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 1 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”,  Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44. Andrea L. Carbone Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno L’andirivieni al quale mi riferisco parafrasando la celebre formula coniata da Etienne Gilson a proposito di Aristotele e Darwin 1  vuole estendersi, per quel che concerne il polo a noi cronologicamente più prossimo, ai recenti esiti della biologia evoluzionistica dello sviluppo (Evo-devo) che costituiscono un mutamento da più parti considerato radicale e rivoluzionario nella concezione dell’evoluzione delle forme organiche. Nata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento e oggi in vivace sviluppo, la «biologia evoluzionistica dello sviluppo» 2 , solitamente indicata mediante l’informale abbreviazione Evo-devo, è un tentativo di unificare due branche della biologia rimaste in precedenza piuttosto distanti: la biologia dello sviluppo e la biologia evoluzion istica. L’affermarsi della cosiddetta «sintesi moderna», interamente focalizzata sul problema di individuare e definire i meccanismi fondamentali dell’ereditarietà e della selezione naturale, e a studiarne l’interazione, per molti anni aveva determinato una netta separazione tra i due campi fondamentali della biologia. Infatti, gli studiosi interessati alla filogenesi, cioè all’evoluzione delle specie, poco o punto si interessavano all’ontogenesi, vale a dire alle modalità dello sviluppo e della crescita degli individui dai gameti all’organismo adulto e dunque alla crescita e alla differenziazione cellulare che determinano la morfogenesi, cioè il processo generativo di tessuti e organi. O, per meglio dire, i due gruppi di studiosi interpretavano il medesimo fenomeno – perché un certo essere vivente è fatto proprio c osì e non altrimenti – secondo due prospettive che apparivano inconciliabili e davano luogo a programmi di ricerca divergenti . Per queste ragioni, molti scienziati intravedono oggi nell’Evo-devo il nucleo di una nuova sintesi («  più moderna», come l’ha ironicamente qualificata S.B. Carroll). L’obiettivo di 1  E. Gilson, D’Aristo te à Dar win et re tour. Essa i sur quelqu es constan tes de la b iophilosop hie , Paris, Vrin, 1971.  2  La discilpina prende il nome dal titolo della pionieristica monografia di B.K. H all,  Evolutio nary De velopmenta l  Biology, London, Chapman & Hall, 1992.  

Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno

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Historians have often tried to find some predecessors of Evo-Devo dating back to Geoffroy Saint-Hilaire, Karl Von Baer, Ernst Haeckel or D'Arcy W. Thompson. The aim of this paper is to show that Aristotle could be considered as a more ancient starting point, particularly concerning the following key concepts: the body-plan, i.e. the representation of an organism's symmetry and morphology; the zootype, i.e. a common morphological blueprint shared by all animals; the morphospace, i.e. the representation of the forms, shapes or structures an organism could virtually have; and the theory of transformations, i.e. the geometrical representation of the differences between the forms of related species. Nonetheless, in order both to avoid anachronism, and to be more productive, this comparison is made on the field of comparative science.

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1 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”, Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44.

Andrea L. Carbone

Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno

L’andirivieni al quale mi riferisco parafrasando la celebre formula coniata da Etienne

Gilson a proposito di Aristotele e Darwin1 vuole estendersi, per quel che concerne il polo a noi

cronologicamente più prossimo, ai recenti esiti della biologia evoluzionistica dello sviluppo

(Evo-devo) che costituiscono un mutamento da più parti considerato radicale e rivoluzionario

nella concezione dell’evoluzione delle forme organiche.

Nata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento e oggi in vivace sviluppo, la

«biologia evoluzionistica dello sviluppo»2, solitamente indicata mediante l’informale

abbreviazione Evo-devo, è un tentativo di unificare due branche della biologia rimaste in

precedenza piuttosto distanti: la biologia dello sviluppo e la biologia evoluzionistica.

L’affermarsi della cosiddetta «sintesi moderna», interamente focalizzata sul problema di

individuare e definire i meccanismi fondamentali dell’ereditarietà e della selezione naturale, e a

studiarne l’interazione, per molti anni aveva determinato una netta separazione tra i due campifondamentali della biologia. Infatti, gli studiosi interessati alla filogenesi, cioè all’evoluzione

delle specie, poco o punto si interessavano all’ontogenesi, vale a dire alle modalità dello sviluppo

e della crescita degli individui dai gameti all’organismo adulto e dunque alla crescita e alla

differenziazione cellulare che determinano la morfogenesi, cioè il processo generativo di tessuti e

organi. O, per meglio dire, i due gruppi di studiosi interpretavano il medesimo fenomeno –

perché un certo essere vivente è fatto proprio così e non altrimenti – secondo due prospettive che

apparivano inconciliabili e davano luogo a programmi di ricerca divergenti.

Per queste ragioni, molti scienziati intravedono oggi nell’Evo-devo il nucleo di una

nuova sintesi (« più moderna», come l’ha ironicamente qualificata S.B. Carroll). L’obiettivo di

1 E. Gilson, D’Aristote à Darwin et retour. Essai sur quelques constantes de la biophilosophie, Paris, Vrin, 1971. 2 La discilpina prende il nome dal titolo della pionieristica monografia di B.K. Hall, Evolutionary Developmental 

 Biology, London, Chapman & Hall, 1992. 

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2 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”, Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44.

questa nuova sintesi consiste dunque nell’indagare le origini della diversità e della complessità

morfologica degli esseri viventi anche grazie a uno studio comparato dei geni che ne regolano lo

sviluppo, cioè integrando le acquisizioni dell’embriologia nello studio dell’evoluzione delle

specie.

Quanto ai suoi presupposti teorici più recenti, l’Evo-devo si fonda esssenzialmente su due

importanti acquisizioni: i meccanismi di regolazione dell’espressione dei geni scoperti da

François Jacob e Jacques Monod nei batteri Escherichia coli, che valse ai due scienziati il premio

Nobel per la medicina nel 1965 insieme ad André Lwoff; e la scoperta dell’esistenza di un

corredo di «geni master» che controllano lo sviluppo e regolano la morfogenesi del moscerino

della frutta (drosophila melanogaster) da parte di E.B. Lewis, che ricevette il premio Nobel per

la medicina nel 1995, esattamente trent’anni dopo Jacob e Monod, ma aveva pubblicato i risultati

delle sue ricerche già a partire dagli anni Cinquanta del Novecento e soprattutto negli anni

Ottanta e Novanta3. In estrema sintesi, l’idea centrale dell’Evo-devo è che tutti gli organismi

viventi appartenenti al regno animale e caratterizzati da un elevato grado di complessità

morfologica (metazoi) condividono un uguale corredo di geni (HOX) preposti alla formazione e

all’organizzazione della struttura corporea generale e della conformazione delle singole parti;

che questo corredo di geni è molto antico da un punto di vista evoluzionistico; che la

straordinaria molteplicità e diversità delle forme viventi, apparentemente paradossale rispetto a

questa identità – identità che non solo è originaria in senso filogenetico, ma è straordinariamenteconservata ed è determinante dal punto di vista ontogenetico nelle specie attuali – si spiega con i

meccanismi di inibizione e regolazione dell’espressione genica, i quali fanno sì che uno stesso

gene possa dare esiti fenotipicamente differenti a seconda che si esprima oppure no e in base alla

fase (o alle fasi) dello sviluppo in cui si esprime.

I geni che determinano la formazione di una struttura o di un organo nella posizione

«corretta» sono i geni omeotici, definiti da una sequenza di DNA formata da 180 nucleotidi

denominata Homeobox che codifica per un dominio proteico detto omeodominio. I geni omeotici

3 Conviene in effetti far coinidere la data di nascita dell’Evo-devo con la scoperta del ruolo dei geni homeobox e delsottogruppo HOX intorno alla metà degli anni Ottanta. Per una bibliografia e un orientamento generale si può fareriferimento a S.B. Carroll, Infinite forme bellissime. La nuova scienza dell’Evo-Devo, Torino, Codice edizioni, 2006e A. Minelli, Forme del divenire. Evo-devo: la biologia evoluzionistica dello sviluppo , Torino, Einaudi, 2007. Sivedano anche W. Arthur, The emerging conceptual framework of evolutionary developmental biology, in «Nature»,415, 2002, pp. 757-764 e G.B. Müller, Evo-devo: extending the evolutionary synthesis, «Nature Reviews», 8, 2007,pp. 943-949. 

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3 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”, Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44.

sono molto vicini tra loro nel cromosoma, dove sono raggruppati in clusters («grappoli») e sono

caratterizzati dalla cosiddetta «colinearità», sia spaziale che cronologica. La loro funzione, come

si è detto, cosniste nel regolare l’espressione di altri geni, che a loro volta determinano la

formazione dei tessuti, delle strutture o degli organi. I geni omeotici sono determinanti a un

livello strutturale più elevato, poiché regolano la struttura generale del corpo, suddivisa in

regioni che si succedono ordinatamente, una dopo l’altra, secondo l’asse antero-posteriore. Ora,

la colinearità consiste nel fatto che l’ordine in cui si trovano i geni omeotici corrisponde

spazialmente a quello delle regioni del corpo, e la sequenza temporale in cui si esprimono nel

corso dello sviluppo dell’embrione corrisponde anch’essa al loro allineamento spaziale.

Grazie allo studio dei geni omeotici, della loro colinearità e dei meccanismi regolativi che

li caratterizzano, l’Evo-devo offre dunque basi nuove alla descrizione del corpo vivente nei

termini di un body plan, ovvero di una mappa del corpo ripartito in «regioni» spaziali salienti.

L’individuazione degli assi di simmetria, la delimitazione delle parti, la schematizzazione

dell’organizzazione  degli esseri viventi, e in particolare il reperimento di omologie tra specie

distinte, finora basati sulla ricognizione di elementi visibili  allo sguardo anatomico e

morfologico, possono essere letti, ora, come l’espressione di geni la cui attività è

microscopicamente visualizzabile nei tessuti degli embrioni in via di sviluppo. Per queste ragioni

l’Evo-devo costituisce un modo nuovo di concepire la relazione tra ontogenesi e filogenesi, tra lo

sviluppo embrionale e i mutamenti fenotipici che si producono nel corso dell’evoluzione, epermette, almeno potenzialmente, di estendere all’intero regno animale la comparazione tra le

strutture e le forme organiche di specie diverse, anche molto distanti tra loro, ben al di là delle

somiglianze morfologiche esteriori.

Se da Aristotele all’Evo-devo il cammino è lungo, la strada del ritorno appare ancor più

tortuosa e accidentata. Le ragioni d’interesse che la biologia aristotelica riveste per la biologia

contemporanea4 attengono a mio avviso essenzialmente alla sua discontinuità rispetto alla

4 Non mancano nella letteratura i precedenti, anche illustri. Si veda la straordinaria ricostruzione della biologiaaristotelica, in chiave moderna, proposta da E.S. Russell, Form and function. A contribution to the History of Animal 

 Morphology, London, J. Murray, 1916; H.B. Torrey, F. Felin, Was Aristotle an Evolutionist?, in «The QuarterlyReview of Biology», 12, 1937, pp. 1-18; M. Delbrück, Aristotle-totle-totle, in J. Monod, E. Borek, Of Microbes and 

 Life, New York, Columbia University Press, 1971, pp. 50-55: «Nobody would deny that Aristotle’s physics was acatastrophe, while his biology abunds in aggressive speculative analysis of vast observations on morphology,anatomy, systematics, and, most importantly, on embryology and development. […] If that committee in Stockholm,which has the unenviable task each year of pointing out the most creative scientists, had the liberty of giving awards

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4 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”, Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44.

scienza odierna. La concezione della scienza elaborata da Aristotele non appartiene, e non può

più appartenere, al sapere scientifico attuale: altro è il suo statuto, diversi sono i criteri della

selezione delle fonti, l’impiego delle forme di ragione e dei modelli di argomentazione. Ogni

nuova generazione di scienziati tende a costruire, a «inventare» la sua propria tradizione5, la cui

freccia del tempo punta allora in realtà dal futuro verso il passato6. Diversamente, i tentativi di

indicare «precursori» o «anticipatori» di dottrine più moderne mettono capo inevitabilmente ad

anacronismi. Nel caso specifico del rapporto tra Aristotele e i più recenti sviluppi della biologia,

interpretazioni di questo genere rivelano peraltro un risvolto paradossale: se, per un verso, si

associa l’avanzamento della scienza biologica allo svincolarsi dall’«ostacolo epistemologico»

rappresentato dal (presunto) provvidenzialismo della teleologia aristotelica, la possibilità stessa

che qualche idea di Aristotele «precorra i tempi» e ne «anticipi» una più moderna si inquadra in

una visione eminentemente teleologica della storia della scienza. 

Per altro verso, l’interpretazione del pensiero di Aristotele è ben lungi dall’essere univoca

nell’ambito degli studi specialistici, e l’opera biologica, in particolare, è stata di fatto ignorata

per secoli dai commentatori: l’attuale straordinaria fioritura di studi critici sul tema e traduzioni è

molto recente, poiché ha inizio negli anni Settanta del Novecento. Parallelamente, l’affacciarsi di

nuove teorie scientifiche innesca risonanze inedite, e permette di intravedere nell’opera di un

pensatore del passato aspetti che in precedenza potevano rimanere nascosti7.

posthumously, I think they should consider Aristotle for the discovery of the principle implied in DNA» (pp. 53; 54-55); M. Grene, Aristotle and Modern Biology, in «Journal of the History of Ideas», 33, 1972, pp. 395-424; le paginededicate ad Aristotele da E. Mayr, The Growth of Biological Thought , Cambridge (Mass.)-London, HarvardUniversity Press, 1982 e J.C.Greene, From Aristotle to Darwin: Reflections on Ernst Mayr’s Interpretation in TheGrowth of Biological Thought, in «Journal of the History of Biology», 25, 1992, pp. 257-284; M.T. Ghiselin, Can

 Aristotle be Reconcilied with Darwin?, in «Systematic Zoology», 34, 1985, pp. 457-460; W.A. Muller, From the

  Aristotelian soul to genetic and epigenetic information: the evolution of the modern concepts in developmental 

biology at the turn of the century , in «International Journal of Developmental Biology», 40, 1996, pp. 21-26; T.Vinci e J.S. Robert, Aristotle and Modern Genetics, in «Journal for the History of Ideas», 66, 2005, pp. 201-221; D.Walsh, Evolutionary Essentialism , in « British Journal for the Philosophy of Science», 57, 2006, pp. 425-448. 5 Cfr. E. Hobsbawm,  Introduction: inventing traditions, in E. Hobsbawm, T. Ranger, The Invention of Tradition,Cambridge, Cambridge University Press, 1983, pp. 1-14: «“Invented tradition” is taken to mean a set of practices,

normally governed by overtly or tacitly accepted rules and of a ritual or symbolic nature, which seek to inculcatecertain values and norms of behaviour by repetition, which automatically implies continuity with the past. Infact,where posssible, they normally attempt to establish continuity with a suitable historic past». 6 Mi servo naturalmente del lessico di Koselleck: «I concetti non ci insegnano solo a capire l’unicità di significatipassati (per noi), ma contengono anche possibilità strutturali, tematizzano contemporaneità del non-contemporaneo,che non possono essere ridotte al puro decorso cronologico della storia» (R. Koselleck,  Rappresentazione, evento e

struttura, in Id., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, Marietti, 1986, pp. 123-134). 7 Si veda ad esempio T. Vinci e J.S. Robert,  Aristotle and Modern Genetics, cit., ben documentato sugli esiti piùrecenti degli studi aristotelici di area anglosassone. Con acuta ironia, gli autori osservano che «Mayr and Müller’sAristotle is a child no mother would recognize» (p. 205). 

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5 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”, Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44.

 Body plan

Il body plan, il «piano» o la «mappa» del corpo, è una schematizzazione della

disposizione spaziale delle parti costitutive degli esseri viventi secondo assi polari che

permettono di apprezzarne la simmetria e la generale delimitazione e disposizione, consentendo

di enumerarne le porzioni rilevanti, con particolare riferimento alle strutture ricorsive. Uno degli

obiettitvi fondanti dell’Evo-devo consiste nel comprendere le basi genetiche dell’evoluzione

morfologica, cioè nel ricondurre la diversità del body plan di taxa distinti ad antenati comuni,

ricostruendo la storia evolutiva che da un corredo di geni relativamente ristretto e, in prospettiva

filogenetica, altamente conservato, è sfociato nella varietà di forme degli organismi più recenti 8.

La schematizzazione sistematica dell’organizzazione degli esseri viventi e di un modello

di riferimento per la comparazione della loro morfologia fu per la prima volta messa a punto da

Aristotele, e costituisce probabilmente il suo apporto più rilevante allo sviluppo dell’anatomia

comparata. Il criterio generale della rappresentazione aristotelica dell’organizzazione del corpo

consiste nella corrispondenza tra la collocazione delle parti nello spazio e la loro funzione. Il

corpo umano costituisce il modello normativo per l’indagine sull’intero mondo vivente. La

schematizzazione consiste essenzialmente di coordinate polari denominate «assi dimensionali»,

cioè destra/sinistra, davanti/dietro e alto/basso; dell’opposizione tra centro e periferia; e delladistinzione di diversi tipi di parti e di regioni del corpo definite da un punto di vista

sostanzialmente spaziale e funzionale: la distinzione (1) di tre livelli di composizione

[synthêseis] delle parti del corpo, cioè elementi semplici, parti omeomere e parti non omeomere;

(2) delle «membra» [melê ]; (3) delle «parti maggiori» [megista tôn merôn], ovvero testa, collo,

tronco, le due estremità anteriori e le due posteriori; (4) di un «corpo necessario» [anagkaion

sôma], che racchiude le parti indispensabili per il mantenimento delle funzioni vitali, distinto

dalle «estremità» [kôla]. È dunque facendo riferimento al medesimo schema che Aristotele

studia la diversità dell’organizzazione del corpo umano e di quello di tutti gli animali diversi

dall’uomo a lui noti, dalle spugne e le ascidie agli insetti, dai «molluschi», gli «ostracodermi» e i

8 Cfr. W. Arthur, The Origin of Animal Body Plans: A Study in Evolutionary Developmental Biology, Cambridge,Cambridge University Press, 1997; J. Garcia-Fernandez, The Genesis and Evolution of Homeobox Gene Clusters, in«Nature Review», 6, 2005, pp. 881-892; B.J. Swalla,  Building divergent body plans with similar genetic pathways,in «Heredity», 97, 2006, pp. 235-243. 

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6 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”, Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44.

crostacei ai quadrupedi sanguigni, ecc.

L’applicazione forse qui più interessante di questo procedimento riguarda la

schematizzazione del corpo dei «molluschi» [malakia], un raggruppamento che coincide

all’incirca con quello degli odierni cefalopodi. Si dà il caso che proprio questo argomento abbia

costituito un elemento di rottura nel famoso dibattito tra Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire a

proposito della possibilità di stabilire analogie di organizzazione intorno ai viventi compresi in

embranchements distinti in base alla sistematica proposta da Cuvier nella sua opera   Le Règne

animal . In uno scritto che non fu mai dato alle stampe, infatti, due allievi di Geoffroy Saint-

Hilaire, Meyranx e Laurencet, avevano proposto una comparazione tra la disposizione

dell’apparato digerente dei pesci, compresi nell’embranchement  dei vertebrata, e quello dei

calamari o delle seppie, compresi invece nell’embranchement  dei mollusca (denominazione

peraltro ricalcata sul precedente aristotelico), osservando che la disposizione secondo l’asse

cefalo-caudale tipica del tubo digerente dei pesci, e in generale di tutti i vertebrati, può essere

riscontrata anche nei molluschi, dove però si presenta ripiegata su se stessa, in modo tale che

l’ano viene a trovarsi in prossimità della bocca. Com’è noto, Cuvier si oppose strenuamente a

una simile ipotesi, basata sull’idea che l’organizzazione di tutti gli animali potesse essere

ricondotta a un’unica struttura paradigmatica.

L’idea risale in realtà ad Aristotele. In un passo del  De partibus animalium (684b 21) si

trova un rinvio a un’illustrazione che rappresentava i diversi modelli di organizzazione degli«animali non sanguigni», un raggruppamento che comprendeva quattro generi principali: insetti,

molluschi, malacostraci (crostacei) e ostracodermi (testacei). Il procedimento adottato consiste

nell’assumere come punto di riferimento la disposizione delle parti comuni al genere degli

animali sanguigni e a quello degli animali non sanguigni. La comparazione si basa sull’analogia

delle funzioni. Le parti prese in considerazione sono dunque esofago, stomaco e intestino:  

La natura dei molluschi e degli stromboidi, infatti, sta in questo modo, se la si pensa su una retta, comeaccade per gli animali quadrupedi e per gli uomini: in primo luogo, all’estremo superiore, la bocca è un punto A

della retta, quindi B è l’esofago, C lo stomaco, e D la regione che si estende dall’intestino sino all’uscita del residuo.Nello stesso modo per gli animali sanguigni, e a questo proposito si distinguono la testa e il cosiddetto ’tronco’. Lanatura ha disposto le parti restanti in vista di queste o in vista del movimento, come le membra anteriori e quelleposteriori. La rettezza delle parti interne tende a stare nello stesso modo anche nei malacostraci e negli insetti, maessi differiscono dai sanguigni all’esterno, quanto a ciò che serve per il movimento. I molluschi e - tra gliostracodermi - gli stromboidi, stanno in modo simile tra loro ,  ma in modo opposto a questi. La regione terminale,infatti, è piegata verso il principio, come se piegando la retta sulla quale sta E si riportasse D ad A. Dacché, infatti, leparti interne giacciono in questo modo, il mantello avvolge nei molluschi la parte che soltanto nei  polipi è detta’testa’; negli ostracodermi, invece, la parte siffatta è lo ’strombo’. Non differiscono in nient’altro, tranne per il fattoche la natura ha disposto che la cironferenza intorno alla parte carnosa sia molle negli uni, negli altri dura, in modo

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7 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”, Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44.

che li difenda a causa della cattiva attitudine al movimento. E per questo il residuo nei molluschi fuoriesce vicinoalla bocca, e anche negli stromboidi, tranne che nei molluschi dal basso, negli stromboidi dal fianco.

La schematizzazione proposta da Aristotele consente di mettere in rilievo i termini di

comparazione tra l’organizzazione degli animali sanguigni – e in particolare dell’uomo, che

costituisce il modello di riferimento – e quella degli animali non sanguigni, che viene

rappresentata come una variazione strutturale di questo paradigma morfologico. Viene dunque

stabilita una corrispondenza punto per punto tra le parti, che presenta una sintesi visuale delle

similitudini e delle differenze tra i generi, mettendo in evidenza non solo le diverse

caratteristiche strutturali del corpo intero, ma anche certe analogie altrimenti irriconoscibili. Il

diagramma al quale si riferisce Aristotele non riporta una schematizzazione esclusivamente

geometrica, poiché tiene conto sia della prospettiva teleologica e funzionale sia del modello delle

«parti principali», individuando in particolare la posizione della testa e del tronco, ed escludendole estremità in quanto parti non necessarie alla sopravvivenza dell’animale. La posizione dei

visceri di tutti gli animali viene individuata su un’ideale linea continua, corrispondente all’asse

cefalo-caudale, che presenta un caratteristico andamento ricurvo nel caso di alcuni animali non

sanguigni.

Ciò che appariva inaccettabile a Cuvier, e a Geoffroy radicalmente innovativo, costituiva

dunque la linea guida dell’anatomia comparata di Aristotele. I due scienziati avevano certo

ampie frequentazioni della biologia aristotelica, ma è difficile stabilire se fossero consapevoli di

questo precedente. Dovrebbero però tenerne conto i lavori che oggi riconoscono la fondatezza

delle idee di Geoffroy in merito all’intuizione di un piano strutturale comune a tutti gli animali,

indicando nello scienziato uno degli «anticipatori» dell’Evo-devo9.

Quel che può stimolare un confronto con la biologia contemporanea, a parte la

sorprendente corrispondenza rilevata, è l’elaborazione, da parte di Aristotele, di una concezione

per così dire «non essenzialista», plurale, della relazione tutto/parte, che può essere inquadrata

secondo una molteplicità di modelli alternativi. Questo apetto del metodo aristotelico si situa

infatti a mio avviso sullo stesso piano teorico rispetto a una questione attualmente aperta che

9 Cfr. A.L. Penchen, Etienne Geoffroy St.-Hilaire: father of «evo-devo»?, in «Evolution & Development», 3, 2001,pp. 41-46 e A. Minelli, Forme del divenire, cit., p. 10. E.S. Russell, Form and function, cit., p. 10 segnala il passoaristotelico come precedente della teoria di Meyranx e Laurencet, ma non si sofferma sull’applicazione del modellodelle «parti principali», da parte di Aristotele, all’intera serie animale, considerando anzi la schematizzazione deimolluschi come «his only excursion into the realm of «transcendental anatomy»». 

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8 – postprint – “Da Aristotele all’Evo-devo e ritorno”, Intersezioni, 30 (2010), pp. 27-44.

attiene alla difficoltà di definire che cosa sia un «tratto»10, ovvero al modo in cui occorre

inquadrare e scomporre in parti o «moduli»11 la complessità di un organismo.

 Zootype

La nozione di «zootype» è stata formulata all’inizio degli anni Novanta da J.M.W. Slack,

P.W.H. Holland e C.F.Graham come fondamento di una nuova definizione di «animale».

Secondo gli autori, infatti, prima dell’introduzione di questo concetto, la più recente proposta

sulla questione della definizione dell’animale dal punto divista morfologico risaliva, anche in

questo caso, a Geoffroy St.-Hilaire12. Lo  zootype sarebbe dunque per così dire la «traduzione»

genetica, evolutiva ed evoluzionistica, dell’idea di un piano strutturale comune a tutti gli animali

proposta da Geoffroy St.-Hilaire.

Ciò che secondo Aristotele definisce gli animali, e permette in particolare di distinguerli

dalle piante, è il possesso della sensazione, cioè la facoltà di percepire gli stimoli sensibili 13. A

prima vista, questa definizione sembra corrispondere a quella «comportamentale» indicata da

Slack, Holland e Graham come la teoria standard rimessa in discussione dalla loro proposta. La

10 Cfr. in particolare S.J. Gould, R.C. Lewontin, The Spandrels of San Marco and the Panglossian Paradigm: A

Critique of the Adaptationist Programme, in Proceedings of the Royal Society of London, Series B,  Biological 

Sciences, Vol. 205, No. 1161, The Evolution of Adaptation by Natural Selection (Sept. 21, 1979), pp. 581-598, p.

585: «An organism is atomized into ’traits’ and these traits are explained as structures optimally designed by naturalselection for their functions. For lack of space, we must omit an extended discussion of the vital issue: “what is atrait?” Some evolutionists may regard this as a trivial, or merely a semsntic problem. It is not. Organisms areintegrated entities, not collections of discrete objects». 11 Cfr. G.P. Wagner, M. Pavlicev, J.M. Chevrud, The road to modularity, in «Nature Reviews», 8, 2007, pp. 921-931: «[I]n spite of the integration of particular parts, many organism display obvious signs of structural andfunctional heterogeneity among these parts. […] In the past 10 years this functional and structural heterogeneity hasbeen considered under a new conceptual umbrella, that of «modularity», although the ideas that support this conceptare much older. Modularity is an abstract concept that seeks to capture the various levels and kinds of heterogeneityfound in organisms, and it is considered a fundamental aspect of biological organization»; Si veda anche A. Minelli,Forme del divenire, cit., p. 200. 12 J.M.W. Slack, P.W.H. Holland e C.F.Graham, The zootype and the phylotypic stage, in «Nature», 361, 1993, pp.490-492: «Since the time of Geoffroy St. Hilaire, there has been non morphological concept of what an animal

really is. We propose that an animal is an organism that displays a particular spatial pattern of gene expression, andwe define this pattern as the zootype». La nozione di  zootype è strettamente correlata a quella del phylotypic stage che si richiama all’idea della «ricapitolazione» formulata da Haeckel e soprattutto alle leggi di von Baer, prefigurateda Aristotele (in proposito si veda Russell, Form and Function, cit., p. 14: «In a passage in the  De Generatione (ii,3) Aristotle says that the embryo is an animal before it is a particular animal, that the general characters appearbefore the special. This is a foreshadowing of the essential point in von Baer’s law […] He considers also thattissues arise before organs. The homogeneous parts are anterior genetically to the heterogeneous parts and posteriorto the elementary material ( De Partibus, ii., 1, 646b)». 13 In proposito mi permetto di rinviare a A.L. Carbone,   La sensazione come tratto distintivo dell’animale nella

 zoologia aristotelica , in «Rivista di Estetica», 8 (n.s.), 1998, pp. 95-112. 

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definizione formulata da Aristotele, tuttavia, rinvia anch’essa alla morfologia dell’animale, e può

dunque essere considerata, secondo la terminologia degli autori, una «definizione morfologica».

La preminenza della sensazione si traduce infatti, nella biologia aristotelica, in un principio guida

per l’esplicazione dell’organizzazione del piano anatomico degli animali. Così Aristotele

propone una schematizzazione della testa, riconducendo la posizione di tutti gli organi di senso

alla realizzazione delle condizioni migliori per l’esercizio della sensazione. Alla stessa causa

riconduce la posizione dell’encefalo (al quale attribuiva la funzione di raffreddamento del

corpo), osservando che la sua prossimità agli organi di senso garantisce un bilanciamento

«locale» del calore proveniente dal cuore, in vista di una maggiore acutezza delle sensazioni 14.

Infine, e soprattutto, Aristotele insiste sull’importanza della posizione del cuore, sede del

principio della sensazione, in corrispondenza del centro del piano del corpo15.

In un brano della Metafisica (1035b 14) Aristotele elabora dunque queste conclusioni

dell’indagine biologica sul piano della definizione di «animale»:

[1] Poiché dunque l’anima degli animali (questa infatti è la sostanza di ciò che è animato) è la sostanzasecondo il discorso definitorio, la forma e l’essenza di questo tale corpo ([2] ciascuna parte, se la si definiscecorrettamente, non si definisce senza la sua funzione, [3] che non si dà senza sensazione), [4] pertanto le partiprecedono – tutte o certune – l’animale inteso come sinolo, [5] e allo stesso modo il singolo animale. Il corpo e lesue parti sono posteriori a questa sostanza, [6] e in esse, intese come materia, si divide non la sostanza, bensì ilsinolo. [7] Esse però precedono il sinolo in un senso, ma in un altro no, poiché non possono esistere separate. Né sidà il caso che un dito appartenga a un animale comunque sia: piuttosto, quello morto è detto in modo omonimo. [8]Certe parti, poi, sono simultanee, vale a dire tutte quelle principali, nelle quali in prima istanza risiedono il discorsodefinitorio e la sostanza: ad esempio il cuore o l’encefalo, non fa differenza quale dei due sia tale. 

Innanzi tutto, [1] Aristotele precisa molto chiaramente che l’anima è la sostanza degli

animali – in quanto appunto si tratta di realtà animate, provviste di anima – intesa nel senso della

definizione, il che significa che la definizione di un animale è in senso primo e principalmente la

definizione dell’anima che lo caratterizza. Ora, la nozione di anima invocata da Aristotele in

questo contesto è quella elaborata nell’ambito dell’indagine biologica, l’anima intesa come atto

primo di un corpo provvisto di organi, con particolare riferimento alla totalità complessa delle

attività e delle funzioni caratteristiche di ogni aspetto della vita animale. In questo senso

Aristotele precisa [2] che occorre dare definizione di ciascuna parte del corpo esplicandone la

funzione: ne consegue (i) che la definizione dell’anima implica la definizione delle parti, vale a

dire una molteplicità di definizioni parziali che sul piano della divisione e della determinazione

14 Cfr. De partibus animalium 652b 16; 656b 2. 15 Cfr. in particolare De partibus animalium 666a 6 e De motu animalium 703a 1. 

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dei generi attiene alla molteplicità degli assi di differenziazione corrispondenti alle diverse parti

del corpo; e (ii) che la definizione delle parti è in primo luogo una definizione della loro

funzione, dunque una definizione causale. Ora, [3] poiché la funzione di ciascuna parte non si dà

senza sensazione (la sensazione ne è condizione necessaria), sul piano teleologico il punto di

riferimento comune alle definizioni parziali è la definizione di animale come essere animato

dotato di sensazione. Si stabilisce così una gerarchia teleologica chiara, univoca, unitaria e

rigorosa, imperniata sulla sensazione che, in quanto attività saliente dell’animale, è nel contempo

fine ultimo e condizione necessaria tanto della generazione dell’animale quanto della sua attività

di individuo completamente formato. Aristotele allude a questi due aspetti della questione

osservando per un verso [4] che le parti precedono, almeno alcune, l’animale inteso come sinolo,

nel senso che il possesso delle parti è condizione necessaria per l’esercizio delle rispettive

funzioni e in prima istanza per l’esercizio dell’attività complessa in cui consiste l’anima (come si

evince dalla trattazione svolta in  De partibus animalium, 645b 14); e per altro verso [5] che le

medesime parti precedono l’animale inteso come individuo, con riferimento questa volta al

processo della riproduzione e della generazione a partire dal seme del genitore, che precede

l’individuo generato. [6] Le parti del corpo costituiscono dunque la materia, la causa materiale,

dell’animale: in questo senso, il sinolo si divide in parti animate, ma lo stesso non può dirsi della

sostanza, poiché questa equivale all’anima tout court . Un riscontro dei rapporti teleologici tra

anima e corpo intesi dal punto di vista biologico si ritrova nel passo di apertura del  Degeneratione animalium, dove Aristotele precisa che «la nozione e ciò in vista di cui inteso come

fine sono la stessa cosa; materia, per gli animali, sono le parti» ( De generatione animalium, 715a

15). Beninteso, [7] le parti dell’animale sono sempre necessariamente parti animate e sono

sempre necessariamente parte integrante di un intero, di una totalità animata e vivente, poiché

altrimenti non si diranno parti in senso proprio, bensì per omonimia. [8] Vi sono poi parti che

occorre considerare come principali, nel senso che in esse in prima istanza risiedono il discorso

definitorio e la sostanza. La definizione dell’anima, pertanto, implica in primo luogo e

principalmente la definizione di queste parti. L’esitazione riguardo al cuore e all’encefalo è

soltanto apparente, poiché si tratta di un preciso riferimento alla polemica contro Platone sul

primato dell’uno o l’altro di questi organi16 (in De partibus animalium, 665b 27, infatti, è in base

16 Si veda in proposito M. Frede, G. Patzig, Aristoteles, Metaphysik Z . Text, Übersetzung und Kommentar, 2 Bände;Zweiter Band: Kommentar , München, Beck, 1988, ad loc. 

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alla definizione del «corpo necessario», che Aristotele sviluppa le sue critiche della preminenza

che Platone attribuisce all’encefalo). L’espressione qui impiegata da Aristotele ricalca del resto,

senza dar adito a dubbi, le formule riferite al cuore e alla regione intermedia del corpo che, come

si è visto, ricorrono in diversi altri luoghi, e che conviene qui richiamare ancora una volta:, il

cuore è definito come «principio della sostanza» in  De vita 478b 32 e la regione del cuore come

«regione prima del corpo» in De resp. 474a 25, mentre in De juv. 469a 24 Aristotele precisa che

ogni funzione e ogni attività dell’anima e del corpo si esercitano grazie al calore naturale che

proviene da questa regione, osservando che «delle tre parti del corpo, quella intermedia è sede

del principio dell’anima sensibile, e anche di quella accrescitiva e nutritiva», e che questa

regione del corpo si può pertanto definire come «punto medio della sostanza».

 Morphospace

Il morphospace è uno dei concetti chiave dell’Evo-devo, e risponde all’esigenza di

rappresentare quantitativamente le variazioni morfologiche nella prospettiva di

un’interpretazione evoluzionistica. Si tratta di una sorta di spazio morfologico virtuale, nel quale

si inquadrano sia le forme realmente attestate in natura, sia forme teoricamente possibili a partire

da un modello dato17.

Anche Aristotele fa ricorso a rappresentazioni basate su uno spazio morfologico teoricoper confrontare l’insieme delle conformazioni e disposizioni ipotetiche delle parti con quelle

effettivamente riscontrate negli esseri viventi. Un esempio è la trattazione comparativa

dell’orientamento delle flessioni delle estremità degli uomini, degli uccelli e dei quadrupedi ( IA 

711 a 11). Le differenze prese in considerazione da Aristotele possono essere riassunte come

segue: uomini – flessione superiore concava, flessione inferiore convessa; uccelli – flessione

inferiore concava; quadrupedi – flessione superiore convessa, flessione inferiore concava. La

schematizzazione delle articolazioni dei quadrupedi non coincide con la rappresentazione

funzionale moderna, perché secondo Aristotele, le flessioni salienti si trovano in corrispondenza

del metacarpo e del metatarso.

17 Cfr. G.R. McGhee, The geometry of evolution. Adaptive Landscapes and Theoretical Morphospaces, Cambridge,Cambridge University Press, 2007: «Theoretical morphospaces may be defined most explicitly, if a bit tersely, as«n-dimensional geometric hyperspaces produced by systematically varying the parameter values of a geometric

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Per altro verso, benché concavità e convessità delle flessioni siano stabilite rispetto alla

polarità davanti/dietro, dunque in base a una sola dimensione dello spazio, la schematizzazione

implica anche un rinvio alla polarità sopra/sotto, e presuppone l’analogia dell’asse cefalo-caudale

in animali che presentano un orientamento spaziale differente, come uomini e quadrupedi.

L’insieme delle alternative viene dunque rappresentato in uno schema sinottico:

Posto che vi sono quattro modi della flessione in corrispondenza delle congiunzioni (è necessario, infatti,che si flettano in modo concavo sia le gambe anteriori sia quelle posteriori, come in A, o al contrario in modoconvesso, come in B, o in modo contrapposto e non nello stesso verso, ma quelle anteriori in modo convesso equelle posteriori in modo concavo, come in C, o ancora in modo contrario a questo, le une convesse rispetto allealtre e queste concave rispetto all’esterno, come in D), come avviene in A e in B non effettua la flessione nessunodei bipedi e dei quadrupedi; i quadrupedi lo fanno invece come avviene in C; come avviene in D non lo fa nessunodei quadrupedi, tranne l’elefante, mentre l’uomo flette in questo modo le braccia e le gambe, giacché flette quelle inmodo concavo, e le gambe invece in modo convesso ( IA 712a 1).

In questo caso, la rappresentazione delle estremità è particolarmente schematica, e

permette di stabilire in astratto una «combinatoria» degli accoppiamenti possibili:

L’esame della combinatoria delle alternative possibili è inteso non solo alla sistemazione

schematica delle differenze corrispondenti, ma anche all’esplicazione teleologica delle diverse

caratteristiche. Secondo il principio aristotelico della teleologia naturale, infatti, tra le alternative

model of form»» (p. 57); Si veda anche G.B. Müller, Evo-devo, cit., p. 946: «A three-dimensional matrix of possiblemorphologies that is larger than the set of actual morphologies that are realized in nature». 

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possibili la natura realizza sempre la migliore. Quanto alla divisione e alla determinazione dei

generi, il metodo combinatorio è esplicitamente richiamato in Pol. 1290b 2518:

Prese in considerazione tutte le combinazioni posssibili, avremo dunque le specie animali, e vi sarannotante specie quanti sono gli abbinamenti delle parti necessarie.

Il contesto del passo, incentrato sul paragone tra l’organizzazione del corpo vivente e

quella dello stato, è chiaramente distante dall’ambito specifico della ricerca zoologica, nel quale

si verifica che non tutte le combinazioni possibili trovano effettiva realizzazione. Per altri versi,

tuttavia, l’esclusione di alcune delle alternative possibili, permette di individuare le alternative

che realizzano una condizione necessaria in vista di una certa funzione. L’interesse di Aristotele

per questo aspetto del metodo è rivelato dall’esplicito riferimento alla prospettiva teleologica in

 IA 711a 16: la causa finale di ogni combinazione riscontrabile in natura attiene al fatto che

ciascuna flessione corrisponde all’effettiva direzione della deambulazione. L’esame dettagliatodelle combinazioni non realizzate mostra infine che si tratta di organizzazioni corrispondenti a

condizioni di fatto irrealizzabili. Questo tipo di argomentazione adotta un procedimento

evidentemente dialettico, che consiste nell’eliminare progressivamente le soluzioni

contraddittorie.

In base a questi criteri, Aristotele è dunque in grado di definire un modello di riferimento

per l’indagine sulla locomozione degli animali, e a tal fine descrive l’orientamento di tutte le

flessioni del corpo umano:Negli uomini, le membra stanno sempre alternativamente in modo contrario, quanto alle flessioni; ad

esempio il gomito si flette in modo concavo e il carpo della mano in modo convesso, e di nuovo la spalla in modoconvesso; similmente, nelle gambe la coscia si flette in modo concavo, il ginocchio in modo convesso e il piede, alcontrario, in modo concavo. Inoltre è evidente che le parti inferiori si flettono in modo contrario rispetto a quellesuperiori, perché il principio è contrario: la spalla si flette in modo convesso e la coscia in modo concavo, e quindianche il piede in modo concavo e il carpo della mano in modo convesso ( IA 712a 13).

La schematizzazione proposta, di una complessità straordinaria, è una chiara

testimonianza dell’importanza che Aristotele attribuisce alla descrizione geometrica

dell’organizzazione del corpo. La concavità e la convessità si determinano, come sempre,

rispetto alla polarità davanti/dietro, che corrisponde alla direzione del movimento. Aristotele

osserva innanzi tutto che concavità e convessità presentano un’alternanza seriale, e in secondo

luogo che nella parte superiore del corpo le flessioni hanno un orientamento opposto rispetto a

18 Si veda in proposito P. Pellegrin,  La classification des animaux chez Aristote. Statut de la biologie et unité de

l’aristotélisme, Paris, Presses Universaitaires de France, 1982, p. 148. 

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quelle della parte inferiore, mettendo infine in rilievo la contrarietà delle flessioni corrispondenti.

In IA 712b 23 questo modello trova applicazione nell’esame delle estremità degli uccelli:

Gli uccelli flettono le zampe come i quadrupedi. In certo modo, infatti, la loro natura è simile, perché gliuccelli hanno le ali al posto delle zampe anteriori. È per questo che le ali si flettono nello stesso modo in cui nei

quadrupedi si flettono le zampe anteriori, poiché il principio dello spostamento, ovvero del movimento che attienealla deambulazione, proviene dalle ali: il volo, infatti, è il movimento proprio di questi animali. […] Inoltre, poichél’uccello è bipede ma non eretto, e ha le parti anteriori del corpo più leggere, perché stia in piedi è necessario, ocomunque è meglio, che come sostegno abbia la coscia, nel modo in cui effettivamente la ha; intendo dire rivoltanaturalmente all’indietro. Tuttavia, poiché occorreva che stesse in questo modo, è anche necessario che la flessionedelle zampe avvenga in modo concavo, come nelle zampe posteriori dei quadrupedi, per la stessa causa che abbiamoesposto a proposito dei quadrupedi vivipari.

Anche in questo caso l’argomentazione tiene conto per un verso delle cause formali-

finali, mettendo ad esempio in rilievo che il volo è la forma di locomozione propria degli uccelli,

e per altro verso dell’insieme delle condizioni materiali, che attengono ora alle omologie

funzionali (zampe anteriori/ali), ora all’organizzazione generale del corpo.

Theory of transformations

Com’è noto, la «teoria delle trasformazioni» – che mette capo a una rapppresentazione

geometrica della morfologia di specie correlate, e costituisce uno dei primi e più validi tentativi

di coniugare biologia evoluzionistica e biologia dello sviluppo anteriori all’Evo-devo19 – è stata

sviluppata da D’Arcy W. Thompson, profondo conoscitore della biologia aristotelica e traduttore

della Historia animalium. Come altri lettori moderni, tuttavia, Thompson fu sì affascinato dalla

profondità teorica della biologia di Aristotele e dalla ricchezza delle sue osservazioni, ma non

rilevò l’importanza delle schematizzazioni e dell’impiego di modelli geometrici come strumenti

di indagine morfologica da parte del suo antico predecessore20.

Questa circostanza appare ancor più paradossale se si considera che in Aristotele si

trovano almeno due esempi della descrizione di una vera e propria trasformazione topologica

19 Cfr. W. Arthur, D’Arcy Thompson and the theory of transformations, in «Nature Reviews», 7, 2006, pp. 401-406,p. 401. 20 D’A.W. Thompson, Aristotle as a naturalist , in «Nature», 91, 1913, pp. 201-204: «Aristotle is no tyro in biology.When he writes upon mechanics or on physics, we read him with difficulty: his ways are not our ways; hisexplanations seem laboured; his science has an archaic look, as it were coming from another world to ours, a worldbefore Galileo. Speaking with all diffidence, I have my doubts as to his mathematics» (p. 201). S.J. Gould,  D’Arcy

Thompson and the Science of Form, in «New Literary History», 2, 1971, pp. 229-258 riconduce al Timeo di Platonee al pensiero pitagorico l’ispirazione antica delle teorie di Thompson, come già aveva proposto G.K. Plochmann, D’Arcy Thompson: His Conception of the Living Body, in «Philosophy of Science», 20, 1953, pp. 139-148, checonsidera platonico, se non anti-aristotelico, l’elemento matematico e geometrico del pensiero di Thompson. 

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immaginaria, fondata sull’esplicazione dell’analogia funzionale delle parti. Una riguarda il becco

degli uccelli:

Gli uccelli hanno il becco osseo, in modo che sia utile per la difesa e per il nutrimento; e stretto, a causadella piccolezza della testa: nel becco hanno i canali dell’olfatto, ma è impossibile che abbiano narici. […] Sotto le

narici, nei sanguigni che hanno denti, si trova la natura delle labbra. Negli uccelli, invece, come si è detto, per ladifesa e per il nutrimento il becco è osseo: e riunisce in una sola parte i denti e le labbra, sostituendoli; è come se sitogliessero le labbra a un uomo e si fondessero i denti di sopra e quelli di sotto, separatamente, allungandoli a punta:il risultato sarebbe una sorta di becco di uccello ( De partibus animalium, 659b 21).

La struttura di partenza è dunque costituita dalla conformazione della bocca umana: gli

uccelli non possiedono labbra per via della costituzione ossea del becco (causa materiale), ma

anche perché non possiedono denti – la funzione dei denti essendo svolta dal becco stesso

(analogia) – il che fa venir meno la necessità che una parte svoolga una funzione di protezione

analoga a quella delle labbra (causa finale). In un passo precedente Aristotele precisa inoltre che

il becco è strutturato in maniera tale da non gravare la testa degli uccelli di un peso eccessivo, in

vista del volo, che è la loro modalità propria di locomozione (causa formale/finale). Come si può

dunque osservare, l’esplicazione aristotelica della morfologia del becco degli uccelli tiene conto

di diversi aspetti della causalità, ovvero sia di quelli che attengono alla natura materiale della

parte in questione, sia di quanto concerne la causa formale (le attività specifiche dell’animale) e

finale (le funzioni da svolgere, in vista delle quali è necessario che la parte esaminnata abbia una

certa forma e una certa costituzione materiale). La rappresentazione che mette capo alla

«trasformazione» topologica si inquadra pertanto in questo quadro teorico complesso, ecostituisce una sorta di visualizzazione dell’analogia riscontrata.

Un secondo esempio, altrettanto significativo, riguarda invece la morfologia dei serpenti:

Il genere dei serpenti è simile a quello delle lucertole, che sono animali terrestri ovipari, e quasi tutte leparti si somigliano, come se si trattasse di lucertole allungate e private dei piedi ( Historia animalium, 508a 8).

Aristotele si richiama qui all’organizzazione anatomica della lucertola come a un modello

paradigmatico. La proiezione è piuttosto complessa, poiché si tratta di rappresentare

l’organizzazione dei serpenti come il risultato di una deformazione multipla, cioè come un

prolungamento del corpo secondo l’asse davanti/dietro, associato a un’ideale ablazione delle

zampe. La struttura complessiva del corpo dei serpenti influisce anche sulla conformazione delle

parti interne:

I serpenti, a causa della forma del corpo, che è lunga e stretta, hanno anche la conformazione dei viscerilunga e dissimile da quella degli altri animali, perché le conformazioni di queste parti sono plasmate come inuno stampo a causa dello spazio disponibile ( De partibus animalium, 676b 6).

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Secondo questa esplicazione, la causa della conformazione delle viscere, attiene

all’essenza dell’animale (causa formale), ma è disgiunta da un fine specifico, poiché la forma

allungata dei visceri è determinata dalla struttura del corpo, e non è necessaria in vista di una

certa funzione. Si tratta pertanto di un’esplicazione puramente morfologica, in un senso molto

prossimo a quello della teoria di Thompson.

Tornare ad Aristotele?

Nei confronti della biologia di Aristotele, si assiste nel Novecento a una marcata

inversione di tendenza rispetto all’atteggiamento di lettori come Buffon, Geoffroy de Saint-

Hilaire o Lamarck, che attingevano alle osservazioni di Aristotele come a un repertorio di dati (la

cui vastità rimase pressoché ineguagliata fino a buona parte dell’Ottocento) svincolati dal loro

«scomodo» impianto teorico originario. Gli studi che in seguito, con diversi esiti, hanno indagato

il rapporto tra la biologia aristotelica e quella moderna, hanno dato poco peso alle indagini

condotte da Aristotele «sul campo» facendo riferimento invece al pensiero aristotelico in merito

al rapporto tra materia e forma; finalità, caso e necessità; attualità e potenzialità ecc., e

confrontandolo con gli esiti, le sopravvivenze o le analogie che questi concetti hanno nell’ambito

del darwinismo o della genetica.

Ora, se attingere all’opera di Aristotele come a un repertorio di dati osservativi è ormaiimpossibile o comunque senz’altro inutile, cercare il confronto sul piano teorico espone quanto

meno al rischio di incorrere in anacronismi. Inoltre, quest’ultimo tipo di lettura, benché sembri

voler dare peso a ciò che Aristotele ha (ancora) da dire, risulta ugualmente problematico proprio

dal punto di vista di Aristotele.

Le nozioni aristoteliche invocate, infatti, sono riportate di norma a un livello di astrazione

che è loro del tutto estraneo nel contesto originario, poiché nell’opera di Aristotele non

costituiscono uno schema preconcetto ed estrinseco rispetto alle vive esigenze della ricerca

biologica. Attenersi, ad esempio, alle nozioni di forma o di fine elaborate da Aristotele

nell’ambito della metafisica o della fisica, significa ignorare le significative elaborazioni delle

medesime nozioni che egli stesso mette a punto nell’ambito specifico della biologia. L’attrito tra

astratto e concreto che deriva ad esempio dal confronto tra l’idea aristotelica di forma e quella

moderna di programma genetico, insomma, non è, o non è soltanto, un effetto di prospettiva

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storica, ma avviene già mutatis mutandis nella pratica di Aristotele, che richiama i principi più

generali per analizzare dettagli come il movimento delle palpebre degli uccelli, l’orientamento

del cuore dei pesci, la conformazione del corpo dei serpenti o lo sviluppo degli embrioni.

Da questo punto di vista, sono proprio gli scienziati novecenteschi ad aver mostrato, più

dei filosofi o degli storici, un’acuta sensibilità alla biologia aristotelica. Constatata la senescenza

delle informazioni riportate da Aristotele, scienziati come D’Arcy W. Thompson, Max Delbrück

o René Thom hanno «anarchicamente» riletto le sue opere biologiche, di prima mano, senza

separare i dati dalle nozioni e senza dare privilegiare un piano rispetto all’altro. Hanno riletto

Aristotele perché hanno trovato utile farlo: hanno trovato, cioè, che rovistare nel retrobottega

della storia21 potesse riservare qualche sorpresa interessante, al di là di ogni assunzione «forte»

sul piano epistemologico quanto alla continuità dei presupposti e dei problemi, per arricchire la

loro strumentazione teorica e testarla nell’unico modo realmente efficace, cioè confrontandola

con un diverso modo di vedere le cose. Con questo stesso spirito è dunque possibile leggere

alcuni aspetti del pensiero biologico di Aristotele che riguardano un ambito di problemi

comparabile a quello affrontato oggi dall’Evo-devo: la relazione tra forme e funzioni degli esseri

viventi22. Riconoscere l’irriducibile diversità della scienza aristotelica, il suo essere «inattuale»,

offre alla scienza odierna un’occasione preziosa di confronto intorno ai limiti del sapere

scientifico, ai suoi fondamenti teorici, e in fin dei conti alla sua inevitabile transitorietà.

21 Cfr. la magistrale lezione benjaminiana di P. Rossi, Sulle rivoluzioni e sui classici (nella scienza), in I classici e la

scienza. Gli antichi, i moderni, noi, a cura di I. Dionigi, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 67-81, p. 69: «Gli antiquarirovistano abitualmente nelle cantine e nelle soffitte. Più raramente (anche se talora accade) trovano cose interessantinella spazzatura. Gli storici rovistano in ciascuno di questi luoghi. Nonostante gli storici della scienza sianoparticolarmente asfissiati dalla invadenza degli epistemologi (che – senza mai praticarla – spiegano loro incontinuazione che cosa deve essere la storia della scienza) concordano tuttavia quasi tutti con tutti gli altri storici diprofessione: considerano con attenzione non solo la storia dei vincitori, ma anche quella dei vinti». 22 Per la relazione forma/funzione come cardine dell’Evo-devo si veda A. Minelli, Forme del divenire, cit.