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1 DISTACCO E PERDITA NELLA LETTERATURA PER L’INFANZIA: ELEMENTI DI ANALISI ED ESEMPI SIGNIFICATIVI di Katia Scabello Garbin “Non c’è nave che possa come un libro portarci nelle terre più lontane, non c’è corsiere pari ad una pagina di poesia che balza e che s’impenna. Questo viaggio può farlo il miserabile, senza l’oppressione del pedaggio: è assai frugale il carro che trasporta l’anima dell’uomo” (Emily Dickinson) 1 La tematizzazione della perdita, del distacco, della morte, può trovare molteplici percorsi di analisi, attraversando differenti discipline e saperi. Fra questi, la letteratura permette di condurre la riflessione oltre il testo originale, offrendo percorsi elaborativi, meditativi ed interpretativi portatori di un’importante valenza educativo-formativa. Nel suo essere testimonianza ed invenzione, nel suo sollecitare un’interpretazione e una ricerca di significato, la letteratura fornisce un contributo immancabile alla costruzione di senso, nei modi propri e specifici di invitare il lettore a partecipare ad un viaggio in cui non rimanere semplice passeggero, ma protagonista, co-autore: “L’opera letteraria è un particolare spazio comunicativo nel quale Autore e Lettore intervengono in una reciprocità tale che essa trascina con sé sempre la singolarità dell’incontro” 2 . L’incontro con il testo letterario può dunque dimostrarsi spazio privilegiato per un confronto con la propria e l’altrui finitudine, collocando il lettore in un ambito di riflessione protetto dalla fictio, dalla finzione narrativa, permettendo di raggiungere, talvolta, spazi d’immaginazione negati dalla realtà dell’esistente. La letteratura può permettersi il privilegio, come l’arte in generale, di immaginare la morte, di inventarle un “luogodi espressione, di darle parola senza cadere nel delirio di follia in quanto Autore e Lettore accettano, di comune accordo, di condividere uno spazio d’invenzione circoscritto, al termine del quale non è certo negata la dura realtà della morte. “Raccontare la morte significa allora, prima di tutto creare nuovi sfondi di senso all’interno dei quali collocare la nostra narrazione. Sfondi precari, certamente, che debbono trovare la forza di rifiutare la tentazione dell’onnipotenza e del totalitarismo” 3 . Risulta piuttosto consueto imbattersi in racconti, non appartenenti a generi letterari specifici quali il noir o l’horror ed il thriller, in cui l’incontro con la morte si intreccia con le trame narrative più 1 E. Dickinson, Poesie, Cologna ai Colli (Vr), Demetra, 2000, p.110. 2 D. Lombello Soffiato, La narrativa fantastica: strumenti per l’analisi, Padova, Cleup, 2006, p.1. 3 R. Mantegazza, Pedagogia della morte, Troina (En), Città Aperta, 2004, p.156.

DISTACCO E PERDITA NELLA LETTERATURA PER L’INFANZIA ... · pone il legame fraterno nella sua originalità: la comunanza con la nascita. Il mistero della nascita ed il mistero della

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DISTACCO E PERDITA NELLA LETTERATURA PER L’INFANZIA:

ELEMENTI DI ANALISI ED ESEMPI SIGNIFICATIVI

di Katia Scabello Garbin

“Non c’è nave che possa come un libro

portarci nelle terre più lontane,

non c’è corsiere pari ad una pagina

di poesia che balza e che s’impenna.

Questo viaggio può farlo il miserabile,

senza l’oppressione del pedaggio:

è assai frugale il carro

che trasporta l’anima dell’uomo”

(Emily Dickinson)1

La tematizzazione della perdita, del distacco, della morte, può trovare molteplici percorsi di analisi,

attraversando differenti discipline e saperi. Fra questi, la letteratura permette di condurre la

riflessione oltre il testo originale, offrendo percorsi elaborativi, meditativi ed interpretativi portatori

di un’importante valenza educativo-formativa.

Nel suo essere testimonianza ed invenzione, nel suo sollecitare un’interpretazione e una ricerca di

significato, la letteratura fornisce un contributo immancabile alla costruzione di senso, nei modi

propri e specifici di invitare il lettore a partecipare ad un viaggio in cui non rimanere semplice

passeggero, ma protagonista, co-autore: “L’opera letteraria è un particolare spazio comunicativo nel

quale Autore e Lettore intervengono in una reciprocità tale che essa trascina con sé sempre la

singolarità dell’incontro”2. L’incontro con il testo letterario può dunque dimostrarsi spazio

privilegiato per un confronto con la propria e l’altrui finitudine, collocando il lettore in un ambito di

riflessione protetto dalla fictio, dalla finzione narrativa, permettendo di raggiungere, talvolta, spazi

d’immaginazione negati dalla realtà dell’esistente. La letteratura può permettersi il privilegio, come

l’arte in generale, di immaginare la morte, di inventarle un “luogo” di espressione, di darle parola

senza cadere nel delirio di follia in quanto Autore e Lettore accettano, di comune accordo, di

condividere uno spazio d’invenzione circoscritto, al termine del quale non è certo negata la dura

realtà della morte.

“Raccontare la morte significa allora, prima di tutto creare nuovi sfondi di senso all’interno dei

quali collocare la nostra narrazione. Sfondi precari, certamente, che debbono trovare la forza di

rifiutare la tentazione dell’onnipotenza e del totalitarismo”3.

Risulta piuttosto consueto imbattersi in racconti, non appartenenti a generi letterari specifici quali il

noir o l’horror ed il thriller, in cui l’incontro con la morte si intreccia con le trame narrative più

1 E. Dickinson, Poesie, Cologna ai Colli (Vr), Demetra, 2000, p.110. 2 D. Lombello Soffiato, La narrativa fantastica: strumenti per l’analisi, Padova, Cleup, 2006, p.1. 3 R. Mantegazza, Pedagogia della morte, Troina (En), Città Aperta, 2004, p.156.

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differenti: immancabilmente fa capolino la sua presenza, il suo intervento, con toni più o meno

marcati, con un coinvolgimento diversificato in relazione alle vicende ed ai profili dei protagonisti.

Che cosa spinge molti autori ad inerpicarsi in percorsi narrativi in cui il confronto con la morte è

obbligato, voluto, ricercato?

David Almond, apprezzato autore di libri per ragazzi e giovani-adulti, amato dal giovane pubblico

di lettori per le intriganti trame dei suoi racconti, in un’intervista pubblicata dalla rivista

“Fuorilegge”, così giustifica tale tendenza: “La presenza della morte enfatizza il miracolo della vita,

il buio esiste perché esiste la luce. Fuori c’è il sole, noi siamo qui a chiacchierare, tutto questo è

fantastico, è vita. Ma sappiamo che poco più in là ci può essere la morte. E’ il rapporto tra le due

cose che dà loro un senso”4. Il mistero della morte affascina Almond quanto quello della vita, in una

vorticosa tensione a rintracciare, negli anfratti dell’esistenza, le linee che legano una vita all’altra: è

quanto emerge, con particolare insistenza, nel racconto, fortemente autobiografico, Contare le

stelle5, in cui la voce stessa dell’autore riveste il ruolo di narratrice delle adolescenziali vicende del

giovane David, nel passaggio dall’infanzia verso un mondo adulto da capire, da squarciare o,

semplicemente, da accettare. In tutto questo, cos’è la morte per Almond? “-La morte è sapere che

stai per morire- dice mamma.- È vedere la morte e la vita nello stesso momento, senza morire e

senza vivere. È aspettare l’ultimo respiro, mentre i morti e i vivi sono tutti intorno a te, ti

accarezzano e ti sussurrano: «Va tutto bene, mamma. Va tutto bene.» Ma non è possibile restare

aggrappato all’ultimo respiro. Devi morire”6.

Contrariamente alla sincera consapevolezza sulla finitudine espressa in molta Letteratura di

accertata qualità stilistica, nella nostra società, occidentale contemporanea, si é radicata l’idea fatua

dell’immortalità, nella tensione continua verso un edonismo privo di limiti, nel mito dell’eterna

giovinezza che maggiormente rafforza il tabù della morte, nel progresso tecnologico e scientifico,

unico credo per la risoluzione d’ogni problema.

Reduci da una cultura materialista che, a partire dal positivismo, ha operato per la negazione di una

realtà ultraterrena, con la conseguente perdita di quella familiarità per il culto dei morti, sembra ora

di vivere in una sorta di “non-problema”, come Pierre Chaunu ben sostenne quando affermò: ”Non

potendo scacciare la morte dalla vita, l’avevamo eliminata dai nostri pensieri, dai nostri

comportamenti sociali”7.

Paradossalmente ciò che pone in scacco il nostro sapere é che, a fronte della certezza assoluta di una

realtà che accomuna ogni uomo e donna indistintamente, pareggiandone le differenze d’ogni forma

4 Intervista a David Almond, “Fuorilegge”, n.1, 2004, p.17. 5 D. Almond, Contare le stelle, Milano, Mondadori, 2002. 6 Ivi, p.138. 7 P. Chaunu, P. Ariès, storico della morte, in M.Spinella, G.Cassanmagnago, M.Lecconi (a cura di), La morte oggi, Milano,

Feltrinelli, 1985, p.34.

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e genere (solidarietà della morte), vi é il silenzio più totale sulla singola esperienza. Nessuno può

raccontarci della propria morte: possiamo solo fare esperienza della morte d’altri, seppur fino ad un

certo punto, oltre il quale il racconto tace nel modo più completo, assoluto, perfetto.

Ma se davvero la morte é l’esperienza che accomuna tutti gli esseri viventi, l’uomo si distingue per

la sua capacità di parlare, di riflettere, di pensare. Le altre specie viventi non sanno di morire,

l’uomo sì, perciò, nel corso dei secoli, é stato capace di elaborare il lutto inventando le vie più

consone per affrontare l’inevitabile.

La cultura, attraverso i rituali, le tradizioni, il culto di chi già “non c’era più”, trovava i modi di un

“essere ancora” che rendeva l’esperienza della morte, oltreché familiare, preparata e, per certi

aspetti, meno traumatica, senza per altro negare il dolore del distacco8. Il distacco stesso era vissuto

in un clima di cura familiare, di pietas partecipata e condivisa; l’angoscia di separazione trovava,

nella coesione del gruppo familiare e sociale, uno strumento valido per “addomesticare la morte”9.

La contemporaneità, all’inverso, ci fornisce quotidianamente la prova di una privatizzazione della

morte, mediante l’ospedalizzazione e la riduzione della stessa ad un rapporto medicalizzato. Il

rischio, che per molti diviene realtà, é di un abbandono alla propria sorte: l’emarginazione

dell’uomo nel momento più difficile, più temuto, il silenzio sterile di fronte all’epifania della morte.

Ed ecco dunque la “coerenza” di un non-parlare, non-dire, non-raccontare la morte, quasi a

ricercare, così, una via per allontanarla, esorcizzando il pensiero, lasciandosi poi scaraventare dalla

sua travolgente e sconvolgente potenza, quando ad esserne toccati sono i nostri affetti più cari.

La grave conseguenza é che estraniarsi dal pensiero della morte corre il rischio di divenire motivo

di “estraneità anche nei confronti di molti nostri amici”10

: rinnegare la nostra morte induce a non

riconoscere la profondità e l’inestimabile valore di ciò che ci lega agli altri.

C’é dunque bisogno di parlare della morte, non certo per un senso del macabro o per un gusto

dell’horror, al contrario: dare la parola alla morte è consentire all’uomo, non solo di convivere con

essa, non solo di darle un volto più familiare in grado di contenere l’angoscia dell’inevitabile, ma,

al di sopra di tutto, per ritrovare un senso, un significato che possa ulteriormente illuminare il

profondo senso della vita.

8 Secondo il parere di P. Pira e L. Venini, ogni forma culturale, sia a livello individuale, nelle produzioni artistiche, sia a livello

sociale, nei riti e nei miti, può considerarsi come la volontà ed il tentativo da parte dell’uomo di contenere creativamente, in una

situazione esistenziale, ciò che oscilla tra i poli opposti di essere e non essere.

P. Pira, L. Venini, Le immagini e il vissuto della morte, ivi, p.143. 9 Il ruolo della religiosità popolare, di radice cristiana, è sempre stato quello di mantenere vicina la presenza dei defunti

(originariamente le stesse sepolture avvenivano nel giardino intorno alle chiese); si ricordino inoltre i molteplici culti agresti pre-

cristiani, in cui si invocavano i morti a difesa del raccolto e contro le forze del male.

F. Salimbeni, Il tema della morte nei recenti studi italiani, ivi, p.29. 10 C.M. Martini, La speranza oltre la morte, ivi, p.50.

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Ecco dunque il valore della “buona morte”: aprire lo sguardo e la riflessione sul “buon vivere”.

Perché negare la realtà del dolore, della sofferenza, della perdita, del distacco, se non anche della

morte, così connaturati alla vita umana? Perché lasciare in contenzioso un’esperienza che

inevitabilmente ogni essere umano incontrerà nella propria esistenza terrena?

La cura, la protezione alla quale siamo chiamati verso i più piccoli, i più giovani, ci impone di

riflettere, di cercare le vie più adatte per un incontro sereno con le “numerose morti” di cui é ricca la

quotidianità, siano esse piccoli o grandi fallimenti, perdite, rinunce, fino alla morte corporale

propria e degli altri.

San Francesco d’Assisi è d’esempio nel definire “sorella” la morte, con la giusta intuizione che

pone il legame fraterno nella sua originalità: la comunanza con la nascita.

Il mistero della nascita ed il mistero della morte non sono separati, ma, intrinsecamente, uniti, ed é

solo nella loro unità che scaturisce il senso profondo della vita, in una unità perfetta11

.

Inoltre: ricercare i tratti dell’esperienza del lutto nella letteratura giovanile diviene utile strumento

per chi intende proporsi come educatore per non trovarsi impreparato, per non lasciar cadere nel

vuoto silenzioso o nell’inadeguatezza di una risposta frettolosa la domanda dell’educando che si

pone innanzi a noi e che da noi attende una conferma, non certo una certezza. È dunque un dovere,

non certo un “di più”, é un doveroso compito quello di fornire risposte eticamente fondate che,

innanzi tutto, si devono cercare per sé.

Quale sostegno educativo, dunque, può offrire la letteratura giovanile? Quale prospettiva propone

nei riguardi di un argomento così sensibile? Di quale utilità può essere portatrice?

Vita e morte, amore e morte: temi che, dai tempi più lontani, hanno ispirato scrittori e poeti, pittori e

drammaturghi che ne hanno indagato la comune misteriosità ammaliatrice, talvolta lasciandosi

trascinare in estremismi catastrofici, se non assurdi12

, nella ricerca spasmodica di un’illusione

d’eternità.

Torna alla memoria l’antico tentativo di Orfeo di riportare la sua amata Euridice al mondo dei

viventi, ricorrendo alle sue riconosciute doti musicali: tentativo drammaticamente fallito a causa del

fatale gesto di girarsi a guardare la sua amata prima del tempo dovuto. Ma ciò che colpisce del

racconto mitologico è la richiesta di Orfeo: non tanto l’immortalità della giovinetta, bensì di poterla

riportare in vita il tempo necessario di un’esistenza, senza rincorrere l’immortalità. Purtroppo il suo

nobilissimo desiderio non verrà esaudito, a causa di un errore umano, non tanto di un diniego

divino. Lo sguardo perduto e drammatico di Euridice è ancora capace di commuovere: la

11 “Appena qualche attimo prima di morire, appoggiata al nocciolo del giardino, l’Annina emerse dall’ombra[…]in quei brevi istanti

che la morte ancora le concesse[…]vide sua madre partorirla urlando di un dolore che le sembrò perfetto[…]”.

U. Riccarelli, Il dolore perfetto, Milano, Mondadori, 2004, p.9. 12 Dal suicidio del giovane Werther, raccontato da Goethe, a quello reale del poeta Kleist, il rapporto tra eros e thanatos è il soggetto

del breve saggio di Patrik Süskind, Sull’Amore sulla Morte, Milano, Longanesi, 2007.

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drammaticità dell’esistenza di Orfeo, dopo la seconda tragica perdita, non può che accettare un

epilogo altrettanto macabro, in cui, tuttavia, il richiamo dell’amata sopravvive.

La mitologia greca prima, e la letteratura latina poi, hanno cantato la vita e la morte, l’amore e la

morte con passione instancabile. Volendo restare ad un’epoca a noi più vicina, basti ricordare la

crudele Salomè di Oscar Wilde, le morti drammatiche di vite segnate da tormenti amorosi, quali

Anna Karenina e Madame Bovary, per non dimenticare la determinazione di Armand nel voler

rivedere il cadavere di Marguerite, per lui unica certezza della fine di un supplizio interiore13

.

Vita e morte, amore e morte: muse ispiratrici di una forza creativa che “rappresenterebbe la

partecipazione dell’uomo all’immortalità, perché avrebbe effetto e durata al di là della sua morte”14

.

Certamente, ciò che nel tempo è mutata, è la dimestichezza, anche letteraria, di raccontare la morte,

di considerarne la costante presenza come, al contrario, sono stati capaci scrittori come Charles

Dickens: basta scorrere le prime righe de Le avventure di Oliver Twist, per comprendere come la

giovane vita del protagonista, fin da subito, sia segnata dal lutto15

. Tutto il racconto è pervaso da

scene che evocano la solitudine, la malinconia, il dolore, di cui la morte segna il cammino della

vita, a conferma di una sua presenza riconosciuta, legittimata, ma, non per questo, meno patita. La

familiarità con un’esperienza che ora, tenacemente, tentiamo di tacere, di negare, trova, nel racconto

di Dickens, innumerevoli modi per allacciarsi all’esperienza quotidiana, tanto che ogni tramonto

diviene, per l’autore, anticipazione della naturale finitudine di ogni creatura: “quando la campana di

San Paolo suonò a morte per un altro giorno trascorso”16

.

Vita e morte, amore e morte: un intreccio senza tempo, una danza eternamente ripetuta in cui

l’uomo è alla ricerca spasmodica di un senso, in una tensione primordiale in cui trova espressione il

desiderio di narrare, raccontare, dire.

È proprio dell’istinto di narrazione la spinta a voler raccontare il proprio vissuto, in un desiderio di

condivisione che cerca, nell’artifizio della scrittura, una traccia d’infinito. Raccontare e scrivere per

non abbandonare nell’oblio, nel vizio della memoria, il testamento umano di cui ogni persona è

portatrice, anche in nome di chi non è dotato di abilità narrative, ma sa ritrovare, nel patrimonio

letterario, una parte di sé.

Quelli che ami non muoiono17

: espressione di cui ognuno ci appropriamo nel tentativo di mantenere

in vita un legame affettivo con coloro che ci hanno preceduto nell’aldilà, è anche il titolo di un

saggio dello scrittore e giornalista Mario Fortunato, in cui lo stesso autore ha voluto rendere

13

A. Dumas, La Signora delle Camelie, Milano, Rizzoli, 2002. 14 P. Süskind, Sull’amore sulla Morte, op.cit., p.14. 15 “Il medico le mise la creaturina tra le braccia. Lei premette appassionatamente le labbra esangui e gelide sulla fronte del bambino,

si passò le mani sul viso, si guardò attorno con terrore e sgomento, venne percorsa da lunghi brividi, ricadde sul guanciale…e morì.”.

C. Dickens, Le avventure di Oliver Twist, Milano, Mondatori, 1987, p.5. 16 Ivi, p.436. 17

M. Fortunato, Quelli che ami non muoiono, Milano, Bompiani, 2008.

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omaggio a persone amate e stimate: “ho sentito a un certo punto di dover restituire almeno un poco

di ciò che a suo tempo mi avevano dato con tanta generosità, provando a raccontare a dei nuovi

lettori, e in definitiva accettando il mio ruolo vicario nella catena evolutiva”18

.

Il racconto diventa dono, riconoscenza verso l’altro per l’importante ruolo assunto nel personale

percorso di crescita di chi ricorda, in un gesto di ri-membranza che riempie di senso di riconoscenza

e che trova nuovi modi per continuare un dialogo anche oltre il confine invalicabile segnato dalla

morte. Ricordare significa sentire proprio un evento esperito anche come doloroso (la perdita di una

persona cara), ma superato e perciò recuperabile nella memoria come parte di sé, riconoscendo il

valore intrinseco che lo caratterizza, la potenza esistenziale di cui é portatore e a cui ci si può

rivolgere anche con gratitudine per l’apporto di significato che ha dato alla propria vita. “Come dice

il verbo ri-membrare, noi ri-membriamo, rimettiamo insieme le nostre membra, reintegriamo ciò

che era alienato o separato, rivalutiamo ciò che disprezzavamo”19

. A questo bisogno risponde la

scrittura e la narrazione, fornendosi come ponte fra due mondi separati, il qui e l’altrove, fungendo

da vero e proprio percorso di elaborazione di quella sofferenza di cui il lutto è portatore.

Non ci sono solo i racconti dei sopravvissuti, impegnati nel loro personale lavorio interiore di

elaborazione: ci sono anche i racconti di coloro che, consapevolmente, si apprestano a compiere il

loro ultimo solitario viaggio verso l’ignoto. Racconti non sempre e non solo immaginari, bensì

fortemente reali, come quelli raccolti da Henning Mankell. Lo scrittore svedese, dopo uno strano

sogno rivelatore, decide di dedicarsi alla stesura dei Memory Books, i Libri della memoria: racconti

di genitori malati di Aids nella martoriata Africa, dedicati ai figli, presto orfani, che altrimenti

rischierebbero, a causa della morte prematura delle madri e dei padri, di restare senza radici, privati

dei racconti della propria genesi. In Io muoio ma il ricordo resta20

, Mankell ci conduce dentro una

sofferenza in cui la morte ingiusta la fa da padrona: di Aids non si dovrebbe morire, se il diritto alle

cure e l’accesso alle medicine non fosse appannaggio di pochi privilegiati.

Che cosa raccontano i memory books se non quello che ogni genitore vorrebbe poter dire al proprio

figlio e che ogni figlio vorrebbe sapere di sé dalla voce di chi lo ha generato. I libri della memoria

sono sfida alla morte: una morte che di naturale ha ben poco! “In futuro nessuno più dovrà scrivere i

libri della memoria”21

: questo il desiderio più forte che spinge l’autore ad incontrare la sofferenza

segnata dall’Aids per denunciare la morte ingiusta, per lottare contro la discriminazione anche

attraverso la scrittura.

18 Ivi, p.10. 19 D. Metzger, Scrivere per crescere, Roma, Astrolabio, 1994, in R. Mantegazza (a cura di), Per una pedagogia narrativa, Bologna,

EMI, 1996, p.138. 20 H. Mankel, Io muoio, ma il ricordo resta, Venezia, Marsilio, 2005. 21 Ivi, p.45.

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Ma, fintantoché l’uomo continuerà a disperdere le proprie energie per combattere con sofisticate

armi tecnologiche nemici più o meno reali, a distruggere il pianeta che ci ospita, in risposta ad

egoistici impulsi di onnipotenza delirante, molti altri memory books dovranno continuare ad essere

scritti.

La storia dell’umanità è disseminata di eventi luttuosi che trovano, in straordinari racconti, uno

spazio per non essere dimenticati. Così, dopo la drammaticità dell’Olocausto, la promessa dei

sopravissuti alle abominevoli offese all’umanità perpetrate dalla pazzia nazista è stata di raccontare,

di trovare le parole, tutte le possibili parole perché il mondo conoscesse la realtà, la verità e, nel

racconto, trovare le forza di sopravvivere oltre il desiderio di morte che la malvagità nazista era

stata capace di iniettare nelle loro vite. Vittima, fra le tante, lo scrittore Primo Levi: e la memoria

porta in primo piano le ultime frasi di Se questo è un uomo: “Sul pavimento, l'infame tumulto di

membra stecchite, la cosa Somogyi”…similmente a quel tumulo di membra ai piedi della tromba

delle scale scelte da Levi per farla finita con il tormento che gli toglieva il desiderio di vivere

ancora22

. Fra tutti, due straordinari picture books nati dalle straordinarie doti illustrative di Roberto

Innocenti, offrono ad un pubblico di giovanissimi lettori di poter conoscere alcuni squarci del

periodo fascista attraverso le storie di due bambine, ebrea la prima, in La storia di Erika (Milano,

La Margherita Edizioni, 2005), tedesca la seconda, in Rosa Bianca (Milano, La Margherita

Edizioni, 2005). A questi si aggiunga il toccate racconto di Irène Cohen-Janca, con le illustrazioni

di Maurizio A.C. Quarello, L’albero di Anne (Roma, orecchio acerbo, 2010). Storie di morte, certo,

di sopraffazione, di violazione del diritto di vita di ogni bambino e bambina, eppure trasformate in

racconti di una bellezza profonda, emozionante a conferma di quanto afferma lo scrittore Jean

Genet: “Attraverso la scrittura ho trovato ciò che cercavo…A guidarmi non sarà ciò che ho vissuto,

ma il tono che userò per raccontarlo. Non aneddoti, ma opere d’arte…”23

.

Il racconto si fa denuncia, provoca un sussulto nella coscienza del lettore inducendolo a riconoscere

che non tutte le morti si equivalgono e che, a fronte della naturalità della morte, vi è un oltraggio

alla vita quando la morte è procurata, indotta, causata dalla crudeltà di cui l’uomo (…se questo è un

uomo, parafrasando Levi) sa rendersi artefice. Abbiamo bisogno della nostra piantina di Mango

nascosta da Aida tra le frasche, raccontata da Mankel, che, per sopportare il pensiero della prossima

morte della madre, la bambina coltiva in segreto, esorcizzando la drammaticità del futuro che

l’attende prendendosi cura della vita.

Ogni bel racconto, pur nella tristezza di molte vicende narrate, rappresenta un piccolo Mango

accuratamente nascosto: il desiderio, nonostante tutto, di coltivare la speranza, di alimentare il

desiderio di vita, di superare la paura della morte, perché la morte genera, sempre, inquietudine,

22 Da un articolo di Guido Vergani apparso sul quotidiano La Repubblica, il 12 aprile 1987. 23 B. Cyrulnik, I brutti anatroccoli, Milano, Frassinelli, 2002, p.142.

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spiazzamento: un’inquietudine che abbisogna anche del coraggio di tacere per lasciare tempo ad un

gesto di solidarietà, di vicinanza pregna di significato per quanto detto nel tempo delle parole24

.

Qual è la vera paura che ci attanaglia di fronte alla morte dell’altro: la sua dipartita o l’anticipazione

della nostra? Non di supereroi che affrontano la morte imperituri, ha bisogno la nostra anima

innanzi alla paura di morte, bensì di amici che condividono la nostra ansia perché, al di là di ogni

discorso, la solitudine della morte ci fa temere, sempre!

Recuperare la comunanza di questa solitudine, di questa paura dovrebbe divenire percorso

educativo in grado di spronarci a raggiungere mete alte, perché la vita vale questo; dotarci di sano

sdegno di fronte alle nefandezze umane, perché la vita non merita d’essere offesa; a sorridere nel

cogliere le debolezze umane che ci illudono di poter trovare nell’effimero un rimedio alla personale

finitudine, perché la vita è ben più del possesso. E come dimenticare la satirica poesia di Antonio de

Curtis, in arte Totò, ‘A livella, in cui, ciò che dà allegria è, ancora una volta, il comportamento

ottuso e stupido degli uomini, che pare non avere fine nemmeno dopo la morte25

.

Della morte, dunque, si può, si deve tornare a parlare, non solo nei luoghi in cui essa è presente per

antonomasia, bensì nel vivere quotidiano, senza necrofilismi, senza declinazioni tanatofiliache.

Tornare a parlare della finitudine dell’esistenza per aiutarci ad apprezzare di più e meglio la vita,

per indurci ad osservare noi e gli altri con occhi diversi, depurandoci dalle scorie di immortalità

illusoria che spesso inquinano la nostra esistenza impedendoci di riconoscere il valore unico ed

irripetibile di chi incontriamo, di chi ci sta accanto, delle responsabilità che ci competono come

adulti, genitori, educatori, uomini e donne di questo tempo, di questo hic et nunc.

“Ora sono qui, sdraiata nel salotto di Ruth, guardo arrivare un’altra aurora e penso che, quando sei

consapevole di morire, il sentiero si assottiglia e alla fine c’è posto per una sola persona…per te,

non più distratta da null’altro e quindi in grado di vedere tutto ciò che non riuscivi a vedere prima. E

che questo può essere un dono così grande che rabbrividisci, dentro, nell’accoglierlo”26

. Affrontare

24 Jude Daly, riprendendo i versetti 1-8 del cap.III del libro di Qohelet, ci dona un piccolo albo illustrato, restituendoci il senso di

circolarità del tempo: c’è un tempo per nascere ed un tempo per morire, un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per il

dolore e un tempo per la gioia. Una sapienza che, nella sua semplicità, colloca gli eventi umani nel ciclo naturale dell’esistenza in cui

c’è un tempo per abbracciare e un tempo per sciogliersi dall’abbraccio.

J. Daly, Una stagione per ogni cosa, Roma, Edizioni Lapis, 2008.

Con immagini delicate e parole leggere come un soffio, un altro libriccino è capace di narrare il cerchio della vita dalla voce di una

madre ad una figlia: una perla di poesia che abbellisce la vita in uno scambio intragenerazionale di cui tutti sentiamo la mancanza:

A. Mcghee, P. H. Reynolds, Un giorno, Milano, Salani-ape junior, 2007. 25 “Lurido porco!...Come ti permetti paragonarti a me ch’ebbi natali illustri, nobilissimi e perfetti, da far invidia a Principi Reali?”

“Tu qua’Natale…Pasca e Epifania!!! T’’o vvuo’ metter ‘ncapo…’int’a cervella che staje malato ancora e’ fantasia?...’A morte ‘o

ssaje ched’’e?...è una livella. (…) Perciò, stamme a ssenti…nun fa’’o restio, suppuortame vicino-che te ‘mporta? Sti pagliacciate ‘e

ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”.

A. De Curtis, ‘A livella, Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 1968.

Da segnalare l’apprezzatissimo progetto di Paramica Edizioni per Bambini (Vittorio Veneto, 2008)che ha riadattato il testo della

poesia di Totò grazie al racconto di Antonella Ossario ed alle immagini per mano di Monica Auriemma, con prefazione di Liliana e

Diana de Curtis. 26 E. Berg, Parole prima del sonno, Milano, Longanesi, 1994, p.183.

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la morte, come la vita, richiede coraggio e maturità, saggezza e un pizzico di follia che ci aiuti a

riconoscere, come gli indiani d’America che “oggi è un buon giorno per morire”.

Sfidare la morte trovando nuovi rituali pregni di significato per strappare la morte ad

un’amministrazione burocratica, fredda e frettolosa e riscoprire, negli interstizi della fragilità e

temporalità della vita, le opportunità di bellezza che, l’incontro con chi condivide la nostra

creaturalità, sa essere portatore: un racconto, un romanzo, un buon libro può incoraggiare a rischiare

di ascoltare qualcosa di infinitamente bello prima del sonno.

Recita una lirica di Davide Maria Turoldo: “Morte necessaria come la vita,/ morte come interstizio /

tra le vocali e le consonanti del verbo, / morte; impulso a sempre nuove forme”27

.

La vita è parola, canto, poesia, musica. La vita è vita; non si tratta di un contenitore da riempire

come lo è purtroppo per molti, ma di un tesoro da scoprire, apprezzare, amare, custodire, donare,

celebrare. Se la vita è parola che sa dire, esprimere e dunque essere, forse è proprio della parola il

compito di tenere viva l’esistenza quando essa è espressione di una umanità che, pur riconoscendo

la propria finitudine, non rinuncia all’opportunità di poter offrire ad ogni vita uno squarcio di luce.

In prima di copertina del romanzo dell’australiano Markus Zusak, La bambina che salvava i libri

(Milano, Frassinelli, 2007), appare una bambina che trascina verso un bosco una cesta contenete

libri: il suo sguardo ci invita a seguirla, ad incamminarci con lei: apriamo il libro e, fin dalle prime

righe, comprendiamo di avere tra le mani un racconto sui generis. Immediatamente ci sforziamo di

negare ciò che, con evidenza, si manifesta: la voce narrante, con tono inequivocabilmente schietto e

diretto, appartiene alla Morte. La sua voce non è metallica, fredda, tutt’altro: umana, leale,

compassionevole, a tratti affannata dal duro lavoro a cui spesso la costringono gli uomini. Siamo

nella Monaco della seconda guerra mondiale, ed è lì che la narratrice incontra Liesel per ben tre

volte, fino al momento in cui si approprierà del diario della bambina e, nel corso degli anni, leggerà

e rileggerà un’infinità di volte quelle pagine, quei disegni, per poi farne dono a noi che teniamo il

libro aperto in grembo. Chi è Liesel? È The Book Thief (titolo originale dell’opera), letteralmente: la

ladra di libri. Il primo libro che ruba, al cimitero in cui è stato sepolto il fratellino, è il manuale del

necroforo: è in quelle pagine che Liesel impara a leggere, incantata dal potere rasserenante del

suono delle parole più che dal loro significato. Parole e suoni che si intrecciano sempre più alle

vicende della vita, donandole sapori nuovi. Perfino il Main Kampf di Hitler trova modo d’essere

paradossalmente trasformato in un dono dolcissimo. Ciò che affiora con insistenza dal racconto di

Zusak non è la drammaticità della morte in sé, bensì, come per altri libri citati, la capacità

dell’uomo d’essere artefice della disumanizzazione più totale della propria esistenza. Il racconto

tocca molti temi duri come l’abbandono e la perdita, la solitudine e la sofferenza, la guerra e la

27 D.M. Turoldo, Canti ultimi, Milano, Garzanti, 1991, p.58.

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shoah. Temi in cui di naturale non v’è proprio nulla: sono la causa diretta dei comportamenti umani.

L’uomo causa della sua stessa infelicità. Ed alla Morte non resta che raccogliere le anime dei corpi

assassinati dalla stupidità dell’uomo, di girovagare tra le macerie della città bombardata e,

pietosamente, portare con sé quel che resta dei corpi straziati dall’incapacità degli uomini di capire

che con la vita non si scherza, figuriamoci con la Morte!

Lo scrittore australiano dimostra un’abilità geniale nell’uso della parola, restituendoci un racconto

profondamente commovente e provocatorio, al termine del quale il lettore è consapevole d’aver

attraversato quel fitto bosco insieme con la giovane Liesel: si è salvi, ma non indenni. L’unico

bagaglio che è valso la pena portare con sé, i libri, metaforicamente e non solo, rappresentano ciò

che ha permesso, alla bambina e al lettore con lei, di uscire dalla boscaglia per ritrovare un nuovo

spiraglio di sole.

Zusak, con lieve tono ironico, fa dire alla morte-narratrice che il racconto “non è che una della

miriade di storie che porto con me, ognuna a suo modo straordinaria. Ciascuna di loro rappresenta

un tentativo -un faticoso tentativo- di dimostrarmi che la vostra esistenza di uomini vale la pena di

essere vissuta”28

.

Non possiamo negarlo: ogni narrazione raccolta da un libro rappresenta il tentativo di dare

significato alla vita, ad ogni vita, perché ogni uomo e donna merita un romanzo! È sfida alla morte.

Ritorna la verità della narrazione, la libertà delle parole di riallacciare le vicende di ogni vissuto e di

farne un romanzo. Non importa quanto è lunga ogni singola esistenza: ciò che conta è il tono usato

nel raccontarla.

Il romanzo di Zusak si ispira ai racconti dei genitori, vissuti in Germania in tempo di guerra:

aggiungendo la propria immaginazione e fantasia, trasforma, quanto da loro ascoltato, da marcia

funebre a libera danza sopra le umane macerie. Come una sorta di scrittore combattente, Zusak

sceglie di raccontare la sua verità, la verità narrativa, coinvolgendo in tutto e per tutto il lettore,

rendendolo complice29

, presente in quel bosco cupo che necessita d’essere attraversato, conosciuto,

esplorato, reso terreno calpestato: come in un rito d’iniziazione. La foresta attraversata da Liesel

rappresenta, metaforicamente, non solo la guerra e gli orrori nazisti: è la foresta di ogni vita, la

tappa obbligata da superare per poter essere ancora, per poter divenire altro nel personale percorso

di crescita che obbliga ad affrontare la vita con tutto il suo carico di difficoltà, di durezza, di

sconosciuto, se non anche, di abbandono.

Al termine del bosco Liesel arriva da sola, senza madre né fratello, senza genitori adottivi né amici.

Sola con se stessa, eppure carica di quanto ogni persona, per lei significativa, ha indelebilmente

28 M. Zusak , La bambina che salvava i libri, Milano, Frassinelli, 2007, p.15. 29 “Un buon libro […] è semplicemente un libro che coinvolge in tutto e per tutto il lettore e ne fa un complice di chi scrive,

trasformandolo a sua volta dentro di sé in autore”. M. Silvera, Libroterapia, Milano, Salani, 2007, p.18.

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tracciato nella sua giovane esistenza. I libri l’hanno salvata, ma, più di tutto, è stata salvata da

coloro che a quei libri hanno saputo dare un senso, oltre il significato della scrittura. È stata salvata

dai legami che i libri, donati o rubati, hanno intessuto con gioia e timore, rendendo ogni parola letta

una goccia di speranza.

Il potere delle parole, il fascino del racconto, la bellezza del libro!

Parole, racconti, libri capaci di trasformare anche la difficoltà di crescere in una storia sensuale in

cui il lettore ritrova, in maniera più o meno conscia, i propri tratti, le proprie fatiche e speranze, le

proprie attese e conferme.

Nei momenti più difficili una storia può salvarci la vita30

. Le piccole grandi tragedie che costellano

ogni esistenza abbisognano di parole e immagini per potersi dire, pegno l’irrisolutezza,

l’incompiutezza, la fragilità disarmante. “Ma, lo dico molto sinceramente, se avessi avuto allora La

Città di Armin Greder, avrei avuto davvero il sussidio didattico che a me serviva. Perché in questa

fiaba dolente e salvifica (…) ci sono gli echi di una tragedia che parlava, e parla, a me e a loro”: è

quanto afferma con decisione Antonio Faeti31

in una ricca nota a termine del drammatico libro di

Greder, La Città (Roma, Orecchio acerbo, 2009). Il racconto rappresenta una tipologia di fiabe per

molto tempo volutamente ignorate dalla Pedagogia in quanto ritenute fiabe mortuarie, orrorifiche,

prive di significato educativo e mere portatrici di insani pensieri32

. Superato, almeno in parte,

questo tabù e riconosciuta la valenza formativa anche di una tipologia così particolare di racconti, a

fronte delle maggiori conoscenze dello sviluppo psicologico del bambino e della persona in

generale, vi è ora una maggiore apertura nel cogliere i significati ed i messaggi veicolati da una

tradizione fiabesca di remota nascita. Se da sempre le porte chiuse hanno attirato la curiosità di tutti

i bambini, animandone la fantasia, alimentando l’immaginazione ed ispirando magnifici racconti33

,

la curiosità e il timore di scoprire qualcosa di orrendo non stanno all’antitesi, ma si attraggono a

vicenda, tesi a svelare segreti, a scoprire tesori nascosti o giardini dimenticati, mantenendo un senso

di paura dell’ignoto ed un desiderio di non sfuggire più all’incubo, ma di contemplarlo “e quando lo

si è guardato con la luce della conoscenza, si definisce un nuovo rapporto”34

.

30 La storia di Shahrazàd ne Le mille e una notte, e dei racconti che le salvarono la vita dalla sete di vendetta del re Shahriyàr,

mantiene il suo incanto! 31 Antonio Faeti, scrittore e saggista, esperto di Letteratura per l’Infanzia e di Pedagogia della creatività presso l’Università degli

Studi di Bologna. 32 Ricordiamo, a tal proposito, una famosa nursery rhyme apparsa all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso, e divenuta presto

patrimonio collettivo: There was an old lady who swallowed a fly (C’era una vecchia signora che aveva ingoiato una mosca,

traduzione di chi scrive). È stata riproposta dalla casa editrice californiana Chronicle Books nel 2009 e racconta di una vecchia che, a

seguire, ingoia svariati animali, affermando, ad ogni strofa che “perhaps she’ll die” (“certamente morirà”, traduzione di chi scrive):

ed è quanto accade al termine del racconto in cui compare la vecchia signora ad occhi chiusi, con le braccia incrociate nell’ultimo

eterno riposo. Il libro ha ricevuto il premio opera prima Bologna Ragazzi Award 2010 in quanto, come affermano, fra le altre, le

motivazioni dell’assegnazione: insegna mentre diverte. Maggiori dettagli sono consultabili all’indirizzo

http://www.bookfair.bolognafiere.it/boragazziaward/, ultima consultazione: 17/X/2010. 33 Il giardino segreto, di Frances H.Burnett (Milano, Salani, coll. Gl’istrici, nuova edizione 2008) ed Il giardino di mezzanotte, di

Philippa Pearce (Milano, Salani, coll. Gl’istrici, nuova edizione 2008), sono solo due possibili esempi fra i tantissimi citabili. 34 S. King, citato da A. Faeti, postfazione al racconto di A. Greder, La Città, Roma, Orecchio acerbo, 2009.

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Non è dunque il silenzio, o l’indifferenza rispetto ai temi che più inquietano, a liberarci dall’ansia o

dal malessere inconscio che accompagna ogni persona e, ancor più, i soggetti in crescita: molto più

esorcizzante è il racconto, in grado di dare un nome, di svelare attraverso la fictio narrativa i misteri

interiori, di inoltrarsi anche dove il nostro pensiero si ferma per timore dell’ignoto. Per superare la

paura, qualsiasi paura, compresa la paura della morte, è necessario riflettere su di essa.

Il racconto permette di affrontare le paure, i dubbi, le incomprensioni: ci prende per mano, ci

accompagna lungo il percorso narrativo scelto dall’autore che, anche utilizzando la finzione

scenico-letteraria, utilizza dispositivi cognitivi ed emotivi reali, condivisi, in una sorta di linguaggio

comune e condiviso. ”Ma attenzione! Non è la sofferenza a diventare piacevole, ma la sua

rappresentazione. Un atto che conferma come il soggetto ferito sia riuscito a governare e a prendere

le distanze dal suo trauma, trasformandolo in un’opera socialmente stimolante”35

. Se è doloroso

affrontare le difficoltà, inclusa la sofferenza legata alla crescita come all’esperienza del lutto e del

distacco, certamente è maggiore il beneficio tratto dal racconto del vissuto rispetto al rischio del

danno per un percorso narrativo-elaborativo rifiutato o taciuto. Il piccolo protagonista de La Città

sperimenterà la libertà di poter andare incontro al proprio futuro senza senso di colpa o pegno verso

il proprio passato, solamente quando accetterà di liberarsi dal peso delle ossa della madre che

rappresentano il già vissuto, l’infanzia finita. Andare verso la Città significa aprirsi all’inedito senza

rinnegare il passato, trovando un posto dove lasciare ciò che è già stato: un luogo che possa

custodire le spoglie mortali di coloro che ci hanno preceduto, metafora del luogo interiore in cui

ciascuno è chiamato a custodire ricordi ed affetti.

C’è bisogno di trovare un luogo dove seppellire le ossa dei persone che hanno ceduto il passo della

vita ad altri, in un continuum esistenziale cosmico. Non si tratta di dimenticare, tutt’altro: si tratta di

donare un luogo in cui la nostra memoria sia libera di tornare per ri-celebrare un incontro.

“Si può lasciar andare una persona, non tanto perché ci liberiamo di lei o del suo ricordo, ma

quando la si porta dentro. Quando si riesce a dare senso alla perdita riconoscendo i doni che la

persona ci ha lasciato e la sua eredità”36

.

Il valore di un racconto lo si coglie ancor più in profondità quando ci permette di adottare nuovi e

differenti sguardi, di procedere oltre e al di là di quanto possa fare un reportage giornalistico, di

scavare nelle vicende che si celano dietro drammatici titoli di prime pagine tese a ricercare lo scoop

piuttosto che ad indagare i vissuti che hanno indotto a compiere gesti dal drammatico epilogo. In un

libro vi è lo spazio dilatato che favorisce la ricognizione delle esperienze, non fermandosi alla

cronaca, allo scatto fotografico: una dilatazione che permette di collocare un fatto all’interno di un

percorso al termine del quale la stessa visione degli accaduti può radicalmente mutare. È quanto

35 B. Cyrulnik, I brutti anatroccoli, op.cit., p.136. 36 L. Ciotti, Postfazione al testo di M. Varano, Tornerà? Come parlare della morte ai bambini, Torino, EGA Editore, 2002, p.114.

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accade in due particolari racconti che, rivolgendosi ad un pubblico di lettori adolescenti, portano

alla ribalta comportamenti sconcertanti: 13, di Jay Asher (Milano, Mondadori, 2008), e Avete visto

JJ? (Milano, Mondadori Junior, 2006) di Anna Cassidy. Entrambi prendono spunto da fatti di

cronaca nera: il suicidio di un’adolescente, per Asher, e l’omicidio di una bambina di dieci anni da

parte di un’amica, JJ per l’appunto, per la Cassidy. Quotidianamente i media riportano fatti

drammatici che vedono protagonisti giovani o giovanissimi, fermandosi il più delle volte su

descrizioni dettagliate dei fatti e licenziando la biografia dei responsabili con riduttivi aggettivi o, al

contrario, attribuendo alla debolezza della famiglia l’intera responsabilità. La semplificazione, la

riduzione, la relativizzazione delle cronache giornalistiche che, per loro natura, dovrebbero attenersi

ai fatti, rischiano di divenire l’unico spunto di riflessione per molti adolescenti e giovani, se non

anche per gli adulti. Al contrario: respirare il disagio, le delusioni, la drammatica lotta interiore che

può indurre una giovanissima ragazza a cogliere nel suicidio l’unico atto di libertà consentito,

l’ultimo gesto di rifiuto nei confronti delle falsità e dell’ipocrisia che percepisce intorno a sé, grazie

ad un racconto capace di calarsi nell’introspezione dei personaggi, attento a svelare la realtà dei

vissuti, in grado di condurre nel mondo giovanile con competenza, non può che permettere

un’apertura differente ed una considerazione nuova verso tutto quanto è accaduto precedentemente

il compimento di un gesto drastico e irreversibile.

Ricollocare il suicidio all’interno di un racconto significa non tanto dare dignità ad un gesto che

dovrebbe sempre chiamare in causa la responsabilità collettiva, bensì porlo all’interno di una trama

che ne restituisce un senso, togliendolo dalla solitudine individuale in cui si è consumato per

riportalo su un piano d’interpretazione più complesso ed articolato. È quanto ottiene di fare Asher

con il suo libro-denuncia ricorrendo ad un’invenzione letteraria del tutto verosimile: la giovane

suicida, prima di compiere il suo gesto, invia tredici radiocassette, con inciso il racconto della sua

vita, a tredici coetanei che, in modi differenti, ritiene co-responsabili della decisione di togliersi la

vita. Toccante, pungente, provocatoria, la voce di Hannah Baker (la ragazza suicida) chiama in

causa, con i coetanei, anche il lettore, offrendogli, comunque, un posto “protetto”: la voce narrante

appartiene a Clay, da sempre innamorato della ragazza, l’unico ad aver sofferto per lei e ad essere

stato al di fuori delle malvagità che l’hanno colpita. È una posizione di favore che permette al

lettore di non essere trascinato senza colpa nel vortice delle responsabilità collettive. Asher

costruisce un thriller psicologico che, usando il linguaggio dei giovani, si rivolge ai lettori con toni

diretti, offrendo l’opportunità di un’immedesimazione autentica e profonda. L’invito dell’autore è

di superare le barriere del qualunquismo per ricercare, nel volto inquieto dei giovani d’oggi, oltre

l’apparente superficialità, la loro vera capacità di emozionare ed emozionarsi, di soffrire e di

stupirsi, in un gioco continuo di ricerca del superamento della propria fragilità anche attraverso

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gesti eclatanti o, apparentemente, immaturi ed irresponsabili. Sul medesimo tema si dipana il

racconto di Paola Zannonner, L’invisibile linea d’argento (Milano, Mondadori, 2009, collana

Shout): Eugenio, il diciassettenne protagonista, dopo l’apparente suicidio dell’amico, è costretto a

fare i conti con la vera realtà dell’esistere, in una lenta ricostruzione introspettiva dell’ambiguo

legame d’amicizia che lo legava al compagno scomparso; la rivisitazione del vissuto antecedente al

dramma diventa percorso di formazione della propria identità nel miscuglio delle turbolenze che

caratterizzano il periodo adolescenziale37

. Eugenio, per volere dei genitori, sarà allontanato dal

clima cittadino per essere catapultato in una realtà lontana, selvaggia, quasi a voler recuperare, nel

significato metaforico che ogni racconto porta con sé, il senso profondo dell’incontro con la natura

e con l’essenza dell’esistenza: un ritorno alle origini che permette di rivedere con occhi nuovi il

presente, contaminato dalla complessità, ed il futuro che invita ad una progettualità da protagonista,

ad una nuova e continua possibilità di cogliere nella vita un’opportunità unica ed irripetibile.

Anche il romanzo di Anne Cassidy si rivolge ad un pubblico di adolescenti, incoraggiandoli a porsi

nei panni di una ragazza diciassettenne costretta a ricostruire la propria identità lontano dalla madre,

in una città diversa, con un nuovo nome (ritorna, come nella vicenda di Eugenio della Zannoner, la

prospettiva dell’allontanamento come tappa obbligata per la costruzione della propria identità). La

giovane protagonista dovrà lottare non solo per accettare la consapevolezza d’essere stata l’omicida

dell’amica del cuore all’età di dieci anni, bensì per sottrarsi alla pressione dei media e dell’opinione

pubblica, che in lei vuol continuare a vedere “un mostro omicida”, rifiutando ogni possibile

recupero personale e sociale in nome di una giustizia fine a se stessa. Ciò che emerge dal racconto,

come per il thriller di Asher, è un ribaltamento del piano di lettura degli eventi: permettere di

entrare nelle vicende, di ricollocare all’interno di una storia ben più complessa un fatto di cronaca

nera che stimola una popolare e morbosa curiosità per i particolari più raccapriccianti ed

imbarazzanti, offrendo, all’opposto, al lettore di mettersi, empaticamente, dalla parte del “carnefice”

per scoprire che, probabilmente, è davvero sottile la differenza fra vittima e colpevole. Ancora una

volta si presenta l’opportunità di un processo di immedesimazione con la giovane omicida che,

grazie ad una cifra narrativa credibile, dosando la veridicità dei sentimenti e delle emozioni

sollevate, diventa occasione per una riflessione interiore importante e significativa per sviluppare un

atteggiamento maggiormente critico nei confronti dei modi più istintivi di reagire innanzi a simili

fatti. Nell’evidenziare come nulla sia mai completamente come appare, l’autrice richiama la

possibilità di un riscatto che diventa atto dovuto nei confronti di ogni persona, ancor più se in

giovane età.

37 Si tratta di quel periodo psicologico definito di « identità riflessa» ossia caratterizzato “da una riflessione centrata sulla propria

persona e da una ricerca attiva di sintesi, ovvero di una immagine di sé unitaria”. G. Petter, Problemi psicologici della

preadolescenza e dell’adolescenza, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p.269.

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Il racconto, dunque, nella sua prospettiva metaforica, capace di rinviare ad altro, “può avere una

funzione maieutica: essa può aiutare, partendo dalle immagini prodotte, a immaginare soluzioni

inedite, inserendo nuovi pensieri, immagini mentali, sentimenti affinché possano essere modificate

vecchie associazioni mentali e schemi di comportamento”38

.

L’incontro con la morte cercata (suicidio) o provocata (omicidio), collocata in una dimensione

narrativa, può modificare punti di vista, offrendo piani di lettura in grado di riorientare la

percezione della realtà e, con ciò, la stessa modalità interpretativa degli eventi esperiti. Stimolare

abilità interpretative che si avvalgono di una capacità di pensiero divergente, proprio, critico,

sdoganato da condizionamenti indotti dai media o dal facile dire comune, è un merito che spetta alla

letteratura -alla buona letteratura- portatrice di una verità artistica propria in cui prevale “una

meditazione sull’esistenza vista (anche) attraverso personaggi immaginari”39

. Il libro si presta

come spazio interpretativo, meditativo: spazio di completa libertà, di rispetto dei tempi personali di

comprensione e coinvolgimento: “il rapporto con il libro scelto crea una feconda separazione dallo

spazio esteriore, riducendo la persona a ritrovare, almeno in certa misura, un silenzio favorevole a

una duplice direzione di scavo: quello intellettuale, di comprensione sempre meglio connotata dal

testo, e quello ricettivo, che impegna strutture personali ancora più profonde a lasciarsi investire e

interrogare dall’offerta e dal dono del testo stesso, per un allargamento dei propri confini interiori

liberamente intrapreso e sentito come necessario”40

.

Nell’incontro fra autore e lettore, attraverso il testo scritto e letto, si crea una sorta di spazio vitale

fra due mondi, all’origine contrapposti, che, lungo le trame della narrazione, permettono al primo di

mettere in gioco se stesso e la propria ricchezza interiore di inventio mediante la creatività aurorale

che si rende responsabile del proprio dire e, all’altro, di cogliere un di più di cui lui stesso è veicolo,

con la propria originale storia personale. “Abbiamo bisogno di storie, di conoscerle, di ascoltarle, di

ripeterle, anche per poterci opporre, per dissentire, per scegliere soluzioni diverse da quelle che ci

vengono prospettate. [le storie] ci salvano, ad esempio, dall’acquiescenza e dal silenzio”41

.

La narrazione è interpretazione e l’interpretazione si connota come caratteristica peculiare della

persona “necessariamente narrante e narrata”42

. Perciò la narrazione si apre alla relazione e

all’incontro di volti, ciascuno portatore, oltreché della propria opacità, della propria traccia

d’infinito e del proprio inedito. “Come a dire, quindi, che nasciamo tutti per leggere e per ascoltare

38 R. Vittori, Identità e narrazione, in R. Mantegazza (a cura di), Per una pedagogia narrativa, op.cit., p.25. 39 B. Pitzorno, Storia delle mie storie, Milano, Pratiche Editrice, 2002, p.184. 40 R. Lollo, Lo spazio del leggere come crocevia di relazioni: cenni interpretativi, “Studium Educationis”, n.3, 2000, p.419. 41 V. Rosi, Prefazione al testo di L. Adorno, et alii, Le storie salvano la vita?, Reggio Emilia, Mavida, 2006, p.12. 42 A.M. Bernardinis, Narrazione e pedagogia, in G. Flores d'Arcais (a cura di), Pedagogie personalistiche e/o pedagogia della

persona, La Scuola, Brescia, 1999, p.30.

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storie e nasciamo anche per raccontarle, per dare un senso alle nostre esistenze attraverso le

parole”43

.

Al di là di esperienze o conoscenze dirette, l’età adolescenziale coltiva una curiosità e un’attrazione

connaturata nei confronti della morte che può assumere, talvolta, tratti distintivi estremi,

manifestazioni evidenti nei comportamenti, nell’abbigliamento, nei discorsi. L’adolescenza è un

periodo di lutto: il lutto per la perdita dell’infanzia e del sentimento d’identità sicuro e narcisistico;

il lutto per la disillusione di aver creduto nell’immortalità, nell’infallibilità ed onnipotenza dei

propri genitori44

. Un lutto che obbliga ad oltrepassare la soglia dello spazio fanciullesco, spensierato

e sicuro, per dirigersi verso un modo altro, simile ad una foresta a tratti oscura e insidiosa

generosamente narrata nelle fiabe e nei racconti vecchi e nuovi scaturiti dalle mani di sapienti

scrittori, capaci di porsi dalla parte del giovane lettore per scrutarne i sentimenti, per esplicitarne i

vissuti interiori, offrendo l’opportunità di un rispecchiamento confermante ed incoraggiante,

oltreché salvifico. Nell’allargamento interiore generato dal racconto trova accoglienza l’identità in

formazione per la quale è fortemente impegnato l’adolescente, grazie all’abilità dell’autore di porsi

dalla parte del giovane lettore e di esplicitarne il vissuto e l’esperito in forza delle competenze

tecnico-linguistiche45

e della creatività di cui è espressione. Ecco, dunque, come alcuni autori

abbiano scelto di porre un grave evento luttuoso a scansione di tale passaggio obbligato, inducendo

i protagonisti ad abbandonare il mondo ovattato dell’infanzia per volgersi a riflettere e decidere del

proprio futuro. Bianca Pitzorno, in Principessa Laurentina (Milano, Mondadori, 1990), Beatrice

Masini, in Se è una bambina (Sonzono, Bompiani, 1998), Nico Orengo, con L’allodola e il

cinghiale (Torino, Einaudi, 2001) e Lygia Bojunga, con Il mio amico pittore (Milano, Salani, 2004),

scelgono tale percorso. Tali opere, pur partendo da situazioni nettamente differenti, il suicidio di un

amico nel delicato racconto della Bojunga e la perdita della madre nelle prime tre narrazioni, fanno

della morte un ponte necessario da attraversare per poter passare dall’adolescenza al mondo adulto,

permettendo ai giovani protagonisti di scoprirsi nuovi e diversi, capaci di scegliere e di percepirsi

autonomi nel pensiero, e liberi nella volontà di desiderare una vita da assaporare in pienezza.

La morte si può incontrare anche come termine di un rito d’iniziazione voluto e cercato, teso a

provare di non essere più bambini e in risposta al desiderio di non voler più essere considerati tali.

Ci prova Angela Nanetti con tono drammatico e realistico ne I Randagi (Trieste, EL, 1999): un

racconto che si svolge sul filo del rasoio, ricco di suspense e profondamente verosimile nel

raffigurare i sentimenti contrastanti, opposti e complementari, che talvolta animano i rapporti tra

fratelli, ripercorrendo, in chiave contemporanea, il primordiale odio fra Caino e Abele, in cui il

43 V. Rosi, Prefazione al testo di L. Adorno et alii, Le storie salvano la vita, op.cit., p.9. 44 Per un approfondimento si veda: D. Oppenheim, Dialoghi con i bambini sulla morte, Trento, Erickson, 2004. 45 B. Pitzorno, Storia delle mie storie, op.cit., p.42.

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primo ritrova la propria umana fragilità, e con essa il desiderio di ben spendere la propria vita, solo

dopo aver preso consapevolezza di essere colpevole della morte del fratello.

Paula Fox, con Il volo dell’aquilone (Milano, Mondadori, 1996), accompagna il lettore lungo il

difficile percorso intrapreso dal tredicenne Liam: accettare un padre omosessuale, malato terminale

di Aids. In Un’estate di quelle che non finiscono mai, della scrittrice tedesca Jutta Richter (Milano,

Salani, 2006), Daniel, il giovanissimo protagonista, nell’illusione di poter vedere guarita la madre,

malata di cancro, si scontra con la dura realtà della vita che, talvolta, non lascia vie di scampo.

Sia la Fox che la Richter danno voce alla rabbia interiore, al rifiuto, da parte dei protagonisti, di una

realtà innanzi alla quale non possono che riconoscersi impotenti. Se, inizialmente, all’ira si

accompagna l’allontanamento dalle figure genitoriali colpite da malattia incurabile, è attraverso

l’accettazione della realtà e il reinvestimento affettivo più consapevole e maturo che i giovani

protagonisti trovano una nuova via di apertura alla vita. Fra la rabbia e la nuova luce ritrovata, il

tempo sembra sospendersi, quasi a voler sottolineare come la sua stessa percezione muti nel

momento in cui l’uomo abbandona la concezione del tempo come kronos, come mero scorrere, per

appropriarsi di una dimensione del tempo come kairŏs, come momento opportuno, come

opportunitas46

.

”Avrei tanto voluto fermare il tempo qui, ma nessuno lo può fare. Il tempo scorre e non si ferma

mai, e poi viene la sera e poi la mattina e poi un temporale e poi splende di nuovo il sole. Così va il

tempo. E poi un mattino, sotto gli alberi, trovi le castagne marroni e lucenti, e poi viene l’inverno.

Va così”47

.

Così è per un altro intenso ed esilarante racconto di Polly Horvath, La stagione delle conserve

(Milano, Mondadori, 2004), in cui, fin dal primo incontro fra l’adolescente protagonista e due

vecchie e strane sorelle, ritorna con regolarità il tema della morte considerata come “compimento

voluto” (quale è un drammatico e rocambolesco suicidio, che assume nel racconto toni di macabra

ilarità) o “compimento naturale” (la morte di vecchiaia). Nel racconto della Horvarth il tempo fra la

nascita e la morte è uno straordinario incontro con l’incanto della natura e la bellezza dell’amore

semplice ed autentico che solo può rendere la vita un’avventura unica e completa.

Se nei testi citati la morte colpisce persone care ai giovani protagonisti, in due toccanti racconti la

prospettiva viene ribaltata: la morte, a causa di una grave malattia, coglie i giovani protagonisti. Nel

racconto verosimile di Eric-Emmanuel Schmitt, Oscar e la dama in rosa (Milano, BUR, 2006,

settima edizione), Oscar, affetto da cancro, trova nella fantastica corrispondenza con Dio un modo

per affrontare gli ultimi giorni di vita terrena immaginando che ogni giorno sia pari a dieci anni, con

tutte le trasformazioni, le scelte, gli avvenimenti che possono riempire un’intera esistenza. Il decimo

46 L. Paglierini, Il tempo come opportunitas, “Animazione Sociale”, n.5, 2000, p.4. 47 J. Richter, Un’estate di quelle che non finiscono mai, Milano, Salani, 2006, pp.90-91.

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giorno è, per il giovane e provato protagonista, il giorno del termine e, stanco come un vecchio di

cent’anni, abbandona quella vita che lui definisce “uno strano regalo”. Anche Alice Sturiale, nata a

Firenze nel novembre del 1983 e morta improvvisamente nel febbraio del 1996 nel suo banco di

scuola, lascia un messaggio straordinario sulla bellezza ed il valore dell’esistenza, nonostante i suoi

brevi dodici anni trascorsi su una carrozzella, eppure ricchi di amicizia, di stupore, di amore. La

piccola Alice lascia un libriccino in cui i genitori ed i molti amici hanno voluto raccogliere i

numerosi scritti e poesie. Fra le pagine, accanto alle foto e ai disegni, appare con chiarezza il suo

sorriso, il suo desiderio di cogliere il meglio in ogni situazione, in barba a chi si limita a valutare la

vita solo in termini cronologici ed edonostici. “Adesso è sera. / Se ripenso al momento in cui /

stamani, / quando il cielo era chiaro / mi sono alzata / dal letto, / mi accorgo / che è passata /

un’infinità di tempo […] ma adesso / è tutto finito, / quello che è stato è stato / non c’è più niente

ora / che io debba fare. / Adesso / posso riposarmi”48

.

Pur nella significativa differenza d’ogni racconto, nel rispetto dell’originalità e unicità di cui è

espressione, i libri citati hanno la capacità di mostrare la weltanschauung degli adolescenti,

ponendo in luce non certo stereotipi di genere o psicologie semplicisticamente tratteggiate, bensì la

realtà complessa dei vissuti interiori, mettendo in risalto, di volta in volta, differenti prospettive

dell’animo e del carattere, problematiche nuove (non solo la morte, ma il nuovo rapporto con il

proprio corpo piuttosto che con il gruppo dei pari, o con il mondo adulto, talvolta meschino ed

invidioso), e modalità diverse di affrontare il difficile percorso di crescita. Gli autori, con maestria

e talento, fantasia e creatività, permettono di comprendere i turbamenti e la complessità del rapporto

con il mondo adulto genitoriale: un mondo adulto che, spesso impreparato o anch’esso

psicologicamente “adolescente”, si svela incapace di gestire la naturale fase evolutiva delle nuove

generazioni con la dovuta consapevolezza. Le figure adulte sono, infatti, spesso raffigurate in tutta

la loro povertà, nelle loro assenze, a denuncia della triste verità dell’inadeguatezza a sostenere un

percorso di crescita, se non anche a rappresentare, metaforicamente, l’obbligato processo di

disinvestimento affettivo necessario per consentire di accelerare un benefico distacco che induca,

nel giovane in crescita, uno sviluppo autonomo della propria personalità e della propria identità49

. È

solamente dopo tale disinvestimento che vi può essere il ripristino di un rapporto più equilibrato e

maturo.

Altro aspetto importante è il ruolo attribuito all’amicizia, non solo con il gruppo dei pari, ma anche

con persone adulte esterne al nucleo familiare, capaci di fornire un supporto emotivo significativo,

diverso e alternativo rispetto a quello genitoriale50

. Una prova emblematica di quanto sopra

48 A. Sturiale, Il libro di Alice, Milano, Rizzoli, 19972, p.183. 49 G. Petter, Problemi psicologici della preadolescenza e dell’adolescenza, op.cit., p.127. 50

Ivi, p.283.

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affermato ci viene offerta dal toccante e straordinario racconto pluripremiato della parigina Anna-

Laure Bondoux, Le lacrime dell’assassino (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2008): Pablo,

rimane orfano di entrambi i genitori prima ancora di capire il significato del loro legame naturale ed

affettivo, prima ancora di scoprire una innata nostalgia profonda per un affetto familiare mai

sperimentato. Angel, l’assassino dei due coniugi, capace di uccidere con la stessa facilità con cui

mangia un piatto di minestra, ferma la lama del coltello rivolta verso il bambino per un apparente

bisogno di qualcuno che gli prepari il cibo. In realtà, lungo il prosieguo del racconto, la vicinanza

forzata fra i due si trasformerà in un legame profondo, fatto di tenerezza, di lacrime, se non anche di

crudeltà e colpi di scena. Un racconto solcato dalla drammaticità della morte, tanto che anche il

piccolo Pablo desidera morire innanzi alla certezza che nessuno provi dell’affetto per lui.

La Bondoux, dimostrando una capacità narrativa pacata e coinvolgente, a tratti poetica, accompagna

il lettore alla scoperta della vera essenza dell’essere umano: si vive quando si sa di essere amati,

voluti, cercati.

La morte e la vita, in un intreccio continuo simile ad una danza sensuale ed attraente, trovano in

questo racconto uno spazio singolare, inedito, carico d’emozione. Un vero e proprio capolavoro

letterario in grado di svelare le profondità più recondite dell’animo umano, gli spazi più nascosti di

autentica umanità che si possono celare anche dietro maschere di evidente malvagità: “Ogni sera,

Luis apriva il libro e leggeva a voce alta […]. Ogni sera, Angel si metteva di fronte alla finestra,

perché gli altri due non vedessero le sue lacrime, le lacrime che bagnavano i suoi occhi di

assassino”51

. Sopra ogni logica di morte, di solitudine, di desolazione e di ingiustizia, la Bondoux

svela caparbiamente, con una lentezza che nulla condivide con la noia, la bellezza, la poesia,

l’amore per la vita, fornendo loro uno spazio di espressione lungo tutto il racconto, per terminare

con un finale che illumina come una nuova aurora: “Altri anni passarono. Più tardi, Terusa mise al

mondo un bambino, una femmina. Pablo propose a Terusa di chiamare la loro figlia Angelina. Lei,

in quel nome, non vide altro che un paio di ali e un’aureola. Accettò senza esitare”52

.

Ciò che emerge dai racconti, talvolta sottilmente, altre volte a gran voce, è che la vita, pur nella

complessità, è davvero un’avventura meravigliosa e, forse, diventare grande, per un adolescente,

significa proprio questo: “Che cosa avrebbe creduto, che la vita fosse semplice come un cartone

animato? Eh, no, era complicata, ora lo sapeva. Ma sapeva anche non c’era nulla di cui aver

paura”53

.

Un altro meraviglioso racconto, scaturito dalla indomabile penna di Roberto Piumini, Lo Stralisco

(Trieste, Einaudi Ragazzi, 1996), oltre alle immagini ed ai significati simbolici evocati

51 A.L. Bondoux, Le lacrime dell’assassino, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2008, p.39. 52 Ivi, p.187. 53 M. Milani, L’ultimo lupo, Casale Monferrato (AL), Piemme Junior, 1993, p.146.

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dall’esperienza della morte, si offre come proposta narrativa interpretabile come metafora del

distacco vissuto dall’adolescente: l’allontanamento dall’infanzia, indotto dallo sviluppo psicofisico,

obbliga ciascun bambino e bambina ad intraprendere un personale percorso elaborativo fin dall’età

preadolescenziale, età a cui il racconto appare destinato.

Allontanarsi non significa solamente perdere per sempre: vuol dire certamente rinunciare,

obbligatoriamente (così come impone la morte), a ciò che si è stati per essere altro, per aprirsi al

nuovo e per scoprire, nel nuovo, un’identità accresciuta. Sakumat, il pittore protagonista insieme al

piccolo e malato Madurer de Lo Stralisco, ben rappresentano questo passaggio obbligato: la morte

di Madurer (metafora dell’età infantile che si conclude) induce il pittore-protagonista ad un ritorno

al villaggio natale: un ritorno che diviene epifania di un cambiamento profondo. La casa, gli amici,

la natura sono rimasti invariati, ma lui, Sakumat, non è più lo stesso. Il congedo da un passato che

sente non appartenergli più dopo l’incontro con Madurer, lo induce a partire alla ricerca di un nuovo

luogo, diverso, dove incontrare altra gente, altre abitudini, un altro lavoro. La sua identità trova

nuovi modi per esprimere la propria originalità nel coraggio di accettare un cambiamento al quale

non ci si può opporre ed in cui si può, creativamente, scoprire i modi per essere ancora più se stessi.

Il passato, le esperienze vissute, i ricordi fissati nella memoria divengono, per Sakumat, tesoro,

risorsa vitale per aprirsi ad un divenire forse mai immaginato prima, in cui assaporare la serenità di

un’esistenza che sa accettare il distacco (metaforicamente, la morte di ciò che è stato in precedenza)

perché capace di cogliere la vita come dono, opportunità, relazione, riflessione: un mare infinito a

cui abbandonarsi, non per perdersi nella delirante rincorsa all’immortalità, ma per vivere

autenticamente ogni attimo, fino all’ultimo.

Quando il testo si pone nei confronti del lettore come Kenegdô, in ebraico “che gli stia di fronte”,

può realmente avverarsi quell’incontro autentico e magico che rende la scrittura dono offerto e la

lettura pensiero interpretativo, in uno scambio reciproco libero ed originale: “Perché la vita è poca

cosa senza le parole che ci scambiamo per trasformarla in racconto”54

.

Vi sono altri racconti, altre trame che si intrecciano in libri che meritano, come i molti citati, di

trovare posto fra le piccole o giovani mani dei lettori, che sono degni d’essere aperti per incontrare

occhi ed orecchie in grado di ascoltarli, che sanno stimolare un pensiero, perché, come dice Roberto

Piumini: “Quanto al resto delle storie, delle vite, del tempo, ognuno può immaginare e inventarlo:

può conoscerlo nella sua mente. Perché questo è la scrittura: un segno che chiama il pensiero. E la

lettura è il pensiero che risponde”55

.

54

V. Rosi, Prefazione al testo di L. Adorno et alii, Le storie salvano la vita, op.cit., p.14. 55 R. Piumini, Motu-iti l’isola dei gabbiani, Trieste, Einaudi Ragazzi, 1997, p.130.

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Quali comuni vie di narrazione trova la morte in moltissimi racconti? Quali topoi sono riconoscibili

come tracce costanti di storie che, seppur differenti, trovano nell’esperienza della morte un’eguale

volontà di dire e raccontare?

Nella metafora del viaggio, nella tensione al recupero della naturalità della morte, nell’immagine

del rinnovo dell’esistenza, nel senso del dono della vita, nell’intreccio di dialoghi e di relazioni,

nella valenza poetica ed estetica della narrazione, nell’apertura ad un fine lieto, si possano

individuare alcune costanti che, seppur con sfumature talvolta ampiamente dissimili, accomunano

molte storie. L’intento non è di piegare la letteratura all’educativo, bensì di evidenziare come

un’opera d’arte letteraria sia portatrice e stimolatrice di cambiamento che, nella sua connotazione

metabletica56

, è strutturalmente educativo nel momento in cui tende ad agire per umanizzare la

persona.

Il tema della morte, sia come perdita che come distacco, non manca nell’oceanico e fascinoso

mondo della Letteratura per l’Infanzia. Nella produzione tradizionale, come in quella

contemporanea, sono frequenti gli incontri con la morte. “La Morte nella sua personificazione è una

delle figure più radicate nell’immaginario collettivo. Per questo motivo nella fiaba il suo ruolo non

è mai secondario: la Morte non è sostituibile con altre figure, poiché non ne esistono di equivalenti,

la sua è una presenza fondamentale capace di caratterizzare, a seconda degli elementi che si

dispongono intorno ad essa, varie fiabe-tipo”57

. Basti pensare ai tanti orfani, da Hansel e Gretel, a

Cenerentola dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm; alla celebrazione della gloria post-mortem come

ricompensa alla generosità, all’altruismo, al senso di pietà in vita, nei racconti di Oscar Wilde: Il

Principe Felice, Il Gigante Egoista o L’Usignolo e la rosa58

. E non si possono dimenticare La

margheritina, Il tenace soldatino di stagno, L’angelo, La bambina dei fiammiferi di Hans Christian

Andersen59

, per citarne altre; e, ancora, La foresta-radice-labirinto60

di Italo Calvino: un gioco

metaforico continuo fra amore e odio, vita e morte: tema, quest’ultimo, che compare in molte fiabe

e racconti recuperati dalla tradizione italiana, a cura dello stesso Calvino61

. Non ultimo, il fantasioso

e squisito Gianni Rodari che, con garbo ed ironia, sa introdurre il tema della morte ne La fuga di

Pulcinella e Il muratore della Valtellina, solo per ricordare alcune sue opere letterarie62

.

I bambini sono attratti dall’ascolto di racconti prima di saper parlare e scrivere, ed ancor prima di

sapere il significato di tutte le parole sentite: la narrazione ha un valore in sé, che anticipa il valore

56 “La metabletica (gr.: metaballein: cambiare, trasformare, variare; metabolé: cambiamento spostamento) […]. Ma la struttura

metabletica ci appare come una struttura delle strutture: la condizione focale in base alla quale un processo educativo si origina,

giustifica e termina.” D. Demetrio, Educatori di professione, La Nuova Italia, Firenze, 1995, pp.49-55. 57 G.P. Caprettini et alii, Dizionario della fiaba, Roma, Maltemi Editore, 1998, p. 252. 58 O. Wilde, Il Principe Felice e altre storie, Milano, Mondadori, 2005. 59 H.C. Andersen, Fiabe, Milano, Edizione CDE, 1998. 60 I. Calvino, La Foresta-radice-labirinto, Milano, Mondadori, 2000. 61 I. Calvino, L’uccello belvedere e altre fiabe italiane, Torino, Einaudi, 1972. 62 R. Rodari, Favole al telefono, San Dorligo della Valle (Trieste), Edizioni EL, 1993.

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del significato del suo stesso contenuto. “Prima del senso c’è il suono, prima delle parole c’è la

voce. Quella voce ha potere sulle cose: le chiama all’umanità, le rende umane”63

. Ecco dunque che

ritorna, in modo forte e perentorio, il ruolo e il valore della lettura ad alta voce64

. La stessa intensità

e lo stesso coinvolgimento emotivo stimolato da un argomento toccante, qual è la morte, richiede un

supporto ed una vicinanza affettiva: compito che la presenza dell’adulto può assolvere. Il racconto

può divenire strumento atto a favorire un dialogo autentico fra adulto e bambino, per delineare uno

spazio in cui le domande, le curiosità, le paure trovano un dove ed un quando per potersi esprimere,

nella consapevolezza che non vi è danno peggiore, per lo sviluppo del bambino, di quello derivato

da una mancata espressione ed elaborazione dei tanti perché, attraverso i quali si realizza la

comprensione della vita, del mondo, del suo stesso essere. L’incontro con il libro letto e raccontato

si dimostra, inoltre, utile allo stesso adulto per stimolare una riflessione propria, personale,

certamente difficile e sofferta, quanto significativa. Lo sfondo pregnante rimane pur sempre

l’atteggiamento degli adulti innanzi alla morte: i più piccoli osservano, scrutano, interrogano a

parole, o solo con lo sguardo, il comportamento adulto, nella ricerca di comprendere e capire una

realtà costantemente da scoprire. Agli adulti è chiesto d’essere testimoni di una riflessione propria,

personale rispetto alla finitudine umana, una riflessione frutto dell’esperienza e, ancor più, della

capacità di tornare sul proprio vissuto, sia esso gioioso o doloroso: in questo si fonda la possibilità

di poter e saper fornire delle risposte originali, non in quanto inedite, bensì, proprie.

Il racconto, dunque, si rivela prezioso alleato, amico nel dialogo, aiuto nella riflessione: da un lato

per avvicinarsi con garbo ad un argomento di così delicato profilo, dall’altro offrendosi come tema

di confronto. La trama si presenta con il tatto di parole ricercate, con la coerenza della narrazione,

con l’efficacia delle immagini evocate, coadiuvato dall’espressività manifestata e dal calore di una

voce percepita come amica, con la completezza della storia narrata.

La vicenda raccontata offre un’interpretazione, una visione degli eventi, un’opportunità

identificativa, una partecipazione emotiva, un invito alla condivisione.

La “magia” della narrazione è di rispondere ad un bisogno innato dell’uomo: “organizzare

l’esperienza in modo narrativo”65

.

Il racconto fornisce uno schema, una strutturazione per ordinare l’esperienza, facilitandone la presa

in carico e l’uso in memoria; e poiché senza memoria non vi è storia, apprendere a trattare la

propria vita in termini narrativi significa “storicizzare” la propria esistenza, collocandola nel tempo

e nello spazio, in un quando e in un dove aventi un contenuto originale e identitario.

63 R. Valentino Merletti , B. Tognolini, Leggimi forte, Milano, Salani, 2006, p.6. 64 Per un approfondimento sull’importanza e sul valore della lettura vicariale e ad alta voce si veda, in particolare, R.Valentino

Merletti, Leggere ad alta voce, Milano, Mondadori, 1996. 65 R. Vittori, Identità e narrazione, in R. Mantegazza (a cura di), Per una pedagogia narrativa, op. cit., p.16.

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Molti libri ed albi illustrati, che tematizzano la morte, scelgono di rivolgersi ad un pubblico di

piccolissimi lettori66

. L’editoria contemporanea offre con generosità veri e propri capolavori

dall’indubbio valore estetico e letterario.

Andrea Rauch, con vivaci illustrazioni e semplici parole, ne La Stellina (Firenze, La Biblioteca,

2004), offre alla simpatica protagonista, che risponde al nome di Banana, di ritrovare la nonna

defunta in una stellina immaginaria. Così come nell’originale libro di Christian Voltz, La carezza

della farfalla (Milano, edizioni ARKA, 2005), la nonna scomparsa sembra prendere le sembianze di

una farfalla, mentre nelle immagini del testo appare la sua figura in trasparenza67

.

Entrambi gli autori si avvalgono di un’immagine sostitutiva, grazie al gioco simbolico del “come

se”, che nei bambini di due-quattro anni si connota con un “è”. Rauch e Voltz illustrano quel gioco

di fantasia che è proprio dello sviluppo nello stadio preoperatorio, in cui, attraverso la

“trasposizione simbolica” il bambino assoggetta la realtà esterna alla propria attività68

: il bambino,

perciò, può credere di poter giocare ancora con la nonna-stellina o di ricevere un bacio dalla nonna-

farfalla, anche in forza della presenza amorevole di un “altro significativo” che, per entrambi gli

autori, è impersonato dal nonno. Non si tratta di illudere i bambini con semplici e, apparentemente,

banali trucchi: offrire un oggetto simbolico sostitutivo è un modo per “tenere vicino”, affrontare un

cambiamento, ammettere una trasformazione, supportare il pensiero attraverso un’immagine che

non nega la morte, così come, tantomeno, dimentica una presenza.

Ai bambini di quattro-sei anni sono dedicati altri testi che, a fianco di immagini fortemente

evocative, offrono un racconto lievemente strutturato nella trama: Birte Müller con Soledad e la

nonna (S.Martino Buon Albergo, Verona, Nord-Sud Edizioni, 2004) e Dolf Verroen con Un

Paradiso per il piccolo Orso (Roma, Edizioni e/o, 2003), propongono due percorsi elaborativi

ricchi di similitudini, pur nella diversità originale di ciascun racconto. La Müller, a cui

appartengono anche le delicatissime immagini illustrate, recupera la tradizione dei popoli andini di

festeggiare il ritorno delle anime nei primi giorni di novembre, garantendo alla piccola protagonista,

Soledad, in un contesto sociale in cui i rituali e le tradizioni fungono da supporto, di ritrovare la

presenza della nonna, interiorizzata da un lato, reale dall’altro (gli abitanti del villaggio preparano

una festa per le anime dei morti con le stesse modalità con cui si fa festa per i vivi, in un continuum

voluto e cercato). Il racconto della Müller provoca a ripensare all’odierno modo di vivere il giorno

dedicato alla memoria dei defunti, spesso caratterizzato da pellegrinaggi ai cimiteri, compiuti

66 Per un approfondimento sul tema della comprensione della morte da parte dei bambini, si veda, in particolare, R. Vinello – M.L.

Marin, La comprensione della morte nel bambino, Firenze, Giunti-Barbèra, 1985 67 Le sfumature interpretative offerte dal racconto di Voltz si muovono in una duplice direzione: quella del ricordo e del senso di

vicinanza della persona scomparsa, e quella del recupero della naturalità della vita nella sua ciclicità. L’autore utilizza la farfalla, la

terra, la semina e la piantagione di un ciliegio come immagini simbolo: immagini elaborate con maestria mediante l’utilizzo ironico

di materiali poveri e di recupero, fissate nelle fotografie di Jean-Luis Hess. 68 J. Singer, G. Singer, Nel regno del possibile, Firenze, Giunti, 1995, p.82.

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talvolta più per dovere, con atteggiamenti di sommessa commozione che terminano, per lo più,

all’uscita dal Camposanto. Smarrire la dimensione culturale e sociale che, attraverso i rituali, le

tradizioni ed il culto di chi “non c’è più”, per secoli ha permesso di “addomesticare la morte”69

,

significa rinunciare ad uno strumento elaborativo per lasciare il posto, talvolta, ad un’esperienza di

separazione caratterizzata dall’angoscia e dalla solitudine70

. Dolf Verroen accompagna, come la

Müller con Soledad, il piccolo Orso alla ricerca del nonno, o meglio, del modo per poterlo

raggiungere in quel Paradiso meraviglioso di cui gli adulti parlano descrivendolo come il luogo

della serenità. La tristezza e la delusione di piccolo Orso (per l’impossibilità di raggiungere il

Paradiso, come per Soledad di reincontrare la nonna nei luoghi conosciuti), sono abilmente

riprodotte nelle illustrazioni di Wolf Erlbruch71

, capaci di affiancare il racconto creando una

complementarità arricchente fra testo ed immagine. Soledad e la nonna e Un Paradiso per il

piccolo Orso sono libri che si prestano per essere ascoltati (lettura vicariale da parte dell’adulto) e

guardati: il bambino, dopo l’incontro nel magico triangolo costituito da se stesso, dal libro e

dall’adulto lettore-narratore, può, autonomamente, ripercorrere la storia, raccontarla nuovamente a

se stesso o, magari, ad un amichetto, o aggiungere alla storia la propria storia, immaginata,

fantasticata, inventata: perché anche a questo si offre un bel libro.

La scrittura, il racconto, le immagini possono prendersi la libertà di fantasticare sulla morte senza,

per questo, eludere la drammaticità dell’esperito e, d’altro canto, esercitando, a tutto tondo, la

facoltà umana di piegare gli eventi all’inverosimile per renderli più accettabili, meno drammatici,

non tanto in capo ad un’illusione, bensì in forza del desiderio di riportare il vissuto su un piano di

significato che si avvale del legame affettivo realmente esperito fra chi non c’è più e chi vive

ancora. Ci prova, Anna Lavatelli, regalando ai giovanissimi lettori un albo illustrato delicato e

brioso al contempo, reale e fantastico in egual misura: La nonna in cielo (Roma, Edizioni Lapis,

2008). Il testo e le vivaci immagini, create da David Pintor, sollevano dalla tristezza del distacco

dalla nonna la piccola Emma, e con lei il lettore, in un gioco di illusione e fantasia che può

69 Secondo il parere di P. Pira e L. Venini, ogni forma culturale, sia a livello individuale, nelle produzioni artistiche, sia a livello

sociale, nei riti e nei miti, può considerarsi come la volontà ed il tentativo da parte dell’uomo di contenere creativamente in una

situazione esistenziale ciò che oscilla tra i poli opposti di essere e non essere.

P. Pira, L. Venini, Le immagini e il vissuto della morte, in M. Spinella, G. Cassanmagnago, M. Lecconi (a cura di), La morte oggi,

op.cit., p.143. 70 “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da molto dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un

giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore.” Dal racconto di Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Sonzono,

Bompiani, 1993, p.94.

Un libro particolarmente interessante che permette, attraverso il racconto del viaggio di un nonno, di conoscere la ritualità funeraria

delle terre d’Africa lo offre Emanuela Nava, con le illustrazioni sinuose di Elena Barboni, in C’era una volta il nonno (Roma, Sinnos

editrice, 2007), arricchito da un approfondimento a termine di racconto che offre significativi spunti di riflessione utilizzabili anche

in ambito scolastico per un’utile ricerca storico-antropologica e interculturale, nonché per la condivisione e il confronto con possibili

esperienze vissute: occasione per sviluppare un pensiero su come si desidererebbe affrontare un’inevitabile e prevedibile perdita di

una persona cara, qual è un nonno, proprio come avviene nel racconto citato. Non si tratta di schede didattiche, bensì di una sorta di

racconto ulteriore su come, in particolare i popoli africani, assumono un atteggiamento verso la morte, così come verso la vita, molto

diverso rispetto agli atteggiamenti in uso nella nostra società. 71 Wolf Erlbruch, nato a Wuppertal in Germania, è considerato uno dei più importanti illustratori europei.

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sostenere la formazione di un pensiero elaborativo in cui il soggetto in crescita può trovare un modo

proprio e libero di interiorizzare le figure che la morte rende assenti. Il libro, il racconto non rende

la morte meno amara, certamente può favorire una migliore accettazione della stessa promuovendo

l’acquisizione di capacità atte a sostenere un processo elaborativo che si articola in un recupero del

valore, dell’affetto, del legame che, in vita, è stato costruito e vissuto fra le persone. Ecco, dunque,

che fra nonna e nipote, a separarle, non vi è più solo la morte, ma, come ci invita ad immaginare la

Lavatelli, ci può essere di mezzo il cielo: seppure trattasi sempre di distanza, certamente il cielo è

più trasparente, più limpido, più rasserenante.

Talvolta può accadere che un autore ritorni sul tema della morte in maniera ancor più chiara, come

se l’averne infranto il tabù permetta di fronteggiarla con maggior coraggio. Ne dà prova, ancora una

volta, Erlbruch con un libro per bambini davvero ardimentoso di cui è, oltreché illustratore delle

intense immagini, autore: L’anatra, la morte e il tulipano (Roma, Edizioni e/o, 2007)72

. Si tratta di

un libro temerario nelle immagini e schietto nel proporre un dialogo fra l’anatra e la morte,

protagoniste di una riflessione che pone la morte a fianco e non in opposizione alla vita, in una

prospettiva di naturalità capace di tratteggiare la morte con profilo propriamente umano. Il compito

che Erlbruch affida alla morte, simile ad un bambino che cerca compagnia ed amicizia, è di

raccogliere le spoglie mortali dell’anatra e non di causarne il decesso, in un clima di pietas che solo

il tratto di un artista è in grado di offrire73

. La morte, dunque, intesa come compagna naturale della

vita, la morte vista come componente insostituibile dell’essere, perde quell’alone di orrore nefasto

per riappropriarsi di un posto di naturale appartenenza.

Ancora per bambini a partire dai 5 anni, l’editoria contemporanea ci offre Il viaggio sul fiume e Il

nonno non è vecchio.

Il viaggio sul fiume (Milano, Jaca Book, 2002): splendido albo illustrato, in cui un solitario e

inderogabile viaggio diviene metafora del distacco e della perdita di una persona cara. Come a far

propria l’idea di morte attribuita da Freud ai bambini74

, i quali, secondo il parere del padre della

psicanalisi, la considerano come una partenza per un lungo viaggio, il racconto si avvale di tale

immagine per rappresentare la dipartita di un amico: non parla di vecchiaia né di malattia l’autore

del testo, Armin Beuscher, così ben armonizzato delle ampie figure illustrate per mano e talento di

Cornelia Haas. Il racconto ha come protagonisti un gruppo di simpatici animali che soffrono per

l’improvvisa ed inaspettata partenza di uno di loro, senza poter capire il perché di un viaggio così

improcrastinabile e solitario. Eppure, proprio nel ricordo degli intensi momenti vissuti, il gruppo di

72

Il tulipano nero, Queen of Night e Black Parrot, non è mai stato ottenuto e, per molti appassionati tulipanomani è diventata

un’ossessione. Come tutti i fiori è simbolo della caducità di tutte le cose, anche le più belle. Nel racconto di Erlbruch il tulipano nero,

appannaggio dell’uomo, è portato dalla morte quasi a sottolineare l’inafferrabile mistero della vita e della morte. 73

La similitudine con l’immagine della morte offerta dal racconto di Zusak è immediata; il tulipano posto sul corpo senza vita

dell’anatra e l’ultima passeggiata della morte con Liesel, rinviano l’una all’altra. 74 R. Vianello, Psicologia dello sviluppo, Bergamo, Edizioni Junior, 1993, p.168.

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amici trova la forza di accettare la realtà, riconoscendo i tanti doni lasciati dall’amico nel vissuto di

ciascuno: nel ricordo condiviso germina il seme del desiderio di continuare a celebrare la vita,

anche per chi non c’è più. Il dolore per il distacco non raggela i rapporti fra quanti sono rimasti,

tutt’altro: esso diviene forza coesiva, legame d’amicizia ancor più profondo, sincero, deciso.

Nel racconto Il nonno non è vecchio (Milano, Feltrinelli Kids, 2000), Donatella Ziliotto affida al

nonno il ruolo sostitutivo del genitore perduto, sottolineando la necessità di garantire, al bambino

rimasto orfano, una presenza che assolva i compiti di identificazione e sostegno emotivo atti a

favorire il buon proseguimento dello sviluppo psicofisico75

. Spesso gli adulti, impegnati

nell’espressione del proprio cordoglio76

, attribuendo ai più piccoli una mancata capacità nel

riconoscere la gravità della situazione, non si curano del bisogno di un nuovo sostegno, seppur

diverso, che non può mancare nelle fasi più delicate della crescita di un bambino, nonché dello

smarrimento, da loro provato, dopo la perdita di una persona cara. Donatella Ziliotto, grazie al suo

vivace racconto, accompagnato dalle chiare immagini di Adriano Gon, riporta l’attenzione su tale

aspetto e induce ad interrogarsi se si tratti di un libro per bambini o di un ammonimento per gli

adulti!

Nella vita può succedere che la morte sopraggiunga all’improvviso, inaspettata, lasciando orfani

bambini ancora troppo piccoli. Inger Hermann e Georg Maag con maestria si inerpicano in un

sentiero tortuoso, difficile e commovente: il percorso di elaborazione del lutto di due bambini,

Pietro e Valentina, entrambi costretti a subire la morte del papà. Il racconto si fa duro, drammatico e

profondamente emozionante, per poi concludersi con un luminoso finale. Sono contento di te! della

Hermann, narra di un grave incidente automobilistico in cui rimane coinvolto il piccolo Pietro e la

sua famiglia, evento purtroppo assai frequente nelle cronache italiane e non solo. L’autrice tedesca

non teme di usare parole dirette secondo un principio di realtà che rivendica il diritto di attribuire

alle cose il loro vero nome: “Papà…è morto”77

. L’iniziale rifiuto della luttuosa realtà permette a

Pietro di ritrovare nel sogno, e nel sogno ad occhi aperti, il genitore perduto78

. Solo grazie ad un

contesto familiare affettivamente ricco, Pietro riuscirà a trasformare una presenza desiderata e

sognata in una presenza interiorizzata, che trova, nel riecheggio dell’espressione paterna “sono

75 La perdita di una persona cara causa uno stato di crisi proprio per la mancanza dell’oggetto sul quale è stato investita la carica

affettiva; è necessario, nei tempi e nei modi rispettosi della personalità di ciascuno, un reinvestimento emotivo verso un “oggetto

d’amore” sostitutivo, che permetta al soggetto di trovare nuovi modi d’amare e sentirsi amato. Per un approfondimento si veda A.

Pioli, presentazione del testo G. Raimbault, Il bambino e la morte, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p.XIV 76 Il termine cordoglio deriva dal latino cordolium composto da cor (cuore) e dolere (provar dolore): è la risposta emotiva alla perdita

di qualcuno o qualcosa. Il termine lutto dal latino lugere (piangere). Per un approfondimento: A. Pangrazzi, Il lutto: un viaggio

dentro la vita, Torino, Edizioni Camilliane, terza edizione 2006, p.21. 77 I. Hermann, Sono contento di te!, Milano, Jaca Book, 1999.

La verbalizzazione dell’esperito e dell’avvenuto obbliga ad una presa in carico della realtà non solo da parte di chi ascolta, ma anche

di chi esprime a parole quanto accaduto, inducendo ad accettare una realtà, seppur drammatica, accogliendola e facendola propria. 78 “Trovandosi di fronte a una realtà che essi non sono in grado di gestire, spesso i bambini escono dal mondo reale, preferendo un

mondo che trovano accettabile”. H. Fitzgerald, Mi manchi tanto! Come aiutare i bambini ad affrontare il lutto, Molfetta (Ba),

edizioni la meridiana, 2002, p.43.

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contento di te!”, una continuità che si fa conferma. Valentina, nel singolare racconto di Maag, non

teme di dare sfogo a tutta la rabbia che sente dentro per la perdita, o meglio, per il sentimento di

smarrimento che segue quel “mai più” (riferito al rientro a casa del padre) che, come scure

improvvisa, si abbatte sulla sua giovane esistenza, ferendola spietatamente. Lo scrittore tedesco ci

permette di conoscere i sentimenti travagliati di una bambina catapultata, all’improvviso, da un

mondo incantato fatto di felicità, colori, profumi, parole, sguardi, alla dura realtà della perdita del

padre. Valentina strappa, sradica, distrugge, “uccide” il giardino e ciò che contiene, perché era in

quel giardino che, con il padre, si compiva la sua spensierata infanzia. Distruggere il giardino

significa ricercare una similitudine fra l’interiormente vissuto e il mondo circostante, con la rabbia

di non sapere che nome dare a ciò che si prova, senza capire ciò che si è rotto dentro79

. La penna di

Maag, a tratti densi e duri, percorre una via di elaborazione che diviene crescita, accettazione della

realtà per un’apertura nuova al futuro. Sono contento di te! e Il giardino appaiono adatti a bambini

a partire dai sei-otto anni d’età che, intrapreso uno sviluppo del pensiero di tipo operatorio-

concreto80

, iniziano a percepire il loro “diventare grande” che, dai racconti, emerge con chiarezza.

Si tratta di un diventare grandi che passa, obbligatoriamente, attraverso la consapevolezza di un

cambiamento e di un distacco graduale dalle figure di riferimento, metaforicamente rappresentato

dal lutto, per poter vedere oltre lo steccato dell’infanzia che, in particolare a partire dalla

preadolescenza, assumerà tratti sempre più nitidi ed impegnativi.

Altri libri, adatti alla fascia d’età sei-otto anni, sono Il mare del cielo, di Cosetta Zanotti (Cinisello

Balsamo, Milano, Edizioni San Paolo, 2004), Dove vanno le nuvole, di Antonella Ossorio (Roma,

Anicia, 2006) e Il cerchio della vita, di Koos Meinderts, Harrie Jekkers e Piet Grobler (Cornaredo,

Lemnisccat, 2009). Cosetta Zanotti si affida al linguaggio metaforico per parlare della morte come

dell’altra faccia della vita, scegliendo di chiamare mare d’acqua la vita e mare del cielo l’aldilà:

“La parola mare per tutti e due gli aspetti della vita (il qui e l’oltre) conferisce un’unità simbolica e

immaginifica che vale più di mille parole astratte”81

. In questo libro la scelta dell’autrice è di offrire

una visione della morte come passaggio: una prospettiva religiosa che vede nell’aldilà una

continuazione ed un rinnovato incontro fra coloro che si amano82

.

L’autrice Antonella Ossorio, nel racconto Dove vanno le nuvole, dà voce ad una nuvola che,

insieme ad una mamma ed al suo bambino, percorre le tappe della vita lasciando al mistero il prima

79 La rabbia, insieme al rifiuto, al senso di colpa e alla depressione sono reazioni che spesso si accompagnano al dolore per la perdita

di una persona cara; ai bambini dev’essere permesso provare tali sentimenti, devono essere aiutati ad esprimerli ed abbisognano

d’essere accompagnati nel percorso di superamento della crisi anche mediante l’indicazione delle modalità di espressione e

comunicazione, efficaci e non distruttive, dell’energia sprigionata dalle turbolenze interiori. Per un approfondimento: H. Fitzgerald,

Mi manchi tanto!, op.cit., pp. 42-59. 80 P.H. Miller, Teorie dello sviluppo psicologico, Bologna, Il Mulino, 1994, p.60. 81 M. Zattoni, Introduzione a C.Zanotti, Il mare del cielo, Cinisello Balsamo (Mi), Edizioni San Paolo, 2004. 82 Il libro Il mare del cielo fa parte della collana “Parole per dirlo, Libri preziosi per vivere insieme le cose difficili”, diretta, per le

Edizioni San Paolo, dalla stessa Zanotti.

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e il dopo, prima della vita e dopo la morte, che accomuna tutte le creature e tutto il creato. Fra

questi due estremi, che immaginiamo bui, in cui il buio rappresenta il nostro non sapere, c’è lo

spazio della vita che porta in sé il sapore dell’immensità: un’arena di vitalità, di gioia, di stupore, di

intense emozioni che permettono di dire, insieme alla nuvola narrante, che, seppur finita, la vita è

davvero un’avventura degna d’essere vissuta, attimo per attimo, nella bellezza dell’incontro con gli

altri. Il racconto della Ossorio, limpido e sereno, si accompagna alle delicate immagini pastello di

Alessandro Ferraro, donandosi al lettore come attimo di materna intimità. E, non ultimo, Il cerchio

della vita: è significativo notare come il titolo originario olandese, Ballade van de Dood,

letteralmente ballata della morte, sia stato capovolto, edulcorato, reinterpretato. Un simpatico

racconto in rima, ambientato in un fantastico regno animale, dove il leone-sovrano, insieme con gli

scienziati più affermati, escogita un modo infallibile per catturare la morte e fermare il suo lavoro.

L’epilogo non è così scontato: dopo gli anni di festa subentra la noia, la stanchezza di una vita senza

fine che perde, nella monotonia dell’eternità, il suo stesso entusiasmo, se non anche, il suo stesso

significato: “Allora il re si alzò e con orgoglio incominciò: ʹAndrò io! Addio!ʹ, esclamò. ʹDella

morte non ho più paura, la vita senza morte è ancor più dura!ʹ Entrò nella campana, forte e glorioso,

e tra le braccia della Morte trovò riposo. ʹLunga vita alla Morteʹ, esclamò il popolo gioioso. E

vissero tutti a lungo felici e contenti perché la Morte non faceva più battere i denti”83

.

I percorsi offerti da albi illustrati e da altri racconti rivolti alla fascia del primo biennio della Scuola

primaria si caratterizzano per scelte letterarie differenti: con percorsi immaginativi diversificati

presentano una vasta gamma all’interno della quale il piccolo lettore può incontrare ciò che più si

avvicina alle proprie esigenze e, d’altra parte, permettendo agli adulti di individuare eventuali

racconti specificamente adatti a situazioni contingenti o a vissuti personali: senza per questo

sottovalutare l’emozione e la provocazione suscitata dalla forza intrinseca di un bel racconto,

indipendentemente dall’aver vissuto o meno una situazione simile a quanto narrato.

Fin dalla prima infanzia, i bambini abbisognano d’essere accompagnati nella scoperta e nella

comprensione delle emozioni scaturite dalle esperienze interiori, delle quali spesso non conoscono

ancora il nome. Dare un nome alle emozioni, ai sentimenti, all’interiormente provato significa

acquisire uno strumento per appropriarsi del vissuto, ed è il primo passo da compiere per addestrare

la giovane personalità in costruzione a gestire le emozioni: processo fondamentale per uno sviluppo

maturo e resiliente84

. La narrazione si presta come tutore per apprendere a riconoscere le emozioni,

e la letteratura, nello specifico, diviene terreno di scoperta, spazio protetto di esplorazione: “E

mentre narriamo, ci accorgiamo che diventiamo più consapevoli di chi siamo, cosa desideriamo,

83 K. Meinderts, H. Jekkers e P. Grobler, Il cerchio della vita, Cornaredo, Lemnisccat, 2009, pp.22-24. 84 Per un approfondimento dell’importanza educativa della formazione resiliente, si rinvia al testo: B. Cyrulnik, I brutti anatroccoli,

op.cit.

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cosa ci addolora, cosa ci rende felici. Quando raccontiamo, infatti, diamo senso non solo all’evento

specifico, ma ad un’intera classe di eventi; cioè esplicitiamo l’interpretazione che diamo a ciò che

accade”85

. Paradigmatico è, in tal senso, il fiabesco racconto del pediatra e scrittore Marcello

Bernardi, La palla perduta (illustrazioni di Vanna Vinci, Milano, Fabbri Editori, 2007), in cui la

protagonista Caterina attraversa i Regni della Solitudine, della Ricchezza, della Gloria, dell’Astuzia,

dell’Indifferenza, del Potere e della Paura prima di far ritorno a casa, dagli affetti e dagli amici, per

scoprire che al posto del nonno c’è un fiore. Il messaggio di Bernardi, certamente avallato da molti

anni di esperienza sul campo con i bambini, sembra affermare che, per essere capaci di accettare la

morte e, con essa, la ciclicità della vita, è necessario entrare nelle emozioni, farne esperienza,

conoscerle ed assaporarle nella realtà della la vita, in una comunione di sentimenti che può garantire

la sopravvivenza dell’individuo anche dove vi è difficoltà, in quanto la difficoltà è parte integrante e

costituente dell’esistenza umana86

. La forza suggestiva del racconto, arricchita da una cifra narrativa

cadenzata e ritmica, permette alla protagonista e, con lei, al lettore, di conquistare “passo dopo

passo, la possibilità di trovare la luce alla fine della oscura caverna”87

.

Ogni vita è una storia, è un pezzo di universo unico e senza eguali se letto con gli occhi dell’anima,

se osservato con lo sguardo di chi vede nell’altro l’originalità di un incontro: “Olga mi aiutò a

battere a macchina la mia storia […] e anche molto tempo dopo che tu sarai volato dal padre di tutti

i lupi, ci saranno sempre dei bambini che leggeranno la tua storia e ti vorranno bene.[…] Poi volai

giù verso il padre di tutti i lupi. E tutta la mia vita mi passò ancora una volta davanti agli occhi e fui

felice di aver avuto una vita così lunga, ricca e meravigliosa”88

. Un altro significativo albo

illustrato, in cui il protagonista è un gallo tenore, edito dalla Logos di Modena (2010), è L’ultimo

canto, testo di Pablo Albo e straordinarie illustrazioni di Miguel Ángel Díez: un racconto da leggere

e guardare, capace di far sorridere, di far commuovere, di indurci a credere che, da qualche parte nel

mondo, possa davvero esserci un gallo tenore che, al canto di O sole mio, sveglia i pochi abitanti ed

i molti animali del villaggio, fino al giorno in cui tutti dormiranno fino a tardi, perché il gallo,

stanco e vecchio, ma felice, ha terminato il suo compito per lasciare l’eredità del canto al figlio. Con

semplice, ma sincera, pietas gli strani abitanti accompagnano la sepoltura del gallo cha sapeva

salutare il sole ogni mattina: “Con i cuori colmi di gratitudine, pensarono a tutte le mattine in cui li

aveva svegliati. Lo deposero nella sua scatola da scarpe preferita e lo seppellirono accanto al

85 R. Vittori, Identità e narrazione, in R. Mantegazza (a cura di), Per una pedagogia narrativa, op.cit., p.13. 86 Il racconto di Mario Lodi, Cipì (San Dorligo della Valle, Trieste, Einaudi Ragazzi, 1992) ben esprime la bellezza e la difficoltà

della vita attraverso la storia dell’uccellino Cipì che, nel divenire della sua esistenza, metafora della vita di ogni persona, incontra

bellezza e paura, gioia e dolore, vita e morte in un susseguirsi di avventure che danno, alla quotidianità del vivere di un uccellino, il

sapore della straordinarietà dell’esistenza di ogni singola vita. 87 R. Denti, nota a fine racconto in M. Bernardi, La palla perduta, Milano, Fabbri Editori, 2007. 88 F.K. Waechter, Il lupo rosso, Milano, Babalibri, 2000, pp.50-57.

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formicaio”89

. Estremamente toccante l’immagine del corteo funebre: bizzarro e triste, nei toni

dominanti del marrone e dell’ocra: il lettore osserva la scena da dietro i panni stesi, curioso ed

estraneo al contempo, con il testo impresso nelle lenzuola ad asciugare. Ritorna il tema della

ciclicità della vita, in un eterno divenire che trova espressione nella continuità da una generazione

all’altra generazione, nel passaggio di testimone dal padre al figlio che, nell’orgoglioso verso chi

ormai non c’è più, trova la forza per dare il meglio di sé.

Nella fascia d’età nove-undici anni troviamo numerosi racconti in cui giovani protagonisti si

confrontano con il momentum e il memento mortis, all’interno di percorsi narrativi più complessi

per trama e linguaggio. All’età considerata, secondo gli studi psicologici piagetiani, i ragazzi hanno

ben sviluppato un pensiero di tipo operatorio concreto, dunque il loro modo di ragionare è più

sistematico ed ordinato oltreché più flessibile, con sempre più affinata capacità di distinguere la

realtà dalla finzione90

. Le loro possibili domande di spiegazione, il loro desiderio di capire di più e

meglio la realtà vissuta ed incontrata è superiore rispetto agli anni precedenti, rendendosi pertanto

necessaria una libera apertura al dialogo, talvolta indotta dagli eventi. I ragazzi di tale fascia d’età

sono disponibili ad accettare un’immagine della morte proiettata, attraverso la narrazione, su un

piano di realtà tangibile o immaginabile, facilmente confrontabile con il loro vissuto, accompagnati

da figure conosciute e vicine capaci di offrire un’immagine accettabile di una realtà altrimenti

difficilmente collocabile in una dimensione comprensibile. In tal senso i racconti possono fornire

valide proposte di pensiero e di riflessione.

In molti libri a prevalere è il ruolo iniziatico affidato ai nonni: a loro spetta il compito di

accompagnare i nipoti lungo il percorso di crescita che comporta anche la conoscenza e la

comprensione della morte, non solo come responsabilità educativa ma, ancor più, come

consolidamento di un legame, garanzia di continuità e di rinnovamento. Il nonno, dunque, come

figura mediatrice attraverso la quale vi è un recupero positivo dell’immagine della vecchiaia e, con

essa, della morte che si avvicina. In Paola non è matta (Casale Monferrato, Alessandria, Piemme

Junior,1994) di Anna Lavatelli, la giovane protagonista crede nella continuità della presenza del

nonno materno defunto come mezzo per sopportare la sofferenza, non solo della separazione dei

genitori, ma anche di un egoismo adulto che isola la piccola, costringendola a ricorrere ai ricordi e

all’immaginazione per costruire un mondo alternativo in cui potersi sentire attesa, amata, accolta

(come lo percepiva quando c’era il nonno vicino a lei). E ancora, nel racconto di Roberto Piumini,

Mattia e il nonno (Trieste, Einaudi Ragazzi, 1999), si privilegia in modo netto il tema della morte

come distacco fisico sia del nipote dal nonno, sia del nonno dalle cose terrene, scegliendo di lasciare

in disparte altre problematiche. Piumini si avvale di un supporto contestuale ed affettivo forte e

89 P. Albo e M.A. Díez, L’ultimo canto, Modena, Logos, 2010, p.18. 90 G. Petter, Fantasia e razionalità nell’età evolutiva, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p.125.

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protettivo, a fronte del quale poter introdurre, con la dovuta gradualità, il tema della morte del

nonno e del dolore di chi lo accompagna negli ultimi istanti di vita terrena. In un racconto delicato,

sereno, dolce, l’autore adotta immagini simboliche che dona allo stesso lettore, offrendo un modo di

affrontare la morte mediante un percorso elaborativo anticipato, ante mortem, nell’intento di far

giungere il protagonista, e con lui il lettore, ad un incontro preparato. Ciò che conta per l’autore, più

del silenzio che segue la morte, è la forza e la ricchezza che ha caratterizzato l’incontro terreno,

nonché l’auspicata capacità della generazione anziana di saper consegnare un testimone affettivo e

sapienziale profondo e significativo.

Anche Angela Nanetti sceglie di affrontare l’esperienza del distacco di un nipote dai nonni in un

meraviglioso libro: Mio nonno era un ciliegio (San Dorligo della Valle, Trieste, Einaudi Ragazzi,

1998). Un racconto in cui il lieto fine è dato dalla serenità interiore e familiare raggiunta da Tonino,

il giovane protagonista, narratore del racconto. Tonino ripercorre a ritroso la sua pur giovane vita,

caratterizzata da momenti felici e tristi, esilaranti e dolorosi, mettendo in evidenza il vissuto

interiore, il provato a fianco dell’esperito, rispondendo all’esigenza del lettore di identificarsi

attraverso emozioni condivise e sentimenti comuni. Angela Nanetti racconta, mediante uno stile

narrativo semplice, la complessità della vita di un bambino, com’è nella realtà di molti vissuti,

ancor più quando la morte fa capolino trascinando con sé le persone amate. Mediante la fictio

narrativa, la Nanetti invita il lettore a partecipare ad un gioco immaginario e ad utilizzare la fantasia

per affrontare una realtà difficile (l’esperienza della morte è trasformata in un’immagine piacevole),

non certo per illudere, ma in risposta alla necessità di riappropriarsi del “diritto di sfidare le realtà

con le provocazioni della fantasia”91

, allentando non solo l’angoscia di morte, ma, ancor più, il

timore dell’abbandono92

.

Un singolare libro, Graffi sul tavolo (Firenze, Salani, 1996), dell’olandese Guus Kuijer, attraverso

una cifra narrativa realistica e pacata, recupera l’incontro con il doloroso accadimento della perdita

di una nonna per indagare e sciogliere i difficili rapporti fra una madre e la figlia, che neppure la

morte è stata capace di cancellare. A Kuijer si attribuisce la capacità, quasi magica, di capire quei

pensieri che i bambini non sanno esprimere a parole, trasformandoli in racconti dal piacevole

sapore. L’autore affida a Madelief, piccola detective in erba, il compito di accompagnare il nonno,

rimasto vedovo, lungo il percorso di accettazione del lutto, mostrando come, contrariamente al

pensiero comune, anche i bambini possono offrire un sostegno insostituibile che favorisce quel

lavorio interiore necessario a superare la crisi post mortem: ciò si rende possibile quando ai bambini

91 E. Beseghi, Itinerari filosofici attraverso la narrazione per l’infanzia, “Studium Educationis”, n.3, 2000, p.468. 92 Anche nel meraviglioso racconto L’uomo che coltivava le comete, Angela Nanetti offre un’immagine della morte delicata,

immaginandola come passaggio verso un dove capace di rendere quanto in vita sarebbe dovuto ad ogni donna e uomo: “Un breve

respiro, un soffio, poi Nenele aveva sorriso, le aveva stretto la mano ed era volata via nel paese del buon re Uranio, dove non fa mai

né freddo né caldo e dove per la gente come loro eran pronti un letto di piume e una minestra”. A. Nanetti, L’uomo che coltivava le

comete, San Dorligo della Valle (Ts), Edizioni EL, 2002, p.13.

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è dato di partecipare e condividere l’esperienza dolorosa e di percorrere, con gli adulti, una via che

apre nuovamente alla fiducia nella vita, in cui “A volte tutto è così bello da far paura”93

.

A fianco di racconti che scelgono trame verosimili ve ne sono altri che prediligono di giocare con la

morte, immaginando un mondo parallelo raggiungibile solo con il trapasso, per far emergere che, al

di là degli scenari che possono assumere connotazioni fantasiose o oniriche, vi è sottesa la ricerca di

una continuità dei rapporti con le persone che si amano. Astrid Lindgren, con i protagonisti del

romanzo I fratelli Cuordileone (Milano, Salani, prima edizione marzo 1994), inventa un luogo

senza tempo raggiunto dai due fratelli dopo la morte prematura di entrambi, in risposta al desiderio

di sapere qualcosa di più sull’aldilà: non potendo dare risposte veritiere, la Lindgren si affida

all’immaginazione per descrivere una vita oltretomba in cui le dinamiche terrene, seppur

trasformate dall’immaginario narrativo, si rispecchiano: la lotta tra bene e male, il coraggio di

partire per cercare la propria identità, la scelta di rischiare la vita per il bene dell’altro. Temi molto

cari a chi si appresta a spiccare il volo verso il futuro, staccandosi dalla sicurezza dei propri cari per

cercare e formare la propria identità, attraverso i rischi e le vicissitudini che il percorso di crescita e

di ricerca dell’identità portano con sé. Nel racconto della Lindgren appare chiara la necessità, per

poter crescere e maturare, di dover affrontare l’ignoto, di dover abbandonare la propria casa e gli

affetti sicuri per inoltrarsi in un nuovo dove sconosciuto in cui è messa a prova la volontà di

affrontare la crescita ed il passaggio obbligato verso la forgiatura della personalità adulta. Pur nel

timore della propria fragilità, nell’insicurezza delle proprie capacità, tipiche della preadolescenza

prima e dell’adolescenza poi, il giovane e debole protagonista affronta l’oscura realtà per ritrovarsi,

al termine del racconto, capace di provare paura e capace di affrontare tale profondo sentimento94

.

Sulla scia del racconto della Lindgren, Teresa Buongiorno, con Il mio cuore e una piuma di struzzo

(illustrazioni di Giulia Orecchia, Milano, Salani, 2007), trasporta la giovane Corinna nel mondo

dell’oltretomba, alla ricerca di un padre perduto, sull’impeto del desiderio di un nuovo incontro.

L’esperienza del lutto può accompagnarsi alla fantasia di raggiungere chi ci ha preceduto nel

trapasso, nell’illusione che possa essere meno dolorosa la morte piuttosto che la continuazione della

vita senza una persona importante. La letteratura, in generale, e la letteratura giovanile, nello

specifico, nel suo essere rappresentazione ed interpretazione della realtà, nel suo procedere come

una sorta di lunga interrogazione nella quale lo stesso lettore è incoraggiato a cercare le proprie

risposte ponendosi come meditazione sull’esistenza, sollevando anche il rimosso, il non detto95

,

illuminando zone d’ombra e trasformando in parola narrante il vissuto interiore, si offre come arena

93 G. Kuijer, Graffi sul tavolo, Firenze, Salani, 1996, p.93. 94 La Lindgren, recuperando il valore dei riti di iniziazione che, fin dai tempi antichi, segnavano il passaggio dalla fanciullezza all’età

adulta mediante prove coraggiose e, talvolta, dolorose, fa emerge come la crescita sia associata alla capacità di affrontare la paura

piuttosto che alla negazione, da parte del protagonista, di provare un simile sentimento. 95B. Pitzorno, Storia delle mie storie, op.cit., p.148.

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accogliente in cui il lettore, bambino o ragazzo, può cogliere motivi di riflessione, termini di

paragone, fattori di confronto, nel rispetto profondo per la propria personale libertà. Ecco dunque

che il racconto si offre come palestra esperienziale in cui poter anticipare, attraverso

l’identificazione e l’immedesimazione con i personaggi narrati, un vissuto ipotizzabile, con tutto il

carico di emozioni e veridicità. Una sorta di palestra esperienziale protetta, che si avvale della fictio

narrativa per allentare il peso della drammaticità che portano con sé la morte ed il distacco.

La letteratura permette di ricollocare la morte all’interno di un percorso narrativo che diviene

ricerca di senso: significazione del vissuto, seppur immaginato, per staccare l’incontro ultimo

dall’idea d’essere un evento imprevisto ed accidentale, ricollocandolo su un piano di realtà che

nulla toglie al carico di umanità che gli spetta di diritto.

Il tempo della lettura diviene tempo dell’essere in cui i bambini ed i ragazzi possono, attraverso la

fictio narrativa, conoscere realtà che mantengono anche per l’adulto un alone di mistero. Il tempo

della lettura diviene risposta alle loro curiosità, al loro desiderio di capire, di sapere; diviene

opportunità di comprendere che, nonostante la morte, la vita porta in sé una traccia d’infinito che

spetta a ciascuno scoprire ed assaporare in pienezza, riconoscendo il valore inestimabile di ogni

esistenza, di ogni essere umano, incoraggiando un’attenzione continua a prenderci cura di ogni vita,

qui ed ora.

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