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MARIO BERTINI DON CARLO ZACCARO la fantasia dell’amore profilo biografico, interviste, testimonianze presentazione di Mario Graev Editrice Fiorentina Società

Don Carlo Zaccaro: la fantasia dell’amore

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Profilo biografico, interviste, testimonianze Un racconto biografico per testimonianze di un sacerdote della Madonnina del Grappa che ha segnato la storia dell’Opera di don Facibeni e della Chiesa di Firenze.

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MARIO BERTINI

DON CARLO ZACCARO la fantasia dell’amore profilo biografico, interviste, testimonianze

presentazione di Mario Graev

Editrice FiorentinaSocietà

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Questo volume su don Carlo Zaccaro nasce con l’intenzione di mettere insieme un racconto biografico per testimonianze di un sacerdote della Madonnina del Grappa che ha segnato la storia dell’Opera di don Facibeni e della Chiesa di Firenze. Il libro si sviluppa per tematiche – raccontando episodi anche inediti – mettendo a fuoco l’elevato spessore del protagonista.La figura di don Carlo viene descritta ripercorrendo alcune delle principali tappe del suo impegno cristiano: le case fami-glia, la scuola di ceramica di Villa Guicciardini, l’apostolato nel carcere di Pianosa, la missione dell’Opera in Albania e so-prattutto il suo ruolo di educatore per generazioni di studenti universitari.Nella sua lunga esperienza si è rapportato con personaggi del calibro di Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Divo Barsotti, Padre Pio, don Zeno e Madre Teresa di Calcutta.Così lo descrive, in questo volume, il teologo Giordano Fro-sini: «Carlo non si fermò a coloro che incontrava lungo le strade, che pure erano tante, ma addirittura si mise in cerca di coloro che avevano bisogno di aiuto, si fece un rabdomante della povertà».

Mario Bertiniè nato e vive a Firenze. Rimasto orfano in giovanissima età, fu accolto da don Facibeni, fondatore dell’Opera Madonnina del Grappa. Negli ultimi decenni ebbe don Carlo come maestro di vita e con lui condivi-se impegni e iniziative culturali. Nel 1978 a Calcutta conobbe Madre Teresa e per decenni coordinò i suoi collaboratori toscani. Su di lei ha scritto due volumi. Scrive su alcuni periodici toscani e ha pubblicato una raccolta di poesie.

euro 14,00www.sefeditrice.it

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Mario Bertini

Don Carlo Zaccaro:la fantasia dell’amore

Profilo biografico, interviste, testimonianze

presentazione diMario Graev

Editrice FiorentinaSocietà

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© 2011 Società Editrice Fiorentinavia Aretina, 298 - 50136 Firenze

tel. 055 [email protected]

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isbn 978-88-6032-173-2

Proprietà letteraria riservataRiproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata

Le foto nel presente volume sono state pubblicate per gentile concessione dell’Unione Figli Opera Madonnina del Grappa

Si ringrazia Rosalba Milli per l’aiuto redazionale

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Indice

v Presentazione di Mario Graev

vii Prefazione di Mario Bertini

prima parte un uomo di dio tra cultura e santità

3 «Un rabdomante della povertà»

9 L’amore agli ultimi (specialmente se piccoli e indifesi)

24 Madre Teresa di Calcutta

37 I primi approcci con l’Albania

43 In Albania a tempo pieno

seconda parte una lunga confessione a cuore aperto 52 Nel dopoguerra da don Facibeni, insieme a Corso Guicciardini, dopo aver fondato il comitato studentesco di liberazione 54 La Fuci e le settantamilalire avute dal papa 56 La paternità di don Facibeni 57 Sacerdoti dell’Opera, ma anche parroci 60 I rapporti con altri “santi”

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63 Altro inedito: l’incontro con il patriarca Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII 65 Uomo di cultura e amico di grandi laici 67 Le nottate al capezzale dei morenti

terza parte testimonianze

73 Una vita spesa per l’opera di don Corso Guicciardini

77 Hanno detto di lui… 78 Ettore Bernabei: Carlo Zaccaro da don Bensi a don Facibeni 82 Le case-famiglia: Aldo e Rosalba Milli 83 «Basta lo Spirito Santo» 87 Don Celso, confratello e coetaneo 89 Anna Maria: la “donna di casa” di Villa Guicciardini 91 Luciano Bonaccorsi: il suo aiutante maggiore 96 Suor Francesca. Le scuole dell’Opera e le casette per gli anziani 100 Rodolfo Bertocci: uno dei suoi tanti “figlioli” 102 Gabriele Locatelli: don Carlo, idea ed energia per essere azione concreta 105 Chiara Bencini e Roberto Funghi: un matrimonio nato nella casa-famiglia dell’Opera 111 Romano Pampaloni: la ceramica 115 La famiglia d’origine: il ricordo della sorella Antonietta e del nipote Andrea

120 L’ultimo suo gioiello. Il corso di laurea in fisioterapia di Giuseppe Gandolfo

124 La paternità di don Carlo… di Stefano Marmugi

126 L’onnipotenza dell’amore di don Silvano Nistri

131 Un pellegrino d’amore di mons. Giordano Frosini

139 L’estremo addio ai suoi “figlioli” e le sue volontà testamentarie

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presentazione

In questo breve volume, Mario Bertini è riuscito con molta disponi-bilità, e non poca fatica, a mettere a fuoco uno spaccato della vita di don Carlo che a me pare molto significativo.

Solo a dare una prima occhiata, si capisce che non è stato un lavoro facile per il troppo materiale e le moltissime testimonianze che l’autore è riuscito a mettere insieme, felicemente divise per argo-menti, escludendone – per limiti di spazio – molte altre ugualmente meritevoli di essere riportate sul medesimo volume.

D’altra parte chi conosce Bertini sa con quanto amore egli riesca a scrivere, seppur d’impulso, tutto ciò che, attraverso la sua esperienza, gli è capitato di condividere accanto a persone anche importanti come lo fu don Carlo Zaccaro.

Don Carlo – e Bertini lo scrive apertamente in sede di prefazione – fu per lui soprattutto un maestro di vita, un punto di riferimento esistenzia-le, un testimone-guida sul fronte delle macroscopiche povertà di questa stagione; e insieme condivisero esperienze di notevole spessore.

L’accostamento a Madre Teresa di Calcutta, per esempio, o la pre-senza a Pianosa, ma anche la quotidianità di Villa Guicciardini – Scuola di ceramica inclusa – e di Galeata, o dell’Albania, trovano centralità su queste pagine mettendo a fuoco la freschezza evangelica della fantasia di don Carlo.

E non mancano spazi biografici inediti, specialmente nella trascri-zione integrale della lunga intervista che l’autore fece al protagonista di questo volume.

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presentazione

vi

In questo senso, tra molti altri passaggi, mi piace segnalare il ruo-lo di don Carlo come “partigiano” quando fu protagonista di una singolare Resistenza studentesca ai tempi dell’università: un’azione molto determinata che don Carlo volle chiamare Resistenza gioiosa.

E ancora: la sua vocazione e la sua vita culturale e caritativa, come espressione di quel dettato evangelico da lui privilegiato per aver vissuto, donando tutto se stesso, sull’esempio di don Giulio Facibeni che gli fu maestro di carità.

Poi l’incontro, ancora insieme a don Facibeni, col patriarca An-gelo Roncalli – il futuro Giovanni XXIII – che si confidò ai due sacerdoti fiorentini aprendosi a pagine inedite di storia.

Fu anche uomo di preghiera: lo testimonia la sua esperienza come parroco a Sant’Antonio al Romito, accettata e finalizzata, come del resto quella di molti altri suoi confratelli dell’Opera, perché l’Opera stessa possa un giorno tornare a essere emanazione della Pieve di Rifredi.

Ma buona parte di questa articolata biografia si incentra su una ventina di testimonianze di personaggi di elevata caratura: Bernabei, don Nistri, Mons. Frosini, alcuni docenti della Facoltà di Fisiotera-pia di Scutari, alternate ad altre di suoi collaboratori, a cominciare dal fedelissimo Luciano Bonaccorsi; e non poteva mancare il pen-siero del Superiore della Madonnina del Grappa, don Corso Giuc-ciardini, sintetizzato nella trascrizione integrale della sua omelia ai funerali di don Carlo.

Come scrive l’autore del volume nella sua prefazione, è certamen-te una raccolta non completa, che va accettata quindi come un pri-mo lavoro di apripista, in attesa che, sullo slancio di Bertini, altri autori possano dedicare alla limpida figura di don Carlo Zaccaro nuove pagine da consegnare alla storia dell’Opera Madonnina del Grappa e alla città di Firenze.

Mario Graev ( Presidente Unione Figli Opera Madonnina del Grappa)

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prefazione

Lo vidi – e fu l’ultima volta – la domenica prima della sua morte, ospedalizzato a Villa Glicini. I postumi e le complicazioni di una lunga ingessatura alla gamba, conseguenti alla caduta in Albania, lo avevano abbastanza debilitato, ma in quel paio d’ore che passammo insieme non pareva particolarmente sofferente.

Sembrava sereno come sempre, anche se il suo sguardo non riu-sciva a nascondere una certa inquietudine. Ci accolse – ero insieme a mia moglie e a Osvaldo e Graziella Mannucci – pregandoci di accompagnarlo in giardino.

Seduto su una poltrona a rotelle ci parlò di tante cose e soprat-tutto della sua Albania dove, mi confidò in un orecchio, sperava di andare a vivere a tempo pieno gli ultimi anni della sua vita. Il lungo colloquio di quel pomeriggio fu spezzato dall’arrivo di una suora, a me sconosciuta, la quale, dopo l’assenso del destinatario, aprì un tondo contenitore dorato, per porgere a don Carlo la bianca ostia dell’Eucarestia.

Dopo la Comunione si concentrò in silenzio, coinvolgendoci, subito dopo, in una corale preghiera per recitare insieme un Pater, Ave e Gloria, tra la curiosità dei visitatori di altri malati, seduti, nel medesimo giardino, accanto al nostro gruppo.

Allontanatasi la suora, riprendemmo il colloquio di gruppo e, in una pausa a tu per tu, gli annunciai che, due giorni dopo, sarei par-tito per la Sicilia in un singolare “viaggio di nozze”, ricorrendo il cinquantesimo anniversario del mio matrimonio con Annalisa.

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prefazione

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Mi disse: «Mi raccomando, se passate da Ragusa, non mancate di fare una capatina a Pozzallo…», paese natale del suo grande amico Giorgio La Pira.

E proprio mentre ero a Pozzallo, nel pomeriggio di sabato 15 mag-gio, mi giunse la telefonata di mia figlia Costanza per comunicarmi che, nel reparto di terapia intensiva di Careggi, era morto don Carlo.

Troppo lontano da Firenze, e con il volo di ritorno già prenotato per il giorno successivo ai suoi funerali, mi consolò la coincidenza che nulla, in questo nostro muoverci, succede a caso, perché la triste notizia mi giunse mentre ero là, proprio a Pozzallo, dove lui, pochi giorni prima, mi aveva pregato di fermarmi.

Posato il cellulare, risalii in macchina e all’angolo del viale albe-rato che stavo percorrendo mia moglie lesse con grande emozione “Viale Giorgio La Pira”.

Avvertii un brivido insieme alla certezza che il sorriso di don Carlo mi accompagnava dal cielo. Non feci in tempo a rientrare a Firenze per il suo funerale, ma lo sentii accanto per tutto il resto del viaggio.

Tornato in città, mi recai subito al cimitero di Rifredi per far visita al suo loculo nell’angolo non distante dalla tomba del Padre.

Nel silenzio, e da solo, avvertii un debito inestinguibile di rico-noscenza.

Il giorno dopo, cercai tra le mie cose una cassetta audio contenen-te un’intervista che gli avevo fatto molti anni prima a Quercianella.

In pochi giorni la trasformai in un cd che diffusi, in centinaia di copie, insieme a una bella foto a colori dove, sul retro, avevo scritto una sua breve biografia, che nella fretta elaborai con qualche imper-fezione.

Avevo agito d’impulso, animato da un doveroso tributo di ringra-ziamento, ma allo stesso tempo avvertii che il debito verso l’uomo, verso il sacerdote che mi aveva dato tanto – e forse troppo per i miei limiti – era ancora tutto da saldare.

In questo senso, prima di ogni altra affermazione, vorrei scrivere, che come uomo, e ancor più come sacerdote, don Carlo mi affascinò per la sua inesauribile fantasia.

Nel testimoniare, su queste pagine a lui dedicate, alcuni passaggi della nostra amicizia, dirò subito che, negli anni della mia perma-nenza all’Opera Madonnina del Grappa, non lo ebbi mai come gui-

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prefazione

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da ed educatore perché, negli anni decisivi della mia formazione, fui un ragazzo di don Nesi, e, come tale, avviato a una rapida specializ-zazione tecnica, senza la frequenza delle scuole superiori tanto care a don Carlo. Lo ebbi invece – e fu la mia fortuna – come maestro di vita.

Una lezione, la sua, dilatata per decenni e con lui condivisa anche attraverso comuni esperienze che, seppur da ruoli diversi, ci segna-rono tutti e due.

Tutto iniziò nel 1958, a seguito della morte del Padre, don Giulio Facibeni.

Luigi Torniai – Gigino –, il primo presidente della Unione Figli della Madonnina del Grappa, volle pubblicare su «Il Focolare» un mio breve scritto dal titolo Il Padre dappertutto, nel quale raccontavo la venerazione della città di Firenze per don Facibeni.

Era la testimonianza di una personale esperienza che avevo fatto, come operaio della Teti – attuale Telecom – mentre mi recavo ogni giorno per lavoro in numerose abitazioni, o nei negozi, o negli uffi-ci – pubblici e privati – per riparare gli apparecchi telefonici guasti.

Come appena detto era il 1958, il Padre era morto da poco tempo, e la sua immagine venne diffusa in tutta la città, attraverso migliaia di foto in bianco e nero, con quel fazzoletto candido che gli usciva dalla tonaca.

Trovavo quella foto dappertutto: nelle abitazioni, sulle scrivanie degli uffici, nei banchi dei negozi e una volta me la trovai infilata anche nel telefono a parete che dovevo riparare.

Furono emozioni che mi ispirarono quella paginetta. Don Carlo la lesse, gli piacque, volle conoscermi e da quel giorno nacque una reciproca amicizia che anni dopo, su suo invito, mi portò a collabo-rare al giornale della Madonnina del Grappa.

Insieme ad altri più competenti collaboratori, mi convocava alle riunioni di redazione che si tenevano, ogni quindici giorni, a Villa Guicciardini.

Questa la genesi del nostro rapporto, che mi arricchì di un’amici-zia durata decenni. Da quei giorni, infatti, don Carlo dispensò per me preziosi insegnamenti per cui, da implume letterato, lo elevai non solo a censore dei miei scritti, ma a sicuro punto di riferimento oltre – come già detto – a maestro di vita.

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prefazione

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Detto dei rapporti personali, vorrei ora passare ai contenuti di queste pagine: un volume richiestomi dall’Editore, che ha voluto aggiungere, a una particolare collana di fiorentini passati alla storia della Chiesa e della città di Firenze (La Pira, don Milani, Bargellini, don Facibeni, don Barsotti, Alberto Migone), anche la luminosa fi-gura di don Carlo Zaccaro.

A scanso di equivoci, prima di iniziare a scrivere questo lavoro preciserò che non sono qui per mettermi in gioco come biografo. Anzi, usando una metafora dirò subito, accostando la biografia di don Carlo a un prezioso puzzle, che tenterò di ricomporlo assem-blando cento – e forse potrebbero essere mille – tessere, tutte diverse tra loro, ma ugualmente necessarie per dare completezza alla figura del protagonista.

Aggiungendo, vista la sua popolarità e l’alto spessore – inteso in quantità e qualità –, che non mi sarà possibile tracciarne un profilo esaustivo.

Racconterò, allora, soltanto alcuni episodi personali, scegliendoli tra i molti che, in anni e anni di quotidianità, ho avuto il privilegio di condividere con lui.

Il tutto arricchito da qualche inedito, e dalla trascrizione, tratta dall’intervista che gli feci a Quercianella, già diffusa attraverso il cd, del quale ho già accennato.

Quella sua “confessione” a tu per tu sarà la spinta trainante dell’in-tero volume: davvero un’apertura a cuore aperto datata luglio 2004.

A tutto ciò, ho creduto di aggiungere alcune testimonianze, in parte scritte e in parte rilasciate a voce, da alcuni suoi “figlioli”.

L’abbondanza dei contributi mi ha anche creato qualche proble-ma nella disposizione dei testi, che ho deciso di aprire riportando integralmente l’affettuoso saluto di commiato, rilasciato pubblica-mente il giorno dei funerali, dal suo compagno d’avventura don Corso Guicciardini.

Ho parlato di saluto, ma le parole di don Corso sono insieme la testimonianza di un cammino di fede, condiviso sul medesimo itine-rario tracciato da don Facibeni e, allo stesso tempo, il racconto della storia di quell’Opera Madonnina del Grappa, da entrambi ereditata,

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prefazione

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insieme a un piccolo manipolo di sacerdoti loro confratelli, il 2 giu-gno 1958, giorno della scomparsa del Padre.

Al contributo d’apertura del Superiore dell’Opera Madonnina del Grappa, ho aggiunto alcune testimonianze, inedite ma importantis-sime, di amici personali di don Carlo e dell’Opera Madonnina del Grappa.

La prima è di Ettore Bernabei, quasi un fratello di don Carlo, fiorentino doc, assurto a ruoli giornalistici di fama nazionale, già di-rettore della Rai e tuttora impegnato nella produzione di importanti fiction, attraverso un’azienda di famiglia da lui creata.

Seguono altre interviste o interventi, articolati per tematiche dei servizi dell’Opera – case-famiglia, scuole, giovani, anziani, parroc-chie, carceri, missione Albania – integrate da brevissime testimo-nianze dirette di chi lo ebbe accanto come maestro, guida e com-pagno di viaggio: don Celso Quercioli, Luciano Bonaccorsi, l’Anna Maria di Villa Guicciardini, i coniugi Aldo e Rosalba Milli, Roberto Funghi e la moglie Chiara Bencini, suor Francesca (dell’Ordine delle suore di San Giuseppe dell’Apparizione), e il pensiero dei suoi fami-liari – la sorella e il nipote Andrea, con una Lettera allo zio.

Non mancherà il testamento spirituale e l’ultima lettera ai suoi “figlioli”.

Infine, ma non ultime per contenuti, come in apertura della rac-colta di queste testimonianze sono apparsi i pensieri di don Corso e di Ettore Bernabei, in chiusura, quasi a volerle incorniciare, non poteva mancare il prezioso ricordo del biografo del Padre, don Sil-vano Nistri, amico da sempre di don Carlo e dell’Opera, e quello di mons. Giordano Frosini, un teologo di alta levatura che gli fu amico e che ne seguì appieno le avventure terrene, fino a scoprirgli addosso riflessi di santità.

Il ricordo che don Silvano, da attento osservatore e sapiente nar-ratore dei fatti e dei testimoni della Chiesa fiorentina, volle scrivere, è tratto dal numero speciale de «Il Focolare», da lui curato e intera-mente dedicato a don Carlo.

La testimonianza di mons. Frosini fu presentata dall’autore a Ga-leata, nel corso di una solenne cerimonia promossa dal Comune ro-magnolo nel trigesimo della morte di don Carlo.

Una nota finale mi spinge a indirizzare un pensiero di scusa a

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quella terra di Romagna, trascurata, per limiti di spazio, su queste pagine, che il protagonista del presente volume amò, non meno del-la nativa terra di Toscana.

Scrivo questo non per giustificare un vuoto, ma semmai per invi-tare gli amici romagnoli di Forlì, Galeata e paesi limitrofi a mettere insieme, per poi elevarle a uno specifico volume, una raccolta di testimonianze locali su don Carlo.

In questo senso, a Forlì, il giorno dell’inaugurazione della locale Confraternita della Misericordia, intitolata a don Carlo Zaccaro, il governatore Alberto Manni ha assicurato di farsi promotore di un secondo volume, da dedicare alla figura di don Carlo: un don Carlo romagnolo, quindi, da affiancare al presente.

Mario Bertini

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prima parte

un uomo di diotra cultura e santità

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«un rabdomante della povertà»

Di don Carlo tutti ormai conoscono la storia della sua vocazione: una chiamata che potrei definire adulta, essendosi prima laureato e avendo anche insegnato – come assistente – Diritto Agrario all’Uni-versità di Firenze; anche se, su invito di don Raffaele Bensi, insieme al compagno d’avventura don Corso Guicciardini era già stato a Ri-fredi per conoscere e dare una mano a don Facibeni.

Avviatosi quindi a una carriera accademica e animando i giovani studenti della Fuci fiorentina, il giovane rampollo Carlo Zaccaro, circondato anche da belle ragazze, tutto avrebbe pensato fuorché di rimanere incastrato nella santa tagliola del Padre della Madonnina del Grappa per farsi prete.

Oltre a don Bensi, evidentemente, altri maestri fiorentini di spec-chiata fede cattolica lo avevano già segnato. Giorgio La Pira su tutti, ma anche la precedente decisione dell’amico Corso Guicciardini, già diventato sacerdote. Di fatto, nel 1955 anche lui cantò messa e alla sequela di don Facibeni restò nell’Opera per sempre.

I suoi rapporti con don Facibeni sono sempre stati de visu, perché fu l’unico sacerdote della Madonnina del Grappa che non ricevette scritti personali; lo testimonia l’assenza di lettere – a lui indirizzate dal Padre – nei corposi volumi epistolari curati da don Silvano Nistri.

Dicevo di una vocazione adulta (aveva trentatré anni) e forse an-che sofferta, perché, specialmente al momento dello strappo dal con-testo cattolico e politico fiorentino – ma anche romano – qualche rimpianto ci deve essere stato.

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«un rabdomante della povertà»

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Lui stesso, una decina di anni fa, mi raccontò di un colloquio su questo tema tra lui e don Facibeni. Aveva da qualche anno cantato messa e in un momento di confidenza si aprì al Padre dicendogli: «Vede, Padre, se non mi fossi fatto prete a quest’ora sarei già mini-stro…». «Ministro no, ma sottosegretario sì…» – gli aveva risposto a bassa voce don Facibeni –. «Queste parole – aggiunse don Carlo – furono per me un richiamo di santa umiltà…».

Per la scelta di essersi consacrato, don Carlo fu per sempre un uomo di Dio, di quel Dio che, come scrisse un giorno don Silvano Nistri: «non si può distinguere dalla gioia». Il suo sguardo, infatti, sempre solare, mai come in lui specchio dell’anima, traspariva luce di grazia.

Un perpetuo stato di grazia, quindi, accresciuto, specialmente ne-gli ultimi decenni, quando sulla sua strada incontrò Madre Teresa di Calcutta, la quale non si stancava mai di affermare che: «La santità non è un privilegio per pochi, ma un dovere per tutti!».

E lui seppe incarnare questa esortazione, dispensando amore ver-so gli uomini: tutti gli uomini, di qualunque ruolo, o razza, o posi-zione sociale, specialmente se poveri.

Con gli anni, poi, come disse un mese dopo la sua morte mons. Giordano Frosini, alla scuola di don Facibeni e di Madre Teresa «si fece rabdomante della povertà».

Altra sua peculiarità: una serenità d’animo, arricchita da un co-stante sorriso.

Se lo volessimo sintetizzare in poche parole, potremmo dire che aveva in sé la fantasia dell’amore. In questo senso fu un santo della gioia del quotidiano, che seppe mettere la sua ampia cultura al servi-zio dell’umiltà del suo sacerdozio.

Fu insieme attivo e contemplativo e, specialmente negli ultimi anni, amò il servizio agli ultimi come azione; e il nascondimento, unito alla preghiera, come contemplazione.

Per non dire della sua freschezza interiore, che unita alla fertilità di pensiero generava in lui mille idee.

Mille progetti che, per la severa equazione spazio-tempo, riusciva a sviluppare a metà, ma ciò che realizzava, illuminato dai contenuti del binomio grazia-fantasia, era destinato a fissarsi alla sua storia e a quella dell’Opera Madonnina del Grappa.

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Per quanto riguarda lo spessore, o meglio sarebbe dire l’alta cara-tura delle cose fatte, e ne fece molte, il valore non stava tanto in ciò che riusciva a realizzare, ma nella squisitezza dei rapporti quotidiani coi suoi collaboratori.

E qui il discorso inevitabilmente si allarga a qualche dettaglio, necessario a mettere a fuoco l’essenza di un’anima. Mi spiego meglio con un esempio.

Se nel suo quartier generale di Villa Guicciardini, qualcuno anda-va a trovarlo – e poteva essere un’autorità civile, politica o religiosa; oppure un medico, o un avvocato, ma anche un giovane disoccu-pato, o un povero in cerca di spazi di sopravvivenza – don Carlo riceveva tutti con il medesimo, educatissimo entusiasmo.

Bussando alla sua stanza, si alzava subito, scusandosi se stesse te-lefonando, poi si apriva al suo luminoso sorriso, appellando sempre l’ospite, con titoli, a volte anche impropri: dottore, professore, illu-strissimo e, dopo averlo ascoltato con colloqui di disponibile premu-ra, lo riaccompagnava all’uscita con uguale cortesia, aprendo perfino il cancello all’auto del vescovo o del sindaco.

Alla stessa maniera accoglieva il povero, al quale magari aveva of-ferto pochi euro, preoccupandosi invece di dargli i soldi per l’auto-bus e, a volte, perfino del taxi.

Sono piccoli particolari, lo ammetto, ma che denotano come don Carlo, nell’altro, al di là del ruolo che rappresentava per lui, vedeva soprattutto l’uomo; e qui verrebbe da pensare a quel brano evange-lico che ci invita a vedere in ogni uomo, specialmente se povero, il proprio fratello, se non il Figlio di Dio.

Un altro aspetto della sua grandezza di educatore mi spingerebbe a scrivere, magari cercando di allargare le cifre al numero dei suoi studenti, della sua severità nel pretendere da ogni giovane a lui affi-dato il massimo impegno.

Fu maestro e guida per centinaia di studenti delle medie superiori e universitarie; generazioni di giovani, oggi ricercati professionisti e alcuni dirigenti d’azienda, con i quali coltivò rapporti personalissimi sfuggen-do, per precisa scelta, a insegnamenti di gruppo e quindi omologati.

Egli sapeva benissimo che ogni ragazzo aveva un proprio dna ge-netico, e pur muovendosi dal ruolo di genitore supplente o adottivo, rifiutava il rischio di plagi collettivi.

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A tal proposito trascrivo un esempio, recentissimo, di una lezione di vita che volle impartirmi, riferendomi alla sua ultima casa-fami-glia per studenti universitari di Villa Guicciardini.

Nel santo disordine del suo menage quotidiano, i suoi giovani – qualche italiano, ma anche molti albanesi e un africano – tutti insieme li incontrava raramente.

Poteva sembrare trascuratezza e invece era una scelta precisa per una vigile responsabilità, necessaria a lasciare il giovane libero e in-dipendente: una gestione di autocontrollo, senza azioni concertate, coltivando in ciascuno le personali inclinazioni.

Ricordo che un giorno, non conoscendo a fondo la sua paterna pedagogia, mi provai a dirgli che quei ragazzi mi parevano un po’ troppo trascurati, anche per i suoi molteplici impegni in Albania che lo allontanavano dalla casa-famiglia di Villa Guicciardini.

Credendo di dargli un buon consiglio, mi provai a suggerirgli di farsi un autista personale, proponendogli anche la figura di un vo-lontario, soprattutto per portarlo e riprenderlo dall’aeroporto.

Una persona di fiducia che, al bisogno, e gratuitamente, avrebbe potuto avere funzione di segretario, al posto degli studenti universi-tari che si alternavano a fargli da autista o a gestire altri servizi della casa.

Ricordo che provai anche a dirgli: «Vedi, don Carlo, con tutti i tuoi impegni lontano da Villa Guic-

ciardini, rischi di trascurare i tuoi ragazzi, e poi li distrai rubando loro del tempo prezioso per accompagnarti di qua e di là: oggi all’ae-roporto di Roma, domani a Pisa, o a Peretola, oppure a Galeata, o a Rifredi… e con un ragazzo sempre diverso. Così facendo non puoi dar loro un’educazione uguale per tutti».

Non glielo avessi mai detto! La sua risposta, rapida, determinata e anche un po’ severa, fu davvero per me una lezione d’umiltà.

Mi guardò fisso e, con molta decisione mi disse:«Tu non hai capito proprio nulla, perché i miei rapporti con que-

sto gruppo di ragazzi è soprattutto personale, a tu per tu, e proprio nelle occasioni in cui sto due o tre ore insieme a ciascuno di loro: e questo avviene, come hai detto tu, mentre mi accompagnano all’ae-roporto, o a Roma, o a Galeata, o a dir messa dalle suore di Madre Teresa, o comunque in uno dei miei spostamenti quotidiani.

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Sono occasioni personali di reciproca apertura che valgono più di cento incontri di gruppo. L’educazione paterna, o se vuoi il rapporto tra padre e figlio, si dispensa attraverso colloqui a tu per tu, e non a famiglia riunita. Specialmente se questa famiglia è numerosa, non serve dispensare lezioni tutti insieme… Servono aperture e fiducia personali e non severità omologata».

Questo era don Carlo: padre di ognuno e non maestro di gruppo, e si pensi che i suoi ragazzi sono stati centinaia, e forse – pensando agli anni di Villa Lorenzi, quando fu responsabile ed educatore di generazioni di studenti – qualche migliaio. Giovani nei quali ha sa-puto edificare l’uomo, il singolo, l’uno… ognuno con un proprio, personalissimo bagaglio di valori.

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Don Carlo Zaccaro con Jonathan Borin a Villa Guicciardini, Firenze