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LINGUE ROMANZE
Il nome della disciplina deriva dal greco philólogos, letteralmente 'amante del
discorso' associato all'aggettivo romanzo da ROMANICUS, un derivato di ROMANUS.
Essa concerne in particolare lo studio delle lingue cosiddette “volgari”: in tale
accezione “volgare” deriva da VULGUS in opposizione al latino, a sottolineare un
distacco rispetto alla lingua dei ceti colti, il latino appunto. Dopo la caduta
dell'impero romano d'Occidente avvenuta nel 476 d.C. l'aggettivo ROMANICUS va
opponendosi a LATINUS nel designare l'insieme dei parlanti lingue non germaniche,
ovvero la lingua dei conquistatori, dunque i latinofoni, finché in area gallo-romanza
non si sviluppa l'esito ROMAN(I)CU(S) > roumanç > romanz(o).
L'area d'interesse della disciplina è molto vasta, dunque, inizialmente, sarà bene
limitarsi a dire che, per quanto attiene al settore linguistico, essa studia l'evoluzione
dal latino tardo o volgare all’insieme delle lingue e dialetti e delle letterature
neolatine o volgari, definito dagli studiosi Romània. Si tratta dunque di riflettere
sulla nascita “ufficiale”, ovvero basata sulla comparsa dei primi documenti in
volgare, di tali lingue intorno al IX-X secolo, in quanto prosecuzione di un latino
ormai fortemente regionalizzato e sempre più lontano dalla lingua dell'epoca classica.
Poiché si ha a che fare con l'antichità, va da sé che le conoscenze che noi abbiamo di
quest'epoca si basano su fonti scritte, il che ci impone una prima distinzione fra
scripta e lingua. Una scripta è definibile come 'l'insieme dei segni grafici utili a
scrivere un testo in una data lingua': nel Medioevo volgare le scriptae erano molto
numerose, poiché ogni area aveva caratteristiche linguistiche proprie che venivano
tradotte su carta secondo un modello scrittorio legato al latino, il quale tuttavia non
rappresentava più la lingua primariamente utilizzata dalla comunità di parlanti,
dunque oltre alle forze aggregatrici erano presenti spinte centrifughe. Col passare del
tempo alcune di queste scriptae tendono però a prevalere sulle altre per vari motivi
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(prestigio, forza politica, volontà dei sovrani): si crea così una koinè, ovvero una
lingua comune che costituisce un preludio alla lingua letteraria, allo stesso modo di
quanto accaduto per il toscano in Italia. Dunque, si ragiona sulle scriptae medioevali
per potersi fare un'idea della lingua: naturalmente vi sono diverse tipologie
documentarie che possono tornare utili in tal senso e generalmente i documenti non
letterari, quindi giuridici, notarili, ecclesiastici, privati, registri di mercanti, statuti
ecc. risultano maggiormente indicativi nell'individuazione della lingua parlata in una
data area, massimamente per quei documenti che hanno una vocazione orale, ad
esempio i placiti cassinesi del 960 o i giuramenti di Strasburgo della metà del IX
sec. là dove, all'interno di un contesto latino, si trovano delle formule in volgare che,
evidentemente, dovevano essere pronunciate come formula di giuramento, com'è nel
caso del testo francese, o registrate in qualità di testimonianza all'interno di una
contesa giuridica, come avviene nel documento italiano. In particolare i Giuramenti
di Strasburgo rappresentano il più antico documento in volgare romanzo, oltre che un
importantissimo documento storico: i figli di Ludovico il Pio, ovvero Ludovico il
Germanico e Carlo il Calvo, si allearono nell'842 nei pressi di Strasburgo contro il
fratello Lotario, sconfitto nella battaglia di Fontanay, finché col trattato di Verdun
(843) l'impero carolingio fu suddiviso in tre parti. Ludovico era re dei Franchi
Orientali, germanofoni, mentre Carlo il Calvo regnava sulla parte occidentale,
galloromanza. Ludovico il Germanico, dunque, prestò il suo giuramento in francese
affinché le truppe di Carlo, di lingua romanza, intendessero le sue parole, e viceversa
fece quest'ultimo per lo stesso motivo. Infine, i capi degli eserciti prestarono
giuramento ciascuno nella propria lingua. L'antichità e la natura di tali documenti era
dettata dalla necessità di riportare fedelmente le parole utilizzate per un trattato così
importante, il cui valore ufficiale e legale doveva essere indubitabile.
Pertanto, va da sé che la filologia romanza sia una disciplina eminentemente
medievistica che concerne l'insorgere delle seguenti lingue principali (da ovest a est):
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Portoghese
Gallego o galiziano
Spagnolo DOMINIO IBERICO
Catalano
Francese
Occitano DOMINIO FRANCESE o GALLOROMANZO
Guascone (Francia sud-occidentale)
Franco-provenzale (varietà riconosciuta dai linguisti, non dai parlanti, parlata
ormai in Valle d'Aosta e piccole parti del Piemonte).
Italiano DOMINIO ITALIANO
Còrso (varietà di toscano coloniale).
Sardo
Romancio svizzero (Cantone svizzero dei Grigioni)
Ladino (aree del Trentino) RETOROMANIA
Friulano)
Dalmatico (estinto) DACOROMANIA o GRUPPO BALCANO
ROMANZO
Rumeno
Veglioto
Grafematica
La gran parte delle lingue moderne utilizza un alfabeto riconducibile a quello
fenicio. I fenici elaborarono un sistema di scrittura priva della notazione delle vocali
(come generalmente avviene nelle lingue semitiche) che fu adottato e adattato alle
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loro esigenze dai greci. È infine dall’alfabeto greco che si svilupparono prima quello
latino e, successivamente, quello cirillico (ancor oggi impiegato dai popoli slavi di
religione cristiana-ortodossa).
Le lettere che compongono gli alfabeti vengono dette, più precisamente, grafemi e
sono convenzionalmente indicati con le parentesi uncinate: p. es.<a>. Con grafema
intendiamo il simbolo grafico utilizzato in una determinata lingua per rappresentare
un suono in forma scritta. Tra suoni della lingua parlata e grafemi, tuttavia, non esiste
mai una corrispondenza totale. Talvolta servono più grafemi per indicare un solo
suono oppure un grafema può servire a indicare più suoni, inoltre, in qualche caso, un
grafema può non rappresentare nessun suono in particolare ma avere solo un valore
distintivo. Prendiamo l’esempio concreto del grafema <h> nella lingua italiana: nella
parola ho (prima persona singolare del presente indicativo del verbo avere) <h> oltre
a essere un retaggio della tradizione storica italiana che fa riferimento al sistema
ortografico latino, serve anche a distinguere, visivamente, la voce del verbo ‘avere’
dalla congiunzione disgiuntiva o. Diciamo “visivamente” poiché, come si vedrà, un
parlante nativo italiano sa, più o meno, che nella congiunzione o il timbro della
vocale è chiuso, mentre nella prima persona del presente indicativo di avere ho il
timbro della vocale è aperto (ovvero, grosso modo <ho> si pronuncia ò [ɔ] mentre ad
<o> è solitamente articolato come ó [o]). La grafia dell’italiano, in questo, come in
altri casi, non fornisce una rappresentazione perfetta del parlato, poiché non segnala
l’apertura o la chiusura delle vocali medie in sede accentata che, almeno nello
standard su base toscana, hanno valore distintivo. Ciò basti per dire che non bisogna
assolutamente confondere piano grafico e piano fonetico, in quanto essendo la
scrittura una rappresentazione approssimativa del parlato (si pensi alla discrepanza tra
grafia e pronuncia nel francese) essa non è sufficiente a descrivere in maniera
esaustiva un suono nella sua reale pronuncia. Perciò sarà scorretto parlare di suoni
duri o molli, ad esempio, del tipo <c> dura, ma anche <k> velare, mentre sarà
opportuno indicare tale suono come occlusiva velare sorda. Esiste infine un alfabeto
fonetico specifico per la descrizione dei suoni, che si chiama International Phonetic
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Alphabet = IPA, il cui utilizzo, condiviso dalla comunità scientifica, lo rende l'unico a
poter essere utilizzato in sede di trascrizione fonetica. Infine, se è pur vero che
italiano e spagnolo hanno una buona corrispondenza fra scritto e parlato, è altrettanto
vero che essa è lungi dall'essere esaustiva: basti pensare al solo fatto che il grafema
<k> non ha un unico valore fonetico in cane e cena, ad esempio, e che il valore
velare con approssimazione palatale dell'occlusiva può anche essere reso col digrafo
<ch> in chiaro ecc. Insomma, sarà necessario tenere ben distinti il piano grafico e il
piano fonetico e fonologico, tanto più nei documenti medioevali delle origini, nei
quali la norma grafica, ancora estremamente legata a quella latina, non aveva ricevuto
la normativizzazione che i sistemi grafici odierni possiedono ed era dunque fluida e
variabile.
La variazione linguistica
Essendo la filologia romanza una disciplina prettamente medievistica, essa ha a
che fare con gli stadi antichi delle lingue neolatine: attraverso uno studio diacronico
ci si può rendere conto dei cambiamenti che intercorrono in una lingua con il passare
del tempo, motivo per cui in un passo come il seguente, tratto dalla versione toscana
del Milione di Marco Polo, la cui versione originale fu scritta in una lingua mista, il
franco-italiano, riusciremo a cogliere il senso di quel che leggiamo, ma con alcune
difficoltà:
Milice è una contrada dove il Veglio della montagna soleva dimorare anticamente. Or vi
conteremo l'affare, secondo come Messer Marco intese da più uomini. Lo veglio è chiamato in lor
lingua Aloodyn. Egli avea fatto fare tra due montagne in una valle lo più bello giardino e 'l più
grande del mondo; quivi avea tutti frutti e li più belli palagi del mondo, tutti dipinti ad oro e a bestie
e a uccelli (Versione Toscana, 1309, da C. Segre, La prosa del Duecento, p. 347).
Sia nel lessico che nella fonetica (veglio, palagi, avea), sia nella morfologia (lo
veglio), come nella sintassi (tutti frutti, dipinti ad oro e a bestie) troviamo elementi
che si discostano, più o meno, dalla lingua attuale, ma è pur ovvio che un parlante che
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oggi ha 60 anni possiede un bagaglio linguistico e culturale diverso da quello di un
giovane di 20 e viceversa.
Vediamo ora un esempio di variazione diacronica rispetto alla lingua sarda di area
nord-occidentale o, se si vuole, di scripta logudorese, con un passo tratto da un
documento medievale sardo, il condaghe di S. Pietro di Silki, che consiste in una
raccolta di documenti relativi all'omonimo monastero situato alle porte di Sassari, le
cui schede vanno dall'XI al XIII sec.:
La lingua varia, dunque, in diacronia, e tale evoluzione è oggetto di studio della
linguistica storica e della linguistica romanza nello specifico. Naturalmente esistono
altre cause di variazione linguistica oltre al tempo, ad es. il luogo o diatopia o ancora
le variazioni sociali o diastratiche, di cui parleremo pià avanti.
La Romània e il concetto di “parentela”
Nella linguistica romanza l'insieme delle lingue neolatine è definito comunemente
Romània: ciò implica che all'interno di questo raggruppamento si trovino a convivere
lingue parenti fra loro, a partire da una lingua madre, il latino, che ha generato dei
rampolli quali sono i volgari. Sebbene sottoposta a critiche, tale idea di famiglia è
ancor oggi attuale, anche perché estremamente comoda nella rappresentazione dei
legami fra due o più lingue. Si pensi poi che a sua volta il latino rientra nell'ampia
famiglia indoeuropea insieme alle lingue germaniche (inglese, tedesco, olandese
ecc.), slave (Polacco, ceco, russo ecc.), celtiche (irlandese, scozzese, gallese ecc.)
baltiche (lituano, lettone e antico prussiano) ecc. Una differenza importante è però la
seguente: nella famiglia indoeuropea la lingua madre capostipite dei volgari ci è ben
nota, come pure il greco antico, mentre negli altri casi non abbiamo testimonianze
dirette e bisogna procedere attraverso il metodo ricostruttivo per potere risalire
all'etimologia di partenza. A tal proposito va detto che in assenza di una conoscenza
diretta, tale metodologia non sarà mai in grado di restituirci un'idea esaustiva della
lingua antica indagata, ma solo le caratteristiche ereditate dalle lingue derivate o
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figlie. Ad es., se non conoscessimo il latino e volessimo ricostruirlo attraverso un
confronto basato sui volgari potremmo partire dall'it. parlare, fr. parler, sp. hablar,
sardo faveddare, rum. faurar, port. falar e attribuiremmo al latino un *PARLARE e un
*FAULARE 'parlare', ma non potremmo mai immaginare l'esistenza di LOQUI, che
invece era più antico dei suddetti *PARLARE e *FAULARE e che veniva correntemente
utilizzato dai parlanti, e ciò perché questo verbo non è sopravvissuto in nessuna
lingua romanza. In ogni caso, va detto che le forme del tipo parlare presuppongono
un lat. tardo PARABOLARE attraverso un grecismo PARABOLA 'parola', mentre hablar,
falar, faveddare partono dal lat. FABULARE < FABULA 'racconto'. Ugualmente, grazie
alla declinazione bicasuale di francese e provenzale antichi, oltre a quella tricasuale
del rumeno, potremmo intuire l'esistenza delle declinazioni latine, senza sapere
quante fossero esattamente, come neppure potremmo immaginare che il passivo
latino si formasse con una desinenza in -r, del tipo amor, in quanto le lingue romanze
formano un passivo di tipo perifrastico sono amato, che al limite condurrebbe a
postulare un AMATUS SUM, ovvero il perfetto passivo latino. Inoltre il comparativo,
che nelle lingue romanze si sviluppa con una perifrasi composta da più + agg., del
tipo più alto, plus haut o más alto nella Penisola Iberica, non consente affatto di
presupporre l'esistenza in latino di un comparativo organico ALTIOR/ALTIUS. Ciò per
dare un'idea della differenza che intercorre fra lo studio del latino e delle lingue figlie
rispetto all'indoeuropeistica e ad altre lingue figlie non attestate come l'antico slavo,
le lingue germaniche ecc.
Ora, è bene cercare di comprendere in quali termini due o più lingue possano
essere considerate parenti fra loro: a livello lessicale basti prendere l'it. cavallo, il fr.
cheval, il sardo cabaddu, lo sp. caballo e ci si renderà subito conto del fatto che, a
parte le ovvie differenze fonetiche e grafiche, si tratta di eredi del latino tardo
CABALLUS, originariamente 'cavallo da tiro' a partire dal II sec. a.C. e che a sua volta
sostituì il lat. class. EQUUS. Ora, è proprio CABALLU a essere sopravvissuto nelle lingue
neolatine, mentre non vi è traccia di EQUUS se non nei cultismi e al femminile EQUA
nell'ant. fr. eve, ieve, poi jument; cast. yegua, rum. iapa, log. ebba, campidan. egua
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ecc. Ancora, se prendiamo l'italiano piede, il fr. pied, lo spagnolo pié, il sardo pede
ecc. < PĔDE osserviamo come le differenze siano relativamente poche, ma anche come
il francese conservi una grafia attardata rispetto alla pronuncia, là dove sappiamo che
la -d finale non viene pronunciata; al tempo stesso, la scripta ci riconduce ancor più
da vicino alla forma italiana piede.
Ciò per quanto riguarda il lessico comune; talvolta però le concordanze non sono
così spiccate: prendiamo l'it. càvolo e il fr. chou, apparentemente molto lontani l'uno
dall'altro, eppure chou deriva da *chaou e ancor prima da *caou, forma che ricorda
molto da vicino il lat. CAULE(M). Il fatto è che in francese [c + a] > [š], al contrario
dell'italiano (cane/chien) e la [l], preceduta o seguita da [u/o], tende a labializzarsi in
[u], cfr. ad es. fr. ant. chevals che si leggeva -aus. Nonostante tutto, anche qui la base
di partenza del francese è evidentemente comune all'italiano.
Naturalmente si possono fare valutazioni di ordine morfologico, ad es. it.
mercato, fr. marché: al suff. it. -ato corrisponde quello fr. 0, ma è pur vero che
quest'ultimo è spiegabile attraverso un *marcá, poi *marchá con chiusura della [a]
tonica in [é] in sillaba aperta, mentre quando essa è chiusa resta [a], ad es.
gras/grasso. Ecco che, come nel caso di cavolo, intravediamo dietro forme
apparentemente distanti una base comune alle lingue: una forma latina trattata
differentemente nelle due aree. Dunque, la sistematicità dello scarto fra it. e fr. nei
nessi [c + a] o [à][ > [e] necessita di una e una sola spiegazione: le due lingue hanno
avuto lo stesso punto di partenza da cui divergono nel corso del tempo e
coerentemente o, ancor meglio, dobbiamo pensare che l'esito latino [ka] in italiano si
sia conservato fino a oggi, mentre in fr. si ha [ka] > [ša], con la [a] che passa in [ǝ],
grafia e:
1. in atonia;
2. in sillaba aperta;
3. in finale di parola.
Pertanto, se due o più lingue sono legate da un certo numero di corrispondenze
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sistematiche e non dovute al caso, dunque ricorrenti in numerosi esempi e sempre a
partire da certe condizioni, si dice che tali lingue sono innervate, in quanto
costituiscono la lingua1, lingua2, lingua3 ecc. di una antica fase linguistica comune =
lingua0.
Ad ogni modo, va detto che il lessico, su cui finora abbiamo appuntato la nostra
attenzione, è soggetto a variazioni molto forti a causa di fattori storici e culturali: ad
es., nell'antico inglese penetrano una serie di voci francesi all'indomani della
conquista dell'isola da parte dei normanni nel 1066 (ad es. sovereign, push, age ecc.).
Invece la morfologia è senz'altro molto più stabile, dunque maggiormente indicativa
dello stato originario di ciascuna lingua in rapporto alla lingua madre: perciò, se una
coincidenza fonetica e lessicale trova corrispondenza anche nella morfologia, è ancor
più sicura la parentela stabilita: ad es., se dal lat. MERCATUS > it. mercato e fr. marché,
oltre a quanto abbiamo già detto troveremo che il morfema latino -ATUS > 0 in
francese e viene conservato in italiano con regolarità: AMATUS, amato, aimé ecc. Va
anche detto che la conservatività dei morfemi e la loro difficoltà nel trasferirsi da una
lingua all'altra indica, al contrario, la forza dell'influsso di una lingua su un'altra: ad
e s . i l basco assume i participi latini in -atu ma ne fa degli infiniti,
rifunzionalizzandoli e applicandoli a tutti i verbi appartenenti a una data classe: ad es.
barkatu, doatu 'perdonare', donare' ecc.
Mutamenti fonetici
È importante stabilire una distinzione fra livello fonetico e livello fonologico: con
livello fonetico s'intende la produzione di suoni o foni, ovvero in quale modo i suoni
siano articolati a livello dell'apparato fonatorio.
Il livello fonologico riguarda invece i foni scelti dalla lingua per farne dei mattoni
con cui costruire dei significanti o delle sequenze foniche in grado di veicolare i
significati: /m/o/n/t/e/ rappresenta una catena fonologica formata da foni di per sé non
veicolanti un significato, ma che nel caso di qualsiasi parola dotata di senso
diventano fonemi. Dunque, i foni si collocano fra parentesi quadre e di essi ci
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interessa la modalità articolatoria: ad es. [t], [d] sono due occlusive dentali
rispettivamente sorda e sonora. Invece i fonemi si collocano fra // e costituiscono gli
elementi di un ordine mentale che il parlante sa di dover utilizzare per costruire un
significante, ovvero un insieme di fonemi che veicolano un certo significato, in modo
e ordine assolutamente non arbitrari se si vuole dialogare con chiunque. Pertanto, il
fonema è una unità distintiva minima priva di per sé di significato ma che permette
di distinguere tra significati diversi: monte e conte, ad es. Quando due parole sono
distinte da una sola unità fonologica, com'è in questo caso, si tratta di coppie
minime.
Tuttavia, all'interno della catena fonica può accadere che la realizzazione dei
fonemi sia condizionata dal contesto: ad es. /k/ e /g/ hanno una realizzazione velare,
ma se seguiti da vocale palatale e, i si realizzano come medio-palatali, ad es. cane
m a chiaro, manco, manchi ecc. Le diverse modalità di realizzazione di un singolo
fonema si definiscono varianti contestuali o combinatorie del fonema stesso.
Mutamenti fonetici
A livello di mutamenti fonetici, dunque senza interesse alcuno rispetto alle
conseguenze fonologiche, abbiamo:
1. L'assimilazione, quando due elementi fonici contigui e diversi si avvicinano fra
loro dal punto di vista articolatorio parzialmente o totalmente. Il fenomeno contrario
è la dissimilazione, allorché due elementi contigui identici o simili si differenzino fra
loro: lat. DI[KT]U > it. de[tt]o è assimilazione regressiva, quando cioè il secondo
elemento del nesso attrae il primo, ma ad es. MU[ND]U > roman. mó[nn]o è invece
progressiva: [n] condiziona [d]. Fra le dissimilazioni cfr. ad es. QUAE[R]E[R]E >
chièdere: [r + r] > [d + r]. Ancora, è fenomeno dissimilatorio il passaggio dal nesso
[ct] a [it] in francese e nei dialetti gallo italici, ad es. NOCTE > nuit attraverso i
passaggi *no[x]t (x = fricativa) > *no[ç]t (ç = mediopalatale). Nella sequenza [ct] si
verifica una dissimilazione della velare che passa a fricativa, poi a mediopalatale [ç],
poi da qui a semivocale [j], grafia i. Tale fenomeno, come vedremo, è stato attribuito
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in passato al cosiddetto sostrato celtico.
Anche il fenomeno assimilatorio può essere complesso: ad es., se prendiamo il
latino CEPULLA, noteremo che in alcune aree della Sardegna l'evoluzione sarà
ki[p]údda, ma altrove ki[ß]údda, con una lenizione dell'occlusiva sorda intervocalica
-p- che di fatto dipende da una assimilazione bidirezionale. Ugualmente ciò accade
nelle aree della Romania occidentale (parlari iberoromanzi e galloromanzi) soggette
alla lenizione delle occlusive intervocaliche.
Altri fenomeni di mutamento sono l'inserzione di materiale fonico
etimologicamente ingiustificato e, all'esatto opposto, la cancellazione di materiale
fonico che dovrebbe essere presente: ad es. nel sardo iscòla e nel cast. escuéla <
SCHOLA [i-] ed [-e] sono elementi aggiunti che si chiamano epitesi, mentre in caldo <
CAL(I)DU si ha una cancellazione della vocale post tonica.
La metatesi è lo spostamento di materiale fonico in un punto diverso della catena
da quello in cui dovrebbe normalmente trovarsi in base all'etimologia: lat. FORMATICU
> fr. f[ro]mage; CAPRA ma c[rà]pa ecc. Esso avviene specialmente in corrispondenza
delle laterali [l] e [r].
L a coalescenza avviene quando due elementi fonici contigui si fondono in un
terzo elemento differente da entrambi, ma che spesso presenta una o più
caratteristiche di questi: ad es. in FILIUS > [l + i] > [l + j] > lateropalatale ƛƛ.
Infine, si veda la scissione di un elemento fonico in due elementi distinti, ad es.
lat. PĔDE it. piède, per via del dittongamento della vocale breve Ĕ in sillaba libera.
Mutamenti fonologici
Il mutamento fonologico subentra solo quando le modificazioni fonetiche che
intervengono fra due stati di lingua portano all'acquisizione (1), alla perdita (2) o alla
ridefinizione (3) di un'opposizione distintiva.
Fonologizzazione: realizzazioni del medesimo fonema originariamente
subordinate al contesto si svincolano da tale condizionamento e diventano fonemi
distinti: ad es. dall'incontro dei nessi consonante + [j] nasce un nuovo fonema, come
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FILIUM > *filjum > figlio. Ancora, in latino le vocali brevi e lunghe avevano valore
fonologico, dunque l'opposizione si riscontrava sia in sillaba aperta, es. LĚVĬS 'lieve' ~
LĒVĬS 'levigato', sia in sillaba chiusa, es. ŎS 'osso' ~ ŌS 'bocca', sia in posizione tonica,
es. RŎSĂ 'rosa, fiore' ~ RŌSĂ 'part. pass. femm. di rodere', sia in posizione atona, es.
RŎSĂ nom. 'la rosa' ~ RŎSĀ abl. 'con la rosa' ecc. Dunque, nessun condizionamento
fonetico contestuale poteva favorire o impedire la realizzazione dell'opposizione
fonologica. Tuttavia, nella prima età imperiale la quantità vocalica aveva perso il
proprio valore distintivo ed era divenuta predicibile in base al contesto sillabico,
ovvero lunga in sillaba tonica aperta e breve in sillaba tonica chiusa, finché nel
sistema fonologico che sta alla base dei volgari romanzi ogni vocale lunga o breve,
poniamo /ā/ e /ă/, non divenne un allofono del fonema /a/, privo dunque di carattere
distintivo, ad es. come la [R] uvulare rispetto alla vibrante. In tal caso si riscontra una
defonologizzazione.
In italiano la vocale è lunga se rispetta le seguenti condizioni:
1. se è tonica;
2. se è in sillaba aperta;
3. se si trova in penultima sillaba.
Ad es. inciso, caro, luna hanno la tonica lunga, mentre in tutti gli altri casi la
vocale è breve, es. gar[ò]fano (tonica ma non in penultima sillaba), c[à]rro (tonica in
penultima sillaba ma chiusa), m[i]ràc[o]lo (in atonia) ecc. Quindi, in italiano
l'opposizione fonologica lunga/breve dipende fortemente dal contesto e dalla
presenza di almeno una delle tre condizioni di cui sopra, altrimenti la vocale sarà
per forza di cose breve e, con tale limitazione, non si potrà parlare di veri e propri
fonemi, come in latino, né di opposizione fonologica vera e propria, la quale avviene
solo a prescindere dal contesto. Semmai, in italiano si ha opposizione fonologica fra
consonanti scempie e geminate, del tipo caro/carro, oppure a livello delle vocali
medie aperte e chiuse, del tipo pésca e pèsca. Perciò in questo caso l'italiano presenta
rispetto al latino una defonologizzazione, ovvero rispetto al latino è il contesto a
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decidere quando compare l'elemento lunghezza o brevità della vocale: in
generale, si parla di defonologizzazione quando due fonemi confluiscono in un unico
fonema o quando un fonema scompare. Quindi, mentre in latino esistono
effettivamente due fonemi distinti, lungo e breve, che agiscono senza riguardo al
contesto, in italiano ne abbiamo la metà, ovvero /ā/ /ă/ > it. /a/ che si realizza come
lunga o breve a seconda del contesto. In definitiva, se in latino CĂNIS e CĀNIS
presentavano opposizione fonologica in quanto rispettivamente 'cane' e abl. plur. di
CANUS 'canuto', in italiano avremo un solo fonema /a/ che si realizza in breve o lungo
a seconda del contesto.
Infine, si ha rifonologizzazione quando non aumentano né si riducono i fonemi,
ma cambia la sostanza fonica con cui i fonemi vengono realizzati: ad es. in francese
l'opposizione fra /i/ e /y/, es. vie [vi] < VITA ~ vu [vy] < *VIDUTU.
Non sempre tali mutamenti sono regolari e prevedibili, ma possono anche
bloccarsi e regredire, restando parzialmente incompiuti: ad es. in toscano la
sonorizzazione delle occlusive intervocaliche, es. ri[p]a > ri[v]a, li[t]o > li[d]o
ecc. sul modello galloitalico o galloromanzo, poi esteso a voci che non avevano un
corrispettivo in tali lingue, com'è il caso ad es. di ripa ma fr. rive > it. riva. Tuttavia,
la regola non si è potuta generalizzare e il modello d'Oltralpe è venuto meno prima
che tale norma si generalizzasse, tanto che in italiano oggi troviamo l'esistenza di
coppie del tipo -P- > talvolta [p], talvolta [v] (capo < CAPUT ma cavezza < CAPITIUM);
-C- AMICU > amico ma LACU > lago ecc. Sono state varie le teorie proposte in merito a
quest'alternanza fra sorda e sonora nella lingua italiana: Ascoli riconduceva casi come
contrada, rugiada, padre, madre ecc. a un effetto sonorizzante di ['a] tonica in
penultima sillaba, rispetto a casi come marito, ruota ecc., dove l'occlusiva è
preceduta da vocale diversa da ['a]. Ancora, Ascoli spiegava l'esito luo[g]o e fuo[c]o
in base a un diverso punto di partenza fono-morfologico: luogo < LOCUM, mentre
fuoco, come giuoco < nom. sincopato *FOCS < FOCUS e *JOCS < JOCUS: in *FOCS e
*JOCS non si presenterebbero dunque le condizioni per una sonorizzazione
dell'occlusiva. Un altro grande linguista, Wilhelm Meyer-Lübke, propose la teoria
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degli accenti secondo la quale le occlusive permarrebbero sorde trovandosi:
1. dopo vocale tonica in penultima posizione, ad es. marito, amico ecc., mentre
sonorizzano se si trovano prima della tonica in penultima sillaba: pa[g]are < PACARE;
2. dopo vocale tonica in parole con tonica sulla terzultima sillaba: ré[d]ina <
RETINĒRE.
A tali teorie si aggiunse quella di Clemente Merlo, secondo il quale
un'oscillazione del tipo stipare/stivare < STIPARE dipendeva da un influsso colto del
latino che favoriva il mantenimento della sorda, mentre per Gerhard Rohlfs l'esito
prettamente toscano era quello sordo, allorché la sonorizzazione era dovuta
all'influsso esercitato dalle parlate galloitaliche unitamente a francese e provenzale.
E difatti, a partire dal Duecento l'influsso francese in Italia fu fortissimo, per cui
possiamo ritenere che l'esito toscano fosse quello sordo e che, per conferire alla
lingua locale il prestigio attribuito al francese e al provenzale e ai dialetti gallo-italici,
si sia proceduto alla sonorizzazione, purché la sorda fosse intervocalica o stesse fra
vocale e /r/.
La grammatica comparata
La nascita della linguistica storica avviene nel 1786, quando Sir William Jones,
funzionario della Compagnia delle Indie, tenne a Calcutta una conferenza in cui
evidenziava le numerose corrispondenze fra latino, greco e sanscrito e avanzava
l'ipotesi che queste lingue, insieme al ramo celtico, al gotico e al persiano derivassero
da un comune antenato, secondo una teoria detta dell'albero genealogico. Tali
progressi si verificavano in séguito alle grandi scoperte geografiche e al contatto
degli europei con un numero altissimo di lingue rispetto al passato. Ancora, il
movimento culturale romantico sorto in Germania fra Sette e Ottocento, con il suo
gusto per l'esotico e il remoto, favorì lo studio delle lingue antiche, comprese le fasi
medioevali delle lingue volgari. Successivamente alla conferenza di Sir Jones
s'interessò alla linguistica storica il fondatore del Romanticismo, Friederich von
Schlegel, il quale giunse alla conclusione che alla base delle lingue indoeuropee si
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trovava non una lingua scomparsa non meglio identificata, bensì il sanscrito. Altri
studiosi come Jacob Grimm, che insieme al fratello Wilhelm Karl fu autore della
famosa raccolta di fiabe e saghe del folclore germanico come Biancaneve,
Cappuccetto Rosso ecc., Franz Bopp ecc. posero definitivamente le basi della
linguistica comparata.
In ogni caso, tanto nella classificazione delle lingue romanze, quanto in quella
delle lingue indoeuropee, fu fondamentale l'applicazione della teoria darwiniana
basata sulla derivazione degli esseri viventi ordinati in specie. Allo stesso modo le
lingue vengono considerate da un punto di vista naturalistico e soggette a leggi
immutabili indipendenti dai parlanti. Si tratta di una teoria tanto criticata quanto
popolare, ancora oggi, nonostante le profonde revisioni operate per attenuarne gli
aspetti eccessivamente meccanicistici e per questo fuorvianti. Difatti, secondo tale
teoria i dialetti italiani e l'italiano sarebbero comunque dei germogli della stessa
pianta latina sviluppatisi autonomamente, ma sappiamo bene quanto sia risultata
fondamentale l'azione che l'italiano ha esercitato sui dialetti pur senza che vi fosse un
rapporto “ereditario” quale quello implicito in tale teoria.
Un'altra teoria linguistica particolarmente popolare fu quella delle onde
promulgata da Johannes Schmidt (1872) secondo la quale le innovazioni linguistiche
prodotte dai parlanti partono da un centro e si diffondono perdendo progressivamente
vigore nello spazio geografico, come le onde concentriche causate da un sasso gettato
in uno stagno. Rispetto alla teoria tutta meccanicistica e naturalistica, questa pone al
centro dell'innovazione linguistica i parlanti e li colloca nello spazio. Queste sono le
due teorie più celebri dell'epoca, tuttavia non possiamo procedere oltre nella disamina
del dibattito interno all'indoeuropeistica. Possiamo però collegare direttamente alla
teoria delle onde la nascita della geografia linguistica che trasponeva su atlanti
geografici delle serie di forme atte a dare conto delle principali peculiarità di ciascuna
parlata prescelta. Il primo atlante linguistico fu quello risalente agli anni Settanta
dell'Ottocento ad opera di Georg Wenker, che raccolse i dati per corrispondenza
tramite un questionario in tedesco standard con traduzioni di frasi da effettuare nella
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parlata locale. Una volta raccolti i dati, si traccia sulla carta geolinguistica una
isoglossa che unisce i punti estremi ai quali giunge un dato fenomeno segnando il
confine entro cui il fenomeno è presente e, di conseguenza, l'area in cui esso risulta
assente. Un fascio di isoglosse viene a formare un confine linguistico, tanto più
marcato quante più isoglosse vi convergeranno. Per le parlate romanze il precursore
fu L'Atlas Linguistique de la France (ALF) di Jules Gilliéron (1902-1910) e lo AIS
(Atlante linguistico ed etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale) di Karl
Jaberg e Jakob Jud. Il dato più interessante che emerse da questi e altri atlanti era
contraddittorio rispetto al principio della ineccepibilità delle leggi fonetiche, secondo
la quale le innovazioni fonetiche si diffondono omogeneamente nella comunità di
parlanti, per cui i confini linguistici dovrebbero essere netti, condizione che invece
non si verifica pressoché mai.
In ogni caso, la geografia linguistica è applicabile solamente alle lingue vive
perché verificabili direttamente sulla bocca dei parlanti e anche perché, generalmente,
la grandissima parte dei documenti che tramandano le lingue morte è redatta in forme
standardizzate, ovvero uniformate e dunque più o meno distanti dalla lingua viva e
che non tengono perciò conto dei molteplici strati linguistici. Perciò, sono rari i dati
trasmessici dal passato in tal senso: ad es. Cicerone nelle Orationes ci dice che
l'espressione cum nobis era quantomeno vitanda e nobiscum era da preferire, in
quanto nel I sec. a.C. la pronuncia doveva essere del tipo cu[n.n]obis e tale
assimilazione doveva indurre a un'associazione con cunnus 'organo genitale
femminile'.
Nel campo della linguistica furono importanti inoltre le quattro norme areali o
spaziali ideate da Matteo Bartoli, secondo le quali la forma più antica o arcaica è:
1. La forma conservata nell'area meno esposta alle comunicazioni o più isolata:
ad es. il sardo mantiene alcune eredità latine come le vocali velari /k/ e /g/
davanti a vocale palatale.
2. La forma conservata nelle aree laterali o periferiche rispetto al centro del
territorio: se in due o più aree periferiche non comunicanti fra loro si trova la
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stessa forma linguistica in opposizione alle forme presenti nel centro del
territorio, si potrà presumere che la forma più arcaica sarà quella sopravvissuta
nelle aree laterali rispetto alle innovazioni prodotte nel centro. In generale fra
le lingue indoeuropee si mostrano più conservative quelle occidentali e
dell'estremo est che rappresentano la famiglia centum rispetto alle lingue satem
– dal numerale 100 in avestico, lingua iranica nord-orientale utilizzata per la
redazione dell'Avesta, testo sacro dello Zoroastrismo – attestate in un'area
centrale e innovatrice.
3. La forma conservata nell'area maggiore o più estesa del territorio preso in
esame. Date due forme concorrenti, questa si verifica in assenza delle prime
due norme e dimostra che la forma meno diffusa sarà stata un'innovazione
tarda e a raggio limitato.
4. La forma conservata nell'area seriore, ovvero nell'area in cui una data varietà
linguistica è arrivata più tardi rispetto al momento in cui si è formata o è giunta
nel territorio cui è normalmente connessa. Questa norma è la meno intuitiva:
basta supporre, ad es., che un nucleo di italiani a fine Ottocento si sia recato
presso gli Stati Uniti e che, da quel momento in poi, le innovazioni presenti
nella Madre Patria non siano più giunte a questi parlanti. Ad es., è recente in
area napoletana la sostituzione di avere con tenere come ausiliare ([ağğƏ
fame], [tengƏ fame]). Ebbene, nel napoletano esportato a New York spesso
avere è utilizzato là dove nella madre patria è abituale tenere.
Bartoli denominò le sue “norme” e non “leggi” in quanto esse non erano
considerate categoriche: basti pensare che la Sardegna, utilizzata nella norma 1, non
rispetta la 2, in quanto l'area più conservativa è quella centrale, poiché nell'Isola le
innovazioni provenivano dalle aree marittime e portuali. In ogni caso, si tratta di utili
principi probabilistici il cui utilizzo, però, dev'essere attentamente valutato caso per
caso. Prendiamo ad es. il comparativo, che in latino era organico, ovvero si formava
tramite delle desinenze associate al grado 0 dell'aggettivo, mentre nelle lingue
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neolatine si continua in francese e italiano (aree centrali) il tipo PLUS + ALTU; in Iberia
e Dacia (rumeno, aree laterali), si continua MAGIS + ALTU. Secondo le norme della
linguistica spaziale, Bartoli ritenne la forma MAGIS + ALTU più arcaica di PLUS + ALTU,
per cui la forma più antica sarebbe stata soppiantata da quella più recente, senza però
riuscire a giungere nelle aree laterali, ovvero Iberia e Dacia. Invece, dalla
documentazione latina emerge il fatto che i due comparativi erano circa coevi,
poiché MAGIS ALTU è attestato per la prima volta in Plauto (250 a.C. circa), mentre
PLUS ALTU compare con Ennio (nato nel 239 a.C.). Ciò non significa che le norme
areali fossero erronee, in quanto in questo tipo di comparativo subentrava una
distinzione di tipo diastratico: la forma con PLUS era popolare, mentre MAGIS era la
quella canonica e perciò adottata nella scrittura. Dunque, le aree laterali in questo
caso attestano non tanto la forma più arcaica, ma quella più corretta e “ufficiale”,
mentre nelle aree centrali cadde la censura nei confronti della forma popolare PLUS
ALTU che poté così diffondersi. Dunque, è evidente come la lingua risulti condizionata
non solo da fattori cronologici o geografici, ma anche diastratici, sociali: basti
pensare che la [r] uvulare [R] oggi presente nella lingua francese standard si diffuse
durante la rivoluzione francese come tratto all'epoca appannaggio delle classi
popolari, come pure in spagnolo la realizzazione di [f-] come [h-] FILIU > hijo si
diffuse in tutta la Spagna grazie al prestigio del castigliano, ma in Castiglia questo era
un tratto popolare che fu a lungo osteggiato.
Per quel che attiene alla linguistica romanza, segnò una sorta di battesimo della la
Grammatica storica comparata delle lingue neolatine (1836-1843) di Friedrich
Diez, docente a Bonn il quale, con l’altro capolavoro del Dizionario etimologico
delle lingue romanze (1853), riuscì a convogliare le scoperte della linguistica tedesca
nell'ambito romanzo. Un altro grande studioso tedesco, Wilhelm Meyer Lübke,
principale esponente della scuola dei Neogrammatici, attese alla realizzazione di due
grandi opere: La Grammatica delle lingue romanze e il Dizionario delle lingue
romanze, ancor oggi utilizzati come strumenti utilissimi.
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LE LINGUE DI SOSTRATO
Ricordiamo che il latino di Roma era inizialmente un dialetto limitato alla riva
destra del Tevere facente parte della famiglia indoeuropea, e più precisamente della
famiglia delle lingue centum = che conservava le occlusive sorde invece di
palatalizzarle o lenirle, come accadeva nell’altro ramo linguistico indoeuropeo, quello
delle lingue satem. Il latino convisse con altri dialetti italici poi scomparsi: i meglio
documentati sono l'osco e l'umbro, i quali potrebbero discendere da una lingua
comune detta italico, sebbene i pareri in proposito siano discordanti. L’osco era
parlato in Sannio e Campania, Lucania e Bruzio, poi vi erano i dialetti sabellici,
come Peligno, Marrucino, Vestino, Marsico, Sabino e l’Umbro, che ci è noto grazie
alle tabulae iuguvine (7 tavole di bronzo). Infine, fra le lingue parlate sul suolo
italiano vi era l'etrusco.
Rispetto al latino possono essere definite di sostrato tutte le lingue parlate prima
della colonizzazione latina, dunque il gallico, un ramo del celtico, parlato fra Iberia,
Gallia e Italia settentrionale, le summenzionate lingue italiche diverse dal latino, il
greco parlato nella Magna Grecia, ovvero nelle colonie greche dell'Italia meridionale
e della Sicilia, poi l'illirico nella zona del'Adriatico orientale, il traco-dacico parlato
dalle popolazioni poi romanizzate e dove attualmente la lingua ufficiale è il rumeno
ecc. Tali lingue formano una sorta di sostrato su cui si è depositata successivamente
una nuova lingua; in passato gli studiosi hanno attribuito grande importanza ai
cosiddetti “fenomeni di sostrato” per spiegare determinate caratteristiche proprie
delle lingue odierne, in particolare il glottologo Graziadio Isaia Ascoli, il quale
attribuiva al sostrato la funzione di “motore delle leggi fonetiche”. Prima di
esaminare alcuni fenomeni attribuiti in passato al sostrato, bisogna tuttavia ricordare
che le popolazioni assoggettate erano inizialmente inglobate alla Repubblica, a causa
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della necessità di nuove terre, o per estinguere le velleità indipendentistiche dei
popoli più riottosi alla sottomissione. Ancora, si ricorreva al trasferimento o
deduzione di colonie nelle zone più rischiose, come la Gallia, da cui derivava il
rafforzamento della latinizzazione di queste ultime, quindi di permanenze lessicali
durature. Si noti che Roma era ben consapevole del maggior prestigio di altre lingue,
soprattutto etrusco e greco, e che perciò l’interesse coloniale era puramente politico,
non linguistico. La forza politica romana, non quella militare, determinava la
penetrazione del latino in aree alloglotte e sua volta il latino subiva influssi alloglotti
a eccezione del greco, nonostante la lingua delle popolazioni sottomesse passasse da
una fase dominante a una di bilinguismo, poi di diglossia, durante la quale l’idioma
locale perdeva prestigio a vantaggio della nuova lingua, fino ad essere sostituita;
tuttavia degli elementi di tali idiomi restavano nel latino e lo arricchivano.
Fra i vari sostrati rinvenibili nel latino, vi è ovviamente quello italico: ad es. voci
come bos, furca, furnus ecc. erano di origine italica. Tuttavia, l'influsso italico era
tradizionalmente identificato nel trattamento delle aspirate sonore di origine
indoeuropea, ovvero di quei suoni occlusivi fra la cui articolazione e quella delle
vocali si frappone un soffio corrispondente a una fricativa laringale: ant. ind.
mádhyah, lat. mediae, osco mefiai < *medh-yo. Il latino, nell'ereditare tali suoni, de-
aspirava le occlusive sorde in posizione interna (frater ~ sanscrito bhrátar ma albus
< *albh), perciò nel caso in cui una parola latina non composta conservi l’aspirata
indoeuropea in posizione interna, ciò diventerebbe, secondo i sostratisti, una spia
dell’influsso italico, là dove, com'è nel caso dell'osco-umbro, tali aspirate si
conservavano e *bh e *dh in posizione interna > f: si prendano ad esempio gli
allotropi bubo e bubalus accanto agli “italicizzanti” BUFO e BUFALUS, o SCROFA
SCROBA. Va però chiarito che BUBALUS < gr. boúbalos con b e non con f interno, per
cui la voce bufalus sarà stata “iperitalicizzata” intenzionalmente, non trovandosi alla
base un'aspirata etimologica. Talvolta però sono le sole lingue romanze a
testimoniare della presunta forma italica: è il caso del doppione scarabeo/scarafaggio:
quest’ultima forma presume un ital. *scarafaius, pur non attestato, come pure la
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forma ladino-centrale e rumena tavàn < *tabanus, mentre l’italiano tafano < dialett.
*tafanus.
È importante ricordare inoltre che una delle caratteristiche dei dialetti italici era
l’assimilazione nd > nn ed mb > mm, es. umbro upsannam > lat. operandam. Tale
tendenza si ritrova in alcuni dialetti centro-meridionali italiani, ad es. il romanesco
(mondo > monno, kuànno 'quando', palomma 'palomba', jamma 'gamba'). Soprattutto
Clemente Merlo, che ricorreva al sostrato nello spiegare la varietà del patrimonio
dialettale italiano, ricollegò tale continuità al sostrato umbro presente in un’ampia
fascia di parlari che va da Rieti fino a Cosenza, ivi compresa un’enclave sicula.
Sempre a Merlo è riconducibile la teoria relativa alla gorgia toscana come eredità
d e l sostrato etrusco: Roma fu sotto la dominazione degli etruschi, e la stessa
famiglia di Tarquinio il superbo era di origine etrusca, come ci ricorda Varrone nel
De re rustica (37a.C) (< Tarχna); oltre a ciò, aspetti importanti come la religione e
campi affini furono mutuati dagli etruschi, in quanto la lingua di questo popolo era
lingua di cultura in un'epoca in cui il latino era ancora un idioma rozzo di agricoltori.
Di questa lingua sappiamo relativamente poco, a causa della tipologia delle fonti
documentarie, fra le quali ricordiamo:
1. la mummia di Zagabria, fra le cui bende erano un manoscritto di tela fatto a
strisce e utilizzato per avvolgervi una donna;
2. una coppia di dadi ritrovati in provincia di Viterbo con i numeri scritti in lettere
etrusche da 1 a 6;
3. iscrizioni di carattere prevalentemente funerario (nomi propri) e votivo (tegola
di Capua, cippo di Perugia).
Si tratta di una lingua che è stata perfettamente decifrata, in quanto utilizzava un
alfabeto di derivazione greca, il che consente di interpretare facilmente le iscrizioni
più brevi, mentre è con quelle più lunghe che si hanno maggiori problemi di
comprensione. Sappiamo che la sua parentela con l’indoeuropeo è da escludersi e che
si tratta di una lingua isolata, cioè priva di rapporti di parentela con qualsiasi altra
lingua: ciò è evidente in base al fatto che grazie ai noti dadi di Tuscania sappiamo che
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i numerali da 1 a 6 sono: θu, zal, ci, śa, maχ, ma non riusciamo a ricostruire la
corrispondenza fra parola e numero. Poiché i numerali sono stati utilissimi nel
ricostruire i primi rapporti di parentela fra le lingue indoeuropee, ciò dimostra
l'estraneità dell'etrusco a questa famiglia.
L’Etruria corrisponde all’incirca all’odierna Toscana, dov’è tutt'oggi concentrato
un fenomeno detto gorgia = spirantizzazione delle sorde intervocaliche [p,t,k] con
passaggio a fricative [ɸ,ɵ,h] anzitutto c, diho, ma anche in posizione iniziale (la hasa)
se precedute da vocale non tonica; anche la t, sebbene in misura minore, subisce la
stessa evoluzione, vita > viθa, e così pure la p (cuphola). Il fenomeno è così
nominato dall'espressione “parlare nella gorgia”, ovvero nella gola. Nel sistema
fonologico etrusco si trovano tre aspirate sorde, come in greco: th, ph, ch: avendo
notato che nei nomi greci l’etrusco tendeva a spirantizzare le sorde greche: gr.
Persephòne > etr. Phersipnai, Merlo pensò che, vista la corrispondenza Etruria =
Toscana e la tendenza fonetica comune, la gorgia fosse dovuta a reazione di sostrato,
una tesi a cui si oppose recisamente, e con ragione, Gehrard Rohlfs, a partire dal fatto
la gorgia è attestata solo nel '500, dunque molto tardi. Naturalmente la lezione da
apprendere in tali campi è l’assoluta necessità di una grande cautela nel maneggiare i
fenomeni di sostrato, il cui influsso è provato soprattutto nel lessico e in particolare
nella toponomastica.
Sostrato celtico
I Galli erano un popolo cosiddetto “barbaro” che abitava la regione corrispondente
all’odierna Francia ma che originariamente occupò un'area geografica vastissima che
si estendeva dalla Penisola Iberica alla Turchia, mentre ad oggi il celtico continentale
risulta estinto e quello insulare è rappresentato da lingue quali l'irlandese, lo scozzese,
il gallese e il bretone che furono fortemente osteggiate dal Medioevo all'età moderna.
Questo popolo, appartenente alla famiglia linguistica indoeuropea di tipo centum,
ebbe costantemente degli stanziamenti nell’Italia del Nord, o Gallia cisalpina, poi
riconquistata dai romani fino alle note guerre galliche condotte da Cesare: così, oltre
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alla Cisalpina, anche la Gallia Narbonense o Transalpina divenne provincia, andando
a corrispondere all’odierna Provenza = provence, la propaggine meridionale della
Francia. Gli scambi linguistici latino-gallici furono frequenti, soprattutto in Cisalpina,
romanizzata più a lungo; ciò è testimoniato dal fatto che in Francia si parlino varietà
romanze, a parte il bretone a nord e il basco al confine ovest con la Spagna, ma anche
il latino trasse dei prestiti poi rivelatisi duraturi: carrus = ‘carro a 4 ruote’, benna =
‘carro a due ruote’, o bracae = it. ‘braghe’, betulla, brisare = ‘rompere’ ecc. Potrebbe
essere celtico il sistema vigesimale = ‘a venti a venti’ che ritroviamo nel fr. quatre-
vingt per 80 ecc., ma si è ricondotto al sostrato celtico il passaggio da u > ü, limitato
al territorio ladino, gallo-italico e francese, come pure il passaggio ct > it.
In questo campo ci si rifà principalmente agli studi sul sostrato portati avanti
dall'Ascoli, anzitutto in relazione alla presenza del fonema /y/ diffuso nel francese e
nei dialetti gallo-romanzi. Secondo lo studioso si trattava di una “reazione etnica” da
parte delle popolazioni celtiche che avevano imparato il latino e cioè che, a partire da
una comune base linguistica, il celtico appunto, diffuso in tutte queste zone molti
secoli fa, queste aree linguistiche avessero sviluppato la comune tendenza al
turbamento di u (pronuncia fr. une): ciò perché, oltre alla prova corografica, alcuni
idiomi celtici hanno a tutt'oggi il passaggio ü > i, ad es. lat. DURU bretone dir. A tale
ipotesi il romanista tedesco Wilhelm Mayer Lübke ha opposto alcune osservazioni,
come il fatto che in francese sono molte le parole che non palatalizzano la c dinanzi
a d u, es. cure < CURA: difatti, avendo la ü un valore intermedio fra i ed u, essa
dovrebbe normalmente, in francese, conoscere il passaggio [k] > [š], fenomeno che si
presenta regolarmente anche in italiano con la realizzazione mediopalatale della
velare + [i] (es. cinque < KINQUEM), ma da CURA > fr. cure, non chure. Si è già detto
dell'assimilazione di [ct] a [it] in fr., provenzale e portoghese e dialetti gallo-italici:
es. lat. NOCTEM > fr. nuit, port. noite, piem. nöit ecc. Ugualmente la forma spagnola
noche < *NOITE, con successivo passaggio a *noχte > noche. Per tale passaggio si è
pensato a una forma intermedia del tipo [ct] > [χ] = spirante palatale > it, che era
presente in gallico e nelle lingue celtiche, es. AFFECTUM > gallese affaith. V’è da dire
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che anche in questo caso il territorio coinvolto da tale passaggio coincide con quello
un tempo celtico e che, immediatamente al di sotto di tale confine, ct evolve in altri
modi: OCTO > ital. otto, rum. opt, ma fr. huit). Tuttavia, non sono stati addotti
argomenti decisivi a favore della reazione etnica, per cui sarà bene considerare tale
fenomeno, per l'appunto, una normale assimilazione.
Sostrato greco: è sufficiente ricordare che il greco non fu mai messo in
discussione in quanto lingua di cultura, per quanto nella Magna Grecia, ovvero
l’insieme delle città greche delle coste meridionali della Penisola e della Sicilia
furono numerosi gli elementi latini che penetrarono rapidamente, di pari passo con la
conquista militare, nelle varietà di greco ivi diffuse, prevalentemente dialetti di tipo
dorico. Bisogna perlomeno tenere presente che la grande durata della colonizzazione
favorì il perdurare di una situazione linguistica grecofona che oggi ha portato alla
sopravvivenza di parlari neogreci in due isole linguistiche della Calabria meridionale,
a Bova, nei pressi di Reggio, e più a sud in alcuni paesini attorno Lecce: Calimera,
Corigliano ecc. Per comprendere l'importanza del greco si deve sapere che mentre il
latino era sì la lingua ufficiale, a livello di lingua d'uso l'impero era suddiviso in due
parti: a Occidente (Italia, Gallia, Iberia, Africa settentrionale) si parlava il latino,
mentre a Oriente (Balcani, Anatolia, Siria, Palestina, Egitto, Cirenaica, parte
dell'Italia meridionale e Sicilia) si parlava il greco.
Sostrato in Sardegna: dal V sec. a.C. si stabilì nell’isola un periodo di
dominazione punica. Come noto, vi fu una reazione da parte delle popolazioni
dell’interno che furono raggiunte in minor parte dalla colonizzazione, come pure
avvenne durante la lunga dominazione romana, la quale ebbe inizio nel 238; a questi
si succedettero i Vandali nel 455 dC. e nel 534 l’impero romano d’Occidente. Hanno
origine punica Magomadas < maqom hadas = ‘città nuova’ in punico, come pure in
Makumèle = Macomer. Inoltre, si trovano in sardo alcuni grecismi, come lèppa,
tzeràkku, alzola 'luglio', krisùra < gr. kleisoura, capidanni 'settembre' ecc.
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ROMANIA
Il termine Romània designa il complesso delle lingue e culture neolatine: mentre
la forma romània si diffuse in occidente, la forma greca romanìa si diffuse in
Oriente, sebbene si debba ricordare che il nome etnico della Romanìa è una
costruzione culta successiva all'unione di Valacchia e Moldavia avvenuta nel 1859.
L’etnico romanus si opponeva classicamente a barbarus, come pure Romània si
trovava in opposizione a Barbària o Gothia in quanto complesso di paesi stranieri.
Mentre in Oriente l’impero durerà assai più a lungo che in Occidente qui invece,
essendo venuta a mancare l’istituzione politica, il vocabolo andò a designare la realtà
linguistica di matrice latina, quindi di coloro che parlavano romane o, meglio,
roman(i)ce, base dalla quale deriva l'agg. roman(i)cu(m) e dalla quale, con la
sostantivazione dell'aggettivo, si ha l'ant. fr. romanz e l'it. romanzo. Tale vocabolo in
Francia definì inizialmente il volgare nel suo insieme, non solo quello galloromanzo,
quindi l'insieme delle varietà linguistiche romanze locali e, di conseguenza, il genere
letterario dapprima in versi (intorno al 1150), poi in prosa e caratterizzato, per
l'appunto, dall'utilizzo del volgare. Pertanto, fra romanus e romanicus la forma del
nome etnico che meglio sopravvisse nei popoli romanzi fu l’allotropo romanicus, che
valeva ‘alla foggia romana’ più che ‘romano’, secondo l'uso che ne fa Catone nel De
agri cultura quando parla di aratra romanica 'aratri fatti alla foggia romana'. Nel
Medioevo, quindi, si creò un’opposizione del tipo romanus-romane vs. romanicus-
romanice > romane loqui = latine loqui. Una volta venuta a mancare la
corrispondenza fra romanicus e romanus, romanice fabulare o parabolare equivaleva
a ‘parlare come gli abitanti della Romània’, i quali cioè non parlavano il tedesco.
Ancora, dopo la restaurazione del Sacro Romano Impero da parte di Carlo Magno,
incoronato imperatore nell'800 da Papa Leone III, e la successiva presa di potere di
imperatori tedeschi che risiedevano in Germania, la Romània designò piuttosto
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l’Italia, dove non si parlava tedesco e che veniva spesso contrapposta a Langobardia.
Si veda poi la trafila ROMANIA > Romagna > romaniolus > romagnolo, ovvero
l’odierna Romagna, regione che corrispondeva all’Esarcato e alla Pentapoli,
riconquistate dai Bizantini ai goti fra VI e VIII sec. d.C., dunque appartenenti
all’Impero romano d'Oriente.
Romania occidentale e Romania orientale
Prima di analizzare i confini della Romània, può essere utile suddividere le lingue
romanze in occidentali e orientali: la linea di demarcazione fra le due aree coincide
all'incirca con l'isoglossa La Spezia-Rimini o Massa Senigallia, che suddivide i
dialetti italiani settentrionali da quelli centro-meridionali. A Nord e a Ovest della
linea si hanno parlate occidentali, a Sud e Est le parlate orientali, ovvero il toscano, il
còrso, sassarese e gallurese, dialetti centro-meridionali, con l'aggiunta di rumeno e
dalmatico, mentre le restanti sono parlate occidentali con la parziale eccezione del
sardo, che presenta due tratti marcatamente occidentali come la suffissazione
consonantica nel verbo (cantat) e lenizione delle occlusive intervocaliche, unitamente
a tratti orientali, quale l'esito del nesso -ct- nei tipi otto, notte, senza l'evoluzione
romanza occidentale a -it, (huit, nuit), e la labializzazione delle labiovelari
indoeuropee (àbba, bàttor < AQUA, QUATTUOR ecc.) condivisa col solo rumeno.
Una delle caratteristiche più evidenti dell'area romanza occidentale consiste
nella conservazione di -s latina nelle 2a sg., 2a plur. dei verbi: sardo benis, benìmus
contro it. vieni, venite, come pure nella distinzione nominale sg. pl., ad es. spagnolo
amigo, amigos, amigas vs. amico amici. Inoltre, in sardo si conserva anche la -t
finale, sebbene l'epitesi vocalica, generalmente corrispondente alla tonica, impedisca
la terminazione consonantica della stessa, ad es. benit(i) 'viene'.
Dal canto loro, le lingue romanze orientali conservano le occlusive
intervocaliche, ad es.:
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ROTA; rum. roată; it. ruota; fr. roue; sp. rueda.
SAPONE; rum. săpun; it. sapone; fr. savon; sp. jabón.
URTICA; rum. urzică; it. ortica; fr. ortie; sp. ortiga.
I l sardo si comporta in maniera variabile a seconda delle aree (dalla
conservazione totale alla sonorizzazione più o meno estesa). In generale nel sardo le
occlusive sorde intervocaliche tendono a sonorizzarsi, ovvero a passare al punto di
articolazione delle corrispettive consonanti sonore: [p, t, k] > [b, d, g], tranne che
nell'area del centro-orientale, dove RŎTA > ròta (ma nuor. [rɔδa); FACERE > [fa'kɛrɛ];
CÚPAM > ['kupa]. Inoltre [-b-,-b-,-g-] intervocaliche generalmente hanno valore
fricativo, es. PĔDE > ['pɛδɛ] e possono volgere al dileguo, rispettivamente [pɛ(i)].
Romània perduta
La Romania, già dai tempi della Repubblica, fu assolutamente variabile nella sua
estensione: questo complesso culturale, linguistico, politico, ha conosciuto
ampliamenti (le Americhe, le recenti colonie d’Africa ecc.) e restringimenti (l’Africa
romana perduta, la Bretagna, buona parte della Germania ecc.). Difatti restano delle
tracce del latino anche nella cosiddetta Romània perduta. Ad esempio nella
succitata Africa romana, comprese tutta la parte settentrionale odierna, dal Marocco
alla Tripolitania. Relitti romani si trovano in una lingua assai antica ivi parlata, il
berbero, un insieme di dialetti sparsi nell’Africa settentrionale: il berbero conserva
ad esempio il valore velare proprio del latino di [k] e [g] + vocale palatale, es. CICER >
akiker o ekiker, e continua lemmi ormai perduti o presunti tali nelle lingue romanze.
Inoltre, un geografo arabo del XII sec. di nome Edrisi testimonia del fatto che intorno
a Tunisi si parlava al-latȋnȋ al afrȋqȋ, ovvero una sorta di neolatino africano, come
pure un umanista italiano di nome Paolo Pompilio, basandosi sulla testimonianza di
un viaggiatore, riferisce dell'esistenza in area nordafricana di lingue romanze affini al
sardo ancora in pieno Quattrocento.
Analogamente nel basco, con una presenza molto più forte che altrove, sono
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abbondantissimi i relitti dovuti alla romanizzazione della Penisola Iberica: basco
barkhatu ‘perdonare’ < PARCĔRE. Inoltre, i numerosi infiniti in -atu derivano dai
participi passati latini uscenti in -atum. Anche il basco, come le varietà del sardo
nuorese, conserva il valore velare di [k] e [g] + vocale palatale: [nɛ'ke] ‘colpa’ <
NĔCEM; [lɛ'ge] < LĔGEM. Noteremo infine come i prestiti romani afferiscono a parti
vitali della cultura basca, come quella giuridico-amministrativa (errege < REGEM;
populu ecc.), religiosa (eliza < ECCLESIAM), delle festività, del vestiario ecc.
La provincia germanica, suddivisa in Germania inferior e superior, non andava
oltre il Reno ed era abbastanza ristretta: occupava le odierne regioni di Baviera,
Tirolo e Svizzera, oltre alle provincie renane e parte dell’Olanda. I prestiti latini sono
riscontrabili principalmente nel lessico mercantile e della vinificazione: MUSTUM >
most, keller < CELLARIUM = ‘cantina’, ted. münze < MONETAM, ted. pfund < PONDUS
ecc. Infine, si noti come qui le occlusive erano pronunciate velari nei prestiti più
antichi (keller), mentre in quelli più recenti da CELLAM > zelle.
Ancora, si ricordino gli elementi latini presenti in greco, per quanto questa
lingua fosse culturalmente più forte rispetto al latino, di cui si è detto in precedenza, e
in generale nell’albanese e nelle lingue slave, a causa dell’espansione a est
dell’impero, che raggiunse la propria massima espansione fra I e II secolo d.C.:
parole importanti come tsar (/car/) < CAESAR (cfr. ted. kaiser) e altre ancora,
dimostrano una penetrazione abbastanza efficace del latino in territorio slavo, per
quanto ad eccezione della Romanìa, oltre che della costa dalmata, dove sorse una
varietà neolatina, il dalmatico appunto, poi estintosi del tutto nel 1800, fu il greco la
lingua predominante, e fu dunque quest’ultima a essere sostituita dalle attuali varianti
slave.
Romània nuova
L a Romània nuova corrisponde a quella parte di dominio linguistico romanzo
creatosi non nei territori conquistati da Roma, ma dove una lingua romanza è stata
importata in epoca più tarda, soprattutto attraverso l’espansione delle potenze
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coloniali Spagna, Portogallo, Francia, o dall’intraprendenza insieme commerciale e
bellica di piccole potenze come Venezia e le repubbliche marinare. Tale espansione
ha fatto sì che oggi i parlanti lingue romanze nel mondo siano 646 milioni. Si
accennerà qui solamente ad alcuni fenomeni che riguardano la lingua delle ex colonie
rispetto alla nazioni europee, dovuti quindi alla distanza da queste ultime, ovvero alla
mancata condivisione delle innovazioni della madrepatria, quindi a un maggior
conservativismo o, al contrario, delle innovazioni delle sole colonie: cominciamo con
la Spagna, alla quale andò la gran parte dei territori scoperti, rispetto al Portogallo,
secondo quanto sancito dalla bolla papale denominata Inter coetera del 1493 da papa
Alessandro VI e l'anno successivo dal Trattato di Tordesillas, che assegnava la
colonia brasiliana al Portogallo. Vi sono alcuni fenomeni propri della parte
meridionale della Spagna diffusisi nello spagnolo delle Americhe:
I l seseo, ovvero la defonologizzazione dell'opposizione tra fricativa
interdentale sorda [θ] (grafia /c/ o /z/) e /s/, per cui ciento 'cento' e siento 'sento'
si pronunciano allo stesso modo.
Lo yeismo: il gruppo latino ll è pronunciato o come [j] oppure nella
realizzazione di fricativa palatoalveolare sonora [Ʒ] : CABALLUM > [kaβa'jo] o
[kaβa'Ʒo]. Si ha dunque la fusione dei due fonemi palatali [j] = /y/ e [ʎ] = /ll/.
I l voseo, ovvero l’utilizzo del pronome personale di 2a plur. invece del sing.,
quindi di vos per tu, ad es. yo hablo con vos invece di contigo.
Infine, sono interessanti infine le differenze tra il francese e l'ex colonia del
Quebec in Canada: qui le differenze sono di lessico ma soprattutto di pronuncia: ditt.
[oi] > [we]: boire > [bweR] anziché [bwaR] 'bere', la denasalizzazione delle
consonanti nasali, arcaismi e anglismi ecc.
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