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DIRITTO PENALE – Lineamenti di parte speciale Cap. 1 DELITTI CONTRO LA PERSONALITA’ DELLO STATO 1. INTRODUZIONE Questo settore del diritto penale è caratterizzato da fattispecie obsolete nel linguaggio e nelle categorie, affette da gigantismo iperlesivo, stridenti quando non incompatibili con la nostra Costituzione (in particolare con i principi di tassatività, materialità e offensività). Spesso, poi, non viene rispettato nemmeno il principio di frammentarietà, in una materia nella quale le modalità di lesione sono decisive al fine di valutare il disvalore della condotta dell’agente. L’impronta autoritaria del codice è ben visibile attraverso la dilatazione delle figure di attentato, dalla moltiplicazione dei delitti di opinione e dalla creazione di fattispecie marcatamente soggettive. Dottrina e giurisprudenza hanno fatto in modo di rendere compatibili molte fattispecie non solo con questi principi, ma anche con le ragioni di tutela dell’ordinamento democratico, consentendo così la sopravvivenza dei delitti politici previsti dal codice, ma spesso al prezzo della loro paralisi applicativa o, viceversa, del superamento di un ragionevole parametro di certezza nell’interpretazione. L’impellenza di una riforma della parte speciale si manifesta con evidenza anche per coprire i vuoti di tutela che in questo quadro inevitabilmente si producono. Dal punto di vista storico, la struttura dei delitti contro la personalità dello Stato nel codice Rocco è in gran parte derivata dai delitti politici presenti nel codice Zanardelli e nel sistema do novelle incriminatrici successive. 2. LA LEGISLAZIONE PREMIALE La L. 15/1980 introduce una circostanza attenuante speciale per i delitti commessi con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, che opera “nei confronti del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenza ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia e giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o al cattura dei concorrenti”: la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da 12 a 20 anni, le altre pene sono diminuite da 1/3 alla metà.

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DIRITTO PENALE – Lineamenti di parte speciale

Cap. 1 DELITTI CONTRO LA PERSONALITA’ DELLO STATO

1. INTRODUZIONE

Questo settore del diritto penale è caratterizzato da fattispecie obsolete nel linguaggio e nelle categorie, affette da gigantismo iperlesivo, stridenti quando non incompatibili con la nostra Costituzione (in particolare con i principi di tassatività, materialità e offensività).

Spesso, poi, non viene rispettato nemmeno il principio di frammentarietà, in una materia nella quale le modalità di lesione sono decisive al fine di valutare il disvalore della condotta dell’agente.

L’impronta autoritaria del codice è ben visibile attraverso la dilatazione delle figure di attentato, dalla moltiplicazione dei delitti di opinione e dalla creazione di fattispecie marcatamente soggettive.

Dottrina e giurisprudenza hanno fatto in modo di rendere compatibili molte fattispecie non solo con questi principi, ma anche con le ragioni di tutela dell’ordinamento democratico, consentendo così la sopravvivenza dei delitti politici previsti dal codice, ma spesso al prezzo della loro paralisi applicativa o, viceversa, del superamento di un ragionevole parametro di certezza nell’interpretazione. L’impellenza di una riforma della parte speciale si manifesta con evidenza anche per coprire i vuoti di tutela che in questo quadro inevitabilmente si producono.

Dal punto di vista storico, la struttura dei delitti contro la personalità dello Stato nel codice Rocco è in gran parte derivata dai delitti politici presenti nel codice Zanardelli e nel sistema do novelle incriminatrici successive.

2. LA LEGISLAZIONE PREMIALE

La L. 15/1980 introduce una circostanza attenuante speciale per i delitti commessi con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, che opera “nei confronti del concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenza ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia e giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o al cattura dei concorrenti”: la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da 12 a 20 anni, le altre pene sono diminuite da 1/3 alla metà.

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Nonostante la norma si riferisca solo ai concorrenti, è da ritenere che, specialmente nei settori in cui l’anticipazione della punibilità attraverso le tecniche del dolo specifico e dell’attentato è la regola, essa includa anche la fattispecie monosoggettiva (si pensi al soggetto che, avendo collocato una bomba al fine di uccidere, ne permetta il ritrovamento prima dell’esplosione.

Circa la condotta che il concorrente deve tenere per poter beneficiare dell’attenuazione della pena, non si richiede il raggiungimento di un qualche risultato, ma solo che la condotta appaia ex ante idonea a conseguire delle prove o a paralizzare il processo criminoso.

La L. 304/1982 introduce numerose ipotesi premiali, circoscritte ai reati commessi o la cui permanenza sia iniziata prima del 31 gennaio 1982. Tale legge cerca di incentivare fenomeni di disgregazione all’interno dei gruppi terroristici e forme di ravvedimento che diano risultati concreti e utili sul piano delle indagini.

Art. 1: prevede una causa di non punibilità per “coloro che, dopo aver commesso, per finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico, uno fra i reati di (associazioni sovversive o con finalità di terrorismo e sovversione dell’ordine democratico; cospirazione politica; banda armata) non avendo concorso alla commissione di alcun reato connesso all’accordo, all’associazione o alla banda, prima della sentenza definitiva di condanna concernente i medesimi reati:

1. disciolgono o comunque determinano lo scioglimento dell’associazione o della banda;

2. recedono dall’accordo, si ritirano dall’associazione o dalla banda, ovvero si consegnano senza opporre resistenza o abbandonano le armi e forniscono in tutti i casi informazioni sulla struttura e sull’organizzazione dell’associazione o della banda.

Non sono punibili nemmeno coloro i quali impediscono che sia compiuta l’esecuzione dei reati.

Non sono altresì punibili:

1. sussistendo le condizioni di cui al 1° comma, coloro che hanno commesso i reati connessi concernenti armi, munizioni o esplosivi fatta eccezione per le ipotesi di importazione, esportazione, rapina e furto, i reati contro la fede pubblica, il reato di istigazione a delinquere avente ad oggetto armi, munizioni, esplosivi, documenti;

2. coloro che hanno commesso reati di favoreggiamento, assistenza ai partecipanti di cospirazioni o di banda armata, nei confronti di persona imputata di uno dei delitti indicati al 1° c., se forniscono completa informazione sul favoreggiamento commesso.

L’art. 2 prevede una diminuzione della pena per gli imputati di reati commessi per finalità di terrorismo o eversione dell’ordinamento costituzionale i quali tenendo, prima della sentenza definitiva di condanna, uno dei comportamenti previsti dall'art. 1, c. 1° e 2°, rendano, in qualsiasi fase o grado del processo, piena confessione di tutti i reati commessi e si adoperino efficacemente durante il processo per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o per impedire la commissione di reati connessi.”

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L’art. 3 prevede una riduzione della pena anche nei confronti dell’imputato che, “prima della sentenza definitiva di condanna, tiene i comportamenti previsti dall’art. 1, 1° e 2° comma, rende piena confessione di tutti i reati commessi e aiuta l’autorità di polizia o giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione e cattura di uno o più autori di reati commessi per la medesima finalità o fornisce comunque elementi di prova rilevanti per l’esatta costruzione del fatto e la scoperta degli autori di esso.”

La L. 34/1987 introduce nell’ordinamento la prima fattispecie di “ravvedimento postdelittuoso puramente dissociativo”: “si considera condotta di dissociazione il comportamento di chi, imputato o condannato per i delitti con finalità di terrorismo o eversione dell’ord. cost., ha definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo, tendo congiuntamente una delle seguenti condotte:

• ammissione delle attività effettivamente svolte (ruolo ricoperto e reati commessi solo dal terrorista pentito);

• comportamenti oggettivamente ed univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo; ripudio della violenza come metodo di lotta politica.

I benefici non si applicano ai delitti di STRAGE.

Il trattamento premiale previsto dalla L. 34/1987, fa dipendere il peso della sanzione dalla condotta tenuta successivamente alla commissione del delitto, e si rapporta così ad una concezione specialpreventiva della pena.

Il RAVVEDIMENTO, divenuto presupposto ormai esclusivo del regime premiale, assume il valore di elemento presuntivo nella valutazione negativa di pericolosità.

Il quadro che si delinea è quello di un ordinamento che si affida alle dichiarazioni dei rei per interrompere iter criminosi complessi e stabilisce graduazioni della pena in base all’atteggiamento soggettivo degli imputati.

3. I DELITTI DI ATTENTATO. PROFILI GENERALI

I delitti di attentato sono una categoria tipica del diritto penale politico, risalente ai codici preunitari. L’esigenza di anticipare la punibilità in questa materia è stata da sempre avvertita in nome della necessità di cogliere l’aggressione al bene tutelato nella sua fase embrionale, senza attendere che gli sviluppi della condotta la rendano di fatto trattabile solo con la forza e non più dalla giurisdizione penale.

1. La condotta

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La struttura dei delitti di attentato anticipa la punibilità rinunciando alla descrizione della condotta e utilizza locuzioni come “commette un fatto diretto a…”, “attenta”; “promuove” seguite dall’indicazione dell’evento.

1. Idoneità e univocità degli atti

Dottrina e giurisprudenza hanno cercato di verificare se si possano ricondurre i termini dell’attentato a quelli del DELITTO TENTATO, di cui all’art. 56 c.p., il quale condiziona la punibilità della condotta alla idoneità e univocità degli atti. Impone cioè che la pena sia il corrispettivo di una valutazione di pericolosità per il bene tutelato attraverso un vaglio di causalità ipotetica che dimostri che l’evento si sarebbe probabilmente verificato.

La dottrina più garantista, afferma che la condotta dell’attentato, oltre che diretta deve essere appunto idonea. Essa fa leva sull’art. 49, 2° comma, c.p., che disciplina il reato impossibile, il quale si configura quando “l’azione sia inidonea a cagionare l’evento dannoso o pericoloso”. L’idoneità diverrebbe quindi elemento ulteriore e necessario rispetto alla tipicità formale della condotta, per dar luogo al reato. Tale disposizione si riconduce peraltro al più generale principio di offensività desumibile dalla Costituzione.

La giurisprudenza in un primo momento ha sostenuto la tesi dell’autonomia dell’attentato rispetto al tentativo, per la quale qualunque condotta diretta a realizzare il fine, indipendentemente da ogni valutazione di pericolosità, integrerebbe la fattispecie. In un secondo momento si ammette la necessità di una valutazione della pericolosità della condotta, ma solo nei limiti della non inidoneità. In questo modo, il giudizio di probabilità sul quale si modella l’art. 56, viene sostituito da uno di possibilità, e quindi da una valutazione minima di pericolosità.

3.2 L’elemento soggettivo

L’elemento soggettivo di questi delitti è il dolo generico intenzionale, salve le ipotesi dove, in aggiunta, sia espressamente previsto il dolo specifico (es. art. 280 c.p. – attentato per finalità terroristiche o di eversione).

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La direzione della volontà è proiettata su un evento la cui realizzazione non è necessaria al fine della consumazione dell’illecito, ma coincide con la direzione obbiettiva della condotta. La volontà del soggetto aderisce cioè alla direzione degli atti.

Ritenere diversamente che il dolo sia specifico significa svalutare la materialità della fattispecie e ridurre la proiezione sui fini ad una mera componente soggettiva.

3.3 Il tentativo

La particolare struttura dei delitti di attentato non rende configurabile il tentativo. Non è applicabile quindi l’art. 56, altrimenti si anticiperebbe troppo la punibilità (al pericolo del pericolo) con una totale rarefazione della materialità della condotta.

4. I DELITTI DI ATTENTATO IN PARTICOLARE

4.1 Art. 241 c.p. Attentati contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato

L’art. 241 è la prima disposizione del Tit. I, libro II c.p. e configura la più grave ipotesi di attentato contro la personalità dello Stato, punita con l’ergastolo. Esso ha la funzione di salvaguardare l’interesse generale alla conservazione e al mantenimento delle condizioni elementari di esistenza dell’ordinamento statuale. Si tratta di un reato comune, e nella sola ipotesi in cui il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale si applica la fattispecie di alto tradimento.

Il reato può essere integrato sia da una condotta commissiva che omissiva, purchè diretta verso uno tra i seguenti eventi – scopo:

1. sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero. Il territorio dello Stato, ex art. 4 c.p., comprende il territorio della Repubblica e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Sono esclusi dall’area di tutela navi e aeromobili. Per “sovranità” si intende un reale dominio territoriale, quindi la capacità dello Stato di esercitare le propie funzioni tipiche.

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2. menomare l’indipendenza dello Stato.

Implica una riduzione dell’autonomia politica dello Stato, perciò non attiene alla fisicità del controllo territoriale ma all’esercizio delle funzioni e dei poteri.

3. disciogliere l’unità dello Stato

Rientrano in tale ipotesi le azioni separatiste volte a costituire, all’interno dello Stato, Stati autonomi o federati, a scinderlo cioè in più parti indipendenti.

4. distaccare dalla madre patria una colonia o un altro territorio soggetto temporaneamente alla sua sovranità

La disposizione rivela oggi la propria inadeguatezza rispetto all’individuazione dell’oggetto di tutela. L’Italia fa parte del processo di integrazione europea per cui le categorie utilizzate dalla norma appaiono obsolete.

I processi di mondializzazione dell’economia hanno determinato possibilità che forze economiche, in forma multinazionale, incidano pesantemente sulla stessa autonomia degli Stati, attraverso ricatti e pressioni. Su questo versante sono altri gli strumenti che potrebbero impedire o ostacolare questi fenomeni: regole in materia di trasparenza, concorrenza e disciplina dei mercati, ecc.

Inoltre la forma federale oggi appartiene agli scenari possibili dell’evoluzione istituzionale del nostro Paese.

Molte condotte, che astrattamente rientrerebbero nell’art. 241, sono quindi in realtà l’esplicazione, in un sistema democratico, di libertà e diritto primari e corrispondono a legittime scelte politiche già trasformatesi in regole giuridiche.

4.2 Art. 280. Attentato per finalità terroristiche o di eversione

La fattispecie è stata introdotta con L. 15/1980: “chiunque per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, attenta alla vita o all’incolumità di una persona, è punita nel primo caso con la reclusione non < 20 anni, e nel secondo con la reclusione non < 6 anni.”

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L’interesse giuridico tutelato è sia la salvaguardia della convivenza civile e sia la tutela dell’ordine costituzionale.

La finalità di terrorismo e di eversione dell’ordinamento democratico appartiene al contenuto del dolo specifico, ma produce conseguenze anche sull’elemento oggettivo del reato, in quanto deve essere un connotato della condotta e della sua direzione.

Il termine “terrorismo” indica comportamenti violenti preordinati a spargere panico e terrore nella comunità o presso determinati gruppi.

La locuzione “eversione dell’ordine democratico” è da intendersi nel senso di sovversione dell’ordine costituzionale, quale complesso di principi e istituti nei quali si esprime la forma democratica dello Stato secondo la Carta.

La finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico deve improntare l’azione astratta costituendo oggetto immediato e diretto dell’intenzione dell’agente.

Il concetto di “incolumità” non può ricomprendere le mere percosse, ma deve mantenere quel carattere di gravità la cui soglia minima è la lesione personale. Diversamente, vi sarebbe una notevole sproporzione tra esiguità del fatto e carico punitivo.

La pena è aggravata (commi 2,3,4,) se dal fatto derivano una lesione grave o gravissima o la morte o se i fatti sono rivolti contro persone che esercitano funzioni giudiziarie o penitenziarie, di sicurezza pubblica, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni.

In dissonanza con il 5° comma (“le circostanze attenuanti concorrenti con le aggravanti previste nel 2° e 4° comma non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste”), si deve ritenere che il 2° e il 4° comma non configurino circostanze aggravanti, ma reati autonomi, cosi come ha sostenuto la Corte cost.: esse rappresentano il fine realizzato cui tendeva la condotta di attentato, per cui è assurdo porre in concorso l’evento interno a un delitto con l’evento proprio di circostanze attenuanti.

4.3 Art. 284. Insurrezione armata contro i poteri dello Stato

Questa ipotesi criminosa, derivata dal codice Zanardelli, ha avuto scarsissima applicazione.

Essa punisce con la pena dell’ergastolo “chi promuove un’insurrezione armata contro i poteri dello Stato”.

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“Promuovere” significa compiere atti diretti ad un certo scopo, per cui ricorre anche qui lo schema del delitto attentato.

Gli studiosi di diritto internazionale hanno elaborato questa definizione di insurrezione: è la sollevazione in armi di grandi masse di cittadini, di notevole estensione ed organizzazione, portata contro quel certo Stato cui compete, in un determinato momento storico, pienezza di poteri su un certo territorio.”

Il fenomeno, per poter integrare un reato, deve comunque rappresentare un serio pericolo per l’assetto dello Stato.

Il carattere iperlesivo dell’evento al quale mira l’attività prodromica impedisce comunque che il giudizio di idoneità assolva ad una reale funzione di garanzia, perché viene affidato a parametri storico-politici.

Contro la possibilità che l’indeterminatezza della formula legislativa si traducesse in un’applicazione della fattispecie in senso essenzialmente soggettivo, e svincolato dal requisito di necessaria offensività, si è pronunciata la giurisprudenza, affermando che: “perché si abbia promuovimento di insurrezione armata non è sufficiente una mera attività di propaganda, ma occorre che si creino concreti presupposti per un’insurrezione che sia dotata di potenzialità offensiva”.

L’insurrezione si considera armata anche se le armi sono soltanto tenute in un luogo di deposito (c. 3°).

La norma fa riferimento ai poteri dello Stato nel loro assetto complessivo (è come se la disposizione dicesse “contro lo Stato”).

Costituisce autonoma fattispecie di reato il fatto di chi partecipi all’insurrezione (reclusione da 3 a 15 anni). Si presume in tale ipotesi che l’insurrezione sia avvenuta a che taluno vi prenda parte senza aver contribuito a promuoverla.

Il dolo deve comprendere nella volontà e nella rappresentazione l’intero complesso delle attività propedeutiche nonché l’evento insurrezione come scopo finale dell’agire. Anche l’idoneità deve essere compresa nell’oggetto del dolo.

Costituisce circostanza aggravante ad effetto speciale, rispetto alla fattispecie di partecipazione, l’assumere un ruolo di direzione o lo svolgere una qualsiasi attività direttiva nell’insurrezione. In tal caso la pena è dell’ergastolo (2° comma).

4.4 Art. 285. Devastazione, saccheggio e strage

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L’art. 285 riprende gli eventi della fattispecie di devastazione saccheggio e strage, adottando lo schema del delitto di attentato e qualificandoli col dolo specifico costituito dallo “scopo di attentare alla sicurezza dello Stato”

Come afferma una recente giurisprudenza, ai fini della configurabilità dei delitti di pericolo e attentato vi deve essere almeno una estrinsecazione della condotta, tale da rivelare in modo inequivoco nella sua oggettività l’intenzione dell’agente di raggiungere il fine che si è prefissato: devono essere quindi presenti necessariamente i requisiti di idoneità degli atti e di univocità della loro direzione teleologica. I reati devono quindi ritenersi realizzati nel momento in cui l’interesse tutelato è, per la condotta, esposto a pericolo.

Nel caso di specie il delitto di strage venne ritenuto consumato al momento della sistemazione di una borsa contenente esplosivo su un vagone treno.

La “strage” è un evento di pericolo e si realizza allorché una condotta, posta in essere al fine di uccidere, realizzi un fatto che pone a rischio la pubblica incolumità.

L’ulteriore anticipazione della soglia di tutela che deriverebbe dall’art. 285 viene cancellata dal rispetto del principio di offensività.

Si ha devastazione quando il fatto di danneggiamento si evidenzia per la indiscriminata potenza distruttiva, per l’estensione territoriale interessata e per la notevole quantità di cose mobili coinvolte.

Il saccheggio è il fatto commesso da più persone che si impossessano indiscriminatamente di una rilevante quantità di oggetti con la commissione di reati contro il patrimonio.

Data l’anticipazione della soglia di punibilità “ai fatti diretti a” è indifferente che la condotta criminosa giunga ad integrare gli estremi del saccheggio o della devastazione. E’ comunque necessario che il pericolo sorga rispetto al territorio dello Stato.

L’elemento soggettivo è costituito dal dolo generico dei fatti volti alla devastazione e al saccheggio, cui si aggiunge il dolo specifico costituito dall’intento finalistico di recare offesa alla sicurezza dello Stato. Nella STRAGE a questa finalità si aggiunge il fine di uccidere: un dolo specifico duplice e concorrente.

La finalità di recare offesa alla sicurezza dello Stato non deve essere un semplice fine-motivo, ma deve essere rivelato dai connotati oggettivi della condotta.

La pena prevista è l’ergastolo.

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4.5 Art. 286. Guerra civile

La guerra civile consiste in una lotta armata tra due diverse fazioni della popolazione dello Stato, connotata da notevole importanza e pericolosità, da una certa organizzazione di entrambe le parti, da un’apprezzabile continuità temporale e da una tendenza espansiva tale da distinguerla da moti sporadici, numericamente e territorialmente circoscritti.

Mentre nei rapporti tra Stati la guerra è ancora una forma di tutela giuridicamente legittima, nel diritto interno essa integra sempre un illecito penale.

La valutazione di idoneità dei fatti volti a suscitare la guerra civile dipende dal momento storico.

Il dolo richiesto si sostanzia nella coscienza e volontà di compiere un fatto idoneo a provocare la guerra civile.

La pena prevista è l’ergastolo.

4.6 Art. 289. Attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali

La norma tutela la libertà funzionale delle fondamentali istituzioni dello Stato garantendo l’effettivo e regolare esercizio delle attribuzioni e prerogative degli organi costituzionali e delle assemblee regionali.

Viene punito ogni fatto diretto a impedire o turbare l’esercizio delle attribuzioni o prerogative del P.D.R o del Governo e delle funzioni delle Assemblee legislative o regionali o della Corte cost.

Per la consumazione è sufficiente che siano posti in essere atti idonei e diretti all’impedimento o al turbamento, mentre non occorre il conseguimento di un risultato.

Si ha impedimento di fronte ad ogni forma di coazione o inganno volta a conseguire un esercizio diverso dal dovuto e comunque non conforme alla volontà dell’organo. E’ prevista la pena della reclusione non < 10 anni.

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Il turbamento è invece l’effetto di intromissioni più contenute che rendono difficoltoso l’esercizio di funzioni, prerogative e attribuzioni. E’ prevista la pena della reclusione da 1 a 5 anni.

Per funzioni si intende il complesso di attività espletate dagli organi.

Le attribuzioni e prerogative indicano le facoltà, i privilegi o i diritti speciali che la legge riconosce anche ai componenti degli organi cost.

Data l’ampiezza della formula, controversa è la rilevanza di impedimenti e turbamenti derivanti da comportamenti interni agli organismi stessi: il c.d. ostruzionismo parlamentare, in particolare quello sistematico (quello episodico crea minori problemi). L’ostruzionismo fa però ormai parte dei principi regolatori delle Assemblee. Sono quindi i regolamenti delle Camere a dover valutare fino a che punto l’attività dei loro membri possa spingersi senza che si abbia abuso di potere e quindi reato.

Il dolo è generico e si sostanzia nella coscienza e volontà di compiere atti diretti a impedire o turbare il libero esercizio delle funzioni istituzionali degli organi indicati.

La norma prevede espressamente una clausola di riserva, per la quale si applica solo se il fatto non costituisce più grave delitto.

5. DELITTI ASSOCIATIVI. PROFILI GENERALI

Il paradigma dei delitti ASSOCIATIVI si ritrova nell’art. 416, che prevede l’associazione per delinquere.

E’ un istituto che delinea una responsabilità nei confronti dei singoli, indipendentemente dalla commissione dei fatti che costituiscono lo scopo del legame associativo. Si anticipa in tal modo la tutela rimuovendo il pericolo che si accrescano le potenzialità criminali dell’associazione e che vengano conseguiti gli obiettivi delittuosi.

Perché sia rispettato il criterio di offensività, occorre che vi sia un apparato strumentale che renda concreto il rischio della commissione di futuri delitti e la potenzialità espansiva del gruppo. Solo l’esistenza del pericolo giustifica la punibilità di un’attività meramente preparatoria: non troverebbe altrimenti fondamento la deroga all’art. 115, per il quale il mero accordo criminoso non dà luogo a pena, se non sia seguito dalla commissione del delitto, quanto meno in forma tentata.

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Il Codice Rocco ha delineato numerose fattispecie associative. Tra queste, la Corte cost. ha dichiarato incost. l’associazione internazionale.

L’accavallarsi di fattispecie, concepite al di fuori di una visione sistematica complessiva, rende spesso inestricabile il compito dell’interprete, quando un medesimo fatto è inquadrabile nell’ambito di molte di queste norme, senza che ciò significhi un allargamento alla tutela di una pluralità di beni giuridici.

1. La compatibilità delle fattispecie associative con il diritto di associarsi liberamente

Ci si chiede se queste fattispecie siano compatibili con gli artt. 18 e 49 Cost..

L’art. 18 sottopone il diritto dei cittadini di associarsi liberamente a 3 limiti, a cui va aggiunto quello sancito dalla XII Disp. finale della Cost., che rispecchia la rottura con il precedente regime fascista:

1. che gli scopi delle associazioni non siano interdetti ai singoli dalla legge penale.

In questo senso appaiono del tutto incompatibili, oltre alla già abrogata disposizione sulle associazioni internazionali, l’associazione antinazionale, (art. 271) dopo che la stessa Corte cost. ha sancito l’incost. dell’art. 272 che sanzionava il corrispondente delitto di opinione per il singolo (propaganda e apologia antinazionale).

Problematico appare anche l’art. 270, associazione sovversiva, norma espressamente introdotta dal regime per colpire le associazioni socialiste, comuniste ed anarchiche. La fattispecie infatti schematizza così le finalità di tale tipo di associazione: “stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, sopprimere violentemente una classe sociale, sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali nello Stato”.

La giurisprudenza rielaborò la sua oggettività ponendola a tutela del carattere democratico e pluralista dello Stato repubblicano, rispetto ad associazioni aventi un programma di azioni violente. IL carattere della violenza come metodo della lotta politica oscurò totalmente il significato degli scopi delineati dalla fattispecie, al punto che essa fu applicata anche per sanzionare associazioni neofasciste.

Tale sforzo può dirsi cessato con l’entrata in vigore dell’art. 270 bis (associazione con finalità di terrorismo o eversione dell’ordinamento democratico), il quale, pur non avendo abrogato l’art. 270, ne costituisce un duplicato moderno e adeguato al mutamento dello scenario politico.

Dubbi di legittimità cost. sussistono anche per l’art. 304 (cospirazione politica mediante accordo) che vengono punite anche quando il reato non si realizza. In questo caso infatti non si giustifica la deroga all’art. 115, perché sono

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assenti indici di pericolosità che permettono il rispetto del principio di offensività. In ciò risiede anche il criterio distintivo rispetto alla fattispecie di cospirazione politica mediante associazione del seguente art. 305.

La norma dell’art. 304 si rivela quindi incompatibile proprio con l’art. 18 Cost. perché finisce col punire forme di intenzione delittuosa sul piano relazionale, che non hanno rilevanza se manifestate dal singolo agente.

2. che l’associazione non abbia carattere segreto.

La trasparenza delle attività pubbliche costituisce un valore coessenziale al corretto funzionamento della democrazia. Vi sono però attività relazionali che costituiscono estrinsecazione delle scelte morali, religiose e di opinione dei singoli che meritano di rientrare nella tutela della privacy..

La L. 17/1982, che ha introdotto il reato di associazione segreta, ha infatti definito come segrete le organizzazioni che occultano la loro esistenza o tengono segrete finalità ed attività sociali o rendono sconosciuti in tutto o in parte i soci e sanziona lo svolgimento da parte di queste associazioni di attività dirette ad interferire nell’esercizio di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, di enti pubblici anche economici nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale.

La segretezza è quindi sanzionata dove essa si presenti come uno strumento non democratico di intervento nell’esercizio della volontà politica. Il legislatore ha preso come modello storico la loggia segreta P2.

3. che l’associazione non sia organizzata militarmente.

E’ organizzazione militare quella costituita mediante l’inquadramento degli associati in corpi, reparti o nuclei, con disciplina e ordinamento gerarchico interno analoghi a quelli militari, con l’eventuale adozione di gradi o uniformi, e con organizzazione atta anche all’impiego collettivo in azioni di violenza o di minaccia. E’ punito con la reclusione da 1 a 10 anni chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni a carattere militare, le quali perseguono, anche indirettamente, scopi politici. Tale organizzazione è pericolosa in quanto trasferisce sul terreno della forza ciò che deve essere lasciato al dispiegarsi del dibattito politico.

4) è vietata la ricostituzione, in qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.

Nell’ambito delle fattispecie associative le norme indicate distinguono vari ruoli:

• promotore, colui che prende l’iniziativa per la creazione dell’associazione, portando a conoscenza dei terzi il programma sociale;

• costitutore, chi crea l’organizzazione, attraverso il reclutamento di persone ed il reperimento di mezzi.

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• organizzatore, chi fornisce una struttura organizzativa al complesso criminoso, operando con autonomo potere decisionale.

• direttore, chi svolge funzioni di guida e gestione, fissando regole di condotta, tempi e modi dell’azione criminosa, ecc.

• partecipe, chi svolge attività materiali fungibili ed esecutive per la sopravvivenza dell’organizzazione e/o per il perseguimento dei fini.

La distinzione rilevante i fini della pena è tra le prime 4 categorie e l’ultima, che è sanzionata con minor rigore.

5.2 Responsabilità per reato associativo e concorso nei delitti scopo

Nel corso degli anni ’80 è venuta formandosi una tendenza giurisprudenziale a ritenere configurata una responsabilità, per i delitti posti in essere da molte organizzazioni terroristiche, che risaliva ai vertici e ai dirigenti della struttura, in base ad un meccanismo probatorio presuntivo fondato sulla collocazione gerarchica degli stessi.

Questo nonostante un noto ed autorevole precedente della Cassazione avesse affermato il principio opposto, per cui occorre la prova positiva dello specifico mandato di volta in volta emesso.

La tendenza viola invece il principio di colpevolezza e prima ancora il principio della personalità della responsabilità penale, in quanto configura una forma mascherata di responsabilità per fatti altrui.

Si è trattato di un indirizzo che ha caratterizzato il periodo storico dell’emergenza rispetto ai fenomeni sovversivi violenti e che è stato successivamente abbandonato.

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6. I DELITTI ASSOCIATIVI IN PARTICOLARE

6.1 Art. 270 bis. Associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico

La fattispecie è stata introdotta con L. 15/1980. Viene punita la promozione, costituzione, organizzazione e direzione di associazioni che “si propongono il compimento di atti di violenza con il fine di eversione dell’ordine democratico”, nonché la partecipazione a tali associazioni.

L’espressione “ordine democratico” va intesa come “ordine costituzionale”.

La pena è della reclusione da 7 a 15 anni per chi promuove, organizza, costituisce o dirige l’associazione, e da 4 a 8 anni per chi vi partecipa.

La fattispecie ha sollevato problemi di coordinamento con il reato di associazione sovversiva. E’ escluso che il legislatore abbia voluto abrogare l’art. 270; va invece evidenziato il carattere di specialità proprio del 270 bis per il riferimento al compimento di “atti di violenza”. Se entrambe le fattispecie prestano tutela contro un programma di violenza, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 270 bis, è necessario che la violenza abbia finalità di eversione dell’ordine democratico. In questo senso l’art. 270 sembra di dubbia costituzionalità, in quanto vieta quelle associazioni che abbiano un astratto programma di apologia di metodi violenti di lotta politica, che peraltro non utilizzano concretamente ed immediatamente. Mentre la valutazione di idoneità della struttura organizzativa al perseguimento del programma di azioni violente non può essere espressa a prescindere da forme di concreta operatività e dunque dall’integrazione della ipotesi di associazione eversiva.

Il bene giuridico protetto è l’interesse alla tutela dell’ordine costituzionale. La cassazione ha recentemente precisato che se la finalità di eversione o terrorismo non riguarda l’ordinamento cost. italiano, si è al di fuori del bene giuridico protetto dall’art. 270 bis.

Rimane da evidenziare l’evidente contraddizione tra rubrica e testo dell’art. 270 bis, dove non compare il termine “terrorismo”. La limitazione del testo imporrebbe quindi di escludere la configurazione del delitto che persegue, con atti terroristici, fini diversi da quelli eversivi in senso proprio.

Si potrebbe allora configurare un’associazione eversiva aggravata dalla finalità di terrorismo, posto che la formulazione della fattispecie non menziona affatto il fine di terrorismo, che non è perciò elemento costitutivo della fattispecie.

6.2 Art. 305. Cospirazione politica mediante associazione

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Con l’art. 305 il legislatore ha inteso evitare che, mediante cospirazioni, si determinassero condizioni favorevoli alla consumazione dei reati contro la personalità dello Stato.

Nell’ipotesi associativa, a differenza di quella mediante accordo, è preminente l’aspetto organizzativo e permanente della struttura, che opera con proprie direttive e propri mezzi, che prescindono da quelli degli associati.

Per integrare la fattispecie è necessario che i soggetti coinvolti siano almeno 3, così come è disposto per l’associazione a delinquere.

La norma contiene due autonome fattispecie di reato, una per promotori, organizzatori e capi dell’associazione (reclusione da 5 a 12 anni), e una semplice per i soci (reclusione da 1 a 6 anni).

Il dolo è specifico e si sostanzia nello scopo di porre in essere uno dei delitti indicati nell’art. 302 (tutti i delitti non colposi previsti dai capi I e II del titolo dei delitti contro la personalità interna e internazionale dello Stato), ambito molto vasto che comprende anche molti delitti di opinione.

La Corte cost. chiamata a sindacare il rigore sanzionatorio dell’art. 305 ha stabilito che “la valutazione circa la congruenza delle pene edittali alle singole fattispecie di reato appartiene alla discrezionalità del legislatore, non sindacabile se non nell’ipotesi di manifesta irragionevolezza.. Non può negarsi che le figure di reati cui si riferisce l’art. 305 tendano alla protezione di beni a valori essenziali alla pacifica convivenza e all’ordinato funzionamento del sistema costituzionale”

Sennonché il riferimento a questi valori non sembra possa valere rispetto a disposizioni il cui oggetto di tutela è più evanescente (es. reati di vilipendio).

Si deve quindi ritenere che la norma incontri un limite alla sua configurabilità, fondato su un criterio di ragionevolezza, nel rapporto tra bene e sanzione, richiamato dalla stessa decisione della Corte.

6.3 Art. 306. Banda armata

Il delitto è la forma più grave di criminalità associata, anche perché è prodromico al delitto di insurrezione armata contro i poteri dello Stato.

Nonostante la norma non definisca che cos’è la “banda armata”, dalla giurisprudenza si possono ricavare i suoi elementi costitutivi:

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1. Pluralità dei consociati

Si può astrattamente ritenere, in ragione della diversa formulazione, che siano sufficienti 2 soggetti, purché il fenomeno abbia assunto una tale estensione da essere idoneo a porre in pericolo il bene giuridico.

2. Possesso di armi

Non è necessario che ogni componente sia armato, ma basta la disponibilità di armi in quantità adeguata al perseguimento dello scopo e la possibilità di usarle per tutti i consociati, anche attingendo ad un deposito comune.

3. Vincolo associativo stabile

Non è necessaria una struttura gerarchica di tipo militare, ma, appunto, un vincolo stabile che colleghi i componenti.

4. Unitarietà dello scopo

Il fine è quello di commettere uno dei delitti contro la personalità interna o internazionale dello Stato. E’ necessario che i partecipanti abbiano un comune programma criminoso. E’ richiesta perciò la coscienza e volontà di partecipare o assumere altro ruolo all’interno della banda armata, avendo consapevolezza della disponibilità di armi, nonché il dolo specifico di commettere uno dei delitti di cui all’art. 302.

La norma punisce al pari dei capi e promotori anche i sovventori, che sono, oltre a coloro i quali effettuano prestazioni di carattere finanziario, anche coloro i quali pongono in essere condotte in grado comunque di aiutare materialmente la banda.

Dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sul rapporto tra la banda armata e l’associazione sovversiva e eversiva (artt. 270 e 270 bis), essendo quest’ultima compresa tra i delitti scopo della banda.

La banda integra certamente una figura speciale rispetto all’ordinaria associazione criminosa (art. 416), per la tipicità del fine e la necessaria disponibilità di armi.

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La tipicità del fine distingue la banda anche dalla figura delittuosa dell’associazione sovversiva, nella quale difetta il fine di commettere un delitto contro la personalità dello Stato.

E’, da un punto di vista fenomenologico, configurabile il concorso tra il delitto di banda armata e quello di ass. eversiva (o sovversiva), in quanto reato fine della banda armata. Tuttavia, le condotte integranti le due fattispecie sono talmente compenetrabili che il preteso reato mezzo già integra il preteso reato fine.

6.4 Art. 307. Assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata

L’art. 307 punisce con la reclusione fino a 2 anni chiunque, fuori dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto a taluna delle persone che partecipano all’associazione cospirativa o alla banda armata.

La ratio sta nell’impedire che vengano dati aiuti all’associazione, la quale sarà costretta così a porre fine alla sua attività criminosa.

La disposizione non appare più adeguata rispetto alle attuali possibili forme di collaborazione alle ass. delittuose. ne deriva un vuoto di tutela, che dapprima ha favorito un’estensione della nozione di partecipazione, e più recentemente ha dato luogo ad una criticabile applicazione del concorso di persone creando la c.d. partecipazione esterna.

E’ richiesto un dolo generico, che comprende la coscienza e volontà di tenere la condotta incriminata con la consapevolezza che la persona nei confronti della quale si opera è un partecipante all’associazione o banda armata. L’elemento psicologico, che inerisce alla occasionalità della relazione con la struttura criminosa, differenzia la fattispecie da quella di partecipazione a banda armata.

La pena è aumentata se il rifugio o il vitto sono prestati continuativamente.

Emerge dalla disposizione il carattere sussidiario rispetto al delitto di favoreggiamento e all’ipotesi di concorso di persone.

E’ prevista una esimente soggettiva, per cui “non è punibile chi commette il fatto in favore di un suo prossimo congiunto”, Per prossimo congiunto si intendono “ascendenti, discendenti, coniuge, fratelli, sorelle, affini dello stesso grado, zii e nipoti; non si comprendono gli affini allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole.”

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La tutela non riguarda il convivente more uxorio.

6.5 Gli artt. 308 e 309

Queste due norme, strutturate in maniera simmetrica, prevedono casi di non punibilità. Esse operano in una fase successiva all’integrazione dei delitti associativi, ma prima della commissione dei delitti scopo.

In base all’art. 308, nei casi previsti dagli artt. 304 305 307, non sono punibili coloro i quali:

1. disciolgono o determinano lo scioglimento dell’associazione;

2. Non essendo promotori o capi, recedono dall’accordo o dall’associazione;

3. Impediscono comunque che sia compiuta l’esecuzione del delitto per cui l’accordo è intervenuto o l’associazione è stata costituita.

Le forme di ravvedimenti di cui ai nn. 1) e 2) comportano non punibilità se anteriori rispetto all’arresto o al procedimento e a condizione che non vi sia stata consumazione di uno dei delitti scopo.

Per “arresto” si intende quello in fragranza per il delitto di associazione o quello comunque operato su ordine del giudice; l’inizio del procedimento coincide con l’iscrizione dell’indagato nel registro.

I comportamenti richiesti dall’art. 309, presi in considerazione rispetto agli artt. 306 e 307 sono:

1. disciogliere o comunque determinare lo scioglimento della banda;

2. Non essendo promotori o capi della banda, ritirarsi dalla banda o arrendersi senza opporre resistenza e consegnando o abbandonando le armi. La ritirata equivale al recesso dalla banda, mentre la resa si verifica con la consegna della persona all’Autorità.

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3. Impedire l’esecuzione del delitto scopo.

Per i nn. 1) e 2) è necessario che il ravvedimento sia intervenuto prima dell’ingiunzione dell’Autorità o della forza pubblica o immediatamente dopo essa.

Per “ingiunzione deve intendersi anche un ordine non formale di cessare l’attività criminosa.

Resta oscuro come chi abbia prestato una mera assistenza ex art. 307 possa materialmente porre in essere condotte conformi a quelle previste o possa giuridicamente recedere da un patto o da un’organizzazione della quale non è partecipe.

7. DELITTI DI OPINIONE

Sono delitti che si concretizzano in espressioni verbali pronunciate dall’agente. E’ stata spesso sostenuta la necessità di eliminare queste fattispecie dal sistema per il loro contrasto con il diritto di libera manifestazione del pensiero e anche con i principi di materialità e offensività dell’illecito penale.

Ci si riferisce in particolare ai delitti di vilipendio. La giurisprudenza ha ritenuto concretizzate le fattispecie di fronte ad espressioni “grossolanamente volgari”, a “contumelie ingiustificate”, ad “aggressioni simboliche”, ad espressioni critiche che comunque indichino al disprezzo le istituzioni richiamate. Essa ha cioè oscillato tra un’indagine sulle forme e una sui contenuti, come indicazione sintomatica dell’atteggiamento soggettivo dell’agente, ma senza ragionevoli margini di certezza interpretativa.

La Corte cost. non ha voluto dichiarare incost. con riferimento agli artt. 3 e 25, 2° c., Cost. l’art. 290, ritenendo meritevole di tutela e rilevante sul piano cost. il bene giuridico del prestigio delle istituzioni.

L’attuale obsolescenza di queste norme, che hanno avuto un’applicazione sempre più rara, non esclude la necessità di espungerle dall’ordinamento. Alcune di esse anticipano la punibilità al momento dell’istigazione, anche se non accolta, derogando al principio generale dell’art. 115.

7.1 Istigazione di militari a disobbedire alle leggi

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E’ punito con la reclusione da 1 a 3 anni, solo se il fatto non costituisce più grave delitto, chiunque “istiga i militari a disobbedire alle leggi o a violare il giuramento dato o i doveri della disciplina militare o altri doveri inerenti al proprio stato, ovvero fa al militare l’apologia di fatti contrari alla legge, al giuramento, alla disciplina o ad altri doveri militari”.

La sanzione penale colpisce l’istigatore anche quando il fatto istigato non costituisca reato e dunque venga meno ogni ragionevole funzione anticipatoria. L’istigazione in questo caso fuoriesce dall’istituto del concorso di persone e diviene un momento meramente sintomatico dell’atteggiamento dell’agente rispetto ai valori. La condotta di istigazione viene così punita solo perché rivela un tipo di autore pericoloso.

La Corte cost. ha legittimato la fattispecie invocandone la ratio nella difesa della patria. Il bene giuridico non viene in tal modo ricavato dalla fattispecie, che diviene una astratta e altisonante funzione, priva di ogni capacità di garanzia.

E’ significativo che la giurisprudenza, non esistendo parametri reali sui quali valutare l’anticipazione della punibilità, e in coerenza con la chiave soggettiva della fattispecie, ritenga configurabile il tentativo di fronte ad un’istigazione non percepita dal destinatario.

La norma è stata dichiarata incost. nella parte in cui non prevede che, per l’istigazione di militare a commettere un reato militare, la pena sia sempre applicata in misura inferiore alla metà della pena stabilita per il reato al quale si riferisce l’istigazione, per contrasto con l’art. 3 Cost. in relazione all’art. 212 c.p.m.p

L’art. 266 prevede poi due circostanze aggravanti, la prima ad effetto speciale:

1. l’essere il fatto commesso pubblicamente: la pena è da 2 a 5 anni;

2. l’essere il fatto commesso in tempo di guerra: pena è aumentata.

Il reato si considera commesso pubblicamente quando è commesso:

1. col mezzo della stampa o altro mezzo di propaganda;

2. in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone;

3. in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata.

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7.2 Artt. 302 e 303. Istigazione a commettere delitti contro la personalità dello Stato

L’art. 302 punisce l’istigazione privata a commettere uno dei delitti non colposi contro la personalità interna o internazionale dello Stato; l’art. 303, abrogato dalla L. 205/1999, puniva l’istigazione e l’apologia aventi lo stesso scopo ma realizzate pubblicamente.

L’istigazione privata è diretta a una o più persone determinate, non deve essere accolta o se accolta il delitto non deve essere commesso: nel caso in cui il reato scopo venga realizzato, l’istigatore sarà infatti punibile a titolo di concorso nel delitto istigato (110 c.p.).

L’art. 302 deroga espressamente all’art. 115 assoggettando a pena atti meramente preparatori, ma pur sempre idonei ad esercitare una spinta delittuosa.

L’istigazione è pubblica se diretta a persone non individuate.

Il delitto è a dolo generico e deve comprendere l’intenzione di provocare i fatti integranti il delitto contro la personalità dello Stato.

La pena prevista dall’art. 302 è la reclusione da 1 a 8 anni; il 303 da 3 a 12 anni.

Nella seconda disposizione manca il limite sanzionatorio, contemplato invece nel 302, per cui, in ogni caso, la pena da applicare è sempre inferiore alla metà della pena stabilita per il delitto al quale si riferisce l’istigazione.

8. I SEGRETI DELLO STATO

L’art. 256 definisce il segreto di Stato attraverso il riferimento a 2 parametri: l’interesse alla sicurezza dello Stato e l’interesse politico, interno o internazionale dello Stato.

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Il fondamento della segretezza ha creato non pochi problemi: alcuni lo rinvenivano nella natura stessa dei fatti o notizie (Antolisei), altri in una manifestazione della volontà statale (Manzini, Pannain). La sua individuazione acquisiva valore in relazione ai poteri da riconoscere al giudice in sede di accertamento della violazione.

Assieme alla notizia “segreta” nel codice trova tutela anche la notizia riservata, cioè l’informazione che, pur conosciuta da un numero indeterminato di persone, non può essere ulteriormente divulgata. Per questa era pacificamente sancito il fondamento soggettivo.

Dopo il crollo del fascismo si è presentato il problema di rendere il segreto compatibile con i valori democratici delineati dalla Carta.

La Corte cost. ha affermato che il principio di segretezza può resistere anche dinanzi ai valori cost. solo in quanto fondato e giustificato da esigenze prevalenti fatte proprie e garantite dalla stessa Cost.

Il legislatore, su questa scia, con la L. 801/1977 ha ridefinito la materia della segretezza, affermando che sono coperti da segreto “tutti gli atti, documenti… la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità dello Stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Cost. a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi cost., all’indipendenza dello Stato e alle relazioni con gli altri Stati, alla difesa e preparazione militare. In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell’ordine costituzionale.”

La definizione prescinde quindi da ogni valutazione positiva della Autorità Amministrativa, cioè senza una previa classificazione dell’attività come “segreto”. Viene prospettato un ambito di tutela esplicitamente agganciato ad una valutazione di pericolosità. Ciò comporta, quindi, il riconoscimento al giudice del potere-dovere di valutare la natura segreta o meno degli atti o documenti.

Anche se la nuova normativa non menziona le notizie riservate, si deve ritenere che anche per esse valga il richiamo agli interessi tutelati nella precedente definizione.

8.1 Art. 256 c.p. Procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato

Gli artt. da 256 a 262 contemplano una serie di delitti che vanno sotto il nome di SPIONAGGIO, in quanto volte a reprimere diversi tipi di violazione del segreto di Stato.

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Il PROCACCIAMENTO (art. 256) è il delitto di colui che agisce per acquisire notizie segrete o riservate senza perseguire uno scopo di spionaggio e in mancanza di qualsiasi attività agevolatrice da parte del depositario della notizia.

Non costituisce procacciamento il fatto di essere venuto in possesso della notizia a seguito di circostanze favorevoli non determinate dall’agente.

Il dolo generico si sostanzia nella volontà di procurarsi una notizia rappresentandosi la sua segretezza, in relazione agli specifici interessi tutelati e che la divulgazione della notizia sia idonea a porre in pericolo gli stessi.

Quando la condotta ha ad oggetto notizie riservate il divieto di divulgazione posto dall’Autorità entra a far parte dell’oggetto del dolo. L’errore o l’ignoranza del provvedimento impedisce la punibilità per errore sul fatto che costituisce reato (art. 47, 3° c.); a ritenere diversamente, cioè che il divieto integri la norma penale e quindi che operi l’art. 5 c.p., significa fare di queste fattispecie delle norme penali in bianco.

La pena prevista per il procacciamento di notizie segrete è da 3 a 10 anni di reclusione; per le notizie riservate da 2 a 8 anni.

E’ prevista una aggravante specifica ad effetto speciale: l’aver il fatto compromesso la preparazione o l’efficienza bellica dello Stato, ovvero le operazioni militari. La pena è l’ergastolo.

8.2 Artt. 261 e 262. Rivelazioni di notizie segrete ovvero di notizie di cui sia vietata la divulgazione

Gli artt. 261 e 262 sono strutturalmente identici, differenziandosi solo per l’oggetto della condotta vietata: notizie segrete e notizie delle quali l’Autorità competente ha vietato la divulgazione (riservate).

Il reato ha natura plurisoggettiva necessaria.

La “RIVELAZIONE” può assumere la forma di:

1. comunicazione, quando la notizia è trasmessa ad un numero determinato di persone;

2. diffusione, quando la trasmissione ha un numero indeterminato di destinatari e utilizza mezzi di comunicazione di massa.

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La RIVELAZIONE è punita sia a titolo di dolo sia di colpa. E’ punita anche la OTTENUTA RIVELAZIONE, ma solo a titolo di dolo.

Il dolo è generico e deve comprendere in entrambi i casi la conoscenza del carattere segreto o riservato della notizia, e il pregiudizio al quale viene esposto il bene tutelato, e cioè il fatto che il segreto riguarda un interesse interno o internazionale dello Stato.

La rivelazione dolosa e l’acquisizione di notizie segrete è punita con la reclusione non < 5 anni; per le notizie riservate 3 anni.

Sono previste delle aggravanti:

• l’essere commesso il fatto in tempo di guerra;

• l’aver il fatto compromesso la preparazione e l’efficienza bellica dello Stato o le operazioni militari;

In entrambi i casi la pena non può essere < 10 anni.

Se il colpevole ha agito con il dolo specifico dello scopo di spionaggio si applica la pena dell’ergastolo.

9. ALTRE FATTISPECIE

9.1 Art. 289 bis. Sequestro di persona a scopo di terrorismo o eversione

L’art. 289 bis nasce in risposta alla vicenda del rapimento e uccisione dell’onorevole Aldo Moro. Questa ipotesi criminosa viene resa autonoma rispetto a quella del sequestro a scopo di estorsione.

Esso viene collocato tra i delitti contro la personalità dello Stato perché accanto alla libertà personale del soggetto passivo viene messo in pericolo anche l’assetto politico-costituzionale.

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La condotta punibile consiste in qualsiasi apprezzabile limitazione della libertà fisica, con il fine di terrorismo o eversione dell’ordine democratico, il quale si potrà esprimere ad esempio in modalità esecutive, in richieste o dichiarazioni successive al sequestro o si motiverà in relazione al ruolo rivestito dalla persona sequestrata. Nel caso di un’azione a stampo terroristico, il terrorismo deve essere in corrispondenza con la liberazione del sequestrato.

Il dolo consiste nella volontà e coscienza di privare una persona della libertà fisica con il fine di eversione e/o terrorismo.

E’ configurabile la forma tentata.

La sanzione è la reclusione da 25 a 30 anni. E’ prevista una attenuante per l’agente o concorrente che, dissociandosi dagli altri, abbia tenuto un comportamento dal quale sia derivata la liberazione del sequestrato. Ciò non implica che anche l’esecuzione monosoggettiva non possa godere dell’attenuante.

E’ previsto un aggravamento di pena se dal sequestro deriva la morte della persona sequestrata. Tale responsabilità non può però prescindere da un coefficiente di colpevolezza, cioè si dovrà sempre indagare in concreto sulla capacità del soggetto agente di prevedere lo sviluppo anomalo.

In caso di morte cagionata e voluta, la pena sarà dell’ergastolo. Il principio ne bis in idem sostanziale impone che non concorra formalmente con tale delitto quello di omicidio volontario.

9.2 Art. 294 Attentato contro i diritti politici dei cittadini

Il Capo III, titolo I, libro II, intitolato “Dei delitti contro i diritti politici del cittadino” è composto dal solo art. 294. Tale collocazione si spiega in quanto i diritti politici del cittadino erano strumentali all’esistenza del regime totalitario.

Nella Costituzione i diritti politici sono facoltà autonome ed inviolabili che permettono al cittadino di partecipare all’organizzazione e al funzionamento dello Stato. Non vanno confusi nè con i diritti di libertà (che non attengono alla partecipazione alle attività di Stato) né all’esercizio di pubbliche funzioni (che non realizza un interesse proprio del cittadino ma dello Stato).

Fra i diritti politici rientrano:

• il diritto di elettorato attivo e passivo;

• di petizione e di iniziativa di legge;

• di associazione in partiti;

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• di referendum.

Il reato è comune ed è integrato dalla condotta di chi “con violenza, minaccia o inganno impedisce del tutto o in parte l’esercizio di un diritto politico o determina taluno ad esercitarlo in maniera difforme dalla sua volontà”.

Violenza significa coercizione fisica; minaccia è una prospettazione di un male ingiusto; inganno comprende ogni mezzo fraudolento idoneo ad esercitare una pressione tale da indurre il soggetto a determinarsi, nell’esercizio di un diritto politico, in modo contrario alla sua reale volontà.

IL delitto previsto è un reato di evento, con configurabilità del tentativo, anche se la rubrica fa riferimento all’attentato.

Il dolo richiede, oltre alla coscienza e volontà della condotta, anche la conoscenza della natura politica del diritto. Nel caso questa manchi, vi sarà errore su legge extrapenale che ha cagionato errore sul fatto.

La pena è della reclusione da 1 a 5 anni.

La fattispecie è speciale rispetto a quella di violenza privata, ma sussidiaria rispetto ai reati in materia elettorale.

10. L’AGGRAVANTE DELLA FINALITA’ DI TERRORISMO O EVERSIONE DELL’ORDINE DEMOCRATICO COSTITUZIONALE

Tale aggravante è stata introdotta dalla L. 15/1980, secondo la quale per i reati con finalità di terrorismo o eversione, punibili con una pena diversa dall’ergastolo, la pena è aumentata della metà, salvo che la circostanza sia costitutiva del reato.

Non sempre nei reati terroristici è presente la finalità eversiva dell’ordine democratico. Si tratta di due scopi diversi, anche se possono essere presenti entrambi. La finalità eversiva ha infatti un contenuto immediatamente politico, attiene cioè al mutamento della forma costituzionale dello Stato con metodi non previsti dall’ordinamento. Esso non implica necessariamente un metodo violento, che invece è insito nel terrorismo.

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10.1 Ambito di applicazione

In quanto aggravante comune, essa si applica a tutti i reati, salvo non integri un elemento costitutivo della fattispecie in osservanza del principio ne bis in idem.

E’ ad effetto speciale in quanto comporta un aumento della pena della metà, ad esclusione del reato punito con l’ergastolo.

2. Concorso di circostanze

“Quando concorrono altre circostanze aggravanti, si applica per primo l’aumento della pena previsto per l’aggravante delle finalità di terrorismo o eversione.”

Le circostanze attenuanti concorrenti con l’aggravante del 1° c. non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e alle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o ne determina la misura in modo indipendente da quella ordinaria del reato (circostanze ad effetto speciale).

L’aggravamento del regime sanzionatorio rischia, nei casi in cui le condotte risultano inadeguate a permettere un riscontro degli scopi nella realtà dei fatti, di risolversi nella repressione di tendenze solo soggettive.

Per evitare questa possibilità, la circostanza sarebbe in concreto applicabile solo a quei fatti di reato che evidenziano una capacità oggettiva di terrorismo.

11. Art. 311: LA LIEVE ENTITA’ DEL FATTO

E’ prevista una circostanza attenuante applicabile a tutti i reati previsti nel Tit. I: “le pene sono diminuite quando per la natura, la specie, i mezzi, la modalità o circostanze dell’azione o per la particolare tenuità del danno o del pericolo il fatto risulta di lieve entità”.

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Nei reati associativi la lieve entità deve essere desunta non considerando l’apporto del singolo, ma le dimensioni della società e in particolare il pericolo rispetto al bene protetto in relazione al contenuto del programma criminoso. La circostanza di cui all’art. 114 (partecipazione di minima importanza) risulta invece correlata all’incidenza del ruolo soggettivo svolto da ciascun concorrente.

Si devono ritenere incompatibili con questa attenuante i delitti che si rapportano ad eventi iperlesivi (insurrezione armata contro i poteri dello Stato, devastazione, strage e saccheggio, guerra civile). Altrimenti non si osserverebbe il principio di offensività.

12. ART. 313: AUTORIZZAZIONE A PROCEDERE E RICHIESTA DI PROCEDIMENTO

Non si può procedere senza Autorizzazione del Ministro di Grazia e Giustizia per i delitti indicati:

• atti ostili verso uno Stato estero;

• intelligenze con lo straniero per impegnare lo Stato alla neutralità o alla guerra;

• disfattismo politico o economico;

• attività antinazionale del cittadino all’estero;

• illecita costituzione di associazioni eventi carattere internazionale, altri

Per il delitto di VILIPENDIO di cui all’art. 290 è necessaria l’autorizzazione a procedere del soggetto passivo, se questo è un’Assemblea legislativa o la Corte cost. o il Ministro di Grazia e Giustizia. La Corte cost. aveva riconosciuto la parziale illegittimità dell’art. 313 nella parte in cui attribuiva il potere di autorizzare a procedere al Ministro di Grazia e G. e non alla Corte stessa.

E’ invece necessaria la richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia per la punibilità dei seguenti delitti:

• offesa alla libertà o all’onore di Capi di Stato esteri;

• offesa contro i rappresentanti di Stati esteri;

• offesa alla bandiera estera.

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Si tratta di condizioni estrinseche di punibilità, dalle quali viene fatto dipendere il perfezionamento dell’illecito, rispetto alla complessa valutazione anche politica a cui sono sottoposte le relazioni diplomatiche con altri Stati.

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Cap. 2 DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

1. PROFILI GENERALI

Il Titolo II del libro II è suddiviso in 3 capi: nei primi due sono contenute la singole fattispecie criminose concernenti i delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., ed i delitti privati contro la P.A., il terzo, titolato disposizioni comuni ai capi che precedono, descrive le figure soggettive che vengono in rilievo nella vari ipotesi delittuose.

Page 31: Diritto Penale parte speciale

Nel primo capo si è in presenza di reati propri, mentre nel secondo di reati comuni.

Il Capo I rappresenta uno dei pochi settori del c.p. complessivamente riformato dal legislatore, con la L. 86/1990, e, per quanto concerne l’art. 323 (abuso d’ufficio) dalla L. 234/1997.

La critica riguardava sia l’impostazione generale della materia, sia alcune singole fattispecie.

Sotto il primo profilo, si criticava il fatto che il codice dettava una disciplina uniforme per l’intera organizzazione dello Stato, ovvero per i soggetti appartenenti alla P.A., al potere giudiziario e a quello legislativo, nonostante le profonde differenze intercorrenti tra le funzioni rispettivamente svolte.

Con riferimento alle singole fattispecie, la dottrina aveva censurato la formulazione di alcuni reati, in particolare quelli di peculato per distrazione e di abuso innominato di atti d’ufficio, la cui descrizione appariva non sufficientemente determinata e quindi carente sotto il profilo della tassatività.

La riforma ha tuttavia lasciato immutato l’impianto generale della materia, senza prestare attenzione alle esigenza diseguali delle diverse funzioni statali..

I nuovi testi delle specifiche fattispecie (artt. 314 e 323), pur caratterizzati da una maggior precisione descrittiva rispetto al passato, non consentono tuttavia di superare in toto le critiche sul piano della tassatività.

Si sono inoltre creati problemi connessi all’intervenuta successione tra norme penali e, quindi all’applicabilità dei commi 2° e 3° dell’art. 2.

Il concetto penalistico di P.A. non coincide con quello elaborato dal diritto pubblico, che considera la P.A. come l’organizzazione pubblica preposta all’esplicazione della funzione amministrativa, tipica del potere esecutivo, e che esclude quindi nettamente il potere legislativo e l’ordine giudiziario.

La P.A. per il legislatore penale è invece onnicomprensiva delle tre sfere dell’organizzazione e dell’attività dello Stato. Questa asserzione deriva dalla lettura degli artt. 357 e 358.

Il bene giuridico protetto era influenzato, per i compilatori del codice, dai valori tipici dello Stato autoritario: prestigio dell’autorità e della P.A.; fedeltà, tendenzialmente incondizionata, del funzionario pubblico allo Stato. Vi era infatti un rapporto di assoluta verticalità tra Stato e cittadino, e le norme penali in questione venivano applicate in maniera rigida.

Dalla Carta costituzionale emerge una concezione opposta, per cui l’esplicazione di un’attività pubblica non pone di per sé il soggetto che ne è titolare in posizione di supremazia rispetto al cittadino nè gli conferisce

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particolare dignità. L’art. 97 Cost. fornisce indicazioni precise per orientare l’oggettività giuridica dei soggetti qualificati: “i pubblici uffici sono organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. Imparzialità e buon andamento, quindi, sono i beni oggetto di tutela dei reati di cui agli artt. 314 ss. Questi, altro non sono che i modi di attuazione della legalità cui l’attività pubblica deve sempre uniformare la sua azione: si può allora affermare che è la legale esplicazione dei pubblici poteri che costituisce il centro della protezione penale.

Questa è anche l’unica via per dare al bene giuridico un’estensione coincidente con quella dei reati con cui deve rapportarsi, così armonizzando le diverse funzioni statali.

La nozione legale di esplicazione dell’agire pubblico è poi suscettibile di ulteriori specificazioni differenziate per le varie funzioni: legalità come:

• buon andamento ed imparzialità per la P.A. in senso stretto; significa agire senza discriminazioni, ma avendo anche di mira l’interesse concreto, e in questo senso parziale, della amministrazione; appunto il suo buon andamento;

• aparzialità per l’attività giudiziaria, che è terzietà assoluta, come estraneità e neutralità a qualsiasi interesse anche dello Stato;

• rispetto della legge e della Costituzione per il legislatore. La dottrina ha fondatamente dubitato della stessa possibilità di applicare le fattispecie penali in esame all’agire del parlamentare, stante il carattere prettamente politico dell’attività legislativa. All’incriminazione del parlamentare può ostare il principio di sovranità che implica la totale indipendenza del legislatore rispetto ad un potenziale controllo della Magistratura.

Il bene giuridico così individuato dovrà essere calato nelle singole fattispecie. Le condotte che le integrano dovranno consistere nella violazione obiettiva delle norme, che sono di natura legislativa, o, se di fonte inferiore, strettamente attuative della legge. Questa affermazione deriva dalla duplice previsione costituzionale di un riserva di legge: art. 25, 2° c. e art. 97, 1° c., secondo cui “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge”.

Sotto un altro profilo, il bene protetto costituisce il termine di riferimento per valutare l’offensività del fatto: il giudice dovrà valutare se si è avuta lesione o messa in pericolo della legale esplicazione del potere e a questa verifica condizionare la punibilità dell’autore.

La giurisprudenza accoglie i concetti di bene giuridico menzionati, con riferimenti soprattutto alla imparzialità, ma a volte utilizza la nozione in modo anomalo e scorretto, qualificando come illecite attività oggettivamente lecite, ma dirette, sul piano della sola volontà, a finalità parziali. IN questo modo essa ritiene ingiustamente sussistente il reato in carenza dell’elemento oggettivo, con assegnazione al bene giuridico di una funzione estensiva della fattispecie, in contrasto col principio di tipicità che presiede alla interpretazione della norma penale.

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I reati propri sono caratterizzati dal rapporto che lega la specifica situazione giuridica richiesta in capo al soggetto agente e le condotte previste dalla fattispecie. La ricostruzione della condotta andrà quindi fatta alla luce della situazione giuridica che fonda la qualifica soggettiva e, quindi dei poteri e facoltà che essa implica.

In tema di concorso di persone nel reato si renderà applicabile l’art. 117 (mutamento del titolo del reato) al caso in cui abbiano partecipato sia soggetti qualificati (intranei) sia estranei. L’interpretazione più corretta è ritenere riferibile questa disposizione alla ipotesi in cui ricorre la duplice condizione che l’estraneo non sia a conoscenza della qualifica soggettiva del correo e che il fatto costituisca, anche per il soggetto non qualificato, illecito penale. Infatti, laddove l’estraneo sia a conoscenza della qualifica soggettiva, sarà applicabile la norme generale dell’art. 110; inoltre, il testo dell’art. 117, facendo riferimento al “mutamento del titolo” presuppone che si configuri anche per l’estraneo un reato.

Con riferimento all’errore, vi possono essere tre differenti casi: che il soggetto agente ignori di essere p.u. perché erra sulla situazione di fatto in cui trova (errore sul fatto); perché interpreta male una norma amministrativa che regola la sua posizione (es. ignora che un atto provvisorio crei già l’obbligo di prestare servizio – errore su norme extrapenale); o perché erra sulla disciplina penalistica delle qualifiche soggettive di p.u. o inc. di p.s.(art. 5 c.p.).

2. LE QUALIFICHE SOGGETTIVE E LA LORO RILEVANZA

1. Il testo degli artt. 357 e 358 riformato dal legislatore del 1990

Il legislatore spinto dalle incertezze interpretative, ha riformulato le nozioni di p.u., di inc. di p.s. e di esercente un servizio di pubblica necessità. Più opportuno sarebbe stato prevedere una sola nozione, come indicava il progetto Pagliaro, di legge delega per un nuovo c.p., nel quale si menziona solo la figura del “pubblico agente”.

La giurisprudenza aveva fatto registrare evidenti oscillazioni, in particolare per quanto riguardava la qualificazione degli operatori bancari.

La lettura data alle norme era sfociata in un’interpretazione troppo estensiva delle qualifiche soggettive, e questa situazione era facilitata da un testo normativo che ancorava la sussistenza delle qualifiche all’appartenenza del soggetto ad un ente pubblico (concetto di per sé controverso, esemplare il caso delle banche), e che si affidava a nozioni giuspubblicistiche in realtà poco determinate anche sul piano del diritto pubblico.

La giurisprudenza si interrogava così sul significato oggettivo e soggettivo delle qualifiche, cioè se esse dovessero essere direttamente derivate dall’appartenenza all’ente o dall’attività effettivamente svolta e, una volta riconosciuta la qualifica, se essa sussistesse solo in costanza del concreto esercizio dell’attività

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pubblicistica o permanentemente in capo al soggetto. Si tendeva a privilegiare la soluzione in senso oggettivo, e in questo senso la stessa Cassazione.

La novella ha recepito questo suggerimento offendo all’interprete, seppur con imprecisioni, un testo più affidabile e più capace di descrivere l’ambito di operatività dei reati in esame.

2. Il Pubblico Ufficiale in generale

Art. 357: “Agli effetti della legge penale sono p.u. coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giurisdizionale o amministrativa. – E’ pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della P.A. o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”.

L’art. è articolato in due commi: il primo offre una definizione generale di p.u., mentre il secondo dà una specificazione maggiormente descrittiva, prendendo esclusivamente in esame la funzione amministrativa Solo per questa si pone, infatti, il problema di individuare a quali, tra i soggetti che appartengono alla organizzazione amministrativa pubblica, competa la qualifica. Il legislatore deve in primis determinare il confine tra attività pubblica e privata, e poi, all’interno della prima, a quali soggetti riservare la qualifica di p.u.: il compito di fissare questi due limiti, esterno e interno, è rimesso al 2° comma dell’art. 357.

3. Il c.d. limite esterno

Il legislatore ha scelto di sganciare la qualifica di p.u. dal rapporto di dipendenza dallo Stato e ente pubblico: ciò che conta ora è solo l’esplicazione oggettiva di una pubblica funzione amministrativa. La determinazione di questa non dipende dalla natura pubblicistica o meno dell’ente di appartenenza, ma è ancorata al tipo di disciplina che regola l’attività. A norma del cpv. dell’art. 357, infatti, è “pubblica” “la funzione … disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi”

La norma conclude con la locuzione che enuncia lo “svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi” La norma allude ai casi del privato che procede all’arresto in flagranza di reato e del notaio, privato professionista cui, però, la legge conferisce il potere di formare atti pubblici fidefacenti.

4. Il c.d. limite interno

Nella restante parte l’art. 357 afferma che l’attività del soggetto deve anche caratterizzarsi per la “formazione e manifestazione della volontà della P.A.”.

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Occorre cioè che il soggetto partecipi alla formazione e emanazione di atti amm. tipici. P.u. non potrà quindi essere chi svolga attività meramente istruttoria o compilativa, che non implichi momento e scelte decisionali.

Controversa è la figura di creazione giurisprudenziale, del funzionario di fatto, cioè chi di fatto svolga una pubblica funzione senza regolare investitura o con nomina invalida. Difficile è qualificare il rapporto esistente tra questa figura, che come tale può essere chiamata a rispondere di un delitto contro la P.A., e quella dell’art. 347 (usurpazione di pubbliche funzioni). L’usurpatore, in quanto, tale, non potrebbe essere chiamato a rispondere dei reati propri del p.u. (così dottrina e giurisprudenza prevalenti) Secondo alcuni autori, invece, l’art. 357 non ha tra i suoi presupposti nè tra le sue conseguenze la necessaria impossibilità di imputare allo Stato o altro ente pubblico le funzioni svolte dall’usurpatore, per cui dove questa imputazione è possibile, l’usurpatore risponde come p.u.

5. L’incaricato di un pubblico servizio

Art. 358: agli effetti della legge penale è tale “chi presta a qualsiasi titolo un pubblico servizio. – Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.

Vale anche per l’inc. di p.s. il requisito della disciplina pubblicistica dell’attività, che costituisce il limite esterno dell’art. 357 cpv. Potrà indifferentemente trattarsi di agenti facenti capo ad enti pubblici o privati, ma ciò che rileva è il criterio di disciplina.

Deve però trattarsi di attività “caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici” della pubblica funzione: viene qui in rilievo il limite interno: sono inc. di p.s. quei soggetti che fanno parte della struttura dell’ente che svolge una pubblica funzione ma che non hanno il potere di formare e manifestare la volontà della P.A.

La qualifica viene meno rispetto a coloro che svolgono semplici mansioni di ordine o prestano opera meramente materiale.

6. L’esercente un servizio di pubblica necessità

L’art. 359 definisce gli ESERCENTI UN SERVIZIO DI PUBBLICA NECESSITA’:

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1. “i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando dell’opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi;

2. i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della P.A.”

Si tratta di privati che svolgono la loro attività di natura privatistica senza alcun rapporto con la P.A..

Circa la seconda categoria ci si è chiesti quale debba essere l’atto in forza del quale un servizio viene dichiarato di pubblica necessità: la dottrina è concorde nel ritenere che, mentre il pubblico servizio è esercitato in forza di una CONCESSIONE, il servizio di pubblica necessità necessita di autorizzazione. Mentre la prima fa nascere il potere altrimenti inesistente, di svolgere un’attività, la seconda si limita a rimuovere un ostacolo rispetto ad un’attività che spetta al privato esercitare.

7. Sussistenza obbiettiva della qualifica e cessazione della stessa

Le qualifiche non devono essere viste come qualità del soggetto e quindi, attributi permanenti della persona; esse sono sussistenti solo ed in quanto il soggetto agisce nell’ambito della specifica posizione giuridica, esercitandone i poteri e le facoltà. Le qualifiche soggettive di cui agli artt. 357 ss. vanno quindi valutate obiettivamente ovvero funzionalmente.

Quindi uno stesso soggetto potrà essere considerato p.u., o inc. di p.s. o mero privato in costanza dello svolgimento di diverse attività.

Nella stessa logica, fatta propria anche dalla Cassazione, si pone l’art. 360, secondo cui “quando la legge considera la qualità di p.u., o di inc. di p.s., o di esercente un servizio di pubblica necessità, come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, la cessazione di tale attività nel momento in cui il reato è commesso, non esclude l’esistenza di questo nè la circostanza aggravante, se il fatto si riferisce all’ufficio o al servizio esercitato”.

La legge in tal modo ancora la sussistenza del reato alla relazione che lega l’azione alla concreta situazione giuridica che dà origine alla qualifica, sino ad estenderne l’effetto oltre la sua esistenza temporale. (es. p.u. che riceve una retribuzione non dovuta, cessato dall’ufficio o rivela un segreto d’ufficio.)

3. LE FATTISPECIE CRIMINOSE MAGGIORMENTE SIGNIFICATIVE

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1. Peculato

3.1.1 Il frutto di una poco mediata riforma

Art. 314: “Il p.u. o l’inc. di p.s. che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da 3 a 10 anni. Si applica la pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.”.

Il testo attuale ha subito profonde modifiche dalla L. 86/1990; questi i punti in cui essa ha principalmente inciso:

1. Unificazione dei due precedenti reati di peculato e malversazione ai danni del privato (art. 315). L’elemento differenziatore delle due figure criminose, diversamente sanzionate, era l’appartenenza del denaro o dell’altra cosa mobile alla P.A. nella prima, ed al privato nella seconda. Ad essa è sostituita l’altruità come unico dato caratterizzante del bene su cui cade l’azione dell’agente;

2. la soppressione della condotta di distrazione che, nel testo previgente, era alternativamente prevista con quella di appropriazione, la quale ora è la sola punita;

3. l’introduzione del peculato d’uso.

Mentre la prima delle modifiche non ha effetti applicativi diretti, le altre due suscitano problemi.

La soppressione del peculato per distrazione deriva da una tormentata vicenda interpretativa. Ci si chiedeva se ad integrare la condotta punibile la nuova destinazione del bene dovesse essere di natura privata o se integrasse reato anche l’ipotesi in cui esso fosse utilizzato pur sempre per finalità pubbliche.

Mentre la dottrina era orientata nel primo senso, la giurisprudenza propendeva per soluzioni più formalistiche e rigoristiche.

Il legislatore del ’90, invece che precisare che la distrazione doveva essere a fini privati, ha preferito espungere dalla norma la previsione della distrazione, così creando più problemi di quanti non ne abbia risolti.

Mentre, infatti, prima la distrazione era condotta diversa dall’appropriazione, ora questo dato è venuto meno sicché si potrebbe ritenere che nella nozione di appropriazione rientrano anche i casi prima qualificati di distrazione.

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Il quadro è però complicato dal fatto che nella RELAZIONE che ha accompagnato la legge si intende che i casi di peculato per distrazione debbano ricadere nell’art. 323 (abuso d’ufficio), implicando la distrazione appunto un abuso dei poteri che competono al p.u.

La giurisprudenza ha talvolta seguito queste indicazioni, altre volte ha ritenuto integrato il peculato.

3.1.2 Il bene giuridico

Si insegna che si tratterebbe di un reato plurioffensivo, nel senso che esso offenderebbe sia l’interesse dello Stato a che il soggetto qualificato non abusi dei suoi poteri, sia l’interesse patrimoniale inerente al denaro o altra cosa mobile sottratta.

Le perplessità in dottrina inducono ad individuare l’oggettività giuridica del reato nel buon andamento e imparzialità della P.A. Questi beni sono indubbiamente lesi quando all’oggetto materiale è data destinazione diversa da quella stabilita dall’ordinamento, per avvantaggiare l’agente o un terzo. IN questo senso, il peculato è un reato di abuso della situazione giuridica di cui è titolare l’agente. A questa lesione si accompagna un danno patrimoniale che qualifica il reato come uno dei “delitti che comunque offendono il patrimonio” e che può rilevare ai sensi degli artt, 61 e 62 come circostanza aggravante o attenuante.

3.1.3 Il soggetto attivo

Possono essere sia i p.u. sia gli inc. di p.s.; trattasi, quindi di REATO PROPRIO.

Non è applicabile l’art. 360 (cessazione della qualifica) posto che la qualifica soggettiva sussiste fino a che c’è possesso per ragioni d’ufficio o di servizio, mentre, venuto meno questo, il fatto non è più realizzabile.

3.1.4 La condotta

La condotta è esclusivamente l’appropriazione, la quale consiste nella creazione, da parte dell’agente, di una situazione simile a quella del proprietario con sacrificio del diritto di quest’ultimo. Nel concetto rientrano tutti i comportamenti tipici del proprietario, anche qualsiasi atto di disposizione o utilizzazione incompatibile con il possesso dell’agente e accompagnato dalla volontà di servirsi della cosa uti dominus.

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Può integrare reato anche la distrazione a scopi diversi da quelli a cui il bene è destinato anche senza che l’agente disponga materialmente del bene.

Il rapporto tra l’art. 314 e l’art. 323 può essere definito in questi termini: in caso di distrazione da una finalità pubblica ad una PRIVATA, si configura reato di peculato; nel caso di distrazione ad altra finalità PUBBLICA, si configura il reato di abuso d’ufficio.

Con riferimento a casi concreti, per quanto riguarda la ritenzione, sembra non sia sufficiente ad integrare il reato la semplice omessa restituzione, ma si richiede il rifiuto di restituire, il nascondere l’oggetto o negare di averlo mai avuto.

Il vuoto di cassa si ha quando il p.u. si appropri di denaro in ragione del suo ufficio e copra l’ammanco con altro denaro della stessa P.a. o di privati. Il reato si configura nel momento in cui viene prelevato il denaro, anche se poi viene restituito.

3.1.5. L’oggetto materiale

Possono essere denaro o altra cosa mobile. Per la nozione di cosa mobile può farsi riferimento alla definizione codicistica, con la precisazione dell’art. 624, per cui “agli effetti della legge penale si considera COSA MOBILE anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia valore economico”. La cosa mobile deve avere un valore, ma non necessariamente deve essere di natura patrimoniale. Non vi è reato quando trattasi di valore cosi esiguo da apparire irrilevante.

Occorre che l’energia sia autonomamente posseduta rispetto alla cosa che la produce, dovendosi altrimenti fare riferimento a quest’ultima.

Si è in proposito posto l’interrogativo se l’utilizzo a fine privato del pubblico funzionario dell’energia lavorativa di personale della P.a. possa integrare il peculato. La risposta è negativa, in forza delle suddette considerazioni, al massimo si configurerà il reato di abuso d’ufficio.

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Non possono costituire oggetto di peculato i beni immateriali, anche se di natura patrimoniale.

3.1.6. Altruità, possesso, e disponibilità in ragione dell’ufficio o del servizio

Il bene oggetto di peculato deve essere al tempo stesso:

• altrui

• nel possesso o disponibilità dell’agente.

• deve trovare ragione nell’ufficio o nel servizio ricoperti dall’agente stesso.

Il termine “ALTRUI” non deve essere intesi nel senso civilistico, in quanto esso va posto in relazione con gli altri termini della fattispecie. Così, dovrà ritenersi altrui anche il bene proprio ma sul quale altri esercita un diritto.

I termini “POSSESSO e DISPONIBILITÀ” non coincidono né con il concetto di possesso del c.c. né con la nozione di detenzione codicistica.

Per quanto concerne il possesso, i diritti e le azioni che spettano al possessore (agente) non spettano certo al p.u. o all’inc. di p.s., ma direttamente alla P.a., unica a possedere in senso civilistico.

Inoltre, può dirsi che la P.a. “detiene” la cosa tramite il soggetto solo quando questo è in essa organicamente inserito, cioè tramite un soggetto che sia organo di essa.

I concetti di possesso e disponibilità vanno quindi intesi come posizione giuridica in forza della quale il soggetto può disporre (non occasionalmente) di fatto del bene, che gli è affidato per ragioni del suo ufficio o servizio.

Viene qui in rilievo il concetto di competenza del p.u. o inc. di p.s., per cui può dirsi che la disponibilità deve rientrare, appunto, nella competenza del soggetto agente. Le regole di competenza hanno diversa efficacia nell’attività della P.a., in quella giudiziaria e legislativa. Si deve ritenere sussistente il requisito dove la disponibilità esista in forza di un atto o attività pubblica dell’agente, giuridicamente esistenti come tali, anche se viziati.

3.1.7. Dolo ed errore

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Il peculato è delitto esclusivamente doloso. Il dolo è generico.

Vi può essere il problema dell’ERRORE, che può cadere sull’altruità, sul possesso e disponibilità, sulla ragione d’ufficio. Viene in rilievo la problematica inerente all’interpretazione dell’art. 47, 4° c. (errore su legge extrapenale).

3.1.8. Il peculato d’uso

Vi erano, prima della riforma, notevoli problemi interpretativi; il legislatore del ’90 ne ha però creati più di quanti non abbia risolti.

La norma è, almeno apparentemente, strutturata con espresso rinvio – per la descrizione del fatto – alla previsione del 1° comma. Se ne dovrebbe dedurre che realizza il reato il p.u. che “al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa” se ne appropria.

Un primo interrogativo sorge dal fatto che viene esclusivamente menzionata la COSA ma non il denaro. Che quest’ultimo debba essere escluso dal peculato d’uso, non si ricava però dal dato testuale (dovuto solo al carattere sintetico e di rinvio), ma dal fatto che non può per esso, parlarsi di restituzione dello stesso oggetto, stante il carattere fungibile che lo contraddistingue.

Il vero problema nasce allora nel coordinare la condotta del reato che sembrerebbe essere quella del 1° comma con la previsione del cpv. Si prospetta l’alternativa di allargare la nozione di appropriazione comprendendovi quella di uso, o di considerare la previsione del cpv. come autonoma figura criminosa.

La prima soluzione porterebbe il rischio di togliere tassatività al concetto di appropriazione, in tutte le fattispecie in cui essa compare. Appare quindi condivisibile la seconda alternativa, assumendo come condotta del reato proprio l’uso del bene cui segue la restituzione.

In questo quadro “lo scopo di fare uso della cosa” è elemento di descrizione della condotta e non locuzione volta a qualificare il dolo come specifico.

Il legislatore nello scrivere questa norma ha ricalcato la formula del FURTO D’USO, ma non tenendo conto che questa era stata dichiarata parzialmente illegittima nella parte in cui non scriminava le ipotesi in cui la restituzione fosse dovuta a caso fortuito o forza maggiore.

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2. Peculato mediante profitto dell’errore altrui

3.2.1. In generale

L’art. 316 prevede il fatto del “p.u. o inc. di p.s., il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o detiene indebitamente, per sé o per un terzo, danaro o altra utilità”.

La pena prevista è da 6 mesi a 3 anni.

Si tratta di figura autonoma rispetto al PECULATO, dal quale differisce soprattutto per il fatto che l’oggetto materiale del reato non è nel possesso del p.u.

Anche sotto il profilo del contenuto, l’OGGETTO sembra discostarsi da quello del peculato: danaro o altra utilità, anziché cosa mobile. La dottrina tuttavia afferma che la locuzione usata dal legislatore vada comunque riferita alle sole cose mobili.

Il peculato mediante profitto dell’errore altrui si distingue anche dalla CONCUSSIONE, nella quale pure può esservi un errore del soggetto passivo, ma mentre qui l’errore della vittima è provocato dall’agente, nel caso in esame esso deve essere indipendente dalla condotta del reo.

All’oggettività giuridica – buon andamento e imparzialità della P.a. – si associa un’offesa dell’interesse patrimoniale del privato.

3.2.2. L’elemento oggettivo: l’esercizio delle funzioni o del servizio

Il p.u. o inc. di p.s. deve ricevere o ritenere la cosa nella sua veste giuridica e, corrispondentemente, il privato deve offrire e consegnare l’oggetto al p.u. in quanto tale.

La dottrina sostiene che non è richiesta una specifica competenza, ma comunque è necessario che l’esercizio delle funzioni o del servizio abbiano offerto al soggetto la possibilità di ricevere o ritenere la cosa.

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3.2.3. L’errore del soggetto passivo

L’errore del privato deve preesistere ed essere indipendente dall’azione dell’agente, il quale si limita ad approfittarne. La fattispecie si realizza anche quando il p.u. abbia dato inconsapevolmente luogo all’errore del privato.

Di meno agevole soluzione è il caso del p.u. che riceva o ritenga senza aver coscienza dell’errore. Pagliaro sostiene che si sarebbe in presenza di un fatto obbiettivamente corrispondente all’art. 316, ma con dolo tipico del peculato; secondo i principi generali ricorrerebbe il reato meno grave, quindi il peculato mediante profitto dell’errore altrui. Tale tesi si presta ad una obiezione: che essendo l’errore del soggetto passivo elemento del dolo dell’art. 316, non è esatto che vi sia dolo del peculato (art. 314), per cui si dovrebbe escludere la configurabilità della fattispecie in esame.

La questione è stata allora riproposta distinguendo a seconda che la condotta sia di:

• ritenzione: il possesso dell’oggetto materiale rende configurabile il peculato o l’appropriazione indebita aggravata ex art. 61, n.9, a seconda che sussista o meno la ragione d’ufficio;

• ricezione: la mancanza di possesso impedisce la realizzazione delle fattispecie di peculato o appropriazione indebita; per cui si può configurare il reato di abuso d’ufficio o di corruzione.

3.2.4 La ricezione e la ritenzione indebite per sé o per un terzo

Ricevere è accettare quanto offerto o consegnato; ritenere significa mantenere la detenzione omettendo di pagare o rendere l’oggetto.

Esse possono essere fatti “per sé o per un terzo”, e in questa nozione non rientra la P.a., salvo in tal caso il ricorrere di abuso di ufficio.

La condotta deve essere indebita, per cui il reato non sussiste tutte le volte in cui il p.u. ritiene quanto dovuto, anche privatamente.

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3.2.5 Oggetto materiale e dolo

Oggetto è il danaro o altra utilità.

Il dolo è generico e deve ricompredere non solo la volontà di trattenere o ricevere la cosa, ma anche la consapevolezza di fare ciò nell’esercizio del proprio ufficio, nonché l’errore altrui e il carattere indebito della condotta.

3.3 Concussione

Ai sensi dell’art. 317 è punito con la reclusione da 4 a 12 anni, “il p.u. o l’inc. di p.s. che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, danaro o altra utilità.”

La sanzione dimostra come questo sia il più grave dei delitti contro la P.a. Ciò deriva dal fatto che l’abuso delle prerogative pubbliche dell’agente è posto in essere per incidere, ai fini di privato tornaconto, sulla libera determinazione del privato. IN questo senso si è di fronte ad un reato plurioffensivo. Il bene giuridico va individuato ancora nel buon andamento e imparzialità della P.a.

Anche questa norma è stata modificata dalla riforma del 1990: è stata estesa la realizzabilità del reato anche da parte dell’inc. di p.s., e di conseguenza è stata sostituita la locuzione “abusando della sua qualità o delle sue funzioni” con quella attuale “abusando della sua qualità e dei suoi POTERI”,

3.3.1 La condotta: generalità

La condotta presenta una struttura complessa, in quanto è formata da elementi naturalistici (costrizione e induzione) e normativi (abuso della qualità e dei poteri).

Si tratta di due componenti che devono autonomamente esistere; in particolare non si deve ritenere implicitamente sussistente il requisito dell’ABUSO nell’accertata costrizione o induzione. Si trasformerebbe così la concussione nell’estorsione e/o truffa commessa dal p.u. con l’aggravante del n.9 art. 61.

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2. La costrizione

Costringere significa determinare, con violenza o con minaccia, la altrui volontà tenendo un certo comportamento, attivo o omissivo.

Distinguendo tra violenza FISICA e PSICHICA, non si può parlare di costrizione nel primo caso, in quanto il movimento della vittima non è spontaneo: si è piuttosto in presenza di una coercizione della volontà.

Posto che il costringimento è PSICHICO, questo può essere assoluto o relativo: nel primo caso la vittima non ha reale alternativa di fronte all’altrui violenza o minaccia; nel secondo caso egli è posto davanti ad una – seppur coartata – alternativa.

Vi è concordia nel ritenere che la nozione dell’art. 317 fa riferimento alla costrizione psichica relativa. Determinante in questo senso il fatto che la costrizione deve essere attuata con abuso della qualità o dei poteri: poiché mai il p.u. dispone del potere di utilizzare mezzi di coazione fisica per ottenere denaro o utilità dal privato, è da escludere che egli, in quanto tale, possa costringere in modo assoluto abusando delle sue prerogative.

Il fatto può essere realizzato anche mediante omissioni, ad es. ritardando il compimento di atti di ufficio per ottenere dal privato il versamento di una somma di denaro (es. approvazione dello stato di avanzamento lavori).

Non è necessario che sia il p.u. a formulare la richiesta, potendo egli limitarsi a creare la situazione costrittiva, attendendo che sia poi il privato ad offrire denaro per rimuoverla.

Non è comunque sufficiente che egli approfitti di una situazione esistente; egli deve crearla. Non è sufficiente quella che è stata chiamata concussione ambientale, dove (in realtà connesse al fenomeno delle tangenti) la situazione costrittiva è causata da prassi illecite che inducono il privato a sentirsi costretto al pagamento di denaro per ottenere la corretta attuazione del suo rapporto con la P.a.

Per sopperire alle esigenze di tutela era stata proposta una autonoma fattispecie che punisse “il p.u. o inc. di p.s. che, nell’esercizio delle sue funzioni o del servizio, giovandosi dell’altrui stato di soggezione, da lui non volontariamente causato, riceve per sé o per un terzo, denaro o altra utilità non dovuti o ne accetta le promesse.” Non si è tradotta in legge per mancanza di tassatività.

2. L’induzione

E’ ben più problematico decifrare questa condotta, che è stretta tra due termini.

Essa va distinta dalla COSTRIZIONE, per cui non può consistere in una coercizione di nessun tipo della volontà del soggetto passivo.

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Essa andrebbe distinta anche dalla INDUZIONE IN ERRORE, in quanto il legislatore, quando ha inteso riferirsi ad un tale tipo di condotta, ha usato la locuzione specifica “induzione in errore” (es. reato di truffa).

Sennonché i vari tentativi di dare una nozione di induzione che non sia nè costrizione nè induzione in errore hanno peccato di sufficiente determinazione. L’unica alternativa possibile è tra il ritenere che induzione significhi induzione in errore, cioè falsa rappresentazione della realtà, o arrendersi di fronte alle censure di incost. dovute alla carenza di tassatività.

Alcuni progetti di riforma proponevano infatti di espungere dall’art. 317 l’induzione medesima.

2. L’abuso della qualità o dei poteri

Circa l’abuso di POTERI, il concetto va ricostruito con riferimento alla posizione giuridica del soggetto qualificato, nel senso che l’abuso consisterà in un impiego distorto e viziato dei poteri che gli competono. Rileva anche l’estensione della fattispecie all’inc. di p.s. e la conseguente variazione da funzioni a poteri.

Il p.u., ai senso dell’art. 357, esercita la pubblica funzione con atti tipici della medesima. L’abuso dei suoi poteri consiste nell’emanazione di atti pubblici oggettivamente viziati, ovvero affetti, per quanto concerne la P.a., da incompetenza, violazione di legge o eccesso di potere. Non rientra nella nozione il c.d. vizio di merito, che concerne la scelta tra varie possibilità, tutte lecite.

Il problema nasce quando l’abuso è posto in essere dall’inc. di p.s., per il quale l’art. 358 determina i poteri in modo negativo e residuale.

L’abuso dovrà consistere non più in atti ma in attività che devono:

1. avere rilevanza pubblicistica;

2. poter incidere sul soggetto costretto o indotto;

3. essere in oggettivo contrasto con le disposizioni normative che regolano l’attività.

Può costituire abuso di potere anche l’omissione di un tale atto, laddove l’omissione possa considerarsi affetta da abuso di potere.

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La qualità non può, per ragioni di obiettività, identificarsi con la sussistenza in capo all’agente della qualifica soggettiva. Anche qui occorre che l’abuso (di qualità) si manifesti in un concreto comportamento, non essendo sufficiente, come sostiene Pagliaro, che vi sia “immediatezza della finalità illecita che costringe o indice altri all’indebito”.

La qualificazione della condotta in termini di ABUSO comporta che il male prospettato deve essere ingiusto, per cui non si potrà parlare di abuso se il p.u. minaccia l’esercizio dovuto o corretto dei suoi poteri.

3.3.5 La dazione o la promessa indebita, l’oggetto materiale: danaro o altra utilità

Il risultato della condotta deve essere un atto dispositivo da parte della vittima che può sostanziarsi in:

1. dazione, intesa in senso lato e cioè comprensiva di tutti i modi in cui può attuarsi da parte del p.u. la ricezione (oltre alla consegna, qualsiasi riconoscimento orale o scritto rispetto alla titolarità di un diritto, ecc.)

2. promessa, come volontà di dare in futuro. Essa, anche se adottata in forme giuridiche vincolanti, non produce alcun effetto. Si ritiene che si realizzi il reato anche in caso di promessa fatta con riserva mentale di non adempiere e/o al solo fine di far perseguire il colpevole. Si ripropongono allora i problemi legati alla figura dell’agente provocatore.

Destinatario della promessa o dazione può essere anche un terzo. Si dubita se nel concetto di “terzo” possa essere ricompreso anche lo Stato o altro ente pubblico. Mentre una parte della dottrina (Pagliaro) lo nega, sulla base di un’assenza di offesa agli interessi della P.a., altri lo ammettono (Contento), evidenziando la generalità del termine “terzo” adottato dal legislatore. Appare forse preferibile questa seconda tesi.

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Oggetto della dazione o promessa deve essere denaro o altra utilità. Il concetto di UTILITA’ oscilla da un contenuto ristretto, limitato ai soli vantaggi patrimoniali, ad uno più largo, comprendente anche quelli materiali, ad uno ancora più esteso, che abbraccia anche le utilità immateriali. Nulla si oppone a questa più estesa nozione (anche prestazioni sessuali).

La promessa o la dazione devono essere effettuate indebitamente; ci si domanda se si realizzi il reato anche quando il p.u. ottenga ciò di cui egli ha diritto come privato: la giurisprudenza e gran parte della dottrina ritengono che il fatto integri la fattispecie concussiva (Antolisei, Contento), ma non mancano voci contrarie (Pagliaro).

3.3.6 Il dolo

E’ generico e deve ricomprendere i numerosi elementi normativi (abuso, potere, qualità, servizio, indebito, ecc.). Rileva l’errore che cade sulle norme che danno corpo e disciplinano quelle nozioni (art. 47, 3° c.).

3.3.8. L’art. 317 bis

Esso prevede, per i reati di peculato e concussione la pena ACCESSORIA della interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Tuttavia, laddove il giudice, in presenza di circostanze attenuanti, applichi un pena < 3 anni, l’interdizione sia temporanea.

La norma introduce una più rigorosa disciplina rispetto a quella generale prevista dall’art. 29 a norma del quale l’interdizione perpetua consegue a condanne > 5 anni e quella temporanea per condanne > 3 anni.

3.4. Corruzione

1. Bene giuridico

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La profonda diversità che intercorre tra le diverse figure di corruzione rende difficile individuare un’oggettività giuridica comune. Vi sono difficoltà a ricondurre sempre e immediatamente il bene protetto ai concetti di buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa, posto che, se ciò vale per la corruzione propria, non può valere per quella impropria, dove l’attività dell’agente è conforme a quei doveri, e quindi oggettivamente legittima.

L’unica soluzione è individuarla nell’interesse dello Stato alla non venalità dei soggetti investiti di poteri pubblici nell’esercizio dei medesimi.

L’ordinamento pretende cioè la totale assenza di qualsiasi rapporto economico tra il privato e la persona fisica che attua la pubblica funzione o il pubblico servizio.

2. Pluralità di fattispecie o fattispecie aggravate

La pluralità di previsioni normative pone all’interprete due problemi: da un lato ci si chiede se si tratta di autonome figure di reato o di fattispecie base cui seguono aggravamenti o attenuazioni; dall’altro se le incriminazioni del corrotto (corruzione passiva) e del corruttore (corruzione attiva) danno vita ad un solo reato a concorso necessario o, invece, a singole figure criminose.

Il legislatore prevede circa 12 tipi di corruzione, la cui pena varia a seconda di alcuni parametri di disvalore penale:

1. la contrarietà o la conformità ai doveri d’ufficio dell’atto del soggetto qualificato (corruzione propria o impropria);

2. la precedenza dell’accordo rispetto all’atto, o la contraria scansione temporale (corruzione antecedente o successiva);

3. la qualifica di p.u. rispetto a quella di inc. di p.s. e, in posizione intermedia, quello di inc. di p.s. che sia anche pubblico impiegato;

4. casi di istigazione alla corruzione.

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Con riguardo al primo interrogativo, la dottrina è unanime nel ritenere che si tratta di autonome fattispecie di reato. A questa conclusione la previsione delle varie ipotesi in differenti articoli nonché la determinazione autonoma della pena.

2. Corruzione come reato a concorso necessario

Il problema deriva dalla tecnica impiegata dal legislatore che, dopo aver descritto i fatti di corruzione con lo schema monosoggettivo di reato proprio del p.u., (artt. 318 e 319), prevede l’applicazione delle stesse pene per il privato (art. 321).

Pagliaro ha affermato, facendo leva su questo dato, che si tratta di fattispecie autonome per il corrotto e per il corruttore.

La giurisprudenza e la dottrina prevalente sostengono invece si tratti di reato a concorso necessario, che comprende i casi in cui la realizzazione di una singola figura criminosa richiede la compartecipazione di almeno 2 persone.

Si evidenzia come le condotte del privato e del p.u., dare o promettere, da un lato, ricevere o accettare dall’altro, rappresentino gli aspetti attivo e passivo di uno stesso fenomeno. Questa impostazione consente di cogliere la vera essenza dei reati di corruzione, consistente nell’accordo criminoso avente ad oggetto il mercimonio dell’attività pubblica: il c.d. pactum sceleris.

2. Corruzione propria: la condotta, l’oggetto materiale

La corruzione propria risulta dal combinato disposto degli artt. 319, 320, 321 e si configura nel caso in cui il p.u. o l’inc. di p.s. “per omettere o ritardare, o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per avere compiuto un atto contrario ai doveri del suo ufficio, riceva, per sé o per altri, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa”.

La legge equipara le due ipotesi di corruzione propria antecedente e susseguente, non tenendo conto della diversa gravità che le distingue. Questo è il frutto della novella del 1990 rispetto all’originaria disciplina del codice, che invece prevedeva per la corruzione susseguente, una sanzione minore. Adesso per entrambe la pena è della reclusione da 2 a 5 anni.

La stessa correzione non è invece stata apportata alla c. impropria.

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Si è inteso in questo modo semplificare l’accertamento processuale dei casi in cui vi è prova di una dazione di denaro intervenuta dopo il compimento dell’atto, alla quale, presumibilmente, corrisponde un accordo precedente.

Tra le condotte del privato (dazione o promessa) e del p.u. (ricezione o accettazione) vi deve essere una precisa relazione; tale corrispondenza viene in dottrina definita come rapporto sinallagmatico.

Da questo deriva che l’atto o l’attività pubblicistica deve essere determinato o determinabile: sussiste il reato anche quando non vi è uno specifico atto, ma deve trattarsi pur sempre di un’attività individuabile nel genere, anche solo con riferimento allo scopo che si vuol conseguire.

Non si integra il reato in presenza di doni in natura che rientrano nella prassi, purché di valore cosi modesto da apparire sproporzionato alle funzioni e agli atti del p.u.

Non si può comunque richiedere che il rapporto di proporzione vada inteso nel senso di equivalenza tra il valore della dazione e quello del vantaggio che il privato trae dall’atto dell’intraneo. Sia il fatto tipico che la lesività si realizzano anche se questi due termini sono ben diversi purché superiori alla soglia minima.

Secondo alcuni autori (Fiandaca-Musco; Pagliaro), il danaro o altra utilità devono in qualche modo costituire la retribuzione dell’atto. Tale requisito, espressamente previsto dalla fattispecie impropria, sarebbe implicitamente presente anche nella c. propria. In realtà il legislatore ha utilizzato questo termine nella c. per atto d’ufficio perché in quel caso, essendo l’attività pubblica correttamente esercitata, è ragionevole che il fatto sia punito solo se il prezzo pagato abbia una consistenza tale da poterlo considerare in qualche modo retributivo.

Per quanto riguarda l’oggetto materiale, questo consiste in denaro o altra utilità, nello stesso senso visto per la concussione. Con la particolarità che nel concetto di “altra utilità” non sarebbe configurabile la prestazione sessuale in quanto nella corruzione il rapporto tra i due soggetti è frutto di libera determinazione, anziché di costrizione o induzione.

5. Segue: l’atto contrario ai doveri d’ufficio

Nella corruzione propria viene in rilievo l’omissione o il ritardo di un atto d’ufficio o la contrarietà ai doveri d’ufficio di questo.

“Contrarietà ai doveri d’ufficio” non è di agevole interpretazione. Una tendenza giurisprudenziale è nel senso di ritenere sussistente la contrarietà non solo in presenza di violazione di norme che disciplinano l’esercizio di quel potere, ma ogni volta che il p.u. venga meno a un suo dovere di correttezza, fedeltà, ecc., a prescindere dalla contrarietà dell’atto.

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Poiché, l’accettazione di denaro o altra utilità da parte del p.u. finisce sempre con la violazione di quei doveri e l’offesa a quei beni, la corruzione tenderà a divenire sempre PROPRIA, per cui tale interpretazione si risolve in un inammissibile uso estensivo del bene giuridico.

La corretta interpretazione della norma è nel senso che la contrarietà ai doveri d’ufficio implica la illegittimità dell’atto dalla stregua delle norme che disciplinano i tipici vizi dell’atto amministrativo.

Il concetto di “ATTO” va inteso in senso ampio, comprendente non solo gli atti amm. in senso stretto, ma anche quelli interni al procedimento amministrativo (pareri, richieste…) e tutte le attività giuridicamente rilevanti anche solo materiali.

Nel caso di mere attività pubblicisticamente rilevanti, la contrarietà ai doveri d’ufficio andrà accertata alla luce delle regole giuridiche che la disciplinano. La fattispecie penale sconta quindi l’incompleta attuazione dell’art. 97 Cost., che prevede la riserva di legge in materia di organizzazione degli uffici.

6. Corruzione impropria

Il legislatore ha lasciato sussistere la distinzione tra antecedente e susseguente, prevedendo per quest’ultima la pena della reclusione fino a 1 anno, anziché da 6 mesi a 3 anni, come per l c. antecedente. Dispone infatti l’art 318 che “Il p.u., che. per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa… - se il p.u. riceve la retribuzione per un atto d’ufficio da lui già compiuto…”

Un’altra differenza è l’estensione della disciplina dell’inc. di p.s. operata dall’art. 320: mentre l’ipotesi di corruzione PROPRIA è indifferentemente realizzabile da qualsiasi inc. di p.s., per quella IMPROPRIA la norma richiede che l’inc. di p.s. sia anche un pubblico impiegato.

6. Corruzione attiva

L’art. 321 sancisce l’applicazione delle pene stabilite agli artt. che prevedono le varie forme di c. anche al corruttore, completando così il profilo della c. come reato a concorso necessario.

La condotta del corruttore consiste nel dare o promettere denaro o altra utilità. La promessa deve essere accettata, altrimenti si rientra nel caso di istigazione alla c.

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L’estensione della punibilità del privato non è prevista nel caso di c. impropria susseguente (l’art. 321 richiama infatti l’art. 318 solo 1° comma.), in quanto il legislatore ha giustamente ritenuto che il disvalore del fatto di chi compensa il p.u. per un atto conforme ai doveri del suo ufficio, dopo che esso sia stato compiuto non meriti sanzione penale.

6. Istigazione alla corruzione (art. 322)

Due dei 4 commi sono stati introdotti nel 1990: in origine la norma prevedeva solo i casi del privato che offre o promette denaro al p.u. o all’inc. di p.s. per indurlo a compiere un atto conforme o contrario; successivamente si sono introdotte le ipotesi del p.u. o inc. di p.s. che sollecita il privato.

Le ipotesi previste dalla norma sono quindi:

1. istigazione alla corruzione passiva, propria e impropria (c. 1° e 2°: pena stabilita dagli artt. 318 e 319, ridotta di 1/3));

2. istigazione alla corruzione attiva, propria e impropria (c. 3° e 4°: stessa pena dei c. 1° e 2°).

Le condotte previste per il privato consistono nell’offrire o promettere, e il reato si realizza quando “l’offerta o la promessa non sia accettata”.

La PROMESSA non ha vincolatività giuridica; per l’OFFERTA, una parte della dottrina ritiene non sia necessario – a differenza della promessa – che il destinatario ne venga effettivamente a conoscenza. A questo caso si equipara l’accettazione simulata fatta allo scopo di smascherare l’autore.

Si sostiene poi che promessa ed offerta possano essere fatte anche a un terzo.

Trattandosi di reato di mera condotta, qualche autore afferma non sia configurabile il tentativo, contrariamente alla dottrina dominante (Pagliaro).

In realtà, anche se la soluzione pare condivisibile, la ragione non sta nel carattere unisussistente del reato, in quanto le condotte si possono realizzare in una pluralità di atti, quanto per il più sostanziale rilievo che si profilerebbe un “tentativo di tentativo” e si lederebbe il principio di offensività.

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Le nuove fattispecie di istigazione alla c. attiva (posta cioè in essere da p.u. o inc. di p.s. che “sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall’art. 318 e 319”) pongono il problema di definire il contenuto della condotta descritta come sollecitazione, che appare difficilmente distinguibile dalla “INDUZIONE” della concussione.

Il riferimento agli art. 318 e 319 impone di ritenere che le rispettive fattispecie ricomprendano anche i tentativi di corruzione susseguente.

9. Il dolo

La dottrina tende a qualificare il dolo come GENERICO, se si tratta di c. susseguente, SPECIFICO, se la c. è antecedente (Pagliaro, Fiandaca-Musco). Si argomenta che laddove il p.u. riceve il compenso per un atto già compiuto, la volontà non si proietta oltre la condotta come, invece, accade quando egli riceve o accetta “per” compiere l’atto. Stante però l’equiparazione tra c. antecedente e susseguente nella c. propria, nella stessa fattispecie il dolo si atteggerebbe diversamente nei due casi.

Tale opinione non sembra condivisibile: a ben vedere, il compimento (o l’omissione dell’atto) costituisce l’oggetto dell’accordo più che l’intento dell’autore, onde già la volontà dell’accordo stesso implica la consapevolezza del suo contenuto. Non vi è dunque proiezione della volontà oltre il fatto materiale, che caratterizza il dolo specifico, per cui è più corretto ritenere che vi sia sempre dolo generico.

9. Le aggravanti

L’art. 319 bis prevede una circostanza aggravante ad effetto ordinario per il caso della c. PROPRIA ANTECEDENTE: “se il fatto ha per oggetto il conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l’amministrazione alla quale il p.u. appartiene”.

L’art. 321 richiama questo art. 319 bis, per cui tale aggravante è applicabile anche al corruttore, mentre non appare estendibile anche all’inc. di p.s., posto che l’art. 320 non richiama l’art, 319 bis. ed è discutibile che sia sufficiente il richiamo dell’art. 319 poi menzionato dall’art. 320.

Sono pubblici impieghi, stipendi, pensioni tutte le prestazioni che comunque impongano un obbligo continuativo di corresponsione di assegni da parte dell’erario, a prescindere dalla misura e del suo titolo.

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Quanto ai contratti, la P.a. ne deve essere parte in senso sostanziale.

9. Corruzione in atti giudiziari

La riforma del 1990 ha introdotto una esplicita previsione per il caso in cui la corruzione abbia attinenza con l’attività giudiziaria. L’art. 319 ter prevede che “Se i fatti indicati dagli artt. 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da 3 a 8 anni”.

Soggetto attivo è solo il p.u., in quanto l’art. 320 non menziona l’art. 319 ter. Il motivo sta nel fatto che ai soggetti potenziali autori di condotte che incidono nelle decisioni giudiziarie compete la qualifica di p.u.

La dottrina accoglie la tesi che configura la corruzione in atti giudiziari come una autonoma figura criminosa e non come circostanza aggravante. A ritenere diversamente, infatti, il rigoroso trattamento sanzionatorio può di fatto venir vanificato dal giudizio di comparazione con eventuali attenuanti, magari generiche.

La formulazione normativa non è però immune da imperfezioni: poiché essa prospetta un eguale trattamento sanzionatorio, essa sembra equiparare sia la c. propria a quella impropria, sia quella antecedente a quella susseguente.

E’ stato giustamente osservato che, dovendo il fatto essere commesso “per favorire o danneggiare una parte”, esso non sarebbe configurabile dopo il compimento dell’atto. Inoltre, si deve ritenere che il vantaggio o il danno debbano essere ingiusti, posto che altrimenti non si spiegherebbe il rigoroso trattamento sanzionatorio. Ne deriva quindi che la norma si circoscrive ai casi di corruzione propria antecedente, così evitando rilievi di illegittimità cost. sotto il profilo della ragionevolezza.

Il cpv. dell’art. 319 ter prevede una aggravante ad effetto speciale: “ se dal fatto deriva una ingiusta condanna alla reclusione < 5 anni, la pena è della reclusione da 4 a 12 anni; se deriva un’ingiusta condanna alla reclusione > 5 anni o all’ergastolo, la pena è della reclusione da 6 a 20 anni”.

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9. Criteri distintivi rispetto alla concussione

Dalla diversa qualificazione dipende, a parte la diversa sanzione, la stessa qualificazione dell’estraneo come vittima del reato (concussione) o come compartecipe (corruzione).

E’ diverso anche, sul piano processuale, il valore probatorio delle dichiarazioni del privato, che, in un caso, è teste e come tale rende dichiarazioni che hanno valore probatorio, e, nell’altro, quale imputato, oltre a potersi valere della possibilità di tacere, offrirà elementi di ben inferiore valore processuale.

Il più risalente, ma ormai superato, criterio distintivo, distingueva a seconda che l’iniziativa fosse assunta dal p.u. o dal privato: concussione nel primo caso, corruzione nel secondo. Tale criterio non può però essere assunto a regola generale ed, inoltre, a seguito della modifica dell’art. 322, è stata introdotto l’ipotesi di sollecitazione da parte del p.u., il che dimostra che non vi è incompatibilità tra l’iniziativa del p.u. e la fattispecie di corruzione.

Un altro criterio fa leva sul rapporto tra i due soggetti: di subordinazione, nel caso della concussione, di parità sul piano della corruzione. Tale impostazione non è sempre di facile applicazione, in quanto si basa su elementi soggettivi, e considerando anche che il p.u. in quanto tale è sempre in inevitabile situazione di supremazia.

Tenendo conto che nella concussione il privato è vittima e, quindi, danneggiato, un altro criterio evidenzia la distinzione nel fatto che nella concussione il privato agisce per evitare un danno; nella corruzione per ottenere un vantaggio.

Vi può però essere il caso del p.u. che chiede denaro per non eseguire un arresto doveroso. Qui si prospetta per il privato un danno che non è ingiusto, e come tale non può rientrare nell’ipotesi di concussione. Il danno conseguente è in realtà secundum ius; ciò che il p.u. prospetta minacciando il compimento dell’atto è di non porlo in essere in cambio del compenso: corruzione propria (omissione di un atto di ufficio) se l’offerta è accolta, istigazione ex art. 322 se non accolta.

In presenza, invece, di un atto di ufficio ottenuto dietro versamento, si dovrà distinguere a seconda che il p.u. minacci di non porlo in essere (concussione) o se la volontà di pagare è frutto di libera scelta del privato.

Si è proposta l’abolizione della concussione, sull’esempio di molti ordinamenti a cui è sconosciuta.

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4. Abuso d’ufficio

Art. 323, 1° comma: “Salvo che il fatto non costituisca un reato più grave, il p.u. o l’inc. di p.s. che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni – La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità”.

L’attuale testo, risultante dalla L. 234/1997, è il frutto di una lunga e travagliata vicenda normativa.

Gli antecedenti storici sono costituiti da fattispecie di abuso di autorità presenti nelle legislazioni preunitarie e nel codice Zanardelli. Si trattava di ipotesi criminose, di ispirazione illuminista, poste a protezione dei diritti dei cittadini rispetto alle prevaricazioni del potere esecutivo.

Nel codice Rocco il quadro muta, e la tutela penale comprende anche gli abusi commessi in danno della stessa P.a. con un arretramento del momento consumativo. La norma delineava una fattispecie di mera condotta il cui elemento oggettivo appariva così sfuggente, per cui la figura criminosa ricadeva tutta sull’elemento soggettivo costituito dal dolo specifico. La fattispecie, carente sul piano ella tassatività, era idonea a coprire ogni irregolarità del p.u. e a garantirne la fedeltà.

Questa situazione faceva sì che il giudice penale potesse operare un penetrante controllo sull’operato della P.a.

Va ricordato che il versante degli abusi di tipo affaristico del p.u. era coperto da una fattispecie maggiormente determinata, quella dell’interesse privato in atti d’ufficio (art. 324), imperniata sulla presa d’interesse in uno specifico atto di ufficio del p.u.

Il legislatore del ’90, invece che sopprimere l’art. 323 e estendere l’art. 324 anche all’inc. di p.s., abrogava quest’ultimo e riformulava il reato di abuso d’ufficio ricalcando però il vecchio testo. La fattispecie andava così a coprire lo spazio delle due precedenti norme con notevole inasprimento della pena. Nell’intenzione del legislatore doveva confluire nell’art. 323 anche il peculato per distrazione, espunto dall’art. 314.

La fattispecie veniva dunque ad assumere un ruolo centrale nell’ambito dei delitti contro la P.a. e a ciò contribuiva il passaggio dalla formula di sussidiarietà rispetto a qualsiasi reato a quella, novellata, riferita solo ai reati più gravi.

La situazione non mutava, anzi l’estensione all’inc. di p.s. implicava la dilatazione dei contorni del reato al di là degli atti tipici del p.u., consentendo una penetrante intromissione della magistratura.

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Il riproporsi della questione di legittimità cost. dell’art. 323 nel 1996 ha indotto il legislatore del 1997 ad intervenire in attesa di una pronuncia della Consulta.

2. Il testo attuale della L. 234/1997

Si è in presenza di un reato proprio ad evento naturalistico (il vantaggio o il danno arrecato a sé o ad altri) con condotta tipicizzata (la violazione di norme di legge o di regolamento o l’omessa astensione).

La condotta consente di annoverare la fattispecie tra i reati di abuso e di individuarne l’oggettività giuridica nella legale esplicazione delle pubbliche funzioni e dei pubblici servizi.

La duplicità di eventi alternativamente previsti ingloba, oltre al profilo della prevaricazione (nel caso del danno altrui) anche quello dell’affarismo (vantaggio del soggetto agente o altrui), introducendo un elemento patrimoniale spurio che consente di parlare di “delitto che comunque offende il patrimonio”.

2. Reato ad evento con condotta tipicizzata: la condotta

La descrizione della condotta si articola in due alternative:

1. Violazione di norme di legge o di regolamento

L’obiettivo del legislatore è stato quello di dare maggiore tassatività alla fattispecie, eliminando le interpretazioni che tendevano a soggettivare la fattispecie appiattendone l’illegittimità sull’elemento soggettivo. Ora non vi è dubbio che per la realizzazione del reato sia necessaria l’oggettiva violazione di norme, in carenza della quale sarà irrilevante l’intento, personalistico o meno, perseguito dall’agente.

Il generico riferimento ai REGOLAMENTI, per evitare un contrasto col principio di riserva assoluta di legge in materia penale, va interpretato in senso restrittivo, comprendendo i soli regolamenti delegati che hanno diretta legittimazione legale, e non anche i regolamenti interni.

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Riguardo alla “violazione di NORMA DI LEGGE”, l’alternativa è tra riferire il testo al corrispondente vizio di illegittimità dell’atto amm., con esclusione dell’incompetenza e dell’eccesso di potere, o, di contro, interpretare la formula in senso ampio.

Mentre la giurisprudenza sembra propendere per la tesi restrittiva, pare preferibile la contraria opinione che ricomprende anche l’eccesso di potere e l’incompetenza, sia perché meglio risponde alla ratio legis, sia perché sarebbe ingiustificata la diversità di trattamento.

L’eccesso di potere consiste in una oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che, secondo la legge, deve soddisfare, a prescindere dal motivo della condotta e dal fine.

Quanto alle disposizioni di legge, deve trattarsi di disposizioni precettive, che contengono regole e non principi. Non può ravvisarsi violazione di legge qualora il p.u., pur non contraddicendo alcuna disposizione legale o regolamentare, si comporti in modo contrario all’imparzialità e buon andamento della P.a. Ritenendo diversamente, si opererebbe una analogia in malam partem e si violerebbe il principio di tipicità.

Sempre con riferimento alla condotta di violazione di legge, la dottrina maggioritaria ritiene che in essa possano ricomprendersi anche comportamenti omissivi quando la legge impone un comportamento positivo. Può forse dubitarsi di questa soluzione per un necessario coordinamento con le ipotesi criminose dell’art. 328 (rifiuto d’atti di ufficio e Omissione). La fattispecie non pare realizzabile in forma commissiva mediante omissione stante la natura di reato a condotta vincolata che renderebbe inapplicabile l’art. 40, cpv.

2. Omettendo di astenersi

Rilievi simili si prospettano anche per l’ipotesi di realizzazione del reato per omessa astensione, che si realizza dove il soggetto agisca nonostante sia in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti in cui deve astenersi.

Il necessario verificarsi dall’evento, previsto dalla norma in termini di “vantaggio o danno ingiusti”, funge da correttivo al pericolo di punizione di omesse astensioni dovute a valutazioni di semplice opportunità.

Pone maggiori interrogativi il caso di omessa astensione “negli altri casi prescritti”: esso sembra riferirsi a qualsiasi obbligo di astensione, quale che sia il tipo di norma che lo imponga, sia per quanto concerne la fonte (legale o meno) sia per il fatto che essa già esista o sia di futura emanazione. In questo modo si è costruita una nuova ipotesi estrema di norma penale in bianco, la quale, con riferimento ad eventuali futuri casi di obblighi di astensioni ancora non disciplinati, pone problemi tanto sotto il profilo della tassatività quanto della riserva di legge.

La condotta deve realizzarsi nello svolgimento delle funzioni o del servizio: si è voluto circoscrivere l’ambito di operatività della fattispecie ed ancorarla alla sua obiettività giuridica.

2. L’evento

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Il reato si perfeziona con il verificarsi dell’evento naturalistico costituito indifferentemente da:

• ingiusto vantaggio patrimoniale procurato “a sé o ad altri”

• danno ingiusto arrecato ad altri.

Quanto al primo caso la norma ha ridotto la portata della fattispecie ai soli casi in cui l’interesse sia di natura patrimoniale, contrariamente alla previgente norma.

Il riferimento “a sé o ad altri” ripropone la questione se debba ricomprendersi tra “gli altri” anche la P.a. o se invece il reato si realizzi solo in presenza di un vantaggio privato. Pare preferibile questa ultima soluzione , in quanto la fattispecie, in questa parte, fa riferimento all’ipotesi di affarismo, mentre dove l’agente realizzi l’interesse della P.a., potrà configurarsi eventualmente il delitto se sia parallelamente provocato un danno ingiusto al privato.

Vantaggio e danno devono essere connotati dal carattere della ingiustizia, cioè della contrarietà all’ordinamento giuridico. Deve trattarsi di un’ingiustizia oggettiva, che prescinda, e si aggiunga, all’illegittimità della condotta. Secondo alcune pronunce invece, l’ingiustizia conseguiva automaticamente alla illegittimità della condotta.

Non costituiscono quindi reato gli eventuali abusi con cui si consegua un risultato oggettivamente non contrario alla legge; si potranno semmai configurare responsabilità disciplinari.

5. Il dolo

Il dolo richiesto dalla norma deve essere intensamente connotato, come si deduce dall’avverbio “intenzionalmente”.

Le precedenti formulazioni della norma, sia quella del codice Rocco sia quella del ’90, richiedevano la forma del dolo SPECIFICO (“il p.u….che al fine di…”), consistente nella proiezione della volontà verso il danno o il vantaggio; ciò si combinava però in presenza di una struttura oggettiva di mera condotta.

Oggi, trasformato l‘obiettivo dell’agente in evento naturalistico, il dolo torna a coincidere con l’elemento oggettivo: si tratta di dolo generico.

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Con l’uso del termine “intenzionalmente” si è voluto evitare che, attraverso l’uso del dolo eventuale, si potesse scolorire troppo l’elemento soggettivo. L’indicazione normativa pretende quindi un intenso atteggiarsi dell’elemento soggettivo in termini di diretta ed esclusiva intenzionalità, non essendo sufficiente che il soggetto si rappresenti solo il danno o il vantaggio e ne accetti semplicemente il rischio; egli dovrà invece perseguire quello scopo.

Tale configurazione del dolo, voluta per reagire ai precedenti abusi della giurisprudenza, attenua l’efficacia concreta della norma.

5. L’aggravante del cpv.

E’ previsto un aggravamento di pena se il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità. L’aggravante, pur lasciando al giudice un notevole spazio discrezionale, non è INDEFINITA, perché pur sempre ancorata alla gravità del danno o del vantaggio, e non genericamente del fatto. Si tratta di elementi con forte connotazione materiale.

5. Problemi di successione di leggi

Il problema della disciplina dei fatti commessi sotto il previgente testo vanno risolti alla luce dell’art. 2, il quale sancisce il principio di retroattività della norma più favorevole al reo, specificando che, mentre nel caso in cui il fatto non sia più reato per la nuova legge,, l’autore non può essere punito e anche la sentenza passata in giudicato viene rimossa, nel caso in cui, pur mutando disciplina, permane l’illiceità penale, si applica la nuova norma più favorevole salvo sia intervenuto il giudicato.

5. L’attenuante di cui all’art. 323 bis

La norma prevede una diminuzione di pena “se i fatti previsti dagli artt. 314, 316, 316 bis, 318, 319, 320, 322, 323 sono di particolare tenuità”.

Non si comprende come il legislatore abbia incluso alcune fattispecie criminose e non altre. Non certo la gravità dei reati, perché l’attenuante non può essere esclusa dalla gravità astratta della figura criminosa.

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La attenuante, se non può dirsi del tutto indefinita, presenta parametri molto ampi. IL riferimento al FATTO sembra diversi riferire a tutti gli elementi che danno in concreto vita al reato, così come previsti dalla prima parte dell’art. 133 e non solo quelli obiettivi.

Delicati problemi si pongono circa i rapporti tra questa disposizione e gli artt. 62 bis e 62 n. 4 che prevedono le c.d. attenuanti generiche e l’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità. Poiché non sembra esservi specialità ex art. 15, si può affermare l’ipotetica applicabilità di tutte e tre le circostanze attenuanti con notevole discrezionalità del giudice nella quantificazione della pena, forse ai limiti della incompatibilità con il principio di determinatezza della pena.

5. Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione (art. 328)

1° comma: “Il p.u. o l’inc. di p.s., che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni”

2° comma: “Fuori dai casi previsti dal 1° c. il p.u. o l’inc. di p.s. che entro 30 gg. dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino a 1 anno o con la multa fino a 2 milioni. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta e il termine di 30 gg. decorre dalla ricezione della richiesta stessa.”

La norma è frutto della L. 86/1990, che sostituisce la precedente formulazione imperniata sulle alternative condotte di rifiuto, omissione, ritardo. Il nuovo testo restringe l’ambito di operatività del 1° comma alla sola ipotesi del RIFIUTO e prevede la punibilità dell’OMISSIONE solo nel caso descritto al cpv.

Tale scelta è criticata dalla dottrina, perché si riduce la capacità di tutela pena della norma, anche considerando che nella maggior parte dei casi il burocrate non rifiuta l’atto o l’attività che gli compete, ma si limita a non provvedere.

La lacuna non è colmata dal 2° comma, nel quale, se pur si contempla l’ipotesi di omissione, è previsto un procedimento che condiziona fortemente l’efficacia dell’incriminazione: non solo è necessaria la richiesta del privato, ma il p.u. può evitare ogni responsabilità limitandosi a “motivare le ragioni del ritardo”.

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La disciplina pecca di formalismo: sembra che il legislatore si sia preoccupato più del rispetto delle regole burocratiche che non del reale soddisfacimento degli interessi che l’attività amm. deve soddisfare.

Nonostante la correttezza di questi rilievi, non si può negare che la previsione legislativa è comunque idonea a tutelare il bene protetto, ancora una volta individuato nel buon andamento della P.a. e quindi nella legale esplicazione del pubblico potere, posto in pericolo dai rifiuti e dalle omissioni dei p.u. Il concetto di buon andamento va inteso non in senso formalistico, ma come corretto svolgimento dell’attività amm. finalizzata al raggiungimento dei suoi obiettivi.

2. Il rifiuto

La condotta di cui al 1° c. è descritta esclusivamente in termini di rifiuto dell’atto doveroso: RIFIUTARE significa manifestare a chi ha richiesto l’atto la propria volontà di non compierlo. Non è possibile estendere l’interpretazione del termine fino a ricomprendervi la mera inattività (divieto di analogia in malam partem).

Il rifiuto presuppone una richiesta o un ordine, ma può realizzarsi anche implicitamente sempre in risposta alla richiesta od ordine suddetti.

Mentre l’ordine deve essere impartito da un superiore gerarchico, la richiesta può essere formulata da chiunque (il 2° coma invece richiede che essa provenga “da chi vi ha interesse”).

La norma precisa che il rifiuto deve essere indebito, cioè sfornito di giustificazione alla luce delle norme extrapenali. Il p.u. o inc. di p.s. deve avere un vero e proprio obbligo e non una semplice facoltà di compiere l’atto. Caso tipico di rifiuto non indebito è quello opposto ad un ordine illegittimo (salvo il caso in cui il destinatario non abbia alcun potere di sindacato sulla legittimità).

L’avverbio “indebitamente” configura un caso di ILLICEITA’ SPECIALE, con conseguenti riflessi sull’elemento del dolo.

La norma precisa poi che deve trattarsi di atto da compiere “senza ritardo”: questa infelice formulazione crea non pochi problemi: innanzitutto per la difficoltà di individuare atti da compiersi senza ritardo e atti per i quali il ritardo è normale ed accettabile. La norma appare poi contraddittoria in quanto non annovera tra le condotte il RITARDO, ma solo il RIFIUTO, e tuttavia fa riferimento ad atti da compiersi “senza RITARDO”.

Il fatto che il 1° c. non faccia riferimento ad alcun termine di scadenza porta a pensare che il legislatore abbia voluto potenziare il riferimento all’importanza e utilità dell’atto, circoscrivendo a questi casi la rilevanza penale. Si introduce però un criterio discriminante della illiceità penale la cui notevole elasticità pone però problemi di tassatività.

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2. L’atto d’ufficio e le ragioni del suo compimento

OGGETTO della condotta è un “atto d’ufficio” del p.u. o inc. di p.s., da compiersi per “ragioni di giustizia, o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità”.

La locuzione “Atto del suo ufficio” appare in discrasia con il fatto che la norma indica tra i soggetti attivi anche l’inc. di p.s., per il quale si dovrebbe parlare di “servizio” e non di “ufficio”, come era nella precedente formulazione della norma. Tuttavia è dato ritenere che le attività rifiutate possano concernere anche il pubblico servizio, e non solo la pubblica funzione, purché si tratti di atti che hanno una rilevanza esterna rispetto alla P.a.

La fattispecie, infatti, mira non tanto a garantire il comportamento del p.u., ma l’effettiva attuazione della funzione o del servizio: il reato potrà dirsi realizzato solo in quanto l’atto manchi oggettivamente, e non anche quando esso sia stato posto in essere da un terzo o l’atto sia viziato ma comunque idoneo ad attuare il suo scopo o quando l’agente ponga in essere un altro comportamento, ugualmente in grado di sortire l’effetto voluto.

La fattispecie si connota come un reato di evento, che rende configurabile il tentativo.

L’individuazione delle MATERIE cui l’atto deve inerire secondo il 1° c. ha dato luogo a fondate critiche della dottrina, che ha rilevato l’arbitrarietà dell’elencazione che esclude altre ragioni meritevoli di tutela, come la tutela dell’ambiente. La norma, ripresa dall’art. 650, porta con sé gli stessi problemi di eccessiva genericità e di rinvio a fonti inferiore, facendo dubitare della compatibilità con i principi di tassatività e riserva di legge.

PAGLIARO ha proposto queste definizioni:

• giustizia: ragione inerente ad una funzione giudiziaria;

• sicurezza pubblica riguarda quelle funzioni di polizia dirette a mantenere la sicurezza dei cittadini, la loro incolumità, a prevenire i reati…

• ordine pubblico, ragioni riguardanti la tutela della tranquillità pubblica e della pace sociale;

• igiene e sanità, sono quelle ragioni che riguardano la sanità sia pubblica sia privata.

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5. La fattispecie di cui al cpv. dell’art. 328

Il reato di cui al cpv. è una fattispecie OMISSIVA; la condotta è infatti l’omissione dell’atto di ufficio.

Il RITARDO non potrebbe esservi ricompreso, come si deduce dalla successiva menzione delle “ragioni del ritardo”, la cui esposizione da parte del p.u. lo esonera da responsabilità.

Si ha omissione quando l’atto non viene posto in essere dal p.u. o inc. di p.s. entro il termine di 30 giorni. La legge ha preferito fissare un termine preciso e autonomo da quelli eventualmente previsti dalle discipline amministrative, per semplificare l’accertamento del momento consumativo del reato. Scelta peraltro criticabile, in quanto le diverse funzioni pubbliche possono richiedere tempi di attuazione diversi.

La richiesta del privato potrà essere fatta in qualsiasi momento (e non scaduto il termine previsto dalla disciplina amm.), purchè si sia già in presenza della situazione giuridica che impone il p.u. di provvedere. Il reato però si perfezionerà, non allo scadere dei 30 gg., ma più tardi, nel caso in cui il termine amministrativo venga a scadenza successivamente.

La richiesta deve essere fatta per iscritto, e il termine decorre dalla ricezione della stessa da parte del pubblico funzionario o inc. di p.s..

A differenza del 1° c., il 2° precisa che la richiesta deve provenire da chi vi abbia interesse, ovvero da chi abbia un diritto soggettivo o interesse legittimo all’emanazione dell’atto. La tutela è quindi più circoscritta.

Il p.u. o inc. di p.s. possono però, anziché compiere l’atto richiesto, giustificare le ragioni del ritardo, il che può vanificare la tutela penale che la fattispecie dovrebbe garantire. Ricorrendone tutti gli estremi, potrà configurarsi il reato di abuso d’ufficio.

La norma parla di ritardo anziché di omissione, volendo ricomprendere anche i casi in cui l’atto, pur omesso, può ancora svolgere i suoi effetti se compiuto dopo il termine. Ci si deve comunque riferire solo ad atti OMESSI, cioè compiuti dopo il termine, altrimenti non vi è reato.

5. Il dolo

E’ generico, ma stante la ricchezza di elementi normativi, dovrà ricomprenderli tutti: il soggetto dovrà essere consapevole che l’atto fa parte dei suoi doveri di ufficio o di servizio, dovrà conoscere il carattere indebito del rifiuto, dovrà anche sapere che l’atto inerisce ad una delle ragioni elencate nella norma. Si richiede anche che il soggetto abbia coscienza e volontà di non rispondere per illustrare i motivi dell’omissione.

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Cap. 3 I DELITTI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA

GENERALITA’

I delitti contro l’Amministrazione della giustizia sono contenuti nel Titolo III del libro 2° del c.p.

Se per GIURISDIZIONALE si intende la funzione statuale rivolta ad accertare ed attuare il diritto positivo, attraverso l’istituto del processo, in questa sede il legislatore ha insieme limitato e ampliato tale concetto.

Limitato, perché le offese provenienti dagli stessi organi cui è attribuita la funzione giurisdizionale sono già sanzionate dalle norme del titolo II. Più esteso, perché ricomprende anche fattispecie che non attengono direttamente all’essenza della giurisdizione nel momento più saliente del processo, ma sono diretti a vanificare le decisioni già assunte o a vanificare in radice il diritto-dovere dello Stato di rendere giustizia.

Il titolo III si articola in 3 capi:

• Capo I: delitti contro l’attività giudiziaria;

• Capo II: delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie (interesse a che le decisioni giudiziali abbiano esecuzione e non siano vanificate);

• Capo III: tutela arbitraria delle private ragioni.

Anche in questo settore emerge la vetustà della codificazione penale e si sentono esigenze di riforma. La L. 356/1992 è ispirata dall’intento di adeguare la tipologia della repressione penale alle nuove esigenze del processo penale e alla necessità di rafforzare la risposta punitiva all’estendersi della criminalità organizzata. Essa, pur rilevante, rimane comunque critica e problematica e non toglie la necessità di riforma.

Da menzionare, perché diretto in questo senso, il progetto di c.p. redatto dalla commissione Pagliaro del 1991, rimasto senza seguito.

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1. DEI DELITTI CONTRO L’ATTIVITA’ GIUDIZIARIA

1. Dei delitti di omessa denuncia

OMISSIONE DI RAPPORTO DA PARTE DEL P.U. E DELL’INC. DI P.S. (Art. 361 e 362)

Art. 361: “il p.u. il quale omette o ritarda di denunciare all’Autorità giudiziaria o ad un’altra autorità alla quale abbia obbligo di riferire, un reato di cui ha avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da L. 60.000 a 1 milione. – La pena è della reclusione fino ad 1 anno, se il colpevole è un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, che ha avuto comunque notizia di un reato del quale doveva fare rapporto. – Le disposizioni precedenti non si applicano se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa.”

Art. 362: “l’inc. di p.s. che omette o ritarda di denunciare all’Autorità indicata nell’art. 361 un reato del quale abbia avuto notizia nell’esercizio o a causa del servizio, è punito con la multa fino a L. 200.000. – Tale disposizione non si applica se si tratta di reato punibile a querela della persona offesa, né si applica ai responsabili delle comunità terapeutiche per i fatti commessi da tossicodipendenti…”

L’art. 331 c.p.p. stabilisce che il p.u. o l’inc. di p.s. debbano fare rapporto al P.M. o ad un ufficiale di polizia giudiziaria, di ogni reato perseguibile d’ufficio del quale siano venuti a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni o servizio. Quando più siano i p.u. o inc. di p.s., può assolversi alla denuncia sottoscrivendo tutti un’unica informativa.

La polizia giudiziaria, invece (art. 330 c.p.p.) è obbligata anche a prendere cognizione di propria iniziativa, anche fuori dell’esercizio della funzione o servizio e a riferire senza ritardo al P.M..

Si discute quale sia il rapporto tra l’art. 328 e l’art. 361 c.p. E’ da ritenere che, sia in relazione all’oggettività giuridica, sia al bene protetto e all’elemento soggettivo le due fattispecie siano AUTONOME. L’art. 361 individua una condotta solo omissiva, mentre l’art. 328 connota una condotta attiva connessa a richiesta di agire, pertanto l’applicazione dell’art. 361 rende inapplicabile il 328 per il principio di specialità. Inoltre, mentre l’art. 328 tutela l’interesse sostanziale della pubblica autorità, il 361 protegge l’interesse processuale ad un corretto avvio del procedimento.

Per i reati perseguibili a richiesta o istanza, la mancata presentazione al P.M. del materiale raccolto, in assenza di querela, non può costituire reato, poiché non rientra né nel 361 nè nel 328.

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Vi è infine incertezza circa il significato della parola “reato” contenuto nella norma: non pare possibile attribuire all’agente, prima di informare il p.m., il potere di valutare se il fatto rivesta tutti i caratteri oggettivi e soggettivi della fattispecie: ciò che va riferito al p.m. è il fatto nei suoi elementi essenziali, quale è stato riferito o percepito dall’agente.

Per quanto riguarda la valutazione della condotta di “ritardo”, si deve distinguere: nell’ipotesi di atti per cui è prevista l’assistenza del difensore, la comunicazione della notizia al p.m. deve avvenire entro le 48 ore dal compimento dell’atto. Negli altri casi, dovendosi procedere senza indugio, il termine di riferimento sarà dato dall’acquisizione della stessa notizia di reato da ogni altro organo in anticipo e a parità di elementi.

In ossequio al principio di legalità, la denuncia incompleta non integra il reato, posto che l’art. 361 e 362 punisce solo la omessa o ritardata denuncia, e non la denuncia incompleta.

Per quanto riguarda i destinatari della denuncia, mentre l’art. 361 parla di Autorità giudiziaria e di altra autorità, l’art. 347 c.p.p. individua come unico destinatario il P.M.. La distonia è solo apparente, in quanto l’Autorità giudiziaria di cui all’art. 361 può essere solo il P.M. Per il p.u. e l’inc. di p.s. è poi prevista la possibilità, in ragione dei vincoli gerarchici, di denunciare ad altro organo della P.a.

In entrambe le fattispecie il dolo è generico, implicando la conoscenza degli elementi della fattispecie e la volontà di porre in essere la condotta vietata. Il tentativo non è configurabile.

L’art. 363 prevede un’aggravante (“Omessa denuncia aggravata”), quando l’omessa denuncia riguarda un delitto contro la personalità dello Stato, che comporta la pena da 6 mesi a 3 anni; se poi l’agente è un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria, la pena è da 1 a 5 anni.

OMESSA DENUNCIA DEL CITTADINO

L’art. 364 prevede che “Il cittadino che, avendo avuto notizia di un delitto contro la personalità dello Stato, per il quale la legge stabilisce l’ergastolo, non ne fa immediatamente denuncia all’Autirità indicata all’art. 361, è punito con la reclusione fino a 1 anno o con la multa da lire 200.000 fino a 2 milioni.”

La fattispecie ha carattere omissivo e ciò che si evidenzia, per la punibilità della condotta, è più il rapporto tra la conoscenza del fatto e l’immediatezza della denuncia, che non l’omissione o il ritardo della denuncia.

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Il dovere di denuncia sorge quando il fatto non sia già conosciuto agli organi istituzionali competenti.

Il dolo è generico ed implica la conoscenza del fatto commesso e che esso costituisce delitto contro la personalità dello Stato, punibile con l’ergastolo.

OMISSIONE DI REFERTO

L’art. 365 prevede che “Chiunque, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’Autorità indicata nell’art. 361, è punito con la multa fino a L. 1 milione. – Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale.”

Il legislatore ha supposto che l’esercizio di una professione sanitaria realizzi gli estremi di una funzione pubblica, o di un servizio di pubblica necessità. La ratio di questa norma deriva da due constatazioni:

• l’esercente la professione sanitaria è in condizione di venire a conoscenza di molti fatti e situazioni a contenuto specifico;

• egli è un tecnico in grado di evidenziare, tra le varie fattispecie, quelle dotate di connotazione criminosa.

Esistono poi regole che specificano i contenuti e limitano la genericità del dovere richiesto: il referto deve contenere l’indicazione della persona, le sue genericità, il luogo dove si trova attualmente, le circostanze dell’intervento, le notizie che servono a stabilire le circostanze che hanno dato luogo all’intervento, ecc.

E’ previsto che quando più soggetti hanno prestato assistenza, tutti sono obbligati al referto, ma è data la possibilità di redigerne uno unico sottoscritto da tutti.

La specificità dell’intervento del sanitario comporta che il reato si realizzerà anche qualora il P.M. sia già a conoscenza del fatti di reato proveniente da organo diverso.

Nel caso in cui il sanitario rivesta la qualifica di p.u. o inc. di p.s. si applicherà l’art. 361 con esclusione dell’esimente di cui all’art. 365, 2° c.

Per quanto riguarda la locuzione “delitto per il quale si debba procedere d’ufficio” è esclusa la possibilità di valutazione discrezionale del sanitario sia sulla esistenza del fatto-reato, sia sulla sua perseguibilità d’ufficio.

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Per i principi generali del DOLO, l’agente è scusato se erra sugli elementi di fatto che costituiscono la fattispecie.

Il 2° comma ha subito un’innovazione a seguito della modifica apportata dalla L. 356/1992 all’art. 384, per cui risulta scriminato anche il caso in cui la trasmissione del referto al P.M. esporrebbe il sanitario stesso o un suo prossimo congiunto ad un grave e inevitabile nocumento nella libertà.

2. Dei delitti di rifiuto e abuso di uffici legalmente dovuti

RIFIUTO DI UFFICI LEGALMENTE DOVUTI

L’art. 366 prevede che chiunque, nominato dall’Autorità giudiziaria perito, interprete, custode di cose sottoposte a sequestro penale, ovvero chiamato come testimone o, comunque a prestare altra funzione giudiziaria, ottenga con mezzi fraudolenti l’esenzione dalla comparizione o dal prestare l’ufficio, o rifiuti di prestare le proprie generalità, o, infine di prestare il giuramento dovuto, sia punibile con la reclusione fino a 6 mesi o con la multa da L. 60.000 a 1 milione.

La norma tipicizza diverse figure che rivestono funzioni essenziali per il corretto funzionamento del processo; fra questi vi sono anche i giudici popolari delle Corti d’Assise, i curatori fall., i commissari e amm. giudiziari, quando abbiano accettato il mandato.

La norma non si applica in caso di giurisdizione straniera o ecclesiastica.

Più problematica è la soluzione che attiene alla posizione degli arbitri, la quale dipende dal riconoscimento o meno di natura giurisdizionale all’istituto dell’arbitrato. Questo può essere negato sulla base dell’art. 102 Cost. che attribuisce alla Magistratura il monopolio della funzione giurisdizionale, e sul fatto che l’arbitrato si fonda sulla libertà contrattuale delle parti.

Al contrario può affermarsi che comunque l’arbitro compie una funzione sostanziale di giudicare e comunque di risolvere controversie tra i cittadini.

E’ tuttavia preferibile la prima tesi, anche per la mancanza nel procedimento arbitrale di ogni potere coercitivo di carattere pubblico.

La CONDOTTA vietata può assumere due forme, entrambe commissive:

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1. compimento, con mezzi fraudolenti, di atti diretti all’ottenimento dell’esenzione dall’obbligo di comparire o di prestare la funzione;

2. rifiuto di prestare giuramento o di fornire le generalità.

Il dolo è generico ed implica la volontà della condotta nelle forme descritte, con la conoscenza dell’esatta situazione di fatto da cui nasce l’obbligatorietà della condotta stessa.

SIMULAZIONE DI REATO

L’art. 367 punisce con la reclusione da 1 a 3 anni chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche in forma anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad altra Autorità, che a quella abbia l’obbligo di riferire, afferma falsamente l’accadimento di un reato ovvero ne simula le tracce, in modo che si possa attivare un procedimento per accertarlo.

La fattispecie è strutturata come reato di pericolo (“si possa attivare un procedimento”), bastando la semplice possibilità che scaturisca un’azione penale; è quindi irrilevante la denuncia di un fatto inverosimile manifestamente incredibile o simulato grossolanamente tanto da non poter ingannare gli organi competenti.

La simulazione può essere:

• formale o diretta, quando si affermi falsamente la commissione di un reato;

• reale o indiretta, quando si simulano le tracce.

Il termine “DENUNCIA” va inteso in senso ampio, non tecnico, potendo trattarsi di qualsiasi notizia del crimine, sia orale sia scritta, anonima o firmata, spontanea o indotta.

Costituiscono TRACCE gli indizi materiali dell’esecuzione di un reato (impronte, ferite, scasso…)

Oggetto della simulazione deve essere un REATO, ma nel caso sia una contravvenzione, la pena è diminuita ex art. 370.

Il reato può essere immaginario, quindi inesistente, o anche un reato diverso da quello realmente commesso. IN questo caso il confronto tra realtà e apparenza non va condotto solo con riferimento al nomen iuris, ma si dovranno considerare anche quelle alterazioni del vero che, se pur non mutano il titolo del reato, ne modificano gli aspetti sostanziali così da creare un pericolo di sviamento delle investigazioni.

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La simulazione si consuma nel momento in cui l’Autorità riceve la falsa notizia o ne scopre le tracce, e il tentativo è ammissibile, dato il possibile frazionamento dell’attività criminosa.

La ritrattazione non è prevista come causa di non punibilità della simulazione di reato, (art. 376), ma la giurisprudenza le riconosce efficacia scriminante, ma solo nel caso in cui essa sia spontanea e contestuale alla falsa denuncia, in quanto verrebbe meno la possibilità di iniziare. il procedimento penale.

Altrimenti essa potrà solo comportare l’attenuante di cui all’art. 62, n. 6.

CALUNNIA

L’art. 368 punisce con la reclusione da 2 a 6 anni chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad altra autorità, incolpa di un reato taluno che egli sa sia innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato.

La potenzialità lesiva della calunnia è duplice: verso il bene della corretta amministrazione della Giustizia, fuorviata dalla falsa incolpazione, e verso la persona dell’innocente, il cui onore e libertà personale sono compromessi dal processo e maggiormente dall’eventuale condanna.

Molti indici confermano la maggiore qualità del contenuto offensivo della calunnia rispetto agli altri reati: l’entità della pena edittale, e l’inapplicabilità della speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 384 per la maggior parte dei delitti contro l’attività giudiziaria.

Il bene specificamente tutelato può essere individuato nell’innocenza, la cui titolarità è fatta propria dallo Stato, che si rende garante del corretto esercizio dell’azione penale.

La calunnia, per l’importanza dell’oggetto tutelato, è costruita come un reato di pericolo, per cui non si richiede che alla falsa accusa segue un’ingiusta condanna, ma basta la sua idoneità a determinare l’inizio di un procedimento penale. Le accuse devono pertanto essere tali da non apparire assurde e, quindi, manifestamente infondate (si fa leva sull’art. 49, 2° c., reato impossibile, o anche affermando che la “credibilità dell’incolpazione” è elemento costitutivo del reato di calunnia).

La descrizione normativa della calunnia prevede due possibili modalità di esecuzione:

1. calunnia diretta o formale: con denuncia, querela, richiesta o istanza; anche qui il termine “denuncia va inteso in senso ampio;

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2. calunnia indiretta o materiale o reale: attraverso la simulazione di tracce di un reato a carico dell’innocente.

La calunnia si distingue rispetto alla simulazione di un reato, perché essa fa riferimento ad una persona determinata; peraltro essa non richiede un’accusa rivolta nominativamente, essendo sufficienti gli elementi necessari per promuovere un’azione penale contro una persona facilmente e univocamente individuabile.

L’unico elemento formalmente essenziale è l’autorità giudiziaria o altra autorità che a quella si abbia l’obbligo di riferire.

La comunicazione può anche essere sollecitata: a questo proposito sorgono problemi di bilanciamento della tutela dell’innocenza col diritto di difesa: quest’ultimo potrà rilevare (ex art. 51) se si può riscontrare un rapporto di connessione, funzionale e necessario, tra la falsa incolpazione formulata dall’imputato e l’oggetto della contestazione a suo carico. Essenziale per l’esercizio del diritto di difesa è, infatti, la facoltà di negare l’addebito, anche se ciò significhi realizzare il contenuto tipico della calunnia.

OGGETTO della falsa incolpazione è un reato, completo nel suo contenuto tipico, antigiuridico e colpevole. Devono mancare, per la configurabilità del reato, eventuali scriminanti, scusanti, cause di punibilità in senso stretto.

L’attribuzione di un reato estinto costituisce calunnia solo se la causa estintiva si sia verificata dopo la falsa denuncia.

La calunnia è esclusa se l’incolpazione riguarda un reato perseguibile a querela.

L’incolpazione deve poi, ovviamente, essere falsa.

Vi è calunnia anche quando il fatto sia stato realmente commesso, ma in presenza di fattori che rendano lecito il suo comportamento (scriminanti, ecc.), e volontariamente taciuti dal calunniatore.

Costituisce calunnia anche l’incolpazione di un fatto più grave. Occorre a riguardo distinguere l’attribuzione di semplici aggravanti (nel qual caso al calunnia sarebbe esclusa), dalla falsa attribuzione di elementi che mutino il titolo di reato (che invece fa sussistere il delitto). Tale distinzione costituisce un punto controverso. Coglie forse nel segno chi sostiene che la configurabilità della calunnia non possa fondarsi su tale distinzione, in quanto ciò che conta è la considerazione dell’effettivo aggravamento della posizione dell’incolpato.

L’oggetto dell’incolpazione, il reato falsamente attribuito, rappresenta un elemento normativo della fattispecie di calunnia. Preferibile è ritenere che, in caso di novazione legislativa della norma eterointegratrice, non sia applicabile l’art. 2, poiché rimane il significato di disvalore della condotta.

Il dolo deve comprendere tutti gli elementi del fatto di calunnia, compresa l’innocenza di chi si accusa, rendendo cosi incompatibile il dolo EVENTUALE.

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L’errore sul fatto costituente il reato denunciato rileva per l’art. 47, 1° c. Rileva invece ai sensi del 3° c. l’errore di diritto extrapenale, che ricade sull’interpretazione della norma integratrice diversa, cui si riferisce la falsa incolpazione.

La calunnia si consuma con l’acquisizione della falsa notizia da parte dell’Autorità. Il tentativo è ammissibile.

La pena è aumentata per l’incolpazione di un reato per il quale è stabilita nel massimo la pena > 10 anni di reclusione. La pena è da 4 a 12 anni se dal fatto deriva una condanna > 5 anni; è da 6 a 20 anni se ne deriva l’ergastolo.

E’ prevista un’attenuante speciale se la falsa incolpazione concerne una CONTRAVVENZIONE.

AUTOCALUNNIA

art. 369: chiunque, mediante dichiarazione ad alcune delle autorità indicate nell’art. precedente, anche se fatta con scritto anonimo o sotto falso nome, ovvero mediante confessione innanzi all’Autorità giudiziaria, incolpa se stesso di un reato che egli sa non avvenuto o di un reato commesso da altri, è punito con la reclusione da 1 a 3 anni.

Da un punto di vista degli interessi tutelati, tale reato esprime un minor disvalore rispetto alla calunnia, in quanto è leso solo il bene di categoria (corretta amm. della Giustizia). Da qui una minore entità della pena e l’applicabilità della speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 384.

Opera inoltre l’attenuante di cui all’art. 370 nel caso si tratti di contravvenzioni.

La falsa incolpazione può avvenire in qualsiasi forma, rivolta a quella particolare cerchia di destinatari (art. 368), oltre che mediante confessione.

Se autoaccusandosi l’agente incolpa al contempo altri soggetti, si ritiene che sia punibile soltanto la calunnia che è reato più grave.

Discussa è poi l’ammissibilità del concorso tra l’autocalunnia, realizzata per aiutare altri ad eludere le investigazioni, e il favoreggiamento personale. La giurisprudenza riconosce il solo delitto di calunnia,

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affermando che si tratta di rapporto di specie a genere. La dottrina nega il rapporto di specialità, né appare invocabile il principio di consunzione, per risolvere il concorso apparente, giacché la pena prevista per il favoreggiamento, che si vorrebbe escludere, è superiore a quella di cui all’art. 369.

3. Dei delitti di favoreggiamento

Il nostro ordinamento conosce due figure di favoreggiamento:

1. Favoreggiamento personale (art. 378)

Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’Autorità, o a sottrarsi alle ricerche di questa, è punito con la reclusione fino a 4 anni.

Quando il delitto commesso è quello previsto dall’art. 416 bis (Associazione di tipo mafioso), si applica, in ogni caso, la pena della reclusione non < 2 anni.

Se si tratta di delitti per i quali la legge stabilisce una pena diversa, o di contravvenzioni, la pena è della multa fino a 1 milione.

Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando la persona aiutata non è imputabile o risulta che non ha commesso il delitto.

2. Favoreggiamento reale (art. 379)

Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e del caso previsto dall’art. 648, 648 bis e 648 ter (ricettazione, riciclaggio, impiego di denaro, beni, utilità di provenienza illecita), aiuta qualcuno ad assicurare il prodotto, profitto, o il prezzo di un reato, è punito con la reclusione fino a 5 anni se si tratta di delitto, e con la multa da 100.000 a 2 milioni se si tratta di contravvenzione.

Si applicano i commi 2° e 4° dell’art. 378.

Le due fattispecie sono strutturalmente affini, contribuendo a definirle due presupposti: uno positivo, la previa commissione di un reato, rispetto al quale si realizza la condotta di aiuto; e uno negativo, la mancanza di compartecipazione nel medesimo.

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E’ controverso se all’esistenza del reato, come fatto tipico, antigiuridico e colpevole, debba accompagnarsi anche la sua concreta punibilità. Se pacificamente una causa di giustificazione esclude il favoreggiamento controverso è in giurisprudenza la configurabilità in presenza di cause di esclusione della sola pena, l’estinzione del reato presupposto, la mancanza di condizione di procedibilità.

In ogni caso è irrilevante l’imputabilità della persona aiutata.

Per quanto riguarda la distinzione tra concorso e favoreggiamento, essa andrà effettuata non alla stregua di un mero riferimento cronologico, quanto alla luce del peso che l’aiuto o la promessa di aiuto ha avuto nell’economia del reato.

Questa considerazione consente di rivalutare la relazione tra favoreggiamento e reati permanenti: il favoreggiamento postula, tradizionalmente, la cessazione della permanenza del reato presupposto. Finché dura il tempo di permanenza del reato di avrebbe così, esclusivamente un’ipotesi di concorso.

Sennonché, non pare incompatibile con il dato normativo “dopo che il reato fu commesso”, riferire la commissione all’inizio della consumazione e non già alla cessazione della permanenza, almeno quando l’aiuto non è apporto coessenziale alla lesività tipica del reato permanente.

1. FAVOREGGIAMENTO PERSONALE

Esso tutela l’interesse al regolare svolgimento delle indagini e delle ricerche dell’Autorità al fine dell’accertamento dei reati.

La condotta di aiuto è a forma libera, purché idonea a frustrare le investigazioni; l’idoneità deve essere apprezzata in senso oggettivo, cioè essa sussiste anche quando, per abilità degli inquirenti, la deviazione non si sia verificata. E’ quindi corretto parlare di reato di pericolo.

Secondo la giurisprudenza la condotta può essere anche omissiva; in dottrina c’è chi sostiene il contrario. Il mancato riferimento esplicito a condotte omissive potrebbe essere superato col ricorso alla clausola di equivalenza dell’art. 40, 2° c. Questa postula la presenza di un evento naturalistico: ma il favoreggiamento è difficilmente ricostruibile in termini di reato causalmente orientato.

L’aiuto deve in ogni caso prestato a qualsiasi indagato per la commissione di un reato, anche quando questi risulti poi innocente.

Quando si deve accertare se, nell’espletamento del suo mandato, il difensore fuoriesca dai limiti posti all’esercizio del diritto di difesa, occorrerà distinguere quelle che sono attività intellettuali e quindi, tipicamente professionali (suggerimenti di tattica processuale) da quelle che sono attività materiali come il

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nascondimento del ricercato, il fornire denaro o falsi documenti, ecc. Però, anche nell’ambito delle prime, si dovranno distinguere informazioni ottenute lecitamente, da quelle apprese illecitamente, che potranno rientrare negli artt. 378 e 379.

Non è esclusa poi la rilevanza penale di condotte realizzate attraverso i mass media, che mettano in guardia i destinatari di provvedimenti restrittivi della libertà personale; per queste non vale appellarsi né al diritto di cronaca né ritenere insussistente l’elemento psicologico del favoreggiamento. Questo infatti è punibile anche a titolo di dolo eventuale.

Nella maggior pare dei casi il favoreggiamento è reato istantaneo; solo eventualmente ha natura permanente (ad es. l’occultamento di una persona o cosa prodotto o profitto del reato).

Nel caso in cui vengano rilasciate false dichiarazioni in fasi processuali diverse, ad organi diversi: polizia giudiziaria, P.M. che richiede informazioni ai fini di indagine, testimone davanti all’Autorità giudiziaria, in tale caso potranno concorrere, ricorrendone gli estremi, i reati di favoreggiamento personale, di false informazioni al P.M. e di falsa testimonianza, legati dal vincolo della continuazione, stante l’unico fine di favorire l’autore di un delitto.

L’attività di favoreggiamento attuata, invece, esclusivamente in sede testimoniale, integra solo il reato di falsa testimonianza, ritenuto speciale rispetto al favoreggiamento personale.

Il favoreggiamento personale presuppone la commissione di un altro reato per cui siano in corso le indagini; pertanto una attività di supporto per la sottrazione all’esecuzione di una pena inflitta per un reato definitivamente accertato integrerà il delitto di procurata inosservanza di pena.

Il dolo è generico e consiste nella consapevolezza che l’aiuto venga prestato in riferimento ad un precedente reato.

Il delitto si consuma nel momento in cui è posta in essere la condotta favoreggiatrice.

Si avrà delitto tentato qualora la condotta non sia pervenuta alla percezione dell’organo investigativo.

Si applica la speciale causa di non punibilità dell’art. 384.

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2. FAVOREGGIAMENTO REALE

Rimane aperta la questione sull’identificazione dell’oggetto di tutela del favoreggiamento reale.

Si è sostenuto autorevolmente (Pagliaro) che non siano direttamente coinvolti interessi processuali, o comunque connessi con l’amm. della Giustizia, quanto un più generale interesse a che non sia prestata ai delinquenti una collaborazione atta a far divenire definitivi i vantaggi acquisiti con il reato.

La dottrina, invece, identificando l’oggetto materiale del delitto con quello della confisca, ne riconnette lo scopo ad un fine processuale, ovvero al conseguimento fruttuoso della confisca.

La condotta può consistere in qualsiasi comportamento, purché idoneo a far definitivamente conseguire al favorito il provento dell’attività criminosa.

Il PRODOTTO è il risultato empirico dell’agire criminoso.

Il PROFITTO sono le utilità economiche immediatamente ricavate.

Il PREZZO del reato è il compenso, dato o promesso, per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato.

Il favoreggiamento reale presenta punti di contatto con le fattispecie della ricettazione, riciclaggio, reimpiego di valori di provenienza illecita (artt. 648, 648 bis e ter). Stante la clausola di riserva dell’art. 379, non è possibile il concorso formale con queste ultime fattispecie.

Il criterio di distinzione tra la ricettazione e il favoreggiamento è ravvisato dal dolo specifico del profitto; il riciclaggio richiede poi, rispetto al favoreggiamento, un quid pluris costituito dalla modalità tipica della condotta e l’idoneità della stessa ad ostacolare l’identificazione della provenienza criminosa dei beni e, pertanto, la giurisprudenza l’ha considerata fattispecie speciale rispetto al favoreggiamento reale.

4. False dichiarazioni rese all’Autorità giudiziaria

1. FALSO GIURAMENTO DELLA PARTE

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art. 371: Chiunque, come parte in giudizio civile, giura il falso è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.

Nel caso di giuramento deferito d’ufficio, il colpevole non è punibile, se ritratta il falso prima che sulla domanda giudiziale sia pronunciata sentenza definitiva, anche se non irrevocabile.

La condanna comporta l’interdizione dai pubblici uffici.

Il giuramento, decisorio o supplettorio, è prova LEGALE. Essa vincola la decisione del giudice in relazione ai fatti che enuncia, perché essi hanno efficacia risolutiva della controversia. La ragione del trattamento penale è quindi il pericolo che venga compromessa la correttezza della decisione giurisdizionale.

Il rispetto delle forme sancite dal c.p.c. per il deferimento del giuramento è elemento essenziale per la realizzazione della condotta punibile.

Secondo il 2° comma, la ritrattazione del falso giuramento, se supplettorio, ha efficacia esimente rispetto al fatto commesso. Tuttavia, la Corte cost. ha rilevato che quessto comma deve ritenersi abrogato per effetto dell’art. 2738 c.c., che unifica il regime per entrambe le fattispecie di giuramento, escludendo sempre la prova contraria e inibendo in ogni caso la revocazione della sentenza, qualora il giuramento sia stato dichiarato falso.

2. FALSE INFORMAZIONI AL PM

art. 317 bis: “Chiunque, nel corso di un procedimento penale, richiesto dal P.M. di fornire informazioni ai fini delle indagini, rende dichiarazioni false ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa attorno ai fatti sui quali viene sentito, è punito con la reclusione fino a 4 anni.

Ferma l’immediata procedibilità nel caso di rifiuto di informazioni, il procedimento penale, negli altri casi, resta sospeso fino a quando nel procedimento nel corso del quale sono state assunte le informazioni sia stata pronunciata sentenza di 1° grado ovvero il procedimento sia stato anteriormente definito con archiviazione o sentenza di non luogo a procedere.”

Questo art. è stato introdotto dalla L. 306/1992, con successiva modifiche della L. 356/92 e 332/95.

Nell’attività di raccolta delle fonti di prova del P.M., assume particolare importanza l’assunzione di informazioni da parte di presone che sono in grado di riferire circostanze utili alle indagini. Il c.p.c. prevede per il testimone l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli vengono rivolte; la facoltà di astensione dei prossimi congiunti; limiti alla testimonianza derivanti alla tutela del segreto professionale, di ufficio e di Stato.

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Dall’art. 362 c.p.p. si desume che il fatto punibile consiste nel tacere circostanze o fatti che, al momento dell’audizione, non siano conosciuti dagli inquirenti, o nel rappresentare situazioni in contrasto con dati già acquisiti: solo in tal modo vi è pericolo di sviamento od ostacolo alle indagini.

Ciò che la norma mira a garantire non è la veridicità in sé della dichiarazione ai fini della formazione della prova, ma la funzione strumentale della prova allo svolgimento delle indagini.

Il carattere processuale della norma emerge con chiarezza dal 2° comma: il rifiuto di fornire informazioni o la resa di informazioni false, o il tacere di fatti di cui si è a conoscenza, costituisce condotta punibile quando, per effetto di tali comportamenti, l’indagato viene prosciolto, o viene pronunciata archiviazione o sentenza di non luogo a procedere.

Ciò che differenzia le varie ipotesi prospettate è il momento in cui è esperibile l’azione penale:

• nel caso di rifiuto di fornire informazioni utili, l’effetto è immediato;

• nel caso di false informazioni o reticenza è necessario attendere l’esito negativo del procedimento principale, perché solo il proscioglimento, archiviazione, sentenza di non luogo a procedere costituiscono prova che la falsa dichiarazione o reticenza hanno influito così negativamente sullo svolgimento delle indagini.

“RIFIUTO” è qualsiasi comportamento dell’agente chiuso che non risponde all’invito o sollecitazione dell’inquirente.

“RETICENZA” presuppone invece un contesto di formale rispetto delle regole processuali, e un silenzio del soggetto su circostanze a sua conoscenza, che non vengono riferite al P.M.

La fattispecie è a dolo generico, che comprende la coscienza e volontà di opporre rifiuto e effettuare dichiarazioni false o reticenti.

3. FALSA TESTIMONIANZA

art. 372: “Chiunque, deponendo come testimone dinanzi all’Autorità giudiziaria, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa attorno ai fatti sui quali è interrogato, è punito con la reclusione da 2 a 6 anni.”

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La disposizione ha il fine di assicurare che l’opera del giudice non sia sviata dal fine del giusto verdetto per opera di dichiarazioni non vere o reticenti.

Trattasi di reato proprio, in quanto agente è solo il TESTIMONE.

Per quanto attiene ai soggetti cui è concesso di astenersi dal testimoniare (prossimi congiunti, legali, medici, ministri di culto),trattandosi di una facoltà, qualore essi non se ne avvalgano, rispondono delle false o reticenti dichiarazioni secondo questo art.

La condotta si articola in 3 tipologie:

• affermare il falso e negare il vero. Queste due condotte sono entrambe commissive e consistono entrambe nel dare dichiarazioni mendaci. La verità del fatto può essere intesa in senso oggettivo o soggettivo: si deve tener conto di un concetto oggettivo di verità, ma sempre tendendo in considerazione ciò che il soggetto sa per averlo ragionevolmente percepito, oltre sulle condizioni del soggetto stesso (età, labilità…).

La condotta è mendace con la semplice commissione della dichiarazione, senza che sia necessario alcun risultato di danno. Il reato è reato di pericolo.

• reticenza: ha carattere omissivo e consiste nel fatto che il testimone non riferisce tutto ciò che sa in ordine a fatti e circostanze, in quanto essi hanno costituito oggetto di specifica domanda, oppure esso per il suo oggettivo rilievo, non poteva essere taciuto.

Il dolo è generico.

Il reato si consuma con il termine dell’atto testimoniale e quindi con l’esaurimento delle domande; non è configurabile il tentativo.

La fattispecie fa parte dei delitti aggravati dall’evento, in quanto è applicabile l’art. 375 (circostanze aggravanti).

4. FALSA PERIZIA

Art. 373: Il perito o l’interprete che, nominato dall’Autorità giudiziaria, dà pareri o interpretazioni mendaci o afferma fatti non conformi al vero, soggiace alla pena della reclusione da 2 a 6 anni.

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La condanna importa, oltre l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione dalla professione o dall’arte.

Soggetti attivi possono essere i periti, interpreti, il consulente tecnico del giudice civile. Non è tale il consulente del P.M.

Si ritiene che l’assenza dei requisiti soggettivi al momento della nomina comporti l’inesistenza della condotta criminosa, in quanto si tratta di reato proprio.

Non appare punibile la condotta del perito che giunge a conclusioni divergenti rispetto all’opinione comune corrente nel settore di scienza, purché adeguatamente motivate.

5. FRODE PROCESSUALE

art. 374: Chiunque, nel corso di un procedimento civile o amministrativo, al fine di trarre in inganno il giudice in un atto d’ispezione o di esperimento giudiziale, ovvero il perito nell’esecuzione di una perizia, immuta artificiosamente lo stato dei luoghi o cose o persone, è punito, qualora il fatto non sia previsto come reato da una particolare disposizione di legge, con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.

La stessa disposizione si applica se il fatto è commesso nel corso di un procedimento penale, o anteriormente ad esso; ma in tal caso la punibilità è esclusa se si tratta di reato per cui non si può procedere che a querela o richiesta o istanza e questa non è stata presentata.

La norma mira a garantire la genuina acquisizione del materiale probatorio. Non è necessario che l’attività frodatoria sia commessa dalle parti del processo, potendo essere commessa da chiunque.

Destinatario della frode è il GIUDICE o il PERITO, e nel procedimento penale anche il P.M. o la POLIZIA GIUDIZIALE.

Si discute se il fatto fraudolento sia punibile nel caso in cui sia stata proposta querela per il reato presupposto e successivamente sia stata rimessa. La risposta è affermativa perché la remissione opera solo sul fatto principale e non su quello commesso ai sensi dell’art. 374. Il reato in esame è infatti reato di pericolo per cui è sufficiente che la condotta frodatoria sia idonea a trarre in inganno il giudice, mentre la sorte del reato e del procedimento sono indifferenti.

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L’elemento soggettivo è il dolo generico, che implica la consapevolezza e volontà di immutare fraudolentemente lo stato di fatto, accompagnato dall’intento di trarre in inganno l’autorità procedente.

6. FALSE DICHIARAZIONI IN ATTI DESTINATI ALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA

art. 374 bis: salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni chiunque dichiara o attesta falsamente in certificati o atti destinati ad essere prodotti dall’Autorità giudiziaria condizioni, qualità personali, trattamenti terapeutici, rapporti di lavoro in essere o da instaurare, relativi all’imputato, al condannato o alla persona sottoposta a procedimento di prevenzione.

Si applica la pena da 2 a 6 anni se il fatto è commesso da p.u. o inc. di p.s. o da un esercente la professione sanitaria.

La ragione sta nell’esigenza di garantire la genuinità di documenti che possono assumere particolare rilevanza rispetto alla decisione finale del giudice.

L’ATTESTAZIONE si riferisce alle affermazioni di un fatto la cui veridicità è fatta risalire alla responsabilità di un terzo diverso dal dichiarante.

La DICHIARAZIONE è fatta invece risalire a colui che la rende.

Entrambe devono essere destinate oggettivamente a pervenire all’Autorità, ma non è necessaria la ricezione nè il loro utilizzo. Trattasi quindi di reato di pericolo.

Il dolo è generico.

La fattispecie è aggravata se il fatto è commesso dai soggetti di cui al 2° c. Tale aggravante è più rigorosa di quella dell’art. 61, n. 9, in quanto non prevede, come elemento aggravante, l’abuso, ma la mera presenza della qualifica soggettiva.

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7. SUBORNAZIONE

art. 377: chiunque offre o promette denaro od altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’Autorità giudiziaria ovvero a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurlo a falsa testimonianza, perizia o interpretazione, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite agli artt. 372 e 373 (da 2 a 6 anni), ridotte dalla metà ai 2/3.

La stesa disposizione si applica qualora l’offerta o promessa sia accettata ma la falsità non sia commessa.

La condanna comporta l’interdizione dai p.u.

Il termine usato “CHIAMATO” a rendere testimonianza designa quella fase del procedimento in cui il soggetto viene “avvisato”, mediante convocazione dell’Autorità giudiziaria: da questo momento l’attività del soggetto attivo realizza gli estremi della subornazione.

La norma presuppone che l’offerta non sia accolta (o che la falsità non sia commessa), altrimenti si configurerebbe concorso nello stesso reato. La norma costituisce così deroga all’art. 115 (per cui il mero accordo, se non seguito dal reato, non è punibile).

Trattasi di delitto a dolo specifico essendo necessario il fine di indurre il teste perito o interprete a rendere false dichiarazioni.

1.5 Reati di infedele patrocinio e consulenza

Le fattispecie degli artt. 380 381 382 a prima vista sembrano maggiormente rivolte a tutelare gli interessi della parte privata, patrimoniali e non. L’art. 24 Cost. sancisce però il DIRITTO DI DIFESA, che si fonda soprattutto sul diritto della parte privata a poter usufruire di una adeguata difesa tecnica: quindi le fattispecie tendono anche, sotto un profilo pubblicistico, a rafforzare il dovere dei difensori ad adempiere il proprio mandato con lealtà e correttezza.

Sono quindi presenti entrambi i profili.

1. PATROCINIO E CONSULENZA INFEDELE

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art. 380: “Il patrocinatore o consulente tecnico che, rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’Autorità giudiziaria, è punito con la reclusione da 1 a 3 anni e con la multa non < 1 milione.

La pena è aumentata se:

1. il colpevole ha commesso il fatto colludendo con la parte avversaria;

2. il fatto è stato commesso a danno di un imputato.

Si applicano la reclusione da 3 a 10 anni e la multa non < 2 milioni se il fatto è commesso a danno di persona imputata per delitto per il quale la legge commina l’ergastolo o la reclusione > 5 anni.”

La struttura è tutta incentrata sulla causazione del danno alla parte assistita, trattasi quindi di reato di evento. La condotta può essere commissiva o omissiva. Fattore essenziale è che il comportamento infedele e dannoso sia posto in essere nel momento del giudizio.

Trattasi di reato proprio, che può essere commesso solo dal difensore (patrocinatore) o dal consulente tecnico di parte.

Il reato è doloso, e comprende anche la nocività della condotta infedele per gli interessi di parte, esulando dalla fattispecie fatti causati da negligenza e trascuratezza.

2. ALTRE INFEDELTA’ DEL PATROCINATORE O CONSULENTE TECNICO

art. 381: il patrocinatore o il consulente tecnico che, in un procedimento dinanzi all’Autorità giudiziaria, presta contemporaneamente, anche per interposta persona, il suo patrocinio o consulenza a favore di parti contrarie, è punito, qualora il fatto non costituisca più grave reato, con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa non < 200.000

La pena è della reclusione fino a 1 anno e della multa da 100.000 a 1 milione se il patrocinatore o consulente, dopo aver difeso, assistito o rappresentato una parte, senza il consenso di questa, nello stesso procedimento, assume il patrocinio o la consulenza della parte avversaria.

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Le due fattispecie costituiscono forme specifiche della infedeltà professionale di cui all’art. 380. Si tratta di reati di mera condotta commissiva, poiché si prescinde dalla necessità del danno per la parte. Si tratta di un conflitto di interessi che il professionista fa sorgere con pericolo per gli interessi contrapposti e per l’interesse generale al principio del giusto processo.

La seconda fattispecie è meno grave, e il legislatore prevede che il fatto sia scriminato dal consenso della parte.

Si tratta di reato a dolo GENERICO.

3. MILLANTATO CREDITO DEL PATROCINATORE

art. 382: il patrocinatore che, millantando credito presso il giudice o il P.M. che deve concludere, ovvero presso il testimone, il perito o l’interprete riceve o fa dare o promettere dal suo cliente, a sé o ad un terzo, danaro o altra utilità, col pretesto di doversi procurare il favore del giudice, o del P.M. o (…) è punito con la reclusione da 2 a 8 anni e con la multa non < 2 milioni.

La norma è fattispecie speciale del millantato credito di cui all’art. 346.

La condanna per i delitti preveduti dagli artt. 380, 381, 382 comporta l’interdizione dai pubblici uffici. (Art. 383)

5. Circostanze aggravanti e cause di non punibilità

Con la L. 356/1992 il legislatore ha modificato l’assetto delle circostanze aggravanti e delle cause id non punibilità.

E’ previsto dall’art. 375 un aggravamento delle pene per i reati di false dichiarazioni al P.M., falsa testimonianza, falsa perizia e frode processuale, relazionato alla gravità dell’esito prodotto dal comportamento illecito. La pena è della reclusione:

• da 3 a 8 anni se dal fatto deriva una condanna alla reclusione non > 5 anni;

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• da 4 a 12 anni se dal fatto deriva una condanna > 5 anni;

• da 6 a 20 anni se dal fatto deriva la condanna all’ergastolo.

Tali reati rientrano quindi nella categoria dei reati aggravati dall’evento.

L’art. 376 prevede il caso della ritrattazione, statuendo che, nei reati di false informazioni al P.M., falsa testimonianza e falsa perizia (artt. 371 bis, 372, 373), il colpevole non è punibile se, nel procedimento penale in cui ha prestato il suo ufficio, ritratta il falso e manifesta il vero prima che l’istruzione sia chiusa con sentenza di non doversi procedere ovvero prima che il dibattimento sia chiuso o sia rinviato a cagione della falsità.

La Corte cost. ha dichiarato illegittimo l’art. 36 nella parte in cui non estende l’operatività della ritrattazione alle false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria delegata dal P.M., così avallando l’applicabilità di tale causa di non punibilità a talune ipotesi di favoreggiamento.

Il 2° c. prevede che, “qualora la falsità sia intervenuta in una causa civile, il colpevole non è punibile se ritratta il falso e manifesta il vero prima che sulla domanda giudiziale sia pronunciata sentenza definitiva, anche se non irrevocabile.

Deve ritenersi che la causa di non punibilità non sia applicabile, nell’ipotesi di concorso di presone nella falsa dichiarazione, ai concorrenti che non abbiano ritrattato il falso e affermato il vero.

La causa di non punibilità non opera quando l’Autorità giudiziaria abbia con i propri mezzi scoperto il mendacio.

L’art. 384 2° c. codifica due ulteriori cause di non punibilità per l’autore dei reati di cui agli artt. 371 bis, 372, 373, e cioè:

• quando il fatto è commesso da persona che, per legge, non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni per le indagini, o assunto come testimonio, perito… ovvero

• quando la persona, autore del reato, ha reso informazioni al P.M. o ha assunto l’ufficio di testimone… senza essere preventivamente e formalmente informato della facoltà di astenersi…

Il 1° comma dell’art. 384 stabilisce per la maggior parte dei reati contro l’amm. della G. che non sia punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se stesso o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore.

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E’ da ritenere che non si tratti di una speciale ipotesi dello STATO DI NECESSITA’, nonostante tale tesi sia sostenuta autorevolmente in dottrina (Antolisei) e in giurisprudenza. Si correrebbe il rischio di ritenere applicabili all’art. 384, 1° c., elementi propri dello stato di necessità (non volontarietà nella causazione del pericolo e proporzione), interpretando restrittivamente la fattispecie e operando un’analogia in malam partem.

2. DEI DELITTI CONTRO L’AUTORITA’ DELLE DECISIONI GIUDIZIARIE

1. Dei delitti di mancata sottoposizione alle pene e alle misure di sicurezza e ad altri provvedimenti e sanzioni

1. EVASIONE ED INOSSERVANZA DI PENE ACCESSORIE

L’art. 385 statuisce che chiunque, essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evade, è punito con la reclusione da 6 mesi a 1 anno.

La pena è della reclusione da 1 a 3 anni se il colpevole commette il fatto usando violenza o minaccia contro le persone, ovvero mediante effrazione; è da 3 a 5 anni se la violenza o minaccia è commessa con armi o da più persone riunite.

Le disposizioni precedenti si applicano anche all’imputato che, essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato dal provvedimento, se ne allontani, nonché al condannato ammesso a lavorare fuori dallo stabilimento penale.

Quando l’evaso si costituisce in carcere prima della condanna, la pena è diminuita.

Perché sussista evasione è necessario che il soggetto si trovi nella situazione di essere privato della libertà personale nel momento in cui realizza la condotta punibile.

Non costituisce evasione la sottrazione ad una misura di sicurezza.

Costituisce evasione la fuga di colui che sia stato arrestato in flagranza o fermato; non invece il sottrarsi a provvedimenti di iniziativa della p.g.

Presupposto della condotta criminosa è la legittimità del provvedimento privativo della libertà personale.

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La L. 203/1991 stabilisce che si possa procedere all’arresto dell’evaso anche fuori dei casi di flagranza: infatti l’evasione è reato permanente e finché dura la permanenza vi è sempre flagranza nel reato.

All’evasione è equiparato l’allontanamento della persona sottoposta ad arresti domiciliari; si considera evasione anche il mancato rientro entro 12 ore del condannato ammesso al lavoro esterno nell’Istituto di pena. Riguardo a questi due casi si riscontra una ingiustificata diversità di trattamento: mentre nel caso di lavoro esterno il mancato rientro deve protrarsi per 12 ore, e sempre che non vi sia giustificato motivo, nel caso degli arresti domiciliari l’allontanamento si realizza nel momento in cui si abbandona l’abitazione o altro luogo, anche per un breve lasso di tempo; e non è neppure ipotizzata la possibilità che questo sia dovuto a giustificato motivo.

Analogamente sono equiparate all’evasione il mancato rientro da permesso, protratto per 12 ore e l’allontanamento di soggetto ammesso al lavoro esterno al carcere e del semilibero.

Si discute se l’evasione IMPROPRIA sia reato permanente o istantaneo con effetti permanenti.

L’allontanamento dal luogo indicato per gli arresti domiciliari è sicuramente reato istantaneo.

Per le ipotesi di mancato rientro si ritiene che si tratti di reato permanente, poiché è dato un margine di tempo di 12 ore.

L’attenuante dell’u.c. è applicabile, in seguito ad una sent. della Cassazione, non solo all’ipotesi di evasione propria, ma anche all’allontanamento dal luogo di custodia domiciliare

Trattasi di delitto a dolo generico.

L’art. 389 disciplina la materia delle PENE ACCESSORIE, disponendo che chiunque, avendo riportato una condanna, cui consegue l’applicazione di una pena accessoria, trasgredisce agli obblighi e divieti inerenti a detta pena, è punite con la reclusione da 2 a 6 mesi.

Il dolo è generico.

2. PROCURATA EVASIONE, PROCURATA INOSSERVANZA DI PENE E MISURE DI SICUREZZA

L’art. 386 stabilisce che chiunque procura o agevola l’evasione di una persona legalmente arrestata o detenuta per un reato, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni.

Si applica la reclusione da 3 a 10 anni se il fatto è commesso a favore di un condannato all’ergastolo.

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La pena è aumentata se il colpevole ha commesso il fatto con violenza o minaccia alle persone o con effrazione.

La pena è diminuita:

1. se il colpevole opera a favore di un prossimo congiunto;

2. se nel termine di 3 mesi dall’evasione procura la cattura della persona evasa o la presentazione di lei all’Autorità.

La condanna comporta in ogni caso l’interdizione dai pubblici uffici.

La PROCURATA evasione indica la condotta di chi predispone le misure necessarie e sufficienti per consentire al condannato o arrestato di evadere, senza che questi abbia posto in essere alcunché di idoneo a realizzare la fuga. L’accordo con l’evaso non è necessario.

L’AGEVOLAZIONE presuppone invece la volontà di evadere del detenuto o arrestato ed eventualmente anche dall’apprestamento da parte sua di mezzi per realizzare lo scopo. In tal caso sarebbe applicabile lo schema del concorso, ma in deroga ad esso, chi agevola la condotta dell’evaso è punito più gravemente.

Il reato è a forma libera. Rileva solo che la condotta sia potenzialmente idonea a far evadere il soggetto o ad agevolarne la fuga.

L’art. 390 disciplina il caso di PROCURATA INOSSERVANZA DI PENA, e punisce chiunque, fuori del concorso nel reato, aiuta taluno a sottrarsi all’esecuzione della pena, con la reclusione da 3 mesi a 5 anni se si tratta di condannato per delitto e, con la multa da 100.000 a 2 milioni se si tratta di condannato per contravvenzione. – Si applica il 4° comma dell’art. 386.

L’art. 391 punisce chiunque procura o agevola l’evasione di una persona sottoposta a MISURA DI SICUREZZA DETENTIVA, ovvero nasconde l’evaso o comunque lo favorisce nel sottrarsi alle ricerche dell’Autorità, con la reclusione fino a 2 anni. Si applica il 4° c. art. 386. –

Se l’evasione avviene per colpa di chi, per ragione del suo ufficio, ha custodia della persona sottoposta a misura di sicurezza, il colpevole è punito con multa fino a L. 2 milioni.

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3. DELITTI DI MANCATA ESECUZIONE DEI PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE

La materia è stata innovata dalla L. 689/1981 ed è disciplinata dagli artt. 388, 388 bis e ter.

Il 1° c. art. 388 sanziona chiunque compie sui propri o altrui beni atti simulati o fraudolenti, o altre condotte fraudolente, al fine di sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna o dei quali è in corso l’accertamento da parte dell’Autorità giudiziaria, qualora non ottemperi all’ingiunzione di eseguire la sentenza.

La fattispecie si incentra su 3 elementi:

1. la condotta deve rivestire il carattere della frode;

2. l’elemento soggettivo è il dolo specifico, perché è necessaria la specifica intenzione di sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili;

3. è necessario che l’autore volontariamente e consapevolmente, non ottemperi all’ingiunzione di eseguire la sentenza, ed in tale momento il reato è consumato.

Il 2° c. punisce chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori o di altra persona incapace, ovvero prescriva provvedimenti cautelari a tutela della proprietà, possesso o credito.

La condotta “ELUDE” implica ogni azione o omissione artatamente e subdolamente rivolta a non ottemperare il provvedimento del giudice civile. Tale non è il mero rifiuto di adempiere.

L’elemento soggettivo è il DOLO.

Il 3° c. prevede due fattispecie la cui condotta consiste nel sottrarre, sopprimere, distruggere, disperdere o deteriorare una cosa di sua proprietà sottoposta a pignoramento o sequestro giudiziario o conservativo.

L’elemento soggettivo è il DOLO.

Il 4° c. prevede una fattispecie aggravata, sia nel caso che il fatto venga commesso dal proprietario su una cosa affidata alla sua custodia, sia nel caso che il fatto sia commesso dal custode al solo scopo di favorire il proprietario della cosa.

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Il 5° c. punisce il custode di cosa sottoposta a sequestro o pignoramento il quale indebitamente rifiuta, omette o ritarda un atto dell’ufficio.

Il delitto di cui all’art. 388 è punibile a querela della persona offesa.

La condotta dell’art. 388 bis è costituita dal fatto di chi, avendo in custodia una cosa sottoposta a pignoramento o sequestro giudiziario o conservativo, ne cagiona la distruzione o la dispersione, ovvero ne agevola la soppressione o sottrazione.

L’elemento soggettivo è la COLPA e il delitto è perseguibile a querela della persona offesa.

La condotta dell’art. 388 ter è costituita dal fatto di chi, per sottrarsi all’esecuzione di una multa, ammenda o sanzione amm. pecuniaria, compie sui propri o altrui beni di atti simulati o fraudolenti o il commette altri atti, caratterizzati dalla frode, qualora il soggetto non ottemperi all’ingiunzione di pagamento.

L’elemento soggettivo è il dolo specifico, essendo necessario lo scopo di sottrarsi al pagamento di multa, ammenda o sanzione amm. pecuniaria.

La sanzione è la reclusione da 6 mesi a 3 anni.

3. DELITTI DI TUTELA ARBITRARIA DELLE PRIVATE RAGIONI

1. Esercizio arbitrario delle proprie ragioni

L’art. 392 dispone che chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante violenza sulle cose, è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a L. 1 milione.

Agli effetti della legge penale, si ha VIOLENZA SULLE COSE allorché la cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la destinazione.

Si ha altresì violenza sulle cose allorché un programma informatico viene alterato, modificato o cancellato in tutto o in parte o viene impedito o turbato il funzionamento di un sistema telematico.

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L’art. 393 prevede che sia punito, a querela dell’offeso, alla reclusione fino a 1 anno, chi col medesimo fine e presupposti, si fa ragione da sé, usando violenza o minaccia alle persone.

La ratio è reprimere quei comportamenti che tendono a sostituirsi alla funzione giudiziale, volta a rendere giustizia con neutralità e imparzialità. Da qui derivano i due presupposti necessari di entrambe le condotte, e l’elemento più caratterizzante, costituito dall’arbitrarietà del comportamento:

1. esistenza di un diritto, reale o presunto, che l’agente intenda far valere;

2. diritto azionabile in giudizio, diritto soggettivo e non pubblica potestà.

L’arbitrarietà del comportamento si concreta nella contrarietà tra il comportamento assunto e la giuridica possibilità di ottenere giustizia tramite la via giudiziale. Tale arbitrarietà non sussiste quando l’autore agisce, anche con violenza sulla cosa, per tutelare il suo attuale e legittimo possesso, perché la contestualità del fatto esclude ogni ragionevole possibilità di ricorso al giudice.

L’elemento soggettivo è il dolo; è necessario che l’autore agisca per il solo fine di far valere arbitrariamente un diritto. Questo è l’elemento essenziale che distingue la fattispecie in esame dal delitto di estorsione, dove l’estortore agisce per conseguire un ingiusto profitto, consapevole che quanto pretende è indebito.

Il legislatore ha previsto due aggravanti:

• se il fatto è commesso con violenza o minaccia alle persone e, congiuntamente, violenza sulle cose, è aggiunta la multa di L. 400.000 alla reclusione di 1 anno (art. 393);

• se la violenza o la minaccia è commessa con armi, la pena è aumentata.

Entrambi sono perseguibili solo a QUERELA della persona offesa.

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Cap. 4 I DELITTI CONTRO L’ORDINE PUBBLICO

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1. CONCETTO DI ORDINE PUBBLICO

La disciplina dei delitti contro l’ORDINE PUBBLICO è contenuta nel titolo V del libro II c.p.

Il concetto di ordine pubblico si rivela quanto mai fluido e inafferrabile; esso è stato definito dal Binding come un “ripostiglio di concetti” in cui collocare quanto si stenta a sistemare.

L’ordine pubblico, assunto in una dimensione ideale, corrisponde ad una visione etica e statolatrica della tutela penale, identificata nell’integrità del sistema normativo in quanto tale, come complesso delle strutture essenziali dell’ordinamento statuale.

In senso materiale, accezione vicina a quella di pubblica tranquillità delle codificazioni preunitarie, esso è inteso come regola minima di pacifica convivenza sociale, e, nella dimensione soggettiva, come affidamento in esso riposto dai singoli.

Esso viene criticato, nella sua accezione ideale, in quanto porta con sé una valenza conservatrice e autoritaria, in quanto concetti come “sicurezza e ordine pubblico”, “pericolo”, “stato di necessità”, ecc., acquisiscono contorni afferrabili solo alla loro concreta applicazione, con significati variabili a seconda del contesto storico in cui si inseriscono.

Non sfugge a queste critiche il concetto di ordine pubblico costituzionale, elaborato dalla Corte cost., il quale coinciderebbe con l’insieme dei principi fondamentali che conformano l’ordine legale di una società all’insieme dei valori cost. Si tratta, anche qui, di una nozione insuscettibile di accertamento empirico, e quindi ideale.

Non si può comunque rinunciare ad indirizzare l’interpretazione verso risultati il più possibile compatibili coi principi costituzionali, ed in particolare con quelli di materialità e offensività, determinatezza, colpevolezza.

E’ in ogni caso opportuno mantenere il riferimento all’ordine pubblico MATERIALE.

E’ stata di recente proposta la ridenominazione del bene giuridico protetto, non più definito ordine pubblico, ma “SICUREZZA COLLETTIVA”, dallo Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale.

E’ da segnalare come vi sia coincidenza tra la dimensione materiale dell’ordine pubblico e la definizione esterna e minimale di criminalità organizzata, la quale viene definita sull’elemento esterno della reazione sociale, e non sulle sue caratteristiche intrinseche.

2. I DELITTI DI ISTIGAZIONE E APOLOGIA

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Le 4 fattispecie previste dagli artt. 414 e 415 si ritiene introducano una deroga all’art. 115, che stabilisce la non punibilità dell’istigazione non seguita dall’effettiva commissione di un reato.

La qualificazione autonoma di questa tipologia di incriminazioni di condotte istigatorie è stata sottoposta a critiche, soprattutto sotto il profilo della compatibilità con i principi cost. della libera manifestazione del pensiero e di materialità e offensività dell’illecito penale.

La Corte di Cassazione, in una pronuncia del 1958 (criticata da Fiore) aveva escluso che l’apologia dovesse configurare necessariamente un’istigazione indiretta, essendo sufficiente la manifestazione della propria adesione al delitto. In questo modo le Sezioni unite avevano configurato un puro reato di opinione, in aperto contrasto coi principi cost. di uno Stato democratico.

La stessa Cassazione ha riproposto negli anni ’70 un necessario contenuto di istigazione indiretta dell’apologia, la quale doveva quindi avere l’attitudine a influenzare l’estrinsecazione dell’altrui volontà.

Essa, tuttavia, non adeguava il contenuto dell’apologia al canone dell’offensività, in quanto l’incriminazione si basava su una presunzione di pericolo, e colpiva quindi la mera disobbedienza dell’autore.

Su questo profilo intervenne la Corte cost. Con sentenza del 1970 n. 65 essa, respingendo l’eccezione di incost. dell’art. 414, 3° c., afferma che l’apologia, come configurata dall’art. 414, 3° c., deve integrare un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti. E’ quindi sulla base della sussistenza di un pericolo concreto che l’apologia è compatibile con il principio di libera manifestazione del pensiero.

Tuttavia la soluzione di conservazione delle norme eccepite di incostituzionalità rimane equivoco, anche perché si tratta di formule così generiche da essere suscettibili di interpretazioni tra loro divergenti.

Il concetto di concreta idoneità viene ricostruito con il paradigma dottrinale della c.d. prognosi postuma su base totale, cioè considerando in tutti i suoi elementi il contesto concreto in cui il soggetto si trova ad operare. Il risultato paradossale è costituito dalla estrema opinabilità del giudizio in concreto che viene richiesto al giudice, il quale, in una casistica occupata da fattispecie politiche di apologia, deve effettuare valutazioni socio-politiche che non possono essere proprie del momento giudiziale.

La verifica giudiziale si vede così stretta tra una presunzione di idoneità dell’istigazione in quanto tale, in conflitto, però con i principi cost., ed una, inevitabilmente arbitraria, ricostruzione concreta della pericolosità.

1. Istigazione a delinquere (art. 414, c. 1° e 2°)

La norma punisce, per il solo fatto dell’istigazione:

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1. con la reclusione da 1 a 5 anni chiunque istiga pubblicamente a commettere uno o più delitti ovvero uno o più delitti e una o più contravvenzioni;

2. con la reclusione fino a 1 anno o con la multa fino a l. 400.000, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni.

Si tratta di reato COMUNE, realizzabile da chiunque.

La condotta si configura solo in presenza del requisito di concreta idoneità; per integrare la violazione occorrerà una manifestazione esteriore, chiara e univoca, escludendosi la forma libera della condotta. Questa dovrà inoltre contenere l’indicazione da parte dell’agente di un minimo corredo di modalità concrete che conferiscano consistenza pratica all’intento esternato. Non rientrerebbe nell’art. 414 la mera proposizione in forma imperativa del divieto contenuto in norme penali (es. andate a rubare).

E’ necessaria, per l’integrazione del reato, l’indeterminatezza dei destinatari, la quale rende quanto meno plausibile il rischio per l’interesse protetto, di sicurezza dei consociati rispetto al pericolo di reati.

La PUBBLICITA’ è l’elemento costitutivo centrale della fattispecie. Esso è definito dall’art. 266, per cui si considera avvenuto pubblicamente il reato quando è commesso:

1. a mezzo stampa o altro mezzo di propaganda;

2. in luogo pubblico o aperto al pubblico in presenza di più persone;

3. in una riunione (non privata).

Nel dolo, generico, sono ricompresi la natura illecita dei fatti istigati e la situazione di pubblicità in cui si realizza la condotta.

Si ritiene che non incida sulla configurabilità del reato l’estinzione del reato istigato, mentre è travolto dalla sua abrogazione.

2. Istigazione a disobbedire alla leggi di ordine pubblico (art. 415)

Il fatto è sanzionato con la reclusione da 6 mesi a 5 anni.

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OGGETTO dell’istigazione sono le leggi di ordine pubblico; in questo concetto non rientrano norme incriminatrici, poiché in tal caso si è di fronte al reato di istigazione a commettere delitti. Si tratta invece di norme di carattere extrapenale, su cui poggia l’ordinato assetto e il buon andamento del vivere sociale, nel quadro della Costituzione: leggi, quindi, concernenti norme cogenti, inderogabili dai privati.

In realtà la fattispecie si colloca oltre il limite estremo di compatibilità col principio espresso dall’art. 21 Cost., come dimostra la casistica dell’istigazione all’astensione dal voto, o all’obiezione fiscale riferita a spese militari.

Si tratta quindi di una norma che dovrebbe essere certamente soppressa.

3. Istigazione all’odio tra le classi sociali (art. 415)

La sanzione è sempre della reclusione da 6 mesi a 5 anni.

L’opinione unanime ritiene che tale ipotesi è manifestamente incompatibile con un sistema liberal-democratico. Troppo evidente è la matrice ideologica dell’incriminazione, che deriva dall’intento fascista di reprimere le idee e la propaganda dei movimenti socialisti e anarchici.

4. Apologia di delitti (art. 414, 3° c.)

La pena prevista per l’istigazione a delinquere (da 1 a 5 anni) si applica anche a chi “pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti”.

Dopo la sentenza cost. 65/1970 la CONDOTTA non può prescindere dalla concreta idoneità a provocare la commissione di delitti.

La decisione ha confermato l’interpretazione tradizionale della fattispecie come istigazione indiretta.

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Si può comunque dubitare della stessa scelta della Corte costituzionale, che rimette al giudice un accertamento concreto in assenza di canoni di verificabilità, aprendo la strada ad incertezze. D’altro canto, la repressione penale dell’apologia resta connotata da una matrice storica illiberale.

3. ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE (ART. 416)

“Quando 3 o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti”, coloro che promuovono, costituiscono o organizzano l’associazione o ne sono i capi, sono puniti “per ciò solo” con la reclusione da 3 a 7 anni. Per la mera partecipazione la reclusione è da 1 a 5 anni.

Questa fattispecie plurisoggettiva necessaria è il paradigma del reato associativo. Come dimostra la sua scarsa determinatezza, essa è emersa, secondo l’intento del legislatore del ’30, per reprimere qualsiasi tipo di criminalità associata. Da questa scarsa portata definitoria, derivano i suoi principali punti di crisi.

Il primo problema è rappresentato dal concetto di associazione; occorre in particolare operare una distinzione tra accordo non punibile (ex art. 115) e associazione.

Il punto di fuga è stato più volte ricercato nel concetto di organizzazione.

Il punto di partenza dell’analisi è costituito dall’inciso “per ciò solo”, il quale mira a sottolineare come l’associazione, proprio perché distinta dall’attività diretta a realizzare il programma criminoso, deve considerarsi punibile prescindendo completamente dal fatto che i soci abbiano o meno iniziato a prepararne l’attuazione.

L’organizzazione criminosa ha natura potenzialmente permanente, in quanto si connota nell’idoneità dell’associazione ad articolarsi in ruoli e competenze, che non si identificano con le attività connesse alla realizzazione dei singoli delitti, ma risultano predisposti in vista di un programma criminoso generico.

In tale prospettiva la distinzione è imperniata sulla sottile contrapposizione tra l’elemento organizzativo funzionale alla mera attività preparatoria dei delitti (e si resta allora nell’area dell’accordo criminoso) e l’elemento organizzativo che supera tale prospettiva proiettandosi al di là dei singoli delitti da eseguire (e allora si ha associazione criminosa).

Risulta chiaro che l’indagine sul connotato strutturale dell’associazione trovi nella nozione di organizzazione un risultato, da un lato, condivisibile, ma dall’altro irto di problemi, soprattutto quando si verifichino le costruzioni dogmatiche alla luce delle prassi giurisprudenziali, tendenti ad una considerazione riduttiva del requisito dell’organizzazione.

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Si aggiunga che la stabile organizzazione in quanto tale, a prescindere da condotte preparatorie dei singoli delitti, potrà trovare una consistente dimensione probatoria solo nella collaborazione processuale dell’indagato. Altrimenti è difficile che le attività investigative possano escludere la valorizzazione di condotte preparatorie ed esecutive del programma criminoso.

Ulteriori problemi si pongono poi nell’individuazione di una reale offensività della organizzazione. A tal problema si è cercato di dar soluzione prospettando la necessità di verifica, volta per volta, dell’adeguatezza della struttura org. a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira. In tale modo si utilizza però un dato meramente soggettivo (lo scopo criminoso) con conseguente difficoltà di delineare con precisione le condotte rilevanti.

Diverso è il discorso se si muove dalla precisa individuazione dell’interesse tutelato, prospettando la necessaria idoneità offensiva. L’illecito deve cioè assumere concretezza in riferimento ai bisogni espressi dal tipo di società in cui si trova ad operare.

Il delitto di cui all’art. 416 è tradizionalmente classificato tra i reati necessariamente permanenti. Recentemente però, si è proposta una diversa collocazione, tra i reati eventualmente permanenti, in quanto la permanenza non potrebbe qualificare la fase costitutiva del sodalizio.

Più interessante è il rilievo in base al quale la permanenza deve essere intesa in termini di potenzialità del sodalizio, e come tale contribuisca in modo decisivo a connotare l’associazione punibile ex art. 416.

Il bene giuridico tutelato è L’ORDINE PUBBLICO, inteso nell’accezione materiale.

Connessa a questa tematica è quella del tipo di tutela apprestata dalla norma.

Non appare corretto classificare la fattispecie come fattispecie di danno, sulla base che l’associazione criminosa si pone come antitetica, solo per la sua esistenza, rispetto all’ordinamento giuridico penale nel suo complesso.

Opinione preferibile e prevalente è quella che la colloca tra le fattispecie di pericolo. Si può ipotizzare che la pace sociale, la tranquillità e sicurezza pubblica siano poste in pericolo, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, dalla sola esistenza del sodalizio criminale, a prescindere dall’attuazione del suo programma . Così inteso, il testo della norma non consente di punire programmi criminosi, che, per la tipologia prescelta, non siano realmente offensivi.

L’art. 416 delinea varie condotte: promozione, costituzione, organizzazione, direzione, partecipazione, che presuppongono l’effettiva costituzione dell’associazione criminosa.

Le figure del promotore e del costituente si ritiene possano prescindere da una effettiva partecipazione alla vita dell’associazione, collocandosi all’origine della medesima. Si potrebbero quindi considerare autonome fattispecie di reato.

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Alla stessa conclusione si perviene tuttavia, anche a proposito della figura dell’organizzatore e del capo, che implicano necessariamente una partecipazione al sodalizio. Questa soluzione nasce principalmente dall’esigenza di resistere alle richieste della difesa di dichiarare prevalenti le eventuali attenuanti sulla qualità di organizzatore o dirigente prospettata come aggravante (giudizio di bilanciamento ex art. 69).

Tale soluzione non è, tuttavia, unanimemente accolta in dottrina. Essa infatti riconosce la qualità di partecipe solo a chi entra a far parte di un’ass. criminosa già esistente. Da ciò consegue l’affermazione, oltre che dell’autonomia, anche della monosoggettività della fattispecie di partecipazione.

Di recente si è prospettata un’altra via, in base alla quale ci si troverebbe di fronte ad un unico reato plurisoggettivo con sanzioni diverse.

A prescindere da tali problemi, non è facile definire la figura del partecipe, che manifesta, rispetto alle altre condotte, carenza di descrittività.

Nelle impostazioni più risalenti, si affermava fosse sufficiente una mera adesione psicologica all’associazione. Tale lettura era però riduttiva e non conciliabile con i principi di offensività e materialità.

Si ritiene allora che l’attività del partecipe vada valutata in termini di concretezza, per cui essa è tipica solo quando il suo contributo sia concreto, obiettivo e fattivo rispetto all’esistenza dell’ente e al perseguimento dei suoi programmi. Sotto il profilo soggettivo, poi, il partecipe deve volere tale contributo, rappresentandosi da un lato, il suo significato rispetto alla struttura dell’associazione, e dall’altro, l’altrui operare, con rilevanti conseguenze sul piano del dolo. Le attività necessarie ad integrare il reato del partecipe non dovranno riguardare la fase preparatoria dei delitti scopo, ma dovranno solo concretarsi in comportamenti utili e funzionali alla organizzazione.

L’elemento soggettivo è del dolo specifico, consistente nella intenzione di tutti gi associati di contribuire ad un determinato programma criminoso. Il dolo non è configurabile dove taluno ignori il carattere delittuoso dei fatti di cui allo scopo comune o la plurisoggettività della fattispecie. Si è tuttavia osservato che nel promotore o costituente il dolo non si riferisce alla plurisoggettività dei soggetti concorrenti, ma alla creazione di un ente i cui soggetti abbiano reciproca conoscenza della rispettiva partecipazione criminosa.

L’art. 416 prevede due circostanze aggravanti, entrambe oggettive:

• la scorreria in armi, legata alla storia della repressione del banditismo;

• il numero degli associati > 10, che rende inapplicabile la circostanza aggravante di cui al n. 1) dell’art. 112 (numero > 5).

4. ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO

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L’art. 416 bis prevede la pena della reclusione da 3 a 6 anni per chiunque faccia parte di un’associazione mafiosa. Da 4 a 9 anni per chi la promuova, diriga, organizzi. (1° e 2° comma)

L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o a altri in occasione di consultazioni elettorali. (3° comma).

Il dibattito sul fenomeno mafioso si sviluppa in Italia solo alla fine del secolo scorso. Al tempo del regime fascista, con il codice Rocco, il fenomeno mafioso è mal tollerato e viene ricondotto dalla dottrina nell’alveo dell’associazione per delinquere.

Nel primo ventennio del dopoguerra non vi sono interventi normativi volti alla repressione del fenomeno criminale, e questo trova spiegazione nel fatto che la mafia era divenuta uno strumento essenziale di lotta politica.

La prima risposta dello Stato alla delinquenza mafiosa arriva con la legge sulle misure di prevenzione 575/1965. Con questa scelta non viene impiegato il diritto penale sostanziale, ma vengono appunto applicate misure di prevenzione, il che comportava minori difficoltà di ordine probatorio, e nella convinzione (poi risultata errata) che fosse sufficiente allontanare il mafioso dal proprio territorio per eliminarne le potenzialità criminali.

Il passaggio dalla soluzione preventiva ad una connotata dall’adozione di specifiche fattispecie repressive avviene con la legge Rognoni-La Torre, L. 646/1982.

Essa introduce l’art. 416 bis, al cui ultimo comma si estende la portata del delitto di associazione di tipo mafioso alla camorra e alle altre associazioni assimilabili comunque denominate.

La nuova incriminazione si pone sullo stesso piano di tutela dell’art. 416, implicando anch’essa un accordo sul ricorso ad un comportamento penalmente rilevante, quanto meno nella prospettiva dei reati di minaccia privata tentata.

L’ultima parte dell’art. 416 bis, che introduce l’ulteriore programma associativo di “impedire o ostacolare il libero esercizio del voto e di procurare voti…” nonché l’art. 416 ter (scambio elettorale politico mafioso) sono stati introdotti dal D.L. 306/1992, poiché si era appunto criticata la mancanza di specifici riferimenti all’intreccio tra mafia e politica.

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1. La funzione processuale dell’art. 416 bis

L’art. 416 bis ha assunto, nel quadro della strategia normativa contro la mafia e la criminalità organizzata, un indiscutibile ruolo centrale.

Sul piano processuale l’indagine per la violazione dell’art. 416 bis influisce sull’individuazione del P.M. competente, sulle misure cautelari, sul regime di formazione delle prove, sulla durata delle indagini preliminari.

L’associazione mafiosa è infatti un fatto complesso, idoneo a fungere da presupposto per una serie indeterminata di investigazioni concernenti i diversi reati scopo.

La trasversalità del fenomeno giustifica nella prassi “inchieste conoscitive preliminari alle stesse indagini preliminari” necessarie per delineare l’effettiva ampiezza del fenomeno su cui indagare.

Tale inchiesta preparatoria porta con sé il rischio di far apparire l’attività di costruzione dell’accusa come frutto di scelte soggettive arbitrarie.

4.2 Il bene protetto

E’ l’ordine pubblico in senso materiale, da intendersi come condizione di sicurezza e libertà dei consociati e condizione su cui questi ultimi ripongono affidamento, a costituire l’autonomo oggetto di tutela.

4.3 La struttura della fattispecie

La definizione dell’associazione di tipo mafioso di incentra su 3 caratteristiche:

1. la forza di intimidazione del vincolo associativo, cui consegue una condizione di assoggettamento e di omertà;

2. il metodo consistente nell’avvalersi di tale forza di intimidazione;

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3. il programma del sodalizio.

1. LA FORZA DI INTIMIDAZIONE DEL VINCOLO ASSOCIATIVO

Si tratta di un dato colto dalle indagini sociologiche e criminologiche. Esso è passibile di diverse letture.

Alcuni hanno sostenuto che il nesso consequenziale tra forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà debba essere colto in termini letterali, nel senso che lo stato di soggezione deve essere conseguenza puntuale di una manifestazione attuale della forza di intimidazione.

Secondo altri, invece, lo stato di soggezione non sarebbe altro che un elemento di qualificazione della forza di intimidazione, nel senso che tali conseguenze rientrerebbero negli effetti tipici del vincolo associativo.

Tale prospettiva non appare convincente, perché forza il dato letterale che, al contrario, stabilisce un nesso consequenziale tra i due elementi.

Le condotte di intimidazione e di violenza necessariamente poste in essere prima che il sodalizio si costituisca, cosi dando vita al requisito della “forza di intimidazione”, si collocano al di fuori del modello legale dell’art. 416 bis. Infatti, un’associazione che si propone di avvalersi della forza di intimidazione, ma che tale forza non ha acquisito, è un’associazione per delinquere semplice, rientrante nell’art. 416.

Tale necessario passaggio dall’una all’altra incriminazione giustifica anche la più corposa connotazione dell’art. 416 bis in termini di “attualità criminosa”. L’associazione di tipo mafioso sfugge infatti al tradizionale paradigma dei reati associativi – basato sul coniugarsi di organizzazione e scopo criminoso – richiedendo un quid pluris rappresentato dall’attuale esercizio del metodo mafioso.

La tesi, qui criticata, volta a minimizzare i requisiti strutturali della fattispecie, ritiene poi insito nel requisito della forza di intimidazione quello della organizzazione. La dottrina prevalente invece afferma che tale requisito debba affiancarsi a quello della forza di intimidazione.

E’ respinta anche l’ulteriore tesi riduttiva che ritiene che le manifestazioni di assoggettamento mafioso possano prodursi anche solo all’interno dell’associazione.

2. L’UTILIZZO DEL METODO MAFIOSO E IL PERSEGUIMENTO DEGLI SCOPI DEL SODALIZIO

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Fin dall’entrata in vigore della norma ci si chiese se sia necessario che l’associazione si sia effettivamente avvalsa della forza di intimidazione, ovvero se sia sufficiente che essa si proponga di utilizzarla, anche se poi non se ne sia concretamente servita.

Un primo orientamento, dando rilievo al dato lessicale, considera necessario l’effettivo utilizzo della forza di intimidazione. Quest’ultima, e le condizioni di assoggettamento sarebbero dunque elementi oggettivi della fattispecie.

In tal modo l’art. 416 bis si collocherebbe tra i reati associativi a struttura mista, per i quali la legge richiede non solo l’esistenza di un’associazione, ma anche la realizzazione o un inizio di realizzazione del programma criminoso.

Altra dottrina, al contrario, afferma che la locuzione “si avvalgono” andrebbe intesa nel senso che gli associati si propongono di conseguire i loro obiettivi mediante il ricorso alla forza intimidatrice, senza che sia necessario che producano l’effetto intimidatorio o che abbiano dato concreta esecuzione ad atti diretti ad intimidire.

La giurisprudenza si è attestata su entrambe le posizioni, dando luogo ad una rilevante oscillazione quanto a contenuti strutturali della fattispecie.

La prima tesi ha incontrato due obiezioni:

• una, di carattere politico criminale, per cui si è evidenziato come richiedere la prova dell’effettivo utilizzo, finirebbe col circoscrivere la nuova fattispecie entro confini più ristretti di quelli corrispondenti alla ass. per delinquere; si riproporrebbero le difficoltà probatorie e le carenze della vecchia fattispecie associativa. Questa obiezione è facilmente superabile, perché, una volta collocate entrambe le fattispecie (416 e 416 bis) sullo stesso piano di tutela, non vi possono essere vuoti di tutela e dunque il problema non si pone.

• dal punto di vista della struttura del reato postulare la necessità di effettivo ed attuale utilizzo della forza di intimidazione significherebbe richiedere una pur parziale verificazione di ciò che è nell’oggetto del dolo specifico, almeno nella prospettiva della realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti.

A questa obiezione si può replicare che, connotando con l’art. 416 bis “un’associazione che delinque”, non si verifica la sovrapposizione tra fatto e oggetto del dolo specifico: il fulcro dell’incriminazione si colloca in uno spazio intermedio tra il semplice fatto della costituzione e la proiezione prospettica degli scopi perseguiti. In

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altre parole, è possibile distinguere tra condotte in atto, esprimenti la forza dell’intimidazione, e il raggiungimento dei fini programmatici, certamente estranei alla fattispecie materiale.

Chiara è la critica volta da un altro autore (De Francesco) basata su un’efficace esemplificazione: si esamina l’ipotesi di partecipazione ad una gara d’appalto di lavori pubblici da parte di un’ass. mafiosa. La forza di intimidazione potrà esprimersi con atti concreti, larvatamente, oppure senza alcuna esplicitazione. Proprio quest’ultimo caso è quello in cui il sodalizio ha raggiunto una tale forza intimidatrice da renderne superflua l’estrinsecazione. Lasciare impunita tale ipotesi, ovvero richiedere l’ulteriore elemento del raggiungimento dei risultati programmatici, traviserebbe completamente la ratio legis della norma. Da qui l’esigenza di valorizzare in termini di proiezione il requisito dello sfruttamento della forza di intimidazione.

Si può condividere la conclusione di De Francesco, secondo cui per la punibilità del sodalizio non occorre la prova dell’avvenuta intimidazione. Non occorre che il sodalizio mafioso estrinsechi la propria forza di intimidazione in ogni ipotesi di realizzazione di uno dei programmi previsti dall’art. 416 bis. Occorrerà tuttavia, a prescindere dallo specifico fatto realizzativo del programma (nell’esempio la partecipazione alla gara d’appalto), accertare che l’associazione, dal momento della sua costituzione, abbia visto i propri membri compiere atti di intimidazione, di sfruttamento del potenziale di coartazione, di cui è dotato il sodalizio. Sarà quindi onere dell’accusa provare l’esistenza di condotte di intimidazione in contesti anche precedenti e diversi da quelli della gara d’appalto.

Bisognerà anche accertare che le condotte di intimidazioni siano successive alla costituzione e siano uno stabile modus operandi dell’associazione. Solo in questo modo si potrà parlare di proiezione attuale del potenziale di intimidazione preliminarmente acquisito.

3. IL PROGRAMMA ASSOCIATIVO

Le 4 finalità tipiche indicate dalla norma sono alternative e configurano una norma a più fattispecie, per la quale è sufficiente la sussistenza di una sola di esse perché il reato si integri e il loro concorso non determini una pluralità di reati.

La norma, accanto ad un programma di natura criminosa, identico a quello dell’art. 416 (commettere delitti) e ad una figura delittuosa specifica (impedire e ostacolare il libero esercizio di voto), prevede proiezioni intenzionali di per sé prive di un necessario rilievo penale.

Questa caratteristica sollevò problemi di ordine costituzionale in relazione all’art. 18 Cost. Tali perplessità possono essere superate, in quanto si richiede l’attualità dello sfruttamento del metodo mafioso, cogliendo accanto al fine penalmente neutro, una finalità “vietata ai singoli dalla legge penale.”

E’ vero, infatti, che la già acquisita forza di intimidazione richiede, di regola, reiterazioni nel concreto esercizio della violenza, perché possa mantenere integro il suo potenziale di coartazione. L’associazione, per poter essere qualificata come mafiosa, deve quindi avere una perdurante proiezione delittuosa.

La finalità di acquisire, in modo diretto o indiretto, la gestione, ecc. inquadra la connessione tra org. criminali e attività economiche, con attenzione particolare col settore pubblico.

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La finalità di realizzare profitti o vantaggi ingiusti appare come un’ampia formula di chiusura, tale da ricomprendere vantaggi che, pur non essendo illeciti, appaiono ingiustificati o iniqui.

La finalità introdotta dal D.L. 306/1992, convertito dalla L. 356/1992 deve essere letta nell’apertura della fattispecie alle connessioni tra mafia e politica, o più precisamente, tra mafia e partiti politici. Tale aggiunta, ritenuta da alcuni superflua, troverebbe ragione nella volontà legislativa di orientare la giurisprudenza, condizionata da letture sociologiche ed economicistiche del fenomeno mafioso, che portavano ad escludere le connessioni elettorali tra crimine e partiti.

3. Le condotte

La configurazione delle condotte è influenzata dalla lettura prescelta per delineare l’elemento oggettivo dell’associazione di tipo mafioso.

Se si accede alla tesi per cui il metodo mafioso ricade nell’ambito del dolo specifico, è sufficiente un rinvio alle qualifiche previste dall’art. 416.

Se si considera il metodo mafioso come un quid pluris rientrante nella fattispecie oggettiva, si dovrà cogliere, almeno a livello di rappresentazione, non solo l’acquisita forza di intimidazione, ma anche il compimento di condotte di sfruttamento del potenziale di coartazione.

La prima ipotesi genera problemi riguardo alla figura del PARTECIPE, in quanto sarebbe riconducibile all’art. 416 bis solo la partecipazione intervenuta quando il sodalizio ha già acquisito la forza di intimidazione; in caso contrario si potrà rientrare solo nell’art. 416.

Si ripropone poi, anche per l’associazione di tipo mafioso, il problema della monosoggettività o plurisoggettività esaminato per l’art. 416.

La struttura MISTA dell’art. 416 bis influirebbe anche sulla qualifica di PROMOTORE, che sarebbe punibile, anche se non risultino realizzati tutti gli elementi richiesti dall’art. 416 bis., quando il soggetto operi per far acquisire ad un’associazione per delinquere le caratteristiche di un’ass. di tipo mafioso. Questo in ragione della natura di reato a consumazione anticipata della promozione.

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La mancata previsione della condotta di COSTITUZIONE sarebbe conseguenza della peculiarità dei reati associativi a struttura mista, nei quali non è sufficiente la nascita del vincolo sociale, ma è richiesta l’acquisita forza di intimidazione.

Non divergono invece dagli altri reati associativi le condotte di DIREZIONE e ORGANIZZAZIONE.

Nel caso dell’errore del partecipe, il quale ignori il metodo mafioso dell’associazione, credendo si tratti di una mera ass. per delinquere, si applicherà l’art. 47, 2° c. (l’errore sul fatto che costituisce reato non esclude punibilità per un reato diverso) e non l’art. 116 (responsabilità per il reato diverso non voluto da taluno dei concorrenti). Tale ultima norma si ritiene inapplicabile a questa fattispecie plurisoggettiva necessaria, in quanto l’art. 116 è stabilito, nella parte generale, per il concorso eventuale.

3. L’art. 416 bis, u.c.

“Le disposizioni del presente art. si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni comunque localmente nominate, che, valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo, perseguono scopi corrispondenti a quelli delle ass. di tipo mafioso”.

Tale disposto normativo viene considerato di natura simbolica, in quanto si tratterebbe di una precisazione superflua del 3° comma.

L’intento legislativo era quello di evitare letture in chiave localistica, preconcette e di stampo sociologico. La giurisprudenza è giunta risultati contraddittori. Da una parte, si è proprio verificato quel condizionamento sociologico che si voleva evitare. Il necessario accertamento della carica intimidatrice è stato sostituito da una presunzione di mafiosità del sodalizio, dedotta dal contesto socioculturale.

Altre volte si è esclusa l’applicabilità dell’art. 416 bis davanti a fenomeni a priori non inquadrabili nel modelli socioculturale di riferimento. Così è avvenuto per la mafia politica.

Tuttavia, il rapporto di specialità che lega l’art. 416 bis all’art. 416, delinea un sistema di difesa sufficientemente forte, in quanto l’art. 416, anche se non univocamente riferibile al crimine organizzato, sarebbe deputato alla repressione di sodalizi criminali che sfuggono agli elementi definitori dell’art. 416 bis.

3. Lo scambio elettorale politico-mafioso (art. 416 ter)

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L’art. 416 ter prevede la stessa pena prevista dal 1° comma del 416 bis (da 3 a 6 anni) per chi ottiene la promessa di voti prevista dal 3° comma del 416 bis in cambio dell’erogazione di denaro.

La norma tipicizza una particolare ipotesi di compartecipazione eventuale nel reato associativo. I politici, estranei all’associazione, ad essa si rivolgono per il procacciamento di voti, corrispondendo in cambio denaro. L’erogazione di denaro è chiaramente fatta all’associazione e non ai singoli elettori, che saranno indotti a promettere il voto perché intimoriti e non comprati.

Si è criticata la limitazione alla sola erogazione di DANARO dello scambio ipotizzato, considerando la pluralità di utilità ottenibili dall’associazione in cambio dell’aiuto.

3. Consumazione e tentativo

Il reato di cui all’att. 416 bis è reato permanente. La consumazione si protrarrà fino allo scioglimento del sodalizio o al venir meno della minima plurisoggettività richiesta.

La configurabilità del tentativo è problema di natura più teorica che pratica.

La dottrina prevalente lo ammette in almeno due casi:

• quello in cui si pongano in essere atti diretti a dar vita all’associazione, ove però non sia integrata la promozione come fattispecie a consumazione anticipata;

• caso in cui si compiano atti finalizzati a partecipare ad un sodalizio già esistente. Appare però qui molto sottile il confine tra condotte penalmente irrilevanti e comportamenti già significativi di un’integrazione nell’ass. e come tali punibili a titolo di consumazione.

3. Le circostanze

Sono previste due circostanze aggravanti di natura oggettiva:

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1. l’associazione armata, ragionevole aggiornamento della “scorreria in armi” dell’art. 416. Si sostenuto da più parti l’impossibilità di concepire un’ass. mafiosa che non faccia uso di armi; in tal senso la circostanza si risolverebbe in un costante surplus sanzionatorio. Peraltro l’interpretazione autentica del 5° c. depone per un disponibilità potenziale senza la necessità di un’attuale detenzione di armi da parte dei membri.

2. riciclaggio. Sono state manifestate perplessità analoghe, anche considerato che il cumulo tra le due circostanze porterebbe a livelli sanzionatori elevatissimi. Il riciclaggio può riguardare il provento di delitti riferibili all’associazione o anche quello proveniente da reati commessi da estranei o da altre ass. criminali.

E’ poi configurabile una circostanza aggravante di carattere soggettivo, quando il fatto sia commesso da un soggetto sottoposto a misura di prevenzione con provvedimento definitivo.

4.9 Le misure di sicurezza

E’ prevista una disciplina derogatoria in tema di confisca. E’ infatti prevista la confisca OBBLIGATORIA delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, prodotto o profitto o ne costituiscono l’impiego, eliminandosi così la distinzione tra confisca obbligatoria e facoltativa dell’art. 250.

La disposizione assume così le caratteristiche di pena accessoria.

Alla condanna consegue una misura di sicurezza personale (di regola la libertà vigilata o, in caso di particolare pericolosità, l’assegnazione a casa di lavoro o colonia agricola). Obbligatoria la misura di sicurezza detentiva quando il condannato ha commesso il fatto essendo già definitivamente sottoposto a misura di prevenzione.

5. GLI ALTRI DELITTI CONTRO L’ORDINE PUBBLICO

Il codice prevede 4 fattispecie, ma altre sono previste dalla legislazione speciale (es. normativa in tema di stupefacenti).

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Il delitto di ASSISTENZA AGLI ASSOCIATI (art. 418) ha applicazione residuale, al di fuori dei casi di concorso nel reato associativo o di favoreggiamento.

Dal concorso si differenzia perché si tratta di aiuto occasionale ai singoli membri, e non all’associazione.

Il discrimine dal favoreggiamento, da un lato riguarda la specifica connotazione della condotta di favoreggiamento (funzionale ad eludere le investigazioni o a sottrarsi alle ricerche) e dall’altra, a tipizzazione dell’assistenza nel delitto dell’art. 418 (dare rifugio e fornire vitto) Da ciò deriva un rapporto di specialità bilaterale.

L’art. 419 punisce il delitto di DEVASTAZIONE E SACCHEGGIO. Esso ha carattere sussidiario rispetto alla fattispecie prevista tra i delitti contro la personalità dello Stato, in cui vi è lo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato.

Dovrà trattarsi di “fatti di devastazione e saccheggio” connotati dalla diffusività del danno, dalla pluralità delle cose danneggiate e dalla presenza di una pluralità di agenti, così da differenziare tale ipotesi da quella di semplice “danneggiamento”.

Si tratta di più fattispecie alternative, con esclusione quindi della configurabilità di concorso di reati quando si verifichino nel medesimo contesto, più fatti.

La fattispecie è a dolo generico.

L’ATTENTATO A IMPIANTI DI PUBBLICA UTILITA’ (art. 420) sanziona condotte non equivocamente dirette e idonee a danneggiare o distruggere gli oggetti materiali indicati dai due commi:

• impianti di pubblica utilità (apparecchiature, attrezzature e congegni destinati a soddisfare un pubblico interesse);

• sistemi informatici o telematici di pubblica utilità ovvero dati o informazioni in essi contenuti.

Nel dolo GENERICO sono ricompresi, accanto ai fatti di distruzione o danneggiamento, la pubblica utilità dei beni e l’idoneità a mettere a repentaglio l’ordine pubblico.

Si esclude il TENTATIVO, in quanto trattasi di delitto a consumazione anticipata.

L’art. 421 punisce come PUBBLICA INTIMIDAZIONE, “chiunque minaccia di commettere delitti contro la pubblica incolumità o fatti devastazione o saccheggio, in modo da incutere pubblico timore”. L’indicazione è tassativa.

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Cap. 5 I DELITTI CONTRO L’ECONOMIA PUBBLICA

1. LA TUTELA PENALE DELLA ECONOMIA PUBBLICA

L’inserimento del bene giuridico “economia pubblica” tra gli interessi tutelati nella parte speciale del c.p. costituisce indice del particolare rilievo attribuito dal legislatore alla categoria dei reati in esame.

Il titolo VIII del libro II presenta peraltro notevoli limiti e incongruenze. Alcune norme risultano infatti caratterizzate da eccessivo gigantismo: la descrizione di singole fattispecie gravita spesso su un requisito di proporzioni smisurate, come il danno effettivo o potenziale all’economia nazionale, che rende estremamente ardua una loro applicazione e un loro accertamento in sede processuale.

Per altro verso, fattispecie (come l’art. 515, frode nell’esercizio di un commercio) che hanno come cornice il rapporto tra venditore e singolo acquirente si sarebbero potute collocare nel diverso titolo dei delitti contro il patrimonio.

Tali incongruenze sono riconducibili al tentativo del legislatore dell’epoca di costruire artificiosamente un titolo idoneo ad accogliere nel sistema penale e dare una valida sistemazione ai c.d. “delitti contro l’ordine del lavoro”.

Non si può quindi affermare che l’intento sia stato quello di dar vita ad un “organico e reale assetto di tutela”, in quanto è proprio l’interesse politico, la concezione ideologica a trovare direttamente ingresso nella struttura della fattispecie.

2. RILEVANZA COSTITUZIONALE DEL BENE GIURIDICO ED ESIGENZE DI RIFORMA

Non si può nemmeno affermare che, avendo il bene giuridico della “economia pubblica” un rilievo costituzionale, gli artt. del titolo VIII siano perfettamente in linea con il dettato della Carta. Tale bene giuridico non gode, infatti, nel c.p., di una valida tutela: non solo permangono le inutili fattispecie affette da gigantismo, ma anche i recenti interventi legislativi appaiono frammentari e parziali.

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L’esigenza di tutelare l’economia non può legittimare, inoltre, i c.d. reati contro l’ordine del lavoro. In questo campo un ruolo di supplenza è stato svolto dalla Corte cost., che però, da un lato è intervenuta tardivamente, dall’altro con sentenze manipolative è venuta talvolta ad incidere sulla dimensione dell’interesse protetto da singole fattispecie, alterando il quadro normativo che aveva originariamente una sua coerenza.

Anche rispetto alle norme ritenute legittimamente cost., il legislatore non ha adeguato le stesse ai nuovi principi costituzionali.

Si imporrebbe quindi una radicale revisione del titolo in esame, che porti all’interno del codice la disciplina di alcuni reati che hanno già per oggettività giuridica la stessa economia pubblica (reati fallimentari e societari, disciplina penale uniforme dell’impresa, disposizioni relative alle moderne forme di criminalità economica, ecc.)

Un modello cui fare riferimento è il noto “schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo c.p.”

3. IL DELITTO DI FRODE NELL’ESERCIZIO DEL COMMERCIO (art. 515): CONSIDERAZIONI GENERALI; OGGETTO GIURIDICO; SOGGETTO ATTIVO DEL REATO

“Chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile per origine, provenienza, quantità o qualità, diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito, qualora il fatto non costituisca più grave delitto, con la reclusione fino a 2 anni o con la multa fino a 4 milioni.

Se si tratta di oggetti preziosi, la reclusione è fino a 3 anni e la multa non < 200.000.”

La fattispecie, che ha natura sussidiaria, avrebbe dovuto svolgere la funzione di colpire le frodi che restano al di fuori della sfera di operatività delle norme in materia di TRUFFA.

Nel quadro della nostra legislazione, e considerando l’orientamento giurisprudenziale, il campo di applicazione della frode in commercio risulta molto incerto.

Mentre, infatti, la legge regola il conflitto tra norme costruendo la frode in commercio come sussidiaria rispetto a quella di truffa, la giurisprudenza ne fa una sorte di figura privilegiata di truffa.

Imperniato sulla difesa del patrimonio dell’acquirente, il delitto in esame parrebbe meglio collocato tra i delitti contro il patrimonio. In realtà, la sua oggettività giuridica è comunque riconducibile al denominatore comune della buona fede commerciale, in quanto anche il delitto in questione, come gli altri delitti contro l’economia pubblica, è espressione di un comportamento dannoso per la massa dei consumatori. Oggetto specifico della tutela è quindi l’ordine economico.

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SOGGETTO ATTIVO del reato non è solo l’imprenditore commerciale, ma anche i commessi, dipendenti, i familiari, il rappresentante, e anche colui il quale, al di fuori di un esercizio commerciale o di uno spaccio, compia un singolo atto di scambio che abbia carattere di occasionalità o eccezionalità.

4. L’ELEMENTO OGGETTIVO: LA CONDOTTA E L’OGGETTO MATERIALE

La struttura oggettiva si impernia sulla consegna di cosa mobile all’acquirente. Potrà trattarsi di presa in consegna materiale o anche mediante titoli rappresentativi.

Il termine consegna fa riferimento ad un’attività contrattuale (pattuizione o dichiarazione) e non al “porre in vendita” il bene.

Qualora il bene sia stato offerto in vendita al pubblico ma non materialmente trasferito ad un acquirente, allora si può ipotizzare il tentativo e l’idoneità degli atti volti a consegnare il bene incriminato al pubblico.

La cosa mobile, oggetto materiale del reato, va intesa in un’accezione ristretta, che non comprende il denaro, i diritti sui beni immateriali, le prestazioni personali, ed, di regola, anche quelle meccaniche, a meno che queste non siano predisposte per la consegna di un prodotto (es. distributori di tabacchi, caramelle, ecc.)

Occorre che la cosa mobile consegnata sia diversa da quella dichiarata o pattuita. Per alcuni, il riferimento alla “dichiarazione“ riguarderebbe i casi in cui la merce viene offerta a condizioni prestabilite, mentre la “pattuizione” le ipotesi in cui le condizioni contrattuali vengono discusse e concordate tra le parti. Secondo altri occorrerebbe invece la perfezione del contratto.

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La questione più problematica concerne però il rilievo che può assumere l’eventuale accettazione dell’acquirente di cosa diversa da quella pattuita o dichiarata.

La dottrina dominante ritiene che l’accettazione della cosa (antecedente o contestuale alla consegna), con la conoscenza della sua diversità, vale ad escludere il reato, non potendosi fare a meno di dare rilevanza scriminante al consenso manifestato, sia in forma espressa, sia tacita, dall’avente diritto.

La giurisprudenza nega invece la sussistenza del reato solo quando il commerciante, dopo la richiesta dell’acquirente, ottenga da questi il consenso esplicito a ricevere la merce diversa offerta “espressamente ed esplicitamente” in sostituzione; non sarebbe sufficiente l’omessa manifestazione di dissenso nè l’accettazione successiva alla consegna.

Non occorre che il venditore si sia avvalso di particolari artifici o raggiri, ed è irrilevante anche che la merce consegnata abbia caratteristiche uguali a quella richiesta. Non esclude il reato nemmeno la circostanza che nessun danno sia stato cagionato all’acquirente.

4. LA DIVERSITA’ DELLA COSA PER ESSENZA, ORIGINE, PROVENIENZA, QUALITA’ O QUANTITA’; ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO

La cosa mobile deve essere diversa per “origine, provenienza, qualità o quantità” da quella dichiarata o pattuita o deve trattarsi di “una cosa mobile per un’altra”. In ordine questo ultimo profilo la diversità deve essere essenziale, cioè diversa per genere o per specie.

Il mendacio sulla provenienza può derivare da due situazioni:

1. il marchio genuino si trova apposto su un prodotto diverso da quello originario;

2. il marchio genuino contrassegna un prodotto che è fabbricato solo in parte nell’azienda indicata. Si dovrà distinguere caso per caso, accertando se il falso concerne una parte essenziale o accessoria del prodotto.

La diversità relativa all’origine deve intendersi come origine geografica del prodotto: si può evocare il nome di una città o di una regione famosi nell’attività produttiva e commerciale per la bontà delle merci ivi prodotte.

La diversità rispetto alla qualità riguarda la composizione della merce e i requisiti peculiari di un determinato tipo merceologico; la diversità sulla quantità riguarda il peso o la misura del prodotto.

Quanto all’elemento psicologico, si ritiene sufficiente il dolo generico.

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Un problema peculiare, ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico, è costituito dal fenomeno della volgarizzazione del marchio. Può accadere che il venditore interpreti male l’intenzione dell’acquirente, volta ad ottenere un determinato prodotto anche se indicato con una denominazione ormai volgarizzata. Si ritiene in dottrina che l’elemento psicologico sia escluso dalla situazione di errore in cui versa l’agente; viceversa in giurisprudenza si è ad esempio riconosciuta la sussistenza di frode in commercio nel caso in cui l’agente abbia consegnato un altro prodotto decaffeinato al posto del caffè Hag richiesto, a nulla rilevando la buona fede nel ritenere che l’uso comune di denominare il caffè decaffeinato Hag abbia fatto cessare il diritto esclusivo del titolare del marchio.

4. LA VENDITA DI SOSTANZE ALIMENTARI NON GENUINE COME GENUINE (art. 516)

Poiché il bene tutelato è il commercio (e più in generale l’ordine economico) ma non la sanità o l’incolumità pubblica, nel caso in si siano posti in pericolo questi beni saranno applicabili altri e più gravi reati.

La questione principale sorta in sede interpretativa riguarda il concetto di sostanze alimentari non genuine.

Mentre la dottrina ritiene non genuina quella sostanza che abbia subito un’artificiosa alterazione nella sua essenza o nella sua normale composizione, mediante impiego di sostanze estranee o sottrazione dei principi nutritivi caratteristici, la giurisprudenza ravvisa la non genuinità nella mera difformità tra le sostanze che compongono il prodotto e quelle prescritte dalla singole leggi speciali in materia alimentare. Si è peraltro stabilito che non può parlarsi di sostanza non genuina laddove la stessa legislazione sia generica e indeterminata.

Sempre secondo la giurisprudenza, la genuinità può venir meno anche nel caso in cui, pur facendo uso dei componenti naturali della sostanza, questi siano impiegati in modo abnorme o contrario a specifiche norme di legge, così da provocare il depauperamento dei principi nutritivi caratteristici.

Si è altresì affermato che il reato previsto dall’art. 516 riguarda anche le sostanze alimentari liquide, come le bevande.

Quanto alla condotta incriminata, “porre in vendita o mettere altrimenti in commercio”, la giurisprudenza ritiene sussistente il reato sia nel caso in cui l’agente si limiti a porre in vendita la cosa non genuina, sia nel caso in cui realizzi la traditio del prodotto all’acquirente.

E’ opinione costante che per la “messa in vendita” sia sufficiente la mera giacenza del prodotto in appositi locali; “la messa in commercio” si in ogni altra ipotesi di messa in contatto della merce col pubblico, anche in forma di vendita a titolo gratuito.

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Il DOLO sussiste quando l’agente ha la consapevolezza della non genuinità della cosa e la volontà di presentarla come genuina. Il dolo non è escluso dalla riserva mentale del venditore di rivelare la reale natura del prodotto a particolari persone.

Si è inoltre affermato che l’ignoranza delle leggi che determinano il concetto di genuinità ricade sull’antigiuridicità del fatto e pertanto non vale ad escludere il dolo, essendo rilevante ai sensi dell’art. 5

La recente giurisprudenza ha osservato come il delitto dell’art. 516 rappresenti una forma di tutela più avanzata di quella del delitto di frode nel commercio, in quanto relativo ad una fase preliminare e autonoma e presenta un ambito più vasto, poiché si consuma con la messa in commercio, configurando un reato di pericolo.

7. LA VENDITA DI PRODOTTI INDUSTRIALI CON SEGNI MENDACI (art. 517)

“Chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il consumatore sull’origine, provenienza, qualità o quantità dell’opera o del prodotto, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a 1 anno o con la multa fino a 2 milioni.”

E’ una fattispecie peculiare in materia di segni distintivi delle opere dell’ingegno e dei prodotti industriali. Oltre alla contraffazione e all’alterazione del marchio legittimamente adottato da altri (artt. 473 e 474) viene considerato penalmente rilevante l’impiego di nomi, marchi o segni distintivi mendaci, cioè quei segni che, senza costituire copia o imitazione, sono tuttavia idonei a trarre in inganno il pubblico dei consumatori sull’origine, provenienza, qualità dei prodotti.

Trattasi di reato di pericolo, nel quale l’oggettività giuridica è data dalla tutela dell’ordine economico.

Le condotte tipiche sono ancora quelle di porre in vendita e mettere altrimenti in circolazione. Il concetto di circolazione comprende qualsiasi atto di commercio e si realizza con l’uscita del prodotto dai depositi o magazzini per essere avviato alla destinazione. “Porre in vendita” significa esporre concretamente per l’altrui acquisto e non semplicemente promettere la vendita di un bene marcato con segni mendaci.

Per quanto concerne l’attitudine ad ingannare, l’inganno deve essere valutato in rapporto alla media dei compratori, essendo sufficiente che il pericolo di confusione si determini anche solo attraverso un esame frettoloso e superficiale del prodotto, qual è quello compiuto dal compratore di media diligenza.

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Si ritiene poi che il segno distintivo, rispetto al prodotto, debba essere legato da una stretta connessione fisica con esso.

4. ELEMENTO SOGGETTIVO; MOMENTO CONSUMATIVO DEL REATO E TENTATIVO

l’elemento soggettivo è il dolo generico, non essendo necessaria alcune finalità perseguita dall’agente.

Il delitto in esame ha carattere sussidiario rispetto alle più gravi figure degli artt. 473 e 474; è senz’altro ammissibile il concorso con il delitto di truffa.

Più controversi i rapporti col delitto di frode in commercio. La giurisprudenza sostiene la tesi del concorso di reati; la dottrina la tesi del concorso apparente di norme, facendo leva sul criterio della specialità in concreto, richiamato dalla clausola espressa di riserva contenuta nell’art. 517.

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Cap. 6 DELITTI CONTRO LA VITA

I. Profili generali

Il codice Rocco classifica i reati con un metodo “a piramide rovesciata”, al cui vertice sta la tutela dello Stato, quindi della comunità e della famiglia, da ultimo i beni individuali (persona e patrimonio). La prospettiva si ribalta se si rilegge la normativa alla luce dei principi costituzionali: uno scenario in cui proprio le aggressioni contro l’individuo dovrebbero rappresentare il nucleo fondamentale della tutela penale nel nostro ordinamento.

Nel c.p. alla tutela della persona è dedicato il titolo XII del libro II. IL capo I contempla i delitti contro la vita e l’incolumità individuale.

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1. IL BENE GIURIDICO TUTELATO

1.1 Sul concetto di PERSONA vi è consenso unanime sulla visione individuale di tale bene, essendo ormai superate le concezioni che ravvisano un interesse statuale sulla sfera di pertinenza dell’individuo.

Nell’attuale assetto di valori giuridici deve invece ritenersi basilare il principio della indisponibilità dell’essere umano. Tale affermazione non esclude che possa ravvisarsi anche un interesse pubblico al rispetto della persona, ma solo come riflesso della protezione da accordarsi in via principale ed esclusiva al singolo individuo.

1.2 La VITA, patrimonio individuale ed esclusivo, è presupposto necessario per il godimento di ogni altro bene, diritto o interesse. Il diritto alla vita è un bene-fine primario, anche se non trova esplicito riconoscimento costituzionale.

1.2.1 Emerge in primo luogo la questione se sia presupposto materiale dei delitti in questione la c.d. vitalità: l’ipotesi tradizionale del neonato che non ha possibilità di sopravvivenza. E’ pacifica oggi la conclusione che nel diritto penale non è consentito distinguere tra vita e vitalità; è inoltre dato acquisito che nel concetto di essere umano rientra anche il c.d. monstrum (essere umano che, pur generato da donna, non presenta forma umana) nonché l’essere gravemente deforme.

1.2.2 Altro problema consiste nel determinare quando si può parlare di “uomo” ai fini del diritto penale. Tale status viene fatto coincidere con l’inizio del periodo di transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina, vale a dire con l’inizio del distacco del feto dall’utero. Tale momento coincide, secondo la tesi prevalente, con la rottura del sacco delle acque.

1.2.3 Quanto al problema della determinazione del momento della morte, è intervenuta la L. 578/1993 che definisce la stessa come “cessazione irreversibile di tutte le funzione dell’encefalo”; essa coincide quindi con la “morte clinica”.

1.2.4 Il suicidio nel nostro ordinamento non è punibile; l’ipotesi del tentativo non rientra quindi nell’art. 575; ciò, tuttavia, non significa che sia vigente il principio dell’assoluta disponibilità della propria vita: vengono infatti incriminati l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio.

La tutela della persona umana, nella sua dimensione fisica e psichica, assume una posizione così centrale che la legge protegge la vita anche “contro” la volontà del singolo, e a prescindere da essa.

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Questa è la ratio anche dell’art 5 c.c., di cui si ammette l’operatività in ambito penalistico, il quale sancisce il principio dell’indisponibilità della vita e dell’integrità personale.

5. Il nostro codice appresta alla vita un plurimo sistema di tutela, mediante la bipartizione tra:

1. reati contro la vita e l’incolumità individuale, dove il bene vita viene tutelato contro le aggressioni dirette a colpire una o più persone determinate.

2. reato contro la vita e l’incolumità pubblica (titolo VI), che incriminano condotte di particolare potenza espansiva o diffusività, che mettono a repentaglio la vita di un numero indeterminato di persone.

1.3 Il diritto alla INCOLUMITA’ INDIVIDUALE è un bene-fine primario, di rango inferiore alla vita, cost. riconosciuto scindibile da quello dell’integrità fisica e psichica. La nozione designa la sfera di signoria del singolo sulla propria dimensione corporea e psichica, nonché il diritto all’intangibilità della stessa rispetto a potenziali limitazioni o intromissioni che si manifestino a livello senso-percettivo. Una vera alterazione dell’organismo è richiesta solo in alcuni reati, mentre in altre rileva anche solo il pericolo di cagionare una sensazione dolorosa (percosse).

1.4 Sono esclusi dal titolo XII i delitti di ABORTO (L. 197/1978) e il reato di MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA o VERSO FANCIULLI (collocati tra i delitti contro la famiglia).

1.5 Allo stato attuale non è prevista nella nostra legislazione penale – e se ne sollecita l’introduzione – una regolamentazione delle manipolazioni genetiche e delle sperimentazioni sull’essere umano. E’ sensibile a questi temi lo Schema di delega legislativa del 1992.

II. Delitti di omicidio

1. OMICIDIO DOLOSO

L’omicidio doloso (art. 575) è reato comune e ciò vale per tutti i delitti contro la vita, esclusa l’ipotesi di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale.

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La CONDOTTA è comune alle altre figure di omicidio (colposo e preterintenzionale) e consiste nel “cagionare la morte di un uomo”, in qualsiasi modo, potendo essere la condotta sia commissiva che omissiva; in questo caso ci si trova di fronte ad un reato omissivo improprio.

Il nesso di causalità tra la condotta e l’evento, accertabile con il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, costituisce la base del rimprovero: si tratta di delitto a forma libera o causalmente orientato.

Ai fini della commissione del delitto di omicidio doloso rilevano quindi mezzi diretti e indiretti: tra questi ultimi, ad es., il contagio di malattia infettiva; i mezzi cd. morali, come ingiuria e diffamazione. Ovviamente, perché sia integrato l’omicidio INDIRETTO, occorre verificare l’efficacia eziologica del comportamento posto in essere rispetto all’evento-morte.

Per quanto concerne l’omicidio realizzato mediante atti giudiziari, si tratta ormai di caso obsoleto, data l’abolizione della pena di morte anche dal cd militare di guerra.

L’evento-morte preso in considerazione corrisponde con quello di morte cerebrale.

Il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di cagionare l’evento morte. Non è richiesto, come nel codice Zanardelli, “il fine di uccidere”.

La dottrina ritiene che oggetto del dolo non debba essere solo l’evento, secondo l’infelice formulazione dell’art. 43, ma l’intero fatto tipico, comprensivo della condotta e dell’evento letale.

Per quanto concerne il rapporto di causalità, a prima vista sembrerebbe irrilevante la sua rappresentazione da parte dell’agente, in quanto la morte può essere cagionata in qualsiasi modo.

In senso contrario, però, si possono addurre due rilievi:

• l’espressione “cagionare” da particolare rilievo alla connessione causale tra condotta ed evento;

• la tesi che ritiene comunque irrilevante l’errore sul nesso causale appare in contrasto con l’esigenza di una sempre maggiore personalizzazione della responsabilità penale.

Si può allora affermare che una diversità essenziale tra decorso causale prefigurato e concreta dinamica causale esclude il dolo in quanto errore sul fatto.

Per il DOLO di omicidio, quindi, occorre altresì la rappresentazione della propria volontà come diretta al fine di uccidere.

In ragione dell’intensità del dolo, si distinguono:

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• dolo d’impeto, che si ha qualora la decisione di uccidere sia improvvisa e repentinamente portata ad esecuzione;

• dolo di proposito, quando tra l’ideazione dell’omicidio e la sua realizzazione intercorre uno stacco temporale da legittimare l’idea di una consapevole e meditata riflessione alla base della deliberazione di uccidere. Questa specie di dolo da tenuta distinta dalla premeditazione.

Vengono poi in considerazione le nozioni di dolo intenzionale, diretto ed eventuale, e quella di dolo alternativo che si ha quando l’agente abbia previsto e accettato l’esito letale come indifferente rispetto a quello di lesioni.

Per accertare la volontà omicida andranno considerati elementi soggettivi, quali la causale o movente, l’indole del reo, l’abilità, i rapporti con la vittima, ed elementi oggettivi, quali le modalità dell’aggressione, il numero e la direzione dei colpi inferti, la violenza utilizzata, la parte del corpo colpita, il rapporto tra mezzo utilizzato e potenzialità dell’arma, comportamento durante e dopo il fatto, ecc.

In particolare, la causale o movente, nonostante possa assumere un’importanza peculiare ai fini dell’individuazione dell’autore del reato, si colloca in un rapporto di sussidiarietà probatoria rispetto agli altri elementi, tanto che di per sé la mancanza di un movente non esclude l’animus necandi.

Soggetto passivo è l’UOMO, e non il semplice concepito. Al contrario, si considera uomo il feto dal momento in cui ha inizio il distacco dall’utero della donna.

Il comportamento di chi pone in essere atti diretti ad uccidere un soggetto già deceduto concreta omicidio putativo o, secondo altra opinione, omicidio impossibile.

Costituisce omicidio anche l’anticipazione della morte, anche di una minima frazione di tempo, di un essere umano vivente, ma non necessariamente vitale, e anche di un essere umano deforme.

Siccome l’omicidio è un reato d’evento, è certamente ammissibile il tentativo, qualora l’agente ponga in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di altra persona. Il tentativo di omicidio si distingue dal delitto di lesione personale, sia per il diverso atteggiamento psicologico, sia per la maggiore potenzialità lesiva della condotta.

Tempus e locus commissi delicti sono quelli in cui si verifica la morte. L’omicidio è necessariamente reato istantaneo, in quanto l’offesa si perfeziona al momento della “morte cerebrale”.

2. LE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI DELL’OMICIDIO

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Il c.p. per graduare l’omicidio volontario, punito con la reclusione non < 21 anni, prevede un articolato sistema di circostanze aggravanti, distinte negli artt. 576 e 577 in base all’entità della pena, e dalla dottrina, invece, secondo la loro natura:

1. aggravanti concernenti l’elemento soggettivo del reato:

1. l’avere commesso il fatto con premeditazione;

2. l’avere agito per motivi abietti o futili;

2. Aggravanti concernenti le modalità della condotta criminosa o i mezzi usati:

1. l’avere adoperato sevizie, o l’avere agito con crudeltà verso le persone;

2. l’avere commesso il fatto con sostanze venefiche o altro mezzo insidioso.

3. aggravanti concernenti la connessione tra reati:

1. l’avere commesso il fatto per eseguire o occultare un altro reato, o per conseguire o assicurare a sé o ad altri il profitto o il prodotto o il prezzo o l’impunità di un altro reato;

2. l’avere cagionato la morte nell’atto di commettere uno dei reati di violenza sessuale.

4. aggravanti dipendenti dalla qualità del soggetto attivo:

1. omicidio commesso dal latitante, per sottrarsi all’arresto, alla cattura o carcerazione, o per procurarsi i mezzi du sussistenza durante la latitanza;

2. omicidio commesso dall’associato per delinquere, per sottrarsi all’arresto, cattura o carcerazione.

5. aggravanti dipendenti dai rapporti tra colpevole e offeso:

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1. avere commesso il fatto contro l’ascendente o discendente. Trattasi del PARRICIDIO;

2. avere commesso il fatto contro il coniuge, fratello, sorella, padre o madre adottivi, figlio adottivo, affine in linea retta. Si parla di quasi-parricidio o parricidio improprio.

3. LA PREMEDITAZIONE

L’art. 577 n. 3 prevede la pena dell’ergastolo quando l’omicidio volontario venga commesso con premeditazione. L’art. 585 stabilisce, nei delitti di lesione personale e di omicidio preterintenzionale, l’aumento della pena fino a un terzo in caso di premeditazione. Con la premeditazione l’intensità del dolo raggiunge il suo massimo grado.

Il codice però non definisce la figura della preterintenzione, che va quindi ricostruita in via interpretativa.

Secondo un’impostazione classica, di tipo soggettivistico, per aversi premeditazione il fatto deve essere stato compiuto con “fredda e pacata perseveranza” e non in preda a cieca passione. Tale posizione non è però stata accolta nel corso dei lavori preparatori al codice.

In una prospettiva oggettivistica si sottolinea invece il profilo della pericolosità, ritenendo indispensabili per la configurabilità della premeditazione due requisiti:

1. un certo lasso di tempo tra la risoluzione criminosa e la sua attuazione;

2. un’accurata preparazione del delitto, comprensiva delle modalità più idonee, del momento più favorevole e della preordinazione dei mezzi per il compimento del delitto.

Tuttavia, anche questo orientamento si espone a critiche. Sembra infatti arduo determinare i criteri con cui fissare il distacco temporale necessario; inoltre, l’eventualità che trascorra un notevole lasso di tempo può anche essere dovuta a fattori del tutto causali. Per ciò che riguarda il secondo requisito, le riserve sono ancora più radicali, escludendosi che la preordinazione dei mezzi possa concorrere alla definizione della circostanza aggravante, rilevando semmai quale indice probatorio.

Le tesi più convincenti sono quelle che riconoscono nella premeditazione una sorta di doppia misura, di natura soggettiva e oggettiva:

• un elemento cronologico, cioè l’ampio intervallo temporale;

• un elemento ideologico o psicologico, cioè la perseveranza della risoluzione criminosa nella mente dell’autore, frutto di un’elaborazione complessa e di durata superiore a quella normale. Non si integra questo requisito quando il decorso del tempo sia dovuto ad uno stato di dubbio.

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La premeditazione costituisce nel nostro ordinamento una circostanza aggravante e non un’autonoma fattispecie di reato. All’esigenza di punire più severamente quelle azioni contrassegnate da una maggiore adesione psicologico-intellettiva ed emotiva del soggetto, viene associata la preferenza per un modello di tipizzazione che, vigendo il principio dell’obbligatorietà dell’applicazione delle circostanze, sottragga tale valutazione alla discrezionalità del giudice.

La premeditazione rileva come circostanza solo nei delitti di sangue; il legislatore ha voluto, per i delitti caratterizzati dalla peculiare rilevanza del bene giuridico tutelato, vincolare la discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena.

Nei confronti delle altre tipologie di reato, i parametri che la connotano saranno tenuti in considerazione in sede di commisurazione della pena, ai sensi dell’art. 133.

E’ controverso se la premeditazione sia compatibile col vizio parziale di mente. L’indirizzo prevalente della Cassazione si esprime a favore della conciliabilità, salvo che la premeditazione sia uno sviluppo consequenziale della malattia, o quest’ultima sia tale da sconvolgere il processo psichico di formazione del proposito criminoso.

Oggi si tende ad affermare che la premeditazione sia compatibile anche con l’attenuante comune della provocazione, la quale non necessariamente postula l’immediatezza della reazione, come invece si sosteneva in passato. Lo stato d’ira può benissimo permanere nell’intervallo di tempo tra la deliberazione criminosa e l’esecuzione del delitto.

Si ritiene invece incompatibile la premeditazione con il dolo eventuale, in quanto caratterizzata da un’intensa volizione della conseguenza lesiva. Diversamente, si finirebbe col confondere la semplice preordinazione dei mezzi con la premeditazione.

Non esclude, infine, la sussistenza della premeditazione il fatto che il proposito criminoso sia condizionato dal verificarsi di un evento futuro previsto dall’agente (es. Tizio premedita di uccidere la persona che intende violentare nel caso in cui questa si metta ad urlare).

4. LE FIGURE SPECIALI DI OMICIDIO DOLOSO

Il c.p. italiano non contempla attenuanti speciali per l’omicidio doloso, ma delle forme attenuate che considera come fattispecie autonome di tale delitto.

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1. INFANTICIDIO IN CONDIZIONI DI ABBANDONO MATERIALE E MORALE (ART. 578)

“La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da 4 a 12 anni”. (1° comma)

Nel vigente art. 578, riformulato dalla L. 442/1981, che ha abrogato la rilevanza penale della causa d’onore, il soggetto attivo è solo la madre: trattasi di reato proprio.

Il fatto tipico può essere di feticidio quanto di infanticidio. La condotta infanticida deve compiersi durante lo stato di turbamento emotivo che segue al parto: trascorso questo breve termine, si applicheranno le norme comuni sull’omicidio doloso. L’infanticidio può essere realizzato anche mediante omissione.

Il dolo è generico è può anche essere eventuale (es. abbandono del neonato nel cassonetto dei rifiuti).

Il 2° comma stabilisce, nel caso di concorso di persone, in deroga ai principi generali, la punizione dei compartecipi a titolo di omicidio doloso. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di aiutare la madre, la pena può essere diminuita da 1/3 a 2/3.

L’u.c. stabilisce l’inapplicabilità delle aggravanti comuni dell’art. 61.

2. OMICIDIO DEL CONSENZIENTE (ART. 579)

E' figura attenuata di omicidio doloso il fatto di chi "cagiona la morte di un uomo con il consenso di lui." La pena è della reclusione da 6 a 15 anni.

Tale disposizione mira a ribadire il principio dell'indisponibilità della vita umana.

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Presupposto del reato è il consenso della vittima, ed è anche l'unico elemento specializzante di questa ipotesi attenuata di omicidio. Il consenso deve essere personale, reale, ponderato ed attuale. La forma di estrinsecazione è libera, potendo essere anche tacita, purché assolutamente inequivoca. Il consenso può essere sottoposto a condizione ed è revocabile.

Non ricorre la forma attenuata, quando il fatto sia commesso:

1. contro una persona < 18 anni;

2. contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;

3. contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o suggestione, o carpito con inganno.

La difficile concorrenza di tutti i requisiti ora indicati nella situazione del malato terminale, il quale si trova in frequente stato di deficienza psichica, dimostra come il legislatore abbia voluto negare ogni legittimazione all'eutanasia pietosa.

IL dolo richiede, oltre ai requisiti dell'omicidio comune, anche la consapevolezza di agire con il consenso della vittima.

3. Istigazione o aiuto al suicidio (art. 580)

Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da 5 a 12 anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima.

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Tale disposizione consente di conciliare la mancata repressione del suicidio, nella forma tentata, col principio di indisponibilità della vita umana.

La condotta consiste nella partecipazione all'altrui suicidio; essa può essere:

• fisica, quando l'agente agevola in qualsiasi modo l'esecuzione del suicidio; l'agevolazione può consistere anche in un'omissione, sempre che sussista a carico del soggetto l'obbligo di garanzia.

• psichica, la quale assume una duplice forma: a) il reo determina altri al suicidio, facendo sorgere nel soggetto un proposito prima inesistente; b) l'agente rafforza l'altrui proposito di suicidio.

Tra le condotte partecipative e il risultato deve sussistere un nesso eziologico.

Si tratta di delitto a dolo generico; è ammissibile la forma eventuale, sia rispetto all'istigazione, sia rispetto all'agevolazione.

Il 2° comma dispone che si applicano le norme sull'omicidio volontario comune, se la persona è minore degli anni 14 o comunque è priva della capacità di intendere e volere.

Le pene inoltre sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata:

1. è < 18 anni;

2. è inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica per un'altra infermità o per abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti.

Sono applicabili le aggravanti comuni di cui all'art. 61.

5. OMICIDIO PRETERINTENZIONALE

L'art. 584 prevede che chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti di cui agli artt. 581 e 582, cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusione da 10 a 18 anni.

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Nell'omicidio preterintenzionale, quindi, l'evento-morte è conseguenza non voluta di atti diretti a percuotere o a procurare una lesione personale alla vittima.

La condotta consiste appunti in "atti diretti a" commettere i delitti di percosse o lesioni: non è richiesta la consumazione di queste ipotesi delittuose. Si discute invece se siano necessari gli estremi del tentativo, posto che i requisiti dell'art. 56 non sono espressamente menzionati. L'elemento della univocità della direzione degli atti è sicuramente un contrassegno ineliminabile della condotta. Più controversa è l'idoneità: mentre la giurisprudenza sottolinea il fatto che tale requisito non è menzionato nell'art. 584, la dottrina correttamente lo ritiene indispensabile.

Ovviamente, non è configurabile il tentativo di omicidio preterintenzionale, in quanto l'evento perfezionativo non deve essere voluto.

L'illecito si caratterizza per una relazione di minore a maggiore gravità tra il voluto e il realizzato. L'omicidio preterintenzionale risulta composto di un delitto doloso di base (percosse o lesioni, almeno nella forma del tentativo) cui si ricollega come progressione o sviluppo, l'evento più grave.

Il problema centrale consiste nell'individuare la natura del legame che deve sussistere tra il delitto doloso e il risultato ulteriore: dolo misto a responsabilità oggettiva o dolo misto a colpa?

La tesi dominante in dottrina e giurisprudenza ritiene che si tratti di un classico caso di responsabilità oggettiva. Si sostiene che dolo e colpa siano due atteggiamenti psichici incompatibili, oppure che manca un riferimento nell'art. 584, alle forme della colpa, ma si giunge comunque alla conclusione che la norma in questione esige solamente la costanza del nesso eziologico tra la condotta e l'evento finale.

Tale tesi però trascura un dato essenziale: nella parte generale del codice è assegnata alla preterintenzione una collocazione autonoma ed intermedia tra dolo e colpa, quale modello di illecito a sé stante. Di conseguenza, assimilare il delitto preterintenzionale, previsto dal 2° c. dell'art. 42, al fenomeno residuale della responsabilità oggettiva, menzionata nel comma successivo, non appare giustificabile.

Non libera la figura della preterintenzione dal settore della responsabilità oggettiva neppure la dottrina che ha elaborato la formula della responsabilità da rischio vietato, la quale afferma che le varie ipotesi di responsabilità oggettiva (preterintenzione, reato aberrante, condizioni obiettive di punibilità, ecc.) possono essere ritenute forme di responsabilità colpevole, in quanto dall'art. 27 Cost. si desume la sussistenza dei requisiti della prevedibilità e evitabilità dell'esito non voluto.

Tale visione dell'illecito da rischio penale, non è accettabile perché muove dal presupposto erroneo che sia irragionevole porre regole precauzionali a chi agisce in una sfera illecita ed inoltre non appare in grado di illustrare la complessità delle molteplici realtà normative cui viene riferita.

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Un'altra concezione, dominante nel passato, fonda l'imputazione dell'evento morte alla forma colposa dell'inosservanza di leggi penali. Essa ricorre al concetto di colpa specifica o presunta, per affermare che l'autore del delitto doloso di lesioni o percosse risponderebbe sempre e comunque dell'esito più grave, in quanto la violazione della legge penale condurrebbe ad ammettere automaticamente la sussistenza della colpa. Tale tesi si risolve però in una responsabilità oggettiva mascherata, che tuttavia riaffiora periodicamente nelle pronunce giurisprudenziali.

Parte della dottrina ritiene invece che l'omicidio preterintenzionale sia una combinazione di dolo-colpa (generica). Una recente opinione, in particolare, (Canestrari) si propone di porre in rilievo le peculiarità di tale modello generale d autonomo di illecito penale. Infatti l'art. 584 sembra confermare l'opzione di concepire il delitto preterintenzionale come entità differenziata sia dalla responsabilità oggettiva sia dalla sommatoria della tipicità dolosa e colposa.

Il contenuto di illiceità della responsabilità preterintenzionale va individuato nello stretto legame che salda il delitto doloso e l'evento più grave. Il delitto doloso di base ha la funzione di tipizzare una situazione di rischio in cui sia oggettivamente prevedibile l'esito ulteriore; esso deve quindi possedere un pericolo astratto per i beni della vita e della incolumità personale. A tal proposito, suscita perplessità il riferimento al delitto di percosse, difficilmente in grado di porre in pericolo tali beni.

Occorre poi accertare, nell'esecuzione dell'illecito doloso di base, la violazione di regole comportamentali di attenzione, il cui scopo fosse quello di evitare l'evento ulteriore (morte).

Tale impostazione ritiene quindi superabile la supposta inconciliabilità tra dolo e colpa. In realtà, è stata a lungo trascurata la prospettazione di regole cautelari nell'agire umano illecito. Il procedimento di statuizione di questi obblighi precauzionali, in contesti delittuosi, deve avvenire non secondo la teoria della "doppia misura" della colpa, ma facendo ricorso ad un modello unitario, quello dell'uomo mediamente avveduto, prescindendo dalla caratteristiche soggettive del reo (ma considerando le eventuali superiori conoscenze): si tratta quindi di una oggettivizzazione più intensa rispetto all'imputazione per colpa in un territorio lecito.

Si può allora parlare di colpa generica oggettivata; tale qualificazione appare importante sotto due punti di vista:

1. quale indicatore di un processo di costruzione della norma precauzionale in una sfera delittuosa, contrassegnato da una maggiore astrattezza;

2. quale attestazione dell'assenza del profilo soggettivo della colpa nella responsabilità preterintenzionale.

In tale direzione sembra essersi pronunciata anche la CORTE COSTITUZIONALE con la sent. 364/1988, nella cui motivazione si legge che _"il 1° e 3° comma dell'art. 27 postulano almeno la COLPA dell'agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica."

Tale ricostruzione dell'illecito preterintenzionale dovrebbe infatti consentire di rispettare le imprescindibili esigenze di personalizzazione della responsabilità. L'esigenza di riforma in questo settore è resa ancor più urgente dalla nuova disciplina di valutazione delle circostanze del reato, realizzata con la L. 19/1990. Essa,

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prevedendo l'imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti, ha acutizzato i problemi posti da un mancato intervento nei riguardi del delitto preterintenzionale.

In conclusione, l'omicidio preterintenzionale è una fattispecie complessa, in cui convivono dolo e dimensione oggettiva della colpa: di conseguenza gli "atti diretti a commettere un delitto di percosse o lesioni" assumono una duplice rilevanza, in quanto devono integrare non solo gli estremi dell'illecito doloso (almeno in termini di tentativo), ma anche quelli della colpa generica e oggettivizzata.

In una prospettiva di riforma si potrebbe configurare una riformulazione che non contempli il delitto di percosse e che preveda espressamente che le lesioni debbano essere giunte almeno allo stadio del tentativo. Inoltre, l'introduzione della COLPA per l'evento più grave, dovrebbe garantire l'operatività della "misura soggettiva". Si dovrebbe poi pensare ad una riduzione della pena.

Lo Schema di delega legislativa statuisce invece la conversione dell'omicidio preterintenzionale in circostanza aggravante dell'omicidio colposo (si parla di "omicidio colposo aggravato"). Due obiezioni: la formulazione della circostanza appare indeterminata e viene relegato il centro di gravità dell'omicidio preterintenzionale (l'evento-morte) nel ruolo di semplice elemento circostanziale, il che disperderebbe il contenuto di alcuni criteri di imputazione della colpa.

Da aggiungere che la prevalente interpretazione dell'omicidio p. come ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva ha portato ad applicazioni "disinvolte" dell'art. 584.

Per il disposto dell'art. 585 l'omicidio p. è aggravato:

1. se concorre alcuna delle circostanze previste per l'omicidio doloso comune negli artt. 576 e 577;

2. se il fatto è commesso con armi o sostanze corrosive.

6. OMICIDIO COLPOSO (art. 589)

"Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni".

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Si tratta di reato a forma libera, che si caratterizza per l'assenza di volontà in direzione dell'esito letale, cagionato per negligenza, imprudenza, imperizia, ovvero per violazione di norme giuridiche aventi finalità cautelare.

La conseguenza lesiva non solo deve porsi in relazione di causalità con la condotta qualificata come "contraria alla diligenza", ma deve anche costituire realizzazione dello specifico rischio che la regola cautelare violata mirava a contrastare.

Il 2° comma prevede una circostanza aggravante, relativa al fatto commesso "con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro". La pena è da 1 a 5 anni.

Possono ricorre le aggravanti e le attenuanti comuni di cui agli artt. 61 e 62 in quanto compatibili con la natura colposa del reato.

Il 3° c. contempla l'ipotesi dell'omicidio colposo plurimo, affermando che nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può > 12 anni.

La giurisprudenza ritiene che si tratti di concorso formale di reati, con previsione del cumulo giuridico, e non di reato complesso: la previsione del 3° c. investe quindi solo la determinazione della pena, mentre i reati conservano la loro autonomia per ogni altro effetto.

7. MORTE O LESIONI COME CONSEGUENZA DI ALTRO DELITTO

L'ART. 586 stabilisce che "quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta, la morte o lesione di una persona, si applica l'art. 83" (aberratio delicti). Tuttavia, "le pene stabilite negli artt. 598 e 590 (omicidio colposo e lesioni personali) sono aumentate."

Si ripropongono le alternative della responsabilità oggettiva o della responsabilità colposa.

L'opinione dominante sostiene si tratti di un'ipotesi specifica di aberratio delicti plurilesiva. Non vi è però concordia sul regime di imputazione del risultato non voluto: l'indirizzo tradizionale parla di responsabilità oggettiva pura, mentre diversi settori della dottrina parlano di dolo misto a colpa.

I contrasti ruotano attorno al significato da dare all'inciso "a titolo di colpa" di cui all'art. 83.

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Secondo una recente teoria (Canestrari) l'art. 586 deve essere inquadrato nel gruppo dei reati aggravati dall'evento che può ritenersi disciplinato dal modello generale dell'illecito preterintenzionale, inteso come figura di dolo misto a colpa generica oggettivata.

In ogni caso, l'art. 586 presenta un'anomalia rispetto agli delitti aggravati dall'evento: la descrizione del fatto doloso base non è fatta dal legislatore ma dal giudice. Esso deve peraltro essere costituito da fattispecie diverse dalla percosse e dalle lesioni.

Ai fini della configurabilità dell'art. 586 il delitto base può anche essere solo tentato.

Circa il trattamento sanzionatorio, si deve fare riferimento all'art. 83, per cui l'agente risponde a titolo di colpa, ma le pene stabilite per gli artt. 589 (da 6 mesi a 5 anni) e 590 (reclusione fino a 3 mesi o multa fino a 600.000) sono aumentate.

La disposizione ha trovato applicazione soprattutto con riguardo alla responsabilità dello spacciatore a seguito della morte del tossicodipendente per assunzione delle sostanze stupefacenti.

Si deve condividere la scelta dello Schema di delega legislativa secondo cui l'art. 586 dovrebbe essere eliminato, in quanto riconducibile alla disposizione generale sul concorso di reati.

**********

Cap. 7 I DELITTI CONTRO L'INCOLUMITA' INDIVIDUALE

I. DELITTI DI PERCOSSE E LESIONI

1. PERCOSSE

L'art. 581 stabilisce che "chiunque percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a 6 mesi o con la multa fino a 600.000" (1°c.)

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La non causazione della malattia è elemento costitutivo del fatto e non mera condizione oggettiva di punibilità; non basta che l'evento non si sia verificato, ma occorre l'inidoneità della condotta a cagionare la malattia, altrimenti si configurerà il delitto di lesioni tentate.

La CONDOTTA tipica si differenzia da quella di lesione prima ancora di verificare se sia stata cagionata una malattia: le percosse si sostanziano nella mera "intromissione abusiva nella sfera fisica".

IL reato è di mera condotta, non essendo richiesta la percezione di dolore fisico da parte della vittima; rileva invece l'oggettiva idoneità della condotta a provocare sofferenza, pur senza residuo di alterazioni patologiche dell'organismo.

Si tratta, secondo parte della dottrina (Mantovani) di reato di pericolo; in particolare rileva il pericolo di cagionare la sensazione dolorosa.

Il tentativo è pacificamente configurabile, ma è discusso se esso sia punibile, trattandosi, appunto, di reato di pericolo.

Il dolo è generico e si sostanzia nella coscienza e volontà di percuotere, ma non di procurare una malattia fisica o psichica: tale effetto non deve essere voluto e nemmeno accettato il rischio.

Non concreta gli estremi del reato l'esercizio dello ius corrigendi; in realtà l'assenza di indici normativi tassativi rende incerta l'applicazione della scriminante dell'art. 51 (esercizio di un diritto o adempimento di un dovere). Tale soluzione sottende in realtà un'opzione di fondo dell'intero ordinamento, cioè di non considerare penalmente rilevanti i fatti, pur astrattamente tipici, di esigua portata offensiva, tanto più se riferiti ad attività riconosciute come socialmente utili.

Nel caso di percosse inferte a persona che abbia perso i sensi la solo scopo di farla rinvenire manca il dolo. La giurisprudenza invece afferma la sussistenza del dolo nel caso di percosse inferte a causa di un gioco, rilevando l'intento scherzoso solo come motivo.

Per quanto riguarda le percosse inferte nell'ambito di un'attività sportiva violenta, la ratio della non punibilità viene individuata nel consenso o nell'esercizio di una facoltà purché siano rispettate le regole del gioco.

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Il cpv. dell'art. 581 stabilisce che la norma non si applica quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo o circostanza aggravante di altro reato (necessariamente o eventualmente complesso)

L'atto del percuotere può concretare anche lesione dell'onore e della dignità. Si dovrà valutare l'intenzione dell'agente per stabilire se si tratta di ingiuria o percossa. La giurisprudenza pone invece l'accento sull'intensità oggettiva del colpo<. Se lieve al punto di assumere valenza solo simbolica, si tratterà di ingiuria. Al di là di questi casi, si ritiene invece prevalente il delitto di percossa (con applicazione del principio dell'assorbimento).

2. LESIONI PERSONALI

L'art. 582 stabilisce che "chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da 3 mesi a 3 anni.

Si tratta quindi di reato COMUNE.

L'evento - malattia contraddistingue il reato di lesioni da quello di percosse. La formulazione della norma sembra a prima vista richiedere due eventi tra gli elementi costitutivi del fatto: la lesione come conseguenza immediata della condotta nonché la malattia come effetto mediato. In realtà l'evento è unico, ed è la malattia, mentre la lesione non è altro che la ripetizione del nomen criminis.

Il concetto di malattia non è però definito dal codice; gli orientamenti interpretativi si possono raggruppare in due filoni:

1. uno di matrice tecnico-giuridica, definisce la malattia qualsiasi alterazione, non solo funzionale ma anche meramente anatomica, dell'organismo (è la nozione della Relazione ministeriale al codice del '30). Tale interpretazione comporta però delle difficoltà: secondo essa, ogni trattamento medico-chirurghico sarebbe incriminabile, in quanto tale da concretare gli estremi della fattispecie.

2. uno medico-legale che circoscrive la definizione della malattia alla sola menomazione funzionale, fisica o psichica, ritenendo non sufficiente un'alterazione solo anatomica, qualora non implichi anche una disfunzione. Questa interpretazione sembra più conforme ad esigenze di certezza.

Si tratta di reato di danno, a forma libera, caratterizzato dall'evento, contrariamente al reato di percosse, incentrato sulla mera condotta. Non è necessaria la violenza fisica in senso stretto, potendo rilevare anche il contagio, o l'ipnosi.

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Ai fini del dolo è richiesta la volontà dello specifico evento lesivo, non essendo sufficiente la mera volontà di colpire.

Il reato si perfeziona nel luogo e momento in cui si realizza l'evento malattia.

Il tentativo è ammissibile, nelle diverse forme di lesione (lieve, grave, gravissima), ma non è sempre facile distinguerlo dal tentativo di omicidio.

Soggetto passivo può essere solo la persona umana in vita, mentre esula dall'area di tutela il feto; tuttavia le lesioni arrecate ad esso possono rilevare dopo la nascita.

Si pone la problematica della responsabilità penale per lesioni nell'ambito di attività astrattamente tipiche ma giuridicamente autorizzate. Cosi l'attività medico chirurgica, anche se sembra concretare gli estremi del delitto di lesione, è immediato come sia destinata a migliorare la salute del paziente.

La dottrina si è sforzata di fondare la legittimità della stessa nelle cause di giustificazione codificate: art. 51, esercizio del diritto, purchè ricorrano i presupposti del consenso del paziente o della necessità terapeutica; nell'art. 50, consenso dell'avente diritto a qualsiasi trattamento terapeutico; art. 54, stato di necessità, ma solo nei casi in cui un valido consenso non possa essere espresso.

In realtà vi sono dei limiti insiti in queste cause di giustificazione: così, in relazione all'art. 50, il consenso del paziente ha uno spazio di operatività limitato, stante l'operatività dell'art. 5 c.c. Un limite all'operare dello stato di necessità si ha per quei trattamenti non necessari né urgenti, nonché nella chirurgia preventiva. Per quanto riguarda l'esercizio di un diritto, l'attività del medico viene esercitata in funzione del diritto del paziente ad essere curato e non del medico a curare.

L'inadeguatezza di tale applicazione forzata ha indotto parte della dottrina ad abbandonare il criterio rigidamente formalistico per accedere ad un'impostazione sostanzialistica: il che ha portato a considerare l'attività medica come attività socialmente adeguata, ovvero a fare applicazione analogica in bonam partem, di cause di giustificazione codificate, oltre ai limiti formali e al di fuori delle ipotesi per le quali sono state stabilite; o a ipotizzare una autonoma causa di giustificazione, non codificata. Quest'ultima è la soluzione accolta dal Progetto Pagliaro.

Analoghe considerazioni valgono per l'attività sportiva, che la giurisprudenza fa rientrare, con qualche forzatura, nell'art. 50 o 51 le lesioni cagionate nel contesto dell'attività stessa. Non sono coperti, ovviamente, gli atti di violenza a gioco fermo, né le lesioni provocate in costanza di gioco ma superando il limite del "rischio consentito".

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3. LESIONI COLPOSE

Tale fattispecie si differenzia da quella dolosa solo per l'elemento psicologico. Si ritrova la tripartizione in lesione lieve, grave, gravissima.

Come per l'omicidio colposo, le lesioni gravi o gravissime sono aggravate se i fatti sono commessi con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Il delitto è punibile a querela, tranne nei casi in cui sussista la circostanza aggravante del fatto commesso con violazione della normativa in materia di prevenzione o igiene del lavoro o che abbia provocato una malattia professionale.

Nel caso di lesioni procurate a più persone, si applica la pena prevista per la violazione più grave, aumentata fino al triplo; ma la pena non può > 5 anni.

4. LE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI DELLA LESIONE PERSONALE

La lesione personale è grave (sanzionata con la reclusione da 3 a 7 anni):

1. se dal fatto deriva un malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, o una malattia o un

2. un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo > 40 gg.;

3. se il fatto produce l'indebolimento permanente di un senso o di un organo.

La lesione è gravissima (con pena della reclusione da 6 a 12 anni) se dal fatto deriva:

1. una malattia certamente o probabilmente insanabile;

2. la perdita di un senso;

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3. la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l'arto inservibile, o la perdita dell'uso di un organo o della capacità di procreare, o una permanente e grave difficoltà nella favella. Va ricondotta in tale fattispecie anche la sterilizzazione non consensuale e, secondo alcuni, anche quella consensuale irreversibile.

4. La deformazione o lo sfregio permanente del viso.

Tali fattispecie, secondo la rubrica dell'art. 583, hanno natura di circostanze aggravanti.

Secondo diversa impostazione (Antolisei, Mantovani), si tratterebbe invece di autonome fattispecie di reato. Si sostiene infatti che alcune di esse possono verificarsi anche in assenza di una malattia, il che impedirebbe di definirle circostanze, posto che tra reato circostanziato e reato semplice deve sussistere un rapporto di genus a specie (per cui la fattispecie speciale deve contenere tutti gli elementi di quella generale).

Tale tesi comporta che l'elemento aggravatore debba rientrare nell'oggetto del DOLO, e ciò sarebbe sicuramente più in armonia coi principi fondamentali del nostro ordinamento, in particolare con quello di proporzione, data l'elevata sanzione prevista nell'art. 583.

5. PROFILI DI RESPONSABILITA' PER CONTAGIO DA VIRUS HIV

Una delle tematiche di attualità è quella della diffusione della sindrome da immunodeficienza acquisita per contagio e dei connesso profili di responsabilità penale.

Il contagio tramite contatto sessuale sembra potersi inquadrare nel novero di quelle attività lecite e socialmente approvate e tuttavia idonee, in particolari situazioni, a costituire forme di pericolo per l'incolumità fisica e la vita di terzi.

SOGGETTO ATTIVO

E' il portatore del virus, che può essere punito per aver, volutamente o più spesso incautamente, trasmesso il morbo a terzi.

Il primo profilo oggetto di valutazione è la consapevolezza o meno del proprio stato. Risposto in senso affermativo, deve ritenersi configurabile, in capo al soggetto sieropositivo, un obbligo di informazione nei confronti dei possibili partner. Una volta assolto a questo obbligo, il comportamento dello stesso soggetto qualora avvenga il contagio, deve ritenersi non incriminabile, non essendo possibile invocare un altro obbligo di astensione.

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Ma una problematica peculiare è se sia invece configurabile un obbligo di tenersi informato, prima di avere rapporti sessuali con altri, in capo a tutti i cittadini o quantomeno in capo a chi aveva ragione di temere di avere contratto l'infezione.

La prima strada sembra difficilmente percorribile, trattandosi di una sfera di libertà che l'ordinamento non può comprimere.

La seconda alternativa comporta invece il pericolo di presumere l'esistenza di "soggetti a rischio", in capo ai quali tali obblighi sarebbero esigibili per il solo fatto della loro condizione (prostituzione, omosessuale, tossicodipendente), senza contare che l'accertamento dell'infezione è possibile solo dopo un certo tempo dalla contrazione del virus.

Appare allora preferibile ritenere, premesso l'obbligo di informazione a carico di chi sappia essere sieropositivo, esigibile anche dal partner soggetto passivo un onere di cautelarsi.

SOGGETTO PASSIVO

Il consenso del partner, debitamente informato, esclude la punibilità, ammettendo l'applicazione analogica dell'art. 50 oltre il limite dell'art. 5 c.c. Altrimenti, operando il consenso come mero presupposto di liceità del comportamento, il sieropositivo potrebbe essere considerato non punibile per assenza di dolo e di colpa.

Rileva pure il consenso del partner, anche non informato, qualora nella situazione concreta il margine di rischio sia facilmente riconoscibile (caso del rapporto con la prostituta non coperto). Peraltro, è difficile inquadrare il ruolo dell'autoesposizione a pericolo in altri casi in cui il rischio non è così chiaramente individuabile: ogni rapporto occasionale.

CONDOTTA INCRIMINABILE

Essa va limitata al caso di contatto sessuale non protetto, in assenza di informazione del partner.

Dubbio è se l'onere di preventiva informazione vada assolta anche qualora vengano assolte le opportune cautele. Infatti l'uso del condom abbassano considerevolmente il livello di pericolosità ma non lo eliminano completamente.

IL FATTO DI LESIONE

La difficoltà maggiore è data dalla qualificazione della condotta che comporta il contagio. Esclusa la possibilità di parlare di percosse, ci si chiede se si possa sussumere il reato nella fattispecie di lesioni personali.

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Il minimum richiesto è la lesione personale da cui derivi una malattia. Può considerarsi la trasmissione del virus come una malattia? Il problema è che la sieropositività in quanto tale non palesa all'esterno segni di infezione (c.d. portatore asintomatico): la malattia è solo la fase terminale di una lenta progressione. Non sembra che il contagio determini quella alterazione funzionale dell'organismo necessaria per la qualificazione della malattia ai sensi dell'art. 582: lo stato di sieropositività, di per sé, può arrestarsi prima di sfociare nella patologia.

In giurisprudenza di opera una netta distinzione tra "infezione da virus HIV" e "malattia", con esplicito riconoscimento dunque di una fase iniziale non qualificabile come malattia.

Di malattia può parlarsi quando l'infezione raggiunge il grado di AIDS, concretandosi allora nelle lesioni di cui all'art. 582. Sono applicabili anche le aggravanti di cui all'art. 583 (lesioni gravi o gravissime), in particolare quella del c.1°, n. 1) e 2) e c.2°, n.1)

NESSO EZIOLOGICO

Il problema è che occorre dimostrare che la malattia, contratta per contagio, sia riconducibile proprio alla specifica condotta, a quel singolo rapporto sessuale e non ad una altro, prova quasi impossibile quando la vittima abbia avuto frequenti contatti, anche con partner diversi.

Il lungo periodo di incubazione, del tutto asintomatico, comporta poi ulteriori difficoltà di accertamento del contagio, che può essersi verificato in qualsiasi momento di un periodo molto ampio.

L'accertamento della condizione di sieropositivo non offre, inoltre, un riscontro sufficiente, dato che lo stesso portatore potrebbe averlo contratto dal suo partner o averlo trasmesso egli stesso: non è aprioristicamente possibile accertare se la sua posizione sia di vittima o di soggetto attivo. Prima ancora di verificare il nesso causale, occorre quindi stabilire la progressione degli accadimenti, cosa non facile, dato anche che il periodo di latenza può essere diverso da soggetto a soggetto.

Tra l'altro l'ampio stacco temporale porterebbe a procedere nei confronti del soggetto che abbia trasmesso il virus quando costui sia ormai già in fase terminale, e quindi non in grado di comprendere la funzione rieducativa della pena.

Per superare tale difficoltà spesso nella prassi si configura il tentativo di lesione, prescindendo dall'accertamento del reale contagio, e quindi dal processo causale, accontentandosi della mera idoneità ex ante della condotta; ovvero si costruisce una sorta di pericolosità presunta, modellata su categorie di soggetti a rischio, a prescindere da ulteriori verifiche, oppure ci si accontenta di accertare un rapporto di continuazione nella relazione sessuale con lo stesso partner.

L'EVENTO ULTERIORE

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Ove al contagio segua la manifestazione della malattia (come spesso avviene), la conseguenza irreversibile è la morte.

Trattandosi di evento non voluto, nemmeno nella forma di dolo eventuale, si tratta di delitto aggravato dall'evento, e si deve ritenere applicabile la fattispecie di omicidio preterintenzionale.

L'elemento soggettivo che regge il delitto doloso di base, raramente sarà il dolo intenzionale. Nella maggioranza dei casi si tratterà di dolo eventuale.

La dottrina tradizionale ne afferma la sussistenza quando il soggetto abbia accettato il rischio di verificazione della lesione e lo nega quando abbia confidato nella sua non verificazione, ritenendo sussistente la colpa con previsione.

La dottrina più moderna, invece, per affermare l'esistenza del dolo eventuale, si affida ad un criterio misto: la condotta e volontà del soggetto devono radicarsi in una condotta caratterizzata da un rischio che oltrepassa il mero pericolo colposo: deve trattarsi di un rischio non consentito, la cui assunzione può essere presa in considerazione da un agente modello. Per differenziare dolo eventuale e colpa con previsione si dovranno tenere in considerazione elementi come la frequenza e il tipo di rapporti, l'adozione di cautele alternative all'utilizzazione del condom in grado di diminuire il rischio di contagio. Dovrà ritenersi sussistente la colpa con previsione quando i rapporti siano stati isolati, o le pratiche sessuali tali da non comportare contatti di sangue, o sia stato utilizzato in modo non corretto il condom.

L'art. 586 (morte o lesioni come conseguenza di un altro delitto) potrà venire in gioco quando il fatto che provoca il contagio sia diverso dalle lesioni, concretando la tipicità di altra fattispecie criminosa (es. violenza carnale)

E' in ogni caso opportuna una riforma ad hoc.

6. RISSA (art. 588)

La rissa è una mischia tra più persone, con colluttazione reciproca e scambio reciproco di percosse. La potenzialità espansiva è il connotato che distingue tale concetto da quello di semplice alterco, sia pure violento. Si tratta di reato COMUNE.

E' incriminato il solo fatto della partecipazione ("chiunque partecipa a una rissa…"), a prescindere dalle conseguenze: si tratta di reato a forma vincolata.

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E' reato necessariamente plurisoggettivo: la tesi dominante ritiene che i partecipi debbano essere almeno 3.

Il fatto incriminato si caratterizza come reato di pericolo astratto, nei confronti dei beni della vita e dell'incolumità fisica, pericolo implicito nelle modalità di estrinsecazione del fatto di rissa.

Il tentativo è configurabile, ma trattandosi di reato di pericolo è difficilmente compatibile col principio di offensività.

Il dolo consiste nella coscienza e volontà di partecipare alla rissa.

Il 2° c. prevede come fattispecie aggravata, tale da configurare un delitto aggravato dall'evento (altri sostengono si tratti di circostanza aggravante), l'ipotesi che nella rissa taluno (un terzo o un partecipante) venga ucciso o riporti lesione personale. In tal caso l'aumento di pena riguarda chiunque abbia concorso nella risa, per il solo fatto della partecipazione. L'aggravamento non sarà invece configurabile nei confronti di chi abbia provocato dolosamente o colposamente la morte o le lesioni, sussistendo concorso formale tra rissa semplice e omicidio o lesioni.

La rissa aggravata esplicita quegli interessi tutelati dalla complessiva fattispecie (vita e incolumità individuale) ai quali la figura base del 1° comma appronta una tutela anticipata. Sembra quindi corretto parlare di ipotesi di preterintenzione: il fatto base esprime una situazione pericolosa nei confronti del bene giuridico tutelato dalla fattispecie complessivamente considerata.

La stessa pena, aggravata, si applica se l'uccisione o la lesione personale avvengono immediatamente dopo la rissa e in conseguenza di essa.

L'art. 588 assorbe il reato di percosse. Rispetto agli altri reati che vengano commessi in costanza di rissa si ha CONCORSO.

La punibilità è esclusa quando il fatto è commesso per legittima difesa; non quando l'aggressione è reciproca né quando la reazione è sproporzionata.

La provocazione non elide la punibilità, né costituisce attenuante (ma non mancano orientamenti giurisprudenziali difformi).

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II. I DELITTI DI OMESSA SOLIDARIETA'

7. OMISSIONE DI SOCCORSO (art. 593)

Tale reato è paradigma della concezione solidaristica contenuta anche nella Costituzione. Esso, prima ancora prima della lesione del bene giuridico della vita e della incolumità individuale, viola un dovere di solidarietà.

Questa impronta ispiratrice sta alla base dell'opzione legislativa di prescrivere obblighi di facere e sanzionarne penalmente l'inosservanza attraverso la tecnica tipizzatrice del reato di omissione.

Non pochi dubbi ha suscitato l'utilizzo dello strumento penalistico in funzione propulsiva. La soluzione di mediazione nell'eterno conflitto tra solidarismo e individualismo, accolta anche dal nostro ordinamento, è quella di ammettere un diritto penale che comando (prescrittivo anziché punitivo) unicamente quando si tratti di tutelare beni-scopo, quali la vita e l'incolumità individuale, e non meri beni strumentali.

L'art. 593 contempla due figure criminose, ed una terza figura aggravata.

1. omesso soccorso di minore o incapace.

Chiunque, trovando abbandonato o smarrito un fanciullo minore degli anni 10 o altra persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o altra causa, omette di darne immediato avviso all'Autorità, è punito con la reclusione fino a 3 mesi o con la multa fino a 300.000.

2. omesso soccorso di persona in pericolo

E' punito con la stessa pena chi, trovando un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, omette di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'Autorità.

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Si tratta di fattispecie modellate secondo il tipo del reato omissivo proprio: dal verificarsi della situazione tipica deriva per il soggetto che vi si trovi l'obbligo giuridico di attivarsi.

Quanto alla situazione tipica, comune ad entrambe le fattispecie è il concetto di ritrovamento, il quale implica la presenza del soggetto in pericolo nello spazio percettivo del ritrovatore. Esula dalla norma il mero fatto di esserne venuto a conoscenza.

Nella prima ipotesi è imposto un mero obbligo di avviso all'Autorità, e non di soccorso: il legislatore ha adottato la tecnica della "tutela mediata" dell'interesse giuridicamente rilevante.

Qualifica la situazione tipica il pericolo, qui implicito nelle condizioni della persona abbandonata o smarrita.

Nella seconda ipotesi l'obbligo di avviso è posto in alternativa a quello del soccorso.

Quanto agli elementi descrittivi della fattispecie, il concetto di "inanimato" implica comunque la vita. "corpo che sembri inanimato" comporta che in stato di dubbio l'autore del ritrovamento dovrà comunque optare per il soccorso.

L'incriminazione del 2° comma contiene espressamente il pericolo come elemento di fattispecie ("persona ferita o altrimenti in pericolo"): la formula sostanzia un reato di pericolo concreto, la cui sussistenza va accertata in sede giudiziale. Deve comunque trattarsi di pericolo di danno all'incolumità personale e non ai beni.

Il pericolo dell'art. 593 è sempre elemento di fattispecie, implicitamente, nel 1° comma, esplicitamente nel secondo. Esso è dunque autentica ratio sostanziale dell'incriminazione: si tratta di una forma peculiare di tutela anticipata: non tutela del bene a fronte del pericolo di lesione, ma quando esso sia già in pericolo. IN sostanza si punisce l'aumento o la non diminuzione del rischio, già esistente, e il rimprovero è non averne impedito le conseguenze.

La fattispecie è configurabile anche quando un soggetto abbia cagionato il pericolo fortuitamente, o per legittima difesa, o per stato di necessità, ma non quando il comportamento sia sorretto da dolo o colpa, altrimenti verranno in gioco le incriminazioni per omicidio o lesioni, (ovvero tentativo di omicidio o lesioni, qualora l'autore abbia impedito la verificazione della morte o delle lesioni soccorrendo la vittima: in tal caso l'obbligo di soccorso rileva quale onere per evitare una pena più elevata).

Sotto questo profilo, la norma assolve alla funzione di estendere la punibilità per tutti i casi in cui il soggetto che ha l'obbligo giuridico di assistenza non sia stato autore della situazione di pericolo.

Il bene giuridico tutelato è, secondo la tesi tradizionale, il bene della vita e dell'incolumità individuale. Esso non viene in questo caso tutelato direttamente, ma mediatamente, potendosi parlare di tutela delle chances di salvezza per il bene protetto.

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Soggetto attivo è chiunque; si tratta quindi di reato comune. IN capo al soggetto non può configurarsi una posizione di garanzia e quindi un obbligo di impedimento. La disposizione non è applicabile a chi ha uno specifico obbligo di tutela nei confronti del soggetto passivo: questi potranno essere incriminati per reati previsti da altre norme (es. abbandono di minori o incapaci) o per reati omissivi impropri, quando sia riscontrabile una vera posizione di garanzia.

L'opzione alternativa tra avviso e soccorso non deve intendersi come libera scelta, ma, data la ratio ispiratrice della norma, è giuridicamente obbligatoria la soluzione più idonea a soccorrere il soggetto in pericolo. Il comportamento inutile o dannoso non esclude quindi la punibilità. Peraltro, trattandosi di una valutazione su una circostanza di fatto, in caso di ERRORE sarà applicabile la disciplina dell'art. 47

Gli eventuali reati posti in essere nell'atto di soccorrere il pericolante (percosse, furto d'auto per il trasporto) saranno giustificati per assenza di antigiuridicità (art. 51, adempimento di un dovere) o meglio di tipicità, costituendo il comportamento un obbligo giuridico previsto dalla norma incriminatrice.

La prestazione del soccorso deve essere tempestiva e integrale, sempre che l'adempimento dell'obbligo sia possibile. La sua trasgressione è scriminata solo quando ricorrano per il soccorritore gli estremi dello stato di necessità.

Il rifiuto del soggetto passivo, da un lato non esclude mai l'obbligo di avviso all'autorità (trattandosi di obbligo afferente ad un interesse di carattere pubblicistico e quindi indisponibile). L'espresso rifiuto esclude invece la vincolatività dell'obbligo di soccorso diretto.

Sono oggetto del dolo tutti gli elementi del fatto: la sussistenza del pericolo, le qualifiche del soggetto passivo, l'idoneità del soccorso a scongiurare il pericolo.

Il dolo eventuale è astrattamente configurabile, ad es. quando l'agente di fronte all'alternativa tra avviso e soccorso scelga quella più comoda accettando il rischio che si riveli inutile o dannosa. Anche il dubbio sull'avvenuta morte del soggetto concreta dolo.

Il reato si consuma nel luogo e nel momento dell'omissione. Per il tempus commissi delicti rileva la scadenza del termine per adempiere all'obbligo, ricavabile dai casi concreti.

Il tentativo è inammissibile.

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Il concorso di persone non si configura quando l'obbligo di attivarsi sussiste in capo a più persone e nessuna si attiva: si tratta di una pluralità di reati autonomi. L'istigazione a omettere concreta invece il concorso. Se qualcuno impedisce materialmente al soggetto obbligato di agire, il primo risponderà di omissione di soccorso, come stabilito dall'art. 46 (costringimento fisico).

La terza ipotesi, morte o lesioni come conseguenza di omesso soccorso, è aggravata rispetto alle precedenti: la pena è aumentata nel caso di lesioni, raddoppia nel caso di morte.

Per la dottrina prevalente si tratta di circostanza aggravante. Non manca però chi sostiene la natura di reato autonomo aggravato dall'evento (Mantovani)

8. ABBANDONO DI PERSONE MINORI O INCAPACI (ART. 591)

Chiunque abbandona una persona minore degli anni 14, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni.

La ratio sostanziale è data dallo stato di incapacità in cui versano i soggetti passivi. Il bene giuridico è sempre quello della incolumità individuale e della vita.

Nonostante la dizione "chiunque" si tratta di reato proprio, in quanto soggetto attivo è solo chi abbia la custodia o debba averne cura. Detta relazione costituisce presupposto della condotta.

Si tratta di reato omissivo proprio, in quanto gli elementi normativi della custodia e della cura si radicano su un obbligo giuridico di attivarsi. Indifferente è se l'abbandono si concreti in una condotta commissiva o omissiva.

L'abbandono deve essere effettivamente pericoloso per la vita o incolumità individuale; si tratta di reato di pericolo astratto: tale requisito assume rilievo nel delineare il minimum di rilevanza penale del fatto; esso concreta la situazione tipica.

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SI tratta in questo caso di un evento di pericolo, cagionato dalla condotta di abbandono (a differenza dell'omissione di soccorso, dove il pericolo è presupposto del fatto reato).

Il dolo è generico e comprende i presupposti del fatto (cura o custodia), la qualità del soggetto passivo e il pericolo per la vita o l'incolumità dello stesso.

Momento consumativo è quello in cui si produce il pericolo: può anche essere posteriore all'abbandono.

Il tentativo non è configurabile, dal momento che fino alla verificazione dell'evento l'agente può adempiere all'obbligo, mentre successivamente il reato è già perfetto.

La sanzione è più elevata di quella prevista per l'omissione di soccorso, il che dimostra il maggior disvalore del fatto.

La stessa pena, in base al 2° comma. È comminata a chi abbandona un cittadino italiano minore degli anni 18 all'estero, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. IN questo caso presupposto del fatto di reato è l'affidamento.

E' stabilito un aumento di pena se dal fatto deriva una lesione personale; la pena è ulteriormente aggravata se ne deriva la morte.

La fattispecie complessivamente considerata compone un illecito preterintenzionale. La morte e la lesione devono essere non volute, altrimenti si rientra nell'omicidio doloso o nelle lesioni personali dolose.

Altra ipotesi aggravata è data dal fatto che la condotta sia compiuta dal genitore, figlio, tutore, coniuge, adottante o adottato.

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Cap. 8 DELITTI CONTRO LA PERSONA: LE ALTRE IPOTESI DI TUTELA

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I. I DELITTI CONTRO L'ONORE

1. INGIURIA E DIFFAMAZIONE: CENNI GENERALI

Tali figure criminose sono contemplate tra i delitti contro la persona nel capo (II, titolo XII), relativo ai delitti "contro l'onore".

Il bene giuridico di categoria è, quindi, l'onore, oggetto di tutela tra i più dibattuti analizzati e criticati. Si sottolinea infatti la difficile afferrabilità di un bene immateriale.

Vi sono in proposito due opposte concezioni:

1. concezione fattuale: le figure criminose in materia sarebbero poste a tutela di un dato della realtà psichica interiore ovvero a tutela di un dato della realtà psico-sociale esterna.

2. concezione normativa: il bene giuridico tutelato sarebbe un valore interiore della persona riconducibile alla dignità umana, e quindi alla personalità di ogni uomo così come riconosciuta e protetta dall'ordinamento giuridico.

3. Si va affermando una terza concezione, risultato di una osmosi tra le due precedenti: l'onore sarebbe da configurare come un bene giuridico complesso che ricomprende tanto il valore interno di un uomo quanto la sua considerazione agli occhi degli altri.

Tale sviluppo interpretativo di è posto anche il problema della rilevanza costituzionale del bene protetto: manca un rilievo esplicito, ma esso si può considerare implicitamente protetto dall'art. 3 Cost. (affermazione della "pari dignità" di ogni cittadino) e nell'art. 2, in quanto tra i diritti inviolabili, si troverebbe anche il diritto all'onore, che non può essere denigrato in particolare con la stessa libertà di manifestazione del pensiero.

Il criterio di distinzione normativa tra ingiuria e diffamazione è la presenza dell'offeso nel primo, e la sua assenza nel secondo, in cui l'offesa è più penetrante, proprio in ragione dell'impossibilità dell'offeso di difendersi.

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2. IL DELITTO DI INGIURIA. ELEMENTO OGGETTIVO DEL REATO E DOLO (art. 594)

Si ha ingiuria quando taluno "offende l'onore o il decoro di una persona presente".

La nozione di onore indica il sentimento che l'individuo ha delle proprie qualità morali ovvero della propria onorabilità; la nozione di decoro esprime quelle condizioni e qualità che, come la dignità fisica, intellettuale o professionale, concorrono a costituire il valore sociale dell'individuo.

Il comportamento offensivo può essere posto in essere mediante diverse condotte; la più ricorrente è l'ingiuria verbale, ma sulla esclude che si possa trattare anche di ingiuria reale.

La consumazione del reato si ha nel momento della percezione da parte della vittima dell'ingiuria.

La configurabilità del tentativo deriverebbe dalla modalità di esecuzione del fatto, qualora la condotta sia scindibile. Con l'avvertenza che, essendo il reato perseguibile a querela di parte, il soggetto passivo deve venire necessariamente a conoscenza dell'ingiuria e quindi deve trovarsi in una situazione che manifesta l'avvenuta consumazione del reato.

La condotta punibile è aggravata in presenza di due speciali circostanze:

• se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato. Il prevalente orientamento giurisprudenziale tende ad estendere il concetto di fatto determinato, non dando rilevanza ad es., al tempo e luogo del fatto.

• se l'offesa è posta in essere in presenza di più persone (almeno due).

Il dolo è generico, essendo sufficiente la mera consapevolezza del contenuto offensivo delle espressioni o degli atti posti in essere.

3. IL DELITTO DI DIFFAMAZIONE NEI SUOI ELEMENTI COSTITUTIVI

Costituisce diffamazione l'offesa arrecata all'altrui reputazione, in assenza del soggetto passivo e comunicando con più persone. Si possono quindi individuare i 3 elementi costitutivi del reato:

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1. offesa alla reputazione

Facendo riferimento alla concezione fattuale, per reputazione si intende l'opinione o la stima di cui l'individuo gode in seno alla società per carattere, ingegno, abilità professionale, ecc., ovvero la valutazione che altri fanno della personalità morale e sociale di un individuo.

Le modalità di commissione possono essere le più disparate.

2. assenza dell'offeso

3. pluralità delle persone destinatarie

Devono essere almeno due persone, anche non contestualmente. Nell'ipotesi in cui vi sia una non coincidenza delle asserzioni diffamatorie nella comunicazione con più persone in tempi diversi, considerando il concetto globale di diffamazione, non può negarsi l'offensività della condotta.

Deve comunque trattarsi di persone estranee alla commissione del reato.

Il dolo (generico) è integrato dalla consapevolezza dei contenuti diffamatori della comunicazione.

Oltre all'aggravante consistente nell'attribuire un fatto determinato, sono previste due specifiche circostanze:

1. se l'offesa è recata col mezzo della stampa o qualsiasi altro mezzo di pubblicità ovvero in atto pubblico;

2. se l'offesa è recata ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad un'Autorità in collegio.

4. DELITTI CONTRO L'ONORE E SCRIMINANTI

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I delitti contro l'onore rappresentano la categoria di reati maggiormente esposta a cause di giustificazione o esimenti in senso lato.

E' in particolare la causa di giustificazione dell'esercizio di un diritto (art. 51) a svolgere un'imponente funzione scriminante costituendo il punto di riferimento codicistico dei diritti di cronaca.

Per diritto di cronaca si intende il diritto di raccontare accadimenti reali per mezzo della stampa in considerazione del loro interesse per la generalità dei consociati.

Per diritto di critica si intende il diritto di esprimere motivati dissensi su opinioni altrui.

Si può parlare di DIRITTO DI CRONACA solo in presenza di 3 condizioni:

1. verità della notizia pubblicata: piena ed assoluta rispondenza al vero dei fatti narrati attraverso un approfondito controllo delle fonti di informazioni. Si nega efficacia scriminante alla verità putativa e alla verosimiglianza della notizia. Tuttavia, la recente giurisprudenza ha affermato la configurabilità della scriminante putativa del diritto di cronaca nel caso in cui le notizie pubblicate, anche se non vere, siano state sottoposte a verifiche tali da aver indotto in errore non colpevole l'autore.

2. pertinenza della notizia, ovvero interesse pubblico alla conoscenza della stessa. Tale limite è inseparabilmente legato alla veridicità delle informazioni. La rilevanza dell'informazione sussiste quando la notizia possegga una valenza e una dimensione di interesse generale concernendo fatti di rilievo per la comunità nazionale o che, pur riguardando poche persone, possano avere una valore emblematico per la comunità nazionale.

3. Continenza, o correttezza formale della divulgazione della notizia.

Un particolare rilievo viene oggi attribuito all'intervista. Un orientamento consolidato ritiene che la pubblicazione di interviste di terzi, lesive della reputazione altrui, costituisce veicolo tipico di diffusione della diffamazione, alla quale il giornalista partecipa a titolo di concorso.

Anche con riguardo all'intervista, la giurisprudenza applica i principi generali, secondo cui al giornalista si richiede l'obbligo di controllo sull'attendibilità della persona intervistata e sul contenuto delle informazioni rese.

Con riferimento al DIRITTO DI CRITICA, il limite della VERITA' opera in maniera analoga rispetto al diritto di cronaca. I limiti della CONTINENZA e della pertinenza vengono, invece, apprezzati in modo più ampio, in particolare con riferimento alla critica politica e sindacale. Anche lo ius corrigendi può costituire, in linea di

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principio, situazione esimente, ma non quando la valenza mortificatrice dell'espressione offensiva travalichi ogni funzione di colloquio e di stimolo che possa derivare dal rapporto pedagogico intercorrente tra le parti.

Specifiche esimenti sono poi previste a completamento della disciplina positiva dei delitti contro l'onore.

L'IMMUNITA' GIUDIZIALE rende non punibili le offese contenute negli scritti presenti o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all'Autorità giudiziaria o amministrativa, quando le offese concernono l'oggetto della causa o del ricorso amministrativo.

La norma mira a privilegiare l'interesse alla libertà di discussione e lo stessi diritto di difesa. Non si tratta di una vera e propria causa di giustificazione, ma di una causa di non punibilità, che esclude solo l'inflizione della sanzione penale, mantenendo il fatto un suo oggettivo disvalore.

E' poi previsto l'istituto della PROVOCAZIONE, che esclude la punibilità delle condotte offensive dell'altrui onore poste in essere nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso. Esso non opera quale circostanza attenuante (art. 62, n.2) ma come causa speciale di esclusione della colpevolezza, poiché la ratio dell'istituto poggia su profili soggettivi.

L'unica differenza rispetto alla provocazione che opera come attenuante deriva dal fatto che la reazione offensiva deve essere immediata: tale requisito va inteso comunque in senso relativo, e non assoluto di "simultaneità" o "contestualità".

Quanto al fatto ingiusto altrui si ritiene sufficiente la realizzazione di un qualsiasi illecito, e persino di un fatto contrario alle norme del vivere civile, che sia in grado di suscitare un giustificato turbamento nell'animo dell'agente.

Si ritiene che anche una persona diversa dal provocato, legata questi da rapporti di amicizia, parentela, lavoro, possa legittimamente avvalersi dell'istituto in esame.

Ha acquisito rilievo anche la putatività della provocazione.

Un ulteriore istituto che contraddistingue la disciplina dei delitti contro l'onore è quello della RITORSIONE. Esso riguarda solo il delitto di ingiuria, prevedendosi che, nell'ipotesi di ingiurie reciproche il giudice può dichiarare non punibili uno o entrambi gli offensori.

Il giudice ha un potere discrezionale nel valutare l'esistenza di una correlazione sul piano logico-formale e anche su quello temporale, non richiedendosi necessariamente una proporzione. Non assume rilevanza l'aspetto cronologico, perché può essere dichiarato non punibile uno o entrambi gli offensori, e anche colui che per primo ha ingiuriato.

5. PROCEDIBILITA' A QUERELA; SOGGETTO PASSIVO DEL REATO; PROVA LIBERATORIA

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La tutela di un interesse strettamente personale come l'onore giustifica la scelta legislativa di subordinare la punibilità dei delitti di ingiuria e diffamazione alla presentazione di querela da parte del soggetto passivo del reato.

Si discute se i delitti in esame siano posti a tutela anche dell'onore di persone giuridiche o di enti di fatto. Prevale la tesi affermativa, che ravvisa in capo a siffatte collettività di persone la titolarità di un bene autonomo e distinto dalla somma degli onori individuali dei singoli componenti del gruppo.

Il soggetto passivo deve essere determinato, non potendo ravvisarsi i delitti di ingiuria e diffamazione nel caso in cui vengono pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria anche limitata, se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili.

L'art. 596 prevede l'istituto della prova liberatoria, che può operare in deroga alla previsione generale del 1° comma, per cui "l'autore di un delitti di ingiuria o diffamazione non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o notorietà del fatto attribuito alla persona offesa".

Il primo requisito per l'ammissione della prova liberatoria è la circostanza dell'attribuzione di un fatto determinato. Occorre poi la ricorrenza di una di queste 3 condizioni:

1. che la persona offesa sia un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisca all'esercizio delle sue funzioni;

2. che per i fatto attribuito alla persona offesa sia tuttora aperto o si inizi contro di essa un procedimento penale;

3. che il querelante chieda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la veirtà o falsità del fatto.

Ricorrendo tali presupposti, "se la verità del fatto è provata o se per esso la persona, a cui il fatto è attribuito, è condannata dopo l'attribuzione del fatto medesimo, l'autore dell'imputazione non è punibile, salvo che i modi usati non comportino da soli ingiuria o diffamazione".

Problema estremamente controverso è quello della collocazione dell'istituto in esame: causa di giustificazione, elemento negativo del fatto, causa di non punibilità.

Appare preferibile ritenere nelle prime due ipotesi di prova liberatoria, l'inquadramento come vere e proprie cause di giustificazione, mentre nell'ipotesi di concessione della facoltà di prova, si ravvisa una causa di estinzione del reato.

La prova liberatoria deve essere piena e completa.

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II. I DELITTI CONTRO LA LIBERTA' INDIVIDUALE

1. IL BENE GIURIDICO PROTETTO E LA SUA RILEVANZA COSTITUZIONALE

La libertà individuale è un bene fondamentale nella gerarchia di valori contemplata dalla Costituzione. Questa delinea un ampio e specifico catalogo di diritti di libertà.

Il codice penale prevede al Capo III del titolo XII ,5 gruppi di reati contro la libertà individuale:

• delitti contro la personalità individuale;

• delitti contro la libertà personale;

• delitti contro la libertà morale;

• delitti contro l'inviolabilità del domicilio;

• delitti contro l'inviolabilità dei segreti.

Mentre la Cost. fa riferimento non ad una singola libertà umana, ma a singoli diritti di libertà che ne costituiscono gli aspetti maggiormente significativi, il c.p. prevede una norma generale (art. 610), posta a tutela di una onnicomprensiva nozione di libertà umana, e poi tante singole norme speciali relativa ad ipotesi in cui, oltre alla libertà individuale, sono tutelati altri beni giuridici ritenuti prevalenti.

Il vigente sistema penale attribuisce rilievo a due diverse modalità di aggressione dei diritti della persona: VIOLENZA e MINACCIA, nelle forme della violenza-fine (delitti di percosse, lesioni, omicidio) e violenza-mezzo (violenza privata, sequestro di persona, violazione di domicilio) e minaccia-fine e minaccia-mezzo.

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2. PERSONALITA' INDIVIDUALE E LIBERTA' PERSONALE NEL CODICE PENALE

I delitti contro la personalità individuale hanno come specifico oggetto di tutela lo status libertatis in quanto tale.

La caratteristica comune ai vari delitti è il concetto di SCHIAVITU' o di CONDIZIONE ANALOGA alla schiavitù, che costituisce l'evento del reato, o il presupposto del fatto o la peculiare qualifica del soggetto passivo.

Secondo la Convenzione di Ginevra del 1926 la schiavitù è lo stato o condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi. Si ritengono, così, configurabili i reati suddetti ogni qualvolta si giunga, per prassi, tradizioni, circostanze ambientali, a costringere una persona al proprio esclusivo servizio.

Secondo una recente pronuncia delle Sezioni Unite la condizione analoga alla schiavitù non è costituita da una situazione di diritto, ma da una condizione di fatto riconducibile alla riduzione della persona offesa nella condizione materiale dello schiavo.

Con il richiamo al bene giuridico della libertà personale il c.p. prevede, invece, talune figure criminose poste a tutela della libertà fisica, distinta dalla libertà morale.

Il bene della libertà personale, a dimostrazione del suo superiore rango costituzionale, apre il catalogo della Costituzione nella parte dedicata ai rapporti civili (art. 13). La garanzia cost. riguarda tutte le possibili forme di restrizione della libertà personale; ai fini di tale garanzia rilevano anche: la durata della restrizione, la quantità di libertà residua, l'incidenza della limitazione su di un singolo individuo o su un gruppo indeterminato di persone.

Sempre in base al disposto cost. eventuali restrizioni della libertà personale sono espressamente subordinate alla riserva assoluta di legge e alla riserva di giurisdizione e alla motivazione di ogni provvedimento restrittivo.

Nel c.p. la norma che prevede il sequestro di persona descrive il fatto incriminato in termini assolutamente essenziali ed univoci: è punito "chiunque priva taluno della libertà personale". Tale norma occupa uno spazio centrale, in quanto l'incriminazione può adattarsi ad ogni ipotesi di impossessamento coercitivo dell'altrui essere fisico, dalla legge non autorizzato.

Si tratta, appunto, di reato a forma libera, ovvero causalmente orientato. Il sequestro può essere conseguenza sia di una condotta attiva, sia di una omissione: in quest'ultimo caso, l'obbligo di non impedire la privazione della libertà personale può operare solo nei confronti del soggetto a carico del quale sussista uno specifico obbligo di protezione o di garanzia.

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Il problema più controverso è rappresentato dalla rilevanza della compressione della libertà personale: la privazione della libertà deve essere di "durata apprezzabile". Mentre in talune decisioni viene ritenuto necessario e sufficiente un periodo di un certo rilievo o un apprezzabile lasso di tempo, in altre si osserva come sia sufficiente una privazione per un lasso di tempo anche breve o brevissimo.

Anche il grado della privazione della libertà assume rilievo nell'applicazione della norme. Si ritiene sufficiente una privazione relativa, non essendo necessario che la vittima sia posta in una condizione tale da rendere impossibile l'autoliberazione.

Si tratta evidentemente di reato permanente: il perfezionamento del reato si nel momento e luogo in cui si verifica quella apprezzabile compressione della libertà personale; la consumazione (e quindi la cessazione della permanenza) nel momento in cui viene meno la privazione della libertà.

Particolari figure criminose poste a tutela della libertà personale sono:

• arresto illegale;

• indebita limitazione della libertà personale;

• abuso di autorità contro arrestati o detenuti;

• ispezione personale arbitraria.

Si tratta di reati PROPRI, in quanto soggetto attivo è il pubblico ufficiale. I comportamenti devono poi essere posti in essere in violazione dei doveri o con abuso dei poteri connessi alle funzioni pubbliche. Si tratta quindi di reati plurioffensivi, in quanto viene leso, oltre al bene della libertà personale, anche l'interesse pubblicistico alla legalità del comportamento di soggetti muniti di particolari poteri.

3. LA TUTELA PENALE DELLA LIBERTA' MORALE: I DELITTI DI VIOLENZA PRIVATA E MINACCIA

Le norme incriminatrici in materia sono volte a punire ogni possibile condizionamento illecito della libertà psichica della persona.

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La figura criminosa di ordine generale è rappresentata dalla VIOLENZA PRIVATA (art. 610), che prevede il fatto di "chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare, o omettere qualcosa".

Tale norma, per la sua formulazione, opererà come norma di chiusura, trovando applicazione ogni qualvolta il comportamento non integri gli estremi di altre fattispecie idonee a punire condotte specificamente descritte.

Si tratta di un reato comune a forma vincolata, consistente nel costringimento di altri a fare, tollerare od omettere qualcosa, mediante violenza personale reale fisica oppure psichica attuata con minaccia.

Soggetto passivo del reato può essere solo una persona determinata, eventualmente anche persona diversa dalla vittima del reato. Si può, infatti, coartare la volontà di una persona anche minacciando di un male un terzo legato da particolari vincoli col soggetto passivo.

Quanto all'evento del reato, esso ha un duplice contenuto, dovendosi realizzazione due distinti risultati dell'attività criminosa:

1. uno stato di coazione, assoluta o relativa della vittima del reato;

2. un "fare, tollerare, omettere" qualcosa.

La condotta imposta alla vittima può essere realizzata immediatamente dopo la coazione, o anche in un momento successivo, purchè esista sempre una relazione con la violenza o minaccia subite.

Trattasi di delitto a dolo generico, essendo del tutto irrilevante l'eventuale specifica finalità illecita avuta di mira dall'agente.

Una particolare e più grave ipotesi di violenza privata viene prevista dall'art. 611, che incrimina "chiunque usa violenza o minaccia per costringere o determinare altri a commettere un fatto costituente reato."

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Sotto il profilo oggettivo, la norma prevede un reato di mera condotta (e non già di evento), in quanto la commissione di un fatto costituente reato non deve rappresentare necessariamente il risultato dell'attività criminosa, ma costituisce semplicemente lo SCOPO. Si tratta quindi di un reato a dolo specifico, in quanto, l'agente deve avere il fine di costringere altri a commettere reato.

L'art. 611 comprende tutti quei fatti che la legge prevede come reato, anche se in concreto gli autori di essi non siano imputabili o punibili o si tratti di reato non perseguibile d'ufficio. Occorre, peraltro, far riferimento ad un determinato fatto di reato, altrimenti si rientra nell'art. 610.

Anche il reato di MINACCIA (art. 612) viene descritto in termini essenziali dal legislatore, che incrimina "chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno".

La norma ha evidente natura generica e sussidiaria, in quanto volta a punire ogni forma di coazione non indirizzata verso un determinato comportamento.

La condotta illecita si sostanzia nella prospettazione ad altri di un male ingiusto e, cioè di un danno inteso come lesione di un qualsiasi bene personale o patrimoniale. L'ingiusta prospettazione deve anche indicare che il male è dipendente dalla volontà dell'agente e che la minaccia è idonea a poter determinare il danno ingiusto.

Occorrerà, per valutare la sussistenza di tutti questi requisiti, tener conto di tutte le circostanze del caso concreto, nonché delle particolari condizioni psicologiche della vittima del reato e della conoscenza di esse da parte dell'agente.

Il dolo consiste nella cosciente volontà di minacciare ad altri un ingiusto danno ed è diretto a provocare l'intimidazione del soggetto passivo, senza che sia necessaria la volontà di realizzare il proposito di tradurre in atto il male minacciato.

Tra le circostanze AGGRAVANTI del reato è da sottolineare la gravità della minaccia, che si ha quando è di rilevante entità il male minacciato. Anche tale giudizio è relativo e dovrà tener conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive.

L'art. 613 (STATO DI INCAPACITA' PROCURATO MEDIANTE VIOLENZA) punisce "chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia, o mediante somministrazione di sostanze alcoliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato di incapacità di intendere e volere".

Si tratta di reato a forma vincolata, in relazione con l'evento consistente nel procurare uno stato di incapacità di intendere e volere di carattere transitorio non integrante una vera e propria malattia (altrimenti si rientra nella fattispecie di lesioni personali).

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4. I DELITTI CONTRO L'INVIOLABILITÀ DEL DOMICILIO

La norma dell'art. 614 attribuisce rilievo costituzionale al bene giuridico rappresentato dalla inviolabilità del domicilio, nel senso non solo di libertà domiciliare ma anche di riservatezza domiciliare. Questi costituiscono entrambi aspetti collegati alla libertà personale, potendosi attuare nel domicilio le più diverse estrinsecazioni della personalità.

L'art. 614 incrimina "chiunque si introduce nell'abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha diritto ad escluderlo, ovvero vi si introduce clandestinamente con l'inganno. - Alla stessa pena soggiace chi si trattiene nei detti luoghi contro l'espressa volontà di chi ha il diritto ad escluderlo, ovvero si trattiene clandestinamente o con l'inganno."

La nozione di domicilio è più ampia, comprendendo l'abitazione e ogni altro luogo di privata dimora.

Per abitazione si intende il luogo dove la persona conduce vita domestica. Per altro luogo di privata dimora deve intendersi qualsiasi ulteriore spazio delimitato in cui la persona svolge attività della propria vita privata (attività culturale, lavorativa, religiosa, di svago, ecc.) In ordine ai pubblici esercizi, la tutela domiciliare viene prospettata solo in orario di chiusura e solo per il titolare dell'esercizio.

La principale disputa interpretativa riguarda la violazione di domicilio nel caso di stabilimento industriale: la tesi affermativa fa leva sul fatto che l'imprenditore mantiene in ogni caso il diritto di escludere dai locali persone non accettate; la tesi contraria fa leva invece su una nozione restrittiva di abitazione - dimora privata.

Sono riconducibili alla tutela domiciliare le appartenenze dell'abitazione e di ogni altro luogo di privata dimora: si ha riguardo a tutti i luoghi accessori (giardini, cortili, magazzini, ecc.).

La CONDOTTA può estrinsecarsi in due forma tipiche di violazione domiciliare:

1. introduzione;

2. trattenersi.

Tale violazione deve avvenire contro la volontà del titolare del diritto di esclusione, operando in tal caso il consenso come circostanza idonea ad escludere la sussistenza del fatto.

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E' sufficiente il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di introdursi o trattenersi in un determinato luogo, sapendo che esso costituisce domicilio di altri e che le condotte sono poste in essere contro la volontà espressa o tacita, ovvero clandestinamente o con inganno.

5. LA TUTELA PENALE DELLA RISERVATEZZA DOMICILIARE

Il legislatore contempla all'art. 615 bis le interferenze illecite nella vita privata. Le condotte punite consistono nel:

1. indebito procacciamento di notizie ed immagini concernenti la vita privata svolgentisi in ambito domiciliare, mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva o sonora.

2. Divulgazione delle stesse notizie: ogni condotta di rivelazione o diffusione, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, di notizie o immagini ottenute indebitamente.

I delitti sono punibili a querela della persona offesa; tuttavia si procede d'ufficio e la pena è aumentata se il fatto è commesso da un p.u. o da un inc. di p.s., con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio, o da chi esercita abusivamente la professione di investigatore privato.

Una particolare disciplina, introdotta dalla L. 547/1993, connota la tutela della riservatezza informatica e telematica. Viene punito all'art. 615 ter (accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico) chi abusivamente si introduce in un sistema telematico o informatico protetto da misure di sicurezza ovvero ivi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo.

E' sufficiente il dolo generico.

Altra figura criminosa (art. 615 quater) concerne il comportamento di chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto o di arrecare ad altri un danno, abusivamente si procura, riproduce o diffonde, comunica o consegna, codici, parole chiave o altri mezzi idonei all'accesso ad un sistema informatico o telematico, protetto da misure di sicurezza o comunque fornisce indicazioni o istruzioni idonee al predetto scopo. Tale ultima formula di chiusura consente di ricomprendere qualsiasi comportamento illecito. L'elemento soggettivo è qui il dolo specifico.

L'art. 615 quinquies punisce infine la diffusione di programmi diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico. Tale norma viene ritenuta superflua da quanti osservano che i fatti incriminati possono essere compresi nell'art. 615 ter ("altri mezzi idonei all'accesso").

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6. I REATI IN TEMA DI VIOLENZA SESSUALE

La L. 66/1996 ha innovato profondamente la disciplina dei reati in tema di violenza sessuale. Due i punti più significativi:

1. l'individuazione dell'interesse protetto: i reati sono stati trasferiti dal Titolo IX (delitti contro la moralità pubblica e il buon costume) al Titolo XII (delitti contro la persona).

2. L'introduzione della nuova fattispecie di reato denominata "violenza sessuale". Si è voluto eliminare la distinzione prima esistente tra violenza carnale e atti di libidine violenti. Anche allo scopo di eliminare, in capo alla persona offesa, accertamenti spesso umilianti.

L'art. 609 bis prevede il delitto di VIOLENZA SESSUALE, che costituisce la struttura portante del nuovo assetto normativo in materia di reati sessuali. La norma contempla, al suo interno, due distinte fattispecie di violenza sessuale:

1. violenza sessuale per costrizione (1° comma): è punito con la reclusione da 5 a 10 anni chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali;

2. violenza sessuale per induzione (2° comma) a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità psichica o fisica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

L'elemento comune ad entrambi i casi è il fatto che alla vittima siano fatti compiere o subire atti sessuali. Parte della dottrina ritiene che atti sessuali siano la precedente nozione di atti di libidine. Tuttavia, la precedente nozione giurisprudenziale di atti di libidine evocava suggestioni soggettivistico - moralizzatrici. Appare invece preferibile una nozione oggettivistico - scientifica, per cui per l'identificazione dell'atto sessuale si deve fare riferimento alla oggettiva natura sessuale dell'atto in sé considerato. Nell'attuale contesto sociale occorre "il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una persona con una zona genitale, compresa la mammella della donna, anale od orale del partner.

Requisito essenziale della condotta di costrizione è che il fatto avvenga contro la volontà della vittima; se vi è consenso, manca un elemento tipico del reato. Non è sufficiente il semplice dissenso, in quanto la costrizione deve avvenire secondo specifiche modalità, che sono:

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1. violenza: utilizzazione di energia fisica idonea a vincere la resistenza del soggetto passivo;

2. minaccia: prospettazione di un male futuro idoneo a coartare la volontà della vittima;

3. abuso di autorità; preferibile l'opinione che ritiene compresa anche l'autorità privata. Occorre che vi sia abuso, quindi che il soggetto attivo strumentalizzi la propria autorità per costringere (non solo indurre) il soggetto passivo a compiere l'atto viziato.

Anche nel caso di violenza sessuale per induzione la condotta deve essere realizzate secondo specifiche modalità:

1. abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima al momento del fatto: occorrerà che l'handicap abbia determinato un effettivo e specifico stato di inferiorità della vittima e che sia stato l'abuso di tale stato a indurla al consenso fittizio.

2. Trarre in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Margine applicativo piuttosto ristretto.

In entrambe le ipotesi è sufficiente il dolo generico.

L'u.c. dell'art. 609 bis prevede una circostanza attenuante: nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non > 2/3.

Circostanze aggravanti sono invece previste dall'art. 609 ter, che determina la pena in modo autonomo rispetto al reato di base. La pena è della reclusione da 6 a 12 anni se i fatti di cui all'art. 609 bis sono commessi:

1. nei confronti di persona minore degli anni 14; in virtù dell'art. 609 sexies, tale aggravante opera obiettivamente: essa sarà applicabile anche se all'agente non può essere mosso nessun rimprovero, nemmeno per colpa, per aver ignorato l'età del minore;

2. con l'uso di armi o sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o stanze gravemente lesivi della salute della persona offesa;

3. mediante simulazione delle qualità di p.u. o inc. di p.s.;

4. su una persona sottoposta a limitazione della libertà personale;

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5. nei confronti del minore di 16 anni nel caso in cui il colpevole sia l'ascendente, il genitore anche adottivo o il tutore.

La pena è della reclusione da 7 a 14 anni se il fatto è commesso su una persona che non abbia compiuto i 10 anni.

In genere, l'atto sessuale consensuale non costituisce reato. L'art. 609 quater ("atti sessuali con minorenni") prevede un'eccezione alla regola, e la pena è la stessa dell'art. 609 bis, nei casi in cui l'atto sessuale venga compiuto con persona che, al momento del fatto:

1. non ha compiuto gli anni 14;

2. non ha compiuto gli anni 16, quando il colpevole sia l'ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore o altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, istruzione, vigilanza o custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest'ultimo, una relazione di convivenza.

Si applica la pena di cui all'art. 609 ter, se la persona offesa è minore degli anni 10.

Se tale aggravante non ricorre e se si tratta di casi di minore gravità, si applica l'attenuante ad effetto speciale analoga a quella dell'art. 609 bis.

Nel primo caso di tratta di reato COMUNE; nel secondo caso di reato PROPRIO.

La condotta tipica si connota in negativo, in quanto devono mancare gli estremi della violenza sessuale ("al di fuori dei casi previsti nell'art. 609 bis"). Altrimenti si rientrerebbe nell'art. 609 bis e tali situazioni costituirebbero circostanze aggravanti ex art. 609 ter.

Il dolo consiste nella coscienza e volontà di compiere atti sessuali. Anche l'età della persona offesa deve abbracciare il dolo, in quanto elemento costitutivo del fatto tipico, ma solo nel n. 2 dato che, riguardo agli atti sessuali compiuti con un minore di 14 anni opera l'art. 609 sexies per cui "il colpevole non può invocare a propria scusa l'ignoranza dell'età della persona offesa".

Il 2° c. dell'art. 609 quater prevede una causa di non punibilità qualora l'atto sessuale sia commesso da un minorenne con un altro minorenne che abbia compiuto i 13 anni, purché la differenza di età non sia > 3 anni.

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Si discute in dottrina circa la sua qualificazione giuridica. E' preferibile ritenere che si tratti di causa di esclusione della colpevolezza (o scusante).

In base all'art. 609 quinquies è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di 14 anni, al fine di farla assistere. Il delitto è denominato corruzione di minore.

L'elemento oggettivo consiste nel compimento dell'atto sessuale in presenza del minore; è necessario che questi non abbia in alcun modo partecipato all'atto, altrimenti si configurerebbe il reato di violenza sessuale aggravata (artt. 609 bis e ter), oppure, se consenziente, quello di atti sessuali con minorenne (609 quater).

Quanto all'elemento soggettivo, è richiesto il dolo specifico, in quanto è necessario, oltre alla volontà di compiere l'atto sessuale in presenza del minore, anche il fine di farvi assistere lo stesso.

Anche in questo caso, l'ignoranza dell'età non scusa.

L'art. 609 octies prevede l'autonoma fattispecie di violenza sessuale di gruppo, la quale consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite ad atti di violenza sessuale di cui all'art. 609 bis.

Si tratta di fattispecie a concorso necessario: è necessario che partecipino all'atto di violenza sessuale almeno due persone. IL regime sanzionatorio è elevato: la pena base è da 6 a 12 anni.

Per quanto riguarda la condotta punibile, la norma opera un rinvio agli "atti di violenza sessuale di cui all'art 609 bis" quindi essa consiste nel compimento di atti sessuali con violenza, minaccia, abuso di autorità o delle condizioni di inferiorità della vittima, inganno.

Il reato non si realizza, dunque, quando si compiano atti sessuali con un minorenne consenziente (609 quater): in questo caso sarà applicabile la normativa sul concorso di persone.

Requisito ulteriore è che partecipino più persone riunite: tale elemento permette di distinguere la violenza di gruppo dal semplice concorso di persone: deve sussistere fra i partecipanti la simultanea presenza e interazione delle condotte. Risponderà così a titolo di concorso il soggetto (istigatore assente) che presti l'appartamento all'amico sapendo che questi commetterà uno stupro.

L'elemento soggettivo è il dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di compiere violenza di gruppo.

La stessa norma prevede circostanze aggravanti e attenuanti.

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La pena è aumentata se ricorre una delle circostanza aggravanti previste dall'art. 609 ter.

La pena è diminuita nei confronti:

• del partecipante la cui opera abbia avuto minima importanza;

• del partecipante che sia stato determinato a commettere il reato da chi esercitava nei suoi confronti poteri di autorità, direzione o vigilanza.

• Del partecipante minore di 18 anni o in stato di infermità o deficienza psichica, che risulti essere stato determinato al reato.

Anche in questo caso, qualora la vittima abbia un'età inferiore a 14 anni, l'aumento di pena opera in modo obiettivo.

III. LIBERTA' INDIVIDUALE E TUTELA PENALE DELLA CORRISPONDENZA, DELLE COMUNICAZIONI, DEI SEGRETI E DEI DATI PERSONALI RISERVATI

1. PROFILI GENERALI, RILEVANZA COSTITUZIONALE DEL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA E DEL DIRITTO AL SEGRETO.

Riservatezza e segretezza costituiscono la prima il genus e la seconda la species, in quanto hanno in comune la esclusività di conoscenza, ma si differenziano per l’oggetto e i soggetti.

Il diritto alla riservatezza garantisce l’esclusività della conoscenza dei dati che riguardano la vita del singolo. Sul piano dell’oggetto, esso si connota dalla possibilità di riferirsi ad ogni aspetto della vita privata del singolo suscettibile di essere isolato; sul piano dei soggetti, solo il titolare può accedere a tali dati, ed eventualmente rivelarli o utilizzarli.

Il diritto alla segretezza garantisce l’esclusività di alcuni dati della sfera privata specificamente individuati. Esso si differenzia, quanto all’oggetto, per il fatto che taluni particolari aspetti della vita privata devono essere necessariamente rivelati ad altri soggetti; quanto ai soggetti, il depositario del segreto è necessariamente obbligato a prenderne conoscenza, con contestuale obbligo di non divulgare le notizie così acquisite.

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Il diritto alla riservatezza ha rilevanza costituzionale; esso costituisce un vero e proprio diritto generale ed unitario e non soltanto un singolo diritto settoriale, limitato ai profili dell’immagine, della corrispondenza e delle comunicazioni. Il rilievo si desuma in via diretta dall’art. 15 (libertà e segretezza della corrispondenza) nonché in via indiretta dagli artt. 13 e 14 (libertà individuale e del domicilio). Decisivo anche il riferimento all’art. 2, che porta a ritenere costituzionalizzato in via originaria – in quanto inviolabile – il diritto alla riservatezza; ovvero costituzionalizzato successivamente, se si considera l’art. 2 come ”clausola aperta”.

Il diritto al segreto assume rilevanza costituzionale sia sotto un profilo generale quale diritto all’intimità personale, tutela della dignità dell’individuo, diritto di difesa, sia alla stregua di specifici principi: quello medico discende dal diritto alla salute; quello forense al diritto di difesa; quello confessionale alla libertà di religione, ecc.

2. I DELITTI CONTRO LA RISERVATEZZA E LA LIBERTA’ DELLE COMUNICAZIONI E DELLA CORRISPONDENZA

Per comunicazione si intende la trasmissione di ogni pensiero umano tra due o più persone determinate, epistolare, telegrafica o telefonica, informatica o telematica o effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza (art. 616). Esso comprende, quindi, anche la corrispondenza.

L’art. 616 “violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza” punisce con la reclusione fino a 1 anno o con la multa da 60.000 a 1 milione “chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prenderne o farne da altri prendere cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta, ovvero, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime, se il fatto non è preveduto da altra disposizione di legge. – Se il colpevole rivela senza giusta causa, in tutto o in parte il contenuto della corrispondenza, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a 3 anni. – Il delitto è punibile a querela della persona offesa.”

Sono previste ben 6 condotte:

La cognizione può riguardare solo la corrispondenza chiusa. Il reato si consuma con la semplice apertura del plico, non essendo necessaria la conoscenza del tenore del messaggio.

La sottrazione è l’allontanamento della corrispondenza dal luogo in cui si trova. Essa può avere ad oggetto anche una fotocopia, se il risultato è ugualmente lesivo o mette in pericolo il bene protetto attraverso la cognizione del contenuto riservato.

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La distrazione si ha quando si trattiene temporaneamente la corrispondenza per esaminarla, cagionando ritardo nel recapito; se il detenerla per un tempo apprezzabile frusta il conseguimento dello scopo per cui era stata spedita, l’atto equivale alla distruzione.

Sottrazione e distrazione sono due condotte a dolo specifico, costituito dal fine di prendere conoscenza del contenuto.

Distruzione è la trasformazione materiale dell’oggetto del reato in modo che esso non esista più fisicamente.

Soppressione è la mancata disponibilità per l’avente diritto, indipendentemente dalla presa di cognizione del contenuto.

L’art. 617 punisce chiunque prenda fraudolentemente cognizione, o interrompe o impedisce comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche. Viene punita anche la rivelazione mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico sul contenuto delle comunicazioni. Il delitto è punibile a querela, tuttavia si procede d’ufficio se soggetto attivo o passivo è un p.u. o inc. di p.s.

L’art. 617 bis punisce l’installazione di apparecchiature atte ad intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni telefoniche o telegrafiche.

Con la L. 547/1993 sono state introdotte nuove figure criminose, volte a punire:

• l’intercettazione, impedimento o interruzione di comunicazioni informatiche o telematiche;

• la rivelazione del loro contenuto;

• l’installazione di apparecchiature destinate ad intercettare, impedire o interrompere tali comunicazioni;

• la falsificazione, alterazione o soppressione del loro contenuto.

L’art. 623 bis estende tali previsioni a qualsiasi trasmissione a distanza di suoni, immagini o altri dati.

3. IL SEGRETO PROFESSIONALE

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Il rapporto professionale è preso in considerazione e tutelato dal legislatore in quanto necessitato o quasi necessitato, avendo cioè riguardo a quelle situazioni in cui l’individuo, a salvaguardia di interessi primari, è costretto a rivolgersi ad altri per mancanza o insufficienza di cognizioni tecniche, per impossibilità materiale o divieto giuridico di provvedere da sé.

In tale prospettiva, la fiducia e la riservatezza del professionista costituiscono aspetti essenziali dell’esplicazione della libertà individuale: resterebbero altrimenti compromessi diritti fondamentali come quello all’onore, alla salute, alla difesa processuale.

L’art. 622 dispone che “chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a 1 anno o con la multa da 60.000 a 1 milione. – Il delitto è punibile a querela della persona offesa.”

1. I soggetti attivi del reato

Si tratta evidentemente di un reato PROPRIO, in quanto depositario del segreto professionale può essere colui che sia venuto a conoscenza di certi fatti o circostanze per ragione del proprio stato, ufficio, professione od arte.

Nella nozione di professione o arte, che viene intesa in senso ampio, vengono ricomprese tutte le attività esercitate in modo stabile e continuativo, seppur non in via esclusiva o principale, e che consistono nella erogazione di servizi o prestazioni personali in favore di chi ne abbia necessità o ne faccia richiesta. Il fatto concernente la vita intima di chi riceve la prestazione deve inerire a quella attività professionale.

Le situazioni personali cui si riferisce l’art. 622 sono ravvisabili nelle condizioni o situazioni sociali che, pur non professionali in senso stretto, implicano comunque un servizio continuativo di attività a favore dei richiedenti (es. ministri del culto), oppure evidenziano una particolare condizione giuridica derivata al soggetto da rapporti di convivenza, coniugio, parentela, dipendenza o successione con il professionista. (dipendenti o collaboratori del professionista, conviventi, eredi rispetto a tutto quello che abbiano appreso in ragione della loro contiguità col professionista).

L’ufficio indica l’esercizio di speciali funzioni o incombenze, non manuali e non professionali in senso stretto, quali l’ufficio di tutore o curatore, di consulente tecnico di parte.

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2. L’elemento oggettivo del reato

Segreto è un fatto, un rapporto, un aspetto attinente alla sfera intima privata della persona (fisica o giuridica). La notizia può non preesistere, ma sorgere in costanza del rapporto professionale, e non occorre che la persona a danno della quale avviene la violazione del segreto fosse a conoscenza dello stesso.

La nozione di segreto ha quindi carattere oggettivo, dipendendo unicamente dalla attinenza alla sfera intima del soggetto, indipendentemente dall’esplicita volontà di tenere occultata la circostanza. E’ quindi penalmente rilevante solo il segreto che sia originato da un interesse legittimo e significativo del singolo, no da pretese futili o vanità.

Nel caso contrario, invece, in cui vi sia una esplicita manifestazione di consenso da parte dell’interessato alla divulgazione della notizia, non si potrà configurare il reato di cui all’art. 622, per il ricorrere di una giusta causa di rivelazione.

In ragione della formulazione della norma si deve dare rilievo a tute e solo quelle ipotesi in cui si prenda conoscenza della notizia o fatto riservato in connessine causale con lo svolgimento dell’attività cui attiene il rapporto professionale, non essendo sufficiente la mera connessione occasionale tra l’attività o lo status e l’apprendimento.

Mentre non ha alcun rilievo la liceità o illiceità del comportamento, deve invece essere lecito lo scopo della confidenza (es. garantirsi una migliore difesa processuale, ma non procurarsi la latitanza). IN caso contrario, il segreto esula dall’art. 622 e il professionista non è vincolato a mantenerlo.

Considerando la condotta in senso stretto, la norma incrimina alternativamente la rivelazione senza giusta causa del segreto o l’impiego a proprio o altrui profitto dello stesso.

Non è necessario che essi avvengano in costanza del rapporto professionale; secondo autorevole dottrina, nemmeno la morte dell’interessato è sufficiente a svincolare il professionista, in quanto può accadere che gli eredi siano lesi direttamente dalla rivelazione e possano quindi avvalersi della possibilità di proporre querela iure proprio.

Il professionista risponderà della rivelazione anche qualora si sia limitato a non impedire, pur avendone l’obbligo giuridico, che altri prenda conoscenza del fatto, in forza dell’art. 40 cpv.

3. Il nocumento e la giusta causa di rivelazione; l’elemento soggettivo

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Per l’integrazione del delitto occorre che dalla condotta illecita possa derivare un danno, patrimoniale o non, per l’interessato, anche se non è necessario accertare la verificazione di un danno effettivo.

La possibilità di nocumento viene qualificata da alcuni come elemento costitutivo del reato, da latri come condizione obiettiva di punibilità.

Accedendo alla prima tesi, il reato è perfetto solo quando si produce il pericolo di nocumento, e lo stesso deve costituire oggetto del dolo; se si accoglie la seconda tesi, invece, il delitto si consuma con la semplice rivelazione – mentre il nocumento rileva solo per la punibilità – e il dolo sussiste anche se l’agente non ha voluto il danno.

Per rilevare ai fini dell’integrazione del reato il danno deve essere ingiusto, ossia contrario al diritto. Si è sostenuto che vi è una stretta correlazione tra la giusta causa e la possibilità di nocumento: quando sussiste giusta causa il nocumento non è ingiusto; ogni volta che il nocumento è ingiusto, non vi è giusta causa.

La condotta di rivelazione è punibile solo quando non sussista una giusta causa, quando cioè la divulgazione non sia obbligata o autorizzata da una norma giuridica o da una particolare situazione di fatto. E’ preferibile ritenere che la formulazione non sia puramente riassuntiva delle scriminanti tipiche, potendo invece rilevare oltre le ipotesi e i limiti in esse codificati.

E’ sufficiente il dolo generico, costituito dalla volontà e coscienza di rivelare o impiegare a proprio o altrui profitto il segreto e dalla consapevolezza della mancanza di una giusta causa. Secondo una delle tesi ricordate, è oggetto del dolo anche il pericolo di danno.

4. Il segreto bancario e il segreto giornalistico

Il segreto bancario indica il dovere di riservatezza che vincola gli operatori bancari a non rivelare ai terzi notizie, informazioni e dati direttamente o indirettamente relativi, sia ad una qualsiasi operazione bancaria, sia a clienti nominativamente individuati.

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Si tratta comunque di un tessuto normativo spesso eroso, all’evidente scopo di eliminare eventuali ostacoli all’attività di indagine legata alla criminalità organizzata o per arginare l’evasione fiscale.

Una prima questione riguarda l’individuazione della fonte normativa dell’obbligo di riservatezza. La dottrina prevalente equipara la posizione del banchiere a quella del libero professionista, ritenendo applicabile l’art. 622.

Sia in giurisprudenza sia in dottrina un orientamento minoritario esclude l’applicabilità dell’art. 622 alla violazione del segreto bancario, in quanto può essere definito come “professionale” solo quel segreto inerente ad attività di tipo individuale libero-professionale.

Nessun problema si pone invece con riferimento all’applicabilità dell’art. 622 all’attività giornalistica.

Si ritiene che il segreto del giornalista riguardi sia la fonte delle notizie che sia fiduciaria, sia quelle notizie che siano state confidenzialmente rivelate dalla fonte non al fine di farne oggetto di pubblicazione, ma per convincere il giornalista della propria attendibilità o per consentirgli una migliore comprensione della vicenda.

La nuova disciplina penal-processualistica ha confermato l’opinione maggioritaria comprendendo i giornalisti tra coloro che possono opporre al giudice penale il segreto in sede di esame testimoniale.

Peraltro, a differenza degli altri soggetti, per i quali il giudice può ordinare la deposizione solo quando abbia verificato l’obiettiva infondatezza della dichiarazione di astensione, con i giornalisti è sufficiente che ritenga l’indispensabilità della notizia ai fini della decisione, pur in presenza di un accertato vincolo di segretezza.

4. LA VIOLAZIONE DEL SEGRETO INDUSTRIALE

L’art. 623 dispone che “chiunque, venuto a cognizione per ragione del suo stato o ufficio, o della sua professione o arte, di notizie destinate a rimanere segrete, sopra certe scoperte o invenzioni scientifiche, o applicazioni industriali, le rivela o le impiega a proprio o altrui profitto, è punito con la reclusione fino a 2 anni. – Il delitto è punibile a querela della persona offesa.”

Sembra corretta le tesi che sostiene che la rilevanza del segreto industriale si valuta in base ad una sintesi tra criterio oggettivo e soggettivo: l’interesse alla segretezza deve essere basato su plausibili ad apprezzabili ragioni e non può coincidere con il mero arbitrio dell’interessato. Alla manifestazione della volontà viene attribuito un indubbio rilievo, ma solo ove riferita a situazioni meritevoli di apprezzamento da parte dell’ordinamento giuridico.

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La norma si riferisce alle notizie segrete concernenti:

1. una scoperta, che consiste nel riconoscere o rivelare un fenomeno di per sé già esistente, senza modificare niente della realtà fenomenica e senza enucleare direttamente una regola tecnica;

2. una invenzione, quando si perviene alla dominabilità dei fenomeni naturali: attraverso l’acquisita cognizione dei rapporti di causalità che governano i fenomeni fisici, si riesce ad attivarne le cause così da ottenere sempre gli effetti desiderati.

3. una applicazione industriale, ossia la diretta e immediata applicazione ai metodi o processi di lavorazione, alle macchine, di un accorgimento o metodologia che porti ad un aumento o miglioramento della produzione.

La dottrina tradizionale afferma che per la scoperta e l’invenzione sono necessari i requisiti della novità e originalità, da intendersi come non notorietà delle notizie.

Si è sottolineato che il limite della notorietà va definito caso per caso, avendo presenti le peculiarità del settore e le conoscenze stesse.

1. I soggetti attivi del reato

Vi è perfetto parallelismo con l’art. 622 quanto ai soggetti attivi: “tutti coloro che abbiano conosciuto il segreto in ragione del proprio stato, ufficio, professione o arte”. Il legislatore ha inteso fare riferimento in entrambe le norme ad ogni attività di lavoro o prestazione sei servizi caratterizzata da professionalità (non occasionalità) del rapporto.

Si è affermato che l’art. 623 non circoscrive il vincolo del segreto al periodo di sussistenza del rapporto, in quanto il solo fatto della sua estinzione non fa venire meno i rapporti di confidenza che hanno permesso al dipendente di conoscere il segreto.

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Un’altra dottrina (Mazzacuva) sostiene al contrario che i possibili soggetti sarebbero solo i lavoratori dipendenti, unici soggetti su cui grava l’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. Si è però osservato come le due norme (art. 623 e art. 2105 c.c.) siano profondamente diverse tra loro.

La tesi restrittiva è stata poi riproposta con riferimento all’art. 4 della L 628/1961, che dichiara applicabili le sanzioni dell’art. 623 anche agli ispettori del lavoro che violino il segreto circa il processo di lavorazione e ogni altro particolare, che abbiano appreso nell’esercizio dei loro poteri ispettivi. Se ne è dedotta la necessità di espressa previsione per l’applicabilità della fattispecie a soggetti diversi dai lavoratori.

Si è peraltro obiettato che tale art. 4 impone l’obbligo di segretezza “su ogni aspetto della lavorazione”, dunque su un oggetto ben più ampio di quello di cui all’art. 623.

Accogliendo la tesi estensiva, risulta problematico il caso in cui a violare il segreto sia l’amministratore, sindaco o liquidatore della società: viene in gioco il rapporto tra l’art. 623 e l’art. 2622 c.c. (divulgazione di notizie sociali riservate).

Vi è tra le due norme un rapporto di specialità reciproca: l’art. 2622 è speciale con riguardo ai soggetti; l’art. 623 con riguardo all’oggetto materiale del reato (scoperte, invenzioni scientifiche o applicazioni industriali).

La dottrina è unanime nel riconoscere il concorso apparente, ma discorde circa l’individuazione della norma prevalente. Coglie nel segno la più recente dottrina che sostiene l’applicabilità della norma civilistica in ogni ipotesi di violazione da parte dei particolari soggetti attivi: innanzitutto perché se la norma civilistica non fosse considerata lex specialis non sarebbe mai applicabile, poiché le condotte ivi previste rientrerebbero sempre nell’art. 622 o 623; inoltre perché occorre valorizzare il possibile pregiudizio alla società menzionato nell’art. 2622. La dottrina tradizionale considerava invece lex specialis l’art. 623.

2. La condotta penalmente rilevante

Non assume rilievo se la notizia sia stata appresa in modo legittimo o meno, o addirittura per caso fortuito, essendo sufficiente che il fatto sia avvenuto nella sede dell’impresa. Al di fuori di essa, la divulgazione appare penalmente irrilevante, venendo a mancare la tipica posizione di favore del dipendente.

Stando alla giurisprudenza, rientra nell’area di illecito anche l’ipotesi di apprendimento abusivo di notizie, diverse e ulteriori da quelle che l’agente può apprendere in ragione dell’attività di lavoro prestata.

La condotta di rivelazione è integrata in ogni ipotesi in cui l’informazione sia trasmessa al di fuori della cerchia di soggetti autorizzati a conoscerla; la condotta di impiego a proprio o altrui profitto non implica di per sé necessariamente la divulgazione, ma solo la violazione dell’esclusiva disponibilità delle notizie. Si è di recente sostenuto che il profitto è da intendere come un vantaggio di natura necessariamente economica, e non puramente personale e morale.

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2. Dolo, nocumento e giusta causa di rivelazione

L’orientamento unanime è nel senso di ritenere sufficiente il dolo generico, essendo del tutto irrilevante l’eventuale rivelazione colposa scaturente, ad es., da negligenza, imprudenza, imperizia.

Non sono menzionati, a differenza dell’art. 622, i requisiti di “nocumento” e “giusta causa di rivelazione”: il primo sarebbe insito nel concetto stesso di rivelazione o impiego; la giusta causa non sarebbe menzionata perché coinciderebbe con le scriminanti espressamente codificate negli artt. 50 ss.

4. IL TRATTAMENTO DI DATI PERSONALI: PROFILI PENALISTICI

La L. 675/1996 (legge sulla privacy informatica) giunge con ritardo rispetto ad altri ordinamenti; essa appresta una tutela ai diritti di riservatezza e all’identità personale dell’individuo, in passato oggetto soltanto di interventi episodici e parziali.

Il Capo VIII di tale legge prevede sanzioni sia penali sia amministrative, anche se nè la Convenzione di Strasburgo (1981) prima, nè la direttiva Ce del 1995 poi imponevano l’adozione di sanzioni penali.

Una singolarità della legge è costituita dai destinatari della norma penale. Questi sono, oltre alla persone fisiche, anche le persone giuridiche, la P.a., associazioni e fondazioni che svolgono i ruoli di titolare e responsabile delle operazioni di trattamento. Infatti, le persone giuridiche non possono qualificarsi come soggetti attivi per quanto concerne la responsabilità penale.

Occorrerà allora, in ogni caso, individuare in sede penale la/le persone fisiche cui sia realmente addebitabile il reato, eventualmente col sistema della delega di funzioni (che comporta l’accertamento della necessità della delega, la competenza e poteri del soggetto delegato, ecc.) Si tratterà allora di coloro che ricoprono la veste di:

• TITOLARI: chi determina le finalità e modalità del trattamento dei dati personali;

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• RESPONSABILI: chi è preposto al trattamento, dal titolare allo scopo di garantire un’esecuzione dello stesso trattamento conforme alle nuove disposizioni.

Si è previsto che i delitti introdotti siano perseguibili d’ufficio, tenendo conto della rilevanza della disciplina. Si tratta di delitti dolosi, fatta eccezione per la omessa adozione di misure di sicurezza, punibile anche a titolo di colpa.

L’art. 34 prevede il reato di OMESSA O INFEDELE NOTIFICAZIONE al Garante. Il sistema della notificazione serve a tutela della trasparenza, a rendere efficaci i poteri di controllo del Garante per mezzo di una completa conoscenza del fenomeno delle banche dati.

Il Garante è un’Autorità indipendente, alla quale i privati possono rivolgersi per far valere i propri diritti, in alternativa a quella giudiziaria.

Per trattamento si intende qualsiasi operazione concernente la raccolta, registrazione, organizzazione, conservazione, modificazione, selezione, utilizzo, comunicazione, diffusione, cancellazione e distruzione di dati.

L’illecito in esame è un reato omissivo proprio, esaurendosi nella mancata notificazione. Questa deve contenere, tra l’altro, i dati identificativi del titolare, le finalità e modalità del trattamento, la natura dei dati, il luogo dove sono custoditi e le categorie di soggetti cui i dati si riferiscono. (art. 7, 4° c)

L’art. 28 disciplina il TRASFERIMENTO DI DATI ALL’ESTERO: costituisce reato l’omissione della notificazione prima di trasferire i dati al di fuori della UE oppure, se si tratta di dati sensibili, o riguardanti specifici provvedimenti giudiziari, in qualunque Paese.

Per dati sensibili si intendono i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale e etnica della persona, le sue convinzioni religiose, filosofiche, politiche, i dati idonei a rivelare lo stato di salute, la vita sessuale, o le iscrizioni al casellario giudiziale.

L’illecito si configura anche quando si omette di notificare prima che muti anche uno solo degli elementi elencati nell’art. 7, 4° c..

E’ sanzionata anche l’incompletezza della notificazione (si deve tener conto del contenuto minimo previsto dall’art. 7, 4 ° c.) così come la sua non rispondenza al vero.

E’ necessaria anche la notificazione della cessazione del trattamento, anch’essa necessariamente precedente alla cessazione stessa e il diverso utilizzo dei dati.

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L’art. 35 prevede il TRATTAMENTO ILLECITO DI DATI PERSONALI, che trova un’applicazione residuale (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”). Il reato consiste nel mancato rispetto di alcuni specifici presupposti del trattamento ben individuati dal legislatore allo scopo di evitare un’indistinta incriminazione di qualsiasi violazione della legge.

Il reato è a dolo specifico, essendo richiesto il fine di “trarne per sé o altri profitto o di recare ad altri un danno”. Si tratta di reato di pericolo, non essendo necessario che tali finalità si realizzino effettivamente.

Quanto alle condotte rilevanti, la norma rinvia ad altre disposizioni: quanto al 1° comma, il rinvio è agli artt. 11, 20, 27: si incrimina il trattamento realizzato in mancanza del consenso espresso dell’interessato.

Per i soggetti pubblici viene penalmente sanzionato il trattamento;

• effettuato per finalità diverse da quelle connesse allo svolgimento di funzioni istituzionali;

• effettuato in violazione di specifici limiti stabiliti da leggi o regolamenti;

• consistente in una comunicazione o diffusione fuori dei casi di necessità per lo svolgimento di funzioni istituzionali o dei casi previsti da leggi o reg.;

• non preceduto dalla comunicazione al Garante, ove prescritta.

Il 2° comma punisce le condotte di comunicazione e diffusione di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 21 22 23 24. E’ ancora necessario il consenso scritto dell’interessato e l’autorizzazione del Garante. Sono punite la comunicazione e diffusione dei dati relativi alle iscrizioni nel casellario giudiziale, in mancanza di espressa disposizione di legge o dell’autorizzazione del Garante.

La norma conclude col rinvio all’art. 28, 3° c., che punisce il trasferimento all’estero di dati personali, quando lo Stato estero non assicuri il livello di protezione adeguato o, se si tratta di dati sensibili, di grado pari a quello offerto dall’ordinamento italiano.

Il reato di OMESSA ADOZIONE DI MISURE NECESSARIE ALLA SICUREZZA DEI DATI (art. 36) punisce la sola inosservanza degli specifici precetti elencati dai decreti che individuano misure minime di sicurezza e i loro aggiornamenti.

Il rinvio a fonti inferiori potrebbe essere incompatibile col principio di riserva assoluta di legge in materia penale. Tuttavia, si deve ritenere che l’intervento regolamentare svolga una funzione di specificazione tecnica degli obblighi concernenti la sicurezza dei dati.

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L’omessa adozione di misure di sicurezza è punita anche in forma colposa, sanzionata con la stessa pena della forma dolosa.

In reato di INOSSERVANZA DEI PROVVEDIMENTI DEL GARANTE (art. 37) sanziona l’inosservanza, non di qualsiasi provvedimento, ma del provvedimento che abbia prescritto l’adozione di misure a garanzia dell’interessato o che abbia disposto la cessazione del comportamento illegittimo o il blocco provvisorio dei dati o la sospensione delle operazioni di trattamento.

5. LA NORMATIVA INTEGRATIVA DELLA l. 675/1996

Vi sono stati sviluppi normativi successivi e collegati all’entrata in vigore della legge 676. Essa appare così come una legge quadro, che individua solo le linee generali del trattamento dei dati personali, per cui si sono rese necessarie delle integrazioni.

Accanto alle norme secondarie di rinvio, quali i decreti legislativi, è possibile annoverare tra le fonti le autorizzazioni del Garante. Molteplici sono i punti di frizione col principio di legalità.

Si possono individuare 3 differenti schemi di integrazione del precetto penale:

1. Rapporto con l’autorità indipendente. Le autorizzazioni generali

Il Garante è un’autorità indipendente, cui l’art. 31 attribuisce una pluralità di funzioni. Nello svolgimento delle sue attività il garante ha emanato delle autorizzazioni generali, alcune con efficacia temporale limitata. Esse hanno un contenuto dettagliato, e, nel definire un regime procedimentale meno rigido, integrano il precetto penale contenuto nell’art. 35, 2° c. (comunicazione o diffusione dei dati personali in violazione degli artt. 21, 22, 23, 24, 28 3° c. Tali autorizzazioni esimono il titolare del trattamento dal dovere di richiedere l’autorizzazione per il trattamento dei dati sensibili, in quanto le autorizzazioni generali hanno reso consentita tale attività, se realizzata secondo le modalità da esse previste.

2. Integrazione tramite i codici di deontologia

Nell’ambito dell’attività giornalistica, di ricerca e investigativa la definizione delle condizioni di liceità e competenza è di competenza dei codici di autodisciplina. Nella loro predisposizione concorre il Garante ex art. 31, svolgendo una funzione propulsiva ma anche surrogatoria, in caso di inadempienza delle associazioni di categoria.

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Nell’attività giornalistica e di ricerca, la conformità ai codici di deontologia e buona condotta consente una notificazione in forma semplificata, mentre se l’attività di trattamento rientra nel programma statistico nazionale, il trattamento non è soggetto a notificazione, purchè conforme alla legge, ai regolamenti, ai codici di deontologia e buona condotta.

Non è inoltre richiesto il consenso, sempre che i trattamenti siano conformi ai codici suddetti.

Quanto al trattamento dei dati sensibili, è consentito prescindere dal consenso e dall’autorizzazione del garante, qualora il trattamento risulti conforme ai codici.

Si è in attesa dell’emanazione dell’autodisciplina per il settore della ricerca e dell’investigazione privata.

3. Emanazione dei decreti delegati

La L. 675/96 prevedeva un’integrazione mediante dei decreti delegati per alcuni settori di attività.

Uno dei più importanti è quello del trattamento da parte dei soggetti pubblici.

La necessità di raggiungere uno dei fini istituzionali indicati dal d.lgs. 135/99 esonera la P.a. dal richiedere l’autorizzazione al garante. Il trattamento dei dati sensibili è sempre consentito qualora siano rispettati i limiti e gli scopi istituzionali della P.a.

Anche l’attività di ricerca e il settore sanitario sono oggetto di interventi settoriali. E’ prevista una semplificazione delle procedure per la richiesta al trattamento e comunicazione dei dati personali, e l’esonero dell’autorizzazione del garante.

Tale scelta di rinvio da parte del legislatore compromette non solo le esigenze di garanzia sottese al principio di legalità, ma anche comporta un’eccessiva formalizzazione dell’illecito penale, cui si ricollega una sanzione (detentiva) per aver violato discipline di settore, senza che sia possibile una effettiva lesione del bene giuridico riservatezza, principio guida delle scelte sanzionatorie.

6. LE NUOVE NORME CONTRO LO SFRUTTAMENTO SESSUALE DEI MINORI

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La L. 269/1998, “legge sulla pedofilia” ha introdotto nuove fattispecie nell’ambito dei delitti contro la personalità individuale, reprimendo quelle condotte che darebbero luogo a “nuove forme di schiavitù”.

Il bene protetto è l’integrità e libertà fisica e psicologica del minore.

L’art. 600 bis, intitolato “PROSTITUZIONE MINORILE” prende in esame due distinte fattispecie: la prima mira ad incriminare l’induzione, favoreggiamento, e sfruttamento della prostituzione dei minori degli anni 18; la seconda punisce il fruitore di prestazioni sessuali offerte a pagamento da minori.

L’induzione comprende ogni forma di influenza psicologica diretta a convincere o determinare un minorenne alla pratica della prostituzione.

Favoreggiamento è ogni interposizione personale o ogni attività diretta a procurare in qualsiasi modo condizioni favorevoli all’esercizio della prostituzione.

Lo sfruttamento è il trarre una qualsiasi utilità, non necessariamente economica, dall’attività sessuale di chi si prostituisce.

Queste tre condotte danno vita ad un reato eventualmente abituale: una sola condotta è idonea a integrare la fattispecie, mentre le condotte ulteriori incidono solo sulla gravità del reato, ma non sulla sua unitarietà.

Il 2° comma prevede una distinta ipotesi criminosa allorché il soggetto attivo (fruitore) compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i 14 e 16 anni, in cambio di denaro o altra utilità economica. LA fattispecie ha natura sussidiaria, risultano inapplicabile in presenza di fatti più gravi, quali, ad e., il delitto di atti sessuali con minori di cui all’art. 609 quater.

La pena è della reclusione da 6 mesi a 3 anni o della multa non < 10 milioni.

Sono punite, ai seguenti articoli le condotte di chi:

• sfrutti minori di anni 18 al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico;

• al fuori di una partecipazione diretta all’attività di produzione, commercia detto materiale;

• distribuisce, pubblicizza o divulga il materiale pornografico o notizie finalizzate allo sfruttamento o adescamento di minori. Si giunge in tal modo a reprimere anche attività preliminari all’effettiva lesione del bene protetto;

• consapevolmente cede, anche a titolo gratuito, tale materiale.

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Sussistono dubbi sulla legittimità dell’art. 600 quater il quale sanziona la mera detenzione di materiale pornografico, che sembrerebbe punire un mero “vizio” quale la pornografia. Tuttavia, è corretto ritenere che il legislatore non mira alla repressione della pornografia in quanto tale, ma poiché essa deriva dallo sfruttamento sessuale dei minori.

L’art. 600 quinquies punisce il c.d. turismo sessuale, sanzionando l’attività di chi organizza o propaganda viaggi finalizzati alla fruizione di attività di prostituzione a danno di minori o comunque comprendenti tali attività.

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Cap. 9 DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO

I. PROFILI GENERALI

1. IL CODICE PENALE DEL 1930 E LE SUCCESSIVE MODIFICHE

Nel codice Rocco i reati contro il patrimonio sono composti dalle fattispecie contenute nel titolo XIII del libro II (“Dei delitti contro il patrimonio”) e nel § 5 sez. III nel capo I tit. I libro III (“delle contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio”).

Per effetto di numerose modifiche legislative apportate negli ultimi anni, e di alcuni interventi della Corte cost., la fisionomia di tali reati è notevolmente cambiata. Si possono classificare le varie modifiche in diversi gruppi:

1. riforme introdotte dalla c.d. legislazione dell’emergenza e dalla legislazione in materia di criminalità organizzata.

Sono state aumentate le pene previste per la rapina e l’estorsione; è stata introdotta un’aggravante ad effetto speciale per questi due delitti nel caso in cui la violenza o minaccia sia posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di tipo mafioso.

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E’ prevista una nuova disciplina del delitto di usura; sono state create nuove figure come il riciclaggio, l’impiego di denaro, beni, utilità, di provenienza illecita.

E’ stato introdotto il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

2. Le riforme in materia di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630)

L’incriminazione in esame, anche se collocata tra i delitti contro il patrimonio si è trasformata in uno strumento di tutela della libertà personale e dell’integrità fisica dell’ostaggio: sono previsti aggravamenti di pena in caso di morte dell’ostaggio e diminuzioni nel caso in cui il concorrente si adoperi per la liberazione dello stesso. Nel testo originario, invece, l’entità della pena si rapportava al profilo patrimoniale del fatto, cioè al conseguimento o meno del prezzo della liberazione.

Sono poi state inserite delle attenuazioni di pena caratteristiche del diritto penale dedicato alla criminalità organizzata.

All’art. 630 si affiancano poi numerose disposizioni contenute nelle leggi speciali (L. 82/1991) la quale prevede, fra l’altro, il sequestro dei beni della persona sequestrata e dei suoi congiunti al fine di impedire il pagamento del riscatto.

3. Riforma in materia di criminalità informatica

La L. 547/1993 ha creato nuove figure criminose collocate tra i delitti contro il patrimonio: danneggiamento di sistemi informatici e telematici; frode informatica.

4. Interventi della Corte costituzionale

Ha dichiarato incost. il n. 2 del c. 2° dell’art 635, che prevedeva una circostanza aggravante del danneggiamento nel caso in cui tale condotta fosse stata commessa in occasione di scioperi o serrate.

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L’art. 707 (possesso di chiavi alterate o strumenti atti ad aprire o sforzare serrature è stato dichiarato parzialmente incost. nella parte in cui faceva richiamo alle condizioni personali di condannato per mendicità, di ammonito, di sottoposto a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta. L’art. 708 (possesso ingiustificato di valori non confacenti al proprio stato) è stato dichiarato incostituzionale. Si tratta di due c.d. reati di sospetto o reato ostacolo.

Le modifiche sono quindi concentrate sui reati c.d. plurioffensivi, dove altre al bene “patrimonio” sono lesi anche altri beni quali la libertà personale, l’integrità fisica, la vita, l’amministrazione della giustizia, la pubblica economia e il libero mercato.

Il codice Rocco divideva, e tuttora formalmente divide, i delitti contro il patrimonio fra delitti commessi mediante violenza e delitti commessi mediante frode, quindi basandosi sulle modalità della condotta.

A seguito delle citate riforme la distinzione viene fatta tra i reati contro il patrimonio “veri e propri”, cioè monoffensivi, e reati plurioffensivi, che perdono sempre più il connotato patrimoniale. Ne risulta, quindi snaturata la fisionomia delle fattispecie, anzi di fatto essi si collocano al di fuori del sistema, essendo governati da principi propri ed autonomi, diversi da quelli caratteristici dei reati contro il patrimonio.

2. IL TITOLO XIII: RUBRICA E RIPARTIZIONI

La rubrica del titolo XIII libro II “Dei delitti contro il patrimonio” sostituisce quella del codice Zanardelli “Dei delitti contro la proprietà”. Si tratta comunque di una variazione ispirata solo ad una maggior correttezza e precisione terminologica, ma in realtà si tratta di espressioni equivalenti.

Il titolo XIII è diviso in 3 capi:

• Capo I: Delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o persone;

• Capo II: Delitti contro il patrimonio mediante frode;

• Capo III: Disposizioni comuni ai capi precedenti, che reca il solo art. 649.

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Le categorie principali

Generalità: elementi descrittivi ed elementi valutativi nella redazione della fattispecie

Nella formulazione delle fattispecie figurano:

1. elementi descrittivi, ovvero di stampo descrittivo – naturalistico: animali, denaro, grimaldelli, serrature, chiavi, ecc. Essi di regola attengono all’oggetto materiale del reato.

2. elementi valutativi: patrimonio, danno, profitto, possesso, altruità. Sono dati che consentono all’operatore un certo margine di discrezionalità interpretativa e che designano allo stesso tempo categorie centrali nell’economia delle fattispecie patrimoniali. Questo conferisce al sistema una indiscutibile duttilità operativa, superiore a quella di altri tipi di incriminazioni.

Le interpretazioni date agli elementi valutativi sono in linea di massima riconducibili a due correnti principali:

1. corrente privatistica o civilistica, la quale sostiene che le categorie “patrimonio”, “altruità”, ecc. sono assunte nel significato che è loro proprio nel diritto civile: il presupposto teorico di partenza è che il diritto penale ha una funzione sanzionatoria accessoria rispetto al diritto privato.

2. corrente autonomistica, che attribuisce invece agli elementi valutativi un significato autonomo e indipendente dalla nozione civilistica. Il presupposto teorico di partenza è opposto: il diritto penale è dotato di funzioni, oggetto, scopi, diversi dalla mera tutela dei diritti soggettivi patrimoniali definiti dal diritto privato.

La tendenza assolutamente dominante in dottrina e giurisprudenza è di scegliere una soluzione specifica per ciascuno degli elementi valutativi indicati.

La “cosa”

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Si distingue, nei delitti contro il patrimonio, fra comportamenti delittuosi che:

1. offendono il patrimonio come complesso e nella sua fase dinamica, volti a pregiudicare il patrimonio della vittima con la cooperazione forzata della stessa;

2. offendono singoli diritti soggettivi patrimoniali, sul patrimonio nella sua fase statica, senza nessun tipo di cooperazione della vittima.

Le fattispecie del primo tipo sono imperniate sul concetto di DANNO (estorsione, truffa, circonvenzione di persone incapaci) o su concetti analoghi, come gli “interessi o altri vantaggi usurari” (usura), l’utilità (frode in emigrazione), il binomio “profitto – prezzo” (sequestro di persona a scopo di estorsione).

In tutti questi casi ciò che conta è il valore: il valore economico-giuridico del pregiudizio recato alla vittima e/o del vantaggio conseguito dall’autore. In queste incriminazioni vi sono due condotte: quella dell’autore, incriminata, e quella della vittima, che deve necessariamente essere presente perché si configuri la fattispecie.

Le fattispecie del secondo tipo sono invece incentrate tecnicamente sull’elemento della cosa: furto, sottrazione di cose comuni, rapina, danneggiamento, appropriazione indebita, ecc.

In questi casi la vittima non partecipa.

Nozione di COSA:

1. Il termine può essere inteso in senso fisico e materiale, come entità, naturale, parte del mondo esterno. La lesione al patrimonio si presenta come una diminuzione fisica, mentre la condotta si configura come un comportamento che realizza un trasferimento naturalistico di un oggetto da una persona all’altra.

2. in senso economico-giuridico, come entità che forma oggetto di diritti, dunque coincidente con la nozione civilistica di bene di cui agli artt. 810 ss. c.c.

Così considerata la cosa, acquista un ruolo centrale il concetto di valore: la lesione al patrimonio si presenta come una diminuzione di valore economico, mentre la condotta si configura come comportamento che realizza una circolazione giuridica di un bene da una persona ad un’altra. Tutta la fattispecie acquista così un profilo accentuatamente “valutativo”.

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In dottrina e giurisprudenza si ritiene che il c.p. accolga una nozione fisico-materiale di cosa: una nozione diversa da quella civilistica, nella quale non rientrano i beni immateriali (il nome. l’idea, l’invenzione, ed ogni altro diritto soggettivo a contenuto patrimoniale che non si concretizzi in uno specifico quid naturalistico e fisico). Questi beni trovano semmai tutela nelle leggi speciali.

L’elemento “COSA” è dotato di un realismo superiore a quello proprio del diritto civile: è cosa mobile ogni cosa di cui sia possibile fisicamente la mobilizzazione materiale.

Questa concezione di cosa, aderente alla realtà naturale, si traduce in un rigore descrittivo, a vantaggio della tassatività e certezza operativa della fattispecie penale.

E’ da precisare come questo realismo rilevi solo agli effetti della configurazione del fatto tipico: una volta accertata la tipicità, anche nelle figure di reato incentrate sulla “cosa” può riemergere il VALORE, come dato immateriale, sganciato dalla fisicità: quando un’entità immateriale (diritto di credito, opera del pensiero) si trasfonde su una cosa materiale (pezzo di carta), la cosa materiale perde la rilevanza per il suo valore intrinseco e acquista quella inerente all’interesse o diritto in essa incorporato. Con la conseguenza che le circostanze aggravanti e attenuanti saranno rapportate al valore economico non del pezzo di carta, ma al diritto in esso rappresentato.

Il possesso

La gamma delle proposte elaborate è ampia. Tra le numerose possibili, la nozione di possesso comunemente accolta è quella più vaga e generica, al punto che risulta difficile individuare a priori e in astratto il tipo di fatto disciplinato dalle fattispecie che contengono l’elemento “possesso”.

Si esclude la concezione civilistica, in quanto porterebbe ad applicazioni in contrasto col comune modo di pensare.

Si svincola il possesso anche da ogni riferimento univocamente verificabile di stampo fattuale e/o giuridico (ad. es. il possesso potrebbe essere definito come signoria di fatto e/o giuridica sulla cosa).

Secondo la più diffusa interpretazione il concetto di possesso è composto da fattori vaghi ed elastici: “potere di fatto che si esercita in modo autonomo, al di fuori della sfera di vigilanza del titolare di un potere giuridico maggiore”. Tali espressioni fanno leva principalmente su momenti interiori della persona titolare del potere giuridico maggiore.

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Si forma così un meccanismo di grande duttilità e capacità di adattamento ad ogni esigenza di politica criminale.

Ad es. il depositario che ha in custodia una cosa risponde di furto se si afferma che egli non ne ha il possesso; diversamente, egli risponde di appropriazione indebita, sanzionata con minor rigore.

Il risultato è una carenza di tassatività e la possibilità di contraddizioni clamorose all’interno del sistema.

Il possesso risente infatti di essere elemento centrale di varie fattispecie, ciascuna delle quali sta al centro di funzioni politiche diverse e contrastanti.

Così, esigenze di polizia e di ricerca dell’autore pericoloso portano a svuotare i contorni della norma sul furto e i suoi elementi costitutivi, fra cui l’impossessamento; dall’altro lato, esigenze contrapposte portano invece ad arricchire i requisiti del possesso nel delitto di appropriazione indebita.

Non è quindi possibile stabilire a priori un significato univoco di possesso.

L’altruità

L’altruità appare nel codice, di regola, come attributo della cosa.

Si tratta di un elemento VALUTATIVO, la cui interpretazione condiziona l’operatività della fattispecie in cui è inserito, in due direzioni:

• da un lato, individua le cose che possono formare oggetto dei reati in questione;

• dall’altro, seleziona i possibili autori del reato.

Tra le varie interpretazioni possibili, l’altruità viene intesa di solito intesa con rigoroso riferimento al diritto soggettivo individuale e privato: diritto di proprietà nelle versioni più restrittive, diritto anche diverso dalla proprietà, come diritti di godimento o di garanzia, nelle versioni più ampie e attente ai nuovi equilibri tra proprietà individuale e altri interessi.

L’altruità si presenta, quindi, come elemento normativo altamente giuridico.

Il termine penalistico riprende quello del diritto civile: si vuole che il sistema penale svolga una funzione meramente sanzionatoria delle regole civilistiche, funzione di semplice garanzia subalterna e priva di autonomia.

Il danno

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In alcune fattispecie il danno è elemento costitutivo: estorsione, truffa, circonvenzione di persone incapaci. Danno come tale, senza qualificazioni: non configura l’attributo “ingiusto” che è proprio del danno nell’art. 612 (minaccia) e che risulta invece di frequente opposto al profitto.

L’inserimento dell’elemento del danno comporta da un lato un’estensione operativa della norma, se confrontata con le fattispecie costruite sul singolo diritto soggettivo patrimoniale, imperniate sull’elemento “cosa”. Infatti la condotta tipica, non più legata alla necessità di incidere su una singola cosa, può comprendere attacchi di ogni natura ai diritti altrui, anche di stampo immateriale e incorporale (es. confronto tra il delitto di truffa e di appropriazione indebita).

Dall’altro lato, esso comporta una restrizione operativa della norma, se confrontata con fattispecie che prescindono da tale elemento. Per integrare la figura di reato, non basta infatti la realizzazione della condotta, ma occorre che questa integri un danno.

1. Una prima tesi afferma che il danno deve essere inteso come DANNO PATRIMONIALE. La discussione si trasferisce dunque sul piano del concetto di patrimonio agli effetti penali:

1. concezione giuridica del patrimonio: considera il patrimonio come complesso di diritti soggettivi, di rapporti giuridici a contenuto patrimoniale. Ciò che conta è l’aspetto giuridico-formale del rapporto tra soggetto e suoi beni: il danno è realizzato nel momento in cui si costituisce un rapporto giuridico svantaggioso per il soggetto passivo, a prescindere dalla diminuzione effettiva del patrimonio. Il prodotto del delitto non costituisce patrimonio in senso giuridico formale, per cui se il danno va incidere su di esso non si realizza la fattispecie.

2. concezione economica: svincolata dal dato formale, considera il patrimonio come complesso di beni economici di un soggetto. Contra l’aspetto materiale – fattuale: hanno rilevanza tutte le posizioni di valore economico di un soggetto, a prescindere dalla loro qualificazione giuridica. Il danno consiste di conseguenza in una diminuzione del patrimonio. E’ sempre richiesta l’effettuazione di un “bilancio consuntivo” dell’operazione delittuosa.

A queste concezioni si aggiungono una concezione intermedia (giuridico-economica), che cerca un compromesso tra il formalismo della visione giuridica, e il materialismo di quella economica, e una concezione estremamente materializzata e spersonalizzata, che considera il patrimonio come “le cose in sé”, a prescindere dalla persone cui appartengono.

La concezione giuridica difende il patrimonio su posizioni più avanzate: prescindendo dal verificarsi della diminuzione del patrimonio, l’elemento del danno si smaterializza, fino a vanificarsi del tutto. L’accusa più seria che le viene rivolta è quella di trasformare i reati di truffa e gli altri delitti di danno in reati di pericolo, con rimozione interpretativa di un elemento indicato e voluto espressamente dalla legge.

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La concezione economica, invece, richiedendo il bilancio consuntivo, subordina l’intervento penale a vicende economco-civilistiche: essa esclude la punibilità ogni qualvolta non risulti violato l’equilibrio patrimoniale, anche a seguito di fatti successivi alla commissione del reato, come la rimozione del danno o la restituzione. Altre volte, al contrario, la concezione economica conferisce al diritto penale una maggiore autonomia ed ampiezza di intervento: ad esempio nel caso di condotte di attacco contro posizioni patrimoniali detenute illegittimamente dalla vittima, condotte che secondo la concezione giuridica non sarebbero punibili.

Le nozioni hanno comunque un punto in comune, in quanto considerano il danno come patrimoniale, come fattore distinto e autonomo rispetto alla condotta. Esse sono entrambe dotate di un buon coefficiente di certezza, mediante il ricorso a parametri extrapenali sicuri.

2. La seconda tesi trasforma il danno in un concetto non patrimoniale. Esso viene a coincidere con valori dematerializzati, spiritualizzati, quali la libertà del consenso delle parti contraenti, la buona fede e il rispetto delle regole della convivenza civile. La fattispecie finisce con l’incentrarsi sulla condotta.

Tale tesi trova talvolta applicazione in ordine alle fattispecie di truffa, estorsione, circonvenzione di incapaci. Esse vengono a concentrarsi non tanto sugli effetti dannosi in senso patrimoniale, quanto sulla condotta di inganno, violenza, minaccia, suggestione. Cioè su una condotta riprovevole moralmente, socialmente e giuridicamente, trascurandosi le conseguenze patrimoniali.

Così si avrà estorsione tutte le volte in cui la volontà della vittima sia coartata, anche se non vi è un danno patrimoniale.

(segue): ancora sul danno; cenni sull’art. 649

Il discorso sul danno non si limita alle incriminazioni in cui il danno è citato espressamente quale elemento costitutivo di fattispecie.

1. In taluni casi è la stessa LEGGE che conferisce al danno il significato di condizionare la punibilità.

Un esempio è l’art. 627, che disciplina la sottrazione di cose comuni: il fatto non è punito se viene commesso su cose fungibili e se il valore di esse non eccede la quota spettante all’agente. Questa causa di non punibilità è evidentemente posta in ragione dell’inesistenza di un danno.

Analogamente nell’art. 641 il reato di insolvenza fraudolenta, si estingue qualora ex post venga adempiuta l’obbligazione assunta, venga cioè annullato il danno.

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Viene così recuperato lo schema classico di un diritto penale oggettivo: l’evento lesivo (il danno patrimoniale) staccato dalla condotta e distinto dagli effetti (danni) civili. Non si richiede alcun coefficiente soggettivo, nè quello della volontarietà nè quello della spontaneità, necessarie per la semplice concessione dell’attenuante prevista dall’art. 62 n.6. E’ sufficiente anche l’adempimento di un terzo.

In altre fattispecie, tale schema viene invece tradito, come avviene per quella di furto e altre, cariche di funzioni politiche e di controllo della pericolosità del soggetto.

2. Talvolta, poi è la PRATICA che riconosce valore costitutivo al danno patrimoniale, anche in fattispecie che formalmente non lo enunciano espressamente: si tratta di un’interpretazione restrittiva che talvolta si svolge su alcune incriminazioni quali l’appropriazione indebita o il danneggiamento. Ad es. si afferma che l’appropriazione non sussiste quando l’agente abbia poi restituito l’equivalente: rinviando cosi la consumazione del reato alla realizzazione del danno. In tale prospettiva si colloca quella giurisprudenza che considera inesistente il danneggiamento quando il danno sia di lieve entità.

3. Per un’autorevole dottrina il danno deve considerarsi implicito in tutti i delitti patrimoniali, perché i fatti descritti non possono essere puniti se non recano un danno giuridicamente rilevante.

Tale tesi, da apprezzare, si sforza di contrastare le tendenze alla soggettivizzazione e punizione di soggetti pericolosi più che di fatti lesivi.

4. Il danno costituisce un elemento centrale nella disciplina dei benefici concessi dall’art. 649, che stabilisce la non punibilità e punibilità a querela della persona offesa, per fatti commessi a danno dei congiunti.

Il congiunto deve essere soggetto passivo del reato, e non mero danneggiato civilmente: deve cioè essere titolare del bene protetto dalle singole fattispecie. L’individuazione di tale bene determina quindi la figura del soggetto passivo e condiziona direttamente la portata della norma.

Se tutta la vicenda criminosa e il disvalore del fatto ruota attorno alla condotta, i benefici dell’art. 649 saranno riconosciuti quando il legame familiare unisce il soggetto attivo e il soggetto passivo della condotta. Chi ha risentito degli effetti patrimoniali è semplice danneggiato civilmente e quindi estraneo alla vicenda tipica.

Viceversa, se il momento del danno patrimoniale occupa un ruolo autonomo e costitutivo, i benefici saranno riconosciuti se il familiare è soggetto titolare del diritto soggettivo patrimoniale aggredito. Chi ha subito la condotta nella sua immediatezza potrà essere mero danneggiato civile.

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Il profitto

Il modello classico di diritto penale (oggettivo ed individualistico) valuta i comportamenti umani guardando essenzialmente all’offesa, quindi al DANNO.

Per contro, i reati contro il patrimonio non prescindono quasi mai dal profitto, categoria che in alcuni casi appare come evento del reato e quindi elemento essenziale per la sua integrazione; in altre ipotesi il profitto appare come contenuto del dolo specifico.

Il ruolo centrale rivestito dal profitto è un segno del forte interesse che il sistema dei reati contro il patrimonio ha per la figura dell’autore, interesse superiore di quello riservato alla vittima e ai suoi beni e diritti patrimoniali. Tramite il profitto, come elemento di fattispecie, la legge consente di conoscere e vagliare come l’episodio dannoso sia stato vissuto dall’autore.

Tramite il profitto si conferisce autonoma rilevanza all’elemento dell’utilità perseguita in concreto, senza considerarla assorbita nell’oggettività del comportamento lesivo. Correlativamente si attribuisce la giudice un potere di controllo e valutazione di tale utilità: il perseguimento di utilità diverse dal profitto può anche escludere la punibilità di comportamenti pur tipici e dolosi.

Insomma, nelle fattispecie dove c’è il profitto vi è un’ulteriore indagine e valutazione oltre a quella sulla tipicità e sull’elemento soggettivo.

Il profitto non viene inteso in termini economici, come lucro. Esso consiste in un vantaggio, utilità, soddisfazione, piacere di qualsiasi natura, patrimoniale o non.

Il profitto è un elemento valutativo, e l’apprezzamento del giudice si risolve inevitabilmente in un giudizio di valore, privo di dati certi.

Si tratta allora di un fattore che conferisce al sistema equivocità e incertezza.

Salvo che in due casi il profitto si presenta come contenuto del dolo specifico e non come evento: esso subisce così un secondo processo di smaterializzazione, non essendo necessario il suo effettivo conseguimento, bastando che esso costituisca lo scopo dell’agente.

In talune incriminazioni la legge richiede che il profitto sia ingiusto: si tratta di un altro concetto di incerta definizione, che rende ancora più discrezionale il giudizio di valore del giudice.

In sintesi: massima attenzione all’autore e ai suoi momenti interni; massima discrezionalità nel caso concreto, favorita dalla nebulosità dei parametri.

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Nella prassi, tuttavia, il connotato patrimoniale viene recuperato, non ravvisandosi il reato nel caso in cui il soggetto abbia agito per ottenere una soddisfazione spirituale.

Talvolta traspare un residuo di materialismo: il profitto è integrato da un’utilità, di qualunque natura, ma che deve provenire dalla cosa (oggetto materiale) o dal suo uso e non di un’utilità tratta dal comportamento criminoso come tale.

***

II. DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO MEDIANTE VIOLENZA SULLE COSE O ALLE PERSONE

1. FURTO (ART. 624)

Il furto comune consiste nel fatto di “chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri”. La pena è della reclusione fino a 3 anni e della multa da 60.000 a 1 milione.

Il bene giuridico è la tutela delle relazioni di proprietà e di uso della cosa da parte del proprietario o di chi ha la cosa in godimento.

A fondare questa interpretazione sta un concetto di ALTRUITA’ della cosa che esula dagli schemi civilistici, comprendendo non solo le ipotesi in cui esiste un diritto di proprietà, ma anche quelle in cui vi è un interesse giuridicamente rilevante caratterizzato dal potere di uso o godimento della cosa.

Soggetto passivo è il titolare del diritto di proprietà o della relazione di interesse giuridicamente rilevante.

Nella particolare ipotesi in cui soggetto passivo sia il titolare di una cosa, che se ne impossessa a danno di chi la detiene in base a titolo lecito (es. usufruttuario), non si avrà furto, ma esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 392).

Alla situazione di diritto deve corrispondere la detenzione della cosa da parte del soggetto passivo; la detenzione, quale presupposto della condotta, è intesa in modo elastico e indipendente dai paradigmi civilistici, potendo definirsi come un rapporto di fatto diretto o indiretto tra il titolare e la cosa, che può

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esercitarsi anche a distanza, o tramite terzi. In ogni caso questo rapporto deve sussistere in concreto; si escluderebbe così il c.d. furto venatorio, perché la fauna selvatica non è suscettiva di alcuna forma di soggezione, finchè viva naturalmente libera.

La condotta può scomporsi in due momenti, che possono cronologicamente sovrapporsi, ma sono concettualmente distinti: sottrazione e impossessamento: solo con quest’ultimo il furto è consumato.

Oggetto del furto è la cosa mobile altrui: per espressa previsione legislativa (art. 624, 2° c.) rientra anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico. Deve trattarsi comunque di cose sottraibili in senso materiale, escludendosi idee o diritti immateriali.

Dottrina e giurisprudenza si dividono sull’interrogativo se la cosa oggetto di furto debba avere valore economico; la collocazione sistematica e la formulazione della fattispecie dovrebbero suggerire la inconfigurabilità delle cose aventi solo valore simbolico o affettivo.

Quando oggetto del furto è una pluralità di cose, anche appartenenti a diversi proprietari, non si verificano più delitti avvinti dal nesso di continuazione, ma un reato unico, se le sottrazioni avvengono in uno stesso contesto temporale e spaziale.

La cosa mobile deve essere altrui: l’altruità è un ulteriore profilo di tipicità della fattispecie che ha dato luogo a diverse interpretazioni che si alternano tra concezioni civilistica, autonoma e posizioni intermedie. L’altruità va intesa nel senso che il soggetto passivo deve porsi rispetto alla cosa come titolare del diritto di proprietà o di diritti minori (uso e godimento).

L’elemento soggettivo è il dolo specifico: rientrano in esso tutti gli elementi della fattispecie, tra cui anche l’altruità della cosa: se il soggetto, per errore sulla normativa civilistica, ritiene la cosa di sua proprietà, si verifica un caso di errore su legge extrapenale, che dà luogo ad errore sul fatto. Rientra nel dolo anche il fine di trarne profitto per sé o per altri: tale finalità, che non è necessario si realizzi, assolve ad un’importante funzione di tipicizzazione del fatto, puntualizzando che è l’appropriazione il termine finale dello “spostamento patrimoniale”. Il reato è da escludersi se la cosa è sottratta per scherzo.

Sul punto, ad una concezione restrittiva, che richiede il necessario contenuto economico della finalità di profitto, si oppone un diffusa interpretazione che assegna rilievo a qualunque utilità, anche non patrimoniale, e persino un fine di semplice soddisfazione morale.

Da altre voci si nega persino la stessa autonomia concettuale del fine di profitto, tanto che lo stesso viene valorizzato o svalutato a piacere in giurisprudenza, in base alle contingenze politico-criminali.

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Il momento consumativo, trattandosi di reato di mera condotta, coincide con l’ultima frazione della stessa, ovvero nel momento di impossessamento della cosa. Il tentativo è configurabile in tutti i casi in cui alla sottrazione non segue l’impossessamento dell’oggetto sottratto.

La L. 205/99, per arginare il trend che vede il delitto di furto alla vetta delle statistiche giudiziarie, ha introdotto la procedibilità a querela di parte anche per il reato di furto semplice, quando non ricorrano le aggravanti dell’art. 625 e dell’art. 61 n.7.

L’art. 625 prevede una serie di circostanze aggravanti che hanno contribuito ad inasprire la repressione fino a picchi molto elevati, portando la reclusione da 1 a 6 anni (più una pesante multa) e, se concorrono due o più circostanze, la reclusione è da 3 a 10 anni. Il delitto di furto è aggravato se:

1. il colpevole si introduce o si trattiene in un edificio o in altro luogo destinato ad abitazione;

2. il colpevole usa violenza sulle cose o si vale di qualsiasi mezzo fraudolento;

3. il colpevole porta addosso armi o narcotici, senza farne uso;

4. il fatto è commesso con destrezza o strappando la cosa di mano o di dosso alla persona (in questa ipotesi rientra la figura dello scippo, che si distingue dalla rapine, in cui la violenza incide sulla persona);

5. il fatto è commesso da 3 o più persone, o da una sola, che sia travisata o simuli la qualità di p.u. o inc. di p.s.;

6. il fatto è commesso sul bagaglio dei viaggiatori;

7. il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a pignoramento o sequestro, o esposte alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o pubblica utilità, difesa o reverenza;

8. il fatto è commesso su 3 o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria.

la L. 533/1977 ha introdotto una ulteriore aggravante speciale, frutto della legislazione di emergenza degli anni c.d. di piombo, che stabilisce la pena da 3 a 10 anni se il furto è commesso su armi munizioni o esplosivi nelle armerie o in depositi o altri locali adibiti alla custodia di essi.

2. FURTI MINORI (art. 626)

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Sono previste una serie di ipotesi minori di furto che costituiscono figure autonome di reato e non semplici attenuanti. Anche esse contemplano il regime di procedibilità a querela di parte, e comportano una sanzione inferiore (reclusione fino a 1 anno oltre alla multa).

Tali ipotesi non sono configurabili se ricorre una delle aggravanti previste ai nn. 1-4 dell’art. 625.

La prima fattispecie è quella del furto d’uso, che si configura se il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa sottratta e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.

La Corte cost. ha ritenuto parzialmente illegittima la norma nella parte in cui non esclude il reato nel caso in cui l’impossibilità di restituire il bene sia dovuta a caso fortuito o forza maggiore (principio di colpevolezza).

La seconda ipotesi è quella del furto lieve per bisogno, furto commesso su cose di tenue valore, per provvedere ad un grave e urgente bisogno. La disposizione ripete la ratio dello stato di necessità. La giurisprudenza è attestata su posizioni restrittive.

L’ultima fattispecie si configura quando il furto consiste nello spigolare, rastrellare o raspollare fondi altrui, non ancora spogliati interamente del raccolto; essa ha un’applicazione marginale.

Ulteriore fattispecie minore è costituita dalla sottrazione di cose comuni, reato proprio del comproprietario, socio o coerede.

3. RAPINA (art. 628)

Il delitto è nato come ipotesi aggravata di furto, del quale conserva una importante matrice. Secondo l’art. 628 è punito con la reclusione da 3 a 10 anni e con la multa da 1 a 4 milioni “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene” (Comma 1° - rapina propria). Alla stessa pena soggiace “chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità” (2° comma – rapina impropria).

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La rapina è un tipico esempio di reato complesso, caratterizzato dalla coesistenza di furto e violenza privata o minaccia (artt. 610 e 612). Le possibili condotte ulteriori (lesioni, omicidio, o tentato omicidio) danno invece luogo a ipotesi di concorso di reati, almeno nei casi non esclusi espressamente dalla legge (rimane assorbito nel delitto di rapina la violenza riconducibile al delitto di percosse).

Il bene giuridico tutelato va individuato in una prospettiva di plurioffensività, in cui a fianco dell’interesse economico alla tutela del possesso, si affiancano interessi personalistici, quali la libertà di autodeterminazione e l’integrità fisica della vittima. La prevalenza dell’interesse patrimonialistico ha consentito tuttavia di affermare che il reato è unico anche quando, per conseguire il possesso di una cosa si esercita violenza su più persone. Ove, invece, siano sottratte più cose appartenenti a più persone, si configura una pluralità di reati avvinti dal nesso della continuazione.

Soggetto passivo è colui che, avendo la cosa a disposizione, subisce la violenza o minaccia altrui, e la coazione conseguente.

Il fatto tipico si scompone nelle due forme della rapina propria e impropria, a seconda che la violenza o minaccia precedano o accompagnino la sottrazione ovvero la seguano. Qualora si usi violenza o minaccia sia per sottrarre la cosa, sia successivamente, si ritiene che il reato sia unico e non si ammette un concorso tra rapina propria e rapina impropria.

Le modalità della condotta sono due: violenza è un mezzo di coazione fisica, che può assumere le forme più diverse, ma deve in ogni caso essere diretto contro la persona e non contro la cosa; la minaccia è invece mezzo di coazione morale. Le due condotte possono colpire anche un terzo, se comunque idonee a coartare la volontà della vittima “mediata”.

L’attività di coazione nella rapina impropria deve essere esercitata immediatamente dopo la sottrazione: l’area di rilevanza della rapina finisce dove il furto possa dirsi consumato, essendo il soggetto entrato nel pieno possesso della cosa. Si configureranno così un reato di furto seguito da autonomi reati di violenza privata o minaccia.

Oggetto del reato è la cosa mobile. Dalla sottrazione della cosa si deducono le differenze con l’ESTORSIONE: anche la rapina può contemplare un comportamento collaborativo della vittima, che consegna la cosa sotto pressione psicologica dell’agente. Ma, mentre nell’estorsione lo stato di soggezione psichica è il dato caratterizzante del delitto, nella rapina è solo modalità strumentale della coazione assoluta, agilmente sostituibile dalla sottrazione violenta nell’ipotesi in cui il soggetto passivo opponga resistenza.

L’elemento soggettivo è del dolo specifico; l’obiettivo del reo è nella rapina propria, quello di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto; nella rapina impropria, ove la cosa è già ottenuta, il fine è di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o procurare a sé o ad altri l’impunità. Anche in questa seconda

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ipotesi, tuttavia, il fine di PROFITTO, anche se non menzionato, è implicitamente richiamato, cosi che può dirsi che esso svolge in entrambi i casi una importante funzione tipizzante.

Il PROFITTO va inteso in senso economico. L’INGIUSTIZIA del profitto si ravvisa quando il profitto è volto a soddisfare un interesse che non trova tutela nell’ordinamento positivo. Se si agisce per realizzare una pretesa giuridicamente fondata può venire in rilievo la figura di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”.

Nell’ipotesi di CONCORSO di persone, frequentemente avviene che la realizzazione di un furto si trasformi in rapina, perché uno dei compartecipi usa violenza o minaccia, oppure la rapina sfoci in omicidio. Vanno ribadite le regole generali in tema di colpevolezza, per cui ai fini dell’imputazione del reato diverso da quello voluto ex art. 116, non è sufficiente un semplice rapporto di rischio astratto tra i fenomeni criminosi. Occorre verificare nel caso concreto la prevedibilità in concreto del reato più grave, provando così la effettiva responsabilità almeno a titolo di colpa del partecipe estraneo al reato più grave.

Il momento consumativo si ha con l’impossessamento della cosa, nella rapina propria, e al momento dell’esercizio della violenza o minaccia, nella rapina impropria. Il tentativo è configurabile ove la condotta di coartazione fisica o psichica sia idonea e inequivocabilmente volta a ottenere la cosa o a spingere la vittima a consegnarla (rapina propria). Anche se vi è stata sottrazione, ma non impossessamento, vi è tentativo.

Nella rapina impropria, invece, si ha tentativo ove la condotta violenta o minacciosa sia diretta, senza riuscirvi, a garantire il mantenimento della cosa sottratta. Se dopo un tentativo di sottrazione, si usa violenza o minaccia per procurarsi l’impunità: per la giurisprudenza, si ha tentativo di rapina (impropria); secondo la dottrina, si ha concorso tra tentativo di furto e reato di violenza o minaccia.

Il 3° c. , richiamato anche per il delitto di estorsione, prevede una serie di circostanze aggravanti che comportano la reclusione da 4 anni e 6 mesi a 20 anni, nelle seguenti ipotesi:

1. se la violenza o minaccia è commessa con armi o da persona travisata o da più persone riunite;

2. se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di agire o volere;

3. se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di tipo mafioso.

Ulteriore aggravante è posta dalla L. 533/1977 se l’agente si impossessa di armi, munizioni, esplosivi…

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4. ESTORSIONE (ART. 629)

Chiunque mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare od omettere qualcosa, procura e sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da 5 a 10 anni e con la multa da 1 a 4 milioni.

L’estorsione è la tipica modalità operativa della criminalità organizzata, e si accompagna ad un marcato allarme sociale e diffuso giudizio di disvalore.

Il bene giuridico protetto si inquadra anche qui in una prospettiva di plurioffensività, dove accanto alla tutela del patrimonio viene in considerazione anche la libertà di autodeterminazione della vittima. L’integrità del patrimonio assume però un rilievo prioritario: lo conferma il rilievo assunto nella fattispecie dalla coppia concettuale profitto/danno, eventi terminativi della fattispecie che identificano uno spostamento patrimoniale essenziale alla interpretazione della norma. Questo legame conferma inoltre la concezione economica del danno e distingue l’estorsione dalla violenza privata.

Soggetto passivo è il protagonista della lesione patrimoniale, anche se non ha subito direttamente la violenza o minaccia tipiche del delitto, ma sia stato comunque influenzato dalle stesse.

Soggetto attivo può essere chiunque (reato comune). Se il fatto è commesso da un p.u. o inc. di p.s. con abuso dei poteri o della qualità rivestita, si configura, di regola, il più grave delitto di concussione.

Nella descrizione del fatto tipico, assume ruolo centrale la successione causale che lega l’attività di coazione dell’agente alla effettiva coartazione del soggetto passivo (evento intermedio), determinando il comportamento che si risolve nel profitto per il reo e nell’autodanneggiamento per la vittima (eventi consumativi).

Quanto alle modalità della condotta, violenza o minaccia, è da precisare come nell’estorsione la pressione psicologica si identifica in una forma di costringimento relativo, che lascia ancora spazio alla libertà di scelta della vittima, la quale però si risolve ad agire per evitare il danno; nella rapina, invece, la condotta si atteggia piuttosto a forza fisica, o comunque a coazione assoluta.

Si comprende allora come violenza e minaccia siano, nell’estorsione, accomunate da intensità e effetti molto simili, al punto che la violenza si manifesta come una forma molto pressante di minaccia.

E’ necessario che violenza e minaccia siano sempre esplicite. Suscita infatti molte perplessità il paradigma motivazionale tipico della c.d. estorsione ambientale, che porta certa giurisprudenza a considerare la minaccia estorsiva implicita in alcuni comportamenti, o nel tipo di rapporti esistenti in determinati ambienti. In tal modo si elide un requisito espresso di fattispecie, rendendo impossibile anche l’accertamento del legame causale. Risulta sacrificato anche il principio di legalità e si riscontrano applicazioni non uniformi della legge.

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Il comportamento coartato può assumere forme diverse, pur sostanziate da un contenuto patrimoniale: “fare o omettere qualcosa”.

Ad esso seguono, come risultanti dirette, il danno (patrimoniale) per la vittima e il profitto ingiusto per il reo.

A differenza che in passato, l’estorsione viene configurata anche quando il mezzo coattivo è lecito in sé, ma il profitto è ingiusto, o anche solo privo di fondamento giuridico: ad esempio minacciare l’uso di una citazione in giudizio, per ottenere denaro, configura una ipotesi di abuso del diritto che fonda il reato di estorsione. Si ritiene dunque non sia necessaria una ingiustizia del male minacciato, essendo sufficiente la sussistenza di un profitto non fondato su una pretesa tutelata dal diritto.

Il reato richiede il dolo, che deve abbracciare tanto l’attività di coazione e la conseguente coartazione della vittima, quanto il conseguimento di un profitto ingiusto con altrui danno.

Trattandosi di reato di danno, il delitto si consuma quando si verifica il profitto ingiusto per sé o altri con altrui danno, eventi terminativi della dinamica criminosa.

Se oggetto della prestazione estorta è una somma di denaro da devolversi in più rate, il reato si consuma con la prima dazione, e resta unico anche se ad essa seguono dazioni successive. Se invece la violenza o minaccia sono ripetute nei successivi episodi, si avranno più delitti avvinti dal nesso di continuazione.

Il tentativo è configurabile se l’attività di coazione è idonea e univocamente diretta a costringere la vittima a fare o omettere. Si avrà tentativo incompiuto se l’attività posta in essere non riesce a coartare la volontà della vittima; tentativo compiuto se, esaurita l’azione, la sequenza delittuosa si interrompe prima del conseguimento del profitto con altrui danno. Nel primo caso un ravvedimento del reo potrà ancora integrare un’ipotesi di desistenza volontaria; nel secondo caso si potrà configurare solo l’attenuante del recesso attivo.

Nel 2° comma è previsto un notevole incremento di pena (da 6 a 20 anni e multa da 2 a 6 milioni) in presenza delle aggravanti proprie della rapina.

5. SEQUESTRO DI PERSONA A SCOPO DI ESTORSIONE (ART. 630)

Tale fattispecie è caratterizzata da continue modifiche che, da un lato, hanno portato un progressivo inasprimento della repressione, dall’altro hanno inserito ipotesi di “diritto penale premiale”.

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La fattispecie ricalca lo schema del reato permanente, caratterizzato dal protrarsi dell’offesa al bene tutelato, identificabile nella tutela della libertà personale della vittima, cui si associa la tutela del patrimonio della stessa.

Il delitto si ritiene consumato quando il soggetto viene privato della libertà (non quando viene pagato il prezzo e così realizzato il profitto ingiusto, che è solo l’oggetto del dolo specifico).

La natura di reato permanente influisce sotto due profili:

1. Le condotte di ausilio prestate dopo il sequestro e durante lo stesso possono configurare ipotesi di concorso nel reato, qualora identifichino un apporto causale alla prosecuzione del delitto e siano supportate dallo specifico fine previsto. Si avrà invece favoreggiamento personale quando l’ausilio sia esterno rispetto allo schema tipico del reato (es. agevolazione della fuga dei sequestratori senza ostaggio).

2. Il momento da cui decorre la prescrizione (c.d. dies a quo) è ravvisabile nel momento di cessazione della permanenza, cioè quando cessa la condotta e con essa l’offesa alla libertà personale della vittima.

Il delitto è a dolo specifico, qualificato dalla particolare finalità di conseguire, per sé o altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione. Tale elemento differenzia la fattispecie da quella base di sequestro (art. 605) e dal sequestro con finalità di terrorismo e eversione dell’ordine democratico.

La pena è della reclusione da 25 a 30 anni.

Il tentativo è configurabile qualora siano stati commessi atti idonei e univocamente diretti a commettere il reato e, inoltre, in tutti i casi in cui non si sia verificata una privazione della libertà personale di durata apprezzabile.

Il 2° comma prevede un aggravamento di pena (reclusione di anni 30) se dal sequestro deriva comunque la morte della persona sequestrata quale conseguenza non voluta dal reo: si tratta di delitto aggravato dall’evento. Se si considera necessario come coefficiente minimo per l’imputazione dell’evento ulteriore la COLPA dell’agente, attribuendogli natura di circostanza aggravante (e non di autonomo reato), ne deriva che la stessa aggravante, di natura oggettiva, si comunica ex art. 118 ai soli concorrenti a cui, per la morte della vittima, possa muoversi un rimprovero almeno a titolo di colpa.

Il 3° c. prevede una ulteriore aggravante per il caso di causazione dolosa della morte: la pena è dell’ergastolo.

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Il 4° c. prevede una circostanza attenuante per l’ipotesi del concorrente che, dopo essersi dissociato, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà, senza che tale risultato sia la conseguenza del prezzo della liberazione. E’ una ipotesi di ravvedimento operoso, la cui operatività è vincolata, secondo l’opinione più diffusa, alla effettiva liberazione del soggetto.

Il 5° c. prevede due ipotesi sulla quali verrà modellata la legislazione premiale italiana: è prevista una attenuazione della pena per il concorrente che, dissociandosi, si adopera, al di fuori del caso di cui al 4° c., per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta l’autorità di polizia o giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o cattura dei concorrenti.

Il c. 6° prevede limiti minimi oltre cui la pena non può scendere, tranne nel caso in cui ricorrano le attenuanti premiali di cui al 5° comma.

Una ulteriore diminuzione di pena può essere concessa nelle ipotesi di contributo di “eccezionale rilevanza”, ai sensi della L. 82/1991.

6. DANNEGGIAMENTO

Il legislatore del ’30 ha affidato al danneggiamento un ruolo marginale, inquadrando la tutela in una dimensione privatistica: in tal senso depongono l’esiguità della sanzione e il regime di procedibilità a querela di parte.

Nonostante ciò, si tratta di una norma dallo spettro abbastanza ampio, in quanto ricomprende il fatto di “chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui”. La pena è della reclusione fino a 1 anno o della multa fino a 600.000.

Bene protetto è il diritto del proprietario o titolare di altro diritto di uso o godimento alla integrità della cosa.

Le condotte indicate in modo tassativo sono descritte in modo tanto “comprensivo” da delineare un reato a forma libera., incentrato sulla produzione di danno. Si ammette quindi anche la realizzazione in forma omissiva.

Le diverse modalità di realizzazione elencate sono tra loro alternative, per cui la realizzazione cumulativa di più condotte nel contesto di una medesima azione dà vita ad un unico reato di danneggiamento: si tratta di una norma a più fattispecie.

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Oggetto della condotta è la cosa mobile o immobile altrui. La norma comprende singoli diritti soggettivi, e non l’intero complesso patrimoniale: non costituisce reato ai sensi dell’art. 635 il c.d. danneggiamento patrimoniale, ossia un danno economico cagionato senza contatto con la cosa.

In realtà in dottrina e giurisprudenza si è formata una progressiva estensione della tutela offerta dall’art. 635 oltre i limiti strettamente privatistici, venendo comunemente ricompresi anche beni pubblici, come nel caso di danno ambientale, in particolare nei casi di inquinamento idrico (beni qualificabili come res communes omnium).

Il reato è a dolo generico, essendo sufficiente la coscienza e volontà di danneggiare la cosa. La comparsa di scopi ulteriori segna l’applicabilità di altre fattispecie: se vi è finalità di profitto si tratta di furto aggravato con violenza sulle cose; se ricorre il fine di esercitare un preteso diritto vi è esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose, ecc.

Il momento consumativo coincide con la realizzazione della condotta, cui è intrinsecamente collegato il verificarsi del danno. Il tentativo è configurabile.

Il 2° c. prevede circostanze aggravanti che comportano il diverso regime di procedibilità d’ufficio, se il fatto è commesso:

1. con violenza alla persona o con minaccia. E’ necessario che esse si accompagnino al danneggiamento e siano finalizzate ad esso. In caso contrario, integrano il più grave delitto di violenza privata.

2. da datori di lavoro in occasione di serrate o da lavoratori in occasione di sciopero (disposizione abrogata dalla sent. cost. 119/70)

3. su edifici pubblici o destinati ad uso pubblico o all’esercizio di un culto o su cose di interesse storico o artistico (…)

4. sopra opere destinate all’irrigazione;

5. sopra piante di viti, alberi o arbusti fruttiferi, o su boschi, selve o foreste (…)

Si noti come diverso sia il danno da reato, ossia l’offesa la bene protetto, dal danno civile, potenzialmente più ampio, in quanto comprendente anche il lucro cessante.

Il danneggiamento è la base di molti delitti contro la pubblica incolumità: se dal danneggiamento derivano il pericolo di incendio, inondazione, frana o valanga, naufragio, disastro ferroviario si applicano quelle fattispecie ricondotte ai c.d. delitti aggravati dall’evento.

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7. DANNEGGIAMENTO DI SISTEMI INFORMATICI E TELEMATICI (art. 635 bis)

La L. 547/1993 ha introdotto questa fattispecie, assieme al delitto di “frode informatica”. L’art. 635 bis estende il danneggiamento a “chi distrugge, deteriora, o rende in tutto o in parte inservibili sistemi informatici o telematici altrui, ovvero programmi, informazioni o dati altrui.”

Tale norma ha inteso risolvere il problema del danneggiamento di software, concetto che non può rientrare né il quello di cosa mobile né nel settore delle energie, pena un’applicazione analogica in malam partem.

Il bene giuridico tutelato è quindi il patrimonio informatico.

Oggetto del reato, oltre al sistema informatico nel suo complesso, sono anche dati e programmi, immagazzinati nella memoria interna dell’elaboratore, o su supporto esterno, o memorizzati sulla banda magnetica di una carta di pagamento (es. bancomat)

La condotta tipica deve essere supportata da dolo.

Il reato è perseguibile d’ufficio; è prevista una ulteriore aggravante “se il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema”.

Stante la clausola di sussidiarietà, potrà venire in rilievo il reato di “attentato a impianti di pubblica utilità” qualora il reato sia commesso su beni esistenti in edifici pubblici o esposti alla pubblica fede (es. cabina telefonica).

***

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III. DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO MEDIANTE FRODE

8. TRUFFA (art. 640)

1. Premessa

“Chiunque, con artifici o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa da 100.000 a 2 milioni.”

Si tratta di un classico esempio di reato a forma vincolata. La modalità della condotta (artifici o raggiri), l’evento intermedio (l’induzione in errore), gli eventi terminali, o consumativi (profitto e danno) devono essere legati da una concatenazione causale, la quale appunto costituisce la matrice della “forma vincolata”.

La giurisprudenza ha dilatato il campo di applicazione della fattispecie, facendo sfumare la dimensione individualistica della tutela, che fa leva sul patrimonio individuale quale bene giuridico protetto, per far posto a ragioni di tutela pubblicistiche, come la buona fede nelle contrattazioni o la correttezza nell’accesso ai finanziamenti pubblici.

2. I soggetti

La truffa è reato COMUNE, e contempla una vicenda in cui partecipano almeno due soggetti: uno attivo,, autore dell’inganno e destinatario del profitto ingiusto, e uno passivo, protagonista dell’inganno e, di regola della lesione patrimoniale (danno). Non sempre, però, il destinatario dell’attività ingannatoria coincide col soggetto danneggiato, nè questo è necessario purché il primo abbia un potere legittimo di disposizione nei confronti del titolare del patrimonio su cui si riversano gli effetti pregiudizievoli dell’atto dispositivo (es. mandante e mandatario).

Deve pertanto escludersi l’ammissibilità della c.d. truffa processuale, in cui il soggetto tratto in inganno è il giudice, in un processo civile, e il danneggiato la controparte, pregiudicato dalla decisione sfavorevole viziata dagli artifici o raggiri della controparte.

E’ inoltre necessario che destinatario dell’inganno sia sempre una persona umana, escludendosi l’ammissibilità della truffa realizzata “ingannando” apparecchi elettronici (sarà applicabile semmai il delitto di “frode informatica”)

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3. La condotta tipica

LE MODALITA’: ARTIFICI E RAGGIRI

ARTIFICIO è ogni attività di simulazione o camuffamento incidente sulla realtà esterna; RAGGIRO è invece l’attività incidente sulla psiche, ossia sul convincimento o cognizioni della vittima.

Entrambe devono avere come risultato l’induzione in errore, che deve essere riconducibile alla condotta dell’agente.

Scompare il requisito, previsto dal codice Zanardelli, della idoneità astratta degli artifici e raggiri ad indurre in errore, idoneità valutata in base ad un giudizio astratto compiuto ex ante.

Nella nuova formula il giudizio è compiuto, invece, in concreto ed ex post, percui assumono rilievo tutte le condotte ingannatorie per il solo fatto di aver in effetti indotto taluno in errore.

Tradizionalmente la idoneità ingannatoria era il discrimine tra frode civile e frode penale, e ogni volta che la vittima avrebbe potuto evitare l’errore con la media avvedutezza, si escludeva l’illecito penale. Scomparso il requisito dell’idoneità, si è sempre considerato irrilevante il giudizio sull’evitabilità dell’errore e sulla legittimità dell’affidamento del soggetto passivo. Si auspica tuttavia un recupero, in sede di accertamento, di un grado minimo di pericolosità degli artifici e raggiri, che possa far ritenere la truffa inevitabile. In questo modo, si recupererebbe il canone di extrema ratio dell’intervento penale, che dovrebbe imporre di non configurare la truffa ogni qualvolta il soggetto poteva autotutelarsi, con una misura di avvedutezza adeguata alle circostanze concrete.

L’INDUZIONE IN ERRORE; SFRUTTAMENTO E MANTENIMENTO DELL’ERRORE ALTRUI

La norma richiede che artifici e raggiri siano stati in concreto causa dell’errore altrui.

Risulta allora difficile e dibattuta la valutazione di alcune tipologie condotte, come la menzogna, non accompagnata da artifici esterni, e il silenzio, accompagnato dallo sfruttamento dell’errore altrui.

Quanto alla menzogna, la mera violazione dell’obbligo di dire il vero non basta ad integrare la tipicità richiesta nella descrizione del fatto. Tuttavia, anche la nuda menzogna può integrare il reato di truffa se

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incide su un elemento decisivo nel quadro di cognizioni che determinano il soggetto passivo a stipulare o agire, perché in tal modo essa assume un significato analogo a quello dell’artificio o raggiro.

Analogamente, il silenzio può assumere rilevanza solo se esso, alla luce della condotta complessiva dell’agente e rapportato alla capacità interpretativa del soggetto passivo e alla situazione concreta, identifica la preordinata mancata prestazione di informazioni decisive; ma si deve trattare di circostanze specifiche, e non ad es., della generica insolvibilità del contraente.

Solo in casi limitati, quindi, dovrebbe ammettersi la configurabilità della truffa con una condotta omissiva, in quanto raramente potrà sostenersi una specifica posizione di garanzia a carico di un soggetto contraente a tutela della massima chiarezza informativa della controparte.

A volte può essere la legge che indica questa situazione attraverso uno specifico obbligo informativo (es. in capo al mediatore), ma tale dovere non potrà ricavarsi dal generico dovere di correttezza o buona fede contrattuale. Sembra, pertanto, troppo ampia l’affermazione della giurisprudenza , secondo cui vi è truffa tutte le volte in cui i fatti taciuti o dissimulati, se conosciuti, avrebbero condotto l’altro contraente a non contrattare.

4. L’atto di disposizione patrimoniale

Un elemento implicito della fattispecie è l’atto di disposizione patrimoniale attraverso cui la vittima si “autodanneggia” e, correlativamente, favorisce il reo. Tale atto segna il passaggio, nella sfera del soggetto passivo, da un fenomeno interno ad uno esterno, rappresentando il trasferimento patrimoniale.

Assumono rilievo anche i comportamenti che si traducono in una perdita di ricchezza (es. imprenditore che rinuncia ad un appalto) e quindi la nozione di atto di disposizione p. non va inteso in senso stretto, civilistico.

5. Il profitto e il danno

L’atto patrimoniale è l’ultimo anello della catena che conduce agli eventi consumativi del delitto di truffa, il danno (patrimoniale) altrui e il profitto ingiusto per sé o per altri. Si tratta di due elementi legati da una corrispondenza biunivoca, che rivela l’essenza economica del reato: la truffa è un indebita trasfusione di ricchezza da patrimonio a patrimonio, per cui il danno è elemento necessario ma non sufficiente: deve esserci anche un ingiusto profitto.

Il danno è da intendersi quale danno patrimoniale. Esistono però due accezioni di “PATRIMONIO”:

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1. per la concezione giuridica il patrimonio è il complesso di diritti e obblighi, e quindi il danno è integrato già nella semplice costituzione di un rapporto giuridico sfavorevole, a prescindere dalla deminutio patrimoni, economicamente valutabile.

2. La concezione economica considera invece il danno come una diminuzione patrimoniale effettiva.

Una giurisprudenza opera una eccessiva estensione dell’area del danno, ravvisando la truffa nel caso di assunzione in un pubblico impiego a seguito di esibizione di documenti falsi, ove il danno è visto nell’alterazione della graduatoria, e dunque nella lesione degli interessi degli altri concorrenti.

Appare preferibile una concezione economico-obiettiva per evitare il rischio di deformare completamente lo specifico oggetto di tutela della fattispecie, il PATRIMONIO, e sostituirlo con altri interessi, estranei allo spettro protettivo della norma.

Inoltre, l’elemento del danno dovrebbe prescindere da valutazioni soggettivistiche, pertanto la truffa dovrebbe escludersi tutte le volte in cui viene comunque corrisposta all’ingannato una controprestazione oggettivamente equivalente alla sua.

Il profitto deve essere ingiusto, nel senso che la pretesa non deve avere alcun fondamento giuridico: non integra il delitto di truffa il soggetto, legittimo creditore, che inganna il debitore per ottenere il pagamento del debito.

6. Elemento soggettivo

E’ il dolo generico, che abbraccia le modalità fraudolente che accompagnano l’intenzione di procurarsi un ingiusto profitto con la consapevolezza di ingannare il terzo.

7. Consumazione e tentativo

Trattandosi di reato di evento, la truffa si consuma nel momento di verificazione del profitto e del danno che lo accompagna e dunque, a seconda della concezione seguita, al momento della diminuzione patrimoniale o dell’acquisizione della posizione giuridica di vantaggio.

Sono in ogni caso non condivisibili quelle interpretazioni che ravvisano nella truffa un reato A CONSUMAZIONE PROLUNGATA, dove il momento consumativo è visto nella cessazione dell’attività illecita. Tale tesi non ha fondamento, poiché la protrazione della

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consumazione del reato si ha solo nei reati permanenti, dove è giustificata dal protrarsi dell’offesa, caratteristica estranea al reato di truffa.

Il tentativo è configurabile, trattandosi di condotta scomponibile in sequenze.

Accogliendo la concezione economica, esso si configura tutte le volte in cui non è ancora avvenuta una diminuzione economica; lo spazio per il tentativo diventa molto esiguo nella concezione giuridica, dovendosi considerare consumato il reato ogni volta in cui il soggetto passivo è proiettato in una situazione giuridica sfavorevole. Risulta chiaro il rischio di degradare indebitamente il reato da delitto di danno a delitto di pericolo.

Da precisare che il requisito di astratta idoneità della condotta, non necessario nel caso in cui l’evento si realizzi, dovrà invece essere accertato nell’ipotesi di truffa tentata. Mancando la verificazione dell’evento, infatti, si richiede un maggior coefficiente di offensività nell’attività ingannatoria.

8. Circostanze aggravanti

L’art. 640, 2° c. prevede due circostanze aggravanti speciali che trasformano il regime di procedibilità a querela di parte, rendendolo procedibile d’ufficio; ciò si verifica anche in presenza di qualsiasi circostanza aggravante comune.

La pena è aumentata da 1 a 5 anni se il danno è commesso “a danno dello Stato o di altro ente pubblico”. La ragione sta nel maggior disvalore che assume la lesione fraudolenta degli interessi patrimoniali di istituzioni pubbliche.

La stessa aggravante si applica se il fatto è commesso “col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare”.

La fattispecie, che ha avuto scarsa applicazione, può sovrapporsi al millantato credito se il pretesto ingannatorio è quello della propria influenza sulle autorità competenti. In tal caso si verifica un conflitto apparente tra norme che si risolve in favore del millantato credito, delitto più grave.

Una ulteriore aggravante sussiste “se il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dover eseguire un ordine dell’autorità”. Ordine e timore di un pericolo non devono dipendere dalla volontà o dal fatto dell’agente, altrimenti si ricorre nelle ipotesi di estorsione e concussione.

9. Distinzione da altri reati

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CONCUSSIONE: occorre valorizzare l’elemento dell’abuso dei poteri o delle qualità: se questo è preminente, e se la vittima è consapevole di dare l’indebito, vi sarà concussione; se l’attività ingannatoria è preminente e la vittima è convinta di dare quanto dovuto, si avrà truffa aggravata.

ESTORSIONE: si deve valorizzare l’atteggiamento della vittima: se questo è antagonistico, vorrà dire che è la violenza o minaccia a prevalere, quindi vi sarà estorsione. Le la vittima non è determinata da pressioni, ma è indotta in errore dall’agente, si ha truffa.

CIRCONVENZIONE DI INCAPACE: perchè si abbia questo delitto è necessario che la buona riuscita dell’attività ingannatoria sia dovuta all’inesperienza o debolezza psichica dell’incapace.

4. TRUFFA AGGRAVATA PER IL CONSEGUIMENTO DI EROGAZIONI PUBBLICHE (ART. 640 BIS)

“La pena è della reclusione da 1 a 6 anni e si procede d’ufficio se il fatto di cui all’art. 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, concessi o erogati dallo Stato, altri enti pubblici o Comunità Europee”.

Non c’è tuttavia unanimità di vedute circa la natura giuridica di tale fattispecie: titolo autonomo di reato o circostanza aggravante del delitto base dell’art. 640?

Tra i tanti criteri utilizzati assume maggior rilievo quello che guarda al bene giuridico tutelato: se la nota specializzante comporta solo un approfondimento dell’offesa sul piano quantitativo, si sarebbe in presenza di un elemento circostanziale; se invece dalla specificazione di un elemento della condotta deriva un’autonoma oggettività giuridica tutelata, si è in presenza di un autonomo titolo di reato.

Tali considerazioni hanno portato un recente indirizzo giurisprudenziale ad affermare la natura autonoma del reato di “truffa aggravata”, dove assume rilievo del tutto autonomo quale bene giuridico protetto non solo e non tanto il patrimonio dell’ente pubblico, quanto il complesso delle risorse pubbliche e in particolare la corretta erogazione dei contributi e delle sovvenzioni pubbliche. A ciò si aggiunge la autonoma collocazione della norma, e nello stesso senso andrebbe l’argomento “storico”, ove si sottolinea che la norma, frutto della L. 55/90, deriva da un complesso testo di legge dedicato alla criminalità organizzata, dal che deriverebbe la necessità di garantire una tutela più energica. Da ultimo, viene sottolineata la autonoma determinazione della sanzione.

Tali argomentazioni non sono però sufficienti. Anzitutto l’argomento storico non può incidere sulla problematica che è tecnico-giuridica e non può essere risolta alla luce di considerazioni di politica criminale.

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Nemmeno la determinazione della pena in modo autonomo è determinante, potendosi determinare la pena col modello delle circostanze indipendenti.

Quanto al criterio della diversità bene giuridico, questa non può essere presa a parametro per stabilire la natura accessoria di una norma: non ogni singolo reato ha un autonomo bene tutelato, ma semmai una autonoma specificità di lesione, al pari delle stesse circostanze.

In realtà, la definizione tra elemento circostanziale e fattispecie autonoma riflette una questione di tecnica legislativa percui tutti gli indici a disposizione, e non un singolo criterio isolatamente considerato, devono convergere nella ricerca della volontà legislativa.

Allora, può assumere valore la tesi contraria, sostenuta dalla prevalente dottrina, soprattutto sulla scorta dell’indice formale (la rubrica), delle modalità di descrizione del fatto (definito con rinvio all’art. 640) e del differente regime di procedibilità (d’ufficio): se la truffa aggravata fosse fattispecie autonoma non sarebbe stato necessario indicare espressamente il regime di procedibilità d’ufficio, che è ,l’ordinario regime dei reati, regime che nella truffa, è appunto vincolato alle ipotesi circostanziali.

in ogni caso si auspica un intervento legislativo volto a precisare i confini tra circostanze ed elementi costitutivi.

Una ulteriore figura di frode nelle sovvenzioni è quella commessa a danno del Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e Garanzia (FEOGA), che punisce l’indebito commesso con mera esposizione di dati o notizie falsi, fattispecie a carattere sussidiario rispetto alla truffa aggravata.

10. INSOLVENZA FRAUDOLENTA (art. 641)

1. Cenni introduttivi

“Chiunque, dissimulando il proprio stato d’insolvenza, contrae un’obbligazione col proposito di non adempierla, è punito, a querela della persona offesa, qualora l’obbligazione non sia adempiuta, con la reclusione fino a 2 anni o con la multa fino a 1 milione. – L’adempimento avvenuto prima della condanna estingue il reato”.

E’ una figura satellite della truffa, a cui si affianca nella tutela del bene patrimonio, garantendo, in particolare, la buona fede contrattuale.

La condotta fraudolenta risulta molto più neutra e circoscritta: è la semplice dissimulazione della propria insolvibilità, senza assumere le caratteristiche di artifici e raggiri.

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La distinzione in realtà tende a sfumare, e specie nella giurisprudenza, i margini della fattispecie sono protagonisti di una fluttuazione su due fronti: cedono da un lato, dove guadagna terreno la truffa, e avanzano dal lato opposto, sconfinando nell’area dell’illecito civile.

Sotto il primo profilo, la giurisprudenza, in materia di truffa contrattuale, ravvisa tale delitto a carico del contraente inadempiente limitatosi a tacere la propria insolvibilità durante le trattative o semplicemente a dichiarare di essere in grado di adempiere.

2. Il presupposto di fatto: lo stato di insolvenza

Il disvalore tipico della condotta di insolvenza fraudolenta si riassume nell’aver contrattato in stato di insolvenza. Lo stato di insolvenza è quindi un presupposto di fatto, che indica una situazione effettiva o reale di insolvibilità nel contesto della condotta, da intendersi come obiettiva impossibilità economica di adempiere per il soggetto, e non come mero proposito soggettivo di non adempiere. Tale lettura implica una limitazione del campo di applicazione del delitto ai contratti aventi ad oggetto una prestazione di dare una cosa specifica o cose fungibili, anche se non è del tutto inconcepibile che l’impossibilità di adempiere si verifichi in obbligazioni aventi ad oggetto un fare o non fare (es. caso del tenore che si obbliga a cantare in luoghi diversi nella stessa giornata).

3. La condotta

La condotta ha ad oggetto l’attività di dissimulazione dello stato di insolvenza, in presenza di una obbligazione giuridicamente lecita: restano fuori le obbligazioni naturali e quelle nascenti da fatto illecito.

Tale attività può consistere in un comportamento positivo o negativo, come sempre più la giurisprudenza ammette, affermando che anche il silenzio può avere rilievo quando consiste nel tenere all’oscuro il creditore dello stato di insolvenza, se accompagnato dal preordinato proposito di non adempiere.

Vi sono però delle interpretazioni giurisprudenziali che riducono la fattispecie a coefficienti di tipicità e offensività troppo esigui, annullando oltre al requisito della dissimulazione, anche il necessario rapporto interattivo e l’implicita relazione tra l’apparente solvibilità dell’agente e la decisione del soggetto passivo di stipulare: si ritiene configurato il reato nelle ipotesi in cui l’agente assume un’obbligazione, che poi non adempie, senza necessità di contrattare, come nel caso di non pagamento del pedaggio autostradale (non c’è rapporto tra due soggetti!). Si riduce così la disposizione penale a mero supporto dell’inadempimento contrattuale sanzionato civilmente o dell’illecito amministrativo. Col che il principio di sussidiarietà non è affatto rispettato.

4. Elemento soggettivo: la fraudolenza e il proposito di non adempiere

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Il dolo generico abbraccia la consapevolezza di contrarre una obbligazione dissimulando la propria insolvenza (il fatto di non pagare) o la propria insolvibilità (l’impossibilità di pagare), col proposito di non adempiere. Non si tratta comunque di dolo specifico, in quanto tale proposito non è un fine ulteriore che l’agente si prefigge e che non è necessario si realizzi, ma è invece elemento essenziale del reato, che identifica la lesione del bene protetto e che deve essere dolosamente imputabile al soggetto.

La locuzione esprime la necessità di una particolare intensità del dolo, che può essere solo intenzionale o diretto, ma non eventuale.

Normalmente si ritiene che la volontà di non adempiere, che deve necessariamente sussistere al momento del fatto, possa essere desunta anche dal comportamento successivo al fatto, ma non semplicemente da eventuali difficoltà sopravvenute per l’inadempiente.

5. L’effettivo inadempimento

Un ulteriore elemento costitutivo della fattispecie è l’effettivo inadempimento dell’obbligazione. Si tratta dell’ultima frazione della condotta, della quale costituisce un frammento omissivo, più che integrare l’evento del reato. manca infatti in questo reato un evento inteso come risultato esterno alla condotta. Si parla infatti di reato a condotta frazionata.

Si tratta comunque di un elemento costitutivo e non di mera condizione obiettiva di punibilità (piena affermazione del principio di colpevolezza).

Pertanto, anche tale elemento deve essere ricompreso nel dolo, non essendo sufficiente la prova di aver contrattato col proposito di non adempiere. Qualora l’agente, che pure ha contrattato fraudolentemente, decida poi di adempiere, ma al momento della scadenza gli sia impossibile per caso fortuito o forza maggiore, o anche per sua negligenza, imprudenza, imperizia,, la mancanza di dolo al momento del fatto imporrebbe di non ritenere configurato il reato (così Fiandaca-Musco, contrasto, nel senso che è sufficiente il dolo iniziale, ma non quello concomitante, Mantovani).

6. Consumazione e tentativo

Il mancato adempimento integra il momento consumativo del reato, e deve considerarsi verificato quando il termine per adempiere sia scaduto in base alla disciplina civilistica di riferimento, e non nel momento in cui l’insolvenza si manifesta. Il luogo di commissione del fatto è quello in cui sarebbe dovuto avvenire l’adempimento.

Essendo la condotta frazionabile, è configurabile il tentativo. Ma tale ipotesi, secondo una autorevole opinione (Fiandaca-Musco, Mantovani) sarebbe ammissibile solo in astratto, ma non giuridicamente

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possibile: prevedendo il 2° c. l’adempimento tardivo come causa di estinzione del reato, se si ammettesse il tentativo di contrarre un’obbligazione, questo sarebbe sempre punito, con un’evidente incongruenza.

Tuttavia, si può impostare la questione diversamente: il tentativo non andrebbe inteso come tentativo di contrarre, poiché senza la valida assunzione di un’obbligazione manca un presupposto del reato.

Il tentativo potrebbe configurarsi nel lasso di tempo che separa la fraudolenta contrazione dal termine per l’adempimento, quando il comportamento dell’agente risulta idoneo e diretto in modo non equivoco a non onorare il contratto. Ipotesi ben possibile almeno nelle ipotesi di consegna di cosa infungibile o di facere.

La configurabilità del tentativo non sembra potersi escludere, sotto il profilo della ragionevolezza, dalla non applicabilità della causa estintiva. Nel delitto tentato, se il soggetto comunque adempie, si applicherà la disciplina generale della desistenza volontaria, con effetti, in termini di punibilità, analoghi a quelli della norma del 2° c., art. 641.

7. L’adempimento tardivo

L’art. 614, 2° c. prevede una causa di non punibilità, in base alla quale “l’adempimento avvenuto prima della condanna estingue il reato”, che solo impropriamente è qualificabile come causa di estinzione del reato. Piuttosto, si tratta di una condotta successiva al fatto che reintegra la lesione del bene giuridico offeso.

In giurisprudenza si afferma che è necessario l’integrale adempimento dell’obbligazione, e non si può estendere la norma alle altre cause di estinzione dell’obbligazione (novazione, risoluzione consensuale, ecc.). Si potrebbe tuttavia, ammettere una estensione della causa estintiva anche a queste ipotesi, in quanto frutto di interpretazione analogica in bonam partem.

Anche questo reato è perseguibile a querela; in caso di truffa a tre soggetti, l’unico legittimato è colui che sopporta effettivamente il danno.

11. APPROPRIAZIONE INDEBITA

1. Cenni introduttivi

Nasce come specificazione del delitto di furto: se questo garantisce la proprietà attraverso la tutela del possesso, l’appropriazione indebita difende i diritti del proprietario quando una violazione del possesso non vi

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è stata, perché il bene è già nella sfera possessoria del reo e questo gli permette di far propria la cosa senza sottrarla.

La disposizione punisce con la reclusione fino a 3 anni “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso”.

Si tratta di un contesto privatistico, in cui viene protetto il diritto dal contenuto più rilevante, la proprietà contro il semplice possesso, e che ha come parametro di valutazione lo spostamento patrimoniale, e il conseguente danno al proprietario.

In realtà nella prassi la norma ha subito un processo di trasformazione: è cambiato l’oggetto di valutazione, dalla titolarità del diritto e dal conseguente trasferimento della proprietà della cosa alle modalità della gestione della cosa stessa da parte del possessore. E’ mutato anche il parametro di valutazione, che si è sempre più incentrato sulle “istruzioni” che l’ordinamento civilistico detta, a seconda del contesto, per la gestione.

Inoltre l’appropriazione è passata da “vicenda soggettiva a due” a vicenda a più soggetti, che ha guadagnato evidenza pubblica: si sono assunte a parametro di valutazione le regole sulla gestione del capitale sociale, sul funzionamento degli organi societari, ecc. Spesso si è ritenuta configurata la fattispecie anche nel caso di utilizzo da parte degli amm. di fondi societari per finalità diverse da quelle previste nello statuto. Si è così inteso sopperire alla mancanza nel nostro ordinamento di una fattispecie generale di infedeltà patrimoniale. Ma questa dilatazione ha travalicato i limiti della fattispecie.

E’ mutata anche la costruzione del bene giuridico tutelato, un tempo individuato nel generico diritto di proprietà e oggi identificato nell’interesse di un soggetto diverso dall’autore del fatto, al rispetto dell’originario vincolo di destinazione della cosa, ove l’origine del vincolo sembra però scaturire da qualsiasi fonte, privata o pubblica.

In tal modo, lo stesso oggetto di tutela ha subito una spiritualizzazione.

2. Elemento oggettivo

IL PRESUPPOSTO DELLA APPROPRIAZIONE: IL POSSESSO DELLA COSA

Il possesso della cosa può sussistere a qualsiasi titolo, non solo in base ad un affidamento del proprietario (possesso acquisito a titolo derivativo) ma anche a titolo originario, al di fuori da ogni rapporto col precedente possessore.

Un titolo deve comunque sussistere, non potendo ad es. esservi appropriazione di un bene di provenienza illecita. Se il soggetto, infatti, è già punibile per il modo in cui è venuto in possesso della cosa (furto, rapina, ecc.) il momento dell’appropriazione resta assorbito.

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Secondo l’opinione dominante, è impossibile assumere a parametro la nozione civilistica di possesso, la quale escluderebbe l’appropriazione del depositario, comodatario, locatario, mandatario, ecc., soggetti tutti qualificabili civilisticamente come detentori.

E’ opportuno quindi determinare autonomamente la nozione penalistica di POSSESSO: essa ricomprende qualsiasi situazione in cui vi sia una relazione materiale con la cosa, tanto che questa rientri nella sfera di signoria del soggetto non proprietario, accompagnata dalla coscienza e volontà di tale relazione materiale. Si tratta quindi di un autonomo potere di fatto sulla cosa, sempre che sulla cosa non insista un possesso altrui, il quale non viene meno finchè sussiste una relazione di vigilanza sulla cosa, anche a distanza. Per appropriarsi della cosa nel possesso altrui, occorrerà infrangere tale possesso, commettendo allora furto, rapina, estorsione, figure che escludono l’appropriazione indebita.

LA CONDOTTA

Appropriarsi significa fare propria la cosa altrui di cui si ha il possesso. Tale condotta non è descrivibile in termini puramente naturalistici, in quanto esige una connotazione di intenzionalità: essa esprime un particolare atteggiamento psicologico che anticipa nella tipicità del fatto i connotati peculiari del dolo.

Tradizionalmente si scompone il concetto in due momenti: uno negativo, l’espropriazione, e uno positivo, l’impossessamento vero e proprio. Solo quest’ultimo indica da parte dell’agente la creazione di un rapporto di fatto con la cosa, assumendo rilievo decisivo: solo con esso avviene la c.d. interversione del possesso.

LE FORME DELL’APPROPRIAZIONE

Tra le diverse forme che la condotta appropriativa può assumere vi sono la consumazione del bene, o l’alienazione dello stesso, sintomatiche dell’animus domini.

Quanto alla ritenzione, ipotesi rientrante nella configurabilità del reato mediante omissione, essa per integrare il reato in esame deve manifestarsi in una condotta positiva, come il rifiuto di restituire (es. nascondere l’oggetto, negare di averlo mai ricevuto, restituirne uno diverso e di minor valore…) Altrimenti si corre il rischio di punire il soggetto per la mera intenzione, infrangendo il principio di materialità.

Una delle questioni più problematiche ha interessato l’appropriazione mediante distrazione, ovvero utilizzo della cosa per fini diversi da quelli cui è stata vincolata. Il campo di prova è quello degli abusi degli amministratori nella gestione societaria.

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Sembra corretto ritenere che la condotta di distrazione integri il reato di appropriazione solo quando essa assume una forma tale da significare di fatto una vera e propria appropriazione: ad es. quando si risolva in una attribuzione non momentanea e sia idonea ad arrecare un pregiudizio economico-funzionale al proprietario.

Un caso particolare oggetto di discussione è stato il fido bancario: dopo il riconoscimento in giurisprudenza della natura privatistica dell’attività bancaria – con conseguente inapplicabilità dei reati propri compresi tra i “delitti dei p.u. contro la P.a.” - si è creato un vuoto di tutela, che si è inteso colmare col ricorso all’art. 646. Potrà dirsi integrato tale delitto quando il fido è stato concesso con la consapevolezza non solo dei presupposti per la concessione, ma anche nella consapevolezza che il denaro è concesso “a fondo sicuramente perduto”. Se il concedente affida denaro, sapendo che il fido non potrà essere onorato, in realtà non lo distrae, ma si comporta come se fosse proprio, trasformando il fido in una regalia.

La soluzione più opportuna forse è quella di affiancare la condotta di distrazione a quella di appropriazione, sulla scia di numerosi esempi stranieri.

Facendo ancora leva sulla pregnanza semantica del termine “appropriazione” pare una contraddizione la configurabilità di una mera appropriazione d’uso, temporanea. Tanto più che la norma non contempla, come fa l’art. 626, una ipotesi particolare di furto d’uso.

Ma ciò vale sempre che la cosa, per l’uso, non subisca un apprezzabile diminuzione di valore.

Nei casi concernenti l’uso di cose fungibili, deve condividersi la regola secondo cui non vi è appropriazione finchè si ha l’intenzione di restituire la stessa quantità, sempre che l’intenzione sia accompagnata dalla concreta possibilità di farlo.

OGGETTO DELL’APPROPRIAZIONE

Oggetto sono l’altrui denaro o altra cosa mobile. Tra queste rientra ogni cosa avente un valore intrinseco, anche non patrimoniale, come una lettera o una fotografia personale, ma non le idee.

Il bene oggetto di appropriazione deve essere altrui: è irrilevante l’appropriazione di res nullius o di cose abbandonate (si tratta di un modo di acquisto della proprietà). Caso diverso è invece quello della appropriazione di cosa smarrita, prevista dal seguente art. 647, n.1

La nozione di altruità non coincide con quella civilistica: sono molti i casi in cui si ha semplice violazione di un diritto di credito altrui, e non di proprietà: così nell’appropriazione di cose fungibili o nel caso in cui il bene sia passato in proprietà di un altro soggetto ma sia soggetto ad un preciso vincolo di destinazione cui altri ha interesse.

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3. Elemento soggettivo

Il dolo (generico) consiste nella rappresentazione dell’altruità della cosa e nella volontà di farla propria. L’errore sulla altruità della cosa esclude il dolo; ma non lo stato di dubbio, perché si ritiene configurabile il delitto anche a titolo di dolo eventuale.

Inoltre, l’appropriazione accompagnata dall’intenzione di restituire la cosa, esclude il reato, non essendo appunto configurabile l’appropriazione d’uso.

Un ulteriore dato che serve a tipicizzare la condotta di appropriazione è il dolo specifico, che si concreta nel fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto.

Secondo una prima opinione, il requisito dell’ingiustizia del profitto muoverebbe già sul piano del fatto tipico, quindi su un piano diverso dalle cause di giustificazione: se il profitto non è ingiusto, difetterebbe il dolo specifico.

Secondo altra opinione, invece, esso sarebbe un requisito che caratterizza l’antigiuridicità dell’intero fatto, che ne determina quindi l’illiceità: se il profitto non è ingiusto, ancor prima che non punibile non sarebbe neppure illecito. Secondo tale ricostruzione tale requisito – come elemento di antigiuridicità speciale – si sarebbe anche potuto esprimere con l’avverbio “indebitamente”.

Le conseguenze sul piano processuali sono comunque simili: la formula di proscioglimento sarebbe comunque “perché il fatto non sussiste”, il che però avvalora la prima opinione.

4. Momento consumativo e tentativo

La consumazione si ha nel momento in cui il possessore comincia a possedere per conto proprio (animo domini): tale momento è giuridicamente definito come interversione del possesso.

Difficile configurare il tentativo di appropriazione, perché al momento della manifestazione esteriore dell’animus domini il reato sarebbe già consumato.

5. Perseguibilità a querela; circostanze aggravanti e procedibilità d’ufficio

Il delitto in esame nasce in un contesto privatistico: infatti il reato base è perseguibile solo a querela di parte.

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IL reato diventa però procedibile d’ufficio in presenza della aggravante speciale dell’aver commesso il fatto su cose possedute a titolo di deposito necessario, o della aggravante comune dell’aver commesso il fatto con abuso di autorità e di relazioni domestiche, o di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità.

occorre però ricordare che se la cosa è posseduta per ragioni di ufficio da un soggetto qualificato come p.u. o inc. di p.s., che se ne appropria, darà configurabile il delitto di PECULATO, reato proprio.

6. Le appropriazioni minori

L’art. 647 disciplina i casi di appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o caso fortuito.

Nel caso di cosa avuta per errore deve trattarsi di errore ALTRUI, ossia di chi consegna la cosa: se l’errore è dell’affidatario viene meno il dolo, per errore sul fatto. Inoltre l’errore deve essere spontaneamente insorto, altrimenti si configura il delitto di truffa.

7. Appropriazione indebita e abusi degli amministratori nella gestione sociale: il caso della creazione delle c.d. riserve occulte

Proprio nelle ipotesi di creazione di riserve occulte extrabilancio (c.d. fondi neri) si è avuta la significativa metamorfosi della fattispecie da parte della giurisprudenza, che l’ha dilatata fino a coprire i vuoti di tutela aperti dalla mancanza di una fattispecie di “infedeltà patrimoniale”.

Specie nella esperienza di “Tangentopoli” il fondo occulto era in stretta connessione con altri reati, costituendo il bacino da cui partivano una serie di irrogazioni illecite.

L’opzione per l’applicazione della appropriazione indebita ha suscitato non poche riserve.

Si è detto che un tale atto di gestione non potrebbe concretare una forma di appropriazione in senso tecnico, qualora gli scopi concretamente perseguiti rientrino comunque nell’oggetto sociale.

Inoltre l’uso della disposizione in esame comporterebbe la non considerazione del profilo finalistico che deve connotare la condotta tipica, il dolo specifico del profitto per sé o per altri, dove per altri deve intendersi un soggetto estraneo alla società (ma così non è).

Si richiede una riforma in materia.

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11. USURA

1. Premessa

Il codice Zanardelli non reprimeva il fenomeno usurario, in ossequio al principio della libertà degli interessi.

Il codice Rocco introduce il delitto di usura senza costituirne la fisionomia attorno alla lesione del bene materiale patrimonio, ma incentrandola sulla modalità dell’approfittamento dello stato di bisogno, in un connubio tra valorizzazione della vittima e dimensione etica che prescindeva del tutto dalla materialità della lesione.

In tale sistema, votato alla conservazione dei rapporti economici preesistenti, la fattispecie di usura, concepita in modo così distante dalla realtà criminologica sottostante, apriva il varco a numerosi vuoti di tutela.

La fisionomia della fattispecie, incentrata sull’approfittamento di uno “stato di bisogno”, scontava le difficoltà di un concetto limitato rispetto a quei casi in cui le situazioni di necessità della vittima non riguardassero bisogni di vita ritenuti fondamentali. Ulteriori difficoltà applicative sorgevano anche sotto il profilo dell’accertamento probatorio dell’approfittamento, implicando la prova della necessaria consapevolezza da parte dell’agente dello stato di bisogno della vittima.

Il dilagare delle prassi usurarie, soprattutto nel quadro delle attività delittuose della criminalità organizzata, portava inevitabilmente ad una riforma chiamata a fronteggiare un meccanismo che, in campo imprenditoriale, aveva dirompenti effetti a catena, costringendo il soggetto passivo a cedere l’impresa (spesso attraverso cessione di quote di maggioranza) come contropartita del prestito.

La L. 356/1992 introduce la c.d. usura impropria (art. 644 bis oggi abrogato), la quale apprestava una tutela più pregnante per determinate attività, ma rivelava anche i difetti di una normazione di tipo simbolico – espressivo, risultando potenzialmente efficace non tanto nei confronti delle subculture criminali che si volevano colpire, quanto nei confronti di altri soggetti estranei alla cerchia dei destinatari mirati.

La norma riferiva la condotta di approfittamento non allo stato di bisogno, ma alle “condizioni di difficoltà economica o finanziaria di persona che svolge attività imprenditoriale o professionale”, con una formula assai generica e comprensiva. Veniva inoltre previsto un inasprimento sanzionatorio e inserita una circostanza aggravante per i fatti commessi “nell’esercizio di un’attività professionale o di intermediazione finanziaria”.

La riforma del 1992, comunque indirizzata ad una limitata cerchia di soggetti, non è parsa sufficiente.

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La legge 108/1996 si inquadra in tale contesto normativo, e ridefinisce la fattispecie dell’art. 644 e abolisce l’art. 644 bis., pur senza tralasciarne del tutto l’eredità.

2. La nuova fattispecie di usura

La nuova norma sostituisce il riferimento ad elementi soggettivi come l’approfittamento dello stato di bisogno o delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria col solo rinvio ad una serie di elementi oggettivi, gli “interessi o altri vantaggi usurari” che il soggetto attivo “si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità”.

LA CONDOTTA TIPICA

Nello sforzo di migliorare la determinatezza della fattispecie, la legge riserva ad una fonte normativa di grado inferiore – il decreto ministeriale – la base di identificazione dell’interesse usurario: il c.3°, 1^ parte, stabilisce infatti che “la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari”. Tale limite (art. 2, L 108/1996) è stabilito, con decreto del Ministro del Tesoro, nel tasso medio degli interessi praticati per operazioni di massa della stessa natura dalle banche e dagli intermediari finanziari, aumentato della metà.

Si pone dunque la problematica della possibile interferenza col principio di legalità sotto il profilo della riserva assoluta di legge. In questo caso l’atto normativo di fonte inferiore si pone in chiave di specificazione tecnica di una scelta politica essenziale compiuta pur sempre dalla legge, in base ad un criterio espressamente sintetizzato.

La seconda parte del 3° c. specifica che “Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite (legalmente stabilito) e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per altre operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o altra utilità (…) quando chi li ha dati o promessi si trovi in condizioni di difficoltà economica o finanziaria”.

Vi è quindi una seconda valutazione dell’usurarietà, rimessa questa volta alla determinazione giudiziale, da compiersi sulla base di criteri oggettivi (concrete modalità del fatto e tasso medio praticato per operazioni similari) e soggettivi (condizioni di difficoltà) indicati.

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Si è dunque in presenza di una duplice fattispecie. Nella prima la definizione dell’usurarietà, riferita ai soli interessi, è compiuta dalla legge, la quale sembra prescindere dalle condizioni soggettive della vittima; nella seconda, destinata a ricomprendere le ipotesi di usura reale e tutte le restanti ipotesi di usura non inquadrabili nella prima parte del 3° c., la definizione è lasciata al giudice, chiamato a decidere se la prestazione del soggetto passivo risulti “comunque sproporzionata”, implicitamente affermando che un giudizio di proporzione tra le prestazioni deve comunque costituire il dato comune alle due fattispecie, ovvero il contenuto minimo del delitto di usura. La sproporzione è presunta ex lege nel caso della prima parte del comma 3°.

BENE GIURIDICO TUTELATO

L’originaria formulazione, incentrata sullo stato di bisogno, portava la tesi dominante ad identificare il bene giuridico della tutela del patrimonio della persona offesa; una autorevole tesi sosteneva la natura plurioffensiva del delitto, affiancando agli interessi del soggetto passivo anche l’interesse alla libera determinazione del contratto.

Nell’attuale fattispecie, si deve tenere in considerazione come la seconda parte del 3°c. faccia dipendere il giudizio di sproporzione anche dalla valutazione della situazione soggettiva delle condizioni della vittima. Da qui sembra doversi riaffermare la centralità del patrimonio individuale quale bene giuridico protetto, considerato nella sua dimensione personalistica, come “l’insieme di beni e rapporti idonei ad assolvere una funzione strumentale rispetto all’autorealizzazione e allo sviluppo della persona umana.”

Tale interesse patrimoniale individuale si concreterebbe nell’art. 644 nell’interesse dell’ordinamento a garantire la perequazione delle condizioni cui si vincola un soggetto in stato di difficoltà.

E quindi lo stato di difficoltà un requisito essenziale del disvalore tipico dell’usura, requisito da accertarsi in concreto o presunto ex lege, con tutti i risvolti problematici che tale ricostruzione della fattispecie può comportare, specie con riferimento al principio di offensività. In quest’ultimo caso, infatti (presunzione ex lege), la norma integra la già ampia schiera dei reati di disobbedienza fondati sul mero pericolo presunto.

La previsione della aggravante (n.3 del 5° c.) “se il reato è commesso in danno di chi si trova in stato di bisogno”, indicando una situazione ben più grave rispetto alle “condizioni di difficoltà” testimonia un approfondimento dell’offesa che muove sullo stesso nucleo di disvalore della fattispecie base.

Secondo una diversa posizione, che guadagna consenso in dottrina, le due tipologie di usura non avrebbero lo stesso oggetto di tutela: nella prima assume rilievo la funzione di oggettiva regolamentazione pubblica del credito, mentre nella seconda riacquista valore la tutela individualistica del soggetto in posizione di debolezza e inferiorità.

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CONSIDERAZIONI DI POLITICA CRIMINALE

La critica più incisiva alla scelta di predeterminare legalmente la definizione del tasso usurario è quella che sottolinea il rischio di un effetto-boomerang: il limite rigido previsto dalla legge svolge una funzione deterrente solo nei confronti degli operatori istituzionali, che non potendo più bilanciare con un più alto tasso di interesse il rischio di finanziamenti scarsamente garantiti a soggetti in difficoltà, preferiscono rifiutare la concessione del credito. Tali soggetti saranno allora costretti a ricercare fonti di credito alternative, tra le quali l’usura risulterà l’opzione più probabile.

Una tale impostazione rivela anche la generale tendenza del sistema penale ad allontanarsi sempre più da condotte individuali, caratteristiche delle classi non borghesi, e ad interessarsi in primo luogo dei soggetti interni al sistema economico sociale, se non addirittura dei protagonisti assoluti dello scambio, delle attività economicamente centrali.

Il riferimento del 4° c. alle “commissioni, spese, remunerazioni…” da tenersi in considerazione per la determinazione dell’interesse, tradisce infatti il principale obiettivo del legislatore, ossia il mercato finanziario, ma non certo il mercato usurario clandestino.

Degna di rilievo appare l’istituzione, sempre ad opera della L. 108/1996, del Fondi di solidarietà per le vittime per l’usura e del Fondo di prevenzione del fenomeno dell’usura, che appaiono come una risposta all’inadeguatezza del sistema creditizio, ove a volte è lo stesso sistema legale a procurare nuove vittime agli usurai.

NATURA E MODALITA’ DELLA CONDOTTA

L’usura è reato a concorso necessario (o necessariamente plurisoggettivo) improprio, cioè in cui la punibilità è prevista solo per la condotta del soggetto attivo: diffusa è anche la ricomprensione dell’usura tra i delitti con cooperazione artificiosa della vittima.

Le modalità esecutive della condotta tipica consistono nel “dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, interessi o altri vantaggi usurari, in corrispettivo di danaro o altra utilità”.

La nuova fattispecie comprende quindi non solo l’usura pecuniaria, ma anche quella reale, estendendo la prestazione del soggetto attivo ad “ogni altra utilità”, che include non solo cose mobili o immobili, ma anche ogni prestazione professionale suscettibile di valutazione economica. L’usura reale assumerà rilevanza penale solo se il soggetto versi in condizioni di difficoltà essendo inapplicabile il criterio del tasso fisso.

Una conferma della necessaria sussistenza di uno stato di difficoltà come contenuto minimo del delitto di usura sembra doversi desumere dalla locuzione “si fa dare o promettere” riferita all’agente, che pare esprimere un quid pluris rispetto alla mera “ricezione” o “accettazione”

Ulteriore requisito per poter classificare gli interessi o vantaggi come usurari, le contrapposte prestazioni devono essere in rapporto di oggettiva sproporzione, requisito che assume decisiva importanza nei casi di usura reale, in cui il giudice avrà un notevole coefficiente di discrezionalità.

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Devono sussistere al momento dell’accordo usurario anche le condizioni di difficoltà economica o finanziaria; non occorre una situazione di complessivo dissesto (crisi c.d. economica), ma è sufficiente accertare la presenza anche momentanea di crisi di liquidità (difficoltà finanziaria).

3. Elemento psicologico

La norma richiede il dolo, che dovrà abbracciare tutti gli elementi della fattispecie. In primo luogo l’elemento normativo interesse (o vantaggio o compenso) usurario. Quando la definizione dell’usurarietà è rimandata alla legge, il dolo presupporrà la conoscenza del decreto ministeriale. Un eventuale errore su di esso (errore di diritto) potrà assumere rilevanza scusante solo se inevitabile (sent. cost. 364/1988). Tuttavia, qualora l’erronea interpretazione determini un errore sul fatto di reato, il dolo è escluso ex art. 47, 3°c.: ad es. quando si applichi all’operazione un tasso legale per operazioni diverse, ma illegale (usurario) per l’operazione in questione erroneamente classificata.

Il dolo abbraccia, ove la definizione dell’usurarietà è affidata ad elementi fattuali, anche le condizioni di difficoltà della vittima (anche nella forma del dolo eventuale) e le modalità usurarie dell’accordo, così come la sproporzione che deve caratterizzare il sinallagma contrattuale.

d) Momento consumativo e tentativo

La dazione identifica l’offesa sotto il profilo della lesione dell’interesse protetto, mentre la promessa integra la messa in pericolo dello stesso.

Si è argomentato, sulla base di tali rilievi, al fine di escludere la configurabilità del tentativo, sostenendo che si punirebbe il pericolo di un pericolo. Ma appare preferibile la soluzione che lo ammette, in presenza della realizzazione di atti idonei e univoci ad ottenere l’obbligazione del soggetto passivo.

Il momento consumativo, in base all’art. 644 ter, si ha nel “giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale”. In tal modo sembra delinearsi un delitto eventualmente permanente, in cui si verifica una scissione tra consumazione formale (o perfezione) e consumazione sostanziale. A ritenere diversamente, come avveniva in passato, potrebbe accadere che la prescrizione maturi quando ancora la vittima resta vincolata alla restituzione degli interessi o del capitale.

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5. Circostanze aggravanti

Diverse sono le circostanze aggravanti ad effetto speciale, che comportano un aumento di pena da 1/3 alla metà:

1. “se il colpevole ha agito nell’esercizio di un’attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria mobiliare”;

2. se il colpevole ha richiesto in garanzia partecipazioni o quote societarie o aziendali o proprietà immobiliari;

3. se la vittima versa in stato di bisogno;

4. se il reato è commesso in danno di chi svolge attività imprenditoriale, professionale o artigianale;

5. se il reato è commesso da persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale (pensata con riferimento agli indagati di appartenenza alla criminalità organizzata, specie di stampo mafioso).

f) Concorso di reati

E’ ricorrente nella prassi l’ipotesi per cui in corso di esecuzione intervengano accordi ulteriori tra le parti. Qualora si tratti di semplice rinnovo o proroga, si tratterà di reato unico; se all’accordo segue invece un aggravio degli oneri per la vittima, l’accordo stesso avrà autonoma rilevanza penale.

Assume particolare importanza la autonoma fattispecie del 2°c., la mediazione usuraria, di chi “procura a taluno una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario”. Gli eventuali negozi di prestito possono di per sé anche essere leciti.

Detta ipotesi si applica solo in via residuale, al di fuori dei casi di concorso nel delitto di usura: se il mediatore è consapevole del carattere usurario dell’accordo da lui procurato, egli risponderà a titolo di concorso in usura propria, restando escluso il concorso tra i due reati.

Da ricordare che il delitto di usura opera in via sussidiaria rispetto al più grave delitto di “Circonvenzione di persone incapaci” in forza della espressa clausola di sussidiarietà del 1°c.

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Se il delitto di usura è alimentato da conferimenti di denaro derivanti da altre attività delittuose, concorre col delitto di RICICLAGGIO, salvo il caso di concorso nel reato associativo.

Se il soggetto attivo ricorre a violenza o minaccia per ottenere le corresponsioni vi sarà concorso coi reati di RAPINA o ESTORSIONE.

8. Confisca obbligatoria e pena accessoria

La nuova legge ha introdotto la misura della confisca obbligatoria non solo per i beni che costituiscono il prezzo del reato, ma anche per i beni che ne costituiscono il profitto nonché per “somme di denaro, beni ed utilità di cui il reo ha la disponibilità anche per interposta persona per un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari”, rendendo così superflua la prova sulla provenienza di tali beni.

E’ prevista anche la pena accessoria della incapacità di contrattare con la P.a. se il reato è commesso in danno o in vantaggio di una attività imprenditoriale o comunque in relazione ad essa.

11. RICETTAZIONE (art. 648)

E’ il fatto di chi, “fuori dai casi di concorso nel reato, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un delitto o, comunque, si intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare”. La pena è della reclusione da 2 a 8 anni, e della multa da 1 a 20 milioni.

1. Ratio dell’incriminazione bene giuridico tutelato

Alla luce della considerazione della natura “accessoria” della ricettazione rispetto ad un qualsiasi delitto, va ricercata la ratio di tale fattispecie, anche al fine di individuare il bene giuridico tutelato.

Secondo un’impostazione tradizionale, scopo della norma sarebbe quello di impedire che con la circolazione del bene frutto dell’attività illecita avvenga una ulteriore lesione del patrimonio (oggetto di tutela) attraverso

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comportamenti che possono rendere difficile il recupero del bene illegittimamente sottratto al patrimonio stesso.

In un’ottica differente, l’allontanamento del bene dalle mani del reo avrebbe come ulteriore conseguenza la complicazione dell’attività giudiziaria nell’accertamento dei reati e nella punizione dei colpevoli. Anche recentemente si è individuato l’interesse tutelato nella amministrazione della giustizia. La critica a questa impostazione rileva come proprio la circolazione del bene, rendendo più visibili ed individuabili i beni oggetto dell’attività delittuosa, possa facilitare la persecuzione dei reati-presupposto.

Si è inoltre ricercata la ratio della norma nell’esigenza di disincentivare la commissione dei reati-presupposto, impedendo che l’autore fosse rassicurato dalla prospettiva di assicurarsi l’utilità dell’attività delittuosa.

In realtà, non si può negare la molteplicità degli interessi che vengono in rilievo.

Tuttavia, nel solco dell’impostazione tradizionale, si è mossa una recente tesi, che partendo da una ricostruzione del bene patrimonio in chiave dinamica come complesso dei beni e dei rapporti utili ai fini dello sviluppo della persona, che presentino un contenuto economico, individua l’oggetto giuridico tutelato dalle fattispecie di ricettazione, riciclaggio, impiego di capitali illeciti, nel patrimonio come protezione della parità di condizioni del mercato e del regolare svolgimento dei mercati. Tale tesi sembra meritevole di considerazione: una ricostruzione della norma nel suo peculiare aspetto di fattispecie tesa ad evitare che attività delittuose possano essere fonti di successivi profitti, illeciti perché sorti in quelle condizioni di disparità proprie del contesto illegale.

D’altronde, il profilo patrimoniale è posto in risalto anche dal dolo specifico che deve connotare l’intenzione dell’agente, il quale scandisce la differenza tra tale fattispecie e il favoreggiamento personale, delitto che mira alla tutela della amministrazione della giustizia.

E’ da sottolineare come la ratio originaria consistente nell’impedire al reo di lucrare il profitto dell’attività delittuosa offrendo ad altri un’occasione di profitto, è sfumata sempre più verso una utilizzazione strumentale della fattispecie per reprimere indirettamente fatti di cui si sospetta lo stesso ricettatore, presunto autore del reato presupposto. Cosicchè la scelta sanzionatoria, varia al variare della consistenza del sospetto in capo al ricettatore circa la commissione del reato base.

Col che, indebitamente, riacquista rilievo la funzione di tutela dell’amm. della giustizia e di controllo della diffusione della criminalità, pur insita nella norma.

2. Soggetto attivo

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La ricettazione è reato COMUNE. Tuttavia, oltre all’autore del reato presupposto, per cui lo sfruttamento della cosa rappresenta la normale prosecuzione della condotta criminosa, per espressa previsione legislativa, riassunta nella clausola di riserva “fuori dei casi di concorso nel reato” restano esclusi anche i compartecipi nel reato base. In proposito, l’identificazione del momento in cui si garantisce all’autore la disponibilità a ricettare il bene proveniente dal reato, è sì rilevante, ma non decisivo, dovendosi verificare se un tale contributo sia stato idoneo ad istigare o rafforzare l’altrui proposito criminoso.

Dai possibili soggetti attivi vanno altresì esclusi il danneggiato da reato e anche l’eventuale proprietario non possessore, i quali, riacquistando la cosa direttamente o indirettamente posseduta, esercitano un proprio diritto.

3. La condotta tipica

Le condotte tipiche sono quelle di chi “acquista, riceve o occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette per farle acquistare, ricevere o occultare”. Nei primi tre casi si tratta di ricettazione vera e propria, nel secondo si parla di ricettazione per intermediazione.

SINGOLE CONDOTTE DI RICETTAZIONE

Si ha ricettazione per acquisto in tutti i casi di trasferimento del possesso del bene uti dominus, per effetto di un qualsiasi accordo negoziale.

Si ha ricezione con il conseguimento della disponibilità materiale della cosa, anche temporanea, non uti dominus, qualificabile come detenzione, e necessariamente accompagnata dalla consegna materiale della cosa.

L’occultamento, presupponendo sempre una precedente ricezione, secondo alcuni risulterebbe nozione pleonastica, secondo altri segnalerebbe la rilevanza attribuita dalla norma all’interesse per l’amministrazione della giustizia.

Il dato materiale della condotta di acquisto, ricezione o occultamento non basta comunque a configurare il delitto in esame, occorrendo un atteggiamento psicologico dell’agente al momento dell’acquisto, potendosi accertare solo in quel momento se la condotta integra una diversa fattispecie.

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Nella ricettazione per intermediazione il legislatore punisce autonomamente quei comportamenti di mediazione tesi a procacciare la ricettazione vera e propria a prescindere dall’esito positivo degli stessi. ne risulta una marcata anticipazione della tutela, ed una manifesta disparità di trattamento per il ricettatore indiretto, punito a titolo di delitto consumato in relazione ad una condotta che altrimenti avrebbe integrato, eventualmente, solo gli estremi del delitto tentato.

OGGETTO MATERIALE DELLA CONDOTTA

Oggetto materiale della condotta è “denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto”. Al concetto di “cosa” non sono riconducibili le semplici utilità, come un servizio prestato con la cosa proveniente da delitto.

La dottrina tende per lo più ad escludere che nel medesimo concetto possano rientrare i beni immobili per i quali, non essendo trasferibili clandestinamente, non vi sarebbe la ratio di tutela dell’efficace perseguimento del delitto presupposto e del recupero del bene.

Ma, in base alla ricostruzione qui accolta dell’oggettività giuridica tutelata, anche la ricettazione di immobili sembra presentare una incidenza lesiva.

IL CONCETTO DI PROVENIENZA DA DELITTO

La ricettazione presuppone appunto un delitto base precedentemente commesso. Deve trattarsi di delitto (non contravvenzione) previsto come tale dalla legge italiana, anche s e commesso all’estero. Non occorre invece che si tratti di delitto contro il patrimonio.

Il concetto di cose provenienti da delitto può essere inteso in senso estensivo o restrittivo.

Non sembra condivisibile un’interpretazione comprensiva di “tutto quello che si ricollega al fatto criminoso”, comprese gli strumenti o cose che servirono a commettere il fatto. La giurisprudenza sembra orientata ad una soluzione intermedia, che interpreta il concetto sino a farvi rientrare non solo le cose che furono prodotto o profitto del reato, ma anche quelle che ne furono il prezzo, ossia acquistate col denaro di provenienza delittuosa o conseguito dall’alienazione di cose della medesima provenienza, ammettendo così la c.d. ricettazione dell’equivalente.

Tale interpretazione non sembra però accoglibile, perché rischia di svilire il nesso di provenienza necessario che la lettera della legge impone tra la cosa e il delitto.

Diverso è il caso ove la stessa cosa proveniente da delitto pervenga in via mediata al ricettatore, da un soggetto diverso dall’autore del reato base: è il caso della ricettazione indiretta, generalmente ammessa sia in dottrina che in giurisprudenza.

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Non è integrato il requisito della provenienza delittuosa (a pena di una analogia in malam partem) ove nella condotta del delitto base non vi sia un trasferimento di titolarità da un soggetto ad un altro, trasferimento che deve essere già avvenuto ed esaurito in una autonoma vicenda illecita, a seguito della quale la cosa possa dirsi “provenuta” nella sfera del soggetto che poi la cede. A questo passaggio di titolarità non corrisponde necessariamente un passaggio di possesso, perché non esclude la provenienza da delitto il fatto che l’autore del delitto presupposto possedesse già la cosa (es. delitto di appropriazione indebita).

Il rapporto tra ricettazione e reato presupposto, sintetizzato nel concetto di provenienza non sempre è scandito da una rigorosa consequenzialità cronologica, ma a volte può essere identificato solo in base ad una valutazione logica: in talune ipotesi può aversi infatti una sovrapposizione tra il momento consumativo del delitto presupposto e quello della ricettazione (es. se il garagista si appropria della macchina lasciata in deposito dal cliente, vendendola a terzi consapevole dell’altruità della cosa, il momento della vendita è momento consumativo sia della appropriazione indebita che della ricettazione. Tuttavia, si configura ugualmente ricettazione, e non concorso nel delitto presupposto, almeno tute le volte in cui l’acquirente si sia limitato ad accettare l’offerta, a margine di un proposito criminoso già consolidato nel primo soggetto.

Circa l’ACCERTAMENTO DEL DELITTO PRESUPPOSTO, è sufficiente che la prova risulti con certezza dagli atti del processo, non essendo necessario che essa derivi da sentenza passata in giudicato.

E’ necessario, inoltre, che del delitto siano accertati gli elementi oggettivi e soggettivi del fatto tipico, così come la antigiuridicità dello stesso; non anche la colpevolezza e la punibilità, dato che il 3° c. dell’art. 648 dispone che le disposizioni si applicano anche quando l’autore del reato presupposto non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità con riferimento a tale delitto.

Per espressa menzione legislativa la ricettazione è configurabile anche quando manchi una condizione di procedibilità (la querela della persona offesa) e qualora il reato presupposto, successivamente al fatto di ricettazione, sia colpito da causa di estinzione; soluzione analoga deve accogliersi ove per la punibilità del reato sia richiesta la verificazione di una condizione obiettiva.

Non si configura ricettazione quando il reato base viene abrogato per effetto di legge successiva o di una pronuncia di illegittimità costituzionale. o il reato sia colpito da causa di estinzione prima del fatto di ricettazione.

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4. L’elemento psicologico

IL DOLO GENERICO

Comprende la coscienza e volontà di acquistare, ricevere o occultare beni provenienti da delitto (o fare da mediatore).

L’imputazione dolosa presuppone la conoscenza dell’illiceità penale del fatto presupposto, per cui un eventuale errore su di essa esclude il dolo ex art. 47, 3°c.

Lo stato di dubbio, tipico del dolo eventuale, circa la provenienza delittuosa dei beni, dovrebbe esulare dalla fattispecie in questione, collocando il fatto nella previsione dell’art. 712 (Contravvenzione dell’Acquisto di cose di sospetta provenienza), che pare destinato a coprire l’area esterna al dolo diretto. Infatti, un dubbio rispetto al passato equivale all’ignoranza, a mancanza di conoscenza di ciò che è stato.

IL DOLO SPECIFICO

Il soggetto deve inoltre agire col fine di procurare a sé o ad altri un profitto: proprio tale dolo specifico permette di differenziare ricettazione e favoreggiamento reale, dove il fine è quello di assicurare il profitto, il prezzo o il prodotto del reato all’autore dello stesso.

5. Momento consumativo e tentativo

La ricettazione è reato istantaneo con effetti permanenti e si consuma quindi nell’atto della ricezione della cosa proveniente da delitto.

Il tentativo è configurabile, fuori dei casi di intermediazione, nell’atto di chi si dispone in modo inequivoco ad ottenere o occultare il bene.

6. Concorso di norme e di reati

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Il limite che separa l’art. 648 dalla contravvenzione dell’incauto acquisto (art. 712) è il requisito della consapevolezza o meno della provenienza delittuosa del bene. Si configura il reato di cui all’art. 712 in caso di dolo eventuale o colpa.

Anche nei confronti del favoreggiamento reale l’elemento differenziale è il dolo specifico. In caso di sovrapposizione delle diverse finalità si configurerà la ricettazione, stante la clausola di sussidiarietà espressa che limita il favoreggiamento.

Viene costantemente ravvisato il concorso tra ricettazione e il reato di “commercio di prodotti con segni falsi”, così come i reati previsti a tutela dei diritti d’autore.

7. Ipotesi attenuata e confisca obbligatoria

Il 2° comma prevede una circostanza attenuante se il fatto è di particolare tenuità. La giurisprudenza prevalente la giudica compatibile con l’attenuante generale del danno patrimoniale di speciale tenuità, in forza della valutazione più ampia che la prima implicherebbe.

Inoltre, in base alla L 356/1992, nei casi di condanna (o patteggiamento) per una serie di delitti tra cui ricettazione, riciclaggio e impiego di capitali illeciti, è sempre disposta la confisca del denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, comunque, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica.

Si tratta, in sostanza, di una vera e propria misura di prevenzione, carica di effetti gravosi ed emblematica di un diritto penale del sospetto e non del fatto.

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11. RICICLAGGIO (art. 648 bis)

1. Premessa storica

Introdotta nel codice nel 1978, sotto il diverso nomen iuris di “Sostituzione di denaro o valori provenienti da rapina aggravata, estorsione aggravata o sequestro a scopo di estorsione”, tale incriminazione presentava una struttura più circoscritta sotto il profilo della tipicità e meno sotto il profilo della offensività. Essa puniva infatti il mero compimento di “atti diretti a sostituire…”, così anticipando l soglia della punibilità ad uno stadio preparatorio dell’attività principale.

La limitazione del novero dei delitti è stata successivamente integrata dalla L. 55/1990 dai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti.

Con una tale formulazione, il reato in esame era stato allestito più come strumento di lotta ai reati presupposto più che contro il fatto di riciclaggio in sé.

Tale struttura subisce già con la L. 55/1990 una radicale modifica, che sposta la condotta tipica dalla consumazione anticipata alla vera e propria sostituzione del denaro o valori (configurando un reato di evento), cui si affianca la nuova condotta della “ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa degli stessi beni”.

Una ulteriore e fondamentale modifica avviene con la L. 328/1993, che ratifica la Convenzione di Strasburgo del 1990, e con la quale viene meno la limitazione del riciclaggio ad una cerchia limitata di reati base, potendo i beni o altre utilità provenite da qualsiasi delitto non colposo.

Le ripetute vicende legislative dimostrano come si tratti di un fenomeno di crescente considerazione, che ha assunto negli ultimi anni proporzioni spaventose, interessando peraltro, quasi sempre, attività tipiche della criminalità organizzata.

Esso, anzi, rappresenta il volto economico delle associazioni criminali, e si potrebbe pertanto, attraverso la ricostruzione del c.d. paper trail (la pista di carta che conduce dal bene “travestito” attraverso tutte le operazioni di “lavaggio” sino alla originaria provenienza criminosa) arrivare sino ai vertici delle organizzazioni criminali.

Tuttavia, la normativa volta alla repressione del riciclaggio, e del reimpiego, sembra, allo stato attuale, presentare un gravissimo deficit di effettività.

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Si è giunti per questo ad avvalorare strategie di tutela di tipo preventivo. La direttiva CEE del 1991 ha infatti imposto ai singoli ordinamenti di diversificare la lotta al riciclaggio in chiave preventiva, mediante il coinvolgimento di soggetti istituzionali come enti creditizi e finanziari. Tale direttiva è stata recepita dalla L. 197/1991.

2. Bene giuridico

A fronte delle numerose modifiche normative non è agevole individuare quale sia il bene giuridico protetto, che a parere dei più sarebbe di natura plurioffensiva.

Secondo alcuni la collocazione del delitto tra i delitti contro il patrimonio sarebbe inopportuna, essendo prevalente sul piano della tutela l’amministrazione della giustizia.

Tale prospettiva di tutela sicuramente appartiene all’art. 648 bis, quanto meno nella prima fase delle attività tipiche di riciclaggio, il c.d. lavaggio del denaro.

Tale aspetto era ancor più valorizzato nella precedente formulazione; tuttavia, proprio l’estensione della categoria dei reati presupposto ad ogni delitto non colposo suggerisce una riconsiderazione della natura economica dell’offesa, poiché pone in rilievo il dato che ogni operazione economica attivata in un contesto illecito fruisce di condizioni di legalità alterate che si ripercuotono sull’andamento della concorrenza e del mercato.

Specie le condotte tipiche della seconda fase del riciclaggio (c.d. recycling), garantendo una circolazione o accumulo di capitali a prezzi particolarmente bassi, consentono all’autore condizioni molto più favorevoli rispetto a chi si serve di capitali lecitamente accumulati, ledendo in definitiva, il patrimonio, nella sua dimensione individualistica.

3. Soggetto attivo

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Il riciclaggio è reato COMUNE, sempre fuori dai casi di concorso.

Come per la ricettazione, anche per il riciclaggio il tradizionale criterio temporale cui si fa riferimento per distinguerlo dalle ipotesi di concorso nel reato base potrà avere solo valore indicativo, configurandosi il concorso quando l’accordo per riciclare (o reimpiegare – art. 648 ter) sia intervenuto prima ella commissione del reato.

4. Condotta tipica

SINGOLE CONDOTTE DI RICICLAGGIO

La condotta tipica, strutturata secondo il modello del reato di DANNO, presenta una triplice modalità di commissione: la sostituzione, il trasferimento (di beni o utilità) o il compimento si qualsiasi altra operazione, in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa.

La sostituzione si compone di due fasi distinte, la ricezione dei proventi (di per sé già idonea ad integrare il delitto di ricettazione) e l’effettiva sostituzione degli stessi con denaro, altri beni o altre utilità “puliti”.

LA condotta di trasferimento sembra identificare un passaggio dell’oggetto del reato dalla disponibilità di un soggetto a quella di un altro soggetto, venendo in rilievo l’attività di chi si interpone nella catena di successivi passaggi che culmine nella sostituzione del bene e nel definitivo reimpiego del denaro pulito.

Il compimento di qualsiasi altra operazione, in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa, si pone in rapporto di genere a specie rispetto alle altre due, più specifiche, operazioni di sostituzione e trasferimento. Essa opera quindi come clausola di chiusura che pone non pochi problemi di tassatività e determinatezza, il che stride con gli alti livelli sanzionatori (da 4 a 12 anni di reclusione e la multa).

Il nucleo della condotta esprime la necessaria verificazione di un ostacolo e non la semplice finalità di intralcio: un tale elemento, evento del reato, va considerato requisito comune a tutte le tipologie di condotte.

Il concetto dell’OSTACOLARE non può essere semplicemente ricondotto allo svolgimento di attività investigative, in presenza delle quali qualsiasi comportamento che interferisca potrebbe essere definito di ostacolo, ma implica un’attività che incida materialmente o giuridicamente sul bene stesso (es. sostituzione della targa o manomissione del telaio di un’automobile).

OGGETTO DEL REATO

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Oggetto possono essere denaro, beni o altre utilità: si è così voluto espressamente allargare la tipologia di operazioni da quelle che interessavano solo “beni o valori” nell’originario 648 bis, facendovi rientrare ogni altra entità economicamente valutabile (es. diritti di credito).

Dalla ratio della norma discende che la condotta non può essere estesa fino a ricomprendere anche il prezzo del reato, cioè ogni ricompensa avuta dal colpevole o a lui promessa per commettere il reato.

IL CONCETTO DI PROVENIENZA DAL REATO

E’ requisito comune al reato di ricettazione, ma qui implica un rapporto ancora più stretto tra i beni riciclati ed il reato da cui provengono.

Così, pur ammessa in dottrina e giurisprudenza, dovrebbe escludersi l’ammissibilità del c.d. riciclaggio indiretto, anche perché sarebbero applicabili le norme di cui all’art. 648 ter.

Si deve convenire con la tesi che interpreta il requisito in senso restrittivo, ritenendo possibile considerare “proventi del reato” solo i beni che siano pervenuto nel patrimonio dell’autore attraverso la commissione del reato presupposto, non invece acquisiti prima del reato, attraverso attività lecite, e poi, eventualmente, oggetto di un delitto (es. somma accantonata in un c.d. fondo nero). Nella seconda ipotesi non sembra identificabile sul piano logico quel passaggio di titolarità che esprime il significato di “provenienza delittuosa”.

5. Elemento soggettivo

Il riciclaggio è reato doloso, e presuppone la volontaria esecuzione di una delle operazioni tipiche con la consapevolezza della provenienza (generica) da delitto non colposo del bene riciclato.

Nel nostro sistema non è quindi punibile il riciclaggio colposo. Tuttavia, la L. 197/1991 ha stabilito una serie di obblighi specifici per gli operatori bancari, sanzionati penalmente e persino l’obbligo di denuncia di operazioni sospette, la cui violazione dà luogo a sanzione pecuniaria amm. Tali obblighi sono stati estesi

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anche ad altre categorie “a rischio riciclaggio”. Queste violazioni, in sostanza, tendono a punire appunto, il r. colposo, costruite in termini di sanzioni per l’omissione dolosa di obblighi di diligenza.

La prova della necessaria rappresentazione circa la provenienza delittuosa sembra soddisfatta quando gli indizi siano così gravi ed univoci da autorizzare la logica conclusione della certezza circa la provenienza delittuosa.

Si esclude lo stato di dubbio, tipico del dolo eventuale, che potrà eventualmente integrare la contravvenzione di cui all’art. 712.

6. Consumazione e tentativo

La consumazione si ha quando alla condotta di trasferimento, sostituzione o altra operazione segue il verificarsi di un effettivo occultamento della provenienza illecita.

Tutte le attività che non raggiungano tale scopo, se idonee e univoche, integreranno il tentativo.

7. Concorso di norme

L’art. 648 bis, pur essendo suddiviso in 3 condotte, configura una norma unica a più fattispecie, il che esclude l’ipotizzabilità di un concorso tra le varie ipotesi.

Nei confronti dell’art. 648 ter (reimpiego) il concorso formale con ricettazione e riciclaggio è espressamente escluso da una clausola di riserva espressa, che ne ammette l’applicazione solo fuori dai casi previsti dagli artt. 648 e 648 bis.

La configurabilità di una di queste tre norme esclude l’applicazione del favoreggiamento reale.

Tuttavia una tale clausola di riserva manca nel delitto di ricettazione, cosicchè può darsi l’ipotesi che una stessa condotta, come la ricezione del denaro, implicita nella condotta di riciclaggio, integri anche il delitto di ricettazione – alla sola presenza del fine di profitto – dando adito ad un concorso irragionevole.

La differenza con la ricettazione (oltre al dolo specifico) sta nel fatto che in quest’ultima l’attenzione è rivolta all’uscita dei beni dal patrimonio dell’autore del reato base; con l’art. 648 bis. l’attenzione è rivolta al successivo ritorno di tali beni, come passaggio necessario perché la ricchezza possa essere immessa nel circuito economico.

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Così la disponibilità della cose da parte del reo rappresenta solo il presupposto del reato di riciclaggio, punibile a titolo di tentativo, sempre che vi siano i requisiti della idoneità e univocità. Se tali requisiti mancano, si avrà ricettazione o favoreggiamento.

L’art. 12 quinquies della L 356/1992 punisce il trasferimento fraudolento di valori, con una norma che non fa altro che dare rilievo ad una condotta (trasferire fittiziamente un bene al fine di agevolare il riciclaggio) che di per sé è già riciclaggio. Il suo spazio di operatività è quindi ristretto ai casi in cui l’attribuzione fittizia è commessa dall’autore del reato presupposto, che non è punibile per riciclaggio, e ai casi in cui l’operazione ha ad oggetto denaro, beni o altre utilità dei quali non sia provata la provenienza delittuosa.

8. Circostanze

E’ previsto un aumento di pena quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale.

La pena è diminuita se i proventi illeciti derivano da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a 5 anni. (Criterio alquanto discutibile sul piano criminologico).

9. Profili sanzionatori

Sotto il profilo della punibilità si rinvia all’u.c. dell’art. 648, in cui si dispone che la norma si applica anche quando l’autore del delitto presupposto non sia punibile o imputabile, o quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto.

E’ inoltre prevista una speciale causa di non punibilità per soggetti qualificati appartenenti alla polizia giudiziaria i quali, al solo fine di acquisire elementi di prova, procedono alla sostituzione di denaro, beni o altre utilità provenienti da taluno dei delitti di cui agli artt. 648 bis e ter.

E’ prevista inoltre la confisca dei beni o altre utilità a carico di chi, già condannato per taluni reati tra cui gli artt. 648, 648 bis e ter, e avendo la titolarità o disponibilità dei beni stessi, non sia in grado di giustificarne la provenienza in presenza di una notevole sperequazione tra reddito ed effettive disponibilità economiche.

Forti dubbi di costituzionalità sussistono su tale misura, che più che “di sicurezza” appare “misura di prevenzione”.

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11. IMPIEGO DI DENARO BENI O UTILITA’ DI PROVENIENZA ILLECITA (ART. 648 TER)

1. Premessa

E’ il fatto di chiunque “fuori dai casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli artt. 648 e 648 bis, impiega in attività economiche e finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto.

Si è inteso in tal modo assicurare una forma di tutela anche nella fase terminale delle operazioni di recycling.

La norma, introdotta dalla L. 55/90 ha subito un’evoluzione analoga a quella dell’art. 648 bis: è stata estesa con la modifica del 1993, fino a ricomprendere l’impiego di beni provenienti da qualsiasi delitto, anche colposo.

L’oggetto giuridico tutelato è anche qui il patrimonio, nella sua accezione dinamica, come complesso delle potenzialità economiche di un soggetto, garantire solo da un corretto svolgimento del gioco della concorrenza.

Stante la triplice clausola di sussidiarietà, la norma opera solo se si tratta di operazioni compiute senza ricezione di beni, o senza lo specifico dolo di profitto tipico della ricettazione; occorre poi che tali operazioni non siano idonee ad ostacolare la identificazione della provenienza delittuosa o che siano operazioni di riciclaggio compiute su beni provenienti da delitto colposo.

Si tratta quindi di norma di scarsa effettività, tipica di una normazione simbolico-espressiva.

2. Condotta tipica, elemento soggettivo, circostanze

La condotta tipica è incentrata sul concetto di “impiego in attività economiche o finanziarie”, e non è certo rispettosa dei requisiti di tassatività e determinatezza.

Il concetto di impiego può essere interpretato in senso estensivo, comprendente di qualunque uso dei proventi illeciti; o in senso restrittivo, preferibile, secondo cui impiego equivale al concetto di investimenti, intrinsecamente caratterizzato da uno scopo di profitto.

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Anche la nozione di attività economiche o finanziarie è suscettibile di diverse interpretazioni, e anche qui è preferibile la lettura restrittiva, che circoscrive la portata della norma a quelle attività che non costituiscono operazioni di carattere occasionale o specifico.

Il reato è doloso, e presuppone anche la consapevolezza della provenienza delittuosa dei beni.

E’ prevista una aggravante se il delitto è commesso nell’esercizio di attività professionale; una attenuante se il fatto è di particolare tenuità.

Anche in questo caso il delitto è perseguibile indipendentemente dalla punibilità del reato base, ed è applicabile la stessa causa speciale di non punibilità per i soggetti appartenenti alla polizia giudiziaria.