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DIOCESI DI PATTI I LUOGHI DELLA FEDE E DELL’ARTE ITINERARI DI VISITA a cura di don Basilio Scalisi

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DIOCESI DI PATTI

I LUOGHI DELLA FEDE E DELL’ARTE

ITINERARI DI VISITA

a cura di don Basilio Scalisi

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Diocesi di Patti – I luoghi della Fede e dell’Arte

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LA DIOCESI DI PATTI È una delle una delle più antiche e prestigiose Diocesi della Sicilia. Il suo territorio è incuneato tra la costa tirrenica e le montagne dei Nebrodi, costellate di paesi, monasteri e borghi. L’accoglienza, la gratuità, la fedeltà, l’unione familiare, la solidarietà, l’attaccamento alla fede e alle tradizioni sono i valori caratteristici di questa terra, fortemente orgogliosa del passato. Questa lodevole iniziativa culturale mi consente di rendere un servizio e un omaggio a questa gente e nello stesso tempo presentare elementi di storia ed alcune delle iconi della bellezza sparse tra le montagne e i borghi dei Nebrodi, splendenti di cultura e d’arte significanti la fede. È un viaggio ideale, attraverso luoghi fantastici ed immaginifici, le cui tappe si snodano attraverso valli, contrade, paesi e comunità, alla ricerca dello splendore, del fascino, della fede, della storia, del genio creativo di maestri e di maestranze, che specie in chiese e monasteri hanno deposto autentici capolavori. È un viaggio che ci fa penetrare nella memoria e nella civiltà dei Nebrodi, in piccoli paradisi di creatività: ritratti di una storia irripetibile, esperita nel silenzio di boschi profumati, che si dona ancora pregna di valori umani e divini, affascinanti e struggenti. Non è raro sorprendersi al cospetto di opere straordinarie, che ancora comunicano stupore per la bellezza delle forme e svelano l’anima segreta di una comunità che, custodendo la sua storia, guarda con fiducia al presente millennio. Questa terra – segnata dalla catena montuosa dei Nebrodi e incastonata tra le provincie di Messina, Catania, Enna e Palermo - col capoluogo di Patti, ha vissuto antiche e notevoli vicende. La Diocesi, nel primo millennio dell’era cristiana, vive la sua prima esperienza con centro a Tindari, il cui Vescovo Severino partecipa ai Sinodi Romani tenutisi sotto papa Simmaco. Nel 593 è Gregorio Magno a scrivere al Vescovo tindari-tano Eutichio per esprimergli elogio per lo zelo nella lotta all’eresia degli Angeliani. Tra i firmatari del Concilio Lateranense Romano, tenutosi sotto Papa Martino V nel 649, vi è anche Teodoro, vescovo della sede tindaridana. La di-struzione di Tindari ad opera dei musulmani, nell’anno 836, registra anche la fine del Vescovado. L’avvento in Sicilia dei Normanni segna l’inizio di una nuova pagina della storia della Diocesi. È il 1094, quando, dopo aver liberato la Sicilia dalla dominazione musulmana, il Gran Conte Ruggero d’Altavilla, che aveva il privilegio dell’Apo-stolica Legazia, fonda sul colle di Patti l’abbazia benedettina del SS. Salvatore, nomina abate il monaco Ambrogio e ne stabilisce l’unione alla Chiesa di Lipari. Nel primitivo cenobio di Patti, dopo l’infausta avventura di Gerusalemme, fissa la sua dimora la regina Adelasia, le cui spoglie sono custodite in uno splendido sarcofago nella Cattedrale. Basilica che ancora oggi, nonostante gli innumerevoli interventi e ristrutturazioni, guarda imponente alla città, con le forme suggestive del Seminario e del Palazzo Vescovile, ed abbraccia stupendi panorami che spaziano dalle montagne alle isole Eolie. È del 1131 la Bolla di Anacleto II, che riconosce il vescovado di Lipari-Patti, fondato per volontà di Ruggero. La piena autonomia avviene nel 1399, per decisione di Bonifacio IX.

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Per più di quattro secoli non hanno concreta attuazione le numerose richieste di ampliamento della diocesi, rivolte nel tempo al re ed alla sede papale dal Parlamento siciliano, al cui interno, tra i sessantuno prelati che componevano il braccio ecclesiastico, i vescovi di Patti occupavano allora il settimo posto ed in più occasioni furono deputati alla presidenza. Un primo ampliamento avviene nel 1822 con la bolla di Pio VII: vengono così aggregate a Patti 24 terre della diocesi di Messina. Il secondo ampliamento è del 1844 con la bolla «In suprema militantis Ecclesiae» di Gregorio XVI: altre dieci comunità provenienti dalle diocesi di Cefalù e di Nicosia sono unite a Patti. Da tale data i confini della diocesi di Patti rimangono immutati. Nel XX secolo, alle comunità originarie si aggiungono altri quattro comuni civilmente istituiti per smembramento da quelli originari. Evento di particolare rilievo nella storia diocesana è il terremoto del gennaio 1693, che coinvolse in una catastrofe rovinosa oltre sessanta centri, dei quali ben venti vennero interamente distrutti. Come documentano le cronache del tempo, l’opera di ricostruzione fu corale e vescovi e ordini religiosi, in uno con il clero e le popolazioni, gareggiarono per far riemergere gli splendori del passato o per innalzare nuovi templi, nella fecondità del barocco che, rispetto all’Italia, qui e nel resto della Sicilia ebbe un suo originalissimo modo di affermarsi e materializzarsi. Appartengono a questo periodo le trasformazioni e gli abbellimenti di tanti luoghi sacri con stucchi, volute, lesene, archi, portali, pulpiti, cappelle, statue. Scultori, architetti, pittori, che avevano operato nelle grandi città siciliane, dopo l’evento del 1693 ebbero accoglienza nelle cittadine dei Nebrodi e proprio qui hanno lasciato significative forme di religiosità e di misticismo. Larga parte di questa laboriosità è ancora viva e si offre in tutto il suo splendore. Tanta invece, in seguito all’improvvida espropriazione da parte dello stato unitario (dal 1860 e ss.), è andata perduta. Con i ben noti provvedimenti sabaudi, nel territorio della diocesi di Patti sono aboliti 16 ordini religiosi con un centinaio di case, 62 monasteri femminili e più di 40 Collegi di Maria. Gli operosi monasteri e conventi con chiostri, cappelle e celle di Patti, Mistretta, Pettineo, Capizzi, Ucria, San Fratello, Piraino, Sant’Angelo di Brolo, San Piero Patti, Gioiosa Marea, Naso, per citarne alcuni, sono espropriati e destinati agli usi più incongrui: caserme, ospedali, scuole, uffici, cimiteri, aule giudiziarie, abitazioni. Chiese, calici, dipinti, biblioteche, suppellettili e paramenti sacri vennero deturpati, saccheggiati e impietosamente svenduti nelle pubbliche piazze. La Diocesi, con le aggiunte del secolo XIX, arriva alle dimensioni attuali di 42 Comuni con 84 Parrocchie. Si estende su una superficie di circa 1.648 kmq. (oltre la metà dell’intero territorio della provincia di Messina) ed ha come confini naturali la fascia tirrenica che va da Oliveri a Tusa, per una lunghezza di ben 103 km., e la catena montuosa dei Nebrodi, che in modo frastagliato la circondano quasi totalmente e che costituiscono sui picchi lo spartiacque verso l’interno della Sicilia.

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È una terra, dove si può andare in breve tempo dal mare alle vette più alte, ove sono ubicati i comuni della Sicilia a maggiore altitudine: Floresta, Cesarò, Capizzi e San Teodoro. Sul litorale tirrenico sorgono invece i centri più recenti, ove le attività turistiche e il terziario si sono sviluppate intensamente in questi ultimi decenni. La zona geografica offre paesaggi incantevoli, boschi immensi ed incontaminati, vallate profondamente incise da oltre venti fiumare, un vasto patrimonio artistico con opere d’arte della civiltà greco-romana, arabo-normanna, con castelli disseminati dovunque e conventi e chiese bizantini, romanici, ma anche in stile rinascimentale, barocco e settecentesco. Gli oltre 165.000 abitanti, che sul piano dell’etnia appartengono ad un unico gruppo, popolano variamente i 42 paesi, che costituiscono un microcosmo vario, come caleidoscopio. Paesi che ricreano effetti, luci ed emozioni; rivelano e presentano angoli insospettati per silenzi e bellezza; creano scenari meravigliosi ritmati dai rintocchi delle campane delle oltre quattrocento chiese e santuari. Greci e romani, bizantini ed arabi, normanni e svevi, spagnoli e angioini hanno per primi plasmato le pietre di questi borghi, dove in seguito il rinascimento e il barocco lasceranno tracce indelebili. Ovunque sono evidenti gli influssi e i segni vitali di numerose e varie comunità religiose. Basiliani, cappuccini, frati minori, domenicani, salesiani, oblati, religiosi e religiose, si sono alternati lungo il corso dei secoli, determinando un’intensa fioritura di vocazioni. Qui pittori, scultori, architetti e artigiani locali, con la loro opera hanno aiutato gli altri uomini ad avvicinarsi al divino ed hanno contribuito a diffondere il messaggio evangelico. Alcuni sono noti: Gagini, Novelli, Sozzi, Li Volsi, Tomasi, Catalano, Antonello. Altri sono anonimi. Tutti però accomunati per aver interpretato i sentimenti e le emozioni dell’anima popolare. Le loro intuizioni documentano la fede, la vitalità, la creatività, i diversi modi con cui ciascuna epoca ha espresso le proprie speranze e ha esorcizzato le proprie paure. Vi è così tutta una rete capillare di edifici sacri, affreschi e quadri, intagli e sculture, argenti e parati: opere indicative di una attività costante e di un grande impegno per la bellezza. Antiche Chiese e prestigiosi monasteri, rimasti chiusi ed in stato di abbandono per lunghi anni, sono stati recuperati al culto e alla pubblica fruizione, così come le opere pittoriche e scultoree in esse custodite, tra cui spiccano i marmi gagineschi. La tradizione e la cultura dei Nebrodi si individuano anche nelle numerose feste popolari, delle quali sono emblematiche la Festa dei Giudei e la Cavalcata dei Tre Santi a San Fratello, la Festa di San Sebastiano a Mistretta e a Tortorici, quelle del Crocifisso e di San Basilio a San Marco d’Alunzio, di San Giacomo a Capizzi, dei Gesanti a Mistretta, del Venerdì Santo, dei Santi patroni e protettori: occasioni singolari per rinsaldare legami e rinvigorire tradizioni e memorie.

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Primo itinerario PATTI , TINDARI , OLIVERI , MONTAGNAREALE , L IBRIZZI , SAN PIERO PATTI Il nostro itinerario, necessariamente a tappe, inizia da PATTI (superficie: 50,14 kmq; abitanti: 13.7101), nobilissima e magnanima città di re e vescovi, saccheg-giata, distrutta e risorta a più riprese. La cittadina giace su una collinetta tra i monti Agatirso e Meliuso e domina dall’alto il suggestivo spettacolo offerto dalle isole Eolie e dall’omonimo golfo, che si estende da Capo Tindari fino a Capo Calavà. Secondo alcuni studiosi il nome deriverebbe dal greco “Epacten”, che significa “sulla sponda”. Ciò farebbe pensare a origini alquanto antiche. La tesi appare confermata da ritrovamenti archeologici di epoca romana nella contrada Playa che potrebbero essere le tracce del primo nucleo abitativo da cui deriva l’attuale. L’intestazione del “libro d’oro”, che si conserva nell’archivio storico municipale, nonché l’antico sigillo della città “Antiqua Tyndaris Pactarum Urbis”, fanno invece ritenere che Patti abbia avuto origine in seguito alla distruzione di Tindari nell’827, da parte dei Saraceni. Il periodo di maggior splendore e prosperità della città ha avuto inizio con la dominazione normanna. Nel 1166 la città divenne feudo dei Vescovi sino alla metà del 1200, quando ebbero inizio le lotte per l’emancipazione, che si conclusero nel 1312 con il riconoscimento di città comunale libera da giu-risdizione feudale. L’amministrazione cittadina venne affidata ai Giurati e la giu-stizia venne amministrata da un Capitano. Non mancarono nei secoli successivi rivendicazioni e lotte per la difesa di tale “laicato”. Durante il regno di Federico II di Aragona, i Pattesi parteggiarono per gli Angioini e per questo motivo la città venne distrutta per ordine dello stesso re. La tenacia degli abitanti consentì la ricostruzione della città, che fu nuovamente attaccata ed incendiata, questa volta ad opera del pirata Kair el Din (Ariadeno), detto Barbarossa. Nel 1537 la cittadina, dietro il pagamento di mille scudi, ottenne da Carlo V il titolo di “Città Magnanima”. Nel 1636 Ascanio Ansalone, amministratore del real patrimonio, dopo aver acquistato i feudi di Montagnareale e di Sorrentini, manovrò per acquistare anche Patti, ma il tentativo fallì per la dura opposizione dei Pattesi, che gli impedirono di prenderne possesso. Da quell’epoca, ogni anno, l’ultimo sabato di maggio, gli amministratori del Comune si recano al Santuario di Tindari per ringraziare la Madonna della protezione concessa in quei momenti difficili e consegnarle simbolicamente le chiavi della città. Il percorso culturale lungo le strette stradine del centro storico ci fa via via ammirare la normanna Basilica Cattedrale dedicata a San Bartolomeo col superbo campanile e le cappelle settecentesche, in marmi policromi, di Santa Febronia e del Sacramento, la Chiesa di Sant’Antonio Abate di epoca tardo-medievale, la trecentesca Chiesa di Sant’Ippolito, la Chiesa di San Michele che conserva un pregevole ciborio marmoreo del 1538 opera di Antonio Gagini, la Chiesa di San Nicolò di Bari del 1600.

1 Dato Istat - Popolazione residente al 31 dicembre 2010 – Vale per tutti i comuni della Diocesi

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Sono interessanti le opere d’arte custodite nella Cattedrale, tra cui la tavola di Antonello de Saliba, l’elegante statua marmorea “Madonna col Bambino” del cararrarese Antonio Vanelli realizzata nel 1505 e alcune tele di Olivio Sozzi. Preziosi arredi sacri (calici, ostensori, pissidi) e pregiati paramenti liturgici si conservano nelle sale del Museo Diocesano. A Patti Marina si segnala il complesso archeologico di età imperiale denominato “Villa Romana”, i cui mosaici policromi a motivi geometrici rivestono interesse storico-scientifico. Nella contrada San Giovanni svetta la nuova Chiesa concattedrale dedicata ai Santi Martiri del XX secolo, al cui interno si ammirano pregevoli sculture e pitture di arte contemporanea. Patrona e concittadina pattese è Santa Febronia. Secondo la tradizione, nacque, fu battezzata e subì il martirio a Patti, sotto Diocleziano. La stessa Santa pattese é onorata col nome di Trofimena a Minori, ove è custodito e venerato il suo corpo. Uno dei Vescovi che hanno reso prestigiosa la Diocesi è San Pietro Tommaso, nativo di Francia, carmelitano, vescovo di Patti e Lipari dal 1354 al 1359, che per incarico della Sede Apostolica svolse con successo delicate missioni di pacifi-cazione tra i principi cristiani. A circa dieci chilometri da Patti è ubicato TINDARI , proiettato a picco sul mare, in posizione incantevole, dove passato e futuro si saldano e dove civiltà greca, latina e cristiana s’incontrano in uno spazio che è geograficamente piccolo, ma culturalmente e storicamente sconfinato. La “nobilissima Tindaris” fu una delle città più strategiche della Sicilia, costruita nel 395 a. C. da Dionisio I, tiranno di Siracusa. In seguito fu base cartaginese, quindi passò ai Romani e, infine, fu distrutta nel IX secolo dai musulmani. È emblematico luogo di antichità, di storia e arte, di fascino, miti e suggestioni, di incanto e religiosità: le ciclopiche mura di cinta, il Teatro, la Basilica, i mosaici, l’antico Tempio sono testimonianze dell’antico splendore. Qui, nel Santuario, è il fascino della “Nigra sed formosa”, antica icona - recentemente restituita alle forme, ai colori, alla ricchezza originali, di cui si era perduta la memoria - che sintetizza, nella struttura lignea, la koinonia della Chiesa, manifesta nei segni bizantini, latini e arabi, che incantano e rendono unica questa scultura medievale. Da oltre un millennio il Santuario, con la sua Madonna Bruna, è meta ininterrotta per centinaia di migliaia di pellegrini e turisti provenienti da ogni angolo del mondo: dinanzi a Lei, palpitanti di emozioni, contemplano il mistero di Dio che si rivela nell’amore della Madre. Qui hanno sostato in preghiera innumerevoli generazioni, gente umile e personaggi che hanno segnato la storia e la cultura. Tra questi: il cardinale Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, il Nobel della letteratura, Salvatore Quasimodo, i cui versi ancora aleggiano soavi: “Tindari mite ti so / fra larghi colli pensile sull’acque / dell’isole dolci del Dio / oggi m’assali / e ti chini in cuore”.

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Sottostante il colle di Tindari, è ubicata la cittadina di OLIVERI (superficie: 10,29 kmq; abitanti: 2.168). Le sue origini sembrano, a parere di alcuni studiosi, collegate ad un terremoto che, distruggendo la città di Tindari, costrinse gli abitanti scampati ad inserirsi sulla sottostante costa, ritenuta più sicura. Le prime notizie documentate risalgono all’epoca normanna tra il 1061 e il 1195 quando fu costituito il feudo di «Liveri» ed assegnato al Monastero dei Bene-dettini di Patti. Sorse in quel periodo il castello feudale, il cui primo castellano sembra essere stato, con gli Aragonesi, Ferrais de Abellis, cui succedette nel 1360 Vinciguerra Alagona. Nel 1724 ne divenne proprietario il principe di Patti, Ludovico Paratore Basilotta e dopo varie successioni passò alla famiglia Bonaccorsi. Sino ad alcuni anni fa, Oliveri era famoso per la presenza della più grande tonnara della Sicilia. Antichi documenti parlano dell’istituzione della tonnara nel 1456 da parte del figlio del viceré di Palermo La tonnara, oggi, è stata trasfor-mata in un complesso turistico. Svettano sul centro abitato le semplici linee architettoniche del campanile e della Chiesa Madre dedicata a San Giuseppe. Quasi alle pendici del colle del Tindari, è la nuova chiesa dedicata alla Natività di N. S. Gesù Cristo con sculture e vetrate artistiche di arte contemporanea. MONTAGNAREALE (superficie: 16,23 kmq; abitanti: 1.676) ed il vicino borgo di Sorrentini, su una collinetta a pochi chilometri da Patti, offrono paesaggi di rara bellezza. Il paese all’epoca in cui sembra risalire il suo primo nucleo urbano, e cioè il XIV secolo, era chiamato “casale della montagna” e dipendeva dalla città di Patti. Il 28 marzo 1633 gli abitanti di Montagnareale reclamarono la propria autonomia che ottennero poi nel 1638, pagando un riscatto di quattromila ducati e sot-traendosi così dal peso delle gabelle e di altre servitù abbastanza pesanti. Il borgo entrò quindi a far parte del regio demanio e, per indicare la liberazione dal dominio pattese, assunse il nome di “reale”. Successivamente, nel 1642, Monta-gnareale fu acquistata da Giovanni Ambrogio Scrivano, che la cedette poi ad Ascanio Anzalone, il quale ne prese possesso con il titolo di duca. Sotto gli Anzalone prima e poi sotto i Vianisi, il comune godette di un notevole sviluppo economico e demografico, sino alla prima metà del 1700, epoca in cui iniziò la lenta decadenza del paese, accresciuta tra l’altro da una forte emigrazione. Nella Chiesa Madre di Montagnareale spiccano tra tutte la statua marmorea della Madonna delle Grazie, opera della scuola gaginesca, datata 1679 e la scultura lignea settecentesca dell’Ecce Homo. Inoltrandoci nell’entroterra pattese, seguendo la provinciale per San Piero Patti, tra selle di aranceti ed ulivi, appollaiato su una collina è il paesino di L IBRIZZI (superficie: 23,35 kmq; abitanti; 1.812), in splendida posizione panoramica sul golfo di Patti e sulla valle del Timeto. I primi documenti che fanno riferimento al primitivo paese risalgono al 1117. Sembra certo che il possesso dei luoghi e la giurisdizione sugli abitanti ebbero vicende alterne, con assegnazioni e rivendicazioni da parte dei Vescovi di Patti e

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dei nobili delle famiglie Aragona, De Orioles e De Centelles. Rilevanti furono quindi i conflitti nel corsi dei secoli, con svariate conseguenze sugli abitanti. Il popolo di Librizzi tuttavia disponeva di grosse estensioni di terre e godeva il diritto di lavorarla tre settimane per conto proprio e una per il Vescovo e il Monastero di Patti. In alto sulla collina è il centro storico con la Chiesa Madre. In basso è la piazza con la suggestiva chiesetta che custodisce la Madonna della Catena, di leggiadra fattura rinascimentale e riferibile ad Antonino Gagini. Raggiungiamo SAN PIERO PATTI (superficie; 41,63 kmq; abitanti: 3.136), che subito ci avvolge con la sua bellezza semplice. Non si hanno notizie certe sulle sue origini; di certo esisteva già dal IX secolo. Nell’827 gli Arabi, sbarcati in Sicilia, vi si erano stabiliti; in seguito, nell’XI secolo, quando Ruggero d’Altavilla liberò la Sicilia dai Saraceni, fra le tante battaglie, due furono combattute nel territorio di San Piero Patti. Per l’impresa Ruggero si fece aiutare dal Marchese di Monferrato, i cui soldati parlavano il francese, per cui, questo idioma, fondendosi con quello locale, diede origine a quel dialetto gallico-italico che, ancora oggi, è tipico di questa zona. Da quel periodo il borgo divenne di dominio regio e passò allo stato feudale. Si alternaro-no nel possesso ben 21 baroni, l’ultimo dei quali fu Gerolamo Corvino Filangeri. San Piero Patti ci presenta notevoli memorie del suo antico splendore: la settecentesca Chiesa Madre di San Pancrazio, la Chiesa di Santa Maria, l’antico Convento dei Carmelitani. Qui, nella Chiesa Madre, è custodito un Crocifisso ligneo del secondo Quattrocento, una delle scultore più misurate dell’umanesimo siciliano. Nella stessa sono ben conservati il “Gruppo dell’Annunciazione”, dalle forme classiche e dai panneggi baroccheggianti, e la “Madonna dell’Itria”. Presso la Chiesa del Convento sono una “Madonna del Carmelo”, dall’ampio mantello riccamente decorato, ed una “Madonna della Provvidenza”, opere tutte della seconda metà del secolo XVI e riferibili ai Gagini. Nella Chiesa di Santa Maria, del 1581, impreziosita nella facciata da un’ampia scalinata e da uno splendido portale barocco, eseguito da maestranze locali, è stupendo il soffitto ligneo, mentre di Antonello Gagini è la statua in marmo di “Santa Maria di Gesù” che si caratterizza per la dolcezza del viso della Madonna e per l’ampio panneggio. Sono pure da segnalare le caratteristiche e pregevoli fontane di San Vito e quella del Tocco.

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Secondo itinerario GIOIOSA MAREA , PIRAINO , SANT ’A NGELO DI BROLO , RACCUJA , SINAGRA , FICARRA , BROLO Situata sulla costa tirrenica, tra Capo d’Orlando ed il Golfo di Patti, è GIOIOSA MAREA (superficie: 26,32 kmq; abitanti: 7.209), cittadina originariamente posta sul promontorio di Capo Calavà, ove sono i resti dell’antica città medievale e di insediamenti databili al V secolo avanti Cristo. Dai documenti scritti risulta che l’antico borgo venne fondato nel 1366 da Vinciguerra Alagona sulla sommità del Monte di Guardia, a circa 800 metri sul livello del mare. In seguito Martino I tolse il feudo al figlio Bartolomeo e lo diede ai Vescovi di Patti che, nel 1537, furono confermati nel possesso col titolo di Baroni di Gioiosa Guardia. Nella seconda metà del XVIII secolo, a causa di alcune calamità naturali (1780, 1783 e 1786), gli abitanti si trasferirono sulla costa, dando vita all’attuale centro, costruito con materiali e tecniche propri dell’antica Gioiosa e con il medesimo disegno urbanistico. In un tempo prodigiosamente breve, chiese, altari, statue, tele, vie e luoghi civici vengono armonicamente ricomposti e quasi plasticamente riprodotti. Agli inizi del 1800 la riedificazione è quasi completa. Le attrattive naturali sono assolutamente uniche e varie, specie se ci si inoltra per le stradine delle numerose contrade, che popolano la montagna. Nel centro urbano si erge la Chiesa Madre, dedicata a San Nicolò di Bari, la quale custo-disce all’interno pregevoli tele del pittore Olivio Sozzi, sculture gaginesche, oltre a preziose opere lignee riccamente intarsiate. Poco più su, è la Chiesa di Santa Maria: qui è ben conservata, in una cappella ricca di mami mischi del secolo XVI, la statua della “Madonna delle Grazie”, vibrante di forte tensione religiosa, opera di scuola gaginesca. La “Madonna della Neve”, ubicata nella stessa Chiesa, è la statua più antica di Gioiosa. È quattrocentesca ed evidenzia un panneggio molto accentuato ed una espressione del volto tipica delle donne siciliane. La “Madonna della Catena” presenta invece una dimensione del manto e del busto più ampia e articolata: si considera una tarda replica dei modelli gaginiani. Nei locali adiacenti alla Chiesa Madre, dal 2006 è il Museo di Arte Sacra ove sono esposte alcune tipologie di opere artistiche, custodite da secoli in chiese e sagrestie e amorevolmente preservate dalle intemperie e dalle ingiurie del tempo. L’esposizione, nel limitato spazio disponibile, presenta opere significative dei periodi più importanti della storia religiosa e civile della cittadina di oggi e di ieri, Gioiosa Marea e Gioiosa Guardia. Pertanto, varie opere presenti nel Museo rimandano ai tempi della vitalità di Gioiosa Guardia. Lasciata Gioiosa, raggiungiamo la parte più antica della cittadina di PIRAINO

(superficie: 17,20 kmq; abitanti: 4.044), in posizione panoramica sull’alto di un colle, con l’antica torre feudale. Secondo alcuni studiosi Piraino è di origine greca e sarebbe stata fondata da alcuni coloni ellenici, immigrati in Sicilia tra il VII e il VI secolo. Il primo documento in cui si menziona Piraino risale al 1094, anno in cui “Prainus” venne

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assegnata all’arcivescovo di Messina. Sotto Federico II la famiglia dei baroni Lancia è la proprietaria del borgo. La baronia, nel 1656, fu elevata a ducato e passò alla dinastia dei Denti, il cui discendente Giovanni organizzò, insieme a Rosolino Pilo, la “Giovane Italia” e finì ucciso dai Borboni. Di notevole interesse storico e artistico e risalente al XVI secolo è la Chiesa Madre dedicata alla Vergine, che conserva l’antica ricchezza nella sobrietà degli stili che la contraddistinguono. All’interno: intarsi in legno, paramenti ed arredi di pregio. Nella cripta, sono suggestive le catacombe. Nella Chiesa della Catena, si trova la statua di “Santa Maria delle Grazie”, opera di scuola gaginiana, che incanta per la bellezza del volto, la decorazione dei capelli e del mantello, la doratura e la colorazione turchese originaria. Tra le altre numerose Chiese presenti a Piraino suscitano interesse la Chiesa della Badia, risalente al 1153, e quella di Santa Caterina, a tre navate, con varie tele del Seicento e del Settecento, una statua in legno dell’Ecce Homo, una statua gaginesca raffigurante Santa Caterina in marmo bianco di Carrara Non è possibile lasciare Piraino, soprattutto nelle giornate limpide, senza affac-ciarsi alla balconata della ripida collina per respirare profondamente i profumi e i sapori della costa del Tirreno sfumata come un sogno, con la “Torre delle ciaule”: monumento muto, testimone di secoli di paure, il selvaggio Calavà, il monte della Madonnina di Capo d’Orlando, la sempre verde macchia medi-terranea che sopravvive nonostante le varie crudeltà. Dalla fiumara, salendo su verso la collina e costeggiando aranceti e conche di uliveti, arriviamo a SANT ’A NGELO DI BROLO (superficie: 30,23 kmq; abitanti: 3.330), antico centro nel cui territorio si contano ancora oltre trenta chiese. Le origini risalgono all’epoca normanna quando il conte Ruggero, in segno di riconoscenza verso San Michele Arcangelo per la vittoria riportata sui Saraceni, fece edificare tra il 1070 e il 1084 un grandioso Monastero Basiliano dedicato al Santo ed assegnando in feudo all’abate gran parte del territorio circostante. Rimase sotto la giurisdizione degli abati sino alla seconda metà del XVIII secolo. Numerose famiglie nobiliari segnarono la storia di questo centro, tra cui si distinsero gli Angotta e gli Amato, di origine spagnola, le cui insegne fregiano la torre di Piano Croce, ricostruita dopo il terremoto del XV secolo, sulla base di un’altra preesistente alla dominazione araba. La Chiesa Santa Maria, a tre navate, ispirata al romanico, è stata rimaneggiata nel 1534. In essa sono una statua gaginiana della “Madonna del Lume”, interessante per il variegato modellato dei panneggi, e il grande altare maggiore barocco in marmo con intarsi e fregi, oltre a tele di bottega messinese del XVI secolo. Poco più in su è il Tempio del Santissimo Salvatore, luogo insigne per le memorie della comunità e la celebrazione dei sacri misteri, eretto nel XVI secolo, che ha contribuito significativamente all’educazione nella fede delle diverse generazioni. Dal 2007, nell’aula liturgica e nei locali adiacenti hanno trovato adeguata collocazione manufatti artistici provenienti da antichi luoghi di culto, che forniscono una preziosa documentazione della tradizione artistica e della storia locale.

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Nella parte bassa del paese, dopo aver percorso vecchie vie e vicoli suggestivi, è la seicentesca Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, con i portali scolpiti in pietra arenaria, la torre campanaria del 1650, gli interni in stile barocco e con raffinate opere d’arte, tra cui il gruppo marmoreo dell’Annunciazione. Qui a S. Angelo, oltre i basiliani, vi eressero Chiese e cenobi i domenicani, i mi-nimi, i minori osservanti, le clarisse. Sono splendide la Chiesa di San Domenico e quella di San Francesco d’Assisi, fascinosa per il portico con colonne monolitiche in arenaria, il Crocifisso ligneo del sec. XVII e il simulacro gaginesco della “Madonna delle Grazie”. Sulla sommità del paese svetta il campanile dell’antico cenobio di San Michele, polo basiliano di cultura e di civiltà. Da Sant’Angelo, proseguendo verso l’entroterra ed attraversando altipiani e vallate di noccioleti, si giunge a RACCUJA (superficie: 25,06 kmq; abitanti: 1.147), le cui origini si fanno risalire al 1091, quando il conte Ruggero la fondò nei pressi dell’abbazia basiliana di San Nicolò del Fico, costruita in una vallata ricca di gelsi e altri alberi fruttiferi. In un atto del 1271 compare con la denominazione di Raccudia. Nel 1296 divenne feudo degli Orioles e, successivamente, di altre nobili famiglie tra cui gli Aragona, i Valdina, i Rocca e i Branciforte. Vi fiorirono, nel tempo, diversi ordini religiosi: i carmelitani, i benedettini, i basiliani ed i minori osservanti. L’attuale centro abitato, con le sue piccole e tortuose vie, conserva ancora molto del suo aspetto antico e si snoda tra la Chiesa Madre e, nella parte alta, i ruderi del castello di epoca normanna. Merita una visita approfondita la rinascimentale Chiesa di Santa Maria di Gesù, che si offre come vera raccolta di storia dell’arte: dal portale in pietra arenaria, al gruppo marmoreo dell’Annunciazione, alle composte statue di San Sebastiano e di Santa Maria di Gesù attribuite a Rinaldo Bonanno, scultore locale vissuto nella seconda metà del 1500, alle maestose colonne in pietra marmorea abilmente plasmate da maestranze del luogo.

Da Raccuja, attraverso la provinciale che costeggia la fiumara, si giunge a SINAGRA (superficie: 23,92 kmq; abitanti: 2.781), cittadina che ha dato i natali al beato Diego, eremita. Di antica fondazione, sembra che il paese sia stato uno dei primi insediamenti della zona sia per la posizione della fiumara sia per il castello, posto sulla collina, che permetteva la visuale a nord e a sud senza essere visti. L’origine latina del nome “sinus”, cioè insenatura, fa pensare che sia stato fondato verso il 1100, al tempo dei Normanni. La storia documentata di Sinagra, però, comincia nel 1200: dopo essere appar-tenuto alla Regia Corte, nel 1250 il borgo fu concesso da Federico II di Svevia a Filippo, vescovo di Patti. Durante il regno di Federico II d’Aragona, nel 1597 fu feudo delle famiglie nobiliari dei Lancia e successivamente dei Ventimiglia, dei

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Russo, degli Afflitto e infine degli Joppolo che, per concessione nel 1654 di Filippo IV, ottennero il titolo di baroni di Sinagra. Il monumento più significativo di questa cittadina è la settecentesca Chiesa Madre, dedicata a San Michele Arcangelo, ad unica navata. In essa è la statua della “Madonna della Catena”, del 1542, attribuita a Giacomo Gagini, che si caratterizza per l’affettuosa posizione del Bimbo, quasi attaccato al volto della Madre, e per le decorazioni del mantello. Nell’abside è un Trittico marmoreo del XVI secolo, di scuola gaginiana. Prima di lasciare la cittadina, non può mancare una fugace visita alla carmelitana chiesetta del Crocifisso, esempio di architettura tardo-medievale. Dopo Sinagra, altra tappa è FICARRA (superficie: 18,62 kmq; abitanti: 1.593), situata su un colle verdeggiante, tra declivi di ulivi e boschi di uliveti e noccioleti. Qui ci si immerge nell’incanto di un borgo che nelle pietre, negli intagli, nelle Chiese, nei palazzi baronali, nei portali ha conservato quasi intatto il fascino dell’antico. Il paese viene citato per la prima volta nel 1082 in un diploma del conte normanno Ruggero e, nel 1198, lo si ritrova nel registro della Chiesa di Messina come un comune in cui si trova una fortezza saracena. Da ciò si ipotizza che Ficarra sia di probabile fondazione araba. L’origine del nome, infatti, potrebbe derivare dal termine arabo “fakhar”, che significa glorioso. Divenuto feudo baronale nel periodo svevo, appartenne a Guglielmo d’Amico per concessione di Federico II e passò poi agli Scaletta, a don Ruggero di Lauria e infine all’illustre famiglia Lancia, che protrasse la sua giurisdizione fino al secolo XVIII. Vi si insediarono nel tempo altre famiglie nobili, l’ultima delle quali è stata quella dei marchesi Piccolo. Il centro abitato è sovrastato da due colli sui quali insistono i resti di un castello medievale e quelli dell’antico Convento dei Minori Osservanti. La Chiesa Madre dedicata all’Assunta, costruita nel XVI secolo, si caratterizza all’esterno per la facciata con il portale in pietra arenaria, eseguito da operosi artigiani del luogo, e per l’eleganza compositiva e strutturale. All’interno, è di Antonello Gagini il marmo dell’Annunciazione (1506), scultura esile per proporzioni, ma di elegante decoro nel panneggio. È del 1536 il Tabernacolo gaginesco in marmo bianco, mentre è chiaramente firmata da Antonio Gagini la “Madonna con Bambino”. Nella stessa Chiesa Madre, autentico scrigno di memorie di uomini e di opere, è il “Polittico Antonelliano”, sul quale tante pagine sono state scritte da autorevoli critici per identificarne l’autore e svelarne l’enigma, il cui fascino resta sempre immutato e non si cela ai devoti. Da Ficarra, il nostro viaggio in una fuga crescente di paesaggi sempre più suggestivi ha come punto di arrivo la cittadina di BROLO (superficie: 7,86 kmq; abitanti: 5.846), adagiata sulla costa tirrenica. Il nome deriva probabilmente dalla parola “brolium”, che significa giardino. Di antica fondazione, il paese sorse e si sviluppò attorno al castello, eretto nel 1200

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su un costone roccioso a difesa della costa. Nel corso dei secoli vi imperarono, con vicende alterne, varie signorie tra cui gli Aragona, i Lancia ed i Longarini. Un tempo piccolo centro marinaro, Brolo vede la sua storia strettamente legata a quella del Castello, la cui grande torre quadrata con contrafforti maestosi, merli e feritoie, si conserva ancora in ottimo stato. La Chiesa parrocchiale, dedicata all’Annunziata, costruita alla fine del secolo XVIII da Ignazio Abate, è dignitosa nelle forme e nelle linee architettoniche. Racchiude al suo interno alcune pregevoli pale d’altare ed una fine statua in legno della Vergine Annunziata.