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Diocesi di Faenza 27 novembre 2011 Pastorale Vocazionale Metodi e strumenti per l’accompagnamento spirituale note a cura di Peruffo Andrea Introduzione Parlare di accompagnamento in termini di metodi e strumenti non è certamente semplice. Più che tecniche si deve entrare in una dimensione, in uno stile di rapporto con l’altro dentro il quale si possono inserire delle attenzioni. Un tema con molte variabili per un cammino che è sempre molto personale e quindi particolare dove le generalizzazioni possono non essere utili (il carattere delle persone coinvolte, la loro storia, le loro aspettative…). Al di là delle diverse questioni in primo luogo vorrei parlare di voi come accompagnatori. La tradizione del monachesimo delle origini parla del padre spirituale come di un presenza che è più di un educatore, o di un maestro della legge. Secondo gli antichi monaci del deserto la sua paternità si fonda sulla paternità stessa di Dio. E’ padre, come ricorda anche San Paolo, colui che dà la vita. e che è cerca con tutta la sua forza di imitare Cristo. E sempre i padri, in particolare Evagrio Pontico ci aiutano a fare un altro passaggio che poi con il tempo mi sembra sia andato perso. «L’unico e il medesimo Cristo può, a seconda del contesto logico, essere designato tanto come “padre” quanto come “madre”: come padre di coloro che possiedono lo spirito di figliolanza, come madre invece di coloro che hanno ancora bisogno di latte e non di cibo solido. Così il Cristo che parlava in Paolo divenne “padre” degli Efesini nella misura in cui rivelò loro i misteri della sapienza, ma la “madre” dei Corinzi nella misura in cui li nutrì con il latte. Perciò nel monachesimo non esistono soltanto padri spirituali, bensì anche madri spirituali, le cosiddette amma. La loro maternità imita Cristo come nostra madre. E sono ritenute altrettanto capaci di accompagnare gli essere umani nel loro cammino verso Dio, e naturalmente di donne in particolare, delle quali comprendono meglio la psiche» 1 . E’ interessante vedere come già nel IV secolo (Evagrio vive circa 345-399) ci fossero queste sottolineature importanti sul maschile e femminile nell’accompagnamento. In particolare evidenzio: - il riferimento al latte e al nutrimento spirituale per chi si trova agli inizi del cammino spirituale e che muoverebbe di più da atteggiamenti materni; - il fatto che la madre spirituale possa comprendere meglio il vissuto delle donne rispetto al padre; - l’esempio di Paolo ci aiuta a cogliere come a seconda delle occasioni la stessa persona possa assumere aspetti paterni o materni a prescindere dal suo sesso fisico. Ci sono allora attenzioni e atteggiamenti materni o paterni che a seconda delle situazioni potranno essere usati dall’accompagnatore. Al di là della differenza sessuale evidenzio alcuni requisiti che sempre secondo i padri, deve possedere la figura dell’accompagnatore 2 . - deve essere un uomo dello Spirito, permeato dallo Spirito di Dio, che ha esposto tutti i settori della sua vita all’opera dello Spirito Santo; 1 A. GRUN, L’accompagnamento spirituale nei Padri del deserto, Paoline, Milano 2005, 14-15. 2 Cfr. A. GRUN, L’accompagnamento spirituale nei Padri del deserto, 17-33.

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Diocesi di Faenza 27 novembre 2011

Pastorale Vocazionale

Metodi e strumenti per l’accompagnamento spirituale

note a cura di Peruffo Andrea

Introduzione

Parlare di accompagnamento in termini di metodi e strumenti non è certamente semplice. Più che

tecniche si deve entrare in una dimensione, in uno stile di rapporto con l’altro dentro il quale si possono

inserire delle attenzioni.

Un tema con molte variabili per un cammino che è sempre molto personale e quindi particolare dove le

generalizzazioni possono non essere utili (il carattere delle persone coinvolte, la loro storia, le loro

aspettative…).

Al di là delle diverse questioni in primo luogo vorrei parlare di voi come accompagnatori.

La tradizione del monachesimo delle origini parla del padre spirituale come di un presenza che è più di

un educatore, o di un maestro della legge. Secondo gli antichi monaci del deserto la sua paternità si

fonda sulla paternità stessa di Dio. E’ padre, come ricorda anche San Paolo, colui che dà la vita. e che è

cerca con tutta la sua forza di imitare Cristo. E sempre i padri, in particolare Evagrio Pontico ci aiutano

a fare un altro passaggio che poi con il tempo mi sembra sia andato perso. «L’unico e il medesimo

Cristo può, a seconda del contesto logico, essere designato tanto come “padre” quanto come “madre”:

come padre di coloro che possiedono lo spirito di figliolanza, come madre invece di coloro che hanno

ancora bisogno di latte e non di cibo solido. Così il Cristo che parlava in Paolo divenne “padre” degli

Efesini nella misura in cui rivelò loro i misteri della sapienza, ma la “madre” dei Corinzi nella misura in

cui li nutrì con il latte. Perciò nel monachesimo non esistono soltanto padri spirituali, bensì anche madri

spirituali, le cosiddette amma. La loro maternità imita Cristo come nostra madre. E sono ritenute

altrettanto capaci di accompagnare gli essere umani nel loro cammino verso Dio, e naturalmente di

donne in particolare, delle quali comprendono meglio la psiche»1. E’ interessante vedere come già nel

IV secolo (Evagrio vive circa 345-399) ci fossero queste sottolineature importanti sul maschile e

femminile nell’accompagnamento. In particolare evidenzio:

- il riferimento al latte e al nutrimento spirituale per chi si trova agli inizi del cammino spirituale e

che muoverebbe di più da atteggiamenti materni;

- il fatto che la madre spirituale possa comprendere meglio il vissuto delle donne rispetto al padre;

- l’esempio di Paolo ci aiuta a cogliere come a seconda delle occasioni la stessa persona possa

assumere aspetti paterni o materni a prescindere dal suo sesso fisico. Ci sono allora attenzioni e

atteggiamenti materni o paterni che a seconda delle situazioni potranno essere usati

dall’accompagnatore.

Al di là della differenza sessuale evidenzio alcuni requisiti che sempre secondo i padri, deve possedere la

figura dell’accompagnatore2.

- deve essere un uomo dello Spirito, permeato dallo Spirito di Dio, che ha esposto tutti i settori

della sua vita all’opera dello Spirito Santo;

1 A. GRUN, L’accompagnamento spirituale nei Padri del deserto, Paoline, Milano 2005, 14-15.

2 Cfr. A. GRUN, L’accompagnamento spirituale nei Padri del deserto, 17-33.

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Metodi e strumenti di accompagnamento 2

- deve avere una certa conoscenza dei misteri divini per saperli riconoscere negli altri;

- e deve aver indagato il cuore umano (cardiognosi secondo i greci). Se questo è dono dello Spirito

è anche frutto di un lavoro personale su di sé in modo da poter via via distinguere i suoi moti

interiori, i suoi sentimenti e umori, i pensieri, e i progetti fino in fondo. Allora sarà in grado di

comprendere anche il cuore del fratello che gli chiede un consiglio. Sono molteplici le

sfaccettature che derivano da questa cardiognosi anche se per i padri sembra centrale che chi

guida altri abbia già affrontato in modo vittorioso i propri vizi, le proprie passioni. Questo gli

permetterà di ascoltare con il cuore più libero la persona che di fronte e guidarla a riconoscere

l’azione di Dio nella sua vita.

- deve avere una chiara coscienza ecclesiale. Nel momento in cui accompagna un giovane non è

in gioco solo la sua esperienza umana e di fede ma anche quella della comunità cristiana. Il

riferimento teologico può essere quello di “singolo in un contesto di popolo” dove le due realtà

entrambi necessarie, si richiamano in modo reciproco.

Sul rapporto fra psicologia e spiritualità annoto questa osservazione di Grun: «Le conoscenze

psicologiche non sono fine a se stesse, per i monaci, ma servono per la purezza del cuore e aprire così

il corpo e l’anima a Dio, perché egli possa dimorarvi. […] Soltanto se conosco l’anima umana con le sue

leggi interne, posso riconoscervi anche l’azione divina»3.

Giovani e vita spirituale

Cosa dire dei giovani? Mi lascio provocare dai dati della ricerca C’è campo 4 che sintetizza il lavoro fatto in molte diocesi del Triveneto, compresa anche nella vostra, con i dati emersi da una ricerca quantitativa fatta a Vicenza. Lo scopo in questo caso non era quello di dare dei numeri ma tratteggiare dei vissuti, dei racconti di vita e di “esperienza religiosa”. Ne è emersa una realtà giovanile molto variegata e un po’ diversa da quella di solito presentata.

1) Sembra che i giovani con cui abbiamo a che fare non siano immediatamente definibili dentro le

categorie classiche: credente- non credente, vicino- lontano, praticante- non praticante…5

Queste categorie evolvono, cambiano con la biografia della persona, con la sua storia per cui

uno si trova ad essere credente e non credente allo stesso tempo6. L’unico dato che trova

conferma in diversi modi è la poca pratica religiosa dei giovani che si traduce poi nel non

sentirsi partecipi della comunità credente.

2) Centrale è il processo di autocostruzione dell’individuo anche a livello di fede (oltre che in

altri ambiti) per cui dovrà decidere lui come sarà, il suo modo di essere. I giovani attuali

tendono a concepirsi come il prodotto di un processo, nel quale è il soggetto stesso a ricercare e

a determinare chi infine dovrà/vorrà essere. Tendono a pensarsi come costruiti da sé. Non è

decisivo che poi nella realtà, questo sia vero solo in parte, quello che è importante è che tutto

3 A. GRUN, L’accompagnamento spirituale nei Padri del deserto, 22.

4 OSSERVATORIO SOCIO RELIGIOSO TRIVENETO. A. CASTEGNARO (ed.), C’è Campo. Giovani, spiritualità, religione,

Marcianum Press, Venezia 2010. 5 In questo senso si prendono le distanze dal libro di ARMANDO MATTEO, La prima generazione incredula, Laterza.

6 E’ interessante a questo riguardo la seguente riflessione di Enzo Bianchi in L’incredulità del credente . «Certamente

nei credenti abita la poca fede, abita questa possibilità del dubbio, del non credere. Noi siamo in un’ora in cui nella

Chiesa, se uno per caso dice che è possibile il dubbio, viene squalificato perché oggi bisogna di nuovo avere le certezze

e i maestri del dubbio sono cattivi maestri. E’ una deriva. In realtà il dubbio abita sempre nel cuore del credente.

Credo che davvero dobbiamo accettare che la fede è adesione, ma non è una certezza che toglie il dubbio. La fede lascia

intatti alcuni enigmi: l’enigma del male, della sofferenza, l’enigma della morte. La fede non li spiega. La fede apre un

orizzonte di speranza. Ma l’enigma della sofferenza e del dolore e l’enigma della morte restano»

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Metodi e strumenti di accompagnamento 3

ciò corrisponde a una sorta di ideale a cui tendere. Si tratta di un “mito”, ma di un mito che

opera con molta forza. Crescere allora vuol dire scegliere chi si vuole diventare in un processo

di autonomia e di libertà. In gioco c’è il loro essere autentici con il timore di arrivare un giorno a

fine vita e di dover riconoscere che si è vissuta una vita che non è la propria. A livello critico se

da una parte c’è il rischio del soggettivismo estremo, dall’altra parte vediamo però le possibilità

che si aprono nel cammino di personalizzazione della fede. La sfida è allora quella di superare

un’appartenenza puramente sociologica per lasciare spazio ad una appartenenza scelta.

3) Quasi a corollario di questa affermazione si coglie la fatica nella trasmissione della fede (come

anche nella trasmissione di molti altri aspetti del nostro vivere). Forse oggi il termine da

preferire è quello di “generare alla fede” a partire da una testimonianza che non sia solo

annuncio ma un incontro profondo fra persone.

Capite che questo ci interpella a partire dalla qualità della nostra vita (e non solo vita spirituale). La nostra vita è una vita che testimonia la bellezza del Vangelo in uno stile di vita coerente? Su questo fronte la difficoltà è sia delle nostre comunità cristiane che delle famiglie.

4) Al di là di quello che appare comunque non tutto è finito. Molte volte si sente parlare di una

esigenza nuova di spiritualità soprattutto nei giovani. Credo che ciò sia vero nel senso che

restano nel cuore (tranne alcune situazioni che in ogni caso andrebbero in ogni caso valutate

con attenzione) tracce, possibilità, appelli. Tra il credere e il non credere c’è uno spazio da

scoprire e che trova molteplici modi di espressione alcuni dei quali ci suscitano perplessità

(pensiamo a tutto il fascino del mondo orientale con la sua spiritualità).

5) Tracce da seguire più che obblighi da adempiere. Quello che viene dal di fuori della

persona sembra non avere valore per i giovani di oggi nel senso che il valore deriva dalla

rielaborazione personale. Se da una parte con questa affermazione sembra saltare il principio di

autorità, dall’altra non vuol dire che questi giovani non cerchino il confronto. Ne hanno

bisogno e lo cercano come ad orizzonte di senso capace di di ispirare la vita e le scelte personali.

Ma tutto questo non deve diventare regole da seguire.

6) Non sembra esserci un atteggiamento marcatamente materialistico perché arrivati al

nocciolo delle questione resta spazio per altro. Resta così un atteggiamento aperto in una

situazione che è instabile, fluida perché la rapidità dei cambiamenti non lascia il tempo al

processo di solidificazione. “I giovani, da questo punto di vista non sono una stato, una

definizione, ma delle traiettorie, dei percorsi. L’immagine è quella del pendolo: si ragiona in

termini di fasi, di periodi, di momenti in cui “c’è campo” e momenti in cui il campo non c’è. Si

vive sull’incerto crinale del credere e del non credere, avvertendo contemporaneamente il

fascino delle narrazioni aperte al trascendente e l’attrazione per quelle agnostiche, senza sapere

come fare a decidersi”. Nella loro ricerca sembrano poi svogliati, interessati ad altro o incapaci

di proseguire anche se vorrebbero. La sfida è quella di una fede diversa anche se molti

sembrano essere in una posizione si stallo… non hanno deciso ne in un senso ne nell’altro. In

sostanza, a molti oggi non è più possibile credere in modo ingenuo. Nei giovani noi vediamo

quel processo di lungo periodo che ci ha condotti da una società in cui era virtualmente

impossibile non credere in Dio, a una in cui la fede, anche per il credente più devoto, è una

possibilità umana tra le altre. Si tratta di andare oltre quello che è stato raccontato al catechismo.

7) La chiesa viene valutata dai giovani in modo molto critico anche se si dovrebbero fare delle

precisazioni distinguendo fra la “piccola chiesa”, quella del mio “don”, del mio gruppo e della

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Metodi e strumenti di accompagnamento 4

mia esperienza legata alla parrocchia che di solito piace, e la “grande chiesa”, quella

dell’istituzione, quella che appare lontana e poco attenta ai giovani e con la quale è molto più

difficile identificarsi. Un discorso a parte lo si dovrebbe fare per le esperienze della GMG.

Bisogna tener anche presente che la maggior parte dei giovani, almeno a partire da una certa età,

non hanno più contatti diretti con la chiesa se non attraverso i mass media che evidenziano la

chiesa istituzionale e romana solo a partire da certe attenzioni.

La chiesa appare come portatrice di valori, di significati importanti per vivere anche se poi c’è

una sorta di contrasto con la morale che viene percepita come una montagna di divieti proposti,

a detta dei giovani, in modo poco rispettoso del soggetto. Non sembrano poi superati certi

luoghi comuni tipici di una certa ideologia che rendono poco credibile l’istituzione: la sfarzosità,

il potere, l’essere sentita lontana dalla realtà.

In ogni caso non sembra esserci una chiusura assoluta. L’invito che ci viene dato è quello di

una chiesa che sappia aprire le sue porte ma non per lasciar entrare i giovani, ma per uscire lei in

strada per stare con loro, per capire il loro mondo e le loro ragioni. E’ una immagine simbolica

che ci deve far pensare: non si tratta di restare chiusi nella proprie certezze ma di lasciarsi

provocare da un ascolto tutt’altro che scontato e facile.

Imparare il “mestiere del vivere”

Bisogna prendere coscienza che è conveniente fare qualcosa… e soprattutto è importante ricordare che

si può e si deve prendere una decisione. Detto in altri termini: in diverse circostanze della vita in cui ci

si trova a vivere, siamo interpellati, ci invitano a prendere parte non da semplici spettatori all’avventura

del vivere stesso. Di qui la considerazione che troppo spesso invece si vedono persone paralizzate

dall’indecisione che in alcuni casi è indecisione radicale (non solo fra due scelte più concrete): «siamo

incerti, addirittura se convenga prendere una qualche decisione, o non convenga piuttosto far finta di

niente ed estraniarci dalla situazione in cui di fatto veniamo a trovarci, quasi essa non ci riguardasse in

alcun modo»7.

La necessità è urgente e pratica: cosa conviene fare nelle diverse scelte della vita? E ancora: conviene o

non conviene in relazione a quale obbiettivo? Infatti potrebbero essere molteplici gli obbiettivi che

muovono la vita di una persona. Nel nostro contesto ci si riferisce non ad un singolo aspetto della vita

ma all’idea di essere uomini veri, o in altri termini si fa riferimento ad una capacità di giudizio legata

all’imparare il mestiere del vivere, un mestiere non facoltativo ma obbligante per tutti.

Il mestiere del vivere lo si impara vivendo; non è possibile pensare in anticipo per poi scegliere! Si è nati

senza averlo scelto, ma vi si rimane e si vive in pienezza scegliendo di farlo. La vita stessa anteriormente

ad ogni nostra deliberazione deve suscitare presso la nostra coscienza evidenze tali da smuoverla a

vivere, che conviene vivere e che la vita è buona e si può liberalmente scegliere di accettarne l’impegno.

In conclusione: «Siamo con tanta frequenza indecisi a proposito di quello che conviene fare nelle

singole situazioni, perché in realtà non abbiamo ancora deciso se convenga vivere e per che cosa

convenga vivere»8.

E qui entra in gioco un altro aspetto davvero importante: la vita dispiega un senso e un valore solo nella

misura in cui la libertà di ciascuno dà una disponibilità, si sbilancia verso quelle opportunità che suscita.

« Una delle ragioni fondamentali che spiegano come mai noi ci troviamo tanto spesso nell’apparente

7 ANGELINI G.,Le ragioni della scelta, Qiqajon, Magnano 1997,10-11.

8 ANGELINI G.,Le ragioni della scelta, 16.

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Metodi e strumenti di accompagnamento 5

impossibilità di deciderci, di discernere ciò che conviene, è appunto da cercare nella diffusa inclinazione

a trattenerci nella condizione di spettatore della vita, ma non vive effettivamente. Detto altrimenti, per

scoprire quello che conviene nella vita, occorre anzitutto avere il coraggio dei propri desideri, e

cimentare effettivamente tali desideri nel confronto con la realtà. Solo in tal modo essi crescono, si

approfondiscono, si precisano, magari talvolta anche si correggono, e tuttavia si determinano.

Altrimenti essi si intristiscono, sino ad assumere i tratti di una patetica nostalgia»9.

L’espressione della propria libertà nella fatica dello scegliere via via nelle scelte concrete comporta la

capacità di vivere la speranza come atteggiamento della fede che quello che si intravede come possibilità

e promessa possa diventare realtà di vita. La tentazione di vivere la vita da dietro al vetro, protetti

finché non si scorge la reale possibilità di manifestare se stessi è forte, soprattutto oggi in un tempo in

cui si vorrebbe essere garantiti in tutto. Il rischio è che così la vita scorra e con essa le occasioni senza

che ci si renda conto che di fatto sono occasioni che valgono anche per il sottoscritto. E’ un po’ come

se Gesù passasse e il cieco non se ne accorgesse per cui non attira l’attenzione gridando, ma aspetta

ancora l’occasione giusta.

Alcuni motivi per sfuggire alla responsabilità della propria libertà.

Oggi è quanto mai significativo il cercare quello che “mi realizza nella mia vera identità”. Magari

non si ha chiara quale sia la propria identità eppure si và alla ricerca di quello che dovrebbe portare a

questa pienezza con il rischio tutt’altro che eluso di non trovare nulla che “mi realizzi sul serio”. Ecco

allora lamenti del genere: “Nessuno mi capisce”, “Per me non c’è mai posto da nessuna parte”,

“Quell’ambiente non mi dice niente”, “Quella compagnia mi annoia, non ci trovo alcun gusto…:”. Il

rischio è di vivere una sorte di fantasia passiva, cioè sognare possibilità mai realizzate e a sopportare gli

accadimenti effettivi solo sostenuti dalla confortante consapevolezza che tanto non si tratta di qualcosa

di irrevocabile. Occorre invece notare che la nostra “vera identità” non si dà mai in astratto ma si

concretizza nella concretezza delle scelte. Bisogna prendere i fatti, gli accadimenti della storia e senza

ignorarli tentare di superarli, di andare oltre.

Un secondo rischio, anche questo oggi molto significativo, è quello di legare tutto allo stato d’animo di

un momento e fare di questo il criterio unico di decisione sull’operare. E’ qualcosa di assoluto o solo

una spia di qualcosa che sta accadendo nel cuore dell’uomo, della sua ricerca di senso? Ci sono dei segni

che possono essere letti in modo singolare, oppure ci può essere uno sforzo per leggerli nella loro

globalità. Se ci si accontenta di letture parziali e limitate ecco che basta accontentarsi delle piccole gioie

della vita lasciando perdere i grandi ideali, troppo faticosi e incerti e quindi da evitare.

C’è in senso contrario a quello che abbiamo appena visto, il rischio dell’idealista dove sono invece i

grandi ideali a farla da padrone con la possibilità di un allontanamento dalla realtà. Rispetto all’ideale da

vivere la realtà sarebbe troppo banale, troppo povera per cui non se ne può far niente. Cercare il

possibile a partire dai dati concreti è una fatica che in questo caso viene bypassata in nome dell’ideale.

«Dagli avvenimenti noi dobbiamo lasciarci istruire, rinunciando alla tentazione di istruire Dio sul come

dovrebbe governare il mondo. […] L’idealismo diventa vera sapienza e non sospetta soltanto quando

esso si mostra capace di farci scoprire iniziative buone da prendere, opportunità favorevoli in cui

impegnarsi: è invece da sospettare quando sa esprimersi soltanto nella forma di un giudizio universale

sul mondo»10.

Il rischio dell’appello alla legge. Anche in questo caso il tentativo è quello di portare all’esterno del

soggetto la fatica del discernimento e della scelta. Sarà la legge a dire quello che, concretamente, si deve

9 ANGELINI G., Le ragioni della scelta, 20.

10 ANGELINI G., Le ragioni della scelta, 48-49.

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Metodi e strumenti di accompagnamento 6

fare o non fare! Ma annottiamo subito che la legge può catalogare alcune situazioni ma il cuore umano

è molto più vario e ricco per cui alcune esperienze possono apparire diverse da quanto notato in prima

istanza. Un esempio di questo rischio è quello legato alla moda (non pensiamola solo in relazione al

vestito, ma anche nel contesto della gestione del tempo libero…). In molti casi si procede come per

“dogmi” per cui ciò che è da molti apprezzato è per ciò stesso elemento di valore e dunque occorre fare

in quello specifico modo. Si impara attraverso una sorta di ripetizione automatica ed esteriore di

qualcosa che si trova nel contesto di vita. In certe condizioni infatti il singolo è più incline a dubitare di

se che del senso comune.

LA VOCAZIONE BATTESIMALE

La prima chiamata, rivolta a tutti gli uomini, è la chiamata all’esistenza, è l’esistere, e se manca da parte dell’uomo la conoscenza e la coscienza di questa vocazione primaria allora ogni vocazione personale non può essere assolutamente né percepita né compresa! Questa chiamata elementare e primaria deve con forza essere sottolineata ed evidenziata oggi, perché proprio tra i giovani di oggi è facile constatare che questo dato è assente dal loro orizzonte. Sovente oggi succede che i giovani si sentano nati per caso, gettati nella vita e nell’esistenza dalle loro famiglie e non percepiscano assolutamente questa chiamata essenziale di cui, purtroppo, neppure la chiesa fa un annuncio adeguato e sufficiente. È perciò chiaro che nell’ambito di un’esperienza giovanile che, a causa della disgregazione dell’ambiente familiare e della massificazione tipiche delle nostre società, non percepisce ed anzi contraddice questa verità elementare, ogni ulteriore discorso sulla vocazione personale non può far altro che dissolversi rivelandosi inconsistente.

Un monaco della chiesa d’occidente.

in COMUNITÀ MONASTICA DI BOSE, Letture di ogni giorno, LDC, 2006, 567.

Verso dove andare: l’ideale di maturità

A partire da una prospettiva cristiana, la maturità della persona è da considerare in relazione alla

acquisizione personale dei valori cristiani, come proposti da Cristo: questa è la meta chiara di ogni

processo educativo. Si tratta però di una meta che sappiamo mai pienamente raggiunta per cui

l’educatore deve anche proporre delle tappe intermedie che servano da verifica e da stimolo nel

percorso che la persona sta vivendo.

Un ulteriore problema è poi quello di come comunicare certi valori in modo che la persona li senta non

come una imposizione esterna ma come qualcosa che và a toccare i desideri più profondi della propria

vita.

In una prospettiva dinamica si tratta anche di mettere la persona nella possibilità di affrontare con forza

la vita imparando dai propri errori e guardando in avanti per raggiungere quelle mete che ci si era

prefissati.

Dalla compiacenza alla internalizzazione

Il concetto di internalizzazione con la distinzione fra atteggiamento di compiacenza e di identificazione. Con

l’idea di compiacenza si fa riferimento al fatto che una persona può accettare l’influenza di altre perché

spera di poter ricevere un favore o di evitare una punizione da chi è preposto al controllo. Tutto quello

che la persona fa o dice si pone solo ad un piano esteriore, nella sfera pubblica, quella cioè che può

essere vista da chi è coinvolto nella relazione. L’ambito privato e personale ne resta in qualche modo

escluso.

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Metodi e strumenti di accompagnamento 7

C’è poi l’atteggiamento della identificazione che si verifica quando un individuo «addotta un

comportamento derivato da un’altra persona o gruppo perché questo comportamento è associato con

la soddisfazione di una relazione auto-definente di questa persona o gruppo»11. Si tratta cioè di

realizzare un ruolo che la persona pensa importante per la sua vita e si esplicita nel fare quello che l’altra

persona e/o gruppo dice e fa. In alcuni casi questo tipo di atteggiamento è assunto anche solo per

mantenere l’inserimento in un gruppo al quale la persona è ancorata in modo radicale12. La persona è

coinvolta non solo nella sfera pubblica e visibile, ma anche in quella privata e personale e questo

perché l’atteggiamento è in relazione ad un ruolo da vivere.

C’è infine l’internalizzazione che si verifica quando un individuo accetta l’influenza esterna perché induce

un comportamento consono al proprio sistema di valori. L’individuo quindi sceglie personalmente

quanto gli è proposto come un suo stile di vita. Il legame con la sorgente del comportamento proposto,

basato in un primo momento anche sulla sua credibilità, con il passare del tempo può anche

interrompersi senza creare una modifica degli atteggiamenti assunti, cosa che invece non era possibile

nel caso della compiacenza e della identificazione.

Oltre il mito dell’autorealizzazione

Anche nel contesto della formazione cristiana, spesso è entrato il mito dell’autorealizzazione come

ideale da raggiungere anche nella prospettiva evangelica. Per qualcuno l’autotrascendenza nella

prospettiva dei valori cristiani, va collocata in un orizzonte in cui l’uomo è chiamato a diventare sempre

più se stesso e a realizzare le sue potenzialità13. L’ideale della felicità facile, dell’autorealizzazione come

fine della vita, è notevolmente diffuso anche a vari livelli della società14.

Non ha senso allora parlare di autorealizzazione o di ricerca della felicità come scopo della vita. Insita

nell’uomo c’è una tensione per un di più, per un bene più grande, per l’affermazione personale, ma

tutto questo lo si raggiunge come conseguenza di un significato di vita: ci deve essere un motivo per

fare contenta la persona. Afferma Frankl: «Normalmente il piacere non è mai lo scopo degli sforzi

umani, ma piuttosto è e deve restare, un effetto, più precisamente l’effetto collaterale dello scopo

raggiunto»15 e conclude la sua analisi stabilendo che «l’autorealizzazione è l’effetto non intenzionale

della intenzionalità della vita»16.

Autonomia e dipendenza

Il cristiano è così chiamato da una parte a crescere nella sua libertà soprattutto da quelli che possono

essere elementi inconsci, che potrebbero limitare la sua capacità di autodeterminarsi in base ai propri

ideali, e nello stesso tempo a consegnare questa maggiore libertà interiore a Qualcuno al di fuori da se

stesso che lo possa garantire nelle acquisizioni raggiunte pena il rimanere schiavi dei propri dinamismi e

11

H.C. KELMAN, «Processes of opinion change», 63. 12

Si possono interpretare in questa logica tanti gruppi di teenager. 13

Sono quelle correnti psicologiche di impronta esistenzialiste chiamate fullfillment. Cfr. S. MADDI, Personality

Theories. A Comparative Analysis, Brooks /Cole, Pacific Grove 61996, cap. 5-6.

14 Una sua espressione è quella stata chiamata dell’emotivismo con il quale si afferma che i giudizi e in particolare quelli

di valore, non siano altro che espressione della preferenza o il frutto di un sentimento personale. Questo implica che non

ci si può appellare a dei criteri oggettivi e impersonali ma solo a dei criteri legati ai sentimenti personali con il

conseguente tentativo di manipolare i sentimenti degli altri in vista di portarlo dalla propria parte. Cfr. A. MACINTYRE,

Dopo la virtù. Saggio di teoria morale¸ Feltrinelli, Milano 1993, 36. 15

V.E. FRANKL, «Self-trascendence as a human phenomenon», in The Will to Meaning, The World Publication

Company, New York 1969, 34. 16

V.E. FRANKL, «Self-trascendence as a human phenomenon», 40.

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Metodi e strumenti di accompagnamento 8

incapaci di muoversi verso gli ideali. Si tratta di accettare un paradosso: «Essere liberi per rinunciare

liberamente alla propria libertà!»17. Infatti sono sempre in agguato gli idoli che illudono l’uomo di una

maggiore autonomia ma che di fatto poi lo obbligano ad orizzonti più ristretti e limitati. L’educatore è

colui che accompagna la persona attraverso questo passaggio lasciandola alla fine sola ad attraversare il

guado per abbandonarsi a Dio con un atto di fiducia che nessun altro può porre al suo posto.

Alcune priorità e attenzioni

Fare il punto della propria storia…. Umana e di fede.

Credo che il punto di partenza sia quello di fare memoria della propria storia. E’ importante, è storia di

salvezza, è la storia concreta dell’amore di Dio per me. E’ una storia fatta di episodi, di persone, si

incontri, di pianti e di gioie. E’ una storia di alti e bassi….

Le relazioni della mia vita.

Un aspetto particolare è rileggere la propria vita a partire dalle relazioni per capire e rileggerle secondo il

modo proprio punto di vista.

Dare un nome ai propri vissuti emotivi…. Alle proprie paure… ai propri desideri.

Sembra una cosa semplice ma a volte ci mancano le parole, si fermano alla gola. Eppure credo sia

davvero importante. Sono esse che mi allontanano dal Signore?

Ricostruire la propria storia.

Vediamo ora come si possa ricostruire la propria storia come stimolo per un percorso di conoscenza di

se con l’aiuto di un accompagnatore spirituale.

Il qui e ora della relazione educativa

Una delle possibilità che abbiamo a nostra disposizione quando incontriamo una persona, qualsiasi sia la situazione nella quale si presenta, è quella di sfruttare il momento relazionale che ci è proposto. La concretezza di quel momento può essere un evento importante sia in una prospettiva umana che in chiave spirituale. L’attenzione alla concretezza è la via che ci offerta per trovare un accesso alle dimensioni più profonde della persona che abbiamo davanti. Daniel Stern nel suo lavoro intitolato Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana18, dà attenzione a partire da una prospettiva fenomenologica, al presente, all’”ora” della relazione terapeutica così come è vissuta dai protagonisti. E’ convinzione dell’autore che «tanto nella vita quotidiana quanto nella situazione clinica, ciascun momento presente implica un piccolo kairos, nel senso che sono in gioco decisioni di vita minori e un breve tratto del proprio destino»19. In altri termini si tratta di riconoscere l’importanza di alcuni momenti significativi e particolarmente profondi nel presente che possono diventare apertura a qualcosa di più grande oltre il presente stesso. Sono frammenti di storia vissuta nell’incontro educativo, che possono essere verbalizzati o meno e che portano in sé non solo il vissuto della persona, ma anche una prospettiva di senso che và oltre il momento stesso. Sono elementi di novità che raggiungono la persona in modo improvviso nell’ordinarietà della vita, dell’incontro e che

17

A. MANENTI, Vivere gli ideali1,EDB, Bologna 1996, 202. 18

D. STERN, Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana, Raffaello Cortina, Milano 2005. 19

D. STERN, Il momento presente, 7. Nella prima parte del libro l’autore spiega il senso che attribuisce al momento

presente e le caratteristiche principali.

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Metodi e strumenti di accompagnamento 9

necessitano di una decodifica, possibile grazie alla presenza di un altro che permette alla persona di trovare il significato che il fatto porta già in sé20. In una logica di incontro intersoggettivo, si dà così importanza al frammento di storia che la persona condivide con l’educatore, realizzando nel concreto qualcosa di nuovo che può aprire la strada ad un cambiamento più radicale nella vita della persona stessa.

«Il momento presente, in quanto storia vissuta, può anche essere condiviso. E’ in questo modo che prende forma l’intersoggettività: nel momento in cui, tra due persone, ciascuno può partecipare alla storia vissuta dell’altro, o creare insieme all’altro una storia vissuta, si stabilisce un diverso tipo di contatto umano. Ha luogo qualcosa di più di un semplice scambio di informazioni. E’ questo il “segreto” del qui e ora»

21.

E’ lo sviluppo della persona che mai terminato, si esplicita in quel “momento” e quel “luogo” e diventa espressione dell’unicità delle persone coinvolte anche se con ruoli diversi. Stern introduce anche per spiegare meglio il processo in atto, l’idea che in quel momento kairos si viva un tipo di conoscere particolare che chiama “implicito” distinguendolo da quello esplicito. Il conoscere implicito ci aiuta a cogliere la ricchezza esistenziale della situazione presente, ripresentandoci l’idea che quell’esperienza non si esaurisca nello spazio in cui avviene ma porti in se anche una dimensione di futuro che và oltre la persona stessa ma senza dimenticarla.

«La sfida consiste nell’immaginare il momento presente in una sorte di equilibrio dialogico con il passato e il futuro. Se il momento presente non è ben ancorato a entrambi rischia di disperdersi come un puntino insignificante, mentre se il legame è troppo forte corre il pericolo di essere sottovalutato. Anche il presente deve poter influenzare, probabilmente allo stesso grado, il passato e il futuro, così come essi influenzano il presente»

22.

Il presente può così diventare possibilità di apertura al nucleo più profondo della persona stessa, diventa espressione concreta del suo mistero e in esso apertura all’oltre, al metaesperienziale, al futuro non ancora pensato eppure già in qualche modo presente. Scrive Imoda:

«Il mistero [della persona] è una realtà che si vive come interiore alla persona stessa e come confronto con l’esterno. […] Il mistero nei suoi vari aspetti è precisamente questa presenza che rimanda a qualcosa di più, è una presenza e assenza nello stesso tempo, qualcosa che è non è. E’ dunque uno squilibrio, un’inquietudine nella mente umana»

23.

Imparare ad ascoltare

Vediamo qualche indicazione pratica in riferimento alla capacità di ascoltare.

si ascolta con tutta la persona e non solo con l’udito. Si sente con l’udito ma si ascolta con tutta la persona nel senso che tutto dell’altro ci comunica qualcosa, ci dice, ci racconta della sua vita, della sua storia, del suo lavoro, dei suoi ideali (vestiti, pettinatura, mani, trucco, lo sguardo…). E’ importante allora mettere insieme questi vari modi di comunicare per cogliere più elementi della persona stessa, per non fermarsi alle sole parole.

Il primo ascolto per qualcuno appartiene allo sguardo come modalità per farsi presente all’altro, per entrare nella relazione con la persona che mi sta davanti. Il non guardare, il fuggire lo sguardo come modalità per fuggire ad una relazione, come espressione di paura e/o insicurezza. In alcune situazioni è importante offrire alla persona uno sguardo diverso da quello comune che diventa come un’etichetta che cataloga la persona stessa dentro certi parametri. Può essere interessante rileggere l’episodio del giovane ricco come raccontato da Marco (10,17-27) che pone attenzione allo sguardo.

20

Molte esperienze ordinarie si possono leggere in questa ottica: l’amicizia, l’innamoramento, il rapporto madre

bambino. 21

D. STERN, Il momento presente, 49. 22

D. STERN, Il momento presente, 25. 23

F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero, EDB, Bologna 2005, 56.

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Metodi e strumenti di accompagnamento 10

Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: "Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?".

18Gesù gli disse: "Perché mi chiami

buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19

Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre".

20Egli allora gli

disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza". 21

Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: "Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!".

22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva

infatti molti beni.

23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: "Quanto è difficile, per quelli che possiedono

ricchezze, entrare nel regno di Dio!". 24

I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: "Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!

25È più facile che un cammello passi per la cruna di un

ago, che un ricco entri nel regno di Dio". 26

Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: "E chi può essere salvato?". 27

Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: "Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio".

Ascoltare è lasciar parlare. Si deve imparare a tacere per dare il tempo all’interlocutore di trovare le parole e i modi per esprimersi. In modo implicito questo vuol dire che si deve avere una certa disponibilità di tempo. Non tutti hanno la stessa capacità di esprimersi in modo coinciso e immediato e questo soprattutto se la persona deve parlare di cose importanti con un particolare coinvolgimento emotivo. Colui che ha deciso di regalare ascolto non può sfuggire alla sensazione di essere coinvolto in un avvenimento che consuma il suo tempo: di questo non può far altro che prenderne atto. Ma attenzione a non cadere poi nella logica che sia “tempo perso”, tempo portato via a qualcosa d’altro, tempo in cui non si è fatto niente!

Per ascoltare allora importante un clima di silenzio. Non è solo quello esteriore ma anche quello interiore nel senso che ci deve essere una certa abitudine al silenzio, anche nella preghiera dove si lascia che sia qualcun Altro ad avere la prima parola. Ascoltare e ascoltarsi come momenti diversi di una stessa dinamica spirituale: varia il contenuto e l’oggetto a cui ci si rivolge ma entrambi gli atti nascono dalla medesima esperienza.

Bisogna saper fermarsi, interrompere le proprie frasi, il flusso dei propri pensieri che vanno alla ricerca della risposta al “problema” ma che rischiano di non accogliere il mistero. L’ospite allora merita tutti i riguardi e tutta l’attenzione del caso. Connesso a questo c’è la necessità di non aver paura della pause di silenzio che si possono creare. Le pause di silenzio sono fondamentali; anche nel caso in cui ci venga posta una domanda avere uno spazio di silenzio prima di rispondere non è da considerarsi semplicemente negativo. La centralità della comunicazione và posta sul tu della persona che mi sta di fronte.

Ascoltare è voler capire. Non è certamente sufficiente ma di fatto è un punto di partenza necessario per creare una relazione significativa. Attenzione alle situazioni in cui si può vivere una specie di dialogo tra sordi. Per altri aspetti si deve aver consapevolezza che le parole non riescono ad esprimere per intero quella che è la persona con i suoi sentimenti. Questo allora apre alla necessità del voler capire.

Attenzione alle emozioni come chiave centrale per cogliere quello che l’altra persona vive.

Fra i vari tipi di risposta consideriamo la riformulazione o risposta riflesso (Rogers), dove chi parla trovi nell’intervento dell’altro un ritorno a quanto detto magari con parole diverse. È la funzione dello specchio che permette di focalizzare meglio una certa situazione. Si possono distinguere

- Riformulazione parafrasi in cui si ridicono le cose con parole diverse. E’ un intervento che non interrompe l’altro e il flusso dei suoi pensieri.

- Riformulazione riepilogo che offre un breve riassunto di quanto detto magari usando le parole che la persona ha usato.

- Riformulazione critica. E’ una risposta collocata nel contesto del discorso che vuole però in qualche modo insinuare un dubbio verso l’altro allo scopo di aiutarlo a cercare anche punti di vista

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Metodi e strumenti di accompagnamento 11

diversi da quelli ritenuti assoluti dalla persona. E’ un invito discreto a riesaminare la conclusioni che la persona ha dato alla sua situazione in modo a cercare vie nuove.

- Riformulazione sottolineatura dove un aspetto viene ulteriormente sottolineato per valutare tutte le conseguenze del suo comportamento.

In relazione ad alcuni atteggiamenti da vivere

Atteggiamento di difesa e/o di fiducia. E’ abbastanza evidente che nel primo caso l’altro è visto come

un potenziale pericolo da cui difendersi per cui la comunicazione sarà difficile, ambigua, carica di

ansia. Nel secondo caso invece il tipo il rapporto che si crea sarà impostato nel segno della

disponibilità ad esporsi e a raccontare la propria storia. Ci sarà un atteggiamento più empatico che

darà alla comunicazione uno spessore ben diverso.

Atteggiamento di valutazione e/o di accettazione. Il valutare vuol dire porsi in una posizione di poter

giudicare l’altro e quindi in qualche modo di superiorità, di distanza; diversamente l’accoglienza

lascia spazio all’altro di essere maggiormente se stesso, di esprimere quello che vive in quel

momento sapendo di essere ascoltato ma non giudicato. Questo implica rispetto e attenzione per la

storia di ciascuno che è e rimane un mistero da scoprire.

Atteggiamento di inflessibilità e/o di flessibilità. Nel primo caso si parte dai principi e poi in base a

questi ci si rapporta all’altro con quell’apertura mentale che talvolta i principi non hanno. Nel

secondo caso invece ci pone in ascolto con maggior tolleranza e con la consapevolezza che i

principi restano un ideale verso cui muoversi, ma che di fatto spesso nella situazione concreta si è

molto lontani da quegli ideali.

Atteggiamento di disponibilità ad ascoltare prima ancora che a parlare. Oggi si è invasi da una quantità

enorme di parole, di stimoli, di informazioni: tutti in qualche modo vogliono parlare e dire la loro.

Molto più difficile è invece mettersi nella disponibilità ad ascoltare anche in silenzio senza avere la

pretesa e l’urgenza di rispondere, di dare la soluzione, che l’altro magari si aspetta ma che potrebbe

anche essere aiutato a cercare da solo.

Si sono così voluto indicare delle tensioni che ogni persona in relazione e in comunicazione con gli altri,

vive. La presa di coscienza di queste tensioni, il chiamarle per nome può essere un aiuto per non

dimenticarle o minimizzarle e quindi in ultima analisi per crescere nella capacità di comunicare con gli

altri.

Ascolto empatico… ma non sempre si tratta di empatia. Il termine “ascolto empatico” indica la capacità di partecipare all’esperienza dell’altro sentendola in qualche modo propria, ed entrando quindi in una sintonia profonda con ciò che l’altra persona vive anche e soprattutto a livello affettivo. E’ il contrario dell’atteggiamento di indifferenza che si può vivere di fronte all’altra persona per il quale in qualche modo l’altro è ignorato, non esiste. «L’empatia è la capacità di lasciarsi coinvolgere nel mondo emozionale altrui e di prenderlo in considerazione, la persona empatica è quella che sa soffrire con chi soffre e gioire con chi gioisce; ha la singolare dote della comprensione»24. Vediamo prima in sintesi e poi in modo più preciso.

Interpretazione: la comunicazione del soggetto viene sottomessa all’analisi delle cause e delle circostanze da parte dell’ascoltatore che le ricostruisce in una prospettiva di causa ed effetto.

24

G. COLOMBERO, Dalle parole al dialogo, San Paolo, Milano 1988, 84.

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Metodi e strumenti di accompagnamento 12

Valutazione: di fronte alla comunicazione da parte dell’altro spesso si scade velocemente nella valutazione secondo schemi di valore e profili di significato.

Sostegno: è la tendenza a consolare, a sostenere, ad offrire supporto, una rassicurazione verso la sdrammatizzazione con il desiderio di eliminare la preoccupazione.

Soluzione: l’ascoltatore sente la spinta interiore ad offrire soluzioni, fondamentalmente precostituite che non necessariamente sono quelle che il soggetto in forma autonoma potrebbe prendere.

Investigazione: in molti casi pur nella comunicazione avvenuta rimane la curiosità da parte dell’ascoltatore. C’è un atteggiamento di indagine, di interrogatorio.

Valutazione, o «il vizio del giudizio»25 Di fronte all’espressione altrui spesso e velocemente si pone una valutazione secondo il sistema di valori, gli schemi mentali, i profili di significato e/o delle norme di colui che ascolta. Le proprie idee precostituite e i propri presupposti ideologici servono per valutare i fatti e i detti del soggetto. La risposta assume toni di sentenziosità e di colpevolizzazione e si esprime con frasi stereotipate: «Hai fatto bene», «Hai fatto male», «È giusto», «Attenzione!», «Devi», «Non devi», «Bisogna», «Non bisogna», «È sbagliata», ecc. Queste valutazioni raramente aiutano la persona perché essa non è preparata ad utilizzarle. Nel soggetto la valutazione esprime approvazione o disapprovazione e induce in lui un sentimento di inferiorità, oppure conformismo, rifiuto, sfiducia in forma più o meno consapevole. La valutazione positiva o negativa è sempre minacciosa per il fatto che comunque comporta il diritto di assumersi un’autorità particolare sul soggetto. Tre principi possono farci ascoltare senza giudicare: l) Rispondere al comportamento o all’idea, non alla persona: «Tu, sei bravo, ma non mi piace che faccia così». 2) Rispondere al presente, non al passato. Non dire: «Sei stato sempre un ritardatario». .. ma: «Quando arrivi in ritardo gli altri sono danneggiati perché tutti dobbiamo aspettarti». Avere cura di queste forme espressive ci salverà tante amicizie. 3) Rispondere descrivendo, non valutando. Descrivere ciò che viene detto, così non si fa mettere l’altro sulle difensive e si mantengono aperti i canali di comunicazione. Interpretazione, o «il prurito della teorizzazione» La comunicazione del soggetto viene sottomessa all’analisi delle cause e delle circostanze da parte dell’ascoltatore, che la ricostruisce segnalando le relazioni causa-effetto, le condizioni, le prospettive, le ragioni con un intervento soggettivo, in cui non c’è spazio per la vera e autentica situazione dell’altro. Gli interventi esortativi o intrusivi o che contengono formulazioni tecniche (ad esempio, «Hai rimosso qualcosa») interferiscono con la relazione empatica. Infatti, il parametro del vissuto è sempre quello dell’ascoltatore e non quello del soggetto. La realtà viene distorta con elementi esterni, con le proiezioni personali dell’ascoltatore secondo una logica di spiegazione causale. Il soggetto sperimenta la sensazione di non essere compreso e normalmente tende a rettificare l’espressione del suo interlocutore. Le frasi che introducono la risposta interpretativa sono del tipo «questa situazione si spiega perché..», «la ragione di tale atteggiamento è…», «evidentemente il tuo comportamento dipende da…», ecc. Sostegno, o «il virus della consolazione» Molti ascoltatori di fronte al problema, al conflitto, alla sofferenza altrui tendono a consolare, a sostenere, a offrire un supporto, una rassicurazione attraverso la sdrammatizzazione e il desiderio di eliminare la preoccupazione. Il rischio maggiore di questo atteggiamento è la passività del soggetto; in pratica la problematica del soggetto perde le sue reali misure e configurazioni per via di una valutazione o di una sopravvalutazione inadeguata.

25

Cfr. MARIO OSCAR LLANOS, Iniziazione al dialogo empatico nell’accompagnamento vocazionale, LAS, Roma 2008,

118-121-

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Metodi e strumenti di accompagnamento 13

Certamente, l’ascoltatore dimostra interesse e attenzione paternalistica o maternalistica, infondendo coraggio o diminuendo le vere dimensioni della difficoltà. L’atteggiamento, quando viene utilizzato non straordinariamente, ma in forma sistematica, non crea autonomia, ma dipendenza e sostituzione della responsabilità soggettiva. La risposta consolatoria o di sostegno si apre con espressioni come queste: «Non preoccuparti, questa è una situazione naturale, comune. .. tutto si rimetterà a posto»; «Tu ce la fai, riuscirai sicuramente a vincere…», «È una problematica molto triste ma tu sicuramente ti metterai in piedi..». Soluzione, o «la pretesa dell’arte della magia» L’ascoltatore sente la spinta interiore a offrire le sue soluzioni, fondamentalmente precostituite, che non necessariamente sono quelle che il soggetto in forma autonoma potrebbe assumere. La soluzione procede per via immediata, senza esplorazione o approfondimenti ulteriori portando a massimi livelli la correttezza metodologica. La risposta di soluzione comunica con una certa precisione la strada da seguire sotto forma di consiglio, d’indicazione delle azioni da compiere per risolvere la problematica, a volte anche in forma imperativa e/o categorica. Per evitare di porsi in una non necessaria posizione d’antagonismo, l’educatore deve strutturare i suoi interventi in modo che non siano né risposte categoriche né domande imperative. Le frasi che evidenziano l’atteggiamento della soluzione si configurano così: «Occorre che tu faccia in modo di…»; «Se farai questo allora…»; «La soluzione del problema è. . .». Investigazìone, o «la frana della curiosità» In alcuni casi, la comunicazione del soggetto sembra non essere sufficiente per la curiosità dell’ascoltatore. Costui deve sapere di più, sente la spinta a seguire la sua spontanea curiosità e pretendere di conoscere ancora altri dettagli delle vicende ricevute. L’atteggiamento si configura al modo dell’indagine, dell’interrogatorio, del lavoro del detective, della domanda di più elementi con forme d’intrusione. In questo modo, la comunicazione del soggetto sembra insufficiente, mancante di chiarezza, bisognosa di completamento. Non facilita il dialogo e cerca di curiosare sulla vita o investigare i fatti della persona; le domande valide in questo senso sono solo quelle di chiarificazione su ciò che la persona ha espresso, ma non quelle orientate a saperne di più o ciò che non è stato detto, cioè, non serve fare domande esplorative o inquisitorie. La curiosità di colui che ascolta non aiuta la persona, e poi può bloccare la sua fiducia. La risposta inquisitoria incalza il soggetto con domande precise e puntuali per raccogliere informazioni ritenute indispensabili al fine di comprendere la situazione. Il problema posto da questo tipo di atteggiamento e di risposta è quello di disperdere l’attenzione degli interlocutori in aspetti secondari, a volte anche non necessari, senza lavorare su ciò che è stato confidato e offerto come materiale di costruzione da parte del soggetto che può anche avere la sensazione di essere davanti a qualcuno che diventa invadente e forse anche mancante di rispetto. Il risultato è l’atteggiamento di difesa da parte del soggetto e naturalmente, il silenzio successivo. Le frasi che denotano l’atteggiamento investigativo sono più o meno queste: «Ci sono alcune cose che non risultano molto chiare, perché non mi dici se...»; «Forse ci sono altri elementi che possiamo approfondire in questo fatto, per esempio, mi chiedo se ...».

Alcuni aspetti più concreti

Uno stile incoraggiante

Rispetto alla situazione di incertezza e di confusione personale e sociale l’educatore deve saper porsi

come adulto che incoraggia.

Molto concretamente uno stile incoraggiante dovrebbe favorire nella persona il desiderio di cercare

nuove strade e nuovi percorsi rispetto a quelli finora sperimentati. L’educatore incoraggia nel momento

in cui si pone come colui che è garante della ricerca che la persona sta facendo; incoraggia quando

invita a cercare nuovi stili di vita che trovando le radici nel proprio passato, siano protesi verso il futuro;

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Metodi e strumenti di accompagnamento 14

incoraggia con un silenzio che sa dare tempo perché la persona trovi le parole giuste per esprimere i

suoi pensieri non pensati; incoraggia quando spinge ad allargare lo sguardo oltre l’orizzonte verso

l’infinito.

Porre le domande giuste

L’idea del saper porre le domande giuste nel cammino di accompagnamento è legata al fatto che

l’uomo, maschio o femmina che sia, è una persona che continuamente si pone domande alla ricerca di

un di più che sappia soddisfare quel desiderio di assoluto che c’è nel suo cuore. Ci devono essere però

alcune condizioni che l’educatore deve verificare26.

Il punto di partenza è una certa situazione di presenza che implica sicurezza di vita e di affetti: la persona

riconosce in sé un certo equilibrio che le dà pace. Nello stesso tempo vive anche una situazione di

assenza, di mancanza, di bisogno che si esprime con un interrogativo, un perché posto prima di tutto a

se stessi. Sembra che senza una mancanza, senza una domanda, senza un certo vuoto non si abbia la

possibilità di crescita.

Infine la dialettica tra assenza e presenza apre la via ad una situazione di trasformazione, ad una nuova

sintesi che coinvolge i due momenti precedenti27. La persona può così raggiungere un nuovo equilibrio,

una nuova situazione di pace, di senso di vita, ad un livello superiore rispetto al precedente, nella quale

opera un riordino della sua vita secondo la nuova prospettiva.

Le domande da porre dovrebbero allora avere la capacità di mettere in movimento la persona a partire

dal frammento di storia che ci viene presentata.

L’ascolto richiede una presenza reale ed è una delle più alte forme di disponibilità; esso rende

famigliare agli stranieri il terreno su sui camminano e li aiuta a scoprire la via che intendono percorrere.

Dunque, l’interrogativo più importante per chi vuole risanare non è “che cosa dire o che cosa fare”,

bensì “come creare uno spazio interiore abbastanza vasto da contenere una storia”.

Concretamente (sono esemplificazioni che suggerisce il Card. Martini).

o Avere una coscienza di fede

o Esperienza e consapevolezza del proprio peccato e della misericordia di Dio.

o Vivere un certo clima di preghiera

o Vivere in particolare il confronto con la Parola di Dio attraverso la Lectio per imparare a

riconoscere lo stile di Dio e in particolare per entrare nella logica pasquale (morte e vita).

o Cercare di mettere in ordine i propri sentimenti interiori

o Resistere nei momenti di confusione.

o Saper porre anche qualche gesto coraggioso verso il quale ci si sente spinti.

o Curare una certa unità interiore di vita con una progressiva correzione.

o Cogliere ed essere attenti ad una certa ragionevolezza. E’ l’aspetto razionale del credere.

o Vivere e fare scelte verso il bene e quindi in un orientamento verso il mistero di Dio.

o Valutare le mozioni interiori e la loro origine.

26

Cfr. F. IMODA, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, EDB, Bologna 2005, 167-172. 27

Solo la contemporanea presenza di tutti e due gli elementi di presenza e di assenza può garantire lo sviluppo normale.

Nel caso manchi un elemento può verificarsi un blocco nello sviluppo in una particolare area di vita.

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Metodi e strumenti di accompagnamento 15

o Nella scelta tenere conto dell’orientamento verso la vita di Cristo e rispetto alla concretezza

della vita (p.e. se ho una fidanzata non si pone, almeno da un certo punto di vista la scelta).

o Coltivare la memoria come memoria personale della salvezza. Come Dio mi ha fatto camminare

fino a questo punto.

o Cogliere la libertà che deriva da certe scelte… E’ la libertà dello Spirito.

o Mettere in preventivo le difficoltà (Rupnibk 136).

Tre frasi… tre suggestioni.

Una citazione dal Card. Martini che in Conversazioni notturne a Gerusalemme parlando dei giovani e della vocazione fra le altre cose dice: “A dire il vero, ciò che mi preoccupa è la mancanza di coraggio. […] Alla gioventù e alla Chiesa vorrei dire questo: abbiate coraggio! Rischiate qualcosa! Rischiate la vostra vita! […] Per paura delle decisioni ci si può lasciare sfuggire la vita. Chi ha deciso qualcosa in modo troppo avventato o incauto sarà aiutato da Dio a correggersi. Non mi spaventano tanto le defezioni dalla Chiesa o il fatto che qualcuno abbandoni un incarico ecclesiastico. Mi angustiano invece le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti […] Chi ha in coraggio rischia di sbagliare. Ma la cosa più importante è che solo gli audaci cambiano il mondo rendendolo migliore. Ai coraggiosi sono concessi amici sinceri. Essi imparano che la potenza viene dalle mani di Dio”28. «Programmare la vita è una cosa. Fare della nostra esistenza un bel progetto è una cosa. Orientare la nostra vita sui grandi valori altruistici della solidarietà, della pace, del bene, può essere una bella cosa, ma non è la vocazione. E’ appunto un’altra cosa. […] La vocazione vuol dire seguire questo risveglio dell’amore, ascoltare questa voce che di nuovo riusciamo a sentire fino a mettere la nostra vita integralmente a disposizione di una volontà d’amore»29. I passi per camminare verso Dio. Fra i giovani un primo passo è porsi la domanda: quale compito mi è stato assegnato nella vita? Cosa devo e posso fare? Chi si pone questa domanda diventa collaboratore di Dio nel mondo, sente che Dio si serve di lui, lo sostiene e lo accompagna. Quando le forze vengono meno, quando non capisci qualcosa, forse impari a pregare o ad aggrapparti a ciò che hai appreso in passato, da bambino magari senza comprenderlo. […] Il percorso che conduce a Dio dovremo pianificarlo come una camminata o una gita in montagna e prepararci. Chi va in montagna, prima si allena. Le forze spirituali possono essere allenate proprio come quelle fisiche. Se mi limito a guardare la televisione o a sedere davanti al computer, i “muscoli” dell’amore, della fantasia e anche del rapporto con Dio si indeboliranno sempre di più. Credo che dobbiamo fare esercizio: preghiere, esercizi spirituali, il dialogo, il servizio sociale sono sempre utili a questo scopo. Chi li pratica si avvicina a Dio. Sente con maggio forza di collaborare con Dio. Un passo nel cammino verso Dio potrebbe essere l’impegno come “missionario”, vivere la propria missione. Che significa? Molti di noi hanno una vita meravigliosa in confronto ad altri. Si tratta di imparare a donare a nostra volta la felicità. Tuttavia, ciò non avviene in modo automatico. Un po’ come un venditore di auto che deve apprendere il mestiere, anche noi dobbiamo imparare a risolvere i nostri problemi. Come possiamo donare la nostra fede, i nostri ideali, la nostra fiducia, il nostro amore ad altri che sono malati, sono soli, non sanno amare? […] Infine, un ulteriore passo è guardare con attenzione. Quando vedo la bellezza, non so spiegarla, eppure lo stupore può condurmi a Dio…30

28

MARTINI C.M., Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, Milano 2008, 62-64. 29

M.I. RUPNIK, Il cammino della vocazione cristiana, Lipa, Roma 2007, 43-44. 30

Cfr. MARTINI C.M., Conversazioni notturne a Gerusalemme, 16-17.