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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1 LUGLIO 2012 NUMERO 383 CULT La copertina FERRARIS e MAGRELLI “Felicismo” la nuova ideologia dove la felicità è scienza del piacere La recensione PAOLO MAURI Torna Giovene e il romanzo-fiume che fu considerato l’altro Gattopardo All’interno L’intervista SUSANNA NIRENSTEIN Ahmed Mourad “Io, fotografo di Mubarak svelo il noir del potere” L’opera DINO VILLATICO I bambini cattivi di Henry James sono il capolavoro musicale di Britten Il libro ALESSANDRO BARICCO Una certa idea di mondo: La fiction filosofica secondo Cartesio Il popolo del Ted e il festival che inventa il futuro Next RICCARDO LUNA Karen Blixen, alla ricerca della sua Africa I luoghi EMANUELA AUDISIO P arlare oggi di banditismo in Sardegna è come aprire l’armadio di casa e provare a indossare, dopo vent’an- ni, l’abito del proprio matrimonio. Quella giacca che non si abbottona ci ricorda che non siamo più gli stes- si, che ci siamo trasformati senza rendercene conto. Il nostro fisi- co si è espanso, gli assetti e le proporzioni sono cambiati. Così il cor- po sociale di una regione che si preferisce pensare immobile. I mi- ti del balente, del bandito, dell’Anonima sequestri, sembrano an- cora vivi solo a chi non considera l’evoluzione della società sarda negli ultimi trent’anni. Tuttavia quello della delinquenza resisten- ziale è stato un mito esotico persino per molti sardi che dovevano subirlo come endemico in virtù di una tendenza generalizzante che vedeva, e spesso ancora vede, la Sardegna tutta uguale, tutta pastorale, tutta rivendicativa, tutta arcaica. (segue nelle pagine successive) MARCELLO FOIS ARZANA (Ogliastra) L o davano per morto. E lui, il morto lo faceva bene. Mai ceduto un segno della sua esistenza in vita, mai la- sciata una piccola traccia di sé, neanche il respiro del suo fantasma sentivano più dentro la montagna che lo proteggeva — il Gennargentu — fra boschi di leccio e distese di querce, anfratti nascosti da spinose ginestre, gole, caverne, costo- ni di granito, voragini. Per quindici anni ne abbiamo avuto un ri- cordo sfuggente dalla foto segnaletica attaccata ai muri dei posti di polizia, faccia di fronte e faccia di profilo, gli occhi pesti, il collo gon- fio, la capigliatura nerissima di quando era un giovane sardo che stava già diventando erede di quei balentes che su quest’isola si prendono il rispetto dovuto agli uomini d’orgoglio e di coraggio. Fino a qualche giorno fa c’era rimasto solo e soltanto quello di lui, il bollettino dei latitanti del ministero dell’Interno. (segue nelle pagine successive) ATTILIO BOLZONI DATI ANAGRAFICI Nome Attilio Cognome Cubeddu Nato il 2 marzo 1947a Arzana (OG) ATTIVITÀ CRIMINALE 1981 sequestro Peruzzi 1983 sequestri Rangoni Machiavelli e Bauer 1997 sequestro Soffiantini Arrestato il 31 marzo 1984 Condannato a 30 anni più ergastolo Latitante dal 7 febbraio1997 Attilio Cubeddu, Anonima sequestri, latitante in Sardegna dal ’97 Ora è ripartita la caccia. Viaggio in un passato che non passa

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 1 LUGLIO 2012

NUMERO 383

CULT

La copertina

FERRARIS e MAGRELLI

“Felicismo”la nuova ideologiadove la felicitàè scienza del piacere

La recensione

PAOLO MAURI

Torna Giovenee il romanzo-fiumeche fu consideratol’altro Gattopardo

All’interno

L’intervista

SUSANNA NIRENSTEIN

Ahmed Mourad“Io, fotografodi Mubarak sveloil noir del potere”

L’opera

DINO VILLATICO

I bambini cattividi Henry Jamessono il capolavoromusicale di Britten

Il libro

ALESSANDRO BARICCO

Una certaidea di mondo:La fiction filosoficasecondo Cartesio

Il popolo del Tede il festivalche inventa il futuro

Next

RICCARDO LUNA

Karen Blixen,alla ricercadella sua Africa

I luoghi

EMANUELA AUDISIOParlare oggi di banditismo in Sardegna è come aprire

l’armadio di casa e provare a indossare, dopo vent’an-ni, l’abito del proprio matrimonio. Quella giacca chenon si abbottona ci ricorda che non siamo più gli stes-

si, che ci siamo trasformati senza rendercene conto. Il nostro fisi-co si è espanso, gli assetti e le proporzioni sono cambiati. Così il cor-po sociale di una regione che si preferisce pensare immobile. I mi-ti del balente, del bandito, dell’Anonima sequestri, sembrano an-cora vivi solo a chi non considera l’evoluzione della società sardanegli ultimi trent’anni. Tuttavia quello della delinquenza resisten-ziale è stato un mito esotico persino per molti sardi che dovevanosubirlo come endemico in virtù di una tendenza generalizzanteche vedeva, e spesso ancora vede, la Sardegna tutta uguale, tuttapastorale, tutta rivendicativa, tutta arcaica.

(segue nelle pagine successive)

MARCELLO FOIS

ARZANA (Ogliastra)

Lo davano per morto. E lui, il morto lo faceva bene. Maiceduto un segno della sua esistenza in vita, mai la-sciata una piccola traccia di sé, neanche il respiro delsuo fantasma sentivano più dentro la montagna che

lo proteggeva — il Gennargentu — fra boschi di leccio e distese diquerce, anfratti nascosti da spinose ginestre, gole, caverne, costo-ni di granito, voragini. Per quindici anni ne abbiamo avuto un ri-cordo sfuggente dalla foto segnaletica attaccata ai muri dei posti dipolizia, faccia di fronte e faccia di profilo, gli occhi pesti, il collo gon-fio, la capigliatura nerissima di quando era un giovane sardo chestava già diventando erede di quei balentes che su quest’isola siprendono il rispetto dovuto agli uomini d’orgoglio e di coraggio.Fino a qualche giorno fa c’era rimasto solo e soltanto quello di lui,il bollettino dei latitanti del ministero dell’Interno.

(segue nelle pagine successive)

ATTILIO BOLZONI

DATI ANAGRAFICI

Nome AttilioCognome Cubeddu

Nato il 2 marzo 1947a Arzana (OG)

ATTIVITÀ CRIMINALE1981 sequestro Peruzzi

1983 sequestri Rangoni Machiavelli e Bauer

1997 sequestro Soffiantini

Arrestato il 31 marzo 1984Condannato a 30 anni più ergastolo

Latitante dal 7 febbraio1997

Attilio Cubeddu, Anonima sequestri, latitante in Sardegna dal ’97Ora è ripartita la caccia. Viaggio in un passato che non passa

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LA DOMENICA■ 28DOMENICA 1 LUGLIO 2012

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MANETTEAttilio Cubedduin manettenel 1984:condannatoa trent’anniper più sequestridi persona;a sinistra,foto storichedi banditi sardi

La copertinaL’ultimo bandito

Si chiama Attilio Cubeddu, è ricercato dal ’97per rapimento, omicidio ed evasione . È un residuodei tempi dell’Anonima sequestri che lo Statoaveva dimenticato.Finché all’improvvisoè ripartita la caccia. Siamo andatiin Sardegna a scoprire perché

sempre lì, nel suo reame, difeso dalla suatribù. Inverosimile la soffiata, più probabile iltentativo (andato male) di una resa da “con-cordare”, una trattativa in salsa sarda. Un al-tro mistero intorno a un bandito di cui si satutto e niente, catturato nel 1984 a Riccionedopo i sequestri di Ludovica Macchiavelli e diPatrizia Bauer, condannato a trent’anni di re-clusione, detenuto modello, evaso dopo unpermesso premio e poi ancora accusato diavere segregato l’imprenditore bresciano

(segue dalla copertina)

«Cubeddu Attilio, natoad Arzana il 2 marzo1947, ricercato dal 7febbraio 1997 pernon avere fatto rien-tro, al termine di un

permesso, nella casa circondariale di Badu’ eCarros, ove era ristretto, per sequestro, omi-cidio e lesioni gravissime». Sicuramente di-sperso. Apparentemente morto. Accidental-mente vivo. È resuscitato dalla sua tombal’ultimo bandito dell’Ogliastra, terra asprache da una parte si confonde con l’impene-trabile Barbagia e dall’altra precipita in unmare esageratamente azzurro, cime di nevee cale al riparo dal maestrale, sperduti ovili eluccicanti imbarcaderi con lì in mezzo Arza-na, piccola grande capitale sarda che il Duceminacciò di bombardare per liberarsi deisuoi fuorilegge e soprattutto di uno, Samue-le Stocchino, Medaglia d’oro al valore sulCarso con Emilio Lussu nella Grande guerrae poi — per faida di famiglia — l’assassino piùtemuto e braccato di Sardegna, “Sa tigre deOgliastra” la tigre dell’Ogliastra, l’antenato diquesto Attilio Cubeddu che è ricomparso al-l’improvviso dopo un silenzio quasi infinito.

Dalla leggenda dell’“eroe” che tiene inscacco lo Stato carabiniere alla cronaca degliultimi giorni, dalla visione romantica delbandito solitario e ribelle tramandata daicantastorie agli elicotteri che all’alba del 12giugno si sono abbassati sui tetti delle case diArzana e di Lanusei mentre anche i paesi diGairo e Cardedu venivano cinti d’assedio dareparti speciali, teste di cuoio, incursori, tira-tori scelti. Una grande caccia.

Qualcuno aveva fatto sapere che uno deinove ricercati «più pericolosi d’Italia» era

ATTILIO BOLZONI

Il fantasma dell’Ogliastracontaminazioni politiche, privo di istinto ri-voluzionario o da rivendicazioni separatiste,solo uno spietato esecutore che non assomi-glia in nulla al suo complice di tante scorri-bande Giovanni Farina, bandito poeta chemanda lettere a giovani suore e vince premiletterari, luogotenente di quel Mario Sale diMamoiada che definiva la sua banda «la basemobile operativa toscana dell’Anonima sar-da intitolata al grande compagno AntonioGramsci». Attilio Cubeddu è solo Attilio Cu-beddu. Rapimenti e orecchie mozzate.

Arzana, 2.526 abitanti, 670 metri sul livellodel mare, sedicimila ettari di territorio quasitutti sul Gennargentu, 60 aziende pastorizie,65 forestali, 12 imprese edili con 250 operai.Le personalità del paese secondo Wikipedia:«Stanis Dessy, artista; Anselmo Contu, politi-co; Attilio Cubeddu, bandito; Pasquale Stoc-chino, bandito». Un altro Stocchino questo,catturato nel 2003 dopo trentun anni allamacchia, una latitanza superata in lunghez-za solo dal siciliano Bernardo Provenzano.Sembra il suo sosia Attilio Cubeddu, intro-verso come Pasquale, taciturno, diffidente.

L’ultima volta, Attilio l’hanno visto in viaSan Martino al civico 30, a un passo dalla nuo-va caserma dei carabinieri di Arzana. È in fon-do al paese, una casa di tre piani, pietra grigia,un giardino abbandonato, uno scivolo ar-rugginito. Qui abita la figlia Samuela con isuoi tre ragazzi: Anita, Efisio, Fabiana. All’al-ba del 12 giugno i poliziotti sono piombati inquesta casa. «Era il giorno che dovevo ritirarela pagella e hanno messo tutto sottosopra»,ricorda Efisio, terza media e i capelli rasati co-me usano ancora i pastorelli sardi. Sono an-dati anche davanti alla farmacia dove sta Cri-stina, un’altra figlia di Attilio Cubeddu. E aCardedu, dove vive la terza figlia Valeria e pu-re Marisa Caddori, la moglie del latitante.Niente. Non l’hanno trovato neanche lì. Èmorto un’altra volta Attilio Cubeddu.

Giuseppe Soffiantini e sospettato — ma maiincriminato — di avere preso in ostaggio an-che la ragazza di Tortolì Silvia Melis. Due se-questri del 1997, appena dopo la libertà ritro-vata e mai più perduta.

Siamo saliti nella “sua” Arzana per raccon-tare il ritorno di Attilio Cubeddu, siamo par-titi dall’ultimo suo domicilio conosciuto perricostruire le segrete vicende di questo lati-tante che più di un capo dell’Anonima è con-siderato uomo «di mano», ruvido, lontano da

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■ 29DOMENICA 1 LUGLIO 2012

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DAL PASSATOLotta contro il banditismoin Sardegna negli anni SessantaIn copertina, tre foto segnaletichedi Attilio Cubeddu

Il sindaco di Arzana è Mario Melis. Rac-conta di quella mattina: «Mi hanno svegliatoi rumori delle pale degli elicotteri, avevamoorganizzato un tour dell’Ogliastra in moun-tain bike, settantacinque atleti provenientida tutto il mondo. Doveva essere un giorno difesta». È sconfortato Melis: «Bastava che glielicotteri arrivassero poche ore dopo e glistranieri non avrebbero visto nulla, invecehanno visto tutto». È andata come è andatama il sindaco è consapevole: «La nostra sto-ria purtroppo è quella che è e non cambieràfino a quando non si chiuderà l’ultimo capi-tolo». Fino a quando Attilio Cubeddu sarà li-bero, Arzana avrà il destino segnato. Gli re-sterà quel marchio ignobile: paese di bandi-ti, di omertosi, paese di conniventi. Perfinol’urbanistica inchioda e infama Arzana.«Quando ti arrampichi da Tortolì verso ilGennargentu guarda il paese e vedrai che è aforma di fucile», ci avverte un amico sardo. Ilcalcio appoggiato sulla collina, la canna —una stretta fila di case — che scende verso val-le.

Una nomea che risale al tempo del fasci-smo e ai suoi briganti, quando Mussolini mi-se una taglia di 250mila lire — un record perquell’epoca — sulla testa dello Stocchino cheaveva combattuto sul Carso nella BrigataSassari. Il resto l’hanno fatto gli incendiarianni Ottanta con i nuovi balentes, brutali imi-tatori dei loro capostipiti, solo più ricchi, po-che pecore e tanti soldi. «Ma tutto questo ap-partiene a un’altra Arzana, qui siamo andatiavanti, quelli che chiamano banditi sono or-mai solo poveri cristi», dice Raffaele Sestu,medico condotto e presidente delle Prolocodella Sardegna, innamorato del suo paese edi tutto quello che c’è intorno. Sentieri, saltid’acqua, erbe mediche e i suoi quattro pa-zienti ultracentenari. Paolino ha 103 anni,Antonio 102 anni; Cicita e Maria 101 anni. Ildottor Sestu dal 1985 ha avuto in cura venti-

sei vecchietti sopra il secolo d’età. Arzana, ol-tre al primato dei banditi, ha anche quellodella longevità. La più vecchia fra i vecchi,Raffaella Monni, è morta nel 2007 a 109 annie sei mesi.

Sarà cambiata Arzana ma ai suoi banditi citiene sempre. Cubeddu è stato aiutato ognigiorno da quel 7 febbraio del 1997. Accudito,sfamato, nascosto. Fino a quando un miste-riosissimo personaggio — uno di quelli diconfine fra banditi e Stato — all’inizio dellaprimavera si è presentato al procuratore ca-po di Lanusei Domenico Fiordalisi e ha cer-cato una strana “mediazione”. Gli ha fatto ca-pire che “il morto” si sarebbe anche potutocostituire, magari in cambio di qualche inda-gine patrimoniale in meno contro la sua fa-miglia. È cominciata una partita tutta psico-logica. Fatta di mosse e contromosse, di spia-te, di talpe che diffondono informazioni veree fasulle. Il procuratore, un calabrese tuttod’un pezzo che per qualche anno ha avutocome casa una cella del carcere San Danielee dopo minacce vigliacche ha rispedito mo-glie e figli in Calabria, a un certo punto ha al-zato il tiro. E ha ordinato di circondare Arza-na. Dieci i favoreggiatori trovati. Sono solo iprimi. Dopo quindici anni, Attilio Cubeddunon si può più fidare di tutto il suo paese.

Nemmeno dei poeti. Anche loro non sonopiù quelli di una volta. Come quel SebastianoSatta, avvocato penalista di Nuoro, amico deisocialisti sassaresi, giornalista e scrittore chequasi un secolo fa alle gesta degli avi di Cu-beddu dedicò un Vespro di Natale. Dai suoicanti barbaricini: «Incappucciati, foschi, apasso lento, tre banditi ascendevano la stra-da [...] ai banditi piangea la nostalgia. E mestieran, pensando al buon odore. Del porchet-to e del vino, e all’allegria. Del ceppo, nelle lorcase lontane». I banditi hanno sempre avutoi loro ammiratori.

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(segue dalla copertina)

Come guardarsi l’ennesimo film america-no in cui tutta l’Italia è rappresentata datovaglie a quadri, fisarmoniche, mandoli-

ni e gondolieri che cantano Santa Lucia. L’isolabanditesca dunque è innanzitutto un luogo co-mune e ha rappresentato un modello storica-mente funzionale a giustificare tentativi di la-vanderia sociale e a sfumare le plateali deficien-ze dell’amministrazione locale e nazionale neiconfronti di quella periferia. Ribadiamolo: equi-parare quel modello territoriale alla Sardegna intoto significa affermare che i siciliani sono ende-micamente mafiosi o che i genovesi sono tuttitaccagni. Eppure il balente, il bandito, l’Anoni-ma sequestri sono state, sono e saranno cose se-rissime che hanno caratterizzato un disagio pe-santissimo, una difficoltà precisa della Sardegnainterna di trovare un tratto di convivenza parte-cipata nella nazione Italia.

La crisi nelle Barbagie, periferiche, ignorate,trascurate, è più crisi; la disoccupazione, più di-soccupazione; il ricatto del pane, più ricattato-rio. Siamo quattro gatti che contano poco in unaregione di quattro gatti che contano pochissi-mo. Siamo stati arruolati; siamo morti di leuce-mia fuori e dentro casa nostra; siamo stati de-portati in fabbrica secondo un assurdo modellodi industrializzazione coatta; siamo stati licen-ziati successivamente secondo uno schema di

sacrifici ad personam. Nel mito, nei nostri sognidi gloria, a tutto questo ci siamo ribellati; nei fat-ti abbiamo semplicemente considerato curauna malattia peggiore: quella del livore sociale.A noi si dice continuamente che gli sforzi per af-francarsi da questo sentimento sono inutili, chenoi siamo i figli cadetti di questa regione di figlicadetti. A noi si dice che sarebbe auspicabile unassetto in cui come operosi trogloditi dell’inter-no contribuiamo, in orbace, a soddisfare i desi-deri del turista che in Barbagia vuole brividi,sguardi torvi, donne con i baffi. Che vuole ospi-talità incondizionata, un po’ fessacchiotta eamicizia sempiterna: si sa come son fatti sardino? Quando ti sono amici, ti sono amici per tut-ta la vita.

Per questo motivo il mitema facilone della pri-mula rossa in questo preciso momento storicodel Paese è quanto di peggio si possa offrire a tut-ta la massa di disoccupati che, gioco forza, affol-lano i bar dei paesi dell’interno in Sardegna. Per-ché la risposta retorica, la richiesta di folk, è leta-le esattamente come la solita, esclusiva, priva diargomenti, risposta repressiva. E ci si chiede finoa che punto, visto che comunque ci disegnereb-bero così, noi sardi dell’interno per primi non cisiamo convinti che l’unica giacchetta che ci stabene è quella del balente, del banditismo, dell’A-nima sequestri. E così, pateticamente, cerchia-mo di abbottonarla nonostante la pancetta.

Quella giacca da “balente”diventata troppo stretta

MARCELLO FOIS

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ponte di Brooklyn. Neppure conta chetu sappia che queste cose esistono, ba-sta che ammetta un universo parallelocapace di contenerne la possibilità.Lontano o vicino, raggiungibile o giàraggiunto, non conta. Il cuore attribui-va a New York la natura di oggetto deldesiderio. E quello, inevitabilmente, èunico (anche se ci culliamo nell’illu-sione della poligamia). Hanno prova-to a clonare l’idea, a declinarla in for-me alternative, di cui la più tragica ri-mane il palindromo “Amoroma”.

Non ha mai funzionato. Né si sa sefunzionerà una delle migliaia di pro-poste alternative (alcune sono pubbli-cate in queste pagine) che rispondonoalla proposta del governatore di NewYork Andrew Cuomo di inventare unnuovo logo per mandare in pensionequello di Milton Glaser del ’76. “I loveNy” era il “Just do it” applicato alla pro-mozione di un luogo. Non replicabilein altre forme. Avere addosso quellascritta conferiva un’aura di apparte-nenza. Non siamo mai stati e mai sare-mo “tutti americani”, ma possiamo es-sere “tutti newyorchesi”, giacché (cene hanno convinto) New York è unostato mentale.

Va da sé che, lontano dalla polveredella Tanzania, tutta l’operazione è fi-nalizzata a che tu ti compri un pezzet-to di questo luogo-non luogo: un bi-glietto aereo per raggiungerlo, un libroo un film ambientati lì, dozzine di capi

d’abbigliamento che ne portano il no-me, il profumo con il suo prefisso byCarolina Herrera. E ha funzionato. Avolte succede l’opposto. Il caso tipico èlo slogan “Milano da bere” inventatoper l’amaro Ramazzotti.

È rimasto come un adesivo sul pettodella città a segnalarne una stagione difatuità e corruzione. Cerchi l’espres-sione su Wikipedia et voilà: appaionole foto di Berlusconi e Craxi in smokinga qualche festa con nani e ballerine. Aquel punto, esci al casello di Melegna-no. O vai a Malpensa e ti imbarchi sulprimo volo per New York. Atterri,prendi il taxi, ti fermi in un negozio disouvenir e, prima che le ritirino dalcommercio, ti compri e indossi unamaglietta con le tre lettere e il cuore(per quanto reperibile anche su unabancarella di Milano). A quel punto cisei dentro, ti sei messo nel punto esat-to dove eri stato precollocato da un’at-tenta campagna e l’amore per la cittàche non conosci te l’hanno, innegabil-mente, venduto.

Nelcuore di tenebra del-la Tanzania due ragaz-zini scalzi corrono sol-levando polvere. Mac-chie colorate si avvici-nano definendosi: a

quel punto appare chiaro che uno in-dossa la maglia blu del Chelsea, l’altrouna t-shirt bianca con la scritta “I loveNy”, dove il verbo è rappresentato daun cuoricione rosso. L’universalità èquesto: raggiungere ogni angolo dimondo e in ciascuno risultare com-prensibile perché si evoca una fantasiacondivisa. Ma che cosa c’entra unbambino africano con i canyon delleavenue, Colazione da Tiffany e quelche resta delle notti “vale tutto” alMeatpacking District? C’entra, anchese non sa neppure di che cosa sto par-lando.

Un giorno lontano, proprio a NewYork, entrai nello studio di un tizio diorigini russe che aveva fondato unastrana agenzia pubblicitaria: traduce-va campagne per Paesi culturalmentedistanti da quello originale, spiegavacome correggere spot americani nel-l’Europa orientale o nel mondo arabo.Ultimo suo cliente era stata la Nike,che gli aveva chiesto come tradurre al-trove lo slogan “Just do it”. E questo ge-nio aveva messo insieme un fascicolodi svariate pagine per dire: non tocca-

telo, lasciatelo esattamente così, nes-suno lo capisce ma tutti lo capiscono,passa il senso, l’energia, passa il mes-saggio.

“I love Ny”, stessa cosa: puoi nonaverci mai messo piede, puoi aver per-fino visto pochi film ambientati aManhattan, non sapere che cosa siaSex and the City, non ha importanza:you can love New York, anyway. Nonsei convinto? Guardati allo specchio:hai un cuore rosso sopra il cuore.

Si può vendere una città come fosseun prodotto? Certo che sì. La prova ènei fatti: è successo. Hanno vendutoNew York. Gli assassini del Bronx equelli di Wall Street, le puttane di Ti-mes Square e quelle dei quartieri alti,tutti sepolti sotto un telo bianco, sulquale campeggiava la scritta “I loveNy”. Tre lettere e un simbolo, capaci ditrasformare una città in uno stato del-la mente, in una fantasia condivisa. Tuami New York. Non per aver passeg-giato a Central Park, aver pranzato ac-canto a Martin Scorsese in un ristoran-te di Tribeca o per aver fatto jogging sul

LA DOMENICA■ 30DOMENICA 1 LUGLIO 2012

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Tre lettere e un “love” stampati su migliaia di gadgetDal 1976 sono più di uno slogan, sono un simbolodi appartenenza. Ma secondo Andrew Cuomo, governatoredello Stato di New York, è venuto il momento di cambiareQuesta la proposta: inviate disegniper un nuovo logo. Eccone alcuni. Funzionerà?

L’attualitàRestyling

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GABRIELE ROMAGNOLI

L’arte di vendereil cuore di una città

Non importase sei stato a Brooklyn

o a Manhattan

Quel che contaè la fantasia condivisa

sotto quella scritta

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IL CONCORSOSopra, dal faro all’aquilone, dalla vespa alla coccinella, sono solo alcuni dei bozzetti inviati al sito www.iloveny.com, dove tutte le proposte vengono visualizzate in una galleria online

■ 31DOMENICA 1 LUGLIO 2012

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uando, a cinque anni, vidi miocugino disegnare un cavallo suun sacchetto di carta ne rimasiturbato: davvero si poteva repli-

care un essere vivente solo con un lapis?Decisi allora cosa avrei fatto nella vita.Non disegnare cavalli su sacchetti di car-ta, ma creare cose, l’aspetto che più mi af-fascina del design. Col tempo scoprii chela mia passione poteva essere remunera-tiva — i primi lavori per cui venni pagatoerano le vignette di donne nude che ven-devo ai miei compagni di scuola a unpenny — ma non immaginavo avrei pro-gettato musei, ristoranti e supermercati,creato riviste, disegnato copertine di librie dischi e... il logo “I love New York”.

Lo concepii nel ’76, mi era stato com-missionato per riposizionare l’immaginedella città in un periodo di disaffezione.Ero in taxi, ne feci uno schizzo, piacque edivenne «il logo più riprodotto nella sto-ria». Il suo successo resta per me un miste-ro, forse ha a che fare con un potere chenon esisteva nella grafica, un clic sulleemozioni. Sono sempre stato affascinatodai meccanismi del cervello, che decodifi-ca informazioni come puzzle, e qui il mes-saggio è semplice: c’è una parola, un sim-bolo, due iniziali. Tre elementi che neces-sitano uno sforzo minimo per essere com-presi, ma che riescono a fare clic. Presiduemila dollari, forse l’equivalente delpenny di quando avevo otto anni. Nientecopyright: non volevo che i newyorchesipagassero per il loro trademark.

(Testo raccolto da Carlotta Magnanini)

Niente copyrightsolo amore

MILTON GLASER

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LA DOMENICA■ 32DOMENICA 1 LUGLIO 2012

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Settantacinque anni fa, dopo Conrad e primadi Hemingway, con il suo romanzo raccontò il continentenero ai bianchi. Oggi la fattoria in cui lo scrisse,“ai piedidegli altipiani del Ngong”, è un museo da Oscar nascostotra le ville dei ricchi di Nairobi. Il nostro viaggioalla ricerca della sua eredità

I luoghiCasa Blixen

sentiva di essere in alto, vicino al sole,ma i mattini, come la sera, erano limpi-di e calmi, e di notte faceva freddo».

Settantacinque anni dopo cosa re-sta de La mia Africa? Il libro uscì nel ’37,il film di Pollack nell’86 (vinse 7 premiOscar). Karen è morta a settantasetteanni nel ’62 a casa sua, davanti ad unmare grigio, lontana da quei colori chel’avevano riscaldata. Nessun’altrascrittrice ha avuto il suo passo sull’Afri-ca e la sua camera con vista, ma one-stamente sono cambiati temi e tempi.Nadine Gordimer, Nobel nel ’91, è na-ta e vive in Sudafrica, da sempre impe-gnata contro l’apartheid, sicuramentenon è tipa da dire «quando dormo so-gno e i sogni sono sempre belli». Dice ilprotagonista de Il giovane Holden cheOut of Africa (titolo originale del ro-manzo, ndr) è bellissimo, anche se hapreso il libro per sbaglio alla biblioteca,chiamerebbe l’autore volentieri al te-lefono. Ma Salinger scrive nel ’51 e poicerte telefonate non si fanno mai.

Karen aveva una fattoria, una pian-tagione, un mondo. Tutto liquidato, infrantumi, in bancarotta. Non era bra-va a fare affari, anzi era un disastro, an-che se il suo soprannome era Njeri Wa-goka, “quella indaffarata”. Se è rimastoqualcosa è per le donazioni danesi edell’Universal Studios che ha girato il

film e ha lasciato abiti e materiali. Ilquartiere di Ngong, quindici chilome-tri fuori da Nairobi, oggi è una affollatazona residenziale dove tutto si chiamaKaren: ospedale, albergo, supermer-cato, centro commerciale, college. Lavegetazione è bella, le ville nascosteanche. Quella di Karen era modesta,tra cactus giganti, cipressi, bouganvil-le: la casa Mbogani Farm House co-struita dall’ingegnere svedese Ake Sjo-

gren nel 1912, fu comprata dal gover-no danese nel ’59, ristrutturata e dona-ta nel ’64 al Kenya per la sua indipen-denza. È aperta al pubblico dall’86.Tutto sembra vero, quasi tutto è falso.Gli stivali nella stanza da letto sonoquelli che Meryl Streep ha indossatonel film, la piccola macchina da scrive-re Corona è una copia, l’orologio acucù pure, come la vecchia cucina Do-ve Stove e il grammofono su cui l’ado-

rato Denys Finch Hutton e l’altrettan-to amato Robert Redford ascoltavanoMozart. L’atmosfera c’è, anche se il le-gno del tetto del cottage viene dall’U-ganda, il baule è di Vuitton, la pelle dileopardo è offerta dal National Mu-seum of Kenya. Per respirarla basta ve-dere la piccola vasca da bagno in zincoe il menù affisso della cena del ’28 conH. E. Edward, principe di Wales: zup-pa, prosciutto, spinaci e cipolle cara-

EMANUELA AUDISIO

Quelcherestadi KarenLa sua Africa non abita più qui

NAIROBI

Era la sua Africa. Meno viri-le, più sfortunata, ma al-trettanto aspra di quella diHemingway. La fece sco-

prire al mondo settantacinque anni fa.Stesse colline, stessi leoni, diversi gli af-fanni: con le piantagioni di caffè al po-sto del whisky. Aroma di fatica e non dibottiglia. La baronessa Karen beveva iltè, Ernest la birra. Altri gradi alcolici. Di-verso anche il modo di usare armi, car-tucce e polvere da sparo. Lei per dicias-sette anni visse l’Africa, lui ci passò pervacanza e safari. Però Hemingway fusincero e quando nel ’54 gli dettero ilNobel mandò a dire che lo meritava an-che la «meravigliosa Isak Dinesen». Lasignora venuta dal freddo (Danimarca)fu una meravigliosa anche se soffertacartolina turistica per quell’altopianodopo che Conrad con il suo Cuore di te-nebra dal Congo aveva un po’ incupitol’atmosfera. Il Kenya nelle parole di Ka-ren era più attraente. «In Africa avevouna fattoria ai piedi degli altipiani delNgong. A centocinquanta chilometripiù a nord su quegli altipiani passaval’equatore; eravamo a milleottocentometri sul livello del mare. Di giorno si

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Sapeva come tradurre le immagini in parole. Anche i suoi commentirazzisti hanno uno stile bello, non sono urlati, e non per questo fanno meno male. Oggi è molto letta nelle nostre scuole, ormai fa parte del nostro patrimonio culturale

mellate, macaroni salad con salsa altartufo, ossobuco, savarin alla frutta.Karen quando partì era una donnasconfitta, il suo mobilio venne messoall’asta e finì in Sudafrica come il tavo-lo di noce con otto sedie e la libreria diquercia, anche se qualcosa è stato ri-comprato o donato dagli amici comeLady McMillan, americana di Boston,a cui si deve la fondazione della Biblio-teca nazionale di Nairobi, e che ha vo-luto essere seppellita sotto il monte Ki-limambogo. Di vero ci sono le lettere diKaren, una datata 20 gennaio 1914: «Arunner is just leaving». Un corridoresta per partire. Già perché per messag-gi e comunicazioni usava i ragazzi Ma-sai, rapidi e veloci, visto che il serviziopostale nato a Nairobi nel 1908 servivasolo la città. Gli stessi atleti Masai chepoi andranno a vincere le Olimpiadi ea imporsi oggi come grandi mangiato-ri di fatica nella maratone, capaci discrivere la storia con piedi e fiato. Loroche portavano lontano le parole di Ka-ren sono stati bravi nell’inventarsi lafavola vera di corridori della lunga di-stanza.

Poi c’è l’eredità letteraria. Settanta-cinque anni dopo l’Africa cerca altreparole e non resuscita la bianca stra-niera Karen. Ma se tanti scrittori trova-no spazio, cattedre, futuro è perché c’è

stata una scia Blixen. Ngugi WaThiong’o, settantaquattro anni, datempo in gara per il Nobel, romanziere,drammaturgo e saggista, nato a Limu-ru, in Kenya, uno dei massimi espo-nenti della letteratura africana, come inigeriani Wole Soyinka eChinua Achebe, dopoaver insegnato per un de-cennio all’università diNairobi (1967-1977), arre-stato e detenuto per le suecritiche alla società kenio-ta postcoloniale, è andatoin esilio in Inghilterra e oravive e ha una cattedra al-l’università di California.Ha deciso di scrivere nellanativa lingua kikuyu inve-ce che in inglese. Il suo So-gni in tempo di guerra, ap-pena pubblicato da JacaBook, parla di una crescita, di adole-scenza, di repressione, di caccia all’an-tilope, di libertà, del passaggio da unacomunità poligama a una famiglia conun nuovo genitore. Può essere un so-gno, ma non è una favola. E su Karen haidee chiare. «Blixen è bravissima, è unaromanziera vera. Sa come tradurre leimmagini in parole. Non c’è malizia neisuoi toni e nelle sue intenzioni. Perquesto i suoi commenti razzisti e certe

sue riflessioni sono dannose e fuor-vianti. Hanno uno stile bello, non sonourlate, ma fanno lo stesso male. Unasua eredità resta: è molto letta nelle no-stre scuole e l’area dove viveva fuoriNairobi adesso è diventata la più ri-chiesta e lussuosa. In questo senso faparte del nostro patrimonio. Ma la suavisione semplicistica e riduttiva del po-polo è in contrasto con quella di altriautori. Jomo Kenyatta, futuro presi-

dente del paese, nel ’38, appena un an-no dopo la Blixen, scrive Facing MountKenya. Sono contemporanei, parlanodella stessa comunità e dello stesso pa-norama. Ma Kenyatta è più complesso,la sua gente chiede di avere indietro le

terre che gli europei comela Blixen hanno rubatoagli africani. Mentre la so-cietà indigena che lei de-scrive è primitiva e inge-nua».

Karen andò in Africa,scrisse storie davanti alfuoco, e le narrò al mondo.Oggi è l’Africa che va almondo e si racconta.Alain Mabanckou, qua-rantacinque anni, nato aPointe-Noire, città costie-ra del Congo Brazzaville,dopo la laurea in Lettere e

Filosofia, parte per la Francia doveprende una laurea in Diritto. Nel 2006vince il premio Renaudot, nel 2010 conDemain j’aurais vingt ansè il primo ne-ro ad essere pubblicato nella prestigio-sa collana Blanche di Gallimard. Dalsuo romanzo Black Bazar è stata trattauna pièce teatrale rappresentata al fe-stival di Avignone (2011). Insegna all’u-niversità di California a Los Angeles. Ilsuo pamphlet Le sanglot de l’homme

noireuscito in Francia prima delle ulti-me elezioni presidenziali è stato moltopolemico con Sarkozy sul tema dellafrancofonia di colore.

E poi piccole Karen crescono, di ta-glie e colore diverso. Dentro l’Africa,ma estranee a quella sua Africa. LolaShoneyn, trentotto anni, poetessa, na-ta a Ibadan, in Nigeria, da una famigliadi origine cristiana, viene mandata inInghilterra dove trascorre l’infanzia indiversi collegi, torna nel suo paese perstudiare letteratura inglese. Ha pubbli-cato tre raccolte di poesie, nel 2010 conPrudenti come serpenti, (66thand2ndeditore), che parla di poligamia e delcontrasto tra vecchia e nuova menta-lità, è stata inserita nella long list del-l'Orange Prize for Fiction in Gran Bre-tagna. Attualmente insegna in un liceoin Nigeria, è sposata da dodici anni conOlao Kun, figlio di Wole Soyinka, cono-sciuto via mail, ha quattro figli. Ha avu-to un precedente matrimonio coattodurato quaranta giorni appunto per-ché lei non accettava la poligamia. Di-ce di non aver mai letto Karen Blixen.«Ma ho visto il film, non sono prepara-ta a dare un giudizio su di lei». E pensa-re che il tormento di Karen era in fondola poligamia di Denys. Lui voleva stareanche con le altre, lei solo con lui.

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DIARIOA sinistra, una pagina del diario del maritodi Karen con una foto della scrittriceche si esercita al tiro davanti alla fattoriaSopra, la prima edizione di Out of AfricaNelle foto: la Blixen e il marito in casanel 1919 e durante un safari nel 1914 e, a destra, la scrittrice con i cani nel 1918

LE IMMAGINISotto, la casa della scrittrice dove sono state girate alcune scenedel film. Nell’altra pagina, KarenBlixen nel 1905, nel 1918 duranteun safari e negli anni Cinquanta

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SpettacoliMenestrelli

ANGELO AQUARO

NEW YORK

o, questa terra non sarà mai la sua terra e perfino adesso che il mondo in-tero s’appresta a celebrare cent’anni di «cielo senza fine» e «valli d’oro»,adesso che il suo inno rimbalza dalle volte della Carnegie Hall alle piazzedi Occupy Wall Street, adesso che l’America e il mondo intero trattengo-no il fiato sul precipizio di una nuova Grande Depressione, adesso comeallora il suo nome mette ancora paura: e forse anche più. Riuscirà almenoBarack Obama, l’uomo che ha portato alla Casa Bianca Bob Dylan e Bru-ce Springsteen e che proprio al Boss e a Pete Seeger chiese di cantare ThisLand Is Your Land alla sua inaugurazione, riuscirà il presidente del nuo-vo New Deal a pronunciare quel nome e cognome, a cent’anni dalla na-scita? Riuscirà l’America a riabbracciare, un secolo dopo, il figlio più ama-to e più odiato, l’uomo che mise in musica e versi il sogno a stelle & strisce,scarabocchiandoci però sopra — orrore orrore — la sua falce & martello?

Il fascicolo intestato a «Guthrie, Woody, 14/7/12» arrivò sulla scrivaniadi J. Edgar Hoover la mattina di venerdì 3 giugno 1955. Il padre padronedell’Fbi, l’uomo che visse con l’incubo dei neri e dei rossi, era ancora fuo-ri di sé per la sentenza della Corte Suprema che tre giorni prima aveva de-finitivamente ordinato a tutti gli Stati di eliminare la segregazione razzia-le «il più velocemente possibile». Hoover sfogliò frettolosamente quel me-mo. «Viste le condizioni di salute del soggetto e la mancanza di notizie cre-dibili, e di prima mano, sulla sua appartenenza, negli ultimi cinque anni,al Partito comunista, si suggerisce di cancellare il nome dall’Indice di Si-curezza». L’uomo che nel giro di una decina d’anni avrebbe cercato d’in-sabbiare le verità d’America, dall’assassinio di Jfk al sacrificio di MartinLuther King, abbozzò un sorrisetto: anche questa è fatta. E mise infine lafirma più temuta di Washington sotto il fascicolo che decretava la fine del-la più che ventennale sorveglianza dell’ex vagabondo dell’Oklahoma,l’artista che aveva riscritto la storia del folk d’America (e non solo), l’ami-co di John Steinbeck che come lui aveva raccontato la Grande Depressio-

ne, il cantante che sbandierava la chitarra con la scritta: «Questa macchi-na uccide i fascisti».

Fine di un incubo? Macché. La verità è che quando il potentissimo J. Ed-gar — come verrà ricordato nel film di Clint Eastwood con Leonardo Di-Caprio — mette la firma sotto quel fascicolo, Woodrow Wilson “Woody”Guthrie è già un morto che cammina. E ha soltanto 43 anni. Nell’ambien-te, perfino in famiglia, tutti spiegano quei comportamenti un po’ matti,l’irascibilità permalosa, la difficoltà di imbracciare la chitarra, come laconseguenza dell’alcolismo ormai galoppante, ultima fermata di una vi-ta spericolata vissuta appunto nel mito della frontiera in continuo movi-mento, dall’Oklahoma alla California, dalla California alla New York delVillage ribelle, poi ancora California, poi ancora New York ma questa vol-ta Brooklyn, a quei tempi ancora periferia dell’impero.

Per tutti Woody è ormai andato, alcolismo e schizofrenia è la diagnosicon cui a pochi mesi dall’“assoluzione” dell’Fbi lo rinchiudono al Grey-stone Park Psychiatric Hospital di Morris Plain, New Jersey, fino alla mor-te dodici anni dopo, al capezzale quella chitarra che lui non può suonarema che rivive nelle mani dei vecchi e nuovi amici che lo vanno a trovare,soprattutto quel ricciolino che si fa chiamare Bob Dylan e che — confes-sa nelle sue Cronache— è arrivato dal Minnesota a New York «proprio perconoscere Woody Guthrie». Woody è già finito. Ma nessuno chiama allo-ra la malattia per quello che è, il morbo di Huntington, una degenerazio-ne dei neuroni ereditaria che aveva colpito anche la madre, una maledi-zione vera che lo aveva perseguitato per tutta la vita, probabilmente an-che la causa — con quei lampi di follia, quei movimenti senza più controlli— dei misteriosissimi incendi che avevano funestato la sua infanzia e si ri-peteranno nella sua famiglia: la sorella morta bambina, il padre ferito, per-fino sua figlia, Cathy, uccisa tanti anni dopo in quell’altro incidente che logettò in un’atrocissima depressione, perfino lui stesso ferito al braccio.Sembra una storia davvero mitica, il Prometeo dell’Oklahoma scottatodal fuoco che gli brucia dentro: ma tutta l’epopea di Woody Guthrie è un’e-splosione di simboli. A partire dalla data di nascita, 14 luglio, la presa del-

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IL LIBROEsce il 4 luglioWoody GuthrieAmerican Radical di Will Kaufman(Arcana,330 pagine,22 euro), la prima biografiapoliticadel folksinger

la Bastiglia, madre di tutte le rivoluzioni moderne. A partire dallo stessonome, lui che si chiama appunto Woodrow Wilson in onore del governa-tore democratico del New Jersey che diventerà presto presidente: unomaggio voluto dal padre Charles, politicante democratico ma acerrimonemico dei socialisti — «il serpente tentatore dai denti micidiali» — chediventeranno invece gli amici di Woody. Proprio il padre resterà per tuttala vita l’incubo di Woody, che arriverà a rivelare la sua iscrizione al Ku KluxKlan, il padre che le cronache ricordano affacciato sul ponte di Okemah,protagonista del linciaggio di Laura e Lawrence Nelson, la vergogna da cuiil figlio non riuscirà mai a liberarsi.

Sì, Woody Guthrie è una contraddizione in termini, «oggi non cambie-resti una riga dalle sue canzoni per raccontare il mondo che ci circonda»,dice a Repubblica Will Kaufman, il professore dell’University of CentralLancashire che al suo mito ha dedicato la prima biografia politica, Ameri-can Radical, e che è anche l’unica persona al mondo ad aver intonato Que-sta terra è la mia terra durante un ricevimento a Buckingham Palace. Ep-pure proprio il nome Guthrie, oggi, fa tremare all’incontrario i progressi-sti di tutta l’America, col figlio Arlo, l’eroe di Woodstock e di Alice’s Re-staurant, che è diventato repubblicano. «Una provocazione», lo giustifi-ca naturalmente il professore, «lui dice che di buoni democratici ce ne so-no già abbastanza, ma per uscire dalla polarizzazione occorre che ci siaqualcuno di buono anche dall’altra parte».

Bah. Chissà che avrebbe detto papà Woody, l’uomo che perse il postoalla Kfvd, la mitica radio ultrademocratica di Los Angeles, perché perfinoalla notizia del patto di non aggressione tra Adolf Hitler e Joseph Stalin, epoi all’invasione della Polonia, volle giustificare Baffone: «Anche Stalin èentrato in gioco / s’è preso mezza Polonia e ha ridato indietro / le terre aicontadini. / Se vivessi in Polonia / sarei felice della venuta di Stalin / chescambiò il mio fucile per la terra». Ok ok, certo che tutto va contestualiz-zato. Ma è chiaro, adesso, perché neppure Barack Obama, malgrado quelconcerto inaugurale, si è mai spinto, finora, all’elogio di Woody? «Sareb-be il bacio della morte», scherza Kaufman, che però ricorda che il radica-lissimo Guthrie era anche un uomo capace di restare con i piedi per terra.«Uno storico non può ragionare con i se: però certo che Woody oggi sta-rebbe con Obama, lui che negli anni Quaranta, in piena guerra, fece cam-pagna per Franklyn Delano Roosevelt, che pure aveva tanto criticato».

Quando lo rinchiudono a Greystone, l’ospedale psichiatrico, quel mor-to che cammina ha il coraggio di scherzare con i pochi amici che lo ven-gono a trovare. Sono gli anni Cinquanta e la caccia alle streghe comunisteè imperante: «Non siete voi a dovervi preoccupare di me, sono io a esserepreoccupato per voi. Lì fuori, se vi dite comunisti vi sbattono in prigione.Ma qui dove sono io, posso dirlo quanto voglio: ci sarà sempre qualcunoche dirà: che volete, è pazzo». No, questa terra non sarà mai la sua terra.«Credetemi», disse l’uomo sbattuto in manicomio, «è proprio questo l’ul-timo posto libero d’America».

Chitarra, falce e martelloper le strade d’America

Cantò a fianco dei disperati della Grande Depressione,visse come un vagabondo, ispirò Dylan e Springsteen. A cent’annidalla nascita e con il mondo in una nuova crisi economica,il testamento politico dell’uomo che dicevaai diseredati: “Questa terra è la tua terra”

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KILLS FASCISTSNella foto grande, WoodyGuthrie con la sua famosachitarra con la scritta“Questa macchinauccide i fascisti”;in basso, pagine dei suoi taccuini con i buoni propositi per l’anno nuovo

Pete SeegerSe ne venne fuori comese niente fosse... un omettocon tanto di cappelloda cowboy, stivali,blue jeans e barba sfatta,che tirava fuori storiee canzoni appena create

Bob DylanAveva una grandespontaneità, in luic’era una grande innocenzaUn’innocenzache mi ha sempre colpito e che io ricercavoDopo Woodyè scomparsa per sempre

Bruce Springsteen“This Land Is Your Land”è una canzone pienadi rabbia ed è unadelle più belle mai scritteTi entra dentro e tira fuoriquella parte di teche pensa a chi ti sta vicino

Joan BaezCosì torna Woody GuthrieTorna tra noi ora. Strappai tuoi occhi dal paradisoe in qualche modo rinasciSe lo chiedi a Gesùforse lui può aiutartiTorna Woody Guthrie,torna tra noi ora

DISEGNINell’altra pagina in alto da sinistra, due disegni di Woody Guthrie del ’46contenuti nel libro WoodyGuthrie American Radical; il folksinger nel ’43 canta in una strada di New York(Per gentile concessionedei Ralph Rinzler Archivesand Collections,Smithsonian Institution,con l’autorizzazionedei Woody Guthrie Archives)

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NextVillaggio globale

Gli spettatoriche hannopartecipato all’ultimoTedGlobal di Edimburgo, pagando seimila dollari

quindi, ricapitolando, quest’anno abbiamo avuto:il giovane matematico inglese che ha sviluppato unalgoritmo che ti dice se hai il Parkinson analizzan-do la voce ed è in cerca di diecimila persone che glimandino un messaggio vocale registrato per testa-re il prodotto; l’informatico che ha scoperto che gliafricani non hanno bisogno di computer ma di au-tomobili, made in Africa e a basso costo, ci ha mes-so un anno a fare il prototipo in Kenya e adesso hagià una cinquantina di prenotazioni. E ancora, iltunisino che ha trovato un modo per rendere final-mente conveniente l’energia eolica sostituendo lepale con una vela e se solo trova i fondi inizia a pro-durle subito. Non è meraviglioso? Di solito a questopunto, se la presentazione è stata particolarmenteconvincente, gli ottocento spettatori dell’audito-rium, persone che hanno pagato seimila dollariciascuno per cinque giorni di storie così, scattanoin piedi per tributare a chi ha parlato una standingovation e per un attimo, solo per un attimo, ogniproblema sembra meno grande. Dai che ce la fac-ciamo a migliorare le cose.

Bentornati al Ted, il festival di quelli che voglio-

no cambiare il mondo e che in molti casi lostanno già cambiando. L’edizione che si è ap-pena chiusa a Edimburgo ha confermato chequesta ormai non è più solo una conferenza: èuna formidabile fabbrica di idee. «Siamo sologiardinieri che gettano semi», si schermisce Ch-ris Anderson che nel 2001 ha ereditato il formatlanciato nel 1984 da Saul Wurman in California.«Siamo catalizzatori, alle idee degli altri noi ag-giungiamo la piattaforma per diffonderle», chiari-sce Bruno Giussani, il giornalista italo-svizzero sa-lito a bordo del Ted nel 2006 diventando il curatoredella sua versione europea, il Ted Global.

Per dare un’idea della forza della “piattaforma”vale l’esempio di quello che è accaduto qualchegiorno fa al video dell’intervento di Massimo Ban-zi. Banzi è l’inventore di Arduino, un microcompu-ter che sta conquistando il mondo e che secondomolti è alla base della prossima rivoluzione indu-striale. Ha parlato martedì 26, il giorno di apertura,ed è stato davvero molto bravo. Infatti Anderson eGiussani hanno deciso che il primo video ad anda-re online sarebbe stato il suo. Risultato: è stato visto14mila volte nella prima ora, 88mila volte dopo 24ore. Ed è solo l’inizio.

Un festival delle ideecambierà il mondo

RICCARDO LUNA

Pranav Mistry è l’inventoredi SixthSense, un dispositivoindossabile attraverso cui con un proiettore e una piccolatelecamera si crea un’interfacciagestuale e le informazioni digitali si sovrappongono al mondo fisico

Il sesto sensovisualizzazioni: 8 milioni

David Gallo proponeun’esplorazione nelle profonditàdegli oceani. Polipi, totani,barracuda e altre creature marinetra fondali corallini e colori luminescenti Come la luce delle lucciole

Lo stupore subacqueovisualizzazioni: 7 milioni

“Forse le storie sono solo dati con un’anima”, dice BrenéBrown che studia le connessionitra gli esseri umani, la capacità di empatia e condivisioneCerca di esporre il significato della vulnerabilità e del coraggio

L’empatiavisualizzazioni: 5 milioni

8001.275I TedTalkspubblicati su ted.comOgnuno con biografia di chi parla, linke commenti

1.275Il numero di persone da tutto il mondo che hannovisualizzato le conferenzein Rete

800MLN

E

Uno scienziato, un inventore o un attivista salgono sul palcoHanno 18 minuti per raccontare la loro scoperta: carburantipuliti, auto low cost, politica aperta. La Rete ascolta e giudicaIn occasione della kermesse di Edimburgo,ecco il dietro le quintedella fabbricadel futuro

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Significa TechnologyEntertainment DesignConferenza nata nel 1984con un format di discorsi da 18 minuti. Si svolge in California a febbraio

Ted

GLO

SSA

RIO

Sono Ted organizzatiautonomamente in qualsiasiposto. Chiunque puòchiedere la licenza (è gratuita) e organizzare un TedX che dura un giorno

TedX

Clip di tre minuti con risposte a grandi problemi. Dirette agli studenti e a chi vuoleimparare. Si affiancano ai Tedbooks: libri digitali di 20mila parole massimo

TedEd

È il premio di 100mila dollariper realizzare un sogno“Dream bigger” è lo sloganQuest’anno è stato diviso in 10 parti e verrà assegnato a progetti sulla città del futuro

TedPrize

Versione europea nata nel 2006 curata dal giornalistaitalo-svizzero Bruno GiussaniDopo Oxford, da due anni si svolge a Edimburgo,tra giugno e luglio

TedGlobal

‘‘Bisogna sforzarsi per cercare di tenere il migliordiscorso chesi è in grado di fare

Conferenza non significapubblicità,marketing o promozioni

Provare, provare,provare: cosìmigliora la qualitàdell’esposizione e si sta nei tempi

«Oggi il Ted fa tante altre cose», spiega Giussani,«ma il cuore di tutto resta il talk». Il talk è il discorsoda 18 minuti massimo (quasi sempre qualcuno inmeno) che una settantina di innovatori, in granparte sconosciuti ai più, vengono chiamati a farenelle due conferenze di Long Beach e di Edimbur-go. Con i talk vengono allestite una decina di ses-sioni tematiche di un’ora e mezza ciascuna. Le ses-sioni sono costruite con abilità da alchimisti: ci so-no sempre uno scienziato, un inventore, un attivi-sta, un comico, una storia commovente e un artistache fa una performance dal vivo. Pausa di un’ora esi ricomincia.

Sette telecamere ad alta definizione filmanoogni intervento per farlo diventare un video me-morabile. Il video infatti conta molto di più diquello che accade nel teatro come dimostra quel-lo che è capitato giovedì a Jane McGonical, la gio-vane e acclamatissima autrice di saggi sull’impor-tanza del gioco. Insomma, la McGonical stava rac-contando come qualche tempo fa si era trovatasull’orlo del suicidio, quando c’è stato unblackout che ha lasciato l’intero quartiere al buioper quasi un’ora. La sessione è ripartita nel pome-riggio e visto che i suoi primi minuti erano stati

lontari che spiegano così la loro missione: «Questeidee devono essere conosciute da tutti».

Al Ted le idee convivono e si scontrano. Così ca-pita di ascoltare, uno dopo l’altro, il pedagogoisraeliano che dice che è ora di finirla con i voti, e ilprofessore tedesco responsabile mondiale dei teststudenteschi che spiega che solo così migliora l’i-struzione per tutti. E ancora la paladina della rivo-luzione economica che avviene attraverso la reteassieme al giovane studioso che vede nella tecno-logia pericoli immensi. L’avvocato di New York cheha portato la Casa Bianca sulla strada del governoaperto assieme al politologo bulgaro che teme latroppa trasparenza perché quando c’è troppa lucec’è anche una grande ombra.

«Questo è il posto dove le idee fanno sesso!» haurlato l’altra notte l’organizzatore di un TedX du-rante un goliardico fuoriprogramma nel quale al-cuni giganti dell’innovazione si sfidano in un com-battimento di parole in tre round. La storia delleidee che fanno sesso è molto efficace per spiegareil fenomeno ma era una citazione: l’ha detta l’annoscorso Matt Ridley, l’autore dell’Ottimista raziona-le. Naturalmente in un video di Ted.

perfetti, le è stato chiesto di ripartire dal momen-to in cui si era interrotta. Lei lo ha fatto ed è stataancora più brava. Ma a quel punto qualcuno si èaccorto che per effetto del blackout i famosi primiminuti non erano stati registrati. E le è stato chie-sto di tornare sul palco per la terza volta e ripeteresolo l’inizio.

La prima svolta del Ted, quella che ha trasforma-to una conferenza californiana in un fenomenomondiale, avvenne nel 2006 quando Anderson mi-se i video degli interventi in rete e milioni di perso-ne iniziarono a vederli. La seconda svolta è più re-cente: è la nascita dei TedX. Sono Ted organizzatiautonomamente in tutto il mondo seguendo alcu-ne regole. Chiunque può chiedere di fare un TedX:a proprie spese naturalmente. Negli ultimi dodicimesi ne sono stati fatti più di duemila: vuol dire chetutti i giorni dell’anno in qualche angolo del piane-ta ci sono sette “piccoli” Ted. Piccoli si fa per dire:ne hanno fatto uno in Amazzonia, uno sulla Gran-de Muraglia, uno in un carcere spagnolo e nell’a-prile 2013 se ne farà uno in Vaticano. Per questo ilTed ormai non è più solo una conferenza ma unmovimento globale che seleziona e produce videoin 88 lingue grazie al lavoro di circa novemila vo-

Al Ted non diciamomai cosa accadrà,ma incoraggiamopiuttosto questaconversazionemeravigliosamentedisordinataSiamo giardinieri che gettano semi,non i capi di una fabbrica

Jill Bolte studia le malattiementali gravi. Nel ’96 ha un ictus Questo momento diventa per lei un’opportunità per capire come reagisce l’organismo e osservare le funzioni cerebrali, il linguaggio e il movimento

Studiare la mentevisualizzazioni: 8 milioni

Ken Robinson contesta i tradizionali sistemi educatividei bambini che limitano le idee e la creativitàPropone nuovi metodi che possanostimolare la fantasia

Scuola e creativitàvisualizzazioni: 11 milioni

Da Martin Luther King ai fratelliWright a Apple, tutti i grandileader usano lo stesso semplicema potente modello, che Simon Sinek chiama il cerchio d’oro. Tutto inizia dalla domanda: “Perché?”

Leadershipvisualizzazioni: 5 milioni Le traduzioni

dei TedTalkspubblicateonline. Oltre9.000 volontari hanno tradottole conferenzein 88 lingue

28MILA

I TedX fattinel mondonell’ultimoanno. In Italiauna decina Nel 2013 se ne farà uno in Vaticano

2000I Ted fellows, conferenze che riuniscono giovani dall’Asia,Africa, Caraibi,America Latinae Medio Oriente

287

Stare lontano dalle lungheintroduzioni,arrivare subito al punto

Parlare chiaro, cioè non usareun gergo tecnicoe fare a meno delle astrazioni

Non ostentare se stessi,non vantarsi di quello che si è fatto

Chris Andersondirettore di Wired Usa

Rivelare cosenuove, parlare con passione ed entusiasmo,raccontare storie

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Pomodori ripieniNella modalità calda, si riempionocon riso, verdure e carne, per poi cuocerli in forno. In estate,tonno, uovo sodo e maioneseCapperi per decorare

LOCANDA DEL PILONEStrada della Cicchetta Alba (Cuneo)Tel. 0173-366616 Chiuso martedì e mercoledì menù 50 euro

Non la solitaminestraraffreddata

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LICIA GRANELLO EstivaVersione

LA DOMENICA■ 38DOMENICA 1 LUGLIO 2012

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Ovviamente la pasta e fagioli, ma anche lo zabaione e persino il bollito. Trasformarei piatti invernaliin ricettefreschissimeè possibileEcco come fare

I saporiDouble-face

Menùdella cena: pasta e fagio-li, bollito con una cucchiaia-ta di caponata e zabaioneper dessert, ovvero la perfet-ta sequenza gastronomicaper una serata invernale, to-

vaglia a quadrettoni, vetri appannati, fuoco nelcaminetto e rosso poderoso nei bicchieri. Ma lacartolina è double-face: la volti e c’è una terraz-za estiva, tavola apparecchiata con tovagliette,candele a prova di ventilatore, bottiglie affon-date nelle glacette, cubetti di ghiaccio a go-go.Cambia tutto, tranne i piatti.

Il piacere dell’alta cucina popolare è tuttoqui, nel sapersi adattare a temperature e sta-gioni senza smarrire l’anima. Nuove tecniche eantica maestria fanno il miracolo di cambiarel’attitudine dei piatti, pronti a lasciare l’abito in-vernale per quello estivo con l’apparente non-chalance che molto ci difetta quando affrontia-mo il cambio del guardaroba.

Alcuni trucchi sono evidenti, a partire dal-l’abbattimento della temperatura: qualche oradi riposo — o una notte in frigorifero — placa-no i bollenti spiriti di zuppe e pietanze, conse-gnandole alla tavola domate nei sapori e più ac-condiscendenti ai comandamenti della cucinaestiva, primo fra tutti non aumentare il senso dicalore, che aggiunto alla spossatezza di fine

giornata uccide ogni desiderio gastronomico.Ma per mutare la vocazione di un piatto si

può fare molto di più. Intanto, gli ingredienti:usare le verdure di stagione invece delle ever-green — zucchine, finocchi, melanzane, dispo-nibili tutto l’anno — cambia la percezione gu-stativa in termini di freschezza e appetibilità. Eallora, via libera a piattoni e rapanelli, fagiolinie fiori di zucca, borragine e cipollotti. Allo stes-so modo, diminuire la quantità di carni rosse eprivilegiare gli alimenti acidi — yogurt, cetrioli,lime, erbette — serve a dare alle ricette tradi-zionali gusto più pulito. E poi, l’uso della picco-la tecnologia. Una macchina per il sottovuoto— che costa come un pranzo in pizzeria ed ègrande quanto due rotoli di carta da forno —permette di bollire i vari tagli di carne in singolisacchetti sigillati, evitando di disperdere il sa-pore nell’acqua. Che si scelga l’insalata ricca oil vitel tonné, il successo è assicurato. Oppure ilfamigerato sifone, che per anni ha maligna-mente etichettato la genialità creativa di FerranAdrià codificando la cucina del Bulli comeun’incessante estrusione di cibi attraverso labocchetta del monta-panna. In realtà, caricatoil sifone con la bomboletta d’azoto e riempitocon una peperonata, frullata e passata al setac-cio fine, si ottiene la più salutare delle mousseda spalmare sui crostini.

Se i peperoni, pur privati della buccia, vi pro-mettono notti insonni abbracciati a una dami-giana d’acqua, al posto della peperonata met-tete lo zabaione: per la versione salata, basta so-stituire lo zucchero col burro ammorbidito, 15grammi per tuorlo, e il marsala col vino biancosecco. Roba da leccarsi i baffi (estivi).

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Pasta e fagioliIl più antico dei piatti unici, mix perfetto di carboidrati e proteine vegetali, trasloca nei menù estivi appena tiepido,con foglie di salvia fritte

DISPENSA FRANCIACORTAVia Principe Umberto Torbiato (Brescia)Tel. 030-7450757Sempre aperto menù 40 euro

A tavola

Un abbacchio a Ferragosto

N era come la pece è la leggenda che grava, an-che ingiustamente, sugli osti romani dei qua-li con autorità da qualche secolo si dice che

accolgano ogni nuovo cliente con uno sguardo tral’allegro e il corrucciato che può significare: «Tanto,si nun ce rivieni tu, ce verrà quarcun antro, buon ap-petito!».

A tale diffamatissima categoria di ristoratori, cui dinuovo con il più discutibile arbitrio e generalizzatoviene pure messo nel conto di essere così incuriosi ecinici da rasentare la villania, sarebbe dunque ingiu-sto attribuire anche l’eventuale scomparsa dei piattiestivi, che in effetti nella Città Eterna per lo più si li-mitano a qualche pasta e ceci rafferma, oltre all’ov-vio prosciutto & melone ad altissima permanenzafrigorifera.

Ecco, avranno tanti difetti, gli osti capitolini, manon è colpa loro, o meglio non è colpa soltanto loro,se a Roma si continua a mangiare “caldo” — carbo-

nara, fritto, abbacchio, interiora — quando tutto in-torno è bollente. Primo, forse, perché l’antica cucinapastora nasce povera, e i poveracci non stavano tan-to lì a distinguere tra le stagioni, la loro prima urgen-te necessità rimanendo quella di «riempisse la pan-za». E poi per le difficoltà di reperimento di ingre-dienti che i capricci della moda gastronomica hannoulteriormente contribuito a emarginare.

Ciò detto, con il necessario capriccio e approfit-tando del ciclo biologico continuo tra i possibili sa-pori perduti dell’estate romana non sarebbe malac-cio recuperare: minestra di pasta e broccoli, tiepida,anche con variazione di arzilla, cioè razza; spaghettileggeri con la ricotta di pecora; cicorietta, però au-tentica, e altre eventuali erbe pare di grande consu-mo durante la guerra: ramolacci, raponzoli, pastina-che. E se abbacchio deve essere, che sia: però “bro-dettato”, cioè con uovo, succo di limone e maggiora-na, qui altrimenti detta “persa”. Dopo di che anchequesta estate finirà, non solo a tavola.

LA RICETTA

Ingredienti per 4 persone200 g. di riso Vialone Nano1,3 kg di sedano 400 g. di patate lesse a pasta gialla2 cipollotti2 rametti di rosmarino

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Cuocere il riso al dente in acqua bollente salata e scolare. Centrifugare un chilo di sedano,aggiungendo qualche goccia di limone, per evitare che scuriscaPelare il restante sedano con un pelapatate e tagliarlo a dadi

Tagliare a cubi le patate lesse e stufarlein padella con il cipollotto e aghi di rosmarino,

salare e aggiungere il riso In un piatto fondo, disporre il riso, le patate stufate

al rosmarino e la dadolata di sedanoVersare il centrifugato freddo e rifinire con un giro di olio a crudo

Niko Romito è uno dei grandigiovani chef italiani Nella sua scuola-ristorante-locanda “Casadonna” di Castel di Sangro, L’Aquila, elabora piatti di territorio con tecnica finissima come questa ricetta ideata per i lettori di Repubblica

Cotoletta impanataIl tandem milanese-patatine fritteresiste al cambio di temperatura:carne a temperatura ambienteservita con le chips (buone anche non calde)

MANGIARI DI STRADAVia Lorenteggio 269 MilanoTel. 02-4150556Solo pranzo, chiuso domenicamenù 25 euro

MinestroneLa tradizionale zuppa scalda-mani, rinfrescata dalle verdure estive, si offrefredda, profumata con un pestoleggero o zenzero grattugiato

LA REFEZIONEVia Milano 166 Garbagnate Milanese (Mi)Tel. 02-9958942Chiuso domenicamenù 40 euro

ZabaioneAmato dagli sciatori per le sue virtù corroboranti, si trasforma in semifreddo, gelatoo bavarese, goloso compagno di albicocche, pesche e fragoline

RISTORANTE MARCONIVia Porrettana 285Sasso Marconi (Bologna)Tel. 051-846216 Chiuso domenica sera e lunedìmenù 50 euro

BollitoIl re delle carni invernali, padre di brodi e gelatine, va lasciatoraffreddare prima di affettarlosottile, per servirlo col bagnettoverde o in insalata

IL QUINTO QUARTOVia della Farnesina 13RomaTel. 06-3338768Chiuso sabato e domenicamenù 30 euro

CaponataCalda, è una delle pietanze no-carne più appetitose, ma la versione migliore è quellafredda, dopo un giorno di riposoOttima anche sui crostoni

LA DISTILLERIAVia Roma 281Pomigliano d’Arco (Napoli)Tel. 081-8033702Sempre apertomenù 35 euro

Involtini di pesceSpatola, spada e ricciola, farcitinella ricetta invernale con uvetta,erbe e mollica e sfumati col vino bianco, si arrostiscono nelle foglie di limone

BYE BYE BLUESVia del Garofalo 23Mondello (Palermo)Tel. 091-684141Chiuso lunedìmenù 40 euro

Pappa al pomodoroPovera e squisita, d’inverno ha per base pelati e passateI pomodori dell’orto firmano la ricetta estiva, fredda,aromatizzata con basilico fresco

IL PALAGIO (FOUR SEASONS)Borgo Pinti 99 FirenzeTel. 055-26261Aperto solo la seramenù 65 euro

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I piatti

Minestra di riso, sedano e patate

FILIPPO CECCARELLI

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LA DOMENICA■ 40DOMENICA 1 LUGLIO 2012

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La provincia barese, la fuga a vent’anniin Norvegia, la gavetta a teatroe l’incontro folgorante con Fellinie il cinema. Ma anche le donne,l’insicurezza, l’analisi per “liberarmi

della compulsività”E ora che sta lavorandoal prossimo film,l’attore-regista confessail suo traguardo più bello:“Aver risposto

a quella domanda letaledella gente del Sud:ma dove vuoi andare?”

ROMA

«Tutto sta nei ca-pelli. Il fatto chenon mi sonomai pettinato

genera una serie di equivoci. Io scom-posto, caotico, scapigliato, zingaro, ca-sinista del sud. E invece poi sono uno re-golare, molto meno meridionale di co-me sono visto. A vent’anni sono scap-pato a vivere in Norvegia, dove regnanol’ordine e il rigore, e dove c’è la biondez-za, un mistero lontano dal mio che peròmi attraeva. Ecco, questa tensione ver-so un’altra natura, un altro mondo, è ilconflitto che vivo. Il cinema m’ha datouna grande opportunità: quella di co-noscere, e conoscermi». Sergio Rubiniparla col suo tono pacato un po’ filoso-fale, sornione, anche bonariamentegrifagno. Ha i capelli (effettivamente)molto in disordine. La pelle ambrata eliscia di un cinquantaduenne eternoragazzino. Offre caffè e acqua alle novedi mattina a casa sua, uno splendido se-condo piano con terrazzo cechovianosu una delle più raccolte piazze del cen-tro storico di Roma, terrazzo dove s’ac-cede attraverso stanze fatte di poltronedispari, di librerie non uniformi, di mo-bili mai ortodossi.

«Io non mi ritengo geniale, perché trale cose che so e quelle che non so fare,preferisco quello che non so fare. Mimetto sempre in discussione, anche allimite dell’inadeguatezza. Mozart scri-veva alla sorella «stanotte sono tantostanco che preferisco comporti unasinfonia piuttosto che inviarti una lette-ra», e lì c’è l’essenza del genio, che met-te a frutto la sua inclinazione. Io invecem’ostino a fare l’attore malgrado le mie

spigolosità». L’arte del contraddirsi,ammette, lo carica, lo motiva, lo stimo-la. «Le prove della vita mi fanno paura,ma le affronto meglio senza protezione.Non perché sia coraggioso, ma sempli-cemente perché sono spaventato e al-lora mi ci butto più volentieri in un ri-schio». Un fatto concreto? «Rompere ointerrompere i rapporti, “scucire” unarelazione, è una delle avventatezze chesono state il mio sport preferito. Un sal-to nel buio cui però ho scoperto di saperrimediare, ricucendo». Fatale che siparli di Margherita Buy... «Ma sa cheabbiamo divorziato una settimana fa?Perché pensavamo che dopo la separa-zione fosse tutto automatico. Sono an-dato a prenderla a casa col motorino,siamo corsi in tribunale, abbiamo per-fezionato sorridendo le pratiche del di-vorzio, con quelli degli uffici che ci face-vano i complimenti perché molti ci per-cepiscono sempre insieme, e d’altron-de io nei film faccio spesso il marito diMargherita: lo sono in un recente cor-tometraggio di Quartullo, e faccio il suocompagno nell’opera seconda di Su-sanna Nicchiarelli, La scoperta dell’al-ba, tratta dal romanzo di Walter Veltro-ni, di prossima uscita».

Non è altrettanto di dominio pubbli-co il solido rapporto personale (e arti-stico) che Rubini ha («da dodici anni,l’unione più stabile della mia vita») conCarla Cavalluzzi. «È del mio paese, diGrumo Appula in provincia di Bari, eraamica di famiglia e la conoscevo quan-do era ragazzina. Poi l’ho incontrata dinuovo girando Tutto l’amore che c’è,scoprendola appassionata di cinema elaureata con una tesi su Kieslowski. Conlei ho stretto subito, ha partecipato conme e Starnone alle sceneggiature deL’anima gemella, L’amore ritorna eL’uomo nero e ha condiviso con me eAngelo Pasquini La terra e Colpo d’oc-chio». Dice che l’assiduità, la continuitàdi questo legame costituisce una svoltadopo una bella esistenza nevrotica, e ilmerito è tutto dell’analisi. «Sono quat-tordici anni che faccio psicoterapia, em’è servito a essere più consapevole, aliberarmi della mia compulsività, a di-sperdere meno sforzi, a finirla di consu-marmi nel cercare conferme e a trovarearmonia con la mia donna».

Tra le persone con le quali s’è risinto-nizzato c’è Umberto Marino. «Il sodali-zio con Umberto cominciò a teatro ametà degli Ottanta, all’inizio c’era connoi anche Ennio Coltorti. La collabora-zione con Umberto proseguì finchénon ci siamo persi di vista anche noi. Ma

io ero strano. Ero capace di fargli telefo-nate anonime per sentire la sua voce.Anche un’amicizia, una collaborazio-ne stretta che s’interrompe, è un miste-ro. È sembrato che io fossi diventato piùantipatico, ma questa è la mia conqui-sta: non avere più la voglia assidua dipiacere... Poi adesso io e Umberto Ma-rino ci siamo ritrovati nel progetto delfilm che sto per girare, Mi rifaccio vivo».Una figura con cui Rubini non potrà ri-familiarizzare è Federico Fellini, di cuiinterpretò il ruolo autobiografico delregista giovane in Intervista del 1987. «Èuna voragine, quella che m’ha lasciatol’assenza di Fellini, un padre senza cheio me ne accorgessi, lui così presentecon le sue battaglie da autore, con la sualotta a Berlusconi contro le interruzionidei film, con quelle antenne della tele-visione al posto delle frecce degli india-ni, con quel suo impegno ironico con-tro teoremi oscuri a forza di telefonatemattiniere a direttori di giornale, a poli-tici, a scrittori. E pure a me, che mi pre-paravo la voce per parlargli all’alba». Ece n’è un’altra, di persona di riferimen-to, che è scomparsa dall’orizzonte di

Rubini. «Dopo Colpo d’occhioPaolo Va-gheggi diventò per me il Cicerone del-l’arte contemporanea, ed è stato ancheun amico...».

Rubini parla volentieri di maestri, didecani della cultura, di persone-faro.«Si dice che non c’è spazio per i giovani,ed è vero, ma io metterei l’accento an-che su una denuncia alla rovescia: ci so-no pochi grandi vecchi, pochi intellet-tuali scomodi, e le personalità di spiccosono elastiche, inclini inconsciamenteal compromesso da quando nel nostroPaese c’è stato a lungo un presidente delconsiglio identificabile col padronedelle tv, con la scusa io-lavoro-sotto-il-governo-o-per-le-produzioni-di-uno-che-non-condivido-ma-che-mi-la-scia-libero. Un’anomalia, con lievecensura strisciante. E le conseguenze diquesto — la trasformazione orwellianadel cittadino italiano, il trionfo del pro-dotto di massa — oggi si sentono. Io daragazzino, negli anni Settanta, facevoparte della gioventù anarchica di pro-vincia, poi quando sono tornato in Pu-glia ho trovato la sconfitta dei sogni e lavittoria dei soldi. E non accetto questamancanza di luce, questo buco nero.Nei film, l’happy end è un atto di corag-gio, è indicare comunque una strada.Mi piacciono le persone, la capacità do-stoevskiana o tolstoiana di salvarsi, nontrovo giusto classificare la letteratura“prima o dopo Kerouac”, ho bisognodei classici, d’un legame col passato chenon sia retorico, e anche d’un recuperodi me». Parla quasi sempre di sé, neisuoi film? «Certo, ma con mistificazio-ni. Nel senso che mi viene da racconta-re ciò che avrei volutoche fosse succes-so, incontri come non sono mai avve-nuti. I film più “miei” sono anche men-zogneri, tipo L’amore ritorna, o Tuttol’amore che c’è. Non metto in giro mes-saggi nella bottiglia: quando scrivo unastoria, sento la responsabilità di regolenarrative precise. Ciò non esclude chela scrittura abbia una dimensione inti-ma e struggente. E se dirigere un film ècontinuare a scrivere, interpretarlo è unfatto di irrazionalità».

Rubini nasce teatrante («e tuttora hoanche un progetto a due personaggi perla scena» confessa), e dopo AmericanBuffalo di Mamet, La stazione di Mari-no e La notte è madre del giorno diNorén ha avuto un mutamento geneti-co, un transfert per il cinema. «Quandofeci a teatro La stazione, dove evocavoun po’ mio padre capostazione oltreche intenditore d’arte e teatrante filo-drammatico, pretendevo un minuzio-

so naturalismo, e uscire in quinta erafrustrante. Il teatro, lo dico con amore,è un imbroglio, e lo insegnava Eduardoche solo con una mossuccia di spalledava l’impressione di piangere. Il cine-ma è più spazioso, per come lo penso elo vivo. Ma tornerò a essere anche tea-trante, lo sento». Intanto c’è il suo nuo-vo film, che girerà da luglio. «Mi rifacciovivo è una commedia del post-rancore,dove un uomo s’immagina d’avere unnemico che l’ha messo in ombra, e at-traverso un espediente plautino dascambio d’identità entra come angelocustode nella vita dell’altro per rovinar-lo, sennonché scopre che anche quelloè un disgraziato. È il quarto film con laFandango, con Neri Marcorè, Lillo (diLillo & Greg), Emilio Solfrizzi, Marghe-rita Buy, Valentina Cervi, Vanessa In-contrada e io nei panni di un barbone».

Curriculum. Le radici famigliari?«Apprendistato eterogeneo. Molto ditutto. Una sera papà mi costrinse aprender parte a un Natale in casa Cu-piello con lui. Non recitava bene. Iom’entusiasmai. Poi con la professionemi sono trovato a fare da esempio. So-no senza figli. Mi domando chi si pren-derà cura di me». Idea della crisi attua-le? «Diceva Hölderlin che dove c’è crisic’è cambiamento, c’è salvezza, un rida-re valore alle cose». Amici? «Per esem-pio un anziano primario di chirurgia to-racica del Forlanini, che dalle 5,45 dellamattina riceve telefonate da tutti». Laletteratura? «Si parla sempre di PhilipRoth, ma conta anche Joseph Roth can-tore della fine asburgica. Murakami.Orhan Pamuk». La musica? «Sto tra Ba-ch e Mozart, tra rigore e genio». Il tra-guardo più bello? «Aver risposto alla do-manda letale di quelli del Sud: “Ma do-ve vuoi andare?”».

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L’incontroIrrequieti

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Ho preso Margheritaa casa col motorino,siamo corsiin tribunale,abbiamoperfezionatosorridendoil divorzio

Sergio Rubini

RODOLFO DI GIAMMARCO

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