessante di questo procedimento riguarda la
schematizzazione del corpo dei «molluschi» [malakia], un raggruppamento che coincide
all’incirca con quello degli odierni cefalopodi. Si dà il caso che proprio questo argomento abbia
costituito un elemento di rottura nel famoso dibattito tra Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire a
proposito della possibilità di stabilire analogie di organizzazione intorno ai viventi compresi in
embranchements distinti in base alla sistematica proposta da Cuvier nella sua opera Le Règne
animal . In uno scritto che non fu mai dato alle stampe, infatti, due allievi di Geoffroy Saint-
Hilaire, Meyranx e Laurencet, avevano proposto una comparazione tra la disposizione
dell’apparato digerente dei pesci, compresi nell’embranchement dei vertebrata, e quello dei
calamari o delle seppie, compresi invece nell’embranchement dei mollusca (denominazione
peraltro ricalcata sul precedente aristotelico), osservando che la disposizione secondo l’asse
cefalo-caudale tipica del tubo digerente dei pesci, e in generale di tutti i vertebrati, può essere
riscontrata anche nei molluschi, dove però si presenta ripiegata su se stessa, in modo tale che
l’ano viene a trovarsi in prossimità della bocca. Com’è noto, Cuvier si oppose strenuamente a
una simile ipotesi, basata sull’idea che l’organizzazione di tutti gli animali potesse essere
ricondotta a un’unica struttura paradigmatica.
L’idea risale in realtà ad Aristotele. In un passo del De partibus animalium (684b 21) si
trova un rinvio a un’illustrazione che rappresentava i diversi modelli di organizzazione degli«animali non sanguigni», un raggruppamento che comprendeva quattro generi principali: insetti,
molluschi, malacostraci (crostacei) e ostracodermi (testacei). Il procedimento adottato consiste
nell’assumere come punto di riferimento la disposizione delle parti comuni al genere degli
animali sanguigni e a quello degli animali non sanguigni. La comparazione si basa sull’analogia
delle funzioni. Le parti prese in considerazione sono dunque esofago, stomaco e intestino:
La natura dei molluschi e degli stromboidi, infatti, sta in questo modo, se la si pensa su una retta, comeaccade per gli animali quadrupedi e per gli uomini: in primo luogo, all’estremo superiore, la bocca è un punto A
della retta, quindi B è l’esofago, C lo stomaco, e D la regione che si estende dall’intestino sino all’uscita del residuo.Nello stesso modo per gli animali sanguigni, e a questo proposito si distinguono la testa e il cosiddetto ’tronco’. Lanatura ha disposto le parti restanti in vista di queste o in vista del movimento, come le membra anteriori e quelleposteriori. La rettezza delle parti interne tende a stare nello stesso modo anche nei malacostraci e negli insetti, maessi differiscono dai sanguigni all’esterno, quanto a ciò che serve per il movimento. I molluschi e - tra gliostracodermi - gli stromboidi, stanno in modo simile tra loro , ma in modo opposto a questi. La regione terminale,infatti, è piegata verso il principio, come se piegando la retta sulla quale sta E si riportasse D ad A. Dacché, infatti, leparti interne giacciono in questo modo, il mantello avvolge nei molluschi la parte che soltanto nei polipi è detta’testa’; negli ostracodermi, invece, la parte siffatta è lo ’strombo’. Non differiscono in nient’altro, tranne per il fattoche la natura ha disposto che la cironferenza intorno alla parte carnosa sia molle negli uni, negli altri dura, in modo
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che li difenda a causa della cattiva attitudine al movimento. E per questo il residuo nei molluschi fuoriesce vicinoalla bocca, e anche negli stromboidi, tranne che nei molluschi dal basso, negli stromboidi dal fianco.
La schematizzazione proposta da Aristotele consente di mettere in rilievo i termini di
comparazione tra l’organizzazione degli animali sanguigni – e in particolare dell’uomo, che
costituisce il modello di riferimento – e quella degli animali non sanguigni, che viene
rappresentata come una variazione strutturale di questo paradigma morfologico. Viene dunque
stabilita una corrispondenza punto per punto tra le parti, che presenta una sintesi visuale delle
similitudini e delle differenze tra i generi, mettendo in evidenza non solo le diverse
caratteristiche strutturali del corpo intero, ma anche certe analogie altrimenti irriconoscibili. Il
diagramma al quale si riferisce Aristotele non riporta una schematizzazione esclusivamente
geometrica, poiché tiene conto sia della prospettiva teleologica e funzionale sia del modello delle
«parti principali», individuando in particolare la posizione della testa e del tronco, ed escludendole estremità in quanto parti non necessarie alla sopravvivenza dell’animale. La posizione dei
visceri di tutti gli animali viene individuata su un’ideale linea continua, corrispondente all’asse
cefalo-caudale, che presenta un caratteristico andamento ricurvo nel caso di alcuni animali non
sanguigni.
Ciò che appariva inaccettabile a Cuvier, e a Geoffroy radicalmente innovativo, costituiva
dunque la linea guida dell’anatomia comparata di Aristotele. I due scienziati avevano certo
ampie frequentazioni della biologia aristotelica, ma è difficile stabilire se fossero consapevoli di
questo precedente. Dovrebbero però tenerne conto i lavori che oggi riconoscono la fondatezza
delle idee di Geoffroy in merito all’intuizione di un piano strutturale comune a tutti gli animali,
indicando nello scienziato uno degli «anticipatori» dell’Evo-devo9.
Quel che può stimolare un confronto con la biologia contemporanea, a parte la
sorprendente corrispondenza rilevata, è l’elaborazione, da parte di Aristotele, di una concezione
per così dire «non essenzialista», plurale, della relazione tutto/parte, che può essere inquadrata
secondo una molteplicità di modelli alternativi. Questo apetto del metodo aristotelico si situa
infatti a mio avviso sullo stesso piano teorico rispetto a una questione attualmente aperta che
9 Cfr. A.L. Penchen, Etienne Geoffroy St.-Hilaire: father of «evo-devo»?, in «Evolution & Development», 3, 2001,pp. 41-46 e A. Minelli, Forme del divenire, cit., p. 10. E.S. Russell, Form and function, cit., p. 10 segnala il passoaristotelico come precedente della teoria di Meyranx e Laurencet, ma non si sofferma sull’applicazione del modellodelle «parti principali», da parte di Aristotele, all’intera serie animale, considerando anzi la schematizzazione deimolluschi come «his only excursion into the realm of «transcendental anatomy»».
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8 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”, Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44.
attiene alla difficoltà di definire che cosa sia un «tratto»10, ovvero al modo in cui occorre
inquadrare e scomporre in parti o «moduli»11 la complessità di un organismo.
Zootype
La nozione di «zootype» è stata formulata all’inizio degli anni Novanta da J.M.W. Slack,
P.W.H. Holland e C.F.Graham come fondamento di una nuova definizione di «animale».
Secondo gli autori, infatti, prima dell’introduzione di questo concetto, la più recente proposta
sulla questione della definizione dell’animale dal punto divista morfologico risaliva, anche in
questo caso, a Geoffroy St.-Hilaire12. Lo zootype sarebbe dunque per così dire la «traduzione»
genetica, evolutiva ed evoluzionistica, dell’idea di un piano strutturale comune a tutti gli animali
proposta da Geoffroy St.-Hilaire.
Ciò che secondo Aristotele definisce gli animali, e permette in particolare di distinguerli
dalle piante, è il possesso della sensazione, cioè la facoltà di percepire gli stimoli sensibili 13. A
prima vista, questa definizione sembra corrispondere a quella «comportamentale» indicata da
Slack, Holland e Graham come la teoria standard rimessa in discussione dalla loro proposta. La
10 Cfr. in particolare S.J. Gould, R.C. Lewontin, The Spandrels of San Marco and the Panglossian Paradigm: A
Critique of the Adaptationist Programme, in Proceedings of the Royal Society of London, Series B, Biological
Sciences, Vol. 205, No. 1161, The Evolution of Adaptation by Natural Selection (Sept. 21, 1979), pp. 581-598, p.
585: «An organism is atomized into ’traits’ and these traits are explained as structures optimally designed by naturalselection for their functions. For lack of space, we must omit an extended discussion of the vital issue: “what is atrait?” Some evolutionists may regard this as a trivial, or merely a semsntic problem. It is not. Organisms areintegrated entities, not collections of discrete objects». 11 Cfr. G.P. Wagner, M. Pavlicev, J.M. Chevrud, The road to modularity, in «Nature Reviews», 8, 2007, pp. 921-931: «[I]n spite of the integration of particular parts, many organism display obvious signs of structural andfunctional heterogeneity among these parts. […] In the past 10 years this functional and structural heterogeneity hasbeen considered under a new conceptual umbrella, that of «modularity», although the ideas that support this conceptare much older. Modularity is an abstract concept that seeks to capture the various levels and kinds of heterogeneityfound in organisms, and it is considered a fundamental aspect of biological organization»; Si veda anche A. Minelli,Forme del divenire, cit., p. 200. 12 J.M.W. Slack, P.W.H. Holland e C.F.Graham, The zootype and the phylotypic stage, in «Nature», 361, 1993, pp.490-492: «Since the time of Geoffroy St. Hilaire, there has been non morphological concept of what an animal
really is. We propose that an animal is an organism that displays a particular spatial pattern of gene expression, andwe define this pattern as the zootype». La nozione di zootype è strettamente correlata a quella del phylotypic stage che si richiama all’idea della «ricapitolazione» formulata da Haeckel e soprattutto alle leggi di von Baer, prefigurateda Aristotele (in proposito si veda Russell, Form and Function, cit., p. 14: «In a passage in the De Generatione (ii,3) Aristotle says that the embryo is an animal before it is a particular animal, that the general characters appearbefore the special. This is a foreshadowing of the essential point in von Baer’s law […] He considers also thattissues arise before organs. The homogeneous parts are anterior genetically to the heterogeneous parts and posteriorto the elementary material ( De Partibus, ii., 1, 646b)». 13 In proposito mi permetto di rinviare a A.L. Carbone, La sensazione come tratto distintivo dell’animale nella
zoologia aristotelica , in «Rivista di Estetica», 8 (n.s.), 1998, pp. 95-112.
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definizione formulata da Aristotele, tuttavia, rinvia anch’essa alla morfologia dell’animale, e può
dunque essere considerata, secondo la terminologia degli autori, una «definizione morfologica».
La preminenza della sensazione si traduce infatti, nella biologia aristotelica, in un principio guida
per l’esplicazione dell’organizzazione del piano anatomico degli animali. Così Aristotele
propone una schematizzazione della testa, riconducendo la posizione di tutti gli organi di senso
alla realizzazione delle condizioni migliori per l’esercizio della sensazione. Alla stessa causa
riconduce la posizione dell’encefalo (al quale attribuiva la funzione di raffreddamento del
corpo), osservando che la sua prossimità agli organi di senso garantisce un bilanciamento
«locale» del calore proveniente dal cuore, in vista di una maggiore acutezza delle sensazioni 14.
Infine, e soprattutto, Aristotele insiste sull’importanza della posizione del cuore, sede del
principio della sensazione, in corrispondenza del centro del piano del corpo15.
In un brano della Metafisica (1035b 14) Aristotele elabora dunque queste conclusioni
dell’indagine biologica sul piano della definizione di «animale»:
[1] Poiché dunque l’anima degli animali (questa infatti è la sostanza di ciò che è animato) è la sostanzasecondo il discorso definitorio, la forma e l’essenza di questo tale corpo ([2] ciascuna parte, se la si definiscecorrettamente, non si definisce senza la sua funzione, [3] che non si dà senza sensazione), [4] pertanto le partiprecedono – tutte o certune – l’animale inteso come sinolo, [5] e allo stesso modo il singolo animale. Il corpo e lesue parti sono posteriori a questa sostanza, [6] e in esse, intese come materia, si divide non la sostanza, bensì ilsinolo. [7] Esse però precedono il sinolo in un senso, ma in un altro no, poiché non possono esistere separate. Né sidà il caso che un dito appartenga a un animale comunque sia: piuttosto, quello morto è detto in modo omonimo. [8]Certe parti, poi, sono simultanee, vale a dire tutte quelle principali, nelle quali in prima istanza risiedono il discorsodefinitorio e la sostanza: ad esempio il cuore o l’encefalo, non fa differenza quale dei due sia tale.
Innanzi tutto, [1] Aristotele precisa molto chiaramente che l’anima è la sostanza degli
animali – in quanto appunto si tratta di realtà animate, provviste di anima – intesa nel senso della
definizione, il che significa che la definizione di un animale è in senso primo e principalmente la
definizione dell’anima che lo caratterizza. Ora, la nozione di anima invocata da Aristotele in
questo contesto è quella elaborata nell’ambito dell’indagine biologica, l’anima intesa come atto
primo di un corpo provvisto di organi, con particolare riferimento alla totalità complessa delle
attività e delle funzioni caratteristiche di ogni aspetto della vita animale. In questo senso
Aristotele precisa [2] che occorre dare definizione di ciascuna parte del corpo esplicandone la
funzione: ne consegue (i) che la definizione dell’anima implica la definizione delle parti, vale a
dire una molteplicità di definizioni parziali che sul piano della divisione e della determinazione
14 Cfr. De partibus animalium 652b 16; 656b 2. 15 Cfr. in particolare De partibus animalium 666a 6 e De motu animalium 703a 1.
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dei generi attiene alla molteplicità degli assi di differenziazione corrispondenti alle diverse parti
del corpo; e (ii) che la definizione delle parti è in primo luogo una definizione della loro
funzione, dunque una definizione causale. Ora, [3] poiché la funzione di ciascuna parte non si dà
senza sensazione (la sensazione ne è condizione necessaria), sul piano teleologico il punto di
riferimento comune alle definizioni parziali è la definizione di animale come essere animato
dotato di sensazione. Si stabilisce così una gerarchia teleologica chiara, univoca, unitaria e
rigorosa, imperniata sulla sensazione che, in quanto attività saliente dell’animale, è nel contempo
fine ultimo e condizione necessaria tanto della generazione dell’animale quanto della sua attività
di individuo completamente formato. Aristotele allude a questi due aspetti della questione
osservando per un verso [4] che le parti precedono, almeno alcune, l’animale inteso come sinolo,
nel senso che il possesso delle parti è condizione necessaria per l’esercizio delle rispettive
funzioni e in prima istanza per l’esercizio dell’attività complessa in cui consiste l’anima (come si
evince dalla trattazione svolta in De partibus animalium, 645b 14); e per altro verso [5] che le
medesime parti precedono l’animale inteso come individuo, con riferimento questa volta al
processo della riproduzione e della generazione a partire dal seme del genitore, che precede
l’individuo generato. [6] Le parti del corpo costituiscono dunque la materia, la causa materiale,
dell’animale: in questo senso, il sinolo si divide in parti animate, ma lo stesso non può dirsi della
sostanza, poiché questa equivale all’anima tout court . Un riscontro dei rapporti teleologici tra
anima e corpo intesi dal punto di vista biologico si ritrova nel passo di apertura del Degeneratione animalium, dove Aristotele precisa che «la nozione e ciò in vista di cui inteso come
fine sono la stessa cosa; materia, per gli animali, sono le parti» ( De generatione animalium, 715a
15). Beninteso, [7] le parti dell’animale sono sempre necessariamente parti animate e sono
sempre necessariamente parte integrante di un intero, di una totalità animata e vivente, poiché
altrimenti non si diranno parti in senso proprio, bensì per omonimia. [8] Vi sono poi parti che
occorre considerare come principali, nel senso che in esse in prima istanza risiedono il discorso
definitorio e la sostanza. La definizione dell’anima, pertanto, implica in primo luogo e
principalmente la definizione di queste parti. L’esitazione riguardo al cuore e all’encefalo è
soltanto apparente, poiché si tratta di un preciso riferimento alla polemica contro Platone sul
primato dell’uno o l’altro di questi organi16 (in De partibus animalium, 665b 27, infatti, è in base
16 Si veda in proposito M. Frede, G. Patzig, Aristoteles, Metaphysik Z . Text, Übersetzung und Kommentar, 2 Bände;Zweiter Band: Kommentar , München, Beck, 1988, ad loc.
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alla definizione del «corpo necessario», che Aristotele sviluppa le sue critiche della preminenza
che Platone attribuisce all’encefalo). L’espressione qui impiegata da Aristotele ricalca del resto,
senza dar adito a dubbi, le formule riferite al cuore e alla regione intermedia del corpo che, come
si è visto, ricorrono in diversi altri luoghi, e che conviene qui richiamare ancora una volta:, il
cuore è definito come «principio della sostanza» in De vita 478b 32 e la regione del cuore come
«regione prima del corpo» in De resp. 474a 25, mentre in De juv. 469a 24 Aristotele precisa che
ogni funzione e ogni attività dell’anima e del corpo si esercitano grazie al calore naturale che
proviene da questa regione, osservando che «delle tre parti del corpo, quella intermedia è sede
del principio dell’anima sensibile, e anche di quella accrescitiva e nutritiva», e che questa
regione del corpo si può pertanto definire come «punto medio della sostanza».
Morphospace
Il morphospace è uno dei concetti chiave dell’Evo-devo, e risponde all’esigenza di
rappresentare quantitativamente le variazioni morfologiche nella prospettiva di
un’interpretazione evoluzionistica. Si tratta di una sorta di spazio morfologico virtuale, nel quale
si inquadrano sia le forme realmente attestate in natura, sia forme teoricamente possibili a partire
da un modello dato17.
Anche Aristotele fa ricorso a rappresentazioni basate su uno spazio morfologico teoricoper confrontare l’insieme delle conformazioni e disposizioni ipotetiche delle parti con quelle
effettivamente riscontrate negli esseri viventi. Un esempio è la trattazione comparativa
dell’orientamento delle flessioni delle estremità degli uomini, degli uccelli e dei quadrupedi ( IA
711 a 11). Le differenze prese in considerazione da Aristotele possono essere riassunte come
segue: uomini – flessione superiore concava, flessione inferiore convessa; uccelli – flessione
inferiore concava; quadrupedi – flessione superiore convessa, flessione inferiore concava. La
schematizzazione delle articolazioni dei quadrupedi non coincide con la rappresentazione
funzionale moderna, perché secondo Aristotele, le flessioni salienti si trovano in corrispondenza
del metacarpo e del metatarso.
17 Cfr. G.R. McGhee, The geometry of evolution. Adaptive Landscapes and Theoretical Morphospaces, Cambridge,Cambridge University Press, 2007: «Theoretical morphospaces may be defined most explicitly, if a bit tersely, as«n-dimensional geometric hyperspaces produced by systematically varying the parameter values of a geometric
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Per altro verso, benché concavità e convessità delle flessioni siano stabilite rispetto alla
polarità davanti/dietro, dunque in base a una sola dimensione dello spazio, la schematizzazione
implica anche un rinvio alla polarità sopra/sotto, e presuppone l’analogia dell’asse cefalo-caudale
in animali che presentano un orientamento spaziale differente, come uomini e quadrupedi.
L’insieme delle alternative viene dunque rappresentato in uno schema sinottico:
Posto che vi sono quattro modi della flessione in corrispondenza delle congiunzioni (è necessario, infatti,che si flettano in modo concavo sia le gambe anteriori sia quelle posteriori, come in A, o al contrario in modoconvesso, come in B, o in modo contrapposto e non nello stesso verso, ma quelle anteriori in modo convesso equelle posteriori in modo concavo, come in C, o ancora in modo contrario a questo, le une convesse rispetto allealtre e queste concave rispetto all’esterno, come in D), come avviene in A e in B non effettua la flessione nessunodei bipedi e dei quadrupedi; i quadrupedi lo fanno invece come avviene in C; come avviene in D non lo fa nessunodei quadrupedi, tranne l’elefante, mentre l’uomo flette in questo modo le braccia e le gambe, giacché flette quelle inmodo concavo, e le gambe invece in modo convesso ( IA 712a 1).
In questo caso, la rappresentazione delle estremità è particolarmente schematica, e
permette di stabilire in astratto una «combinatoria» degli accoppiamenti possibili:
L’esame della combinatoria delle alternative possibili è inteso non solo alla sistemazione
schematica delle differenze corrispondenti, ma anche all’esplicazione teleologica delle diverse
caratteristiche. Secondo il principio aristotelico della teleologia naturale, infatti, tra le alternative
model of form»» (p. 57); Si veda anche G.B. Müller, Evo-devo, cit., p. 946: «A three-dimensional matrix of possiblemorphologies that is larger than the set of actual morphologies that are realized in nature».
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possibili la natura realizza sempre la migliore. Quanto alla divisione e alla determinazione dei
generi, il metodo combinatorio è esplicitamente richiamato in Pol. 1290b 2518:
Prese in considerazione tutte le combinazioni posssibili, avremo dunque le specie animali, e vi sarannotante specie quanti sono gli abbinamenti delle parti necessarie.
Il contesto del passo, incentrato sul paragone tra l’organizzazione del corpo vivente e
quella dello stato, è chiaramente distante dall’ambito specifico della ricerca zoologica, nel quale
si verifica che non tutte le combinazioni possibili trovano effettiva realizzazione. Per altri versi,
tuttavia, l’esclusione di alcune delle alternative possibili, permette di individuare le alternative
che realizzano una condizione necessaria in vista di una certa funzione. L’interesse di Aristotele
per questo aspetto del metodo è rivelato dall’esplicito riferimento alla prospettiva teleologica in
IA 711a 16: la causa finale di ogni combinazione riscontrabile in natura attiene al fatto che
ciascuna flessione corrisponde all’effettiva direzione della deambulazione. L’esame dettagliatodelle combinazioni non realizzate mostra infine che si tratta di organizzazioni corrispondenti a
condizioni di fatto irrealizzabili. Questo tipo di argomentazione adotta un procedimento
evidentemente dialettico, che consiste nell’eliminare progressivamente le soluzioni
contraddittorie.
In base a questi criteri, Aristotele è dunque in grado di definire un modello di riferimento
per l’indagine sulla locomozione degli animali, e a tal fine descrive l’orientamento di tutte le
flessioni del corpo umano:Negli uomini, le membra stanno sempre alternativamente in modo contrario, quanto alle flessioni; ad
esempio il gomito si flette in modo concavo e il carpo della mano in modo convesso, e di nuovo la spalla in modoconvesso; similmente, nelle gambe la coscia si flette in modo concavo, il ginocchio in modo convesso e il piede, alcontrario, in modo concavo. Inoltre è evidente che le parti inferiori si flettono in modo contrario rispetto a quellesuperiori, perché il principio è contrario: la spalla si flette in modo convesso e la coscia in modo concavo, e quindianche il piede in modo concavo e il carpo della mano in modo convesso ( IA 712a 13).
La schematizzazione proposta, di una complessità straordinaria, è una chiara
testimonianza dell’importanza che Aristotele attribuisce alla descrizione geometrica
dell’organizzazione del corpo. La concavità e la convessità si determinano, come sempre,
rispetto alla polarità davanti/dietro, che corrisponde alla direzione del movimento. Aristotele
osserva innanzi tutto che concavità e convessità presentano un’alternanza seriale, e in secondo
luogo che nella parte superiore del corpo le flessioni hanno un orientamento opposto rispetto a
18 Si veda in proposito P. Pellegrin, La classification des animaux chez Aristote. Statut de la biologie et unité de
l’aristotélisme, Paris, Presses Universaitaires de France, 1982, p. 148.
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quelle della parte inferiore, mettendo infine in rilievo la contrarietà delle flessioni corrispondenti.
In IA 712b 23 questo modello trova applicazione nell’esame delle estremità degli uccelli:
Gli uccelli flettono le zampe come i quadrupedi. In certo modo, infatti, la loro natura è simile, perché gliuccelli hanno le ali al posto delle zampe anteriori. È per questo che le ali si flettono nello stesso modo in cui nei
quadrupedi si flettono le zampe anteriori, poiché il principio dello spostamento, ovvero del movimento che attienealla deambulazione, proviene dalle ali: il volo, infatti, è il movimento proprio di questi animali. […] Inoltre, poichél’uccello è bipede ma non eretto, e ha le parti anteriori del corpo più leggere, perché stia in piedi è necessario, ocomunque è meglio, che come sostegno abbia la coscia, nel modo in cui effettivamente la ha; intendo dire rivoltanaturalmente all’indietro. Tuttavia, poiché occorreva che stesse in questo modo, è anche necessario che la flessionedelle zampe avvenga in modo concavo, come nelle zampe posteriori dei quadrupedi, per la stessa causa che abbiamoesposto a proposito dei quadrupedi vivipari.
Anche in questo caso l’argomentazione tiene conto per un verso delle cause formali-
finali, mettendo ad esempio in rilievo che il volo è la forma di locomozione propria degli uccelli,
e per altro verso dell’insieme delle condizioni materiali, che attengono ora alle omologie
funzionali (zampe anteriori/ali), ora all’organizzazione generale del corpo.
Theory of transformations
Com’è noto, la «teoria delle trasformazioni» – che mette capo a una rapppresentazione
geometrica della morfologia di specie correlate, e costituisce uno dei primi e più validi tentativi
di coniugare biologia evoluzionistica e biologia dello sviluppo anteriori all’Evo-devo19 – è stata
sviluppata da D’Arcy W. Thompson, profondo conoscitore della biologia aristotelica e traduttore
della Historia animalium. Come altri lettori moderni, tuttavia, Thompson fu sì affascinato dalla
profondità teorica della biologia di Aristotele e dalla ricchezza delle sue osservazioni, ma non
rilevò l’importanza delle schematizzazioni e dell’impiego di modelli geometrici come strumenti
di indagine morfologica da parte del suo antico predecessore20.
Questa circostanza appare ancor più paradossale se si considera che in Aristotele si
trovano almeno due esempi della descrizione di una vera e propria trasformazione topologica
19 Cfr. W. Arthur, D’Arcy Thompson and the theory of transformations, in «Nature Reviews», 7, 2006, pp. 401-406,p. 401. 20 D’A.W. Thompson, Aristotle as a naturalist , in «Nature», 91, 1913, pp. 201-204: «Aristotle is no tyro in biology.When he writes upon mechanics or on physics, we read him with difficulty: his ways are not our ways; hisexplanations seem laboured; his science has an archaic look, as it were coming from another world to ours, a worldbefore Galileo. Speaking with all diffidence, I have my doubts as to his mathematics» (p. 201). S.J. Gould, D’Arcy
Thompson and the Science of Form, in «New Literary History», 2, 1971, pp. 229-258 riconduce al Timeo di Platonee al pensiero pitagorico l’ispirazione antica delle teorie di Thompson, come già aveva proposto G.K. Plochmann, D’Arcy Thompson: His Conception of the Living Body, in «Philosophy of Science», 20, 1953, pp. 139-148, checonsidera platonico, se non anti-aristotelico, l’elemento matematico e geometrico del pensiero di Thompson.
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immaginaria, fondata sull’esplicazione dell’analogia funzionale delle parti. Una riguarda il becco
degli uccelli:
Gli uccelli hanno il becco osseo, in modo che sia utile per la difesa e per il nutrimento; e stretto, a causadella piccolezza della testa: nel becco hanno i canali dell’olfatto, ma è impossibile che abbiano narici. […] Sotto le
narici, nei sanguigni che hanno denti, si trova la natura delle labbra. Negli uccelli, invece, come si è detto, per ladifesa e per il nutrimento il becco è osseo: e riunisce in una sola parte i denti e le labbra, sostituendoli; è come se sitogliessero le labbra a un uomo e si fondessero i denti di sopra e quelli di sotto, separatamente, allungandoli a punta:il risultato sarebbe una sorta di becco di uccello ( De partibus animalium, 659b 21).
La struttura di partenza è dunque costituita dalla conformazione della bocca umana: gli
uccelli non possiedono labbra per via della costituzione ossea del becco (causa materiale), ma
anche perché non possiedono denti – la funzione dei denti essendo svolta dal becco stesso
(analogia) – il che fa venir meno la necessità che una parte svoolga una funzione di protezione
analoga a quella delle labbra (causa finale). In un passo precedente Aristotele precisa inoltre che
il becco è strutturato in maniera tale da non gravare la testa degli uccelli di un peso eccessivo, in
vista del volo, che è la loro modalità propria di locomozione (causa formale/finale). Come si può
dunque osservare, l’esplicazione aristotelica della morfologia del becco degli uccelli tiene conto
di diversi aspetti della causalità, ovvero sia di quelli che attengono alla natura materiale della
parte in questione, sia di quanto concerne la causa formale (le attività specifiche dell’animale) e
finale (le funzioni da svolgere, in vista delle quali è necessario che la parte esaminnata abbia una
certa forma e una certa costituzione materiale). La rappresentazione che mette capo alla
«trasformazione» topologica si inquadra pertanto in questo quadro teorico complesso, ecostituisce una sorta di visualizzazione dell’analogia riscontrata.
Un secondo esempio, altrettanto significativo, riguarda invece la morfologia dei serpenti:
Il genere dei serpenti è simile a quello delle lucertole, che sono animali terrestri ovipari, e quasi tutte leparti si somigliano, come se si trattasse di lucertole allungate e private dei piedi ( Historia animalium, 508a 8).
Aristotele si richiama qui all’organizzazione anatomica della lucertola come a un modello
paradigmatico. La proiezione è piuttosto complessa, poiché si tratta di rappresentare
l’organizzazione dei serpenti come il risultato di una deformazione multipla, cioè come un
prolungamento del corpo secondo l’asse davanti/dietro, associato a un’ideale ablazione delle
zampe. La struttura complessiva del corpo dei serpenti influisce anche sulla conformazione delle
parti interne:
I serpenti, a causa della forma del corpo, che è lunga e stretta, hanno anche la conformazione dei viscerilunga e dissimile da quella degli altri animali, perché le conformazioni di queste parti sono plasmate come inuno stampo a causa dello spazio disponibile ( De partibus animalium, 676b 6).
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Secondo questa esplicazione, la causa della conformazione delle viscere, attiene
all’essenza dell’animale (causa formale), ma è disgiunta da un fine specifico, poiché la forma
allungata dei visceri è determinata dalla struttura del corpo, e non è necessaria in vista di una
certa funzione. Si tratta pertanto di un’esplicazione puramente morfologica, in un senso molto
prossimo a quello della teoria di Thompson.
Tornare ad Aristotele?
Nei confronti della biologia di Aristotele, si assiste nel Novecento a una marcata
inversione di tendenza rispetto all’atteggiamento di lettori come Buffon, Geoffroy de Saint-
Hilaire o Lamarck, che attingevano alle osservazioni di Aristotele come a un repertorio di dati (la
cui vastità rimase pressoché ineguagliata fino a buona parte dell’Ottocento) svincolati dal loro
«scomodo» impianto teorico originario. Gli studi che in seguito, con diversi esiti, hanno indagato
il rapporto tra la biologia aristotelica e quella moderna, hanno dato poco peso alle indagini
condotte da Aristotele «sul campo» facendo riferimento invece al pensiero aristotelico in merito
al rapporto tra materia e forma; finalità, caso e necessità; attualità e potenzialità ecc., e
confrontandolo con gli esiti, le sopravvivenze o le analogie che questi concetti hanno nell’ambito
del darwinismo o della genetica.
Ora, se attingere all’opera di Aristotele come a un repertorio di dati osservativi è ormaiimpossibile o comunque senz’altro inutile, cercare il confronto sul piano teorico espone quanto
meno al rischio di incorrere in anacronismi. Inoltre, quest’ultimo tipo di lettura, benché sembri
voler dare peso a ciò che Aristotele ha (ancora) da dire, risulta ugualmente problematico proprio
dal punto di vista di Aristotele.
Le nozioni aristoteliche invocate, infatti, sono riportate di norma a un livello di astrazione
che è loro del tutto estraneo nel contesto originario, poiché nell’opera di Aristotele non
costituiscono uno schema preconcetto ed estrinseco rispetto alle vive esigenze della ricerca
biologica. Attenersi, ad esempio, alle nozioni di forma o di fine elaborate da Aristotele
nell’ambito della metafisica o della fisica, significa ignorare le significative elaborazioni delle
medesime nozioni che egli stesso mette a punto nell’ambito specifico della biologia. L’attrito tra
astratto e concreto che deriva ad esempio dal confronto tra l’idea aristotelica di forma e quella
moderna di programma genetico, insomma, non è, o non è soltanto, un effetto di prospettiva
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storica, ma avviene già mutatis mutandis nella pratica di Aristotele, che richiama i principi più
generali per analizzare dettagli come il movimento delle palpebre degli uccelli, l’orientamento
del cuore dei pesci, la conformazione del corpo dei serpenti o lo sviluppo degli embrioni.
Da questo punto di vista, sono proprio gli scienziati novecenteschi ad aver mostrato, più
dei filosofi o degli storici, un’acuta sensibilità alla biologia aristotelica. Constatata la senescenza
delle informazioni riportate da Aristotele, scienziati come D’Arcy W. Thompson, Max Delbrück
o René Thom hanno «anarchicamente» riletto le sue opere biologiche, di prima mano, senza
separare i dati dalle nozioni e senza dare privilegiare un piano rispetto all’altro. Hanno riletto
Aristotele perché hanno trovato utile farlo: hanno trovato, cioè, che rovistare nel retrobottega
della storia21 potesse riservare qualche sorpresa interessante, al di là di ogni assunzione «forte»
sul piano epistemologico quanto alla continuità dei presupposti e dei problemi, per arricchire la
loro strumentazione teorica e testarla nell’unico modo realmente efficace, cioè confrontandola
con un diverso modo di vedere le cose. Con questo stesso spirito è dunque possibile leggere
alcuni aspetti del pensiero biologico di Aristotele che riguardano un ambito di problemi
comparabile a quello affrontato oggi dall’Evo-devo: la relazione tra forme e funzioni degli esseri
viventi22. Riconoscere l’irriducibile diversità della scienza aristotelica, il suo essere «inattuale»,
offre alla scienza odierna un’occasione preziosa di confronto intorno ai limiti del sapere
scientifico, ai suoi fondamenti teorici, e in fin dei conti alla sua inevitabile transitorietà.
21 Cfr. la magistrale lezione benjaminiana di P. Rossi, Sulle rivoluzioni e sui classici (nella scienza), in I classici e la
scienza. Gli antichi, i moderni, noi, a cura di I. Dionigi, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 67-81, p. 69: «Gli antiquarirovistano abitualmente nelle cantine e nelle soffitte. Più raramente (anche se talora accade) trovano cose interessantinella spazzatura. Gli storici rovistano in ciascuno di questi luoghi. Nonostante gli storici della scienza sianoparticolarmente asfissiati dalla invadenza degli epistemologi (che – senza mai praticarla – spiegano loro incontinuazione che cosa deve essere la storia della scienza) concordano tuttavia quasi tutti con tutti gli altri storici diprofessione: considerano con attenzione non solo la storia dei vincitori, ma anche quella dei vinti». 22 Per la relazione forma/funzione come cardine dell’Evo-devo si veda A. Minelli, Forme del divenire, cit.