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DALLARCHITETTURA ALLARABESCO Appunti sul paradigma formale di Debussy di PAOLO TRAMANNONI saggio scritto per l’esame di Storia della musica moderna e contemporanea della facoltà di Lettere e Filosofia corso di Lettere (Arti, Musica e Spettacolo) Università di Macerata Docente: Prof.ssa Mara Lacchè Macerata Gennaio 2010

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DALL’ARCHITETTURA ALL’ARABESCO

Appunti sul paradigma formale di Debussy

di

PAOLO TRAMANNONI

saggio scritto per l’esame di

Storia della musica moderna e contemporanea

della facoltà di Lettere e Filosofia

corso di Lettere (Arti, Musica e Spettacolo)

Università di Macerata

Docente: Prof.ssa Mara Lacchè

Macerata

Gennaio 2010

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SOMMARIO

1. Premessa 1

1.1. Il tempo nell'Ottocento tedesco 1

1.2. Il tempo in Debussy 2

2. Dall’edificio al frammento 3

2.1. Debussy, o del frammento 3

2.2. Sviluppo motivico e architettura

formale 3

2.3. Perché l'architettura nella musica

tedesca 4

2.4. Musica tedesca e architettura 4

2.5. Forma nella musica francese del

primo Ottocento 5

2.6. Musica francese ed arte figurativa 6

2.7. Debussy e la pittura 6

3. Presenza di Wagner 7

3.1. Debussy contra Wagner 7

3.2. Presenza di Wagner 8

3.3. Debussy il wagneriano 9

4. Verso una nuova concezione del tempo 12

4.1. Tempo e carattere 12

4.2. Contro gli eccessi tedeschi 12

4.3. La concisione ellenizzante di

Debussy 13

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4.4. Dal tempo assoluto alla

poetica dell’istante 13

4.5. Tempo come memoria 14

4.6. Una nuova prosodia musicale 14

4.7. Tempo divino, tempo umano 16

5. Le forme del tempo 17

5.1. Strauss e Debussy 17

5.2. Dall’architettura alla

drammaturgia dei simboli 17

5.3. Debussy e Salome 18

5.4. Salome e il simbolismo 18

5.5. Drammaturgia dei colori e

decorativismo 19

5.6. Arabesque 19

6. La spirale del tempo 21

6.1. Rettilineo vs. sinuoso 21

6.2. Motivi e varianti 22

7. Armonia, macroforma, spazio 24

7.1. Dal motivo all’impressione 24

7.2. Un nuovo senso della forma 25

7.3. Tempo e spazio 25

8. Ricerche brahmsiane 27

Bibliografia 31

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1. PREMESSA

Nel corso del XIX secolo, nella musica d’arte europea avviene un processo di trasformazione

della concezione del tempo. Passando attraverso una fase di dilatazione, che parte dalle

tecniche dell’elaborazione motivica portate a piena maturità da Beethoven, si tende in ambito

germanico a rendere le dimensioni progressivamente più estrema, giungendo al fragile

gigantismo onnivoro ed onnicomprensivo, al limite del panteistico, delle opere di Mahler. Ne

seguirà un’inevitabile fase di sbriciolamento del tempo nell’opera di Schönberg, in cui il

senso della continuità apparirà radicalmente mutato, non potrà più appoggiarsi all linearità

del tempo degli orologi, ma dovrà farsi tempo umano, come definito dalle ricerche di Henri

Bergson [1889]. Ad innescare il processo di sbriciolamento sono certamente le intuizioni di

Debussy.

1.1. Il tempo nell'Ottocento tedesco

Il percorso di espansione della forma ha inizio con Beethoven e Schubert, che, in

conseguenza della loro complessa articolazione armonica, rompono definitivamente la frase

di lunghezza fissa e rendono le forme classiche, all’interno delle cui gabbie continuano a

muoversi, più malleabili che all’epoca di Haydn. Ma la rottura definitiva della gabbia

formale, della simmetria esatta, della forma prestabilita, del giro armonico stabile, schematico

e necessariamente prevedibile, avviene con i Romantici (Berlioz, Liszt e Wagner), che

modellano l’opera musicale su strutture extra-musicali quali la poesia o istantanee

suggestioni visive.

Dal canto suo, il tardo Brahms (esemplarmente nei tardi, brevi pezzi per pianoforte e nel

Quintetto con clarinetto) interiorizzerà queste scoperte, senza aderire al manifesto dei neo-

tedeschi ed al partito wagneriano. Brahms elaborerà, a margine della sua fede neo-barocca,

una prosa musicale (come la definisce acutamente Schönberg [1950]) libera, scorrevole, non

dissimile da quella – successiva – dei romanzi di Proust. Lo stesso Mahler, sinfonista che

ritira i programmi di stampo neo-tedesco, ramifica a tal punto la forma delle sue sinfonie da

renderle oggetti sorretti da una struttura interna, pre-informale, vagamente riferita alla forma-

sonata come ad uno qualsiasi dei tanti brandelli che entrano nel tessuto multicolore delle sue

opere.

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1.2. Il tempo in Debussy

Il percorso di Debussy, per ragioni in parte evidentemente biografiche, è diverso da quello dei

tedeschi. Contemporaneo di Richard Strauss, rifugge il pieno a favore del vuoto, del silenzio.

Contemporaneo di Mahler, alla proliferazione formale preferisce la massima concentrazione,

la miniatura, il tema apparentemente non sviluppato. Distillando le armonie e le “atmosfere”

wagneriane, Debussy essenzializza la forma, polverizzandola, facendola sfuggire all’asse

rettilineo del tempo.

Già nel Prélude à l’après-midi d’un faune, il musicista francese inaugura una tecnica basata

su rimandi mnemonici, su continui flashback e flash-forward, fondando una poetica del

frammento, dell’istante, che respinge l’idea di necessità di un’architettura musicale così

fortemente sentita oltrereno. Nonostante le suggestioni passatiste implicite nel titolo della sua

Suite Bergamasque, Debussy non tornerà mai alle forme ereditate (come faranno invece i

musicisti degli anni '20 del secolo successivo).

Egli riesce a scoprire un ordine diverso che non passa attraverso l’architettura, ma che si

rivela piuttosto affine alla pittura decorativa della coeva Art Nouveau. Come quell’arte, la

sua è una composizione di simboli evidenti che affondano (come l’anello di Mélisande) fino

al senso profondo delle forme simboliche1. La musica di Debussy risulta intessuta di richiami,

di rimandi interni (alle figure e ai gesti musicali) ed esterni (a suggestioni extra-musicali, in

un continuo gioco di scambi reciproci con le altre arti).

Percorreremo dunque le tappe salienti del cammino che porta Debussy ad una rinnovata

concezione del tempo e della forma, esaminando brevemente il suo debito nei confronti di

Wagner, confrontando la sua concezione formale con quelle di Strauss e dell’ultimo Brahms,

e verificando l’esistenza di un paradigma formale nella sua poetica musicale.

1 Benché Debussy non fosse affatto estraneo all’ambiente massonico-esoterico, con il suo rinnovato

carico di simbologie, è parere di chi scrive che ci si debba piuttosto concentrare sulle strutture

profonde del simbolismo debussiano. La musica del grande parigino, con la sua nuova organizzazione

formale, è infatti evidentemente latrice di nuovi significati. “L'atto della determinazione concettuale di

un contenuto procede di pari passo con l'atto del suo fissarsi in qualche simbolo

caratteristico” [Cassirer 1923-9, 1954-8].

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2. DALL’EDIFICIO AL FRAMMENTO

2.1. Debussy, o del frammento

Il primo aspetto formale evidente nella musica di Debussy, dalle prime prove agli ultimi

capolavori, è l’apparente frammentarietà, la quasi casualità nel succedersi degli eventi, la

noncuranza per quello “sviluppo motivico”2 che tanto ossessiona ancora, invece, la coeva

musica tedesca3. Arte lieve, aerea quella di Debussy; contro quella ben piantata a terra,

solidamente strutturata, dei suoi colleghi tedeschi.

2.2. Sviluppo motivico e architettura formale

Al contrario di quella di Debussy, la musica tedesca è fortemente strutturata, e si salda su due

principi interconnessi: il primo è lo “sviluppo motivico”, o “elaborazione tematica”, oppure

“elaborazione motivica”, un procedimento di variazione continua del tema portato ad un alto

grado di perfezionamento da Beethoven. Il secondo principio è quello dell’“architettura

formale” entro cui lo sviluppo può dipanarsi. L’idea di una parentela tra architettura e musica

è presagita già dai primi esegeti bachiani; e musica ed architettura sono due termini associati

(per affinità od opposizione) all’interno della logica di Hegel e di Schopenhauer4.

Se compito dello sviluppo motivico è quello di garantire l’unità del discorso musicale,

esercitando attraverso la presenza costante del tema (nelle sue varie mutazioni) uno stimolo

della memoria auditiva, l’architettura formale consente invece di articolare le idee musicali in

un decorso narrativo facile da leggere (perlomeno a chi conosca i principi base della forma).

È su questa base che gli autori austro-tedeschi riescono a creare composizioni di lunga durata,

come la sinfonia, senza basarsi sul sistema della concatenazione di numeri chiusi tipico

2 Romain Rolland ci ricorda come Strauss lamentasse proprio la “mancanza di sviluppo” nel Pelléas.3 Si potrebbe ricordare come Berg costruisca sia il Wozzeck che la Lulu come riflessioni sulle forme

musicali, quasi una teatralizzazione di un’ossessione tipicamente austro-tedesca.4 Che l’analogia sia ben radicata nella cultura tedesca lo dimostra anche il fatto che in seguito si

definirà ancora “formalismo” la concezione teorica di Hanslick, come se si trattasse di discutere di

lavori in plastilina.

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dell’opera. Non è un caso se la sinfonia nasce in ambiente aristocratico, colto, in cui musicisti

e ascoltatori condividono un codice comune.

I procedimenti di elaborazione tematica e l’architettura formale di tipo sinfonico serviranno a

Wagner per rompere nell’opera la successione di numeri chiusi, facendo transmigrare l’“arte

della transizione” dalla sinfonia all’opera. Si tratta quindi di principi costruttivi estremamente

malleabili, riadattabili (se affidati alle mani giuste) a generi musicali diversi.

2.3. Perché l'architettura nella musica tedesca

Ci si può chiedere perché l’architettura musicale si sviluppi in maniera così rapida proprio in

Germania, mentre resti allo stato germinale o sconosciuta in altri paesi. Proviamo a fare

un’ipotesi. Nell’assenza di uno stato unitario che richieda loro opere celebrative, e quindi

teatrali, i musicisti tedeschi esercitano la loro arte nel culto. Nella severità della cultura

luterana, i musicisti tedeschi coltivano l’arte della musica con la stessa cura artigianale con

cui gli antichi capomastri coltivavano le raffinate tecniche costruttive necessarie

all’edificazione delle grandi cattedrali. L’assenza di una corte sfarzosa li costringe ad

occuparsi più delle strutture profonde che non del lucore degli smalti di copertura, come

sarebbe accaduto in Francia a partire da Mazarino e dal suo pupillo Luigi XIV.

2.4. Musica tedesca e architettura

La musica tedesca presenta dunque diversi gradi di affinità, dal punto di vista concettuale,

con l’architettura: a sostenere il dispiegarsi dell’opera nel tempo si trova sempre una gabbia

formale, un prospetto, una solida intelaiatura ben rappresentata nel primo classicismo

viennese dalla forma-sonata. L’intelaiatura cambierà con il tempo, ma non l’idea di

costruzione di tipo architettonico: Wagner sostituirà la forma-sonata con il non meno solido

intreccio di Leitmotiv – un’architettura autoportante, non più sorretta da altro che da se stessa.5

5 Il concetto avrà conseguenze di grande portata nel corso del XX secolo, quando gli autori seriali, in

aperta opposizione con i neoclassici, sosterranno la necessità che la forma non possa che scaturire dal

materiale stesso. La fusione con la forma non-lineare di Debussy, oltre al recupero di materiale extra-

europei o storici da parte di Messiaen, sarà alla base delle concezioni formali contemporanee.

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La musica tedesca vive sempre in una zona sfumata, che insiste tra l’astrazione matematico-

spirituale e una solidità quasi tangibile, una fattualità verificabile. Che la musica tedesca

diventi nel corso del XIX secolo un’“arte tangibile” può confermarlo l’edificazione delle

magnifiche, sontuose sale da concerto nelle città dell’Impero asburgico. È in questa temperie

che nasce la Musikwissenshaft tedesca, una musicologia di chiaro stampo positivista e

materialista, non più esclusivamente interessata allo “spirito” della musica come in epoca

romantica (ad esempio con gli scritti di Wackenroder e di Schelling), ma una scienza svolta in

laboratorio, magari con le modernissime e rigorosissime apparecchiature di Hermann von

Helmholtz.

2.5. Forma nella musica francese del primo Ottocento

Contrariamente a quella tedesca, la musica francese è informata da un senso della costruzione

percepibilmente più sfumato, forse meno ossessivo. Ad esempio, Berlioz cerca un dispositivo

di unità formale molto originale ricorrendo al principio ciclico, che anticipa in qualche

misura l’uso del simbolo musicale come elemento costruttivo.

Nella Symphonie Fantastique un tema dominante riappare, trasformato ma sempre

riconoscibile, in vari punti dell’opera. Si tratta di un accorgimento formale molto blando, che

infatti lascia libero lo sviluppo di seguire mille diverticoli. In linea con il carattere del

compositore, l’anarchia di fondo continua a combattere contro l’esigenza profonda di un

carcere d’invenzione formale.

In Francia, l’acquisizione delle tecniche tedesche avviene in ritardo e a fatica ad opera,

principalmente, della scuola di Niedermeyer. A rappresentare il germanismo, mediato dal

cosmopolita gemanofono Liszt, saranno poi César Franck, capofila dei sinfonisti francesi, e

Saint-Saëns, che fanno rinascere (molti anni dopo rispetto al mondo tedesco) l’arte della

composizione strumentale in una nazione tutta devota alle varie declinazioni dell’opera.

Anche dei wagneriani convinti, come lo Chabrier di Gwendoline (1885), lo Chausson del Roi

Artus (1886) o il d’Indy di Fervaal (1889) reinterpretano in maniera vaga l’ossessione

costruttiva dei tedeschi. D’Indy diverrà un rinomato contrappuntista: ma il suo stile sarà

considerato da molti giovani francesi un’aberrazione, un’assurda costrizione da riformatorio,

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una mania da vegliardo. È con la sua consueta vocazione all’autoflagellazione che Satie deve

essersi sottoposto alle lezioni/punizioni della Schola Cantorum [Testi 2003].

2.6. Musica francese ed arte figurativa

Abbiamo parlato, nel caso della musica tedesca, di affinità con l’architettura. Per proseguire

con un’analogia niente affatto peregrina, si può immaginare la musica francese come

piuttosto vicina alla pittura – meglio ancora alla scenografia. In una nazione unitaria da

secoli, con una corte tenacemente accentratrice a partire dalla fine del XVII secolo, il genere

musicale più amato non è certo la musica ecclesiastica o la sonata da camera, ma l’opera

musicale.

In Francia si assiste quindi al fervore di grandi rappresentazioni di carattere pubblico, volute

di volta in volta da re, comitati direttivi (direttorî), imperatori e presidenti. La musica è

concepita in funzione di un evento collettivo, che la mette in stretto rapporto con la pittura e

in particolare con la pittura di scena (teatrale o cerimoniale). Dunque, dalle complesse quinte

teatrali torelliane dell’epoca di Lully, alle grazie di Watteau e Boucher esposte nelle gallerie

dei palazzi nobiliari nell’epoca del melodioso Gluck; dalle rigorose e monumentali tele

davidiane nell’epoca di Mehul e Spontini, all’arte un po’ pompier dell’Accademia delle Belle

Arti (contro cui si batteranno barbizonnier ed impressionisti) negli anni di Saint-Saëns; e

infine all’impressionismo e al simbolismo nell’epoca di Fauré e Debussy.

È solo nell’ultimo periodo che l’artista si emancipa dal ruolo di funzionario pubblico, e si

vede costretto a diventare un po’ filosofo per giustificare la sua nuova funzione; è un periodo

in cui gli scambi di poetica tra le diverse arti diventano fatto storico, e trova il suo luogo

ideale nelle serate di conversazione e di ascolto in salotti accoglienti come quelli di rue de

Rome, in casa Mallarmé.

2.7. Debussy e la pittura

Vedremo come la stessa poetica di Debussy sia fortemente informata dal lavoro dei pittori

parigini (oltre che dai poeti).

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3. PRESENZA DI WAGNER

3.1. Debussy contra Wagner

La differenza tra il modo profondo di concepire le strutture portanti della musica (il

progredire degli eventi nel tempo) rende inevitabile una diffidenza reciproca, certamente più

accentuata sulla riva francese del Reno. Nel caso di Debussy, da considerare a buon titolo,

per la sua attività critica, un alfiere dell’antigermanesimo e dell’antiwagnerismo, non si tratta

solo di mero sciovinismo6. È il musicista che più chiaramente di tutti avverte l’esigenza di

liberarsi delle dottrine formali tedesche, e per farlo deve disfarsi di un intero milieu culturale

ormai prevalente anche negli ambienti parigini.

Questo confronto tra musicisti di lingua diversa si risolve non di rado, a Parigi, in atti di

autentica maleducazione. Mahler ricorda con amarezza la presenza di Debussy tra i colleghi

francesi che abbandonano la sala durante la prima parigina della sua Seconda Sinfonia [Testi

2003, p. 218]. Sciovinista fino all’autolesionismo, Debussy rifiuterà addirittura di accettare

l’invito per le celebrazioni in suo onore organizzate a Monaco di Baviera, e lo farà per motivi

quasi esclusivamente politici [ivi, più avanti].

Se non a livello personale, le incomprensioni sul piano estetico sono certamente reciproche.

Rolland ci ricorda che Richard Strauss (che pure stima il professionista Debussy) non

apprezza affatto il Pelléas, che considera musica, tout court, “senza sviluppo” [Testi 2003, p.

218, p. 135]. D’altronde, il grande bavarese è ricambiato con identica moneta: nei suoi scritti,

Debussy non mostra di apprezzare Strauss che in negativo: di Vita d’eroe confesserà che,

sebbene cosa di rude bellezza, “occorre uno stomaco di ferro per ingoiarla” [Testi 2003, p.

124].

6 È nota, in ogni caso, la sua dichiarata distanza da tutto ciò che venisse dal mondo musicale tedesco –

un’attitudine che si trasformerà negli anni più tardi anni in un sentimento di scoperto sciovinismo

[Testi 2003].

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3.2. Presenza di Wagner

Eppure, nonostante i proclami di Monsieur Croche, sarebbe impossibile negare la presenza di

Wagner nella musica di Debussy. Fatto inevitabile, vista la sua pervasività nei gangli musicali

dell’Europa di fine secolo. Del resto, non sarebbero del tutto spiegabili i Simbolisti francesi

(e quindi nemmeno le fonti della poetica di Debussy) senza il Tannhäuser, visto attraverso

l’acuto e sensibile sguardo di Baudelaire [2002], che ne apprezza la rivoluzionaria novità

attraverso il suo orecchio ipersensibile.

Proprio l’opera in cui sarà più forte la presenza del simbolo, e meno rilevanti le tinte fosche

che colorano cupamente il Ring, renderà più facile accettare la lezione di Wagner. È Monsieur

Croche stesso – l’alter ego critico di Debussy – che ci parla del Parsifal come di un’opera in

cui, rispetto alle precedenti, finalmente “la musica […] respira più liberamente” [Debussy

1917, p. 75]. Di certo il Parsifal contiene molte delle cose che più a Debussy possono

piacere: l’abbondanza di accordi-colore, un’armonia sospesa, un cromatismo così estremo da

ritornare in qualche modo, con l’aiuto di inserti modali, percepibile come limpidamente

diatonico.

Si potrebbe sospettare che ciò che piace a Debussy in Parsifal sia proprio ciò che disgusta di

più a Nietzsche [1888]: l’abbandono del dionisiaco, il ritorno all’apollineo – cioè alla divinità

dell’arte figurativa; in altre parole, alla sinuosità della linea, alla decoratività della nascente

Art Nouveau, alla significanza del segno stesso. Ancora memore della lezione di

Schopenhauer, Nietzsche cerca il nous, pretende che l’arte dica qualcosa; Wagner (e i

Simbolisti) vogliono dire solo ciò che la loro liturgia di simboli rende evidente7.

Come accadrà alle figure di Mallarmé, per esempio alla sua Hérodiade, anche i personaggi

dell’ultimo Wagner si trasformano in puri simboli. L’arte non dice più, non racconta più lo

spirito romantico: mette in scena suggestioni, rappresentazioni, metafore, affidando la

narrazione a poveri esseri (magari trasformati, nel pieno di una crisi maniaco-depressiva, in

dèi e semidei) ormai solo più divenuti funzioni narrative.

7 Aggiungeremo che quella che chiamiamo “liturgia di simboli” altro non è che solida capacità

costruttiva, senso – si placet – dell’architettura o del tratto. Dal buio alla luce, dall’alba a

mezzogiorno, dal “puro folle” alla sapienza ritrovata – il percorso è certamente articolato in maniera

più fresca che non nella successione di arie e recitativi secchi della prima Carmen.

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3.3. Debussy il wagneriano

Se l’influenza di Wagner su Debussy è decisamente debole sul fronte poetico, non altrettanto

lo è su quello poietico. Le scoperte tecniche dell’ultimo Wagner (ma anche di quello del

Tristan) non lasciano indifferente il giovane compositore francese, che trova non pochi

suggerimenti nell’uso di accordi-colore, nell’instabilità armonica, nelle frasi prive di contorni

definiti, nell’indeterminatezza generale di tonalità e forma – dispositivi [qualità,

caratteristiche] che a Brahms daranno il mal di mare, ma che a Debussy indicano invece un

modo per uscire dalla costrizione delle forme classiche apprese al Conservatoire.

E quindi non può sfuggire a tristanismi di maniera il giovane Debussy, che da buon

simbolista in erba arriva a Wagner per il tramite eccezionale di Baudelaire. Il cromatismo

esasperato, gli accordi rivoltati dalla funzione difficilmente interpretabile, la fluidità del ritmo

(con l’uso sistematico del due contro tre) potrebbero far credere che la partitura del Tristano

fosse sempre aperta sulla scrivania del giovane compositore dei Cinq poèmes de Baudelarie

(1887-89).

Claude Debussy, Le balcon, da Cinq poèmes de Baudelaire, ed. Durand, 1917.

Claude Debussy, Harmonie de soir, da Cinq poèmes de Baudelaire, ed. Durand, 1917.

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Anche le somiglianze tra il Parsifal e alcuni passaggi del Pelléas sono certamente sospette. Si

prenda ad esempio il tema del I interludio dell’Atto I di Pelléas (nº 21):

La stessa figura ascendente si trova già all’inizio di Parsifal, sebbene soffocata in un più

oscuro, opprimente Do minore:

Certo non sarà sfuggito ai più accorti wagneriani l’ondeggiare di terzine che si incontra

subito dopo nell’opera di Debussy:

Non apparendo eccessivamente dissimile, almeno a livello ritmico, da un’analoga figura del

Parsifal (anche se in questo caso si insiste sui ribattuti, piuttosto che sull’ondeggiare tra gradi

congiunti – un’invenzione che molti dovranno a Debussy nei decenni successivi):

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Ma sono proprio gli interludi del Pelléas, che Strauss denuncia copiati di sana pianta dal

Parsifal [Testi 2003, p. 134], a mostrare come Debussy riesca a reinterpretare e rimodellare

profondamente il wagnerismo, asciugando la linea melodica, trasformando i colori pastosi

dell’opera tedesca in un susseguirsi di tonalità diafane8, isolando gli accordi-colore e

lasciandoli risuonare, senza avvertire alcuna urgenza di farli “transire” senza soluzione di

continuità ad altri accordi-colore [Wagner 1859]. Se la prosa wagneriana ha il pregio di

essere fluida ed “infinita”, la poesia debussiana ha il merito di recuperare il gusto per

l’istante.

8 Sotto i passi citati ci sono in entrambi i testi lunghi accordi tenuti; ma in Wagner si tratta di un denso

tessuto di fagotti, corni ed ottoni, mentre in Debussy tutto è traslato ad un registro più alto, con gli

accordi affidati a legni sostenuti dai corni. Ma era difficile ingannare con una banale trasposizione il

sensibile orecchio di Strauss…

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4. VERSO UNA NUOVA CONCEZIONE DEL TEMPO

4.1. Tempo e carattere

È innanzitutto un fatto caratteriale, se Debussy non segue il gigantismo germanico che pure

seduce molti suoni contemporanei. Non è certo un fatto di milieu culturale: se i wagneriani

francesi seguono in parte il consiglio dello stesso Wagner di cercare temi nella propria cultura

[cit.] (e infatti le opere wagneriane di Chabrier e Chausson dovranno il libretto alle saghe

celtiche), la tendenza al cromatismo e al gigantismo è dominante, e servirà l’arrivo dello

stesso Debussy a fermare questa “deriva” in Francia.

Si sa, dalle testimonianze dell’epoca, che Debussy è un carattere estremamente riservato,

quasi scostante. È diretto, non ama le ampollosità, rifiuta l’eccesso e la magniloquenza che

ure vanno di moda in una città, la Parigi dell’epoca, portata alla guasconeria dal momento

economicamente positivo e dal trionfo di una borghesia ormai decisamente benestante.

4.2. Contro gli eccessi tedeschi

È una conseguenza inevitabile, quasi fisiologica, il suo rifiuto per gli eccessi in musica.

Croche ci informa che il suo amico Debussy poco apprezza, ad esempio, le “divine

lunghezze” (secondo la geniale sintesi di Schumann) delle sinfonie schubertiane; e le liquida

piuttosto come mai finalmente “rassegnate ad essere incompiute” [Debussy 1917-2000, p.

44]. Immaginiamo che la stessa critica venisse estesa, tacitamente e non senza una punta di

malignità, anche al contemporaneo Mahler, sul cui nome (che in francese suona simile a

malheur, malora) Debussy venne colto a scherzare [Testi 2003]).

La critica di eccessiva cervelloticità, di eccesso di sviluppo, si estende addirittura a

Beethoven. Il compositore francese afferma, nella “Revue blanche”, di preferire “le poche

note del flauto di un pastore egiziano” ad una grande sinfonia; e sostiene che “veder nascere

il grano è assai più utile che ascoltare la Sinfonia Pastorale” [Testi 2003, p. 26].

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4.3. La concisione ellenizzante di Debussy

In quest’affermazione sembra di poter scorgere un anelito di ritorno all’antico, all’idea di

semplicità, di essenzialità quasi spigolosa9, che l’archeologia musicale stava associando alla

sconosciuta musica degli antichi greci10. Concisione, concentrazione, sono alla base di

quell’idea di grecità che ci si può fare, del resto, leggendo la poesia frammentaria di Saffo e

Alceo. Già Hölderlin aveva usato il tramite del calco eolico per alleggerire, illuminare,

rasserenare i suoi versi, che dalla levigata perfezione delle grandi odi passano all’aria libera

dei frammenti11.

Fedele a quest’idea di asciuttezza, Debussy sceglie presto una maggior concisione e una

estrema concentrazione formale. Al titanismo romantico, e massimamente quello

sproporzionato di Wagner, alla melodia infinita il francese contrappone linee melodiche brevi,

rapide, quasi isolate dal contesto, chiaramente identificabili. Non servirà il titolo delle tarde

Danseuses de Delphes, né la loro elegante e solenne spigolosità, a farci capire la

consuetudine di Debussy con le ricerche dell’École française d’Athènes e di Maurice

Emmanuel (ma forse non con quelle della scuola filologica tedesca?).

Quella di Debussy non è, in sé, una ricerca storico-filologica, ma una ricerca di stimoli e

suggestioni. La concisione della classicità greca si attaglia perfettamente ai suoi gusti

personali. E, soprattutto, sono una rappresentazione efficace dell’essenzialità simbolista,

dell’amore e della cura per ogni singola parola (o nota) che caratterizza il movimento a cui si

sente più vicino. Non è un caso che Debussy frequenti assiduamente il salotto di Mallarmé.

4.4. Dal tempo assoluto alla poetica dell’istante

Dunque, alla tendenza delle opere wagneriane (e post-wagneriane) di estendersi fino ad

occupare ogni piega del tempo, con la dichiarata intenzione di tendere all’eternità e ad una

concezione [percezione] “assoluta” del tempo, Debussy oppone opere di modesta durata,

9 E spigolose suoneranno, infatti, le Danseuses de Delphes, presi pari pari dai profili netti dei vasi

attici.10 Proprio in quegli anni, gli archeologi francesi riscoprivano gli “spartiti” di pietra degli Inni delfici.11 Non sorprende che Hölderlin, autore di frammenti al modo greco, spirito greco esiliato in Germania,

prima o poi perda il lume della ragione in mezzo a tanti titani…

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estremamente concentrate, in cui non sia data ripetizione se non con ritrosia, quasi pudore. Si

tratta certamente di una conseguenza inevitabile del rifiuto dell’architettura formale e dello

sviluppo motivico della musica tedesca, che lo costringe a valutare con maggiore accortezza

il passo, ma si tratta anche di una scelta deliberata e giustificata da una diversa concezione

dello sviluppo formale e del dispiegamento dell’opera nel tempo.

4.5. Tempo come memoria

La rinuncia alle tecniche tedesche dipende, come abbiamo accennato, da una diversa

concezione del tempo. Se i tedeschi sembrano volersi assicurare dell’esistenza del presente,

insistendo sul motivo, Debussy cerca piuttosto di richiamare alla memoria gli eventi passati

per mettere il presente in prospettiva (vedi più sotto il paragrafo Motivi e varianti). Nel suo

caso la formazione del tempo non necessita di iterazioni: è sufficiente una serie di segnali,

che dissemini di richiami l’intero percorso della memoria.

Scomparso il da capo, scomparsa l’elaborazione attorno ad un motivo, può sparire anche

l’ossessiva ricomparsa (più o meno variata) del Leitmotiv, per cedere il posto ad accorgimenti

mnemotecnici più discreti, più velati. Il nous di Schopenhauer si fa più distante, si immerge

nuovamente nella penombra dietro il velo di Maja. La Recherche, di un Proust insieme

wagneriano e debussista, con il suo tempo fatto di dettagli intrecciati e raggomitolati, è ormai

dietro l’angolo (1908).

4.6. Una nuova prosodia musicale

Come osservavamo nel paragrafo Debussy il wagneriano, proprio la somiglianza di alcune

zone del Pelléas con altre del Parsifal, ci permette di cogliere la distanza tra il gesto di

Wagner e quello di Debussy. Se la frase di Wagner sembra un rincorrersi di nubi, un continuo

ed infinito trasformarsi e trascolorare, il gesto debussiano è invece sempre rapido, essenziale,

scarno.

Dicevamo della sua tensione ad un “grecismo” di maniera. Ma potremmo piuttosto dire,

soprattutto dopo l’incontro di Debussy con la musica di Mussorgskij, che rimanda alla

spontaneità del canto popolare o di quello infantile. Il sentimentalismo wagneriano diventa

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tenerezza; lo slancio passionale e ideale diviene sottile inquietudine interiore; l’infinità delle

prospettive armoniche in perenne divenire si trasforma in congelamento dell’istante, nel

rapido guizzo del tempo fissato da un subitaneo sguardo.

In Pelléas, la lezione della Camera dei bimbi di Mussorgskij, in cui il canto è modellato

finemente sulla prosodia da filastrocca dei testi, consente a Debussy di rompere la linearità

della frase, scoprendo un’alternativa sia all’inevitabile incapacità di concludere della melodia

infinita, che alla rigida e sterile simmetria della frase classica. Quella che rischiava di essere

una semplicità senza esito, al limite della banalità, riesce a diventare una nuova complessità,

in cui la simmetria è garantita dai rimandi interni al testo (fonici, figurativi, di significato) e

non da una struttura esterna.

L’aderenza al testo – ad una lingua, quella di Meaterlink, di matrice quotidiana, non letteraria

– significa anche scoperta di una naturalezza non intorbidita da filtri culturali (la prosodia

classica, la metrica poetica di origine neoclassica). Accettare la naturalezza del parlato

significa, per Debussy, accettare anche eloquenti silenzi quando la musica non avrebbe di più

da dire. È lo stesso compositore a contrapporre il silenzio che segue l’imbarazzata avance di

Pelléas allo scatenamento vocale e orchestrale che Wagner mette in scena nel momento

analogo del II Atto di Tristan [cit.].

Questa nuovo atteggiamento nei confronti della frase musicale contribuisce a cambiare la

concezione del tempo locale, fatto non più solo di continuità, ma anche di pause, cesure, isole

di eventi. Il silenzio lascia intravedere il tempo sullo sfondo12, non più tirato a forza in primo

piano, non più lanciato per forza in scena. La musica non è più necessariamente sotto i

riflettori, può trovare anche zone d’ombra, private, di riflessione, di intimità13.

12 Formula che mutuo volentieri dal titolo di un magnifico brano di Armando Gentilucci.13 Al canto che assume un carattere più intimo, meno esteriore, corrisponde la riduzione delle

dimensioni impressionanti della macchina scenica wagneriana: il teatro di Debussy è intimo, raccolto;

i drammi diventano familiari. Nel Pelléas, all’infinità del mondo si sostituisce la scena di una casa

(sebbene sublimata nella forma di un castello). Debussy fa crollare l’edificio scenico wagneriano, lo

smonta, lo stilizza, lo frammenta nelle sue componenti essenziali. La riduzione al piccolo, alla

minuzia incantevole, è ciò che ci fa avvicinare Debussy alle estreme propaggini del Biedermeyer, di

cui faremo cenno più avanti parlando di Brahms.

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4.7. Tempo divino, tempo umano

È proprio la concezione del tempo a fornirci la chiave della radicale novità di Debussy

rispetto a Wagner. In Wagner il tempo è “divino”, è il tempo degli dèi. Lo stesso

Festspielhaus è concepito come luogo del rito, luogo d’incontro dell’umano, in un

movimento circolare, con il divino. L’articolazione del tempo nelle opere di Wagner è sorretta

da un formidabile senso dell’architettura, tanto solido da non temere l’abbandono delle forme

classiche.

Il tempo di Debussy è invece “umano”. L’“umanità” del tempo debussiano è la stessa

indagata dal suo coevo Bergson [1889]: al tempo misurabile si sostituisce il tempo del vissuto

affettivo, fatto di memorie e rimandi che costituiscono l’identità personale. È un tempo

organico, senza costrizioni, che si costruisce da sé. Non ha bisogno di trame complesse,

perché ogni istante (ogni motivo) riesce a ritornare in se stesso e a rifecondarsi.

Se Wagner intende, con la riforma del teatro, ricreare il connubio tra il popolo e gli dèi che

era, come illustrerà brillantemente il giovane Nietzsche [1872], il fondamento del teatro

tragico dell’antica Grecia, Debussy intende invece recuperare un atto di coscienza del nostro

essere nella natura. Farà dire a Monsieur Croche che la miglior lezione di musica consiste

nell’ascoltare il vento [Debussy 1917]. Wagner è un mistico, crea un rito, forza il tempo verso

l’assoluto. Debussy esterioriorizza i nostri sentimenti immediati [Nicolas 2006] – causati dal

suono del vento, delle onde del mare – del nostro tempo interiore.

Come afferma Fubini [2008], Debussy comprende che “la natura, con i suoi ritmi, i suoi

respiri, la sua organicità e creatività poteva essere il nuovo modello in senso metaforico.”

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5. LE FORME DEL TEMPO

5.1. Strauss e Debussy

Nella musica di Debussy non c’è più un tempo lineare. Eppure percepiamo questa musica

come compiuta in se stessa, estremamente elaborata, libera ma tutt’altro che aleatoria.

Debussy sostituisce, in effetti alla vecchia concezione lineare una nuova forma che

definiremo “spiraleggiante” del tempo.

Ci aiuterà a comprendere meglio il percorso seguito da Debussy attraverso un confronto con

il suo quasi coetaneo Richard Strauss, che in alcune opere (in particolare Elektra e Salome)

affronta anch’egli il tema del tempo. Non è un caso se sia Debussy che Strauss partono dal

comune retroterra del simbolismo, letto ed interpretato in modo del tutto personale.

5.2. Dall’architettura alla drammaturgia dei simboli

Anche nel caso di Strauss, come in Wagner e Debussy, il tempo è un fluire continuo,

ininterrotto, si potrebbe dire persino atletico. Ma se Debussy emancipa il silenzio (come

Boulez dirà, in seguito, di Webern), Strauss riempie di suono tutti gli interstizi. La

saturazione, il proliferare continuo di temi dai temi, rende quasi superfluo il concetto di

architettura musicale: il tessuto sonoro è così denso da sostenersi da solo. I leitmotiven non

hanno più funzione strutturale, ma sono simboli – personaggi sonori – che galleggiano sul

continuo, sull’indistinto.

Salome è un’opera fondamentale nel percorso personale di Strauss. In quest’opera non vi

sono più i “numeri chiusi” dell’opera tradizionale. Wagner è stato molto ben assimilato, ma

anche superato: i motivi ricorrenti non sono più pietra angolare ed elemento strutturale di una

complessa architettura, ma segnale, simbolo, con la stessa dignità di un personaggio che entri

in scena.

Non c’è ancora quel gioco formale, ironico, forse un po’ freddo, che ritroveremo in

successive opere straussiane, e che sarà alla base delle opere di Berg. Salome si costruisce su

un fluire di simboli, di richiami continui, di anticipazioni (e foschi presagi). È in un certo

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senso una costruzione di memorie – in altri termini, sebbene in modo più fragoroso, Strauss

segue lo stesso procedimento costruttivo di Debussy.

5.3. Debussy e Salome

In effetti, Salome è un’opera per cui Debussy si lascia sfuggire apprezzamenti [Testi 2003, p.

136]. Nonostante le reciproche diffidenze tra i due compositori, stemperate da una buona

dose di stima e riconoscimento reciproco, è proprio sul terreno del simbolismo che i due

autori possono trovare un terreno comune. E Salome è, guardacaso, un’opera grondante di

simbolismo14, di vibrazioni atmosferiche, di colori puri. Ed è costruita con una forma

completamente libera, certamente dovuta al solido (e magnifico) testo sottostante, ma anche

alla capacità del compositore di aderirvi pienamente15.

5.4. Salome e il simbolismo

Si potrebbe dire, parafrasando una celebre definizione di Schönberg riferita al Pelléas di

Debussy16, che la musica di Strauss riesce a “cogliere il meraviglioso profumo della poesia”,

modellandosi sul suo elemento più rilevante: l’intreccio simbolico. Wilde elimina infatti la

tradizionale suddivisione aristotelica del racconto in atti, e comprime tutto in una sola unità

temporale, la cui articolazione è, più che diacronica, sincronica: tutti gli eventi sono

compresenti in forma di ricordo o di presagio, con un continuo affastellamento di immagini e

14 Wilde è a Parigi nel 1881, anno di pubblicazione dei Poems di Mallarmé.15 In questo Strauss di pone come un ottimo continuatore di Liszt, i cui poemi sinfonici – ma anche, ad

esempio, la Sonata in si minore – si strutturavano sulla forma di un testo programmatico sottostante,

senza la classica suddivisione in movimenti; Strauss traspone nell’opera questo stesso principio. È

l’eredità più forte lasciata da Liszt, come confermeranno lavori capitali come le opere di Busoni e la

prima Kammersymphonie di Schönberg.16 Schönberg usa questa definizione a proposito del Pelléas di Debussy [Manzoni 1997]. È curioso

notare come proprio lo schoenberghiano Pelleas und Melisande, il cui soggetto fu suggerito a

Schönberg da Strauss, possa essere in qualche modo considerato un trait d’union tra gli stili di

Debussy e di Strauss.

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un “arrotolamento” del tempo. In fondo (e in modo del tutto adeguato, visto il tema biblico),

è il tempo dei profeti: sempre incombente, mai arrivato, già scritto da sempre.

5.5. Drammaturgia dei colori e decorativismo

Con consueta acutezza e sensibilità, Debussy parla della Salome come di uno sviluppo di

“colori ritmici” [Debussy 1917, p. 69]. È evidente che a colpirlo sia proprio il superamento

della concezione “architettonica” con una più “pittorica”, che ricordi un arabesco, uno studio

sulle forme pure, sui colori e sulla luce. A legare, sebbene in maniera del tutto tangenziale, i

due compositori non c’è infatti solo il simbolismo, ma anche il fascino esercitato su entrambi

dal “decorativismo” tipico degli anni dell’Art Nouveau.

Questa comune familiarità con il nuovo stile non deve sorprendere. Parigi ne è la capitale, e

molti anni prima della presentazione della Salome (1905), la città natale di Strauss era stata la

culla della Sezession di Monaco (1892), movimento che Strauss conosceva bene e di cui

frequentava i protagonisti (celebre è il ritratto che a Strauss dedicherà Max Liebermann nel

1918). La Secessione di Monaco è preludio dello Jugendstil: un movimento di arte ed

artigianato d’arte che introduce il gusto del decorativo negli oggetti d’uso quotidiano, e che

rompe la rigorosa (o rigida) linearità del design precedente. Monaco, nel corso di questa

rivoluzione, accoglie non solo istanze, ma anche numerosi artisti francesi.

L’arabesco, l’ornato prezioso, la linea sinuosa, sono tratti che si ritrovano allo stesso modo

negli allestimenti scenici delle opere di Debussy e in quelli delle opere di Strauss.

5.6. Arabesque

L’arabesco come termine associato alla musica non è del resto una novità di fine secolo. Di

musica come arabesco parla già Novalis, e parlerà in maniera più compiuta Hanslick [1871].

Entrambi gli autori usano il termine per sottolineare la distanza della musica da contenuti

altri, da significati estranei alla musica; vogliono rimarcare l’autosufficienza della musica

dalle altre arti.

L’epoca dello Jugendstil provvede invece a creare un terreno comune per musicisti ed artisti

visivi. E i ritmi dispari, le asimmetrie di cui si fa profeta Verlaine, apparentano loro anche la

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poesia. L’arabesco è esaltazione di autosufficienza della linea dalle altre componenti dell’arte

figurativa – dal colore, dal riempimento della forma. Arabesco è dunque autosufficienza

dell’opera d’arte in sé.

Non è diverso il concetto nella musica di Debussy. Lungi dall’essere puro ornamento, nella

sua musica l’arabesco è la metafora di un principio formale. L’autonomia dell’opera – slegata

dalla necessità sia classica che wagneriana di procedere, di seguire un percorso obbligato, di

narrare una storia – diviene per l’opera possibilità di riflettere su se stessa, di ritornare a se

stessa.

Il nuovo gesto pittorico, capace di sottrarre la pittura al giogo della prospettiva albertiana,

agli inevitabili sfondi prospettici, in altre parole al dominio dell’architettura con la sua

necessità di linee rette, diventa anche un modo per far entrare il tempo umano, non più

assoluto ed eterno come quello dei templi dorici, nell’arte figurativa. Proprio Klimt, sensibile

analista dell’arte pre-classica (egizia, assira, etrusca o bizantina), è maestro nel fondere

morbidamente il segno (la melodia?) con lo sfondo a tinta piatta (il tempo sullo sfondo di cui

si diceva?)17.

È significativo, per capire l’ossessione del compositore per la ricerca di una nuova forma da

dare al tempo (purché non in forma di pera…18), che Debussy intitoli Arabesque due suoi

precoci brani pianistici, poi divenuti celebri (anche in una versione orchestrale realizzata

dallo stesso autore).

17 È del 1884 À rebours di Huysmans, opera che rende plateale il rifiuto del tempo vettoriale, con il

suo protagonista che smette di vivere e si raggomitola, divenendone vittima, nell’affastellamento dei

suoi trascorsi; ed è del 1890 il Ritratto di Dorian Gray dello stesso Wilde, racconto fantascientifico in

cui due tempi paralleli possono coesistere (sulla tela e nella realtà fattuale).18 Rimando al titolo dei tre celeberrimi pezzi per pianoforte a quattro mani di Erik Satie.

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6. LA SPIRALE DEL TEMPO

6.1. Rettilineo vs. sinuoso

Linea (nel senso di tempo) e colore (nel senso di timbro) sono due elementi in comune alla

musica e alle arti figurative (si potrebbero, peraltro, aggiungere anche sottocategorie come

densità o tessitura, ritmo e volume). Abbiamo condotto fin qui un’analogia, giustificata da

analoghe rivoluzioni in atto all’epoca nel mondo dell’arte visiva, che ci ha permesso di dire

che Debussy abbandona una concezione lineare del tempo, per scegliere forme più sinuose

riconducibili all’arabesco.

È lo stesso compositore ad incoraggiarci nel sostenere tale analogia. È Debussy stesso, infatti,

a scorgere nella forma classica un’“eleganza rettilinea” (quella della forma-sonata, con il suo

sviluppo preordinato e un percorso inesorabile), le cui formule costruttive sono ormai “una

filosofia divenuta caduca” [Debussy 1917]. Osservando come dopo Beethoven la sinfonia

avesse perso ogni vitalità, il compositore sostiene che anche la Nona fosse nient’altro che “un

desiderio magnifico di ampliare, di liberare le forme abituali” [ivi].

Come abbiamo visto affrontando il caso Strauss, Debussy contrappone all’eleganza rettilinea

dela forma-sonata ”l’arabesco musicale o piuttosto quel principio dell’ornamento che è la

base di tutti i tipi di arte.“ Non puro decorativismo, ma una sinuosità che consente di offrire

una rappresentazione originale del tempo, ondivago, spiraliforme, spesso arrotolato su se

stesso, decisamente non più rettilineo. (vedi più sotto l’analisi di Nattiez).

Non siamo forse ancora alla Momentform di Stockhausen, alla distribuzione statistica degli

eventi, ma certamente il peso del singolo evento diviene molto più importante che in passato,

tanto da riuscire a sopraffare, già nel Prélude à l’après-midi d’un faune, ogni senso di

evoluzione nella continuità, ogni idea di progresso tra i conflitti. Nel Prélude ci si perde,

mesmerizzati, ed è impossibile riuscire a sintonizzarsi durante l’ascolto su una qualsiasi

forma (che esiste, ma è abilmente nascosta). L’arte di Debussy è mnemonica (e quindi, con

Stockhausen, anche un po’ arte del dimenticare, dell’isolare singoli eventi dal loro passato).

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6.2. Motivi e varianti

La scrittura melodica di Debussy è dunque un procedimento mnemotecnico. Lo illustra

abilmente Nattiez, nella sua analisi semiotica di Syrinx, in cui individua un paradigma

formale costruito su motivi e sulle loro varianti. Le melodie non si succedono più per

necessità di opposizione drammatica, come nella forma-sonata, ma come dispositivo di

riconoscibilità, sebbene sempre ellittico, mai precisamente definito. L’imprecisione, il profilo

indefinito, l’imprécis vagheggiato da Verlaine, è alla base della poetica simbolista, ed è ciò

che Debussy cerca di tradurre in musica. È proprio Verlaine ad affermare che nella musica di

Debussy (riferendosi all’Aprés-midi d’un faune) “l’imprecisione incontra la precisione” [Tsai

2006].

Nattiez individua una sottile sfumatura tra identità e diversità. Nei motivi debussiani esiste un

vago senso di riconoscibilità: ad esempio, quando a battuta 29 (e seguenti) la melodia deriva

dal motivo A, ma il ritmo dal motivo B. Oppure quando si crea una parentela sfumata tra le

melodie, per esempio con la variante C1 (del motivo C) che chiude con le stesse note con cui

termina il motivo A [Nattiez 1975]. In questo caso, i due motivi si fondono mediante un

espediente mnemonico, e pur mantenendo una fisionomia diversa non sono immediatamente

distinguibili. Una classica analisi motivica (come quella che si potrebbe fare, ad esempio, sui

chiari segmenti con cui inizia il Concerto per violino e orchestra in La minore di Bach)

risulta dunque impossibile.

Motivo A II di Syrinx

Motivo C1 di Syrinx

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Nicholas Cook parla, sempre a proposito dell’intersezione tra i motivi A e C di Syrinx, di

“patterns of recurrence […] fluid and assymetrical” (“il modo in cui i motivi ritornano è […]

fluido ed asimmetrico”) [Cook 1987, p. 160]. Cook osserva come le radici dell’analisi di

Nattiez affondino nell’analisi motivica tradizionale, ma anche come la complessità di

Debussy la renda particolarmente sofisticata [ivi, p. 165].

Il tema della similitudine tra motivici è affrontato da Ruwet [1962], il cui metodo dell’epoca

consiste nello scomporre, come fanno i linguisti, “l’opera musicale nella sua interezza […]

nei suoi elementi”, arrivando “al livello in cui si incontrano le duplicazioni”. Ruwet osserva

come Debussy sia solito costruire blocchi strutturali di motivi o battute ripetute. Secondo

Bent e Drabkin [1990], Ruwet riesce a “delimitare, sulla base di criteri di similarità, unità

apparentate."

Se già in Liszt si poteva osservare una tecnica basata su motivi ricorrenti, Nattiez e Ruwet

dimostrano come in Debussy non si tratti più solo di creare un’unità formale, ma di plasmare

la musica sul tempo della memoria. I motivi non ritornano con una loro identità precisa, ma

con quella che il vaglio impreciso della memoria ha riconosciuto come identità. Quella di

Debussy non è vera e propria libertà formale, ma un ordine modellato su criteri endogeni

invece che esogeni.

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7. ARMONIA, MACROFORMA, SPAZIO

7.1. Dal motivo all’impressione

Sospendere il tempo mediante la sostituzione di una struttura esterna con un sistema

mnemonico non può però bastare a rivoluzionare la musica. A sostenere il discorso melodico

c’è anche un sistema armonico potentemente innovativo. Ancora nel 1902, Laloy cerca di

dimostrare che il Preludio del Pelléas non contraddice troppo i principi dell’armonia classica.

È costretto però, per non incorrere in evidenti aporie, ad ammettere una serie di violazioni: le

sospensioni vengono risolte, ma non immediatamente; molte note si trovano in posizione non

ortodossa (ma vengono considerate, con una certa forzatura, solo note di volta o di passaggio)

[Bent, Drabkin 1990, p. 222].

In realtà, i principi dell’armonia classica sono stati scardinati. La mutata concezione del

tempo richiede una diversa funzione dei parametri musicali. L’armonia funzionale, nata in un

contesto rettilineo di tensioni e risoluzioni, perde senso e significato in un contesto temporale

spiraleggiante, fatto di continui ritorni ed interrotto da ellissi. L’armonia diviene

compiutamente armonia-colore (da cui la formidabile abilità di orchestratore di Debussy,

costretto ad interessarsi in maniera originale del parametro timbrico).

La melodia, non più costretta nel percorso preordinato dal moto armonico, si svincola,

aleggia sul mare di colore, diviene autosufficiente (e di nuovo padrona della musica).

L’elaborazione motivica, alla base del percorso rettilineo della musica tedesca e definita da

Croche “laboratorio del vuoto” [Debussy 1917], cede il posto ad una successione di

impressioni (è proprio di essere un “impressionista” che lo accusavano già i professori del

Conservatoire ricevendo le sue prove da Roma). La musica procede per successione di

macchie di colore.

Una drammaturgia del colore19 era già stata presagita, naturalmente, da Baudelaire nel suo

saggio sul Tannhäuser di Wagner, quando affermava che sarebbe stato sorprendente se il

suono non avesse potuto suggerire il colore, visto che tutto ciò che è sensibile è sempre stato

espresso attraverso delle analogie reciproche, o “corrispondenze”.

19 Sviluppo di “colori ritmici”, abbiamo visto, Debussy definiva la Salome di Strauss.

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7.2. Un nuovo senso della forma

Naturalmente, Debussy ha una preparazione professionale troppo accurata per potersi

abbandonare ad un libero dilettantismo, alla semplice giustapposizione di immagini. Benché

non ci resti quasi nulla del suo materiale di lavorazione (scrupolosamente eliminato dopo il

completamento della composizione, operazione favorita dalla sua lunga preparazione

all’addio alla vita), l’analisi a posteriori ci permette di scoprire le nuove proporzioni alla base

della forma debussiana. Un mezzo impiegato continuamente è la sezione aurea, principio

formale che influenzerà anche il debussiano Bartók [Howat 1983].

7.3. Tempo e spazio

L’eliminazione del procedere rettilineo del tempo permette a Debussy di scoprire anche la

dimensione spaziale. Nel loro ritorcersi attorno all’asse temporale, i brandelli di memoria

rivelano anche l’esistenza di una lontananza proiettata sullo sfondo: in altre parole, della

dimensione spaziale.

La mancata risoluzione sulla tonica lascia una coda dell’istante precedente. Il discorso aperto

non si chiude, si lascia trascinare via, lentamente, dal vento. È su questa coda, su questo

brandello che si allontana, che si inserisce, come in dissolvenza, un nuovo episodio della

memoria.

Con la mancanza di un alternarsi di tensioni e risoluzioni, con la sospensione degli accordi

prima della caduta sulla tonica, con il procedere parallelo delle quinte e gli urti con funzione

puramente timbrica delle seconde, l’armonia si defunzionalizza20. Svanisce il ritmo armonico

come base del tempo. L’armonia diventa colore, si fonde con il timbro. L’armonia-colore

congela il tempo. La successione-sovrapposizione-giustapposizione di timbri-colore crea lo

spazio sonoro.

20 Non così, ad esempio, nelle opere di Prokofiev o Respighi, che interpretano questi espedienti tecnici

come “coloriture”, senza per questo accettare la rottura della narrazione lineare. Si prenda ad esempio

l’Angelo di fuoco di Prokofiev, la cui armonia e vocalità sembrano a tratti ricalcate su quelle del

Pelléas; manca del tutto quel gusto dell’istante, essendo anzi l’inesorabilità del procedere verso la

catastrofe finale, verso l’autodafé, il segno distintivo di quest’opera.

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La finezza timbrica permette di creare un senso di prospettiva: i flauti in sordina di La Mer

sono più lontani dei tremoli di archi in primo piano. Si creano dei piani sonori, grazie al

timbro e all’armonia. La concezione dello spazio è rinnovata. La musica sale in scena.

Wagner aveva già anticipato questa novità creando zone orchestrali dotate di individualità

all’interno della sua enorme compagine: la sua magniloquenza, il suo senso del fluire

rettilineo del tempo verso l’eterno, gli avevano però impedito di trarne le conseguenze e di

soffermarsi sulla compresenza sincronica di spazi diversi.

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8. RICERCHE BRAHMSIANE

Può sembrare ardito richiamare la figura di Brahms in un breve testo su Debussy. Eppure, il

confronto con l’amburghese, con la sua dorata distanza, ci permette di comprendere meglio la

temperie etico-filosofico-estetica europea dell’epoca.

Nelle opere della maturità, Brahms adotta quello che Schönberg definirà il principio della

“variazione di sviluppo”. Al contrario che in Wagner, in Brahms si ha la massima

condensazione ed economia tematica, a cui sopperisce l’incredibile abilità nell’elaborazione.

Come in Debussy, il materiale di partenza è poco, quel che conta è il modo in cui viene

disposto lungo l’asse temporale. Un procedimento larvatamente mnemotecnico è quello che

troviamo nel tardo Quintetto con clarinetto, un’opera in cui il tema principale, richiamato più

volte nel corso del pezzo, assume davvero il carattere di segnale di uno struggente desiderio

di ritorno.

Del resto non manca un punto di partenza comune tra Brahms e Debussy. L’amburghese,

considerato a lungo capo degli antiwagneriani di Vienna, rivendica la sua capacità di

comprendere Wagner meglio di ogni altro, e il breve carteggio con Wagner ci fa capire, non

meno delle suggestioni timbriche della Rapsodia per contralto e orchestra, che il suo studio

sull’opera di Wagner non è occasionale né (inimmaginabile, del resto, visto il suo scrupolo da

nordico) superficiale.

Brahms segue, nelle pause lasciate libere dall’esplorazione delle grandi architetture neo-

barocche, dalla monumentalità delle sue opere corali e orchestrali, un percorso più intimo. I

tardi, brevi pezzi per pianoforte sono un laboratorio eloquente delle nuove strade che lo

tentavano, e che non sono eccessivamente diverse da quelle seguite dal più giovane Debussy:

frammentazione, armonia-colore, poetica dell’istante21.

Prendiamo ad esempio il Capriccio, op. 116 n. 1 (1892). Dopo un inizio “caratteristico”, da

danza ungherese, e dopo un primo accenno, la musica si fa leggera (pp e staccato), quasi un

gioco di risonanze, impalpabile:

21 Non è un caso che Imberty metta a confronto proprio un Intermezzo di Brahms e un Preludio di

Debussy nelle sue ricerche sperimentali su continuità e discontinuità [Imberty 2001].

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Johannes Brahms, Capriccio, op. 116 n. 1.

La continuità di cui Brahms è grande maestro cede il posto ad un frammentario

autocompiacimento del suono. La figura non è dissimile dal gesto iniziale de Les collines

d’Anacapri (primo libro dei Préludes, 1910).

Claude Debussy, Les collines d’Anacapri, I libro dei Préludes.

Nel quadruccio “all’ungherese” un dettaglio attira l’attenzione del compositore: una piccola

figurina sullo sfondo, che si confonde con le altre come una macchia di colore. Dalla

composizione del quadro si passa ad un’impressione, ad un modo più sfumato di percepire (e

di narrare in note).

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Ancora: il movimento rapido del successivo Intermezzo (op. 116 n. 2) non lascia presagire

l’ariosa levità in cui si libra il canto che ritroveremo anche ne Le vent dans la plaine?

Johannes Brahms, Intermezzo, op. 116 n. 2.

Claude Debussy, Le vent dans la plaine, I libro dei Préludes.

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Figure non meno lievi, con melodie polverizzate, quasi immateriali, troveremo anche

nell’opera successiva di Brahms:

Johannes Brahms, Intermezzo, op. 117 n. 2.

La scontrosità del grande amburghese non poteva fagli ammettere – o almeno non

pubblicamente – qualche incrinatura nella sua immagine (e nelle sue convinzioni) di

continuatore di Bach e Beethoven. Ma privatamente, in questi piccoli pezzi evidentemente

destinati a rimanere riservati, come una corrispondenza privata con il suo pubblico più

affezionato, nascosto agli occhi delle istituzioni puntati sulle sinfonie e sui grandi concerti,

Brahms riesce a confessare di essere un uomo in sintonia con il suo tempo, già capace di

sentire la rivoluzione di un altro finto anti-wagneriano: Debussy.

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