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Cesare Cantù Margherita Pusterla www.liberliber.it

E-book campione Liber Liber · MARGHERITA PUSTERLA RACCONTO STORICO Quarantesima Edizione Milanese con incisioni MILANO LIBRERIA DI EDUCAZIONE E D’ISTRUZIONE DI PAOLO CARRARA EDITORE

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Cesare Cantù

Margherita Pusterla

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TITOLO: Margherita PusterlaAUTORE: Cantù, CesareTRADUTTORE: CURATORE: NOTE: Realizzato in collaborazione con il ProjectGutenberg (http://www.gutenberg.net/) tramite Di-stributed Proofreaders (http://www.pgdp.net/).

CODICE ISBN E-BOOK:

DIRITTI D'AUTORE: no

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TRATTO DA: Margherita Pusterla : racconto storico /Cesare Cantù. - 40. ed. milanese con incisioni. -Milano : Libreria di educazione e d'istruzione diPaolo Carrara, \1880?!. - 369 p., \7! c. di tav. ;19 cm.

CODICE ISBN FONTE: informazione non disponibile

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 1 aprile 2005

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2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 25 febbraio 2014

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

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REVISIONE:Claudio Paganelli, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Claudio Paganelli, [email protected] Righi, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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Indice generale

L’EDITORE AI LETTORI.............................................7CAPITOLO PRIMO.LA PARATA.................................................................12CAPITOLO II.L’AMORE....................................................................39CAPITOLO III.LA CONVERSIONE....................................................66CAPITOLO IV.L’ATTENTATO............................................................93CAPITOLO V.LA CONGIURA.........................................................124CAPITOLO VI.UN’IMPRUDENZA...................................................142CAPITOLO VII.L’ANNEGATA...........................................................170CAPITOLO VIII.I DISASTRI................................................................203CAPITOLO IX.BRERA.......................................................................238CAPITOLO X.IL PROCESSO...........................................................261CAPITOLO XI.LA PRIGIONIERA.....................................................281CAPITOLO XII.PEGGIORAMENTO..................................................305

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CAPITOLO XIII.RICONOSCIMENTO.................................................331CAPITOLO XIV.PISA............................................................................355CAPITOLO XV.PADRE E FIGLIO......................................................377CAPITOLO XVI.L’ESULE....................................................................391CAPITOLO XVII.TRADIMENTO..........................................................433CAPITOLO XVIII.IL SOLDATO.............................................................453CAPITOLO XIX.FUGA.........................................................................492CAPITOLO XX.UN FRATE E UN PRINCIPE....................................523CAPITOLO XXI.SENTENZA................................................................544CAPITOLO XXII.LA CATASTROFE.....................................................567CONCLUSIONE........................................................608FONTI STORICHE....................................................618INDICE.......................................................................623

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CESARE CANTÙ

MARGHERITA PUSTERLA

RACCONTO STORICO

Quarantesima Edizione Milanese con incisioni

MILANOLIBRERIA DI EDUCAZIONE E D’ISTRUZIONE

DI PAOLO CARRARAEDITORE.

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L’EDITORE AI LETTORI

Nel 1834 l’autore di questo libro trovavasi nelle pri-gioni di Stato dell’Austria. Il suo processante, Paride Za-jotti, trentino, era letterato, e però conscio del tormentoche maggiore dar si può ad un letterato, quel di privarlodi ogni mezzo di leggere e di scrivere. Brutalità tantopeggiore in quanto, al fine dell’inquisizione, si dovettedichiarare che non reggevano alla prova neppure gli indi-zj e i sospetti, pei quali era stato sì lungamente carcerato;e in quanto agli altri detenuti non letterati si permettevaperfino di abbonarsi a gabinetti di lettura.

In quella atroce solitudine, il Cantù trovò modo di farsidell’inchiostro col fumo della candela, penna cogli stec-cadenti; e su carte straccie, dategli per altri usi, scrisse ilpresente romanzo. Egli si ricordava del fatto in di grossoe dei tempi: gli mancavano i nomi proprj e le date sicure,talchè i personaggi nacquero con nomi suppositizj, sicco-me variarono alcune circostanze di fatto allorchè, spri-gionato, potè limare il suo lavoro, e dopo lunga quarante-na alla censura di Vienna, perchè la censura milanese noncredette poterlo ammettere, il diede alla stampa.

Questi fatti non importano al pubblico, eppure sonotutt’altro che indifferenti per intendere molte parti dellavoro, nel quale l’autore volle ritrarre, o forse non vo-lendo, ritrasse i proprj patimenti e le proprie consolazio-

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ni sotto figura altrui, mentre Silvio Pellico aveva in per-sona dipinto i suoi.

Bensì è noto con quanto favore fu questo romanzo ac-colto in Italia, e tradotto in tutte le culte lingue. Ciò nonrecherebbe meraviglia, giacchè è fortuna comune a qua-si tutti i libri di tal genere. Ben importa l’accertare che ilsuccesso della Margherita Pusterla si sostenne dopo ilprimo bollore; e da quarant’anni va ristampandosi conti-nuamente in edizioni numerose; prova di meriti intrinse-ci e letterarj e politici e morali, indipendenti dalla modae dalla novità.

Testè uno di quei critici, a cui pute ciò che sa di italia-no, lagnavasi che, in tanti romanzi e drammi nostri, nonapparisse un tipo di donna. Al tempo stesso il baroneNiccola Taccone Gallucci, lodato autore del Saggio d’E-stetica, in un lavoro sull’Arte cristiana asseriva che“poeti ed interpreti del perfetto pensiero dell’epoca mo-derna e della fede viva, profondi scrutatori degli affettiromantici, sono il Manzoni, il Cantù ed il Grossi.”

E soggiungeva:“Il Cantù, che insieme al Manzoni e al Grossi forma-

no il triumvirato, direi quasi, dell’epoca più prosperadella moderna poesia italiana, si fa a sublimare la beltàdel patire con la squisita pittura dell’amore, della soffe-renza, della rassegnazione, della morte della sua Mar-gherita Pusterla. L’affanno dell’affetto terreno negli ulti-mi istanti della sua vita è patetico in quelle parole, chesuonano angosciose in ogni cuore: Morire! morire cosìgiovane.... e morire innocente! Ma nello estremo quadro

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del dolore terribile e divinamente malinconico, risaltauna morale leggiadria ed una purità di colorito, che se-duce nel martirio anche sul palco.

“La nobile figura di frate Buonvicino, l’immagine piùperfetta dell’ideale ascetico e cavalleresco, che, colloca-to accanto alla bella Margherita, guarda il cielo, e mor-mora quelle sublimi parole: Lassù sono le speranze chenon falliscono mai, manifesta il generoso carattere, lafede, l’invincibile fiducia, l’ineffabile amore del Cantù,che arriva fino all’apogeo dell’ideale doloroso e malin-conico, allorchè la faccia di Margherita, fatta più palli-da, si volge anch’ella cogli occhi lagrimosi al cielo, e sifa santa nel Dio, padre degli infelici, esclamando: Si-gnore, la volontà vostra e non la mia1.”

Noi dunque facendo questa 42ª edizione2, sotto gli oc-chi dell’autore, pensiamo ben meritare della moralità edella letteratura diffondendo un libro che crediamo rin-vigorisca il sentimento del nobile e del giusto, mediantel’amore pei buoni e l’indignazione pei ribaldi.

Milano, maggio 1880.

1 In questo punto ci viene sottocchio una biografia dell’autore, premessa auna bellissima edizione d’una nuova traduzione spagnuola della sua StoriaUniversale, e vi leggiamo: «En la prison, con medios que solamente los presossaben procurarse, compuso una novela, en que, ideando un proceso de Estadoformado à Margarita Pusterla por los Visconti, revelaba las iniquidades de losprocesos politicos modernos. Esta novela ha sido colocada al lado de la deManzoni, y traducida en todas las lenguas: en Francia conocemos cincotraducciones diferentes. Una novela que sobravive al ano en que ha visto laluz, no deja de ser fenòmeno bastante raro en el dia.»

2 Così in originale, in frontespizio però è scritto quarantesima edizione[nota per l’edizione elettronica Manuzio].

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— Lettor mio, hai tu spasimato?

— No.

— Questo libro non è per te.

1833.

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Erasi fatta ad osservare il corteggio, ....

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CAPITOLO PRIMO.LA PARATA.

Entrando il marzo del 1340, i Gonzaga signori diMantova avevano aperta una corte bandita nella loro cit-tà, con tavole disposte a chiunque venisse, con musici,saltambanchi, buffoni, fontane che sprizzavano vino,tutta insomma la pompa colla quale i tirannelli, surroga-tisi ai liberi governi in Lombardia, procuravano di stor-dire i generosi, allettare i vani, ed abbagliare la plebe,sempre ingorda dietro a queste luccicanti apparenze.

Fra i tremila cavalieri concorsi a quella festa congrande sfoggio d’abiti, colle più belle armadure cheuscissero dalle fucine di Milano, con destrieri ferratipersino d’argento, v’erano comparsi molti Milanesi perfare la corte al giovinetto Bruzio, figliuolo naturale diLuchino Visconti, signor di Milano. Sono fra essi ricor-dati Giacomo Aliprando, Matteo Visconti fratello di Ga-leazzo e di Bernabò, che poi divennero principi; il Pos-sidente di Gallarate, il Grande de’ Crivelli, e sovra glialtri segnalato Franciscolo Pusterla, il più ricco posses-sore di Lombardia, e sarebbesi potuto dire il più felice,se la felicità potesse con beni umani assicurarsi, e se da

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quella non fosse precipitato al fondo d’ogni miseria,come il processo del nostro racconto dimostrerà3.

Questi campioni milanesi avevano riportato il premiodella giostra ivi combattutasi, il quale consisteva in unsuperbo puledro del valore di 400 zecchini, nero comeuna pece, colla gualdrappa color di cielo, ricamata ad ar-gento; in un altro, mezzano di grossezza, baio di coloree balzano di due piedi: oltre a due abiti, uno di scarlatto,l’altro di sciamito foderato di vaio. Per farne mostra,erano i vincitori girati trionfalmente per Cremona, Pia-cenza e Pavia, donde s’erano vôlti dalla patria, appuntoil 20 Marzo dell’anno predetto. Liete accoglienze rice-vevano per tutto, poichè un istinto dominante e perico-loso dell’uomo fece al valore fortunato tributare rispettoed ammirazione in ogni tempo, ma più ancora in quello,tutto di forza materiale. I signorotti poi vedeano volon-

3 La famiglia Pusterla era d’origine longobarda, e riconoscevasi indipen-dente, cioè rilevava i suoi feudi direttamente dall’imperatore, portando in se-gno l’aquila imperiale nello stemma. A queste famiglie, nel governo a comune,di preferenza conferivansi le dignità, sì perchè non potevano spendere larga-mente, sì perchè non erano legate da giuramento o da fedeltà ad altro signore. IPusterla in fatto ebbero altissime cariche e civili e militari ed ecclesiastiche, ene conseguirono ingenti ricchezze. Fin trentacinque ville possedeano con am-plissime tenute, e quasi tutto a loro spettava il territorio di Tradate, in libero al-lodio, e non per infeudazione imperiale nè vescovile.

In Milano padroneggiavano quasi tutto il quartiere di porta Ticinese, daSant’Alessandro fino al Carrobio, e vuolsi introducessero nelle case quelle pa-lanche e cancellate, che costumano fra la porta di via e il cortile interno, e chechiamiamo pusterle. A un dato giorno questa famiglia allestiva un enorme ca-vallo di legno, il quale tirato dai Facchini della Balla, a suon di strumenti pro-cedeva pel corso di porta Ticinese fino al duomo; quivi schiudevasi come il ca-vallo di Troia, e ne usciva gente coi regali, di cui i Pusterla facevano omaggioalla metropolitana; terminavasi con lauti trattamenti all’innumerevole clientela.

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tieri che il coraggio si esercitasse in tornei e finte batta-glie, come in altre età videro volontieri sfogato l’umorecurioso e contenzioso in fazioni da teatro e in letterarjgarriti. Perciò anche da Milano uscì ad incontrare i prodiuna cavalcata della Corte e de’ più nobili, che ricevutilinello splendido castello di Belgioioso, voltarono conessi alla città.

Entrati con solenne pompa per la via di Sant’Eustor-gio, attraversato quel sobborgo, già cinto di mura e chia-mato la Cittadella, vennero alla porta Ticinese, che siapriva laddove ora è il ponte sul canale Naviglio. Quelcanale segna ancora la fossa che, larga quanto è ora lastrada, aveano scavata attorno alla risorgente patria iMilanesi per difendersi dal Barbarossa: e col cavaticcioavevano formato un terrapieno (il Terraggio), unico ri-paro ma bastante quando ogni cittadino era guerriero, —guerriero per la patria e per la libertà. Ma pochi anni pri-ma di quello di cui scriviamo, Azone Visconti aveva inquel luogo fabbricato la mura, lunga in giro diecimilabraccia, con saracinesche e ponti levatoj a ciascuna del-le undici porte, incoronata di cento torri e di migliaja dimerli.

Passati i cavalieri per l’arco, che tuttavia sussiste amalgrado dei novatori, costeggiarono le famose colonnedi San Lorenzo, logora e venerabile reliquia romana, egiunsero al crocicchio, detto Carrobio perchè dava luo-go ai carri, qualità allora comune a poche vie. Il vulgo,sospendendo i lavori, traeva a quello spettacolo, invitatodal festoso sonare dei banditori della città, i quali, tutti

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in rosso, colle trombe d’argento, insieme coi sei portieriin corsaletto a quarti di bianco o scarlatto, e coi mantellidel colore istesso, precedevano la comitiva, togliendosiin mezzo il banderajo, che portava il gonfalone coglistemmi delle varie porte, distribuiti attorno alla viperanera in campo d’argento. E — Chi è quella signora tuttaa velluto e oro?» — domandava qualche fanciulletto.

— È (gli rispondevano i genitori) è la signora Isabelladel Fiesco, moglie di quel là, tutto lucente di acciajo,con sul cimiero una biscia che mangia un figliuolo catti-vo. Si chiama il signor Luchino, nostro padrone. Vedimo fortuna nostra d’avere un padrone così valoroso euna sì bella padrona!

— E vedete (soggiungeva un compare maliziosamen-te pigiando col gomito) che occhiatine ella si ricambiacol bel Galeazzo.

— Eh eh! (replicava un terzo strizzando l’occhio) gliè un pezzo che se la intendono zia e nipote».

Qui cominciavano a leggere sulla cronaca scandalosa,e contare i torti, con cui la signora Isabella ricambiava itorti che riceveva dal marito. Luchino in fatto, senza unavergogna al mondo, veniva dietro circondato dai suoi fi-gliuoli Forestino, Borsio e il già nominato Bruzio, parto-ritigli da diverse madri.

Luchino nasceva dal Magno Matteo, quello che, dopodell’arcivescovo Ottone Visconti, col valore e colle bri-ghe aveva ottenuto il dominio di Milano sotto il titolo diVicario dell’Impero, poi di capitano e difensore della li-bertà. A Matteo era successo nel comando Galeazzo, a

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questo il figlio Azone, e morto lui, Luchino era stato, il17 agosto dell’anno precedente a questo, assunto signo-re dal consiglio generale de’ Milanesi. Ma perchè pocobene prometteva la sgovernata gioventù di lui, consuma-ta a correre avventure fra libertini, gli avevano dato acompagno il fratello Giovanni, vescovo e signore di No-vara.

Mostrerebbe conoscere pur poco il popolo chi si me-ravigliasse perchè, sapendolo un tristo arnese, non aves-sero eletto tutt’altri o nessuno.

Quando Luchino si trovò in potere, parte coll’astuzia,parte colla prepotenza, eliminò il fratello, che, prete,credenzone e voglioso di godersi i vantaggi di una lautafortuna e di una rara avvenenza, abbandonò ad esso ognipubblica cura.

Luchino, ricchissimo di quel valore militare che puòassociarsi con tutti i vizj e sino colla viltà, austero mendi lingua che di fatti, scarso nel promettere, saldo nelmantenere, spedito nel prendere una risoluzione e nel-l’effettuarla, molto paese acquistò, nulla perdette: nonsentì benevolenza per altri che pe’ suoi bastardi: nonperdonò mai, mai non si fidò in chi una volta avesse of-feso: ma per dissimulare o l’odio o la vendetta, per se-guitare con lunghi giri una preda, per consumare un’ini-quità col più ipocrito aspetto di giustizia, pochi l’egua-gliarono fra i signori di sua casa, che pur sapete se ve nefurono di tristi.

Di giustizia gli meritò lode l’aver liberato il paese dailadri, frenato le prepotenze dei feudatarj, dato eguale

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ascolto a Guelfi e Ghibellini, chiamato i nobili al par de’plebei a sopportare le pubbliche gravezze. Ma in quelche riguardava lui stesso, aveva intitolato giustizia ilproprio interesse. Fu unico in ciò?

Semplice era la sua politica: conservarsi ad ogni co-sto. Tornava opportuno il dar favore al commercio, allearti? lo faceva. Conveniva meglio la guerra? la rompea,che che lagrime e che che sangue dovesse costare. Se-condo il credea buono, favoriva letterati e poeti, ovveroergea patiboli, empiva prigioni. Considerandosi comeun custode di belve che lo sbranerebbero appena cessas-se di mazzicarle o di mostrarsi necessario al loro sosten-tamento, ai buoni, cioè ai vili, comparire unico autoredella pubblica felicità; coi malvagi, cioè con quelli cheosassero guardare nei fatti suoi, esacerbava per calcolola naturale e dissimulata fierezza: spie, giudici comprati,forza armata davano tratto tratto dei buoni esempj: cioèaccusando, incarcerando, ammazzando, insegnavanoagli altri a dimenticare le libertà un tempo godute, a cre-dere unico dovere del capo il comandare, unico dirittodei sudditi l’obbedire.

Non però sempre violenti erano i mezzi, da Luchinomessi in opera, e sembra che i Milanesi o non avvertis-sero o trovassero piacevole quell’altro suo accorgimentodi domarli corrompendoli. Al vulgo feste, baccani, ta-verne, bordelli; ai nobili giovani, i cui costumi severi eriflessivi gli avrebbero fatto ombra, offriva alla Corteesempj e comodità di dissolutezza, affinchè, chiuse le

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vie alla gloria ed agli onori, badassero a cogliere il fiordella vita fra spassi e gavazze.

Narrano che questa via lo guidasse più presto e me-glio alla meta.

Nè la coscienza taceva in lui: ma ne soffocava o illu-deva la voce con pratiche devote: recitava ogni giornood ascoltava l’uffizio della Madonna; teneva a tavolaspesso i suoi cani, ma altre volte vecchi e pitocchi, aiquali con fastosa umiltà ministrava egli stesso: mai nonmangiò che cibi quaresimali al sabbato e ne’ giorni co-mandati; tassò le spese dei funerali, e stabilì gravi penecontro i medici che visitassero tre volte un malato senzafarlo confessare.

Che i sudditi lo amassero glielo ripetevano cagnotti,ambasciatori e poeti: quanto egli sel credesse potevasiargomentare dal giaco di maglia che mai non deponeva,dalle raddoppiate guardie, e da due enormi alani, che,come i soli non capaci di desiderare miglioramento nèlibertà purchè mangiassero, si teneva ai fianchi dovun-que andasse.

Pure, al veder le dimostrazioni che gli facevano inquel tragitto per la città, avreste potuto supporre Luchi-no un padre del suo popolo. E non tutte dovevano dirsiadulazioni e vigliaccheria. Nessun governo si dà che siatristo affatto, nessuno che non profitti a qualche classe. ILombardi erano corsi attraverso un’età d’interne turbo-lenze, ove la libertà, acquistata a prezzo di sangue e disforzi generosi, erasi andata guastando tra fraterni dissi-di, ire di fazioni, soperchierie di prepotenti: talchè, stan-

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chi d’un assiduo tempestare ove il grosso del popolo ar-rischiava tutto senza nulla vantaggiare, vedeano di buonocchio un governo robusto che poneva un freno a tutti,si avvezzavano a chiamare pace la comune servitù,come la chiamavano libertà quelli che ne facevano ilfatto loro. Luchino, inoltre conferiva gl’impieghi quasisolo a nostrali, talchè seimila cittadini vivevano sopra ipubblici stipendj: nella carestia che allora affliggeva ilpaese, quarantamila bisognosi erano mantenuti a spesedella città: della città dico, non del principe: ma il popo-lo è sempre disposto ad attribuire a questo i beni come imali che prova.

Quanto ai nobili, erano impazzati nel tempo che rego-lavano il pubblico interesse: ciascuno amò sè più che lapatria, più le proprie soddisfazioni che le comuni libertà,più il comodo che la gloria, più la vita che la virtù: oramangiavano del cibo che s’erano preparato. Alcuni, ve-dendo di non potere nè sopportar così, nè volgere in me-glio la sorte del loro paese, o viveano ritirati in violentapace, od uscivano in esteri paesi: col che più libero la-sciavano il campo all’ambizione di coloro che, non piùnella patria, ma alla Corte cercavano primeggiare, ope-rando non all’utilità di tutti ma di quel solo da cui rice-vevano o speravano lustro e ricompense.

Se non che Luchino, o insospettito o geloso, avevadato lo sfratto a tutti coloro che erano stati in auge sottodi Azone, per attorniarsi di nuova brigata sul far suo,compagni alle sue giovanili dissolutezze, disposti a farecom’egli voleva e peggio. Nella cavalcata che noi de-

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scriviamo, si potevano discernere i nuovi dagli scadutial rimanere quelli vicini al principe, e tal ora accostate-gli pronunziando qualche parola; allo sfoggiare in pom-pa di codardia; allo stringersi fra loro baliosi, e celiare, esbizzarrire sui briosi palafreni; mentre gli altri si teneva-no estremi, taciturni e fra loro scambiando qualche pa-rola sommessa e dispettosa. La plebe naturalmente sup-poneva senno, valore e prudenza nei favoriti dal princi-pe, il contrario negli altri: sberretteva i primi, assomi-gliava gli ultimi a patarini e scomunicati; e tenuta indie-tro dal ceffo arcigno del tedesco Sfolcada Melik, capita-no alla guardia del corpo di Luchino, sbirciando sott’oc-chio quel muso baffuto, gridava: — Viva il Visconti,viva il biscione!»

Senza discernere gl’infimi dai sommi, tra la paratagaloppava un buffone, razza di cui ogni Corte era prov-vista e più lautamente la milanese, che in simile geniaspendeva ogni anno trentamila fiorini4; — ottimo usodelle pubbliche entrate. Vi facevano costoro l’uffizio,che altre volte adempirono i poeti e sempre gli adulato-ri; lisciar i padroni, far ridere alle proprie spalle, tratte-nere con imbecillità corruttrici e velar l’orrore d’un de-litto sotto la vivacità d’un’arguzia. Se non che (tanto inogni istituzione vanno misti il male e il bene) in mezzoai loro lazzi avventuravano qualche verità, che altrimen-

4 Poichè spesso ci verrà fatta menzione delle monete d’allora, giovi avver-tire che l’intrinseco della lira imperiale era di grani 634 d’argento, cioè circaun’oncia e mezzo: la lira dividevasi in 12 soldi imperiali; e 32 di questi ossia64 terzuoli formavano il fiorino o zecchino d’oro, che oggi sarebbe 10 franchi.

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ti non sarebbe giunta fino alle orecchie dei gran signori.Grillincervello, come chiamavasi il buffone di Luchino,copriva la zucca monda con un berretto bianco a cono,sormontato da un cimiero scarlatto a guisa di una crestadi gallo; con due brache e un farsettaccio di traliccio lar-ghi e sciamannati, con enormi bottoni e ciondoli sonori;ed impugnava un bastone, il cui pomo figurava una testadi pazzo colle orecchie asinine. Messosi per isproni dueravanelli (fabbrica di Pavia, com’esso diceva), stuzzica-va con essi un orecchiuto destriero di Barlassina (altrasua frase), tutto a fiocchetti e sonagliuzzi; e colla boccaatteggiata sempre a un riso fra idiota e maligno, con cer-ti occhi sgranati e guerci, saltabellava di qua, di là, ordando la caccia ai porcelli e alle galline che liberamentepascolavano per le vie; ora ficcandosi attraverso ai passidel terzo e del quarto, e scagliando a questo un motto, aquello una zaffata. Farfogliando al Melik qualche frasemezzo tedesca, gli tirava i severi mustacchi, e mentrecolui, senza scomporre di sua gravità, gli assestava unasciabolata di piatto, egli era guizzato un pezzo lontano.A Matteo Salvatico (scrittore dell’Opus pandectarummedicinæ, la più diligente opera intorno alla virtù delleerbe), il quale, secondo il lusso de’ medici, cavalcavacon un vestone di porpora e preziosi anelli e sproni do-rati, il buffone, facendo al suo somarello un cenno ch’ionon voglio descrivere, diceva: — Toccagli il polso»; poiindirizzandosi all’astrologo Andalon dal Nero, altro mo-bile indispensabile delle Corti d’allora, il quale procede-va contegnoso e sopra pensieri, gli batteva in sulla nuca,

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dicendo: — Questa non te l’avevano indovinata le stel-le».

Lo udiva Luchino, e ne sorrideva, sinchè, passato ap-pena il palazzo che egli aveva eretto per propria abita-zione da privato in faccia a San Giorgio, ed inoltrandosifra la turba che, presso alla chiesa di Sant’Ambrogino inSolariolo, affollavasi al mercato, o come dicevano, allaBalla degli olj e dei laticinj, cominciò a fissare gli occhisopra una signora, che stava sur un terrazzino, sporgentedalla torre in angolo della via che di là mette a Sant’A-lessandro. Questa era Margherita Pusterla, anch’ella dicasa Visconti e cugina del principe, ma troppo da luidissomigliante. Erasi fatta ad osservare il corteggio, nonper capriccio di femminile curiosità, ma per cercare fraquesto il marito suo Franciscolo Pusterla, uno, come ab-biam detto, dei vincitori della giostra, e che teneasi infondo tra gli scontenti. La dama, la quale era tutto il bel-lo che dev’essere l’eroina d’un racconto, reggeva sullaspalletta del verone un caro fanciullo di forse cinqueanni: e tendendo la destra candida e morbida come dicera, gli additava lontano un cavaliero superbamente ve-stito e montato, alla cui vista il bambino, trasalendo digioia fra il seno e le braccia materne, esclamava: —Babbo! babbo!» e con ingenuo vezzo infantile sporgevaverso quello le braccia. Assorta in quest’episodio di fa-miglia che per lei era tutto, la Margherita non ponevamente nè agli applausi del vulgo, nè alla pompa del cor-teo, nè agli occhi che ammiravano la sua bellezza, nè aLuchino, sebbene questi, allorchè fu sotto al balcone,

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avesse rallentato il passo, e fatto sbraveggiare e atteg-giar vagamente il superbo stallone bianco che cavalca-va, bramoso di attirarsi uno sguardo della bella.

Ma invano: onde una nube di dispetto gli passò sulvolto severo. Se non che Ramengo da Casale, uno deicortigiani sempre disposti a piaggiare, qualunque essasia, la passione dei potenti, si fece accosto a lui, ed in-chinandolo con adulatoria sommessione, esclamò: — Sevuolsi trovare qualcosa di grande negli uomini, o qual-cosa di bello nelle donne, è forza ricorrere al nome de’Visconti».

Luchino, non mosso dall’incensata che come uomoavvezzo alle vigliaccherie, rispose: — Sì: ma a costeipare che puta il nostro cognome: nè voi altri fra quantisiete sapeste mai farne belli i circoli nostri.

— Vero! (ripigliava Ramengo) Ella è tanto schifa edorgogliosa quanto bella ed aggraziata. Ma più la vittoriaè difficile, più torna a onore, e ad un sospiro del principequal ritrosia durerebbe?»

Guizzò fra loro il buffone, e ghignando beffardamen-te sul viso dell’adulatore, poi di Luchino, disse a questo,vagliando la persona in modo da sonar tutto: — Nondargli ascolto, padrone; leccane i barbigi, che non la ècarne pe’ tuoi denti.

— E perchè no, sfacciato?» saltò su mezzo in colleraLuchino.

— Perchè no», ripetè il mariuolo, e toccata la caval-catura, in un batter d’occhio fu lontano, mentre Luchi-no, senza curare nè le piacenterie dei cortigiani, nè i

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viva del popolo, seguitava innanzi a rilento, volgendositratto tratto verso la signora Pusterla. Essa invece nondistoglieva gli occhi dal marito, il quale procedeva fraun giovine e un frate, che pedestri uscitigli incontro,l’accompagnavano discorrendo. Il giovane era tutto fuo-co nel gesto, negli sguardi, nel favellare; la faccia del-l’altro, composta a gravità severa e pur dolce, annunzia-va una lotta profonda ma calma tra la violenza dei senti-menti e la robustezza della volontà; e nella fronte facilea corrugarsi, nelle guance scarne e affossate, nel labbroserrato, portava il marchio onde la sventura impronta lesue vittime, quasi per dar loro la consolazione di cono-scersi a vicenda, e di allearsi per reggerle incontro.

La rincrescevole attenzione e il frequente rivolgersidel principe non isfuggirono al Pusterla, il quale, voltosiai non meno accorti compagni, domandò loro: — Vede-ste?

— Vidi», rispose il frate chinando le ciglia in atto dipersona abituata a gravi pensieri.

— Sfacciato!» saltava con occhi sfavillanti il giovane.— Quest’altra ci mancava! Ma che,non può aspettarsida un tiranno? Oh perchè non ci ha a Milano cento per-sone deliberate al par di me! E voi, oh perchè non vi ri-solvete, signor Francesco, di far suonare alto il vostronome e metter fine alle servitù della patria ed all’obbro-brio comune?»

Franciscòlo Pusterla col gesto e colla voce imponevasilenzio ad Alpinòlo (quest’era il nome del garzone),mentre il frate, colla posatezza abituale alle persone co-

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strette a riflettere, a concentrarsi, a vivere in sè, diceva:— All’uomo scontento rimane un partito! spiccarsi daiviziosi, e senza paventare la dimenticanza de’ suoi con-cittadini, cercare nella dignitosa ilarità de’ domestici af-fetti la pace e la sicurezza della coscienza e del proprioonore. Così ha saputo fare tuo suocero Uberto Visconti:così avresti a far tu: e mille segni ti mostrano che n’èvenuta l’ora. Con un tesoro qual è la tua Margherita,non è angolo del mondo così riposto, non solitudine cosìromita, che non ti possa convenire in un paradiso».

La voce del frate erasi animata a questo parlare, comeanche il color delle guancie; egli se n’avvide, chinò ilcapo e tacque. Ma Franciscòlo, punto non mostrandosiconvinto alle parole dell’amico: — Sì, frà Buonvicino(diceva); ritirarmi, questo è il sogno delle mie veglie.Ma poi? cos’è mai un uomo fuor degli affari? Comeparrei dirazzato da’ miei padri, sempre attenti alle pub-bliche cure! Finchè il signor Azone governò, sai se con-tinuamente adoperai al bene della mia patria; sai se find’allora ho usato ogni maniera di riguardi dilicati a que-sto Luchino, benchè fosse in urto collo zio, nella fiduciache, giungendo alla sua volta al comando, me ne sapreb-be buon grado, mi terrebbe fra’ suoi vicini, e così potreidirizzarlo al meglio comune. Or vedi frutto! Appena im-pugnò quel bastone del comando, che tanto noi opram-mo, per affidargli, non che dimenticare i meriti nostri re-centi, fino gli antichi pare ci ascriva a colpa: e sbalzatinoi tutti, si è posto attorno gente nuova e plebea, assurdaconsigliera, insana adulatrice, feccia tale, che mille mi-

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glia ne vorrei esser lontano, se non mi trattenesse la spe-ranza di tornar utile alla famiglia mia, ed ai miei concit-tadini».

Applaudiva Alpinòlo a quel risentito parlare: ma fràBuonvicino, avvisando che, sotto al velo dell’utile pub-blico, s’ascondevano l’ambizione e un naturale, che,non sapendo provare godimenti se non nella tempesta,metteva a pari la calma e la morte, trovava facilmentecome ribattere le apparenti ragioni dell’amico, ma noncome destargli una virile vergogna: onde, qual personausata a concedere indulgenza alle debolezze degli uomi-ni per non essere costretto a doverle disprezzare, finivacol seguitarlo tacendo, finchè si divisero allo sbucaresulla piazza del Duomo.

Se però volete figurarvi al vero gli uomini di queltempo, vestiti di ferro e di sfarzosi mantelli, e pellicce, ecollane d’oro, e berretti a piume ondeggianti, e spadoniai fianchi, ed enormi mazze ferrate agli arcioni, e sulguanto astori e falchi, non dovete collocar loro d’attornoqueste fabbriche d’oggidì, le vie larghe, allineate, selcia-te che sasso non eccede, fiancheggiate da case a tre oquattro solaj, colle finestre simmetriche, protette da ge-losie, con botteghe d’ogni lusso, con tutta quella bellez-za che ha per carattere il gentile, e che rivela tempi quie-ti, gente educata a non pensare gran fatto all’avvenire.L’architettura, come sempre fa, erasi foggiata ai costumie alle opinioni correnti, tutta solidità nei palazzi, nel re-sto appena quel che fosse necessario per riparare dalleintemperie la plebaglia, perpetuamente condannata a fa-

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ticare e patire, giovare ed essere disprezzata. Alte e mas-siccie torri accanto a bassi tugurj, pareano simbolo dellasocietà, divisa in due condizioni, una altissima, infimal’altra. Le poche abitazioni che si elevassero sopra ilpian terreno, s’intitolavano solari; e da uno appunto disiffatti aveva ricevuto il nome la chiesa di Sant’Ambro-gino in Solariolo, che fu poi detto alla Balla, da un atrioove, tre volte alla settimana, tenevasi mercato d’olio, dipollami e latticinj. Colà presso può vedersi ancora5 unodi quei torrazzi, che ajutano l’immaginazione a rico-struire il Milano antico; e da non molto tempo fu diroc-cato l’altro che faceva cantonata alla via che volge aSant’Alessandro. Formava esso parte dello splendidopalazzo dei signori Pusterla, il quale distendeasi fino al-l’Olmetto e ai Piatti, in apparenza più di fortezza che diabitazione. Tutto di pietre tagliate, verso la strada nonaveva che due finestre alte, protette da robuste inginoc-chiate, siccome chiamavano le ferriate sporgenti a pan-cia: grossi anelli impiombati nelle bugne offrivano lacomodità di legarvi i cavalli, per salir sui quali erano di-sposti lungo i muri ed alla porta, dei dadi di granito; laporta chiusa con enormi battenti ferrati e col suo pontelevatojo, aprivasi sotto una torretta quadrata, posta infondo alla via mozza, che ancora nominiamo Vicolo Pu-sterla. Sull’accennato torrione di angolo sventolava lostendardo della famiglia, coll’aquila nera in campo gial-lo; e dal mezzo ne sportava il verone, sul quale si era

5 È scomparso nei nuovi allineamenti.

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mostrata la signora Margherita. I Pusterla, famiglia dellepiù nobili e la più ricca di Milano, avevano nei tumultiantecedenti parteggiato ora coi Torriani ora coi Visconti:Matteo Magno aveva sposata una figliuola di FilippoTorriani, dalla quale era nato il Franciscòlo di cui par-lammo.

Trascorso quel palazzo, la cavalcata tirò innanzi perla via de’ Banderaj, detta poi de’ Pennacchiari, indi perquella che fu poi nominata dei Mercanti d’Oro per lebotteghe dei tessuti d’oro e seta, introdotti appunto do-minando Luchino6. Le vie erano state, fin dal 1272, so-late a mattoni per taglio o acciottolate: poi il signor Azo-ne aveva fatto scavare cloache per tenerle monde, e or-dinato che restassero sgombre da sozzure e impedimen-ti: ma altro è ordinare, altro è essere obbedito. Ove lefitte case lasciassero un poco di largo, il sole versava lalimpida sua luce: ma generalmente basse tettoje ed acu-minate, sporgendo in brutta guisa, se salvavano dallapioggia il pedone e gl’indifesi balconi, impedivano peròil circolare dell’aria e davano sgradevole vista.

Dalle anguste o distorte vie mal argomentereste la mi-seria della città; che quanto anzi fosse ricca e popolosace ne dà indizio una statistica di quei giorni. Contavaessa (per dirne alcun che) tredicimila porte con seimilapozzi, uno più uno meno: quattrocento forni di pane,s’intende di mescolanza, che pel bianco n’aveva unosolo alla Rosa; mille taverne, oltre cencinquanta locan-

6 Oggi Via Torino.

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de: tremila macine da molino, servite da seimila bestieda soma: a duecentomila salivano gli abitanti, di cui unquinto atti alle armi, ducento causidici, altrettanti medi-ci, mille notaj, settanta maestri d’elementi, quindici digrammatica e logica, cinquanta copisti di libri, i Remon-dini ed i Bodoni di allora; oltre ottanta fabbri-ferraj emaniscalchi, quattrocento beccai, trecentottantacinquepescivendoli, trenta fabbricatori di sonagli, cento d’ar-madure, e innumerabili lavoratori, negozianti e ritaglia-tori di panni e di sete, per cui comodità si tenevanoquattro fiere all’anno e mercati quotidiani.

Non accompagnerò in altre minuzie lo statistico, ilquale sa fin dirvi che si consumavano in città ogni annocinquantamila carra di legna, il quadruplo di fieno, sei-milacinquecento staja di sale: ogni settimana si ammaz-zavano da settanta a ottanta bovi ingrassati; e al tempodelle ciliegie ne entravano sessanta carra al giorno; chenella sola città si numeravano seimila novecento qua-rantotto cani; fra la città e la campagna cento astori no-bili e il doppio falconi, oltre sparvieri senza numero.

Io che, per prova, non mi fido alle cifre esibite dallestatistiche odierne, molto meno voglio spacciarvi per difede queste d’allora: bastandomi vi diano in di grossoun’idea del quanto allora si vivesse diverso dal presente.

Ancor più diversi erano gli uomini che popolavano laLombardia e tutta Italia. Prima di ogni altra nazione sierano alzati dall’invilimento, cui gli avevano ridotti leorde settentrionali: il commercio, le navigazioni, le ri-cordanze e i resti degli antichi municipj, la necessità

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della difesa, le lettere, la religione gli avevano ajutati acostituirsi in altrettante repubbliche quante erano le cit-tà.

La lotta degli imperatori tedeschi non fece che conso-lidare la civile e la politica libertà, fra cui si svilupparo-no le forze tutte del corpo, del cuore, dell’intelletto. Sol-dati valorosissimi, i più arditi marinaj, i più lauti nego-zianti, essi ridestarono la pittura, l’architettura, la poe-sia: — visitate l’Italia, e ad ogni città chiedete quando sicinse di mura, quando frenò o guidò quei fiumi, quandofabbricò quei porti, quelle ampie dogane, quei palazzidel Comune, quelle cattedrali, e tutte vi risponderannoche fu nei tre secoli de’ governi popolari, quando nel-l’integrità di sue forze, usciva dal feudalismo, e ricupe-rava il sentimento della propria esistenza. Prosperità ori-ginata dagli sforzi individuali di persone, che ciascunacredevasi qualche cosa da sè; onde l’impulso indipen-dente dei singoli produceva l’avanzamento di tutti. Ca-duti quei governi in mano de’ tirannelli, ben s’ingegna-rono questi di soffocare quel vivo sentimento dell’indi-vidualità, ma il riuscirvi era serbato a tempi di pacataoppressione, in cui il popolo non fosse più valutato senon per la quota che contribuisce all’esattore.

Ma per allora, quelle cento repubblichette erano al-trettanti centri di attività, di cognizioni, d’emulazioneartistica e mercantile; sicchè, per tacere l’incontrastataprimizia del sapere e dello arti belle, Italia da sola erapiù ricca di denaro che tutta la restante Europa: Romeode’ Pepoli bolognese aveva col commercio acquistata

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una rendita di cenventimila fiorini cioè un milione emezzo di franchi: Mastino della Scala dalle città suetraeva settecentomila fiorini, quanti appena ne ricavavadalle sue il più ricco re, quello di Francia; fra i Bardi e iPeruzzi di Firenze prestarono alla Corona d’Inghilterrasedici milioni e mezzo di franchi; e sì che allora il dena-ro era cinque o sei volte più raro d’adesso.

Dovrò io al lettore italiano domandare perdono se,qui sulle prime, svio dal soggetto per rammentare concompiacenza gli antichi vanti della patria nostra? Purtroppo nel seguito del nostro racconto ci accadranno tut-t’altro che piacevoli argomenti di digressione.

I Visconti a Milano, come gli altri signorotti, davanofavore al commercio e all’industria; ma procuravanostornare il popolo dalle armi, conoscendo quale salva-guardia siano dei diritti in mano del popolo; e Luchino,col pretesto di alleviarli d’un peso, aveva dispensati icittadini dalla milizia; sicchè godevano un riposo dagran tempo ignorato, senza accorgersi come ne patisseroi diritti civili, sino ai quali la considerazione del popolodi rado s’innalza, o non mai.

Fra la plebe e il principe stavano i nobili, cioè i pos-sessori delle terre; non genìa baldanzosa e prepotente,come nei paesi ove la feudalità conservava quell’anticorigoglio, che qui le era stato fiaccato dalle repubbliche.Anzi i nobili, da una parte facevansi amare dalla plebeproteggendola, spendendo, sfoggiando: dall’altra nonrecavano ombra al principe, perchè non vantavano an-nosi diritti, nè si stringevano in robusta federazione, nè

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andavano cinti di vassalli ligi ed armati così, da limitareil loro potere.

In tal modo viveano a fronte uno dell’altro il Comu-ne, l’aristocrazia ed il tiranno, il quale, se era scaltro e dipolso, profittando della superiorità che dona un poterecostituito, far poteva liberamente ogni suo volere. In fat-to, nella cavalcata che allora entrava in Milano, la plebeguardava e applaudiva; i nobili o piaggiavano o temeva-no; il principe, dando pane e feste a quella, mutandoquesti da feudatarj in cortigiani, facea suo pro dell’una edegli altri.

Da quelle callaje sbucò il corteggio sulla piazza, ove,mezzo secolo dopo, fu cominciato questo Duomo, e chepoco prima Azone avea fatto sbrattare dalle botteghe edalle baracche ond’era tutta ingombra. Accanto al tem-pio di Santa Maria Maggiore (rifatto ai tempi della LegaLombarda coi giojelli offerti dal patriottismo delle braveMilanesi) aveva egli fabbricato un superbo campanile,su cui campeggiavano le insegne dei Visconti, del papa,dell’impero, di Milano e di ciascuna delle porte, ma sìpoco solido, che non guari dopo crollò, mentre ancorasussiste l’altro assai bello, da lui parimenti eretto a cantoa San Giovanni delle Fonti, battistero dei maschi, cheora chiamiamo San Gottardo, come chiamiamo delleOre la via che lo rasenta, perchè su quella torre appuntovenne collocato il primo orologio di Milano e il secondodi tutta Italia.

Dove sorge il palazzo reale, stava allora quello deidodici Savj della Provvisione, e avanti ad esso tenevasi

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mercato di vestiti ogni settimana. Lo spazio quasi occu-pato ora dal Duomo denominavasi Piazza dell’Arrengo,perchè vi si radunavano i cittadini finchè si governaronoa popolo, per fare e per udire le arringhe intorno ai pub-blici interessi. Colà il sincero amor patrio de’ pochi el’ambizioso egoismo dei più lottarono lungamente, agi-tando tra varie fazioni il paese, finchè, sazj di quel tem-pestare, risolsero commettere il supremo comando aiTorriani, indi ai Visconti. Dei quali primo Ottone arcive-scovo fu eletto signore, indi Matteo Magno, poi il costuifigliuolo Galeazzo, da cui nacque l’Azone che più volteci occorse di nominare in questa rassegna, che pur trop-po sentiamo quanto a ragione i lettori potranno parago-nare al passar delle immagini di una lanterna magicasulla parete, senza profondità e senza lasciare traccia.

Esso Azone, inteso a mascherare la servitù, aveva, ol-tre assai fabbriche cittadine, abbellito a meraviglia il pa-lazzo, in cui, come in sua reggia, ora entrava Luchino.Una torre s’innalzava a molti piani, con camere, sale,corridoj, bagni ed orti: al piede innumerevoli stanze condoppie imposte e portiere e ori, che era una ricchezza avedere; in un camerone, chiuso da una rete di fili di fer-ro, svolazzavano d’ogni razza uccelli; nè vi mancava unserraglio di orsi, babbuini, altre fiere, tra cui uno struzzoe un leone, lusso che parrà stravagante solo a chi nonabbia pratica coi costumi di quel tempo. Ma non convie-ne tacere le pitture onde ogni cosa era adornata: un la-ghetto, in cui quattro leoni versavano acqua continua-mente, e che figurava il porto di Cartagine, colle navi e

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tutto disposto per la guerra punica: in fine la chiesa, ric-ca di arredi pel valore di ventimila fiorini d’oro e di reli-quie miracolose.

Fra questo lusso entrato il corteo principesco, un bel-lissimo giovane, d’occhi vivaci, lunga barba e capellatu-ra cascante e anella sovra le spalle, splendido nel vestirequanto dir si potesse, e con gran piume ondeggianti tut-t’in giro al capo, fu lesto a scavalcare, e dar braccio allasignora Isabella per ismontare dal palafreno. Era Ga-leazzo Visconte, il quale, susurrandole galantemente al-l’orecchio, l’accompagnò su per lo scalone con dietrotutta la comitiva.

E giunti alla gran sala, detta della Vanagloria, tantosplendida che altro non gridano le storie, mentre il buf-fone faceva inchini ad Ettore, ad Ercole, ad Azone, aglialtri eroi in essa effigiati, la folla raccoglievasi in croc-chi e capannelli per legare quella conversazione piena diparole e vuota di pensieri e di sentimenti, che formava eforma l’allettamento delle brigate; chiedevano e davanole notizie del paese, discorrevano della Corte dei Gonza-ga, chi lodandola, chi tassandola: della maestria e de’bei colpi dei nostri giostratori, ai quali, per quanto aves-sero fresca la memoria de la libertà, pure dava superbiaun sorriso, un’approvazione del principe. A lui facevanoparticolarmente omaggio i messi delle varie Corti de’ ti-rannelli di Lombardia; e quello di Mantova singolar-mente esaltava la cortesia e la bravura di Bruzio e diFranciscòlo Pusterla.

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Il lodare quest’ultimo sarà parso una sinistraggine aicortigiani consumati, che sapevano come poco egli an-dasse a sangue a Luchino; ma qual dovette essere la loromeraviglia, allorchè, su questo discorso, Luchino, avvia-tosi verso il Pusterla, più cortese che con loro non soles-se, gli dirizzò la parola, ripetè le lodi dategli or ora dalMantovano, e le molte che già soleva dargli Azone; e in-sinuatosi col genere di encomj che più lusinga, quelliche sono riferiti d’altrui bocca, entrò a ragionare conesso come con persona di cui facesse gran caso. E poi-chè n’ebbe con fina arte palpeggiate le passioni, in tonodi confidenza gli soggiunse: — Franciscòlo, l’amiciziache in condizione privata ci legava, non l’ho dimentica-ta, siatene certo, nè aspettavo che l’occasione di farvenechiaro. Ora Mastino Scaligero, vedendo non potermisopportare nemico, implora l’amicizia nostra. Una prati-ca sì delicata non conoscerei a chi meglio affidarla che avoi, saputo al pari nelle cose della pace e della guerra,ben voluto da quel potente, e capace di sostenere il de-coro milanese in faccia ai forestieri. Innanzi che il mesefinisca, vorrete dunque recarvi ad esso a Verona con no-stre credenziali, che abbiamo ordinato di spacciarvi».

L’animo del Pusterla, esacerbato contro di Luchinonon tanto per la servitù cui aveva ridotto la patria, quan-to per la trascuranza che di lui mostrava, e per trovarsiridotto ad una nullità di rappresentanze e d’azione, che alui pareva, non che indecorosa, infame, in un baleno simutò a questo primo segno di favore, al vedersi oggettodi invidia fra’ cortigiani, cui forse testè era di sprezzo;

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ebbe dimenticato gli antichi oltraggi, dimenticato i pro-positi di solitudine e di ritiro, dimenticato il geloso so-spetto che gli avevano desto i procaci sguardi di Luchi-no sopra la moglie sua; nè tampoco gli nacque dubbioche questo incarico fosse un’astuzia per rimoverlo e di-sonorarlo; e ringraziò il principe, accettando con ricono-scenza. Tanto accieca l’ambizione!

E più lieto e baldanzoso tornò al suo palazzo, dove gliamici si erano raccolti per festeggiarlo. Alla Margherita,che gli correva incontro col figlioletto, appena rese l’ab-braccio, ed esclamando, — Buone nuove», le raccontòla missione. Se ne congratulavano alcuni; ma quell’Al-pinòlo che conosciamo, scosse il capo, esclamando: —Dalla vipera può venir altro che veleno?» La Margheritapoi impallidì e mostrando con un gesto eloquentissimoil loro Venturino, — Oggi appena (diceva al marito) turitorni, e già vuoi abbandonarci? V’è luogo migliorenella propria casa, compagnia più dolce che quella deisuoi domestici, missione più onorevole che quella dibeare chi ci vuol bene?»

Francesco le stringeva la mano amorevolmente, leva-vasi in collo il bambino, e si mostrava intenerito: maquello spontaneo moto di natura rimaneva ben tostocompresso dal desiderio di figurare, dall’abito di cercarela felicità fuori di sè. Anche il frate, allorchè l’amicogliene portò la notizia nel convento di Brera, con ognimodo si adoprò per distoglierlo da quell’andata. La cellasolinga e meditativa dov’esso abitava, pareva accordarsialle ragioni ch’egli addusse onde persuadere Franciscòlo

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a togliersi giù dalle pubbliche brighe quando non potea-no essere che scompagnate dal decoro e dal sentimentodi un nobile dovere. Anzi, dopo che frà Buonvicino videl’amico sordo a tutti gli altri argomenti, quasi per ricor-dargli le osservazioni di jeri, e per tentar quello che a luipareva il più robusto, gli chiese: — E Margherita?»

Pensò un tratto il Pusterla, poi rialzando il capo comeun ostinato che pur voglia mostrare d’aver ragione, ri-spose: — La Margherita è un angelo.»

Il frate lo sentiva, e sentiva in conseguenza quanto di-sdicesse l’abbandonarla: pure non osò insistere su quelpunto per non mettere a repentaglio la domestica tran-quillità di Franciscòlo.

Ma chi era il frate, e perchè tanta parte prendeva allasorte di questa famiglia?

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Francesco le stringeva la mano amorevolmente, ….

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CAPITOLO II.L’AMORE.

Buonvicino dei Landi, famiglia principalissima diPiacenza, da giovinetto era stato posto in Bologna aglistudj, cui con fervore si dirizzava la gioventù della risor-ta Italia, trovando in essi un’altra via per salire colà, ovedapprima si giungeva solo colle armi e colla prodezzadella persona. Tali studj si riduceano, è vero, a pedante-sche regole di grammatica e di retorica, alla filosofia deicommentatori d’Aristotele, e alla cognizione delle De-cretali; ma l’amor delle belle lettere e la ricerca dei clas-sici latini ravvivata poteano, qualora trovassero terrenoda ciò, far negli animi germogliare affetti e sensi gene-rosi. Così accadde di Buonvicino, il quale appunto, suquei primi anni, pascendosi nei detti e nei fatti gloriosidegli antichi, sollevava l’animo sopra le minute gare delsuo tempo. E sebbene ne traesse idee, lontane affattodalla nuova civiltà, di quelle idee che pur troppo noc-quero al felice ordinamento delle repubbliche italiane,però quel nome di patria, perpetuo tema degli scrittoriromani, aveva infervorato la fantasia del garzone, il qua-le non ambiva se non di crescere cogli anni, per potere onelle magistrature servir il suo paese, o difenderlo incampo.

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Infelice! Gli anni vennero, ma con essi la sventura e idesolati disinganni, che così spesso tormentano le animegenerose.

Piacenza sua patria era caduta in podestà di MatteoVisconti, poi di Galeazzo. Questo qua, meno astuto epiù corrotto del padre, credeasi lecito ogni suo talentonelle città dominate; e per tacere altre soperchierie ondeaggravò la servitù dei Piacentini, tentò disonorare Bian-china, moglie di Opizino Lando detto Versuzio, fratellodel nostro Buonvicino. Mal per lui: giacchè nella donnatrovò virtù, trovò vendetta nel marito: il quale, fattaun’intelligenza con alcuni fidati, abolì nella sua città ildominio dei Visconti, e la consegnò al cardinal Pogget-to, legato del papa.

Buonvicino, su quell’età in cui si vagheggiano i senti-menti più che non si calcolino le circostanze, pieno delleidee del patriottismo antico, modificato dalle nuove chefaceano guardare come straniero l’abitatore d’ogni altracittà, e servitù l’essere signoreggiati dal vicino, appenaebbe fumo di quella pratica, accorse con buon numerodi suoi condiscepoli, ed arrivò a Piacenza in tempo,come di giovar col valore, così di mostrare generosità.Perocchè, il giorno che scoppiò la rivolta, trovavasi inquella città Beatrice moglie del signor Galeazzo, col fi-glioletto Azone, alla salvezza del quale unicamente inte-sa, la madre lo fece trafugare, rimanendo essa in palazzoper non dar sentore della fuga, ed affrontando lo sdegnoe la brutalità d’un popolo sollevato, purchè ne andassesalvo il bambino. Come la cosa fu nota a Buonvicino, ri-

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spettando e venerando gli affetti di una madre, non cheimpedire le fosse fatta violenza di sorta, egli medesimola scortò sino ai limiti del distretto piacentino, quiviconsegnandola sicura alle guardie del marito.

Accadea questo fatto nel 1322, e da quell’ora si ri-metteva in Piacenza il governo a popolo, giacchè il do-minio papale potevasi riguardare come una libertà, sìperchè i pontefici, sedendo allora in Avignone, non eser-citavano da così lontano che una autorità di protezione,sì perchè erano stati fautori del franco stato, se non altroper isvigorire i Ghibellini, tendenti a scemare le franchi-gie lombarde a pro dell’Impero.

Negli otto anni successivi, Buonvicino maturò fra legenerose cure d’una libera patria, coll’altezza di senti-menti che ispira il togliersi alla vita privata per vivere lapubblica, il curare meno le domestiche cose che le co-muni; educazione che tanto contribuì a migliorare l’Ita-lia durante le sue repubbliche.

Andava in quel mezzo ognora più in basso la fortunadei Visconti, guerreggiati da Lodovico il Bavaro impe-ratore, il quale era sostenuto dai molti nemici che si era-no procacciati, e da Versuzio Lando che non mai desi-stette dal combattere contro di essi; tanto che Galeazzo,Luchino, Giovanni e Azone finirono coll’essere chiusinelle orribili prigioni di Monza, dette i Forni, ove sten-tarono dal 5 luglio del 1327 fino al 25 marzo del se-guente.

Ma quando Galeazzo morì, e con lui cessò il mal ani-mo eccitato nei popoli e nei principi, piegarono a meglio

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le cose dei Visconti: Azone, miglior del padre, gridatosignore di Milano il 14 marzo 1330, pensò a ricuperarele città che aveva perdute, come di fatto riuscì con Ber-gamo, Vercelli, Vigevano, Pavia, Cremona, Brescia,Lodi, Crema, Como, Borgo San Donnino, Treviglio ePizzighettone. Anche sovra Piacenza fissava cupidi gliocchi, ma il conseguirla non era così agevole impresa;poichè, tenendo essa la sua libertà a nome del papa, nonavrebbe potuto il Visconti insidiarla senza venire in rottacon questo. Cominciò dunque la sorda guerra de’ politicitranelli, fece un capo grosso per non so che violazioni erappresaglie dei Piacentini contra i sudditi suoi: minac-ciò, fu duopo mandare dei messi e degli ostaggi a Mila-no, fra i quali Buonvicino. Morto era il fratello Versu-zio; morti i più vicini parenti; morti i più cari amici nel-le guerre passate; aveva potuto vedere come all’atto gliaffari riescano diversissimi da ciò che l’immaginazionefigurava; vie più gli si disabbellirono le splendide fanta-sie di gioventù allorquando, venuto alla Corte milanese,conobbe con quanti viluppi e lacciuoli e coperte vie esecondi fini vi si guidassero i pubblici interessi; scaltri-menti che un’anima schietta neppure indovina, ma che iprudenti del mondo dicevano e dicono necessarj per reg-gere e prosperare gli Stati. Sulle prime egli si indispettì,s’infuriò anche; ma col lungo vederne, contrasse quellasentita melanconia che nasce dalla chiara cognizione diun fine, unita coll’impossibilità di raggiungerlo.

Del resto, in questa sua qualità media fra di ostaggioe di ambasciatore, ed anche per memoria del segnalato

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servigio reso alla signora Beatrice, Buonvicino era statoaccolto e trattato con ogni onoranza; e sì egli, sì i com-pagni suoi, allogati presso le prime famiglie di Milano,colla speranza che l’ospitalità legasse le amicizie, e que-ste col tempo surrogassero ai rancori municipali quellache chiamavano universale benevolenza, e volea diretolleranza del giogo comune. Buonvicino era stato ap-poggiato alla famiglia di Uberto Visconti, il quale abita-va tra la via di San Clemente e una fornace di vetri postain quella delle Tanaglie, dove poi venne allargata lapiazza Fontana, e dove l’osteria del Biscione rammentaancora gli antichi possessori.

Uberto Visconti, padre della Margherita da cui s’inti-tola il nostro racconto, sebbene, come fratello di MatteoMagno, fosse molto riguardato nella città, non parteci-pava però al comando, o che l’integro animo rifuggissedal mescolarsi nei sozzi avvolgimenti della politicaonde i suoi tendevano a conservare o crescere la signo-ria; ovvero che questi ad arte tenessero lontano unuomo, il quale si poco conoscevasi del mondo, cheavrebbe preteso di gettare la parola di giustizia, fino atraverso ai passi dell’ambizione. Aggiungi che i Viscon-ti, siccome ghibellini, cioè fautori dei diritti imperiali,erano sinistramente veduti dai papi, che coi Guelfi so-stenevano i diritti della Chiesa e del popolo; e poichè lepassioni politiche facilmente si avviluppavano cogli af-fari religiosi, accadeva non di rado che i Ghibellini pro-fessassero errori in fatto di fede, e i pontefici colpisserodi pene spirituali i loro temporali nemici; e il popolo ri-

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guardasse come eretici anche coloro che contrariavanole mire terrene dei papi.

Quindi non poche anime timorate si faceano coscien-za di seguitare la bandiera del Biscione: ed Uberto nonfavoriva i parenti suoi che repugnante, e quel tanto soloche pareva esigere il suo decoro e la fede di cavaliero.Però in una mischia avvenuta in Milano quando, nel1302 i Torriani fecero un estremo sforzo per rientrarvi,Uberto era stato abbattuto da sella, e lì tra la folla e sottoai piedi dei cavalli, si era per alcuni minuti vista la mor-te ad un pelo. Onde avea promesso alla Madonna dismettere le armi, impugnate per causa non giusta; edavea creduto effetto di quel voto la generosità, collaquale un capo de’ nemici, Guido della Torre, gli avevadato mano a sorgere, tornar a cavallo e camparsi,dicen-dogli: — Non sia mai vero ch’io di cittadini pari tuoiprivi la patria mia, che fortunata se molti ne contasse».

Allora Uberto si tolse dal parteggiare pei Visconti,tanto che questi disgustati lo confinarono ad Asti, poi ri-chiamato, gli conferirono di quegli onori che possonocontentare l’amor proprio senza crescere l’ingerenza;come l’andare podestà in questo o quel Comune, ac-compagnare a Roma l’imperatore, sostenere ambasceriedi complimento.

I Visconti invece vennero in aperta rottura col papa;talmente che il cardinal legato, spiegato il vessillo dellesante chiavi sopra il solajo del suo palazzo in Asti, pre-dicò che qualunque uomo o donna lo seguitasse per di-struggere Matteo e i suoi, rimarrebbe assolto (dicono le

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rozze cronache) dalla pena d’ogni trascorso; scomunicòil Visconti fino alla quarta generazione, perchè eretico ereo di venticinque misfatti, fra i quali d’aver esercitatagiurisdizione sui beni e le persone ecclesiastiche, impe-dito ai suoi di armarsi per le crociate, repressa la santainquisizione, e procurato di campare dal fuoco l’ereticaMainfreda.

Il trovarsi involto in questa scomunica tanto più spia-ceva a Uberto quanto più egli venerava l’autorità papa-le, e non tralasciò fatica per calmare gli animi, per ri-conciliare i Milanesi alla Chiesa: anzi pare doversi allesue persuasioni se Matteo si diede a vita devota e a visi-tare chiese, finchè in Duomo, convocato il clero ed ilpopolo, recitò tutto il credo, protestando quella essere lapropria sua fede. Il papa non giudicò sincero quel penti-mento e quell’abjura, onde non ritirò l’anatema; Matteomorì con questo; e Uberto, più non volendo intendere dipubbliche cure, visse da privato, sebbene splendidamen-te, ora in Milano, ora sulle ridenti spiaggie del LagoMaggiore, dove ampj possedimenti teneva a Invorio in-feriore, a Oleggio e altrove nel Vergante, là sulla spondaoccidentale intorno a Lesa. Quivi confortavasi tutto nel-le cure casalinghe, e poichè i suoi tre figli Vittore, Otto-rino e Giovanni, di spiriti guerreschi, poco tempo rima-nevano con lui, spendeva tutta l’attenzione sua a educa-re l’unica figliuola Margherita, con modi ben diversi daquelli che sogliono quei molti, cui supremo intento sem-bra formar savie fanciulle e donne cattive.

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Disingannato del mondo in vecchia età, ben accorda-vasi con chi nella fresca se ne trovava disgustato,com’era Buonvicino. Si legò dunque un’intima amiciziatra il vecchio e questo giovane, il quale, non avendo piùpadre, come tale riguardava Uberto, come fratelli i figlidi esso, e come sorella la Margherita. I discorsi dell’uo-mo pratico anticipavano a Buonvicino l’esperienza delmondo: sui pochi libri che allora correvano, egli eserci-tava gli involontarj riposi: scriveva anche qualche verso,come rozzamente allora e qui si poteva; per città brilla-va nelle gualdane e negli esercizj di corpo: mai nonmancava di intervenire, come a scuola di filosofia socia-le, ai pubblici dibattimenti; nelle brigate piaceva singo-larmente per un far gentile, non iscompagnato mai damaschia franchezza: anche quelli che sedevano al go-verno lo riverivano, perchè sapeva accoppiare la sogge-zione, che la forza e la vittoria pretendono, colla dignitàdella sventura non meritata.

Un sì gentile e peregrino cavaliero non vi farà mera-viglia se ottenne ricambio d’amore dalla Margherita.Poteva egli contare i trent’anni, mentre essa arrivava aiquindici appena, onde le gentilezze che Buonvicino usa-va all’ospite sua, nel cuore di lei, mal conscio di sè stes-so e inesperto dell’amore, destavano un senso di pudicacompiacenza. Ma questa inclinazione, come suole, restògran tempo un segreto per tutti, e sino pei due amanti.Giammai non le aveva egli detto, Vi amo; parola chesuol venire dopo che già l’eloquente linguaggio dell’af-fetto in cento altri modi l’espresse. Ella poi nè tampoco

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sapeva di amarlo, almeno non lo confessava, anzi nolchiedeva pure a sè stessa. Se non che al comparire di luiil cuore le batteva forte forte: quand’egli partiva rima-nea sconsolata, come le mancasse alcuna cosa di neces-sario, di suo; egli non le aveva indicato che tornerebbe,nè quando, eppure essa lo attendeva: se tardasse eracome sulle spine; al rivederlo provava una compiacenzainteriore, una pienezza di vita, come (almeno pareva alei), come al veder suo padre, le sue amiche, un’alba dimaggio, una vigna in settembre. Avrebbe voluto piacer-gli, parergli bella; parergli buona e brava: quasi senzaavvedersene, allorchè lo aspettava, adornavasi con piùattenta cura: una parola ch’egli le dirigesse sentivasiravvivare; ambiva ch’egli voltasse gli occhi sopra di lei,ma non appena la fissasse, ella abbassava i suoi arros-sendo; nel rispondere alle domande, alle cortesie di lui,balbettava, si confondeva; sbagliava le note quandod’accordo toccavano il liuto; poi si pentiva, si vergogna-va, si rimproverava, accusava sè stessa come di una fan-ciullaggine; proponevasi di fare altrimenti, e tornava afar lo stesso. Le ajuole del suo giardino avevano un fio-re preferito, un preferito albero il boschetto: il fiore del-la margaritina, ch’egli aveva mostrato prediligere; lapianta sotto cui, un giorno che ne piangeva la lontanan-za, egli le era comparso davanti improvviso.

Così, desiderarlo, rivederlo, fantasticare, staccarsene,desiderarlo di nuovo, formavano la storia della sua vita;vita povera di casi, ricca di sentimenti, e tutta dominatada quel non so che di misterioso, che tanta dolcezza

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sparge e tante pene sul primo amore, che ci fa sudare erabbrividire, gemere e cantare, piangere e ridere senzaaver di che: temere e sperare nè sapere qual cosa: centovolte in un giorno chiamarci beati, e cento crederci lepiù misere creature; — quel bene, quel male, che non siconosce al vero se non quando o crebbe fino al colmodella contentezza, o restò fulminato dalla sventura.

Non così incerti ondeggiavano gli affetti in Buonvici-no, il quale, sebbene fresco ancora di cuore e virtuoso,avea però sperimentato del mondo la sua parte, ed esa-minato abbastanza questa vita, che è una commedia perchi osserva, una tragedia per chi sente.

Nessuna seduzione più facile di quella che non siteme: nessun tempo in cui l’anima sia dischiusa tanto al-l’affetto, come nei travagli. Era il caso di Buonvicino,sentì d’innamorarsi della Margherita, e non se ne guar-dò: conobbe di non essere a lei discaro, e se ne compiac-que: lieto d’aver sì bene collocato il cuor suo, pago diuna dolce corrispondenza. Sovente, dopo le tempestedella pubblica vita, dopo avere, coll’occhio melanconicoe penetrante di chi studiò gli uomini, ed alla prima scor-ge ove tendano le loro azioni, visto l’affaccendarsi delleegoistiche passioni, egli tornava a riconciliarsi coll’u-manità nella contemplazione di un’anima schietta, in cuifar il bene era istinto, non calcolo: cercava tranquillitànel costante sereno che dominava intorno ad essa; somi-gliante alla pace che gli angeli diffondono sovra le ani-me, di cui sono destinati ad alleggerire i patimenti.

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La ajuole del suo giardino, avevano un fiore preferito ….

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Ma questa placida innocenza di lei lo ratteneva dalpalesarle l’affetto suo, al tempo stesso che glielo rende-va più vivace. Possedere quell’ingenua fanciulla che, trale cure dell’ottimo dei padri, veniva educandosi alla vir-tù ed al sapere, ben avvisava egli come sarebbe la felici-tà de’ suoi giorni; ma potrebbe egli render lei altrettantofortunata? Pendevano in bilancia i destini della casa edella patria di lui: poteva succedere che, in libera terra,avesse egli a vivere primo cittadino, colla potenza di unnome onorato e di un carattere più onorato ancora, gui-dando i compatriotti suoi al bene e alla decorosa quiete.Ma questo avvenire lusinghiero stava all’arbitrio diprincipi, in cui raro era il disinteresse. E se gli fosseromancati di parola? se fossero prevalse le brighe, l’ambi-zione? Egli poteva trovarsi, non che ridotto all’oscurità,ma balzato lontano, o precipitato fra quei pericoli av-venturosi, ove, simile a chi naufraga in alto mare, un’a-nima leale desidera trovarsi sola, per sentirsi maggiorecoraggio di lottare con fermezza, e minore cordoglioqualora il dovere o la generosità le impongono di soc-combere. In tal caso quand’egli avesse alimentata la na-scente fiamma della Margherita rivelandole la sua, eccoformata un’altra vittima: ecco procurato a sè il rimorsod’avere turbato in quella giovane anima la calma, il risodi quella primavera dell’età, che scorre, ahi troppo velo-ce e irreparabile! per dar luogo alle cure, alle faccende,alle amarezze, al disinganno, all’inutile repetìo per tuttoil resto della vita.

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Ciò lo indusse a tacere sempre l’amor suo, a dissimu-larlo almeno nelle parole, per quanto gliene costasse alcuore. Ma l’amore come si può nascondere? Contro alproposito, egli si lasciava trascorrere talora a qualcheimmeditata parola, ad una delicata prevenzione, ad unodi quei niente che rivelano alle fanciulle l’uomo, il cuisospiro può dischiuderne l’innocenza al pieno fiore del-la vita.

I temuti e previsti rivolgimenti a danno di Piacenzanon tardarono. Azone, per quanto gli facesse gola l’ac-quisto di quella città, per quanto credesse una ragionedel riaverla l’essere stata altre volte posseduta da suopadre, non s’arrischiava però di assalirla direttamenteper non venir in guerra col pontefice, sotto la cui prote-zione erasi que la riparata Cortesie e promesse largheg-giava dunque a Buonvicino: ma intanto adoperava,come si dice, a trar dalla buca il granchio colla zampaaltrui. Francesco Scotto ambiva di possedere Piacenza,già dominata dalla sua famiglia, ed opprimendo gliemuli Landesi e cacciandone i Papalini, assodarvi la suapadronanza. Se l’intese a tal uopo coi Fontana, coi Ful-gosi, con altre famiglie di colà, che occupati i castelli,proclamarono signore lo Scotto, cassata ogni suprema-zia papale, sbandeggiati per sempre e spossessati d’ogniaver loro i fautori dei Landi e nominatamente Buonvici-no.

Si consolava questi nella sciagura tenendo per certoche Azone, secondo quel che prometteva e mostrava,dovesse prendere le armi contro al nuovo tiranno e ri-

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metter libera Piacenza al papa ed a’ suoi cittadini. MaAzone giocava di due mani: sott’acqua aveva egli stessodato ajuto allo Scotto nell’impadronirsi della patria nongià per amore a questo, ma per poternelo poi spogliaresenza correre in guaj colla Corte pontificia. Di fattoarmò: tutti i fuorusciti presero parte alla spedizione;Buonvicino fu dei primi e meglio valenti; e col coraggiosolito in chi muove a ricuperare la patria, ebbero prestolevata Piacenza allo Scotto. Ma quando aspettavasi cheil Visconti ne gridasse la libertà, egli ordinò che le dueopposte fazioni deponessero le armi; indi, come buonconquisto, aggiunse Piacenza alle sue possessioni.

Quanto se ne trovassero scornati i Piacentini, e Buon-vicino sopra gli altri, voglio lasciarlo pensare a voi.Quest’ultimo, tenuto povero e guardato attentamente aMilano, si trovò dunque perduta la patria, offuscato illustro della famiglia, falliti i sogni della giovinezza, nèpiù rimanergli se non l’eredità, che unica sopravanzavaa troppi signori in Italia, un braccio valoroso. Ma poichèegli non era disposto a venderlo al migliore offerente,doveva ricoverarsi nella propria virtù, cercare la com-piacenza da cui, anche tra le miserie è accompagnato econsolato chi soccombe per la causa della giustizia.

Persuaso allora alla condizione sua presente più nonconvenisse l’accoppiarsi ad una fanciulla di casa tantoprincipale, e che, appunto perchè la conosceva e l’ama-va, pareagli degna del più sublime stato; fors’anche pernon sembrare disertore de’ suoi fratelli di sventura quan-do si fosse imparentato alla famiglia del tiranno, comin-

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ciò a dilungarsi dal vedere la Margherita, poi se ne di-stolse interamente; e chiuso dentro a sè l’affetto che leportava, giunse a persuadersi d’averla in tutto cancellatadal suo cuore.

Aveva egli conosciuto alla Corte di Azone il cavaliereFranciscòlo Pusterla, che, allora in grande stato presso ilprincipe, nè del favore abusava a danno altrui, nè se neprevaleva a proprio vantaggio; onesto, generoso, ricor-devole delle virtù italiane, e volonteroso del bene de’suoi concittadini. Vero è che, per una certa debolezza dinaturale che altri scambia per forza, per una irrequietasmania di fare, di comparire, di sentire la vita, non sitrovava saldo quanto bastasse per resistere al fascino de-gli onori od all’autorità del potere; anche quando cono-sceva riprovevoli i passi del principe non osava dirlo,tanto meno poi mostrarne dispetto od opposizione: trop-po compiacendosi di poter primeggiare in Corte e nellacittà, — senza accorgersi che uno può figurare vie piùcoll’apparir meno colà dove la turba si accalca.

Parve a Buonvicino che Franciscòlo dovesse essere ilcaso per rendere felice la Margherita. Già le due fami-glie erano legate d’amicizia: i difetti della gioventù collagioventù se n’andrebbero, e il Pusterla troverebbe in leiquanto bastasse ad appagarne i sensi, la ragione, l’im-maginazione; la Visconti, collocata in alto luogo e di leidegno, avrebbe potuto, fortunata in casa, rendersi difuori modello alle dame lombarde. Quindi colla dimesti-chezza onde usava con entrambe le famiglie, Buonvici-no agevolò una parentela, la quale sommamente gradiva

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ad Uberto Visconti, lieto di vedere con sì nobile sogget-to accasata la diletta sua figliuola, ed al Pusterla ancorpiù, sì per trovarsi possessore di una, che sull’altre otte-neva il pregio della bellezza e dei modi colti e gentili, sìper legarsi in affinità colla casa dominante.

La Margherita, come prima si accorse del raffredda-mento di Buonvicino, come lo vide diradar le occasionidi trovarsi da sè a lei, più sempre allontanarsi dalle cureche solevano aver comuni, dal toccare di concerto il liu-to, dal leggere insieme la Divina Commedia di Dante ealcuni libri francesi e provenzali, non occorre ch’io vidica se ne rimase melanconica. Esaminava a minutoogni atto, quasi ogni pensier suo, se mai potesse averloin qualche maniera disgustato, e non trovandosi in colpasi accorava, piangeva. Allora confessava a sè stessa diamarlo; allora chiamava crudele lui, che più non la ri-cambiasse di altrettanto affetto.

Poi riflettendo, tacciava sè stessa d’inconsiderata evana, che si fosse lusingata d’essergli cara, quantunqueegli mai non glielo avesse detto, quantunque forse mainon vi avesse egli fissato il pensiero. E qui si ingegnavadi convincere sè stessa che quelle cortesie erano forse inlui naturali, erano forse consuetudini di tutti i cavalieriverso tutte le giovinette: ma il cuore voleva la sua ragio-ne, e la faceva rincorrere quei mille ineffabili nulla chesono tutto per gli amanti: le ravvivava tutta la poesia deiprimi turbamenti; tante esaltazioni in fondo al cuore nonrivelate dal viso; tanti timori di non essere compresa,tanta gioja di esserlo stata; nei quali ricordi, mentre si

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veniva a convincere d’essere stata cara a Buonvicino,vie più l’anima sua si avvolgeva tra il labirinto di queivarj affetti che esacerbano un voto fallito, una speranzadelusa. Talvolta lagnavasi con sè stessa di non avergliabbastanza mostrato il cuor suo: tal altra condannavasid’averlo mostrato troppo: indi ritrovando penoso il pas-sato e il presente, cercava stordirsi, e non vedere in que-ste memorie se non tante illusioni, di cui sforzavasi sor-ridere ella stessa compassionevolmente. E si vantava li-bera, guarita, smemorata; tornava ai libri, al suono, aipasseggi; ma che? quei suoni le recavano a mente unavoce che li soleva accompagnare; in quei libri occorre-vano cento allusioni ai casi suoi passati e presenti, centocose ch’egli le aveva spiegato altre volte, e che ora desi-deravano una spiegazione; come riuscivano triste, mo-notone quelle passeggiate ora che più non ve l’accompa-gnava la speranza d’incontrare qualcuno!

Pure il tempo è gran rimedio anche alle grandi passio-ni: e la Margherita si dovette alfin persuadere di essersiveramente illusa quando vide Buonvicino intramettersidelle sue nozze col Pusterla. Trattandosi di un amoreche non aveva ricevuto fomento sia da lusinghe di lui,sia da fondate speranze, ella non penò molto per rasse-gnarsi a deporlo. Del Pusterla udiva parlare da tutti collelodi che al merito si profondono più facilmente quandosia dovizioso: le prodezze da lui compite nell’ultimaspedizione di Piacenza, che ne avevano esaltato il nomeper tutta Lombardia, non sarebbero no bastate a suscita-re nella Margherita un nuovo amore, ma qual è la donna

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che, all’udire lodato un uomo, non si compiaccia di po-ter dire: È mio?

Richiesta dunque dal padre se sarebbe contenta diavere a marito il Pusterla, non negò: poi quando prese aconoscerlo da vicino, trovandolo ricco delle qualità chemeglio stanno in un uomo gentile e in compito cavalie-ro, pose in lui ogni ben suo, benedisse il cielo d’averlatanto fortunata, e dacchè ebbe la persuasione di amarlo,di esserne amata eternamente, gli promise all’altare ilpiù vivo, il più tenero, il più immacolato affetto.

Le memorie del tempo non pajono d’accordo che nellodare la nuova sposa: essa bella, essa spiritosa, di affa-bile amorevolezza coi subalterni, d’inesausta carità coibisognosi, eguale d’umore conversevole, costante inquella dolcezza di naturale, che nelle donne equivale aquasi tutte le altre doti, e che è il più opportuno avvia-mento ad essere e a rendere felici gli altri. Difetti neavrà certo avuti; e chi no? ma gli storici non ce ne ricor-dano, forse perchè, così giovane fu così sfortunata: el’uomo è tanto proclive a dimenticare i falli di chi meri-ta la sua compassione, quanto a trovarne in chi gli destainvidia. Per altre vie però noi sappiamo che le sue parila tacciavano di voler parere bella e buona e virtuosa: al-cuni, per cui la massima delle virtù consiste nel non farmale, davanle colpa del volersi frammettere nelle fac-cende altrui: beneficava, quindi fece degli ingrati, e que-sti palliarono l’ingratitudine col menarle dietro la lin-gua: so di chi la chiamava bacchettona: so di chi asseri-va le opere sue non movessero sempre da buone e sem-

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plici intenzioni: so di molti più che la accusavano di nonconoscere il viver del mondo perchè sostituiva il senti-mento

e la schietta sincerità alle compassate cortesie che ilmondo insegna e pretende. In somma, ella aveva quantequalità bastassero per dar presa alla maldicenza, e perfar beato chi la conosceva e l’avvicinava, tanto più chila possedeva.

Le strane idee che correvano allora sull’amore mari-tale, faceano che una donna potesse, anzi (se bella e digarbo) dovesse avere uno o più cavalieri, che a lei dedi-cassero le imprese loro, o davvero in guerra, o da giuocone’ tornei. Anche in ciò la Margherita scostavasi dallecontemporanee, perchè non credeva che della moralitàsi abbia a far un affare di moda.

Se il pensiero di Buonvicino mai non le ritornassealla mente, se non ricorresse ella mai sulle prime fanta-sie di sua giovinezza, non ve lo saprei dire: ben so comeun primo amore difficilmente si cancelli o non mai; soancora che neppure la più rigida virtù può condannareun’incolpevole rimembranza.

Ben altrimenti corse la cosa per Buonvicino.A torto aveva creduto spenta la sua passione: era sol-

tanto sopita; e quando scorse la sua diletta rendere piùl’un dì che l’altro felice il Pusterla, sentì ravvivarsi lafiamma antica. Per la comune amicizia frequentando lacasa di questo, potè notare sviluppate nella nuova sposale qualità, che aveva indovinate in genere nella fanciul-la; nella serena e temperata giocondità che essa prepara-

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va al marito, vide maturi i frutti della apprestatale edu-cazione. I sonni di incolpati gaudj e tranquilli, che tantevolte lo avevano lusingato in quei giorni di floride im-maginazioni, quando gli sorrideva la lusinga che di tan-to bene potesse una volta divenir possessore, ora li scor-geva ridotti a realtà; ma per vantaggio di un altro. Equest’altro era un amico suo, alla cui contentezza avevaegli dato opera efficace: un amico che, qualvolta si tro-vavano insieme, sfogava con esso la piena di un cuorein giubilo, ragionandogli della sua fortuna, o coll’ardoredi un nuovo sposo dipingendogli le doti, che, ogni gior-no maggiori, veniva scoprendo nella sua Margherita; elo benedicea di averlo consigliato a fissare in essa i suoivoti.

Così da una parte alimentata dalla convinzione deimeriti di essa, dall’altra rinchiusa a più potere sicchènulla ne trapelasse, la fiamma sua cresceva più sempre.Ben chiamava egli a soccorso la ragione: — la ragione!ottimo rimedio contro il passato e l’avvenire; ma quan-do il presente incalza, che vale essa mai?

Il Pusterla frattanto, voltosi tutto ad ingrazianirsi laCorte, si era allentato nell’amore verso la sposa. Dissimale: non avea diminuito l’amore: ma, un poco alla mo-derna, vi combinava tutte le piccole ambizioni sociali:lo soffocava sotto un tumulto di altri pensieri, e per se-gnalarsi nelle cariche, nelle armi, nelle pompe, pospone-va le dolcezze incomparabili della vita casalinga. Di gu-star questa era egli poco capace, inclinato, come dissi, anon trovare felicità che nella tempesta del cuore e delle

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azioni: difetto che, dopo sbollito il primo amore verso laMargherita, lo recò persino a cercare altre gioje turbo-lente in amori contrastati, o nelle rinnovate vicende dieffimere passioni. Eppure, lo ripeto, di nulla scemava lastima e cordialità sua verso la moglie, fenomeno che miarresterei a spiegare se fosse più raro.

Mesi interi egli si teneva lontano dalla città; anchequando vi stava, occupato tutto alla Corte e nei crocchibrillanti, ben poche ore gli avanzavano di rimanere afianco della sposa. Allorchè a questa toccò il dolore diveder morto il suo dolcissimo padre, il Pusterla viaggia-va col principe fuor di paese, nè accorse a consolarla,pago d’inviarle per iscritto quelle condoglianze, che sìpoco ristorano quando non escono dal labbro stesso del-la persona diletta.

Al contrario Buonvicino, in quella sventura si mostròvero amico alla Margherita, o fra sè disapprovando latrascuranza in che pareva lasciarla lo sposo, raddoppiòcon essa di affettuose attenzioni, piene di un nobile e di-sinteressato sentimento di pietà.

Ma dalla pietà all’amore è pur breve il tragitto! No:nessuna lusinga può tanto sedurre, quanto la lagrimasull’occhio della bellezza, quanto il piacere di poterlatergere e consolare. La graziosa e muta riconoscenzaonde Margherita accettava le sue cure, gli abbandoniche sono così naturali negli istanti del dolore, toccavanovivamente Buonvicino, che sentivasi beato di aver ac-quistato i minuti diritti dell’affezione; e la conformità disentimenti, di opinioni, di simpatie, i lanci di magnani-

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mità, di commiserazione, più ribadivano in lei l’amici-zia, in esso la passione. Perocchè vera passione ormai lolegava alla donna, e più s’infervorò quando la vide ma-dre, madre del più caro bambino, in cui scorgeva incar-nate tutte le contentezze dipintegli in altri giorni dallasua fantasia; quando la vide adempiere i nuovi doveridella maternità con un affetto allegro, coraggioso, sce-vro di orgoglio e di ostentazione.

La Margherita, in tutti i modi di esso non ravvisava,non voleva ravvisare se non una continuazione dellabontà con cui già da fanciulla egli la riguardava; alta-mente poi sentivasi persuasa della virtù del cavaliero, nèquindi manteneva il riserbo contegnoso e severo, a cuicertamente sarebbe rifuggita, se punto si fosse accortach’egli tendesse a inspirarle un sentimento, che più nonpoteva essere se non colpevole. Ma gli occhi di unamante sono pur facili ad illudersi. Le piccole cortesie,le delicatezze d’animo gentile, le ingenue confidenze epassionate della Margherita, parvero lasciar a Buonvici-no trapelare nell’avvenire della sua passione qualchesperanze, speranze la cui natura egli stesso ignorava,non voleva esaminare; o che, se pure le investigava, nongli pareano che innocenti. Tradire l’amico, contaminareuna donna, ch’egli ammirava ancor più di quel che l’a-masse, che anzi amava appunto perchè l’ammirava, nonera pensiero che gli sorgesse tampoco; nulla meglio am-biva che poterle dire come egli ardesse per lei, narrarlequanto amò, quanto patì; mostrarle come non l’avesseingannata allorchè giovinetta gliene faceva un mistero,

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facile a penetrarsi, e perchè e con quanti spasimi avesseda lei divelto il cuor suo, o almeno tentato; il sommo de’suoi desiderii era poter conoscere ch’essa ne pigliava ingrado l’amore, che non le dispiaceva il sapersi da luiadorata, che era contenta dedicasse a lei le cortesie citta-dine, e le imprese cavalleresche, in cui più sempre eglisi sarebbe segnalato.

Così a lui pareva, e così era fors’anche: sebbene que-sta sia la larva, sotto cui comunemente la passione sitravisa per iscusare il primo passo, — quel primo passo,che poi ad un altro e ad un altro ne porta, di un modoche sembra inevitabile necessità.

Vero è che Buonvicino, nei momenti in cui la ragioneprevaleva, accorgendosi di queste illusioni, aveva speri-mentato varie guise per distogliere l’animo dal riprove-vole sentimento. Viaggiò alcun tempo, ma presto ritor-nò, persuaso che la lontananza fa come il vento, spegnele fiammelle, avviva gli incendj. Cercò distrazioni nelmondo, nei divertimenti; ma come gli parea muta, sco-lorata ogni allegria, non divisa con lei! come, al con-fronto della vanità, dell’egoismo, della sozzura sociale,più soave e cara gli tornava l’immagine della Margheri-ta! Pregò anche, ma ella ponevasi inevitabile fra lui eDio, come la più bella creatura di questo. Tutto insom-ma tentò, eccetto quello che pur sentiva unico rimedio:la fuga assoluta.

Tra la forza dunque dell’amore e la persuasione del-l’innocenza di esso, Buonvicino deliberò scoprirsi allabella. Ma con parole, ma di presenza, invano l’avrebbe

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tentato. Egli, che sempre aveva taciuto con lei allor-quando tale affetto era incolpabile, allorquando presu-meva che verrebbe aggradito, come indursi ad aprirglie-lo ora, quando aveva ragione di tremare sul modo ondeverrebbe accolto? Ricorse pertanto a quei mezzani parti-ti, che sono il ripiego di chi non osa afferrarne uno, estabilì rivelarglielo per lettera. La meditò lungo tempo,la scrisse, la cancellò, tornò a scriverla, a cancellarla an-cora: s’accingeva, poi a mezzo pentito, gettava la can-nuccia; ricominciava, ripentivasi; nessuna frase era ab-bastanza calzante: — mai verun brano di pergamenanon fu siffattamente tormentato.

Alla fine gli venne compita: e tra che l’amiciziaond’era avvinto alla famiglia, rimoveva ogni sospetto:tra che il Pusterla, tutto degli affari e degli spassi, con-sumava fuori il più della giornata, egli potè senza timoreaffidare ad un valletto lo scritto da recare a Margherita.

Ma, dal momento che questo pose il piede fuor dellacasa, quale tempesta nel cuore di Buonvicino! quanteimmagini! quante timori! quante speranze! Come avreb-be voluto non aver fatto quel passo! come avrebbe volu-to averlo fatto altrimenti! Come ogni parola, ogni frase,ogni concetto della scheda fatale gli ritornava innanziquasi un delitto, e col pentimento e l’emenda! — Pure,chi sa? — sentiva ragionarsi nella mente. — Forse ilvalletto se ne dimenticherà; forse non l’avrà trovata incasa; forse, occupata con altri, e non glielo consegnò.Me lo riporterà questo viglietto: — voglio lacerarlo,bruciarlo, e.... No, mai più, mai più. — Fuggirò... andrò

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lontano lontano, ove più non possa intendere il nomesuo: me la strapperò dal cuore; almeno ne offuscheròl’immagine con altri amori, con altre cure, con altristenti, con altri piaceri... Ma tutto questo perchè?... nonè ella meritevole d’ogni bene? non è la più avvenente, lapiù nobile, la più gentile fra le donne? — un angelo? Ese io mi sono sollevato fino ad amarla, non è dritto cheio soffra per così degno oggetto? v’è fatica che compen-si un premio qual sarebbe la benevolenza di lei? — E seio l’ottenessi? se non le fossi discaro? se me lo dicesse?— No, no; impossibile, impossibile! Sciagurato che fuia tentarla, a turbarne la pace! Torni, torni il messo. —Potessi richiamarlo! potesse riferirmi che non gliel’haconsegnato.

Così tempestava l’animo di Buonvicino nel tempo ne-cessario perchè il valletto giungesse da casa i Visconti,ov’egli dimorava, sino al palazzo dei Pusterla alla Palla,e ne tornasse. Non v’erano oriuoli che gliene misurasse-ro i minuti, ma glieli misurava un affannoso battito delcuore, una violenta successione di idee, che glieli face-vano parer eterni. Passeggiava di su, di giù pel gabinet-to, tendeva le orecchie ad ogni più sottile rumore; quelritardo non v’era cosa che non gli lasciasse fantasticare.Ma sporgendo il capo dalla finestra, dischiusa a ricevereun primo soffio della tepida aria d’aprile, ecco scorge ildamigello di ritorno. Ogni passo di questo su per lo sca-lone, era una spinta al coltello che Buonvicino sentivasifitto nel cuore. Quando lo vide sollevare la portiera, edaffacciarsi, non gli resse il cuore di guardarlo in viso,

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non che d’interrogarlo. Quegli fece un inchino, disse: —Consegnato nelle proprie mani della dama»; ed uscì.

Questa parola, per naturale, per semplice, per aspetta-ta che gli dovesse riuscire, lo fe’ raggricciare: e abban-donatosi a sedere, una nuova serie di idee sorse a tor-mentarlo, l’effetto che lo scritto avrebbe a produrre sul-l’animo di Margherita. Perderne la stima sarebbe statoper lui quel che di peggio gli potesse incontrare. Pure,lusingava sè stesso col ripetersi che la lettera non eratale da meritargli un così acerbissimo castigo. — Dun-que, — chi sa? — forse l’ha aggradita; forse una rispo-sta gentile mi prepara; forse la prima volta che la vedrò,mi lascierà intendere che non le dispiacque. — Oh! sa-pere che ella mi ama! sentirmelo dire di sua bocca! —vedermelo anche solo mostrato da que’ suoi occhi, chesanno dire quanto e più che le parole! Questo, questobasterà a colmare la felicità mia per tutta la vita. Quantasollecitudine allora per compiacerla d’ogni suo deside-rio! In prodezze d’armi, in cortesie d’onore; che nonfarò io per venir più sempre in grado alla donna mia, perrendermi di lei sempre più degno? — Ma... e se fosse ilcontrario? se si adontasse? e mi credesse scellerato?...seduttore?...

Giovani miei coetanei, che venti fiate vi trovaste apassi somiglianti, eppure senza tante agitazioni; chefreddamente meditaste la seduzione, e celiando neaspettaste il risultato, voi sorridete al vedere un cavalie-ro siffatto, commosso nell’animo da tanta procella, e vipare di là del naturale. Ma, giovani coetanei miei, una

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mano sul cuore: se questo somiglia al suo, se gli oggettiin cui ne avete collocato i volubili desiderj somigliavanoalla Margherita, allora deridete pure il mio cavaliero.

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CAPITOLO III.LA CONVERSIONE.

Con questo martello passò Buonvicino la giornata: in-vano procurò divagarsi in altre cure, in differenti pensie-ri. La notte non chiedetemi se velasse le pupille; nè il dìseguente fu più tranquillo, o l’altro, o l’altro. Aspettavauna risposta, e la risposta non sapea venire; temeva, spe-rava; e quel rimanere sospeso gli venne alfine così tor-mentoso, che, per togliersene fuori, pareagli avrebbesofferto meno di mal animo la certezza del peggio. Al-cuna volta per uscire dalla perplessità, proponeva di re-carsi a lei; pareva deliberatissimo, indi mutava pensiero;tornava a risolvere, movevasi, usciva, s’avviava per quelquartiere, giungeva a quella via mozza, — un’occhiataalla porta, un sospiro, e passava.

Dopo tanti pentimenti e ripentimenti pure trovò il co-raggio di entrare. Come gli tremavano le ginocchia,come gli bollivano le tempia nel breve tragitto dalla viaall’ingresso! il rimbombare del ponte levatojo sotto isuoi passi pareagli una voce di sconsiglio, di minaccia;salendo lo scalone, dovette appigliarsi alla sbarra, per-chè gli si annaspavano gli occhi; vi era entrato semprecon tanto cuore, con sì serena baldanza! — Ch’io nonsia più uomo?» disse fra sè; e col muto rimprovero rin-

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vigorita la volontà, accostossi all’anticamera, ed ai fa-migli chiese della Margherita. A lui non tenevasi mai laporta: onde, rispostogli che la dama stava nel salotto,mentre un paggio correva ad annunziarlo, un altro ve lointroduceva.

Era un salotto capace, coll’altissima soffitta di travimaestrevolmente intagliate e dorate; le pareti coperte dicorami a rilievi di colori e oro; un tappeto orientale erasteso sul pavimento; un fino cortinaggio di damasco cre-misino ondeggiava sopra gli usci, e innanzi alle spaziosefinestre, fra’ cui telaj arabescati, e i piccoli vetri rotondipenetrava la luce temperata. Sul vasto focolare lenta-mente ardeva un ceppo intero, diffondendo un teporeancora gradevole in quella prima stagione. Macchinosiarmadj di noce ed eleganti stipi di ebano intarsiato adavorio, e messi ad argento e madreperla, erano addossatialle pareti: qui e qua alcuni tavolini, e qualche gran seg-giola a bracciuoli ed orecchioni, somiglianti a quelli cheoggi la comodità o l’imitazione ritorna di moda.

In una di queste sedeva la Margherita, in abito disemplice eleganza; e poco da lei discosto, muta e indif-ferente come una decorazione, sovra umile sgabello la-vorava una damigella. Margherita pareva allor alloraavesse deposto sul predellino il tombolo, sul quale coipiombini stava tessendo trine, occupazione predilettadelle sue pari, ed erasi recato in mano un libriccino dipergamena, riccamente rilegato, con borchie d’oro, ce-sellate finamente.

Senza levar gli occhi da questo, — Benvenuto!»

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esclamò con accento melodioso, e con un molle chinardi capo, allorchè il paggio, alzando l’usciale, ripetè ilnome del cavaliero che introduceva. L’agitazione pro-pria non permise a Buonvicino di notare se nel suonodella voce di lei, qualche tremito annunciasse l’internocommovimento: ma, per legare discorso, — Qual è, ma-donna, (le chiese) il libro che ha la fortuna di occuparela vostra attenzione?»

— È (rispose ella) il dono più caro di che mio padremi presentasse quando venni sposa. Caro padre! neglianni di sua senile quiete, occupava d’ogni dì qualche oraa scriverne una pagina; coll’accuratezza che voi vedete,miniò egli stesso e indorò queste lettere capitali; sono disua mano questi ghirigori del frontispizio: ma il meglio,oh il meglio son le cose che vi ha vergate, col titolo diConsigli a mia figlia. E me lo consegnò coll’ultimo ba-cio, allorchè mi congedò dalla sua casa a questa. Pensa-te s’io mel tenga prezioso! Anzi, poichè la ventura viguidò in buon punto, parrei troppo ardita se, avendo voiozio, vi pregassi a farmene un poco di lettura?»

Un desiderio della Margherita era sempre il suo:quanto più questo, che lo toglieva da una situazione tan-to penosa e impacciata? Accostato adunque uno scan-nello, tosto si fu seduto poco lontano da lei. Margheritariprese le sue trine, la damigella continuava a cucire, eBuonvicino, con avido movimento pigliato il libro, se-guitando là appunto ove la dama mostrava d’averne so-spesa la lettura, a voce alta incominciò:

— Ma sia pure, figliuola mia, che la passione ti tolga

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di mente quel Dio che chiamasti testimonio de’ giura-menti fatti allo sposo: non badare nulla agli uomini, iquali, senza udire le discolpe, ti condanneranno all’i-nappellabile tribunale dell’opinione: deva pure il tuoconsorte ignorare per sempre i torti tuoi — qual saraitu con te stessa? Consumato appena il fallo, addio sere-nità; cento timori ti assalgono; a cento menzogne ti tro-vi costretta; e un passo dato in sinistro a mille altri ticonduce. Tante ore passavi col marito in quella mitegioja senza ebbrezza, che solo in grembo alla virtù si ri-trova; con lui dividendo, alleggerivi le tribolazioni, re-taggio dell’uomo nell’esiglio. Ora egli dee venirti odio-so, egli continuo rimprovero del tuo peccato, egli la cuivista ti rinfaccia un giuramento, onde libera ti legastiseco, e che poi sleale hai violato. Se d’altro t’incolpa,se ti bistratta, vorresti giustificarti, ma la coscienza tigrida che meriti ben di peggio. Se ti accarezza — ohqual cosa di più straziante che le fidenti carezze d’unoltraggiato? I suoi affettuosi abbandoni lacerano l’ani-ma tua ben peggio che i corrucci, che l’oltraggio, anzi,più che un pugnale. La notte, nel letto testimonio di se-reni riposi, quieto, sicuro egli ti dorme a lato: — dormequieto, sicuro a lato di colei che l’offese, che lo detestacome ostacolo alle fantastiche sue felicità. Ma il placi-do dormire non è più per te; egli è là per rimproverartitacendo. Nelle penose ore della lunga veglia, t’ingegnistornare il pensiero sulle cure della vita, sui passatem-pi; cerchi bearlo in quell’oggetto che chiami il tuobene, e ch’è causa d’ogni tuo male; ma in ciò pure che

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dubbj, che delirj! Degli affetti suoi chi ti assicura? Ten’ha egli neppur dato prove quante il marito? — Miamerà, tu dici, perchè l’amo io. — Oh, non t’amava iltuo sposo? e lo tradisti. Bene; e se l’amico tuo ti trascu-ri e ti disprezzi, cosa gli dirai tu? rimproverarlo d’infe-deltà, rinfacciargli i giuramenti? Ma il bene stesso chegli vuoi non è un’infedeltà, uno spergiuro? Allora ab-bandonata da esso, ove ricorrerai? allo sposo inganna-to? ai figliuoli posti in dimenticanza? alla pace dome-stica demeritata?

Tali sono le tue veglie. E quando pure il sonno dà tre-gua alla fatica dei pensieri, che sogni! che visioni! Tune balzi atterrita, e fissi gli occhi sullo sposo. Oh! forse,tra il dormire, ti uscì dal labbro una parola che tradisseil tuo segreto; lo guardi spaventata, egli guarda te ca-rezzevole, e ti domanda: Che hai? — Oh l’animo tuo inquel punto!

Ed ecco intorno i pargoletti, cari, vezzosi, dolcissimacura, abbellimento e delizia della vita. Tu li carezzi, licarezza il padre; li bacia, li palleggia, ne guida i primipassi: insegna alle labbra infantili a ripetere il suonome, il tuo, con essi viene a ricrearsi dalle sollecitudi-ni dei negozj; all’innocenza loro cerca il balsamo quan-do il nausearono la prepotenza, l’orgoglio, la doppiezzadegli uomini. E ti dice: Diletta mia, quanto è soave que-sta età; quanta affezione ci lega al nostro sangue! Mise-rabile! perchè impallidisci?

Poi coll’immaginazione egli previene il lampo, quan-do, gia’ vecchio, si vedrà ringiovanire in quegli esseri

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amati, e guidato a mano da loro, ritesserà la tela dellavita: Essi saranno buoni, è vero, diletta mia? buonicome la loro madre; e consolazione nostra come essa fusempre la mia.

Che? tu chini la fronte? arrossisci? premi al seno ilpiù piccino, non per impeto d’affetto, ma per celare ilturbamento del viso? Suvvia, sta ferma: che temi? Dionon v’è, o non cura, o perdonerà per un sospiro che glidarai quando il mondo ti avrà abbandonata. Gli uomininon ne sanno nulla: nulla mai ne saprà il tuo consorte...Oh ma che importa? Lo sa la coscienza tua: te lo rin-faccia con voce insistente che non puoi soffocare, cuinon sai rispondere: essa ti mostra davanti una strada dimenzogne e di raggiri, per cui sei costretta a scenderepiù rapida, quanto più inoltri nel declivio: vorresti fer-marti e non puoi... Guai, guai se ti porta fin là, doveneppure ti giunga la voce della coscienza.

A ciò, figlia mia, a ciò vuol ridarti colui che tenta ra-pirti all’amore del tuo sposo. — E costui, ti ama?

Grosse stille di sudore gocciavano dalla fronte impal-lidita di Buonvicino mentre leggeva: il cuore gli si ser-rava: sentivasi mancare: più e più fioca gli diveniva lavoce; qui alfine del tutto gli mancò. Depose il libro, opiuttosto se lo lasciò cascare di mano: rimase cogli oc-chi a terra confitti, nè per alquanti minuti potò riavere laparola. Margherita seguitava ad aggruppare i fili, muo-vere i piombini, trapiantare gli spilli del suo lavoro, stu-diando mostrarsi tranquilla: ma chi v’avesse posto men-te, dallo scompiglio dell’opera avrebbe argomentato allo

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scompiglio dell’interno. Neppure a Buonvicino potero-no rimanere inosservate alcune lagrime che, per quantoella si ingegnasse di rattenere, le caddero dagli occhi sullavoro. — Qual merito avrebbe la virtù, se le sue vittorienon costassero nulla?

Dopo un intervallo di silenzio, egli si alzò; e facendo-si forza quanto poteva maggiore per rendere salda lavoce, — Margherita (esclamò) questa lezione non saràperduta: quanto mi basterà la vita, ve ne avrò obbliga-zione».

La dama levò sopra di lui uno sguardo di quell’ineffa-bile compassione, che forse prova un angelo quando os-serva l’uomo, alla sua tutela commesso, inciampare nel-la colpa, da cui prevede che frappoco risorgerà, bello delpentimento. Poi, non appena Buonvicino fu uscito, nonappena intese l’imposta rabbattersi sull’osservata ormadi lui, concesse libero sfogo all’affanno, sin allora peno-samente compresso: si alzò, corse alla culla ove dormi-va il suo Venturino, lo baciò, lo ribaciò, e sulla tenerafaccia del vezzoso infante lasciò sgorgare un torrente dilagrime; ultimo tributo che pagava alle memorie dellagioventù, a quei primi affetti che aveva lusingati perchèinnocenti. Una madre, nei pericoli del cuore, a qual asilopiù sicuro può riparare, che all’innocenza de’ suoi bam-bini? E il bambino aprì gli occhi, quegli occhi di fan-ciullo, in cui il cielo pare riflettersi in tutta la serena lim-pidezza; fissò, conobbe la madre, e gettandole al collo letenere braccia, esclamò: — Mamma, cara mamma!»

Quella parola come sonava in quel momento prezio-

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sa, illibata, santa alla Margherita! Tutta ne godette la vo-luttà; in quella trovò di nuovo la calma, la sorridentetranquillità d’un cuore che, il momento dopo la procella,esulta d’esserne uscito illeso.

Buonvicino andossene come fuori di sè: non distinsela scala, i servi, la porta, la via; errò lungo tempo comeil caso lo portava, senza vedere, senza udire. Era, non sose l’abbiamo accennato, il giovedì santo, giorno di uni-versale compunzione, quando, siccome oggi ancoramolti, così tutti in quel tempo solevano girare alla visitadei sepolcri, in cui si cela il Sacramento, per commemo-razione di quel glorioso, ove stette riposta la salma del-l’Uom Dio, nel dì che fu consumata la rigenerazione delgenere umano. Torme d’uomini, di donne, di fanciulli,poveri, cenciosi e mezzo ignudi, contadini in zoccoli egiubbone di stamina, cavalieri in ricco abito dimesso,senza piume, senza le armi, empivano le strade, qualisolitarj, quali a coppia, in fila o a disordinate torme se-guitando una croce, da cui, tolto il divino peso, cascavaun sindone a festone. I più camminavano scalzi, moltinon d’altro coperti che d’un sacco; alcuno ripeteva adalta voce il rosario, e un disaccordo di voci piagnolosegli rispondeva: altri intonavano lo Stabat Mater e i sal-mi del re penitente: o mormorando in tono compunto ilMiserere, ad ogni verso si percotevano le spalle con fla-gelli di corde aggruppate: alcuno, quasi ciò fosse poco,ravvolto sino al capo in ruvido traliccio e cosperso dicenere, si avviava lento con dietro due o tre famigli econfratelli, che tratto tratto gli scagliavano sul dorso

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staffilate a tutta forza. Ed ecco comparivano numeroseconfraternite di maschi e donne imbacuccati, schiere difrati e di monache non legate alla clausura: e tutti nudele piante, le mani giunte, gii occhi a terra, scoronciando,cantando, singhiozzando.

In tal modo passavano da una all’altra delle sette ba-siliche principali, di cui le più rimanevano allora fuoridel recinto della mura; e giunti in ciascuna, fra le adora-zioni che vi prestavano, e le memorie del maggior mi-stero di amore e di espiazione, raddoppiavano le preci, ilcanto, il piangere, il gemere, il picchiar dei petti, il fla-gellarsi.

Da ciascuna parrocchia poi venivano alla visita lun-ghe processioni; in tutte era un uomo vestito da Cristo,con un pesante crocione sulla spalla: e intorno a lui don-ne che figuravano la Vergine, la Maddalena, santi d’ognietà, d’ogni nazione, innalzando gemiti di pietà: nel men-tre altri, vestiti alla foggia che i molti pellegrini avevanoveduto usarsi in Palestina, dovevano figurare i Giudei,Pilato, Erode, Longino, il Cireneo; e ciascuno rappre-sentava secondo il suo personaggio, e proferiva straneparole, interrotte dai gridi, dai singhiozzi degli spettato-ri, da un frastuono di raganelle e di mazze percosse perle muraglie e contro le porte, onde i fanciulli in frottamanifestavano l’incomposta loro devozione.

Un saltambanco cieco, montato sur un tavolotto, conuna tal quale flebile e monotona cantilena ripeteva unacomposizione, rozza se poteva essere, e che oggi deste-

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rebbe sorriso e disprezzo7, allora moveva lacrime di de-vota compassione. L’intenta plebe si affrettava di gettarun quattrino nel bossolo del povero cieco: ad alcuni diquei robusti uomini, educati o cresciuti per la guerra,che non avevano mai compatito ai travagli veri e pre-senti dei loro simili, ora udendo rammentare le volonta-

7 Abbiatene qui un saggio:Sentii de la paxion de Dè,

qual el sostene de li Zudè.Che ve vojo dir e contareSe vuu me volì ascoltare,Com’ella fo e en qual mesura,Segondo che dise la Scrittura.Perzò prego, se vel piaze,Ca vuu le debia odir en pazeE odir in gran pietateDel re de sancta majestate,Zoè Cristo fiol de DèChe fo traido dal Zudè,E che durò gran paxionSenza nessuna offension.Ma per nui miseri peccatorSoffri obbrobrio e desonor,E per nuu sol preso e ligaaE tutto nuo despojaa.Color ch’il presen e ligànD’aguti spin l’incoronàn,Suso in alto lo faxian stare,Poi se l’intinzean adorareCon befe e con derexionTutti stavan in ginucion.E si dixean: Quest’è re.Ma no gh’aveano bona fe,Po ghi coprian i ogi e ‘l volto,Chel no vise poc ne molto,Una gran cana chigi aveanEntre lor se la sporzean, ecc, ecc.

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rie pene dell’Innocente, s’imbambolavano gli occhi: etaluno, battendo la scabra destra sull’elsa della spada,esclamava: — Oh che non éramo là noi a liberarlo!»

Frati intanto, o palmieri coperti del sarrocchetto, pro-fittavano di quell’ardore, di quel commovimento per di-pingere gli orrori onde avevano veduta oppressa la Ter-rasanta dai Musulmani, e incoravano chi avesse fede avoler redimerla col ferro, o almeno coll’oro sollevarla.

In mezzo a questo brulichìo di popolo, a questa biz-zarra mescolanza di cose le più serie con burlesche, ca-rattere dei mezzi tempi; fra lo spettacolo grandioso diuna gente intera che si condolea dei patimenti di tredicisecoli fa, come fossero di jeri, passava Buonvicino, oralasciandosi dalla calca trasportare, ora fendendola a ri-troso, ma coll’occhio a terra, quasi temesse incontrar unaccusatore in ogni volto che fissasse: assorto ne’ suoipensieri così, che uno, al mirarlo, potea crederlo più ditutti compreso dalla pietà universale. Era in quella veceun travaglio fiero, insistente, di fantasie, di sgomenti,che gli si stringevano attorno come la folla ond’era cir-condato. Ma dalla folla si sviluppò alla fine, e cacciossifuori della città. Il sole piegava al tramonto; un ventoimpetuoso, come suole di quella stagione, fischiava tra irami delle piante, ove appena cominciava a rifluire ilsucchio vitale, ed agitava le erbette rinnovate al raggiodel sole, che, dopo il torpore invernale, le fomentavatraverso un aere, la cui limpidezza non era offuscata an-cora dalle crasse esalazioni dei prati marci.

Quivi trovata alfine la solitudine, tanto desiderata agli

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animi commossi, abbandonavasi Buonvicino ai suoisentimenti, — sentimenti opposti di amore, di dispetto,di gioje, di tribolazioni, di speranze, di ripetio. Sedeva,girava, meditava: or rivolgeva gli sguardi sopra la città,sulle torri ove ammutolivano i sacri bronzi; sugli spaldiove le ronde passeggiando, a intervalli gridavano e si ri-spondevano, Visconti, Sant’Ambrogio. Questo grido ri-traendolo a pensare ai mali della sua patria, lo svagavaun istante da’ suoi proprj: — ma i mali della patria nonerano gran parte, anzi la maggior parte de’ suoi? Rian-dava i tempi della passata libertà, paragonandoli ai trop-po diversi che ora gli pesavano sopra, ed ai peggiori chevedeva avvicinarsi; ricorreva le balde speranze giovani-li, quando si figurava libero in libera patria, e giovarecol braccio e col consiglio i suoi cittadini, salire ai primionori, meritar lode e gloria nel pubblico: — in privatopoi... E qui tornava alla Margherita, a lei ancora fanciul-la, ancora un bocciuolo di rosa che da lui aspettava l’ali-to vivificatore: un cuore innocente, che ad una sua paro-la poteva sorgere al pieno sentimento di una intemeratafelicità. — Ah! tutto era disparso; disparsa la pubblicasperanza, disparsa la domestica contentezza. — Ella, al-meno, ella sia felice, e goda anche la porzione di beneche a me fu negata. — Felice?... bene?... Ed io, sciagu-rato, io osai d’insidiarne la purezza? io aspirai a turbareper sempre la tranquillità di lei, d’un amico?»

Fra questi e somiglianti pensieri, Buonvicino si acco-stò alla postierla di Algiso, come chiamavano quel ch’èoggi il ponte di San Marco; ed entrato, si trovò di fianco

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alla chiesa degli Umiliati di Brera. Nel giorno e nell’orache Buonvicino vi capitò, pochi devoti, quelli solo cuil’età o le occupazioni impedivano di visitare cogli altrile sette chiese, traevano qui ad offrire la solinga loropreghiera a Colui, che tutte e da per tutto le ascolta.

L’ordine degli Umiliati era nato in Milano, circa tresecoli prima, da alcuni laici congregatisi a far vita devo-ta in case comuni, ove le donne non erano dagli uominiappartate. San Bernardo, quando viaggiava persuadendol’Europa a precipitare sopra l’Asia per impedire che lamezzaluna prevalesse alla croce, Maometto a Cristo, laciviltà alle barbarie, dettò qui agli Umiliati le regole, percui alcuni vennero unti sacerdoti, segregati i due sessi;onde rimase formato il secondo Ordine, di cui eranoquesti, che sovra un prædium, e vulgarmente breda obrera, avevano fabbricato il convento che conservò l’an-tico nome. Il terzo Ordine riconosceva per istitutore ilbeato Giovanni da Meda, che nella casa di Rondineto,oggi collegio Gallio a Como, fondò i preti Umiliati.Tanto crebbe l’Ordine, che nel solo Milanese possedevaducenventi case (case e canoniche chiamavano i loroconventi), e in ciò si distingueva dagli antichi di san Be-nedetto e dai recenti di san Domenico e san Francesco,perchè dedito per istituto all’operosità manufattrice. Laseta in quei tempi era cosa rara, e una libra pagavasifino a 180 lire: nè Milano pare ne abbia posseduto mani-fatture prima del 1314, quando molti Lucchesi, avendoperduta la patria per la tirannide di Castruccio, si sparse-ro per l’Italia portandovi quell’arte che già tra loro fiori-

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va. Vivissimo all’incontro era in queste parti il traffico eil lavorìo della lana, e gli Umiliati ne facevano la partemaggiore. Nel 1305, questi di Brera appunto avevanoinviato alcuni dei loro a piantare manifatture sino nellaSicilia: per Venezia spedivano a tutta Europa gran quan-tità di panni, e guadagnavano immense ricchezze, concui compravano immensi poderi, soccorrevano i biso-gnosi, e potevano persino, nelle debite proporzioni, pre-venir quello che fece la Compagnia delle Indie in In-ghilterra col servire di somme il patrio Comune, EnricoVII imperatore ed altri sovrani.

Gran credito perciò godeva quest’Ordine; e sovente aimembri di esso affidavasi pubbliche incombenze, singo-larmente di riscuotere le gabelle, percepire i dazj all’en-trata della città, trasportare peculj, conservare pegni. Maessendo d’ogni istituzione umana il corrompersi, trali-gnarono anche gli Umiliati: le ricchezze bene acquistatefurono convertite male: all’operosità subentrarono l’o-zio e i vizj che ne conseguono: immensi tenimenti eranogoduti in commenda da pochi prevosti che sfoggiavanoin lusso di tavola e di trattamenti: tanto che gli scandaliche ne nascevano indussero san Carlo Borromeo a do-mandarne l’abolizione nel 1570, destinando gran partedei loro beni a favore d’un Ordine allora nascente, i Ge-suiti.

Questi pure, passato il loro tempo, vennero dal papadisfatti, e il grandioso palazzo ch’essi avevano fabbrica-to a Brera, fu destinato all’istruzione, all’astronomia,alle belle arti, di cui oggi sono colà le scuole e i modelli.

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Così ad un podere successe una manifattura, a questal’educazione, infine il culto del bello: sicchè quel palaz-zo può in alcun modo segnare l’andamento della socie-tà.

A quel posto però, nei giorni di Buonvicino, sorgevaun monastero disadorno secondo i tempi, e una vastachiesa di stile gotico, lavorata di fuori a marmi scaccatibianco e nero. Sui due campi laterali si vedea da unabanda il beato Rocco, pio pellegrino di Mompellieri,morto poc’anni prima, dopo essere vissuto in continuoservizio degli appestati, perlocchè veniva riverito e in-vocato come tutore contro i contagi che allora di fre-quente ripullulavano; dall’altra un san Cristoforo, perso-na gigante, con un Gesù bambino a cavalluccio; effigieche poneasi sulle facciate e lungo le vie, perchè credea-no che, al solo mirarla, desse la buona andata, e preser-vasse dalla morte improvvisa.

Nel mezzo si apriva una portella, cui faceano stipitecerti fasci di colonnine ritorte a spira, con attorno fiori,rabeschi, uccelli; e che sorreggevano un arco acuto, disopra il quale sormontava un terrazzino, sostenuto dadue colonne dì porfido, le quali, invece di base, impo-stavano sopra due grifoni in atto di spiegare le ali. Quelterrazzino era il pulpito, da cui nei giorni festivi, i fratipredicavano alla folla concorsa in sul sagrato, all’ombradi un olmo centenario.

V’ha dei momenti, quando l’animo nostro è disposto,quasi direi necessitato a meditare su tutto ciò che si af-faccia ai sensi: le cose medesime, che cento volte si era-

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no vedute con indifferenza, toccano e colpiscono.Quante fiate Buonvicino era passato innanzi a quel

piazzuolo, a quell’olmo, a quella chiesa senza più cheinchinarsi, come si usa ai luoghi benedetti! Ora vi si fer-mò; tenne gli occhi sopra una porta che, di fianco allachiesa, introduceva al convento, e vi lesse scritto: Inloco isto dabo pacem.

La pace? non era quella ch’egli avea perduta? che an-dava rintracciando? un momento di calma non era la piùambita delle dolcezze fra le sue burrasche? Perchè nonentrare laddove era promessa?

Ed entrò.I conventi, in qualunque concetto voglia aversene la

santità e la vita contemplativa, erano un ricovero, a cuivolentieri rifuggiva l’uomo sbattuto dagli affanni; il lorosilenzio, la devota quiete, quel distacco dagli affarimondani, li faceva somigliare ad isole fra il turbolentomare della società: e il cuore bersagliato dalla fortuna(onesta parola, onde si velano la slealtà, l’ingratitudine,l’incongruenza degli uomini) vi cercava, e spesso anchevi trovava il balsamo della dimenticanza.

Fra i duri casi di mia vita, non m’usciranno mai dallamente otto giorni, che volli vivere in un monastero. Lasituazione di quello, sotto incomparabile temperie dicielo, ricreato dalla vista di un’ubertosa amenità campe-stre e montana, contribuirono senza dubbio a rendermila tranquillità ch’io era venuto a domandarvi. Ma sottoquei portici taciturni, in quelle fughe di corridoj, nonpopolati che da persone, in ogni apparenza diverse da

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quelle che siamo avvezzi scontrare pel mondo, sempremi tornava al pensiero Dante Alighieri, quando, erra-bondo al par di me, lasciata anch’egli ogni cosa più ca-ramente diletta, anch’egli indispettito colla patria e coicompagni di sua sventura, là per la diocesi di Luni si as-sise in un chiostro a meditare. Dove un frate, vistolo ri-manere così a lungo osservando, gli si appressò chie-dendogli: — Che volete, che cercate, buon omo?» —Egli rispose: — Pace».

E per desiderio di pace Buonvicino si condusse sottol’atrio, ove la tettoja proteggeva i muricciuoli, dispostiai pitocchi che numerosi, principalmente nella carestiad’allora, venivano per le zuppe ivi distribuite ogni mez-zodì. Sulle pareti d’allato vedeasi la storia, vera o leg-gendaria della istituzione degli Umiliati: e chi oggi inquel palazzo ammira i capolavori degli artisti antichi ele mediocrità dei moderni, a fatica saprebbe figurarsi larozzezza, onde allora v’erano pitturate a guazzo certeimmagini lunghe, smilze, in punta di piedi, senza mo-venze nè scorci, senza ombre nè fondo nè terreno.

L’indovinare che cosa significassero non sarebbe sta-ta facile impresa, se non fossero venuti in soccorso ca-ratteri e versi non meno grossolani. A manritta dunque simostrava un diroccamento di case, di mura, di chiese, ela scritta Mediolano indicava doversi intendere le rovinedi questa città, allorchè rimase desolata per opera del-l’imperatore Federico Barbarossa e de’ suoi confederati,pur troppo italiani. Sul dinanzi, alcuni in abito dimesso,parte in ginocchio, tutti colle mani giunte, avevano a si-

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gnificare i cavalieri milanesi che, secondo la tradizione,fecero voto, se mai la patria si rassettasse dalla schiavi-tù, di congregarsi a vita di penitenza e di santità. Ciò di-chiarava la sottoposta iscrizione in questi che, almenonell’intenzione dell’autore, erano versi:

Come diruto MediolanoDe Barbarossa cum la manoLi militi se botano a MariaKe laudata sia.

Erano dalla banda sinistra figurate delle case, quali fi-nite, quali ancora in costruzione per indicare Milano, sedistrutto dalle dissensioni, or rifabbricato dall’affratella-mento dei Lombardi: e una dozzina fra signori e dame,non distinti che dal prolungarsi a queste la guarnaccabianca fino sul tallone, mentre agli altri dava appena alginocchio, recandosi a braccio e in collo dei fardelli,cioè i loro averi, si dirizzavano ad una chiesa, sovra laquale, fra certe nuvole che avresti scambiato per balle dibambagia, appariva la Madonna, e la scritta diceva:

Questi enno li militi humiliatiQuali in epsa civitatiSolvono li boti sinceri.Dicete un ave o passeggieri.

La rusticità dei versi e del dipinto non offendevaBuonvicino, a poco di meglio abituato; poichè, sebbenefossero già vissuti Dante e Giotto, ristoratori della poe-

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sia e della pittura; sebbene i canti di quello fossero lettipubblicamente e commentati in Lombardia, e Giottofosse venuto qui a dipingere in Corte di Azone Visconti,non per questo il gusto era diffuso; e non era l’infimodegli scolari di Andrino da Edesia pavese quel che ave-va eseguito il grossolano dipinto.

Bensì la storia quivi rappresentata rispondeva beneallo stato interno del nostro Lando, talchè vi stette al-quanto fiso in muta contemplazione. Angiolgabriello daConcorezzo portinajo, allorchè lo vide accostarsi allasoglia, si trasse da banda, dicendogli: — Iddio vi bene-dica»; ed esso entrato, si trovò in un cavedio erboso, nelcui mezzo un pozzo, presso al quale verdeggiava unagnocasto, arboscello che nei chiostri mai non lasciavasimancare, credendo giovasse a mantenere illibata la ca-stità. Tutt’intorno girava un portico in volta, sostenutoda pilastrelli di cotto, sotto al quale altre immagini, delmerito delle prime, istoriavano la vita operosa d’alcunisanti, come san Paolo che tesseva fiscelle, san Giuseppeintento alla pialla, i Padri dell’eremo che faceano caritàinsieme trecciando foglie di palma.

Del resto ogni cosa quieta. Passeri a migliaia stormi-vano su per le tettoje, mentre qualche rondine primatic-cia aliava esplorando e meditando il nido sotto quellevolte, ove mai non le era stato turbato: i numerosi telaj,che si vedevano disposti negli spaziosi cameroni, ripo-savano in quel dì, sacro al meditare: tratto tratto appari-va alcun frate in tunica di lana bianca: sovr’essa un’one-stà, pur bianca, cinto i lombi d’una coreggia, cogli zoc-

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coli in piede e coll’aria di grande mestizia, convenienteal solenne lutto di quel giorno. Erano avvezzi a vedereestranei vagare per le loro case: non ne facevano mera-viglia, non domandavano, non temevano: la religioneproteggeva le ricchezze ivi raccolte, e rendea sacre lepersone, che la divozione o la sventura vi conducesse.Onde passavano da lato a Buonvicino, esclamavano Paxvobis, e seguitavano la loro via.

Tutto questo insieme facea su Buonvicino l’effetto diun placido zefiro sopra un lago mareggiante. Vagò os-servando, riflettendo, e il suo passo, dapprima frettolosoe incomposto, veniva lasciando la furia, e dando indiziodella calma che a poco a poco le subentrava. Udivasi fraciò un accordo di voci, ma fioco, lontano come uscissedi sotterra, intonare una lugubre melodia; dietro al cuisuono Buonvicino arrivò nella chiesa. Era affatto oscuraacciocchè meglio ajutasse il raccoglimento: nessunalampada, nessun cero luceva sullo spogliato altare: unbisbiglio di preghiere, fatto da devoti che non si vedea-no, ricordava gli angelici spiriti che, nel giorno medesi-mo, furono intesi gemere invisibili nel tempio di Geru-salemme quando moriva il loro Fattore. Nella confessio-ne o, come diciamo noi Lombardi, nello scuruolo, i fratiripetevano a muta le lamentazioni di Geremia, e il rac-conto così semplice e così appassionato della morte diCristo.

Tentone si inoltrò Buonvicino, e appressatosi ad unadelle sedici colonne che in tre navate dividevano il tem-pio, trovata alcuna cosa, le si inginocchiò davanti, e ta-

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stando si accorse esser un avello, con sopra effigiato co-lui che in esso riposava. Era di fatto il sepolcro di Ber-tramo, primo gran maestro generale degli Umiliati, cheaveva loro dettate le costituzioni, e si era addormentatoin Dio nel 1257.

Sopra quell’urna appoggiato il capo, Buonvicinopianse, dirottamente pianse. Una devota compunzionetutto l’aveva preso: il pensiero di un Dio, di una fine chetutti aspetta, di un Giusto, soffrente per le colpe altrui, diun dolore universale, era sottentrato al sentimento dellepersonali affezioni, all’idea dei danni antichi, del recen-te errore, della patria, di Margherita, di quanto il mondol’aveva fatto godere e soffrire. Quel godere del mondo(egli pensava) a che riesce se non a scontenti e noje?Qui invece all’austerità della quaresima, al lutto di que-sti giorni, succederà il tripudio, l’alleluja: l’altro doma-ni, scontrandosi per le vie, l’un l’altro saluterà escla-mando: È risorto! — salubri penitenze che si risolvonoin una santa esultazione!

Ciò meditando, Buonvicino si sentì toccar il cuore, efermò la risoluzione di togliersi dal tramestio mondano,e rendersi tutto a Dio. La sera non uscì dal convento;chiese d’esser annoverato tra i fratelli, e l’ottenne; inbreve fu vestito e professato. Persona di tal credito fu te-nuta un prezioso acquisto per la congregazione: la famase ne diffuse tosto, genza che destasse gran meraviglia,perchè non erano rari somiglianti casi. I buoni ne bene-dissero il Signore; Buonvicino più fu diletto dai suoiamici, più rispettato dai padroni; i malevoli stessi, ora

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ch’egli più non dava ombra, ne confessavano i meriti ele virtù.

Egli, assaporando quella pace di Dio che oltrepassaogni intendimento, per alcun tempo attese alle cure co-muni del nuovo suo stato; risolto poi di ordinarsi prete,sì per esercizio di pazienza, sì per acquistare una cogni-zione, buona a tutti, indispensabile a un sacerdote, presead esemplare la Sacra Bibbia. Oh allora, che pascolotrovò all’intelligenza e al cuore! Oltre la rivelazione del-le superne verità, quanto conforto ne trasse a’ suoi casi,quante consolazioni! quanto impulso al bene! Nei cantidei profeti sentiva continuo l’amor di patria, ond’essoaveva caldo il petto; la sventura v’è ogni tratto ricreatadi speranze; l’ingiustizia che signoreggia, o manifesta, ocolla maschera del diritto, trova colà un continuo appel-lo ad altri giorni, ad altro giudice; concordia, amore,eguaglianza, giustizia, animano da capo a fondo quel li-bro, nel cui studio frà Buonvicino, accorgendosi quantogli uomini ne deviassero operando a fini personali anzi-chè al bene comune, dividendosi in oziosi che godono efaticanti che stentano, in ribaldi che ingannano e sopraf-fanno, e leali che beneficano e soffrono, non che pren-dere odio per gli uni, disprezzo per gli altri, gli abbrac-ciava tutti in generosa benevolenza, e nell’intento diamicarli, di concordarne gli sforzi a quella che è primacondizione di ogni sociale progresso: la moralità.

Molto durò, discosto da ogni pratica di gente; comin-ciò poi ad uscire predicando, e allora gran fama si levò,non tanto della sua bravura, come della grande sua bon-

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tà. Diffondevasi tra il popolo, massime della campagna;giacchè pel popolo, diceva egli, pei poveri specialmente,ha parlato Cristo, fra vulgari scelse i seguaci suoi, le pri-mizie della Chiesa. Ne istruiva dunque l’ignoranza sullaeguale origine degli uomini, sulla comune destinazione;mostrava donde veniamo; dove si va; i più semplici do-veri, le più schiette virtù di padri, di figli, di sposi, dioperaj, erano perpetuo suo tema; ingenuo e fin vulgarenel dir suo, sminuzzando il pane della parola secondo lacapacità; facendosi, come Eliseo, piccolino per ravviva-re le piccole membra.

Passava quindi in concetto di santo, poichè, sebbenenon fosse andato pellegrino al Monte Gargàno, a Roma,in Terrasanta, sebbene non facesse di quei miracoli, dicui smoderata era allora la frequenza, operava il miraco-lo più insigne, quello di rendere buoni gli uomini collavoce e coll’esempio. E poichè allora pur troppo fra quel-le razze ineducate succedevano frequenti battibugli dicontumelie e peggio, tutto egli davasi nel ricomporre laconcordia, e mirabili effetti otteneva di conversioni.

Molti potrei raccontarne, se non udissi alcuno de’miei lettori domandarmi se questa sia una leggenda disanti. Dirò dunque soltanto come una volta (questo ac-cadde in Varese mentre egli trovavasi colà nella Cave-dra, casa del suo Ordine) uno dei Bossi ed uno degli Az-zati, primarj borghesi, erano venuti a parole, dalle paroleai fatti, e dietro loro una turba parteggiante minacciavaun sanguinoso scompiglio. — Bisogna chiamare fraBuonvicino», suggerì alcun prudente. Così fanno; egli

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accorre, procura mitigare gl’irritati, rammentando lepromesse e le minacce di Cristo che ci vuole umili alpari di sè; ma il Bossi, che era dei due il più tracotante ebizzarro, cieco nella collera, volse il furore contro il fra-te, e bestemmiando Dio, le chieriche, le cose più riveri-te, cominciò a picchiarlo.

Picchiare un religioso era tenuto tale sacrilegio, chegli astanti parte si ritrassero come atterriti, parte si ac-cingevano a volerne vendetta.

E frà Buonvicino, su quel primo momento, sentendopiù l’impulso delle antiche abitudini, che non la legged’abnegazione, che erasi da sè medesimo imposta, affer-rato l’assalitore, l’ebbe sbattuto a terra, e alzava il pu-gno contro di esso; ma l’ira diede luogo subitamente;rientrò in sè; mise un sospiro, quasi dolente che l’anticouomo ad ora ad ora ricomparisse; sollevato il temerario,se gl’inginocchiò davanti, e incrociando le braccia sulpetto, con umiltà tanto più sincera quanto che era gene-rosa, gli disse: «Perdonatemi! non sapevo quel che fa-cessi».

L’atto pio commosse il prepotente, il quale cadde eglimedesimo ai piedi dell’offeso, chiedendo a gran voceperdono, misericordia; e tornato a coscienza, diventòesempio di quelle cristiane virtù, di cui la somma è lacarità.

Nè meno famoso venne frà Buonvicino a Milano. Inquei tempi che tutto andava per collera e fazioni nellaChiesa, nel foro, nelle scuole, nei conventi, nel campo, icontendenti si ingegnavano di trarre il frate dalla loro.

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Nel più vivo erano le questioni teologiche, se la luce ap-parsa sul Taborre fosse creata od increata: se il pane chemangiavano e la tunica che vestivano Cristo e i suoi fos-se loro proprietà o di uso soltanto; se gli angeli e i santigodessero della beatifica visione della divinità, ovverostessero sotto l’altare di Dio, cioè sotto la protezione econsolazione dell’umanità di Cristo, fino al dì del giudi-zio. Ma qual volta alcuno volesse metter Buonvicino sulragionarne, e risolvere tra il dottor Angelico, il dottorSottile, e il dottor Singolare, esso rispondeva che il no-stro non è il Dio delle contese, che vuolsi studiare nellareligione per rendere un ossequio ragionato, non per in-trodurre la superbia dell’umana sapienza nelle cose cheil savio venera tacendo.

Che ne avvenne?Sulle prime, tutte le parti egualmente il disapprovaro-

no, e chi il chiamò pusillanime cristiano, chi troppo cie-co credente. Egli non rispose, continuò, e, come accadesempre, tutte le parti egualmente finirono per rispettarlo.Piuttosto avendo conosciuto i vizj della città, penetratonelle sale dei grandi come nelle officine del fabbro, esotto la trabacca del soldato, sapeva dove occorressero irimedj: alla libertà del paese, guasta non tanto dalla pre-potenza de’ dominatori, quanto dalla corruttela dei do-minati, trovava ottimo ristoro predicare il Vangelo,scuola della libertà vera, vera opposizione e alla tiranniadei capi e alla sfrenatezza dei soggetti; vera soluzionedel più importante problema sociale, quello di rendersoddisfatti coloro che non posseggono, assicurando il ri-

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poso di quei che posseggono. Per tal modo riusciva caroai sofferenti che sollevava con superne consolazioni, eriverito dai potenti, i quali, nell’uomo probo, non ligioai superbi loro capricci, sono costretti a venerare l’impe-rio della nobile virtù.

Margherita, già non crederete che egli la dimenticas-se; più non si dimentica quando si è amato così. Nè del-la donna sua temeva egli lo spregio: non ne aveva egliveduto le lagrime in quel terribile momento? La ricorda-va sempre come la persona più cara che avesse lasciatain un mondo da cui si era diviso. Per lungo tempo neschivò affatto la vista; la prima volta che osò domandar-ne conto a Francesco Pusterla, che, come altri amici, ve-niva tratto tratto a salutarlo, quel nome, quasi avesse do-vuto bruciargli le labbra, tornò più fiate a morirgli ingola: pur finalmente lo pronunziò con un rossore, conun tremito convulso di tutta la persona.

Al fine la materia restò domata dallo spirito, e quandoFranciscòlo gli parlava della sua domestica felicità, sen-tivasi inondato, non più da invidia, ma da tutta puracompiacenza. Nelle orazioni sue, la persona prima e piùcaldamente raccomandata, era la Margherita, senza cheper questo il pensiero disviasse dal Creatore alla creatu-ra: anzi, una dolce speranza il lusingava, che le espia-zioni sue, le sue preghiere dovessero acquistare allaMargherita una serie di felicità.

Non doveva essere esaudito, perchè la felicità veranon è germoglio di queste glebe terrestri.

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Allorchè si sentì sicuro di sè, tornò una volta a casadella signora Pusterla; ripassò con altro cuore su quelponte, sotto quegli atrj, su per quelle scale: entrò nelmemore salotto; e vi trovò la Margherita che fanciulleg-giava col suo Venturino.

Qual momento fu quello pei due amanti! Ma l’una el’altro vi si presentavano col vigore acquistato in lungarisoluzione virtuosa.

Frà Buonvicino ragionò di Dio, della fralezza dell’uo-mo; toccò del passato come una rimembranza cara e do-lorosa; chiese perdono; si staccò dalla cintola un rosariodi grani di cedro a faccette, su ciascuna delle quali eraintarsiata una stella di madreperla, e con pendente unacroce, allo stesso modo lavorata. Era paziente fatica delsuo ritiro, e consegnandola a Margherita, — Tenetelaper mia memoria. Possa questa un giorno venirvi di con-solazione! e nel recitarne le orazioni, pregate Dio per unpeccatore».

Queste parole, quell’atto non furono senza lacrimedell’uno e dell’altra. Margherita si strinse al seno e pre-mette alle labbra quel dono, che assumeva un caratteresacro innanzi all’intelletto, nel mentre al cuore lasciavaindovinare quante volte frà Buonvicino dovette pensarea lei nel lungo tempo duratovi intorno.

Quel rosario, quella croce, doveano mischiarsi, dehcome! nelle avventure di quella infelice!

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CAPITOLO IV.L’ATTENTATO.

All’erta! — piglia! — segui! — lascia!Queste voci schiamazzate dai cacciatori, ed un urlare

e guaire di segugi e di levrieri, un sonare di corni, unosparnazzare di falchi e di sparvieri, uno scalpiccìo di pa-lafreni e di giumenti, il ragliare della cavalcatura delbuffone Grillincervello, traevano i Milanesi a vedereuna grossa comitiva, che, col signor Luchino, usciva acaccia dalla porta Comasina, e che dai cittadini facevaesclamare: — Oh bello!» ed ai contadini: — Povere lenostre campagne!»

A chi esce di quella porta verso Como, dopo corso undieci miglia, fra Boisio e Limbiate, si affaccia sullamancina un vago palazzotto, a cui la lieta situazionefece dare il nome di Mombello. Sta sul colmo di un pog-getto, ultimo ondeggiamento del terreno che, via via di-gradando dopo le altissime vette delle Alpi, qui viene aperdersi nell’interminabile pianura lombarda. Di lassùspazia lo sguardo sopra le feconde campagne del Mila-nese, da cui sorgono tratto tratto casali, grosse terre, bor-gate, e più in là la metropoli dell’Insubria, colla meravi-gliosa mole del Duomo, monumento dell’originalità edella potenza dei tempi robusti e credenti; dall’altra par-

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te vagheggia un cerchio di ubertose colline, poi di su-perbe montagne, che a mattina e a tramontana limitanol’orizzonte, varie di forma, di altezza, di tinte: alcuneverdeggianti e coltivate a grano e a vigne: altre non ve-stite che di boscaglie; altre in fine brulle e squallide, sic-come la vecchiaja dell’uomo che male trascorse la suagioventù.

Quel palazzo, come ora è, fu rifabbricato dai signoriCrivelli nel secolo scorso; negli ultimi anni del qualevenne in celebrità, allorquando il giovane Buonaparte,sceso a nome della repubblica francese a rendere servala Lombardia col solito titolo di liberarla, colà si piac-que di porre alcun tempo il suo quartiere generale.

Ivi, attorno al giovane eroe, figlio della libertà e checredevano intento a dispensarla, mentre non mirava chea farsene erede, accorrevano a portare servilissimiomaggi i deputati delle improvvisate repubbliche d’Ita-lia, alle quali la prepotenza militare aveva diminuito ilnumero delle azioni libere, cresciuto quello delle obbli-gatorie; concesso licenza di pagare assai più, e di pianta-re sulle piazze un grande albero, intorno a cui far gaz-zarre e risa e balli e canti, finchè a qualche burbanzosoufficiale piacesse intimare il silenzio. Di tali dimostra-zioni rideva il Buonaparte in quella villa; rideva dellasincerità dei pochi, e si giovava dell’astuzia dei più; eintanto preparavasi a mercatare Venezia, ed a spianare asè medesimo la via di salire a un trono, innalzatogli dacoloro che dianzi, coll’abbatterne un altro, aveano pro-

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clamato al mondo lo sterminio dei regnanti e l’era dellalibertà e dell’eguaglianza, — non però della giustizia.

Non ti spaventare, lettor benigno; non temere che noivogliamo qui tracciare il pendio, per cui l’Italia passòdal dominio dei Visconti sino a quello di Napoleone: ilcenno fatto di lui non è che una delle tante e troppe di-gressioni del nostro racconto, alla quale ci recò la men-zione di quel palazzo. Poco prima dei tempi da noi de-scritti, era stato, con isplendidezza pari alle loro dovizie,fabbricato dai signori Pusterla per villa suburbana; ab-bellito di tutti gli artifizj, onde allora si sapesse far lietauna casa campestre; giardini con ogni maniera di bellepiante e rare, bei poggi di vigne, grotte, zampilli e ru-scelletti da lungi condotti, davano amenità e frescura,mentre gli appartamenti offrivano tutte le agiatezze, nondisgiunte da esteriore apparenza di forza. Poichè aiquattro angoli della fitta muraglia che lo girava, sorgea-no torri di pietra, capaci ad ogni occasione di tener fron-te a qualche improvviso attacco che, in tempi di tanteagitazioni fra i privati e di sì poca forza nel Governo,potea venire o dal popolo ammutinato, o da bande dimasnadieri, o da emuli baroni.

Quivi appunto erasi ridotta la signora Margherita al-lorquando il suo Franciscòlo, lusingato dalla confidenzamostratagli da Luchino Visconti, si era, mal per lui, as-sunta la esibita ambasceria a Mastino della Scala. Nè ledissuasioni di frà Buonvicino, nè le carezze della donnasua erano valse a stornarlo da incarichi, i quali, vergo-gnosi sotto vergognoso dominio, potevano sembrare un

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assenso dato all’oppressione della patria: nè ad indurlo avivere in decoroso ritiro, muta protesta che ognuno puòsenza pericoli opporre ai cattivi reggimenti. Come eglidunque si fu partito, essa preferì togliersi alla città, enella quiete campestre risparmiarsi il dispiacere di vederil trionfo dei tristi, e cercare più frequenti le occasioni difare il bene.

Altrimenti la intese o volle intenderla quel Ramengoda Casale, adulatore di Luchino, che altra volta ci venneoccasione di nominare. Il quale, presentatosi al Visconti,pochi giorni dopo che Francesco Pusterla se ne fu anda-to per Verona, — Signore (gli disse), madonna Marghe-rita si o collocata a Mombello. Certamente ella cercò lasolitudine perchè ad alcuno piacesse di consolargliela.Non vorrà la serenità vostra onorarla di una sua visita?»

Il partito più destro che i cattivi signori traggono daicortigiani, è il farsi suggerire da loro il male, di cui giàavevano l’intenzione, e così scusarsi in alcun modo da-vanti alla propria coscienza. Luchino, dissimulatore deiproprj sentimenti, non mostrò fare caso di un suggeri-mento che tanto gli diede per lo genio: ma pochi giornidopo, ordinava una gran caccia clamorosa nei boschi diLimbiate.

Era la caccia passione dominante in Luchino, siccomenegli altri signori, che vi trovavano una imitazione ed unesercizio preparatorio della guerra. Immensa quantità diselvaggina si annidava pei frequenti boschi, moltiplican-dosi protetta dall’impunità, poichè le leggi, riservandoquesti animali al diletto dei principi o dei feudatarj, pu-

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nivano di gravissime pene il contadino che avesse arditoturbarli, non che ucciderli, quand’anche li vedesse cor-rere sopra i suoi campi e desolarli. Ma i patimenti diquesti, che importavano? non erano che vulgo: e il prin-cipe intanto si ricreava, e attorno a lui altri signori veni-vano in grossa comitiva, tutti, benchè da caccia, in abitieleganti. Imperocchè i nobili, scemate le occasioni di di-stinguersi dagli altri nelle magistrature e fra le armi, s’e-rano vôlti a gareggiare di vestiti e di lusso; e siccomeuno scrittore contemporaneo dice, cominciò la genteismisuratamente mutare, abiti sì di restimenta sì dellapersona: cominciò a fare li pizzi delli cappucci lunghi:cominciò a portare panni stretti alla catalana e collare,portare scarselle alle coreggie, e in capo portare cap-pelletti, sopra lo cappuccio. Poi portavano barbe gran-di e folte, come bene giannetti spagnuoli volessero se-guitare. Dinanzi a questo tempo, queste cose non eranoanco. Si radevano le persone la barba, e portavano ve-stimenta larghe e oneste; e se alcuna persona avesseportato barba, fora stato avuto in sospetto d’essereuomo di pessima ragione, salvo non fosse spagnuolo,ovvero uomo di penitenza. Ora è mutata condizione,idea, diletto. Portano cappelletto in capo per grandeautorità; folta barba a modo di eremitano; scarsella amodo di pellegrino. Vedi nuova divisanza! E che più è,chi non portasse cappelletto in capo, barba folta, scar-sella in cinta, non è tenuto covelle, o vero poco, o verocosa nulla. Grande capitana, è la barba. Chi porta bar-ba è temuto.

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Che se l’ingenuità, soverchia davvero, di questo nar-ratore non vi tediasse, vorrei lasciare ad esso il descri-vervi i costumi di Luchino, poco mutando delle sue pa-role. Facciamolo, e a chi non piace, salti al fondo.

Luchino visse in signoria anni nove in tanta pace egiustizia, che non si trovava un terreno che si crollasse.Con l’oro in mano gira l’uomo franco. Fu uomo severosenza alcuna pietà. Mai non perdonava. Secondo lopeccato, secondo la fallanza puniva. Questo messer Lu-chino, benchè guardie avesse d’uomini da piede e dacavallo a modo regale, niente di meno ebbe una spezia-le e nuova guardia con seco. La guardia sua erano duecani alani grandi e terribili, grossi come leoni, lanuticome pecore; gli occhi avevano rossi e terribili. Questidue cani alani sempre lo seguitavano per la corte, l’unodalla parte ritta, l’altro dalla parte manca. Quandomangiava solo stavano a tavola tuttavia con esso quat-tro grandi cani e della carne dava ora ad uno ora al-l’altro. Quando stava in piedi, la molto baronia gli fa-ceva intorno piazza con silenzio per temenza dei cani:nulla si crollava, nulla parlava. Che se per ventura losignore un poco guardasse alcuno con malo sguardo,subito li cani li erano sopra in canna, e davanlo per ter-ra. Anche questo messere Luchino fu uomo molto giu-sto, nè per oro nè per argento lasciava di fare giustizia,sicchè sua terra era franca. Molto amava lo popolo mi-nuto.

Quale amor di popolo e di giustizia fosse quel di Lu-chino, di Luchino che solo nei cani si fidava, il dica chi

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(come il Maj nei palimsesti) sa leggere altre parole sottoalle apparenti. È vero ch’egli favoriva lo popolo minuto,ma per deprimere i grandi, non già per sentimento delbene: son però queste le vie della Provvidenza, che fadai despoti stabilire l’eguaglianza in faccia ad un padro-ne, finchè vengano tempi che avverino l’eguaglianza infaccia alla legge.

Se l’annunzio del venire di Luchino conturbasse laMargherita, non occorre che io ve lo dica. Acconcia col-la leggiadria che ai campi si conviene, atteggiata d’ognigrazia ma pur maestosa, ella accolse la brigata allorchèsi dirizzò per riposarsi al suo palazzo: nella sala e nei ti-nelli avea fatto disporre lauti e delicati rinfreschi pei si-gnori e per la famiglia; goduti i quali fra l’allegria ed ifestosi motteggi, e fra le sguajate smancerie di Grillin-cervello, cui la dama opponeva un dignitoso silenzio,Luchino chiese di ammirare a parte a parte la bella postae la ben intesa eleganza del luogo. La signora il com-piacque, e dal poggio spaziandosi giù per la pendice,tutto mostrava a Luchino, mentre i suoi seguaci anima-vano quel quadro, spargendosi in gruppi ad ammirarequel cielo così salutevole alla vita, e le ridenti circostan-ze, ove in quella stagione ogni cosa appariva nel colmodella bellezza e della bontà.

Ma la dama traevasi continuamente a mano il suoVenturino; una grave damigella non le si dipartì mai dafianco; e dietro, alcuni famigli in aspetto di far onore al-l’ospite, il quale trovò appena agio di poter dirle alcunegalanterie, che essa mostrò accettare come nulla meglio

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che gentilezze universali e insignificanti. In sul partireadunque, Luchino, dopo aver levato a cielo la situazionegli adornamenti, — Ma per una solitudine (susurrò aMargherita) sarebbe bene che voi foste più sola».

Sperò il temerario averle fatto intendere l’animo suo;lo sperò tanto più, in quanto cortesissime gli erano parsele accoglienze della bella cugina; e la virtù conosciuta inquesta, non che rimoverlo dai turpi suoi divisamenti, piùve lo infervorava, per quel mendo umano d’impuntarsimaggiormente ove più difficoltà si affaccia. Nè manca-vano d’aggiungere legna al fuoco Ramengo e gli altricortigiani, esaltando i meriti della bella e gli atti cortesionde aveva accolto e onorato il principe parente. Unicoil buffone osava lanciare motti al signor suo, di cacciafallita, di non so che altre baje, le quali, mentre movea-no a riso Luchino, più ne istigavano l’amor proprio avoler ridurre ad effetto il suo capriccio.

Quella prima gita non era stata se non come la corre-ria che si fa sotto una piazza nemica, tanto per ricono-scere il luogo e le opportunità dell’accampamento e de-gli assalti. Non passarono molti giorni, e Luchino, conpoco seguito di fidati, ricomparve baldanzoso a Mom-bello. Ricomparve sgradito ma non inaspettato: chètroppo la donna erasi avveduta come e le lusinghe dellaparentela, e l’autorità del grado, e il bagliore delle ric-chezze dirigesse egli ad un iniquo fine. Era dunque cre-sciuto il pericolo, non per la virtù di Margherita, ma perla pace sua, la quale rimase turbata dal contrasto duratoin frenare e respingere le proposizioni dell’audace, dal-

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l’incertezza del fin dove egli spingerebbe altre volte lesue persecuzioni.

Mentre Luchino tornava quel giorno verso Milano,computando dentro di sè i progressi che potesse averfatti verso il fine delle sue voglie, e coll’allegria propriae col fragore della brigata cercando di lasciar indovinareun trionfo che sperava, che voleva agevolare col darlogià per ottenuto, Grillincervello gli disse: — Guarda,guarda, padrone! Colui là certo è un tuo debitore»; edaccennava un giovane che a cavallo veniva via a rottaper la strada, e che, come s’avvide del corteggio delprincipe, la diede attraverso i campi per iscansarlo.

Egli era quell’Alpinòlo che, se vi ricorda, abbiamo in-contrato nel primo capitolo, a fianco del Pusterla, e delquale, poichè avrà molta parte nel nostro racconto, con-viene che diciamo. Passava per un di quei tanti senzagenitori, cresciuti come una pianta in mezzo al deserto.

Ottorino Visconti, fratello della nostra Margherita(quel desso sulle cui avventure vi ha fatto piangere unamico mio) avea nel 1329 dall’imperatore Ludovico ilBavaro ottenuto in feudo Castelletto sul Ticino e le giu-risdizioni del Novarese, dominj restati poi nei Viscontid’Aragona, discendenti da quella famiglia. Per gratitudi-ne egli andò ad accompagnare quel sovrano a Pisa; e re-duce di là, varcato il Po non lontano da Cremona, gli ac-cadde di fermarsi ad un casolare sulla riva, in cui stavauna famigliuola di mugnaj, che nei barconi guidavano imobili loro mulini a cercare la più opportuna corrente, eche, quando ne capitassero, tragittavano i passeggieri.

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Quivi desiderando un tratto riposarsi, Ottorino chieseche alcuno dei fanciulli gli tenesse il cavallo, mentresbrucava un poco di erba sul pratello quivi innanzi. —Io no. — Neppur io» rispondevano dispettosetti, e scap-pavano volgendosi ad ora ad ora a guatar il cavaliero ela bestia con una meraviglia sospettosa. Ma uno di essi,che al corpo pareva di più età, ma in fatto contava appe-na sette anni, si fece innanzi baldanzoso, e — Che pau-re? a me». E preso alla briglia il palafreno, lo osservava,lo palpeggiava, godeva di porgergli l’erba di propriamano, di sentirsene il fiato sopra il volto, facendosi bel-lo di poter dominare un sì grosso e generoso animale;poi, con un sospiro, qual non sarebbesi atteso dalla ver-de età e dal contegno ingenuo e risoluto di lui, esclamò:

— Oh ne avessi uno io!»Ottorino, che compiacevasi al vedere quella vispa

franchezza, — Che ne faresti tu?» gli chiese.— Eh! so ben io che ne farei, io. Correrei per mari e

per terre a cercar di mio padre».— Ma il padre tuo non l’hai tu qui?» replicò Ottorino.— Oh! signor no!» rispose crollando il capo con me-

sta tenerezza il garzoncello. «M’hanno trovato su questerive; m’hanno portato in quella casa; m’hanno tiratosu... Ma... non aver i suoi! non poter mai dire come tuttigli altri, caro babbo!»

— E tua madre?»Si rimbambolarono gli occhi al fanciullo, e mentre

col dosso d’una mano li tergeva, tendendo il dito dell’al-tra proferì: — Eccola là»; e mostrava una croce sur un

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rialto, alla quale era appesa una fresca ghirlanda di mar-garitine e garofanetti.

Ne prese pietà Ottorino, e — Verresti tu meco?»— Se stesse a me! Ma recherei dispiacere a questa

povera gente... mi vogliono tanto bene!... Ma non ci homio padre!»

Quei mugnaj avevano di fatto messo un grande amorenel ragazzo: quando però il Visconti chiese glielo la-sciassero condur via, l’uomo rispose: — Oh signoria, laè troppo buona. Se lo porti pure. Tutta bontà di Vossi-gnoria».

Ma la Nena, moglie di lui, forse che avesse in astrattosentito parlare dei guaj del mondo e delle bisbeticheriedei signori, cagliava, e al garzone diceva: — Non badar-gli! rimani qui. Pane non te ne verrà meno se vorrai la-vorare: e sarai quieto e dabbene e timorato di Dio».

Maso invece (così chiamavasi il mugnajo), uomo cheaveva girato il mondo, cioè era andato a prendere granoe riportar farina sino a Cremona e a Casalmaggiore, eche davasi a intendere d’aver conosciuto gli uomini per-chè aveva conosciuto molti gastaldi e molti granaj, ledava sulla voce, e — Come? vorresti tu rubargli questafortuna? Non vedi? egli è un diavoletto. Gran salute,gran coraggio, grande appetito; ha tutte le condizioniper diventare un grand’omo. Lascia pure che sua signo-ria se lo conduca, e vedrai, farà passata. Già non è natomugnajo, nè il deve diventare».

Le ragioni del marito, come succede, prevalsero: laNena, sul congedarlo, mentre rassettava indosso quel

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po’ di cenci al fanciulletto che balzava tant’alto dallacontentezza, gli diceva: — Guardati dai pericoli, fuggile cattive compagnie, le donne e le bettole», come dico-no tutte le madri nel licenziar i figliuoli, Maso gli sog-giungeva: — Rispetta sua signoria e fa fortuna»: e Otto-rino si menò seco il ragazzetto.

Quest’era appunto il nostro Alpinòlo, e Ottorino de-stinava farsene uno scudiero; e intanto che venissero glianni, lasciarlo per paggio a Bice sua moglie. Ma ohimè!tornando in patria scoperse che Bice l’avea tradito, ederasi fuggita a viver male nel castello di Rosate conMarco Visconti suo cugino; il quale poi, sazio o inso-spettito, un giorno la trabalzò dalla finestra nella fossa,salvo a piangerla dirottamente dopo morta.

Ottorino ne patì come uomo di sentir generoso chevedesi ingannato da persona carissima; andò cercandodistrazione fra le imprese e nei viaggi, ed il cordoglio lotrasse a morte sul meglio del vivere: e nel 1336 fu se-polto in Sant’Eustorgio di Milano, presso suo padreUberto.

Lasciò egli raccomandato Alpinòlo specialmente allaMargherita, consolatrice sua in quel crepacuore; onde ilgarzone attaccassimo a lei, con essa passò nella casa Pu-sterla, ove serviva a Franciscòlo in uffizio di scudiere.Animo esuberante di affetto, non trovandosi al mondopersona su cui per naturale legame potesse rivolgerlo,tutto l’aveva diretto, dirò meglio, avventato sulla fami-glia in cui era aggrandito: e ne amava le persone e gliinteressi coll’impeto di una passione, qual poteva essere

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in un giovane che, non disciplinato da consigli di supe-riori, conservava in tutto il vergine loro vigore la foga,l’irriflessione, quell’estremo bisogno di sensazioni e difelicità, che sono pregio e difetto della giovinezza. Undesiderio, anzi una vera mania di libertà avevano ispira-to in esso i bollenti discorsi del suo giovane signore, e lecompagnie che in Milano frequentava di giovani acutialle novità, e di veterani memori delle franchigie antichee dispettosi della presente servitù. Si sarebbe detto che,al modo onde gli uomini sollevati da bassa fortuna s’in-gegnano di farla dimenticare, così egli volesse far di-menticare altrui, dimenticare egli stesso di non avere nèparenti nè patria di nascita, coll’amare oltre misuraquelli di adozione. Alla sua balda imperturbabile volon-tà non era sacrifizio che paresse grave per servire la re-pubblica milanese o i figli di Uberto Visconti e il Puster-la: mettere per essi la vita gli saria parso ben poca cosa.

Tali caratteri che, qualora si fissino sopra un’idea osopra una persona, hanno per nulla tutto il resto delmondo, scarsissimi s’incontrano nelle odierne società, ilcui attrito, come fa coi ciottoli il torrente, leviga e pa-reggia tutte le disuguaglianze della superficie. È unbene? è un male? Chiedete se è bene o male la polveredi cannone, la quale, ove saviamente si diriga, serve dipotenza e di difesa; sregolata, diviene micidiale.

Se a questo fare di violenza, mai non iscompagnatada generosità, accoppiate la freschezza dei diciassetteanni, una schiettezza ardita, eppure educata alquanto dalconversare coi signori, una melanconia su tutti i suoi

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sentimenti diffusa dall’ignorare i parenti suoi, compren-derete come dovesse venir caro ai Milanesi, gente pernatura d’ottimo sangue; nè dico solo agli umili, ma aquelli ancora di alto grado. La stessa incertezza dei nata-li, che il mondo, per una delle mille sue ingiustizie, suo-le ascrivere a colpa, o almeno guardare colla superbacompassione che tanto si avvicina all’insulto, non chenuocere ad Alpinòlo, il rendeva anzi più interessante achi lo conoscesse, per la smania perpetua ch’esso mo-strava di trovare, di ricuperar suo padre, di togliersi dalvolto questa, ch’egli chiamava infamia, del non averegenitori. Se volta avveniva che udisse narrare le angu-stie di qualche malarrivato, — Ma egli almeno ha padreo madre», esclamava. Qualora mirasse un fanciulletto amano o fra le braccia dei genitori, struggevasi di pietà,di desiderio. Quante fiate la Margherita il sorprese, checontemplando il suo Venturino e blandendolo con me-lanconiche carezze, frenava le lagrime a stento!

Come la Margherita fosse opportuna a ispirar amorein chiunque le si accostasse, già deve il lettore averlocompreso: e deve il lettore, per poca esperienza che ab-bia del mondo, avere osservato come coloro che pocohanno a lodarsi degli uomini, si volgano con entusiasmodi devozione alle donne, in cui trovano la compassione,il disinteresse, l’affettuosità, per così dire, che negli uo-mini rimangono o spente o soffocate dai calcoli dell’a-mor proprio e dal tumulto delle faccende.

Perciò sopra la Margherita aveva Alpinòlo concentra-to tutto l’affetto che dapprima portava ad Uberto e ad

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Ottorino estinti, e ad altri due fratelli di essa che alloracombattevano in Palestina; non affetto qual suole inten-dersi da uomo a donna; una specie di culto, tale da di-struggere tutti i computi della vanità, tutte le speranzedella passione: e considerandola come un punto lucentefra l’universale tenebria della società, non avrebbe tam-poco saputo pensarla capace d’azione men che generosae santa.

Se alcuno mai non ha versato lacrime sul seno di don-na rispettata, se mai non ha all’occhio di lei rivelato uncuore ferito e contristato, non indovinerà quali momentidoveano esser quelli, in cui Alpinòlo, sedendo vicinoalla signora sua, coll’affetto di un fratello, colla riveren-za di un vassallo, le apriva le proprie ambasce. Su que-ste gli uomini avrebbero sorriso sdegnosamente siccomedi una debolezza, di una fanciullaggine, di una esagera-zione di sentimento: ma in lei trovavano un eco, unasimpatia, ed alcune di quelle parole che bastano a torna-re per un pezzo il sereno a chi più era da nubi ottenebra-to.

Nell’anno precedente a quello in cui siamo col nostroracconto, i Visconti erano stati ad un pelo di perdere ildominio. Lodrisio Visconti, nipote di Matteo Magno,corrucciato di vedersi escluso dalla signoria, tentò farenovità, fidando sui molti scontenti, sulle promesse diqualche vicino, sul proprio ardire e sulla fortuna, e mos-se contro Azone una banda di mercenarj. Questa banda,composta di Tedeschi e guidata dal capitano Malerba, fuchiamata la Compagnia di San Giorgio, ed è la prima

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delle molte che poi resero il valore un mestiere, e che,terribili non meno agli amici che ai nemici, tempestaro-no per due secoli la già abbastanza afflitta patria nostra.

Contro l’istante pericolo presero le armi tutti i Mila-nesi, i quali, se non trovavano gran fatto a lodarsi deipresenti dominatori, avevano però abbastanza lumed’intelletto per non credere alle promesse di libertà, cheLodrisio voleva effettuare colla violenza; nè sperare cheun branco di masnadieri comprati venisse a raddrizzare itorti e rinsanichire la giustizia in un paese straniero. Nonavendo però saputo impedire che Lodrisio passassel’Adda a Rivolta, giungesse fin nel contado del Seprio,al cui dominio pretendeva, e si accampasse a Legnano, iMilanesi mossero ad incontrarlo colà con tremilacinque-cento cavalli, duemila balestrieri, quattordicimila fanti,ragguardevole esercito per sì piccolo Stato. Lo coman-dava Luchino, non ancora principe, il quale dispose l’a-vanguardia a Parabiago, a Nerviano il centro, la retro-guardia a Rho; ma sorpreso di gran mattino il 21 febbra-jo (era domenica, e nevicava a fiocchi) ebbe un tale tra-collo, che rimase egli medesimo prigioniero, e fu legatoad un albero finchè la giornata fosse decisa.

Lo vide in quest’arduo Alpinòlo, che dietro a France-sco Pusterla combatteva: e tosto recatone avviso ai ca-valieri più fidi d’arme, con essi rinfrescò la battaglia; eraddoppiando gli sforzi, giunsero a ricoverare il capita-no. Se non fosse stile della storia il non riferire mai chea persone illustri il merito delle illustri azioni, avrebbeessa confessato che la principale parte in quel fatto l’eb-

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be Alpinòlo, il quale, facendo meraviglie della sua per-sona, arrivò primo sino al Visconti, e tagliatone i lacci,rimessolo a cavallo, e cacciatagli in mano una mazzaferrata, tornò con esso a mostrare il volto ai nemici; iquali, al fine d’una giornata in cui cinque volte si rinte-grò la battaglia, andarono in piena rotta, lasciando pri-gioniero lo stesso Lodrisio, che stentò degli anni assai inun carcere a San Colombano.

È questa la battaglia di Parabiago, tanto celebrata fra iMilanesi, in cui si narrò che sant’Ambrogio comparissenell’aria con un poderoso staffile, percotendo quei mer-cenarj8; e in memoria della quale si fabbricò un insignetempio sul luogo dove Luchino fu liberato, con ordineche ogni anno, nel dì stesso, considerato come festivo, idodici signori della Provvisione vi tornassero in grandesolennità a far un’offerta in comune, per assistere ad unamessa speciale, nel cui prefazio si scagliavano impreca-

8 E in prose e in versi di quei tempi ci è serbato memoria del fatto.

Malerba ch’era nel corno destro, blasfemava sancto Ambroxio in soa lin-gua. — Maledetto quel camisone bianco che ha menazzato colla scutica! maila spata mia a potuto far colpo. — Queste parole di Malerba furono hodite datutti. Et siccome Dio, facto uno funicolo, caccioe quelli compravano nello tem-plo, così el spirito di sancto Ambroxio spartì loro barbari come se fosse trattoogni generatione di bombarde.

E Gaspare Visconti cantava, in bocca d’Antonio Visconti:A Parabiago, rotto il nostro campo

Era, e già preso il mio fratel Luchino,E la nemica schiera fea tal vampo,E ognuno di noi di morte era vicino,Visibilmente, in aria deste un lampoChe se po’ dir celeste, anzi divino,Col camisotto bianco et con la sferza,Che alcun non resse alla percossa terza.

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zioni contro quelle masnade: rito che seguitò fin quandosan Carlo Borromeo lo restrinse a una visita alla basilicaambrosiana in città.

Per allora grandi feste, grandi falò si fecero in Mila-no, e Azone con pomposo corteggio recatosi a Parabia-go, vestì cavalieri quelli che più si fossero nella batta-glia segnalati. Un araldo d’arme chiamava un dopo unoi prodi, coi nomi e i titoli della famiglia e dei genitori: enon trovandosi macchie, gli diceva: — Vieni, e t’accostaa ricevere il cingolo militare, di cui la patria e gli altricavalieri ti credono meritevole». In questa guisa furonoda esso araldo nominati ed esaminati Ambrogio Cotica,Protaso Caimi, Giovanni Scaccabarozzo milanesi, LucioVestarini lodigiano, Inviziato di Alessandria, LanzarottoAnguissola e Dondazio Malvicino della Fontana piacen-tini, Rainaldo degli Alessandri mantovano, Giovannoloda Monza, Sfolcada Melik tedesco: i quali un dietro al-l’altro si presentavano ad Azone, che ricevendone il li-gio omaggio, dava ad essi una leggiera gotata, presenta-va la spada, e ne circondava i lombi colla cintura cava-lieresca; mentre due altri cavalieri allacciavano ai lorotalloni gli sproni d’oro. Fu poi chiamato Giovanni delFiesco genovese, fratello della signora Isabella mogliedi Luchino, ma gli onori non poterono esser renduti cheal suo cadavere, là recato sopra ricca bara, accinto ditutte le armi come quando, ai fianchi del cognato com-battendo, era rimasto ucciso.

Ultimo si proclamò il nome di Alpinolo, ma quandofu chiesto chi fosse il padre suo e quale la schiatta, nes-

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suno potè renderne conto; egli stesso ammutolì confuso,come al rimembrare d’una vergogna; e non potendo pro-vare di non uscire di stirpe non infamata, non venne am-messo all’onore dei prodi. Se la cosa il pungesse nell’a-nima, consideratelo. Solo la tirannia più sozza e sconsi-gliata parevagli che potesse badare alla razza, anzichèalla personale virtù: paragonava sè a questo, a quello,singolarmente al Melik, tedesco prezzolato, e da quel-l’ora si fece più astioso contro i Visconti, più sempresmaniato di conoscer suo padre; e somigliante a certevergini involontarie dopo una serie di desiderj delusi,era divenuto irritabile, stizzito colla società, a dir suo,così mal regolata: e sempre più entusiasta per coloro chevi formavano eccezione, sempre più bisognoso di nuovisogni, di pericoli, di prove rinascenti.

I Milanesi davanti a quasi tutte le case nobili costu-mavano un porticale, dove poter accogliersi ad asolare,a discorrerla cogli amici, a carattarsi l’un l’altro, cosìportando la vita pubblica e comune d’allora, come il rin-chiudersi e isolarsi è portato in altri tempi dal non vivereciascuno che per sè, dal non far più che sè stesso centroe periferia di ogni azione. Di sessanta che erano questiluoghi di ritrovo, che chiamavano Coperti, ora appenasussiste quello dei Figini, fabbricato poco dopo in piaz-za del Duomo9.

Appunto sotto uno di questi Alpinolo, in sul mangia-re, barattava parole, col fuoco che egli in ogni cosa po-

9 Fu poi demolito nel 1864; come furono cambiati i nomi di molte vie edelle porte; gran segno di rigenerazione, e forse unico.

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neva, allorchè se gli avvicinò un tal Menclozzo Basabel-letta, umore satirico, beffardo, e caldo popolano, comequei tanti in cui lo sprezzo tiene luogo di libertà. Non sose per amore di bene, o per dispettosa invidia, o perpiaggiare la plebe, che anch’essa ha i suoi adulatori, sifaceva indagatore maligno, e sarcastico detrattore deinobili, dei ricchi, dei magistrati.

Salutato egli il giovane, e battendogli sulla spalla, —Oh! (gli disse) quella cima di tutte le donne, quella cop-pa d’oro di cui non rifini di contar miracoli, scusa assaibene la lontananza del marito col ricevere il magnificosignor Luchino. L’ho visto io più volte uscire verso lavilla di lei».

Chi avesse veduto Alpinolo inalberarsi nell’udire tras-sinato fra un pieno circolo quel nome a lui sacrosanto,l’avrebbe assomigliato a un basilisco che s’avventa a chigli trasse la pietra. Rosso come i bargigli d’un tacchino,divampante negli occhi. — Menti per la gola, sparlatorevillano!» urlò con irte le chiome; e cacciando a mano lasciabola, saltò senz’altro alla vita del petulante. I circo-stanti accorsi aiutarono questo a sottrarsi; poi con paro-le, e più a forza di braccia ritenendo Alpinolo, poteronoalfine quietarlo. Pure, giurando a gran voce vendetta, ri-petendolo bugiardo, stringendo le dita in pugno, pestan-do de’ piedi, digrignando i denti, corse in furia a casa iPusterla, e senza proferire parola, che tra quell’ira nonavrebbe potuto articolarne alcuna, si difilò alle scuderie,e gettata la briglia al primo cavallo che gli venne sottola mano, vi saltò su di netto e via a spron battuto.

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— Salva! salva!» esclamavano le madri nel vederlovenire di carriera, e si affaccendavano a levare di mezzoalla strada i bambini trescanti. Egli via, prestamenteebbe guadagnata la porta Comasina, situata poco oltre ilponte Vetere: e uscitone per la strada allora angusta e bi-storta, percoteva in fuga il corridore, quando, non essen-do molto lontano da Boisio, conobbe di lontano la com-pagnia di Luchino, che tornava di Mombello.

Augurossi di non avere occhi, tanto gli trafiggeva ilcuore quel trovar vero ciò ch’egli aveva al Menclozzocon tanta sicurezza disdetto. Più che mai fuori di sè, fig-gendo gli sproni nella pancia al cavallo, il precipitò difoga traverso ai frumenti spigati, evitando la brigata ab-borrita. Allora fu che lo notò Grillincervello, ma nonpotè intendere le imprecazioni, che non solo col pensie-ro, ma colla voce, ossia con un rantolo, con un gorgolìoinarticolato, slanciava contro di loro Alpinolo.

Siffatto, per viette non usate egli giunse a Mombello:in mezzo al cortile balzò dal cavallo, e senza por mentea questo, così come era polveroso e affiatato si presentòalla Margherita. Era la prima volta ch’e’ si permettessecon lei simile eccesso di famigliarità: ma era anche laprima volta che per lei concepisse altro sentimento chedi venerazione. Non appena però si vide incontro il soa-ve e sicuro aspetto di quella bellissima, ancora un nonso che turbato dalla visita ricevuta, a guisa d’un bel cie-lo sul cui zaffiro la passata bufera lasciò tuttavia qualchenuvoletta, ogni sdegno fu quieto in Alpinolo, ogni so-spetto dileguato: e come era stato subito a supporre il

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male, altrettanto subito rimproverava sè stesso acerba-mente d’aver potuto un istante dubitare di quell’angelo.Chinò dunque gli occhi, quasi indegno si credesse di fis-sarla; ma pure non potè lasciare di dirle: — Anche quaLuchino?»

La Margherita, colla dignità della virtù a cui nongiungono gl’insulti direttile, alzò il capo, e in tono didolce rimprovero esclamò: — Alpinolo! questa parolaavrebbe potuto venire da tutt’altri: ma da voi non l’avreimai temuta».

Ruppe in singhiozzi Alpinolo, e le si gettò ai piedichiedendole perdono: narrò il sospetto, intese la spiega-zione: e il conchiuso dei loro discorsi fu ch’egli subita-mente istruisse d’ogni cosa frà Buonvicino. Non erascorso il domani, che Buonvicino era venuto alla Mar-gherita, e persuasala a pigliare i passi innanzi, e ridarsisenza indugi alla città, come ella fece, tenendovisi igno-rata nel chiuso palazzo finchè ritornasse il marito.

Luchino pochi giorni tardò a rivenire all’assalto, pie-no di una contumace fidanza. Accostandosi a Mombel-lo, trova un silenzio perfetto: le finestre chiuse: nessunabandiera sulle torrette. Luchino comincia a sbuffare daldispetto, Grillincervello dalle risa: questo lancia il suosomaro, e poco poi torna indietro riferendo: — L’uscio èimprunato, domine, c’è la faccia di legno.» Sviano dun-que, e venuti alla corte rustica domandano al gastaldoche n’è della signora del luogo.

— È partita.— Quando?

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Domandano al gastaldo che n’è della signora ….

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— Jer da sera, eccellentissimo.— Per dove?— I fatti dei padroni io non li cerco, io.— Ma non aveva ella disposto per rimaner qua dei

giorni molti?— Anzi dei mesi, eccellentissimo.— Onde dunque l’improvvisa risoluzione?— I fatti dei padroni io non li cerco, io. Mio dovere è

obbedire, eccellentissimo».Troppo rincresceva a Luchino che altri dovesse accor-

gersi d’un torto fattogli, d’un mancatogli riguardo; sic-chè mostrò di pigliare la cosa in riso; e prese a celiarneegli stesso, a lasciar quasi intendere che ciò fosse un ac-cordo, un’intelligenza. Ma questa necessità del fingerene aizzava tanto più lo sdegno, e pieno di maltalento,giurava pigliar vendetta di quello che chiamava oltrag-gio. Legna al fuoco aggiungevano quinci i lazzi del bi-gherajo che non si rassegnava a comparire ingannato,quindi il vile cortigiano Ramengo, che, per sue ragionimalvolto verso la Pusterla, sapeva con arte fina esacer-bare contro di lei il principe, sperando addensare un tur-bine sul capo della innocente.

Nè la speranza scellerata gli fallì. Da quel punto l’a-more, dirò meglio, il voluttuoso capriccio di Luchino,attraversato, si converse in fiera collera: e con profondaatrocità si propose, così in generale, di perdere quellainfelice. Occasioni di nuocere a un nemico non vengonoscarse al potente, e pur troppo gliene offrono talora le

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stesse vittime designate, talora gli amici di quelle. Fu ilcaso.

Alpinolo, coll’impeto sconsigliato a lui naturale nonsi limitò ad adempiere la commissione di Margherita: laquale anzi gli aveva ingiunto di risparmiare a suo maritola cognizione d’un oltraggio, per resistere al quale ellasentiva abbastanza forte sè stessa, non abbastanza fortelo sposo per accoglierlo come uom deve, o per legitti-mamente punirlo. Ma se a lei la prudenza insegnava arivelare il men che si può de’ guai irremediabili, Alpino-lo era invece persuaso che il mostrare le piaghe equival-ga a rimediarvi. Non appena dunque ebbe inviato fràBuonvicino alla signora, senza farne motto ad alcunotornò fuori di città, e tirò per la più breve a Verona.

Senza dar riposo mai al suo corpo, senza distinguereil fitto meriggio dalla notte più fonda, stancando la ca-valcatura, non l’indomito suo corpo, scorreva paesi epaesi, ma ancora più a furia trasvolava il pensiero, in undelirio di fantasie, vie più incitato dalle memorie deiluoghi per cui traversava.

In Crescenzago era morto Matteo Visconti: — An-ch’essi questi grandi, questi prepotenti finiscono comel’ultimo della plebe. Oh se anche adesso il papa volesseparlar alto, e quando uno si fa tiranno, negargli le conso-lazioni della religione, la comunione coi fratelli!» AGorgonzola il re Enzo era caduto prigione dei prodiLombardi: — Ora vanno essi a prigione dei principi».Al ponte di Cassano i Milanesi avevano respinto Federi-co Barbarossa; una lega benedetta dalla croce, v’avea

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fiaccato l’orgoglio di Ezelino...; Treviglio stava liberoancora; — Possa conservarsi!»

Così al forte di Caravaggio, così a quelli di Mozzani-ca e d’Antignate erano accoppiate ricordanze, vive per-chè recenti, perchè ripetute dai padri ai figliuoli.

Scorrendo il territorio bergamasco, Alpinolo si ricor-dava di quando v’accorreano d’ogni parte gl’inviati del-la città, per giurare a Pontida la reciproca difesa. Bresciagli tornava a mente i figliuoli, attaccati dal Barbarossainnanzi alle macchine murali, e nullostante percossi daigenitori, affinchè la pietà paterna non guastasse la patrialibertà. Il lago di Garda, le rôcche di Lonato, del Sirmio-ne, di Peschiera, di Castelnuovo per cui passò, le tantealtre onde vedeva irte le alture, gl’inspiravano un fierocoraggio, un orgoglioso dispetto, paragonando il passatocol presente; vedendo tutto oro in quello, in questo tuttofango e sozzura.

Alle mura dei borghi e delle città, ai palazzi del Co-mune, ai tempj, ai canali che crearono la fertilità d’inte-re provincie, egli domandava: — Chi vi ha compiti?» etutti pareangli rendere una sola risposta: — La libertà.Ma ora (soggiungeva nella infervorata fantasia) perchènon altrettanto? perchè le braccia non basterebbero adabbattere questi tirannetti che minacciano tremando? erender alla patria le franchigie e il primitivosplendore?.... Perchè siamo divisi».

Al mezzo del seguente giorno pervenne a Verona,dove, per usar una frase diplomatica, regnava l’ordinesotto la tirannia dei signori della Scala. Capo della fa-

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zione guelfa in Italia era di quei tempi Roberto re di Na-poli, della ghibellina gli Scaligeri e i Visconti. I Guelfi(e chi nol sa?) teneano col papa, i Ghibellini coll’impe-ratore, secondo credevano che l’un o l’altro potesse me-glio giovare alla patria ed alla libertà. Ma poi e papa eimperatore erano stati messi da banda: il primo riseden-do in Avignone, allontanava la speranza di proteggerel’Italia o forse d’unirla in un solo dominio: gli altri, sen-za nè forza, nè denari, nè opinione, solo si reggevano inquanto erano sostenuti dai diversi principotti; onde, con-servando pure gli antichi titoli di fazione, e Guelfi eGhibellini non miravano che a crescere in dominazione.

Estendere la loro su tutta Italia era l’intento sì dei rea-li di Napoli, sì dei signori di Milano e di Verona: ma ap-punto per ciò si contrastavano gli uni gli altri; di modoche la politica, la quale, nei due secoli precedenti, avevaoperato a passioni ed entusiasmo, in questo era ridotto acalcolo e ponderazioni; e gl’Italiani avevano inventataquella bilancia di poteri, che divenne poi norma univer-sale in Europa, e fu non poche volte sostituita al diritto ealla giustizia.

Lunghi e fieri contrasti avevano tolto il re Robertodalla speranza di signoreggiare tutta Italia; ora a ciòavevano l’occhio Mastin della Scala, e Luchino Viscon-ti. Era Mastino succeduto a Cane suo zio, quel granlombardo, la cui cortesia fu il primo rifugio e il primoostello dell’esule Allighieri: e nessuna delle virtù, matutti i talenti n’aveva ereditato e l’ambizione: comanda-va a nove città, state capitali d’altrettante repubblichette,

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e ne traeva in gabelle settecentomila fiorini d’oro; potèmandare a spedizioni lontane fin quattromila cavalli; echiesto dai Fiorentini di vender Lucca per trecensessan-tamila zecchini, rispose non aver bisogno di quelle mi-serie.

Conveniente a tanta ricchezza era lo splendore di suaCorte, ove dava anche magnifico ricetto agli uomini il-lustri, costretti ad esulare dalla patria, assegnando a cia-scuno agiati appartamenti, con dipinture allusive al lorostato e grado; e sino a ventitrè signori vi si trovaronoraccolti una volta, i quali avevano tenuta, e per varieguise perduta la dominazione di qualche città.

Non è qui il luogo di descrivere le arti, per cui andavaacquistando preponderanza sull’Italia, del cui dominioerasi lusingato a segno, che fece preparare un diadematutto gioje per coronarsene re. Ma una lega degli altriprincipi, istigata dalla gelosia dei Visconti, gli ruppe ildisegno; del che egli voleva il maggior male ai signoridi Milano, e non cessava di scalzarne l’autorità. La mos-sa mal riuscita di Lodrisio fu tutta maneggio di Mastino:ma fallita quella, perduta anche Padova, conobbe chenon era il caso di usare la forza aperta; e voltosi agliscaltrimenti, propose patti. Per conchiudere questi erastato da Luchino, siccome vedemmo, prescelto il Puster-la, sì per allontanarlo dalla moglie, sì ancora perchè, co-noscendo come costui non gli fosse troppo affezionato,si persuadeva condurrebbe la cosa tanto tiepidamente,da non istringer un nodo al quale nè egli era inclinato da

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vero, nè vi credeva inclinato lo Scaligero, di cui anzisempre nuove macchinazioni gli venivano all’orecchio.

Che se Mastino cercava pace, v’era stato indotto an-che dalla scomunica lanciatagli dal papa, perchè, il 27agosto 1338, esso e Alboino fratel suo aveano per le viedi Verona, scannato il vescovo Bartolomeo della Scala,per astio privato, dando poi voce ch’egli tenesse intelli-genza coi Veneziani e i Fiorentini per consegnare in manloro Verona, ed ammazzare i due signori. Della scomu-nica ei si risero da principio; ma quando videro le lorocose andar a fascio, pensarono davvero a torsela di dos-so col sottoporsi a pubblica penitenza.

Grave penitenza, giacchè richiedeva che, per quarantagiorni, portassero dì e notte il cilizio, andassero scalzi ecol cappuccio sugli occhi; giacessero sul pavimento;non lavarsi, non radersi, non tagliare l’unghie, non con-versare, non accostarsi alla moglie, sedere per terra; suldesco ignudo non mangiare, nè carni, nè uva, nè cacio,nè pesci; puro pane e acqua tre giorni la settimana; le-varsi al tocco del mattutino, assistere agli uffici fuor dichiesa, oltre recitare certe orazioni. Però non appenaessi impetrarono perdono, la penitenza fu mitigata; e ildì che Alpinolo vi giunse fu appunto quello in cui essiScaligeri facevano l’ammenda imposta. In camicia, acapo nudo, esso l’incontrò fuori la porta di Verona, don-de fino alla cattedrale andarono con in mano un doppie-re acceso, di sei libbre, e facendone portare innanzi a sèaltri cento somiglianti. Venuti poi alla chiesa (era dome-nica e tempo di messa solenne) offersero quei ceri, chie-

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sero perdono ai canonici, e furono ribenedetti. In ag-giunta dovevano, entro sei mesi, offrir a quella chiesaun’immagine di nostra Donna d’argento e dieci lampa-de, con una rendita bastante a tenerle accese: e istituirvisei cappellanie con venti fiorini d’entrata ciascuna.L’anniversario dell’uccisione del prelato, ciascuno deidue peccatori dovea nodrire e vestire ventiquattro pove-ri: digiunare tutti i venerdì: se mai si facesse il passag-gio in Terrasanta, mandarvi venti cavalieri, mantenutiper un anno. Il papa di rimpatto, oltre assolverli, li no-minava vicarj, essendo vacante l’impero, contro un an-nuo tributo di cinquemila fiorini.

Acconciatosi anche col pontefice, tanto meno si senti-va Mastino la voglia di accettare i gravi patti propostidal Visconte. Era dunque mancato il principale oggettodell’ambasceria del Pusterla, sebbene riuscisse in unacommissione segretamente affidatagli da Luchino; edera di ottenere che lo Scaligero non lasciasse più usciredai suoi Stati Matteo Visconte, fratello di Barnabò e diGaleazzo, inviato anch’esso in aspetto di ambasciatore,ma in fatto perchè a Milano egli dava ombra allo zio.

Fino a servire alle segrete intenzioni ed ai sottofini diLuchino erasi lasciato indurre il Pusterla dall’ambizio-ne, dal piacere di piacer al padrone. Ora pensate qualdovesse egli rimanere allorquando Alpinolo, colle vivetinte somministrategli da un’esagerata immaginazione, asbalzi, a scosse gli espose gli osceni tentativi di Luchi-no. Nessun maggiore dispetto che sperimentare ingratocolui, per cui vantaggio siasi commesso un’ingiustizia,

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un peccato. Lo provava Franciscolo, il quale esacerbatocontro Luchino quanto dianzi trovavasi a lui ben vôlto,scoprendo essere un nuovo oltraggio quello ch’esso ave-va accettato per una riparazione degli oltraggi antichi,risolse senza più di abbandonare il suo posto e tornarealla città, pieno di truci pensieri, e della speranza nonsolo di ovviare lo scorno, ma di potersene vendicare.

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CAPITOLO V.LA CONGIURA.

— Buon Gesù, che foste anche voi pargoletto, e sind’allora cominciaste a soffrire, e crescevate in età e sa-pienza, soggetto ai vostri genitori, ed acquistando graziapresso Dio e presso gli uomini, deh vogliate custodire lamia fanciullezza, fare che io non contamini l’innocenza;e che le opere mie, conformi al voler vostro, promettanobene di me ai parenti ed ai cittadini miei.

— Buon Gesù, che tanto bene voleste ai vostri genito-ri, vi sieno raccomandati i miei; benediteli, date loro pa-zienza nei travagli, forza nell’obbedienza, e la consola-zione di veder crescere me quale essi desiderano nel ti-mor vostro.

— Buon Gesù, che amaste la patria sebbene ingrata, epiangeste prevedendo i mali che le sovrastavano, guar-date pietoso alla mia; sollevatene i mali; convertite colo-ro che colle frodi o colla forza la contristano; alimenta-tele la fiducia del bene, e fate che io possa divenire ungiorno cittadino probo, onorevole, operoso».

Così faceva ripetere la Margherita al suo Venturino,che le stava inginocchiato davanti, tenendogli le maninegiunte fra le sue mani. Una madre che insegna pregareal suo figlioletto, è l’imagine più sublime insieme ed af-

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fettuosa che possa figurarsi. Allora la donna, elevata so-pra le cose terrene, somiglia agli angeli che, compagnidella vita, suggeriscono il bene e ritraggono dal peccato.Al bambino poi, coll’idea della madre, si stampa in cuo-re la preghiera ch’essa gl’insegnò, l’invocazione al Pa-dre che è nei cieli.

Giovinetto, allorchè le lusinghe del mondo voglionoavvoltolarlo nelle voluttà, esso trova il coraggio di resi-stere, invocando quel Padre che è nei cieli.

Va tra gli uomini; scontra, la frode sotto al velo dellalealtà, illusa la virtù, beffeggiata la generosità, caldi ne-mici e tepidi amici; freme e maledirebbe l’umana razza,ma si ricorda di quel Padre che è nei cieli.

Se, mai il mondo lo vince, se l’egoismo, la viltà ger-mogliano nell’animo suo, vive però in fondo al suo cuo-re una voce amorevolmente austera, come quella dellamadre allorchè gl’insegnava la preghiera a quel Padreche è nei cieli.

Così traversa la vita, poi sul letto dell’agonia, desertodagli uomini, non accompagnato che dalle opere sue,volge ancora il pensiero ai giovanili suoi giorni, a suamadre, e muore con una fiducia serena in quel Padre cheè nei cieli.

E questa preghiera faceva ripetere la Margherita aldevoto pargoletto: indi, spogliatolo ella stessa colle pie-tose cure che alle madri vere non sono un peso ma lasoavissima delle dolcezze, lo coricava, il baciava, e col-l’effusione della materna compiacenza, gli esclamavasopra, — Tu sarai buono!»

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Non appena giù. Venturino aveva chiuse le pupille aquel caro sonno della fanciullezza, che in braccio agliangeli si addormenta senza un pensiero, senza un pen-siero si desta.... Beati giorni! i più belli nella vita: — enon sono avvertiti.

Margherita contemplava l’accelerato anelito del bam-bino: il vivido incarnato, che il sonno gli diffondeva sul-le guance, la invitò a baciarlo, e le brillava in volto quel-l’ineffabile contentezza, che non sa se non chi rimaseassorto nell’osservare chiusi due occhi, che devono sor-ridergli amorevoli allo svegliarsi.

Staccatasi da lui, la Margherita si fece nella sala dovestavano quella sera accolti gli amici più fidati della casa,venuti a salutare il tornato Francesco. La gioja del rive-derlo avea nella donna compensato i dispiaceri cagiona-tile, dalla sua lontananza; e fatta come era per sentire ledolcezze domestiche, le pareva che, al rivedersi dopoqualche tempo di assenza, dopo un pericolo, nulla do-vesse piacer meglio al marito che starsene quieto collamoglie, col figlioletto, tre vite in una. Ma altri pensieribollivano nell’anima di lui, e tutto il dì non sapeva cheragionar di vendette, e macchinarne.

A Verona non aveva dissimulato a Mastino l’oltraggionuovo e l’antico rancore: del che profittando pei finisuoi, lo Scaligero il rinfocò, e gli promise che, qualun-que risoluzione prendesse, non gli verrebbe egli meno diassistenza e protezione. A Matteo Visconti, per quel chemostrarono poi i dissolutissimi suoi portamenti, non do-vevano fare schifo le scostumatezze dello zio: ma volen-

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teroso di sommovere lo stagno per pescarvi, egli ag-giunse nuovo ardore alla stizza del Pusterla, e gli diedelettere per Galeazzo e Barnabò suoi fratelli, dove gliesortava a ricordare chi erano, e profittare dell’occasio-ne per finirla una volta di rimanere schiavi, com’egli siesprimeva, ad un prete e ad un manigoldo.

Tornato il Pusterla a Milano nascostamente, nè labandiera sulla torre annunziò la venuta sua, nè la solitascolta d’uomini d’arme vegliava alla porta. Ma poichètutto il giorno ebbe tempestato là entro, senza che ladonna sua valesse a mitigarlo, abituato alla vita clamo-rosa, ai circoli, alla discussione, bisognoso di semprenuove e forti emozioni, neppur quella prima sera egliseppe rimanersi tranquillo in famiglia: ma d’ordine suo,Alpinolo aveva recato l’avviso di sua venuta agli amicicoi quali più si confidava, e questi la sera, un dietro l’al-tro, per una portella segreta verso la via segreta dei Piat-ti entravano a ritrovarlo e consolarlo.

L’esteriore del palazzo era muto, oscuro, talchè si sa-rebbe detto disabitato. Ma non appena Franzino Malcol-zato, tristo arnese e fido portiere, aveva fatto passare gliamici dalla corte rustica in una seconda, venivano accol-ti da valletti eleganti in vesti aggheronate a giallo enero, i quali, reggendo torcetti di cera, gl’introducevanoad una vasta sala terrena isolata nel mezzo dell’edifizio,e attorniata dal giardino. Arazzerie storiate coprivano lepareti; qui e qua scansie, con suvvi vasi e piatti di majo-lica a rilievo di frutte colorate, e due ampj finestroni,aperti a ciascun lato e incortinati di zendali a partite di

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vaghissimi colori, davano accesso all’aria della sera,temperando graziosamente la caldura del giugno. Quivientro, chi attorno a Franciscolo, chi seduti sui capaciscanni di velluto, chi presso ad una tavola, su cui aveva-no gettato alla rinfusa guanti, mantelli, spade, berretti,discorrevano, narravano, chiedevano, udivano. Si di-scernevano dagli altri il bollente Zurione, fratello delPusterla, il moderato Maffino da Besozzo, Calzino Tor-niello da Novara, Borolo da Castelletto ed altri arrabbia-ti ghibellini, cui ora veniva lezzo d’un principe che, peropera loro stabilito, non mostrava di averli in quel contoche s’erano ripromesso.

Ultimi arrivarono i fratelli Pinalla e Martino Alipran-di, d’origine monzesi; il primo gran mastro di guerra,l’altro rinomato giurisperito. Avevano acquistato la gra-zia del signor Azone coll’aprirgli, nel 1329, Monza, chepoi Martino, essendone podestà, cinse di mura; Pinallala difese contro l’imperatore Lodovico il Bavaro, indi acapo dell’esercito visconteo, campò Bergamo dal re diBoemia; per le quali prodezze, la pasqua del 1338, erastato in Sant’Ambrogio, armato cavaliere insieme colnostro Pusterla. In tal occasione fu a spese di questoaperta una corte bandita, e giuochi d’arme e solennitàcosì sontuose, che a memoria d’uomo le maggiori nons’erano vedute. Ma da quell’auge era Pinalla scaduto al-lorchè, nell’invasione di Lodrisio, posto a difenderel’Adda a Rivolta, si vide dalle sue truppe vilmente ab-bandonato, e costretto a fuggire. Una nuova guerra, incui vendicarsi della noncuranza di Luchino, od almeno

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con audaci imprese e ben riuscite, cancellare quell’onta,era il suo più vivo anelito.

Tra gente così fatta e in una simile occasione (ben velo potete figurare) tutt’altro che pacati avevano ad esse-re i ragionamenti, dove l’idea degli oltraggi che ciascu-no aveva ricevuti in privato, dava risalto ai pubbliciguaj. Uscivano dunque in propositi esagerati e violenticontro i dominatori del loro paese, tanto più franchi,quanto più sapevano fedele il circolo tra cui versavano.— Oh sì!» esclamava Franciscolo, allora appunto che laMargherita, coricato il suo bambino, entrava nella sala.— Cotesti vecchi ci van ricantando i mali del tempo del-la nostra libertà; ogni tratto battagliamenti; un continuodoversi esercitare alle armi tutti, sino i fanciulli: poi adun tratto suona la martinella; traggono fuori il carroccio,e ognuno, voglia o non voglia, dee vestirsi di ferro, la-sciare gli agi di sua casa, i guadagni del mestiere, corre-re negli aspri perigli della zuffa, o negli oscuri dell’ag-guato; poi ogni altro giorno rivolte cittadinesche, esigli,diroccamenti, uccisioni... Oh se avessimo un capo checon mano vigorosa ci frenasse! — Così la discorrevanocotesti timidi, a cui natura negò sangue generoso o l’etàlo intepidì».

E Zurione interrompendolo: — Codesto è amor di pa-tria! Or mangino di quello che si son preparato. La li-bertà finì, non finirono le guerre: morti, esigli abbonda-no, e non più pel bene della patria, ma per sodare costo-ro nel dominio, per ribadirci da noi le proprie catene.Allora le guerre le volevamo noi stessi, noi stessi le de-

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cretavamo: era il bollore di un momento, poi si racque-tava, e i frutti maturavano a favor di tutti o dei più. Oraegli solo le comanda a suo talento, per particolari inte-ressi, e noi bisogna farle: nostra la fatica e sua lagloria».

— Dite bene» esclamava Alpinolo: «Sua la gloria. Achi toccò il merito della vittoria di Parabiago? chi nemenò trionfo? chi ne profittò? Han detto: Luchino è va-loroso, dunque esaltiamolo signore. — Sì, ma se nonfossimo stati noi...

— Oh perchè (ripigliava Zurione) perchè lo ricovera-sti tu dalla forca a Parabiago?

— Sarebbe stato certo il migliore a lasciarvelo (entra-va a dire il dottore Aliprando): che non si vedrebberooggi i privilegi dei nobili calpestati, non messi a fascio iGhibellini coi più marci Guelfi: non aggravati di tributoi gran signori come gl’infimi della plebe, non trascuratochi fu...

— E noi si tace!» saltava su Alpinolo con occhi di-vampanti, e battendo la palma sulla tavola. «Perchè nonpossiamo vendicarci? Che? non v’ha più spade? nonhanno più nervi le braccia lombarde? Basta voler essereliberi e saremo».

Ed alzava uno sguardo alla Margherita, quasi per cer-carle in viso l’approvazione. Margherita era stata dallaprima fanciullezza abituata a udire in sua casa discuteredelle pubbliche cose; onde erasi formato un modo pro-prio di vederle, di apprezzarle; e, rispetto a quei tempi ditanto vivere a comune, il suo favellare di politica non

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riusciva punto ridicolo, com’è in altre stagioni l’udireuna donna decidere su quistioni, davanti a cui stannodubbj gli uomini più saputi: decidere secondo le impres-sioni del momento, secondo le massime di chi più le av-vicina. L’educazione datale dal padre suo le insegnava adiscernere la ragione dalle esagerazioni di quegli infu-riati, i torti veri dai pregiudizj della passione. Non po-tendo però nè calmare l’impeto di loro, nè insinuare i ra-gionamenti suoi, tenevasi in disparte, e attaccò discorsocol dottore Aliprando.

Questo, come uom di lettere che egli era, andava fa-stoso d’avere ottenuto pel primo in Milano i Rimedj del-l’una e dell’altra fortuna, dati fuori allor allora dal Pe-trarca, e si era fatto premura di recarli quella sera allaMargherita, sapendola amante delle belle novità. Essainterrogando, come si fa, il parere di lui, sfogliava il li-briccino, fissando così di corsa gli occhi su questa o suquella carta; allorchè colla bella mano chiedendo untratto silenzio, in voce soave, al cui suono tutti si tac-quero attenti, come se nel baccano d’una taverna siascolti all’improvviso una dolce melodia di flauto, cosìfavellò: — Udite come ben discorre il libro che qui ildottore mi favorì. Li cittadini guardarono come ruina dinessuno quella ch’era ruina di tutti; onde conviene conpietà e paura cercare di placar gli animi; se non faiprofitto presso gli uomini, pregar Dio pel ravvedimentodei cittadini.10

10 De remediis utriusque fortunæ, 1, 85.

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Intese l’indiretta risposta Alpinolo, e — Se ai cittadinimanca l’impeto di una concorde volontà, un solo uomoche può fare? che non può il coltello d’un risoluto?...»

Allora l’Aliprando recatosi in mano il libricciuolo,soggiungeva: — Madonna è come l’ape: non liba daifiori che il miele. Pure l’ape anch’essa ha il suo pungi-glione per chi la offende; e volete udire quel che il divi-no poeta parli altrove? Avete (così leggeva dal libro stes-so) avete il signore, a quella guisa che la scabbia avetee la tosse. Idee contraddicenti buono e padrone. Chia-mar buono un signore è dir una lusinghiera bugia e ma-nifesta adulazione. Pessimo egli è, da che toglie a’ suoiconcittadini la libertà, che è il massimo dei beni quag-giù, e per empier la voragine d’un solo insaziabile, ri-mira a occhi asciutti migliaja di soffrenti. Sia affabile,sia piacevole, sia largo in donare a pochi, le spoglie dimolti: arti dei tiranni che il vulgo chiama signori e liprova manigoldi.

— Bene! Bravo! Ben pensato! ottimamenteespresso!» scoppiava d’ogni parte fra i congregati. E ildottore contento di quell’applauso come se fosse dato alui proprio, seguitava:

— Or attendete al più bello: Come laceri li tuoi fra-telli, coi quali hai passato insieme la puerizia e l’adole-scenza, coi quali usaste il medesimo cielo, i medesimisagrifizj, i medesimi giochi, le medesime gioje, i mede-simi pianti? Or con che faccia vivi laddove sai che latua vita è odiata da tutti e la tua morte a tutti desidero-

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sa?11. Che ne dite? Vi par egli ravvisar questo ritratto?non è scritto apposta per...

— Per Luchino: chi ne dubita? è tutto lui», ripigliava-no a più insieme, e l’uno commentava, l’altro voleva ve-dere coi proprj occhi le parole sacrosante del grande Ita-liano, dell’Italiano veramente libero, com’essi chiama-vano il Petrarca, senza far caso che egli allora stessecorteggiando i prelati ad Avignone, che lambisse Luchi-no, e che, misurando la bontà dei principi dalla liberali-tà, chiamasse il vescovo Giovanni il più grand’uomod’Italia12; adulazione di cui doveva poi rimproverarlo unaltro illustre di quei tempi, Giovanni Boccaccio, rinfac-ciandogli di vivere stretto in amicizia col maggiore epessimo dei tiranni d’Italia, in Corte piena di strepito ecorruzione, come era la viscontea13.

La Margherita, dolce per naturale e pei prudenti con-sigli paterni, frapponeva qualche parola per disapprova-re gli esagerati spedienti, e mostrava come il lamentarsia tal modo di un cattivo reggimento non faccia che peg-giorare quello, ed invelenire i soffrenti: dover piuttosto,chi lo può, procurare legittimamente di mitigarlo, nonmai attizzare fra gli oppressi un’ira impotente: in casodiverso, altro non restare che o soffrire in pace o mutaredi cielo. — Mio padre (soggiungeva essa) l’ho intesopiù volte replicare: Ai novatori la pazienza. Nessuna ri-

11 De remediis, ecc., 1, 95.12 Vedi i versi latini e l’epistola familiare XVI, 11, 12.13 Epistola del 1335, pubblicata poco fa a Padova. Non inveni in mundo

populum adeo facilem ad conversionem et subversionem, sieut populum me-diolanensem.

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forma può attecchire se non sia radicata nel popolo. Equesto popolo non è come amano figurarselo diversi, nètutto oro, nè tutto feccia. Costretto sempre alla fatica,non si abbandona gran fatto ai sentimenti, e piuttostocalcola i vantaggi immediati. Non ridetevi dei pareri diuna donnicciuola. Io ve li do sull’esperienza di mio pa-dre, il quale aveva anche in bocca questo proverbio: Ilpopolo è simile a san Tommaso: vuol vedere e toccare.Ma voi, come? voi parlate di libertà, e non interrogate ilvolere del popolo: di virtù, e pensate cominciare dall’as-sassinio?»

— No, no: dite bene», la sosteneva Maffino Besozzo.«Non a sì estremi partiti si vuol ricorrere. Uccidere untiranno cos’è mai! domani la plebe se ne fa un altro. Èun direzzolare, e non ispegnere il ragno. Miglior via co-noscevano i padri nostri. La religione stabilì in terrauno, maggiore dei re, perpetuo custode della giustizia,tutela al debole contro del prepotente. Quando in lui siaveva fiducia e a lui si ricorreva, l’innocenza trovavaascolto e la spada dei tiranni perdeva il filo contro almanto dei papi che copriva l’umanità. Vi ricordi un im-peratore, che scalzo domanda a Gregorio VII perdonodelle ingiustizie commesse. Quando il Barbarossa vole-va soffocare la libertà lombarda, chi si fe’ capo della no-stra lega? chi impedì che Italia cadesse tutta sotto alla ti-rannide sveva? chi represse l’immanissimo tiranno Eze-lino? Oggi noi diffidiamo della potenza inerme, rimet-tendoci più volentieri a quella delle spade. Eccovi i frut-ti».

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— Uh! il guelfo ipocrita! — il papista! — il frate!»pronunziavano tra sè gli altri: ma ragioni da opporre aquei fatti non suggerivano facilmente, e perciò rifuggi-vano nel sofisma. E il Pusterla ripigliava: — Il papa!che sperare da lui? Ligio alla Francia, vuol farsi un re-gno in terra, nè più nè meno di tutti costoro. Scamponon v’è proprio che nel popolo».

— E il popolo (l’interrompeva Martin Aliprando) ilpopolo non siamo noi? non è generalmente sentita lagravezza della dominazione dei Visconti? Perchè dun-que non dovrà ogni buon cittadino avvisare al megliodella patria? Chi sono costoro? donde hanno il potere?donde se non dal popolo? e il popolo che gli elesse puòritirare da loro l’autorità che ha dato. Questo popoloperò o guaisce oppresso, o tace spauroso. Per farne chia-ro il voto, unico mezzo è la sommossa.

— E le armi?» soggiungeva Pinalla.— Lo Stato (riprendeva Franciscolo) è cinto da po-

tenti, o gelosi, od invidi della grandezza di Luchino.Qual più facile cosa che intendersi con loro? A Veronaho veduto quanto basti. Altro che sollecitare l’amiciziadi costui! Lo Scaligero non vede quell’ora di mostrarglii denti. E il fatto stesso di Lodrisio attestò che a spegne-re il biscione bastava una banda raccogliticcia. Che sa-rebbe se fosse un capo creduto dal popolo?

— Lodrisio stesso non si potrebbe trarre dalla sua pri-gione di San Colombano?» addimandava Zurione.

Ma Pinalla in tono di dispetto: — O che? non c’è altriche sappia reggere la spada quanto e meglio di lui?»

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— Non c’è (soggiungeva Borolo) altri capi di migliornome? Bernabò e Galeazzo son pure in urto collo zio:alzerebbero tosto la bandiera se fossero certi di trovareseguaci.

— A proposito, che conto si può fare su costoro?»chiedeva il Pusterla, mezzo indispettito dal non sentireproposto sè stesso. — Io tengo per essi lettere del lorofratello Matteo: ma non so per quanto spenderli.

— Spiriti liberi son essi, innamorati del pubblicobene e della libertà», gridava Alpinolo, facile a supporrein altrui i sensi suoi proprj. Ma il Besozzo, più esperto epenetrante, replicava: — Della libertà? Aspettiamo adirlo quando sederanno in potere. Vedete quando altriassedia una città? è tutto cura a demolirne le difese,aprir la breccia, diroccare le mura. Fate che se ne impa-dronisca; ogni suo studio sarà di rinfrancare i bastioni,raccomodare, saldar le muraglie. Così costoro che aspi-rano alla potenza.

— E per questo (aggiungeva Ottorino Borro) Luchinogli ha in uggia. Bernabò per altro fa il sornione, e si mo-stra con noi voglioso di libertà, con lui spensierato deldominare. Il bel Galeazzino poi se la passa pompeggian-do in comparse, e dividendo con Luchino il talamo giac-chè non può il trono».

Un’ilarità universale destavasi a quello scherzo, dimezzo alla quale Zurione tornava su: — Ma che mestie-ri di rivenir sempre a cotesta famiglia, che Dio perda?Ci hanno bistrattato i loro padri, dunque assumiamocapi i figli: bell’argomentare davvero! Mancano cittadi-

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ni generosi e potenti in città? Manca fuori chi ne daràmano? Qualche nemico si muova, noi loassecondiamo...

— E una folla di persone innocenti si precipita sottole spade per l’acquisto di un bene che non conoscono,che forse non vogliono, e si trae sulla patria la guerra, eguasti, e ammazzamenti, e prepotenze, e un esito incer-to, o forse una vittoria, cui unico frutto sia mutar padro-ne».

Così aveva la Margherita interrotto il cognato, espo-nendo coll’aria di calmo convincimento che è propriodella ragione. Ma non è questo il tono che faccia colposopra animi concitati e: — Con queste dottrine di nullamai si verrà a capo. Il ben pubblico deve preferirsi alparticolare. — Nessuna impresa più santa che liberar lapatria», esclamavano gli uni a gara degli altri: e Franci-scolo con guizzo di dispetto proruppe: — Ebbene; si stiacolle mani in mano: facciamoci pecore, perchè il lupo cimangi: taciamo, e colui conculchi i nostri privilegi, con-tamini le nostre donne...»

Appena questa parola gli fu uscita dalla gola, accor-gendosi che fitta dovesse dare alla moglie sua, se nepentì: ma era detta. Facendosi appresso a lei la accarez-zava, le dava ragione, le ripeteva il titolo di cui ella mo-strava più compiacersi; quello di «mia buona Margheri-ta»; però quella sua parola era stata accolta con un bisbi-glio di approvazione, e aveva drizzati i discorsi sopral’insulto tentato da Luchino, e sopra altre dissolutezze esue e dei suoi. Chi ricordava il fatto del Lando di Pia-

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cenza: chi quello di Umbertino da Carrara, il quale, ol-traggiato nella moglie da Alberto della Scala, alla testadi moro che portava per cimiero fece aggiungere cornad’oro, e poco andò che, per suo maneggio Padova fu tol-ta agli Scaligeri. — Non è la prima volta che uno perdeuna bella città per aver tentato una bella donna. — Glo-ria immortale ai liberatori della patria! — Gloria a Brutoed a’ suoi imitatori! — Oh la libertà! Viva la repubblica!Viva Sant’Ambrogio!» erano voci che facevano echeg-giare la sala; e siccome allo scaricarsi della bottigliaelettrica, tutti rimangono scossi quelli che stanno entrola sua atmosfera, così quei Lombardi venivano agitatitutti dal parlare d’un solo; alla guisa che avviene nellemoltitudini, l’ardor dell’uno trasfondevasi in tutti; tuttiparlavano, ognuno rincalzava le ragioni dell’altro e neaggiungeva di proprie; i più seguitavano a ripetere ciòche essi ed altri già prima avevano detto: era quel vorti-ce che trascina, quell’ebbrezza che non lascia luogo apeso e misura. Tanto più allorquando in mezzo all’adu-nata comparve un moretto, vestito di bianco alla orienta-le, con grosse perle agli orecchi, al collo: il quale, conalzate le braccia al modo di certe anfore antiche, regge-va sopra il lanoso capo un vassojo d’argento in forma dipaniere, nel quale erano disposti d’ogni sorta rinfreschie confetture. Insieme un paggio recava una sottocoppad’oro cesellato, sulla quale una capacissima tazza, delmetallo istesso e di fino artifizio, entro cui un altro pag-gio, da una brocca d’argento, versò vino prelibato. Pri-mo Franciscolo, a cui fu offerto in ginocchi, l’accostò

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alle labbra, indi mandò in giro fra gli amici la coppa chepiù volte venne ricolma, talchè l’amor di patria fu riscal-dato dal generoso liquore

— Un brindisi alla libertà di Milano», propose Alpi-nolo.

— Sia, sia», replicarono tutti, e votando le tazze, gri-davano: — Viva Milano! viva Sant’Ambrogio!»

— E muojano i Visconti» aggiungeva Zurione, e nonmancava chi facesse eco a questa voce, senza che alcu-no si levasse, come in tempi da noi poco lontani il Pari-ni, a correggere quel grido col dire: — Viva la libertà, emorte a nessuno».

— Già non è cosa da finire così», esclamava il Pu-sterla. E il Borro: — Ne va del bene della patria, dell’o-nore lombardo, della domestica sicurezza.

— Si, sì: bisogna pensarvi di buon senno; — prender-vi su qualche bravo partito», gridavano a vicenda o in-sieme i due Aliprandi, il Borolo e gli altri; indi con quel-le potenti strette di mano, con cui pare si voglia espri-mere senza parole quanto valga l’accordo della volontà,si congedavano, e gettatisi sulle spalle i mantelli, calca-tisi i berretti in capo, se ne andavano un dopo l’altro,promettendosi di tacere, di pensarvi, di rivedersi.

La Margherita, appena il discorso si volse sopra l’in-grato argomento, che le rimembrava l’oltraggio ricevutoe il dispiacere di non aver potuto tenerlo nascosto, lasciòla sala e ritirossi alle domestiche occupazioni. Se dicessiche affatto le riuscisse disgustoso quell’ardore non mo-strerei conoscere il cuor delle donne, sempre disposto a

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gradire gli atti che annunziano generosità, impeto, vigo-ria di volontà: forse perchè confidano trovare un appog-gio più saldo alla debolezza, che è, o che noi le persua-diamo essere loro appannaggio. Certo quei nomi di pa-tria, di libertà, d’eroismo, se v’ha su cui vivamente fac-ciano impressione, sono le donne; e la Margherita nonera di natura dall’altre differente.

Un sovvertimento civile poi era un’idea abituale diquei tempi di vivi dispetti, d’immaginose speranze, dicozzanti interessi, quando le lotte, che oggi vediamoagitarsi sulle tribune e nei giornali, si risolveano nellepiazze e a colpi di stocchi. Milano singolarmente, neglianni precessi, era corsa per assidua vicenda di tumulti,tanto da far dire a san Bernardo che egli non aveva tro-vato nel mondo gente così facile a rivolgersi e sconvol-gersi quanto il popolo nostro. E quantunque allora lecose prendessero altro assetto, fino ad avere il Petrarcapotuto chiamare i Milanesi i più miti tra gli uomini14,però la memoria del passato era ancor viva e vivrà,come vive e vivrà la ricordanza delle clamorose impresedi Napoleone, sebben noi non le abbiamo vedute.

Pure v’ha dei discorsi, delle azioni che uno non sa di-sapprovare e insieme non vuole sanzionarle colla suapresenza. Tal era questo baccano per Margherita, la qua-le però era affatto lontana dal temerne verun danno, sìperchè i governi d’allora, piuttosto violenti che astuti,non conosceano l’arte di spargere fra i governanti il so-

14 Mitissimi hominum.

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spetto, più micidiale che la paura, col cingerli di spie edi timor delle spie: sì ancora perchè quelli radunati daFranciscolo erano persone fidate alla prova: tanto fidate,che egli non aveva esitato a manifestar loro la sua onta ela venuta sua a Milano, cose che dovevano per tutti glialtri restare un mistero. Imperocchè erasi preso accordo,principalmente col consiglio di fra Buonvicino, che laMargherita col figliuolo seguirebbe lo sposo, per rima-nere con esso nel Veronese, fin a tanto che il tempo re-casse migliori opportunità.

Aveano dunque lesta ogni cosa alla partenza, che erastabilita per la notte dell’altro domani: ma il domani stain mano di Dio.

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CAPITOLO VI.UN’IMPRUDENZA.

Quell’adunanza erasi tenuta la sera del 18 giugno1340: e i più dei convenuti, col dormirvi sopra, neavranno dimenticato i discorsi; probabilmente gli avràdimenticati lo stesso Pusterla.

Ma bollivano per entro la fantasia del giovane Alpi-nolo, il quale, a forza di rimestarli, e volgerli, e interpre-tarli, vi diede corpo; dove non erano che parole, imma-ginò fatti: le minacce scambiò per disegni, i desideri permacchinazioni; e da una parte coll’impeto a lui naturale,dall’altra colla insana passione di certi pari suoi di te-nersi alcunchè qualvolta si trovino avviluppati in qual-che caso di criminale, si credette depositario del segretodi una trama, la quale potesse, a vedere e non vedere,dare il tracollo ai presenti tiranni — Certo (egli ragiona-va tra sè e sè) il Pusterla intendeva più che non sonasse-ro le parole. Un uomo di quella levatura vorrebbe nodri-re speranze e passare a minacce quando non si sentissele spalle al muro? A me non apersero tutta la cosa, e inciò li lodo. Qual merito ho io per entrare a parte di trat-tati, ove ne va la sorte di tutta la Lombardia? Ma lasciafare; saprò ben io mostrare quel che vaglio: saprò ben io

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fare acquisto di loro confidenza col guadagnare un mon-do di proseliti a causa così santa».

Per tale argomento, fu coi suoi più fidati amici, conquelli di più nerbo e di più cuore, e che in particolare simostravano sviscerati della libertà, famelici di cose nuo-ve, invogliati di menar le mani, e gl’infervorò, ed inge-gnossi di diffondere la sua fanatica persuasione, facendointendere che si tenessero per avvertiti, che il cielo si ca-ricava, che il tumore stava per venire a capo. Alcuni l’a-scoltarono cupidi e volentieri, perchè v’è un gran nume-ro, non meno allora d’adesso, ai quali ogni cambiamen-to, ogni soqquadro suona fortuna o miglioramento; altrisi stringevano nelle spalle dicendo, — Se saranno rosefioriranno». Vi fu chi lo trattò da delirante o millantato-re, quasi o sognasse, o volesse farsi tenere un pezzogrosso; e costoro riuscivano i più funesti; giacchè, pic-cato dall’incredulità o dall’insulto, smaniavasi a duebraccia per acquistar fede alle sue parole; e tra il fervoredella sua disputa, lasciavasi uscire il nome del Pusterla edegli Aliprandi e del signor Galeazzino e di Bernabò, edel terzo e del quarto, che parte ci avevano mano, parte,al modo suo di ragionare, doveano avervela indubbia-mente. Così il secreto suo, secreto d’un affare che era, sipuò dire, tutto nella sua immaginativa, divenne il segre-to di molti giovinotti di poco cervello e di molta lingua,che lo propagarono ciascuno nel circolo de’ suoi amici:sempre, come avviene al passar di bocca in bocca, dan-do per assoluto il probabile, per certo l’accennato; e cia-

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scuno, per dimenticanza, per vanità, per millanteria ag-giungendovi qualche cosa del suo.

Ad Alpinolo poi bastava che uno gli gettasse gli occhiaddosso per comprendere come un vivo pensiero l’agi-tava dentro. Che, a furia di ripetere una falsità, alcunofinisca a persuaderla a sè stesso, non è osservazionenuova. D’altra parte Alpinolo, se la congiura non v’era,egli stesso l’aveva fatta davvero; aveva parlottato, avevaconcertato tutto un dì, e col discorrerne rinfocata la pas-sione e la persuasione, aveva ai suoi amici stretta lamano in segno di dire: — Ci rivedremo; faremo; dire-mo»; con alcuni avea giurato odio ai Visconti e morte aitiranni, per Dio, per la sua porzione di paradiso; avevaforbito le armi sue, calcolato su quelle degli amici, sullepiù che stavano nelle botteghe.

Galvano Fiamma, allora professore di teologia neiDomenicani a Sant’Eustorgio, poi capellano e cancellie-re di Giovanni Visconti, nella sua Storia Milanese ci la-sciò memoria come qui si contassero ben cento fabbri-che d’armi, oltre i lavorieri subalterni di ferrareccia; incui si occupavano da diecimila persone; se ne facevano,soggiunge egli, di lustranti come specchi, le quali spedi-vansi fino a’ Tartari e Saracini. Per potere esser megliosopravvegliate dai loro abbati e consoli, e da chi dovevafar osservare le minute prammatiche, credute necessarioal buon andamento, le varie arti stavano distribuite inappositi quartieri, come accennano i nomi tuttora con-servati alle vie degli Orefici, dei Mercanti d’Oro, deiFustagnari: e in quelle che oggi pure diciamo degli Ar-

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morari, degli Spadari, degli Speronari, aprivano le botte-ghe e le fucine tutti gli armajuoli.

Su e giù per queste vie, non vi saprei contare quantevolte passeggiasse, o dirò più giusto, camminasse Alpi-nolo, occhieggiando per entro, e facendo il computo diquanti uomini se ne potrebbero guarnire. Da per tuttoera un picchiar di martelli, uno stridere di lime, un sof-fiar di mantici, un cigolare di mole d’arrotini, un frigge-re di ferri roventi tuffati nell’acqua o nell’olio; e fra ciòun bociar di padroni, un fischiare e canticchiar degliopranti; suono che ad Alpinolo facea miglior sentire,che non l’accordo di scelta orchestra ad una fanciulla diquindici anni, condotta la prima volta ad un festino. Alvedere poi dentro e di fuori appiccate agli arpioni allarinfusa, o disposte a guisa di trofei, ronche, partigiane,daghe, stocchi, palosci, balestre, spadoni a due mani, za-gaglie, corazze di lamina, di maglie, di squame, buffe,morioni, e scudi rotondi, a cuore, a doccia, di frassino,di cuojo, di metallo, ne veniva al giovane un solluchera-mento, quale ad un avaro in contemplando mucchi dizecchini in bisca; o più innocentemente ad un letterato,allorchè traversa per una via dove siano libri di qua, li-bri di là e in fantasia li compra, li legge, li studia, li ado-pera per far altri libri e immortalarsi.

In alcune di quelle ferrarie entrava Alpinolo, e do-mandava quanto potesse comprarsi un petto, quanto unacervelliera, quanto valesse un uomo arnesato a piastra emaglia dal cimiero agli sproni: non comprava nulla, malasciava intendere così in nube, che potrebbero venir a

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taglio e presto. I fabbri l’ascoltavano e rispondevano: —Magari! Già noi braccianti, che cosa si desidera? nongià che ci diano i quattrini a ufo, ma che ce li faccianoguadagnare»; nè interrompevano il lavorìo per la ciarla.

Singolarmente sulla cantonata degli Spadari, per vol-tare dove allora era l’unico forno del pan bianco, famo-so sotto il nome di prestiti della Rosa, e dove stette finoai dì nostri un’effigie di sant’Ambrogio, cui toccò, tem-po fa, di andare prigione per aver voluto fare un miraco-lo che ai Giacobini non garbava, stava casa e bottega untale Malfiglioccio della Cochirola, il cui padre lavoran-do s’era acquistato assai credito e dei buoni denari. IlMalfiglioccio subentratogli, argomentando che, se il pa-dre suo avea fatto bene, anche egli dovea continuare sul-le orme di esso senza scattare d’un pelo, si guardò benedal voler ammettere nella sua fucina nessuno dei miglio-ramenti che, secondo va il tempo e la pratica, aveano glialtri introdotto; anzi li derideva come novità, bizzarriedella moda, che domani cascherebbero.

— Sempre s’è fatto così (diceva) e di ragione la sape-vano più lunga i padri nostri, i quali tornavano già discuola quando codesti guastamestieri non vi andavanoancora». Che ne avvenne? il solito effetto. Le sue prati-che si sviarono, e mentre cresceva il da fare agli altri, alui non capitava più che da raccomodare qualche vec-chia armadura di qualche ambrosiano tagliato all’antica,e delle antiche usanze tenace.

Alpinolo, vedendolo stare soletto in bottega a tirarcon pace il mantice, e con pace rivoltare un ferro nei

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carboni, non temendo scioperarlo, attaccò più lungo di-scorso con esso, e lamentate le miserie dei tempi, gli ac-cennò che potrebbero anche mutarsi.

— Così fosse!» sospirava Malfiglioccio. «Vi so direche non si guadagna neppur l’acqua da lavare le mani.Chi ha famiglia bisogna stia a stecchetto, e rosichi pan epane: e la è bazza quando la festa possiamo fare il mi-glio in vino. Uh, a rispetto di tempo fa! di quando labuon’anima di mio padre era abbate della nostra mae-stranza! Che lavorare! che coccagna! I fiorini fioccava-no a casa nostra. Qua un palvese, là una manopola, poiun frontale, poi schinieri: tre soprastanti e cinquantagarzoni noi si aveva a servigio, e avessero avuto centobraccia, per tutti v’era da lavorare accaniti notte e dì,che appena se avanzava tempo da mangiare un bocconestrozzato. Ora tutto pace, tutt’acque morte; pare non sisentano più sangue nelle vene. Questi frati non sanno senon predicar pace. Cosa credono, che Domeneddio ciabbia fatto le braccia per tenerle spenzolone? Se la duradi questo piede, si può chiuder bottega e metter baraccadi ferravecchio.

— Vi piacerebbe dunque che tornassero quei tempi?»domandava Alpinolo.

— Se mi piacerebbe! Darei la metà del poco che hoper vedere ancora una brava guerra. E ce n’ha di molti,sapete, in un Milano, ce n’ha di molti cui pizzicano lemani. E, viva Dio, la guerra a chi non piacerebbe? Là sivede quel che un uomo vale: si acquista onore, si acqui-

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stano stipendj; un po’ si guadagna, un po’ si ruba, e tuttoil mondo ne ha».

Alpinolo, straccontento d’aver anche il voto degli ar-tigiani, — Ebbene (soggiungeva) state di buon cuore: ilrimedio non è lontano. Mettete ordine ai ferri del vostromestiere, che avrete a lavorare di buon polso: ve lo pro-metto.

— Sì? davvero? (insisteva l’armajuolo). Bene! Il mionegozio godette sempre credito assai, e non v’è armacolla lupa che regga al paragone delle mie. E quanto aiprezzi, cortesia con tutti, e più con voi che siete degliavventori».

Indi salutando Alpinolo che partiva, e ripetendogli, —Mi raccomando», gli faceva di berretta, poi mettevasi asportello colle mani in mano a disapprovare le novità, emasticarsi le speranze.

Non mi sarei arrischiato di degradare la dignità dellastoria con queste trivialità, se fossero state per Alpinolonulla più di quel che siano per la maggior parte un mez-zo di incantare la noja che strascinano da un conoscenteall’altro. Per esso al contrario erano un interrogare ilpubblico voto; erano nuovi fili di speranze, dietro aiquali più sempre certo si rendeva che la cospirazioneesistesse, che stava per sovvertirsi da capo a fondo loStato.

Nei quali sogni pensate come egli mescolasse le affe-zioni sue private! Abbatter quel giudice e surrogargliquell’altro: a quel podestà tutto Visconti serbare la finedi Beno dei Gozzadini, cioè trascinarlo per la città, poi

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buttarlo nel canale; Luchino, quel maledetto Luchino,metterlo a brani, e al posto suo collocare (già ve lo im-maginate) collocare il Pusterla e quell’angelo della Mar-gherita. Allora, giustizia in ogni cosa; non più tributi,non più impacci; allora i buoni in alto e i malvagi sotto;allora... Che bei tempi! che viver d’oro! quante nuoveglorie! quanta universale felicità!

Caldo, briaco di questi pensieri, e già parendogli tro-varsi al fatto, Alpinolo entrò nel Broletto Nuovo, quelloche oggi chiamiamo Piazza dei Mercanti. Credo chemolti al pari di me si saranno fermati delle mezz’ore acontemplare, in quel grandioso edifizio, la mescolanzadegli stili, e a leggere disegnata in essi la storia delle artie delle variate dominazioni di questa città. Siffatta me-scolanza per altro non si vedeva quando Alpinolo vi ca-pitò.

Poichè il coraggio di spendere, e l’attività del fabbri-care non son nate da jeri nei Milanesi, avevano essi col-l’animosa lautezza che dava la libertà, comperato lecase e l’area di quel centro della città, per radunarvi iprincipali uffizj; e nel 1228 fecero la piazza quadrata,con cinque porte, alle quali dai quartieri principali capi-tavano cinque vie acciottolate, una dal Duomo, una daPorta Nuova, una dalla Comasina, una dalla Vercellina;l’ultima usciva verso gli Orefici, e chiamavasi delleCarceri, perchè colà appunto erano le carceri dette Ma-lastalla, ove si chiudevano i debitori fraudolenti e i gio-vani indisciplinati; ottimo rimedio per spegnere i debitidi quelli e rimettere a questi il senno in capo. Nel bel

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mezzo di quella piazza, essendo podestà quell’Oldradode Grassi da Tresseno, il quale, pel suo zelo nel bruciaregli Eretici si meritò una statua a cavallo che ancora sivede colà incastrata nel muro, si eresse nel 1233 dallefondamenta il palazzo della Ragione, nella cui parte su-periore stava una capacissima sala pei tribunali, e nellainferiore, fra triplice corso di sette archi, uno spazzo co-perto, qual si conveniva ai comodi del popolo in tempoche a popolo si governava la città.

Tutt’in giro erano fabbriche, con archi, colonne e por-ticali, ove potere i negozianti ripararsi dal mal tempo, edonde si aveva accesso alle varie magistrature. Quivi,attigua al palazzo della Ragione, avea casa il podestà,colle carceri: quivi, il palazzo di città, segnato di fuoricolla croce rossa in campo bianco, ornata di palme edulivi, per far intendere che Milano era glorioso nonmeno in pace che in guerra; e dentro il quale sedevano ipadri della patria a deliberare il meglio, cioè quello che iforti comandavano o che insinuavano gli scaltriti; quiviera il collegio dei nobili giureconsulti, che portavano unvestone di porpora, coi cappucci e i baveri foderati divajo; quivi il collegio dei notari e dei fisici, gente cheimpinguava sui morbi corporei e sui morali della poveraumanità: quivi ancora l’uffizio del Panigarola, ove imercadanti, colla solita sincerità, notificavano tutte levendite e i contratti, ed ove si conservavano ricavate nelsasso, le precise misure dello stajo, delle tegole, deimattoni, per risolvere le differenze, ed inoltre una rozzapietra, la quale si faceva, come diceano, acculacciare dai

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mercanti che rompessero il banco, cioè fallissero di pa-gare, se col sacco o per mera disgrazia i giudici nonguardavano poi tanto pel sottile. Quivi pure Azone Vi-sconti aveva, nel 1336, eretta la badia dei mercanti, conbanchieri e cambiatori là dove ora è l’uffizio dei telegra-fi, e di rimpetto la badia dei mercanti d’oro, d’argento,di seta: quivi i tribunali civili, ove salivasi per una scala,presso cui è ancora esposta al pubblico una lapide, laquale insegna come dal litigare nascono inimicizie, sigetti denaro, si turbi l’animo, si sciupi il corpo, si lascil’onesto per l’inonesto, non s’ingrassino che i procurato-ri; quei che sperano rimangono con un pugno di mo-sche, e quando pure riescano, al tirar delle tende si tro-vano avere, in spese e in mangerie legali, buttato tanto opiù che l’acquistato.

Così la lapide: ma le cronache soggiungono che pochifacessero pro dell’avvertimento, perchè quelli che anda-vano colà a muover liti aveano sugli occhi una bendapostavi dall’amor proprio, sicchè da una parte si davanoa intendere d’aver ciascuno la ragione dalla sua, dall’al-tra credevano che al mondo vi fosse giustizia. Noi però,meno maliziosi delle cronache, pensiamo che al consi-glio non si desse nè si dia ascolto, perchè scritto con ca-ratteri gotici e in latino.

Questo pezzo d’anticaglia è dei pochi scampati aquella, per non dir altro, benedetta smania di rinnova-re15: mercè la quale, della badia dei mercanti più non ri-

15 Per questo fatto e per altri antecedenti e susseguenti, giova ricordare chequesto libro fu compito nel 1831. I cambiamenti si succedono così a precipizio

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mane vestigio; il portico del collegio dei dottori e dei fi-sici fu ridotto a più recente architettura, ed abbellito ilcampanile che a mezzo di quelli era stato eretto nel1272 da Napoleone della Torre per dar i tocchi al mez-zodì, alle due di sera, e quando alcuno veniva condottoal supplizio: il palazzo della Ragione convertito in ar-chivio è chiuso e intonacato, sicchè a pena disotto a unerto strato di calcina si discerne la forma delle antichearcate, come un pensiero maschio di sotto all’inviluppod’un parlare artifizioso e cortigiano. Anche le loggesono abbattute, ma per fortuna non potè, nel Seicento,venir condotta a termine la fabbrica delle Scuole Palati-ne verso gli Orefici, onde sussiste ancora parte dellaloggia degli Osj, cominciata nel 1316 da Matteo Magno.

Questo edifizio era rivestito di lastre di marmo biancoe nero, diviso in due porticati di cinque archi, un sovral’altro: nei parapetti superiori si vedono ancora scolpitiin altrettanti scudi le arme delle sei primarie regioni del-la città: e ne aggetta un pulpito, sulla cui spalletta un’a-quila tiene fra gli artigli una scrofa, per segno dell’altodominio dell’Impero sopra questa città, che, come sannoi ragazzi, deriva il suo nome dalla scrofa lanosa. Su quelpulpito, che il vulgo chiamava parlera, comparivano ilpodestà o i consoli ad annunziare al popolo convocato ibandi e le leggi ed a sentirne il parere; ora vi stanno sot-to venditori di fusi e rocche a travagliare, e guardar la

nell’ordine materiale siccome nel morale! Oggimai tutto v’è scomposto, esgarbatamente aperta la piazza stessa, ch’era unica in Milano.

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sentinella tedesca, che placidamente passeggia innanzi eindietro dei cannoni.

So bene che a coloro, ai quali piace veder le cose vec-chie senza i moderni guasti, chiamati miglioramenti,gradirebbe non poco che, anche a costo della comodità,si fossero le fabbriche lasciate nell’antico assetto. Ben-chè tali allora durassero, potete ben credere che Alpino-lo neppur d’un’occhiata le degnò, fissando invece lamoltitudine ivi congregata di gente serva, e che, al dirsuo, fra pochi giorni tornerebbe libera, magnanima, co-stumata: — fra pochi giorni.

Delle due piazze laterali, quella dov’è l’antico pozzoe la campana del Comune serviva ai mercanti che tratta-vano di cambj e di traffici; l’altra pel grano e il vino; eravietato, pena dieci soldi di terzoli, ingombrare con pan-che e con altro le volte, come pure a male donne e ailoro mezzani d’entrarvi, acciocchè a miglior agio vi po-tessero piazzeggiare i negozianti e i gentilomini, peiquali erano anche disposte pancacce da sedersi, e stan-ghe e traverse per potergli ponere sopra, dice il Corio,falconi, astori et suoi sparvieri o altri uccelli, al piaceret comodità di qualunque volea.

Stavano dunque colà chi cavillando un soldo, chi di-scorrendo di novità, chi asolando scioperato, e lodandoe confrontando i falchi di Norvegia, d’Irlanda, di Dani-marca; mentre alcuni ripetevano i miracoli, onde in queidue ultimi anni aveva cominciato a rendersi famosa laMadonna di San Celso, e così quelle di San Satiro, diSan Simpliciano, di Sant’Ambrogio; altri stavano intenti

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ad un pellegrino che, col bordone e il sarrocchetto, mon-tato sopra un tavolette, raccontava la meravigliosa storiadi Paolozzo da Rimini, che in Venezia viveva moltequaresime senz’altro che bevere acqua calda, e che es-sendo dagli inquisitori tenuto prigione, non fece checonfermare la verità del portento: o ad un cantimbanco,che sopra un cartellone segnava una folla di figure chechiamava uomini, e che spiegava essere le venticinque-mila persone che, il 27 marzo passato, si erano raccoltea Corrigisior sul Cremonese, scalze e seminude, flagel-landosi a sangue e facendo limosine, dirette da una bel-lissima giovane, avuta in concetto di santa; finchè sco-perto che era raggirata da un mal arnese, la fu condan-nata al fuoco.

Chi s’immaginasse una festa da ballo, numerosa, alle-gra ove ciascuno pensa allo spasso, alla festività, allospettacolo del momento: e in mezzo a quella folla unuomo, il quale ha disposto una mina, cui fra un momen-to vuol dare il volo e mandare in aria il festino, i sonato-ri, i danzanti, gli spettatori, potrebbe aver un’idea di ciòche sentisse Alpinolo in mezzo a quella turba. Sotto aiportici ove stanno coloro che rivendono usati i nostri li-bri, dopo che se ne annojarono coloro che o li compra-rono nuovi a bottega, o gli ebbero per attestazione del-l’ossequio e dell’amicizia degli autori, passeggiava bra-vamente Alpinolo, misurando e pesando coll’occhioquanti incontrava, come per dire — Tu sei con me, tusei contro me».

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Ed ecco, mal per lui, capitargli fra’ piedi MenclozzoBasabelletta, quel desso, se vi ricorda, il quale un giornolo proverbiò su le visite che la signora Pusterla ricevevada Luchino, e n’ebbe da Alpinolo quell’iroso rabbuffo.Al vederlo sentì questi risuscitar in cuore tutto il dispet-to che aveva allora provato, aggiunta la vergogna cheprovò dappoi, quando, in apparenza almeno, lo trovòveritiero. E gli parve che uno sguardo maligno, un mali-gno sorriso del Basabelletta volessero dirgli: — Nonavevo io ragione allora?» Accostatolo dunque siccomeper rispondere a lingua al rimprovero che si credeva di-retto a occhi, — Ebbene? (gli disse) con quanto ingiustidenti avevi allora morso la signora Margherita.

— Eh! tu il devi sapere meglio di me», riprese l’altrocon fredda ironia.

Ed Alpinolo, frenando a stento la rabbia, — Guarda!vorrei cacciarti in gola codesti insulti a furia di sergoz-zoni, se non sovrastasse il momento, che tu stesso hai daveder chiaro più che per le mie parole.

— Bravo ragazzo! (ripigliava il Basabelletta) ora pro-fitti nel viver del mondo. Bada a me: prometti sempresulle generali; altrimenti col venire a precise particolari-tà, ti toccherebbe poi a trovarti di nuovo smentito, e de-riso dei tuoi millanti.

« — Eh no!» replicava Alpinolo, sempre più infervo-randosi. — Non sono millanti: derisioni non temo: ti sodire che questa condizione di cose tentenna: che costorohanno a regnarci per poco.»

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E il Basabelletta: — Ci regneranno, perchè il diavoloajuta i suoi e perchè son troppi quelli che sanno ciancia-re come te, e poi all’opera non valgono la metà di quelche mostrano a parole».

Considerate se Alpinolo sentisse pizzicarsi le dita! maparendogli in quelle espressioni ravvisare uno, su cuifare fondamento per l’ideata rivoluzione, mandò giù, estringendogli convulsivamente la mano, il trasse versoun canto ove fosse men gente, e guardandosi intorno eabbassato la voce, — Quel che è stato è stato (gli dice-va): ma poichè tu pensi diritto, sappi che le ciancieprenderanno corpo, che le speranze non sono in ariaquesta volta: che dove il popolo tutto è malcontento,dove il principe esecrato, basta una favilla a destare unincendio maledetto. E la favilla, ti assicuro, v’è già chibatte la pietra per suscitarla.

— Sai che?» ripigliava il Menclozzo. — Si vorrebbeche men pieghevoli avessero le schiene cotesti nobili;men ligi al padrone fossero e più amorosi alla plebe.Credilo: gli uomini sono come le nespole: per maturarevogliono la paglia. Sulla paglia dei casolari troverestiancora dei cuori generosi: ma mentre il popolo s’invigo-risce sulle glebe e nelle officine, i ricchi si smaschianoin giuochi e tornei, a caccie, a balli, a far tavolacci, e acercar gloria nell’ostentare codardia alla Corte. I nostribuoni vecchi era loro vanto il sostenere la plebe nellaCredenza di sant’Ambrogio, francheggiarne i diritti con-tro chi voleva soperchiarla... Ma il mondo invecchia

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peggiorando e di quella santa razza più neppur uno cen’è: neppur uno.

— E tu sempre (così soggiungeva Alpinolo, sentendo-si brillar dentro il cuore a quel parlare), sempre tu piglisan Michele pel diavolo. La razza dei buoni vive, ed iola conosco; e pensano al popolo più che tu non credi, ese l’intendono, e frappoco... e sapranno rendere giustiziaa chi sente come te generosamente. Credimi e spera.

— Ch’io speri? Da senno me ne dà cagione il vederanche quelli che meno dovrebbero lasciarsi pigliar per lagola. Il tuo Pusterla per uno. Che non otterrebbe se eglistesse con noi? Invece, appena Luchino gli gettò quel-l’osso dell’ambasceria, accomodò l’anima alla servitù, efatto dolce come un miele, se la campa a Verona senzaun pensiero nè di sè, nè della patria, nè di qualche altracosa che gli stringe più sulla pelle. — Sta colà, non cipensa eh!» saltò Alpinòlo tutto fuoco. — Or sappi inve-ce... ma stia in te, sappi che il mio signore non è altri-menti a Verona: se v’andò fu solo per intendersela conMastino; ed ora è qui in Milano, in petto ed in persona:e... Insomma, ti basta? sei ora convinto?

— Belle fandonie!» esclamava ridendo il Menclozzo— Povero ragazzo! tu sei buono, e ti fanno bevere gros-so. Qualche servitore te l’avrà dato a intendere: forsequalcuno avrà cantato per farti cantare...

— A chi farla bere?» interrompeva Alpinolo, rossocome bragia. — Ma per chi m’hai tolto? Non ho io acredere a questo par d’occhi? Sappi dunque che jer sera,in casa i Pusterla, io persona prima, ho parlato con lui,

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con Zurione, con una mano di persone tutte di primoconto, e han detto quel che basta: e già dispongono: enon s’andrà all’altro sabbato a pagar le partite...» e se-guitò via contando tra quel ch’era vero, e quel ch’egli siera immaginato. Ma l’altro, o incredulo davvero, o perquell’umore suo di contraddizione, — Va là, va là (repli-cava); c’è chi lo terrà indietro: e quell’acqua cheta dellasignora Margherita...

— Chi? Margherita? che celii?» continuò l’improvvi-do. — Essa non vede anzi quella sant’ora di nettar ilpaese da queste sozzure. Ella ci narrò la storia di Galva-gno Visconti suo antenato, il quale, al tempo del Barba-rossa, andava attorno vestito da buffone, colla cerbotta-na in mano, fingendo strologare: e intanto macchinava,e conduceva maneggi per la liberazione della patria. Hafino soggiunto: «Allora i savj facean da matti; oggi imatti si credono troppo savj.»

Qui è da sapere che, fosse arte o piuttosto accidente,gli archi del portico, sotto al quale discorrevano Alpinò-lo e il Menclozzo, sono combinati in maniera da produr-re il fenomeno delle così dette sale parlanti; fenomenoche alcuno de’ miei lettori avrà potuto osservare in sanPaolo di Londra, nella galleria di Glocester, nella catte-drale di Girgenti, e più vicino, nel palazzo ducale di Pia-cenza, nella sala dei Giganti a Mantova, e fin in una vol-ta del parco di Monza. Consiste in ciò, che uomo nonpuò dire paroluzza sì cheta presso ad uno dei quattro an-goli estremi di esso portico, che non sia inteso da chi sicollochi al pilone diagonalmente opposto all’arco. I fisi-

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ci ne diano la non difficile spiegazione; la storia nostrasi contenta di dire che v’era chi ne traeva profitto. Quetocome non fosse fatto suo, mentre i due disputavano, gliascoltava a quel modo Ramengo da Casale, di cui più diuna volta ci occorse di far menzione. Adulatore di Lu-chino, come abbiam detto, però sapeva anguillare inmodo da non inimicarsi i nemici di questo; blande eranole sue parole, ambigui i fatti: mai non sarebbesi postocolle une e cogli altri in manifesta contraddizione converuna parte, cercando anzi andare a versi a tutti, e riu-sciva ad illudere molti. Fra quei molti che non penetra-vano entro la scellerata anima di Ramengo, era Alpino-lo, al quale la cieca persuasione della bontà di sua causafaceva credere che ogni uomo dovesse parteggiare collesue opinioni. Quindi nè ombra di sospetto gli nacque al-lora quando Ramengo, come lo vide scostarsi dal Men-clozzo, se gli avvicinò, ed avendo già inteso quanto ba-stasse per iscalzarne il resto, — Imprudente! (gli disse)tu parlavi or ora col Menclozzo... gli avresti maidetto!...» e ammicava con aria d’intelligenza. — Sei bencerto ch’egli sia dei nostri? Non t’ha dato Franciscolo ilsegno per riconoscerci?

— No», rispose Alpinolo.E l’altro continuava: — A me l’ha dato Zurione, e

non credo aver buttato il giorno invano, ma spero conmaggiore prudenza di te. Tu a chi n’hai parlato?»

Qui Alpinolo nominò parecchi di coloro cui n’aveafatto motto, e degli altri cui volea farlo: e Ramengo, che

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non ne perdeva parola, gli chiese: — Ma non ti sei tu in-teso con Galeazzo e Bernabò?

— Non io: ma l’avranno fatto gli altri che c’erano jersera.

— Eh! non so chi tra loro abbia con essi bastante en-tratura, o chi voglia avventarsi a corpo perduto come tee me.

— Come? dite poco? (seguitava l’imprudente). I dueLiprandi non son tutta cosa con loro? dove trovar gentepiù animosa che il Besozzo e quel da Castelletto?

— Milanesi! (esclamava l’altro scotendo il capo).Buona gente; di cuore; ma per darsi moto, per voler ri-solutamente, è inutile, bisogna ricorrere a quei di pro-vincia.

— E per questo (seguitava il garzone) v’è il Tornielloda Novara: e stamattina l’ho già veduto parlare con...

Così rinvesciava e ciò che sapeva, e ciò che immagi-navasi; ed esponeva come fatti veri e successi quei cheerano sogni di sua fantasia. Poi, contento di aver cono-sciuto un nuovo apostolo, abbracciatolo con un movi-mento generoso e cordiale, voltava via per cercarne al-tri, mentre Ramengo si difilava al palazzo, e faceva direal Signor Luchino d’avere a comunicargli cosa della piùgrave urgenza. Luchino comandava che entrasse. Ma gliè tempo che diamo a conoscere ai nostri lettori questomalnato.

Ramengo era detto da Casale appunto dal luogo don-de nasceva nel Monferrato, e donde, bambino in fasce,era stato portato via nel 1209, quando quella terra si era

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ribellata a Matteo Visconti per darsi a Giovanni marche-se di Monferrato ed ai Pavesi. Il padre di lui, soldato diventura, senz’altra ricchezza che la spada, era venuto aMilano a procacciare sua ventura al soldo dei Visconti.Morto poi nelle battaglie, sulla stessa via lo avea seguitoRamengo, siccome l’unica nella quale sperasse acqui-star nome e ricchezze, e contentare l’avara ambizioneche lo struggeva. Nè il sollevarsi era difficile cosa inquei tempi agitati, quando Dante si lamentava che di-ventasse un Marcello ogni villano, il quale venisse par-teggiando. Che se ognuno non avesse in pronto esempjdi subite fortune, potrei ricordare Giovanni Visconte daOleggio, povero fanciullo, raccolto di quei di appuntodai Visconti, e messo chierichetto in Duomo, poi fattocimiliarca, poi podestà di Novara, poi generale di tuttele armi di Luchino, e suo logotenente e capitano per tut-to il Piemonte: ovvero la bizzarra storia di Pietro Trema-coldo, detto il vecchio, mugnajo lodigiano, che divenutofamiglio dei Vestarini che colà dominavano, ottenuta daessi in custodia una porta della città, una bella nottev’introdusse certi suoi assoldati, levò Lodi a rumore,prese i Vestarini, e chiusi in un vestaro, come il vulgochiama l’armadio, ve li fece morir di fame, proclamandosè stesso signore di Lodi.

— Se questi e quelli, perchè non anch’io?» dicevaRamengo tra il suo cuore, ogni qualvolta udisse tali osiffatti racconti: e poichè si sentiva incapace di salirecon arti buone, disponevasi a quelle qualunque fosseroche il potessero giovare, adulazioni, viltà, tradimenti.

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I Pusterla, che avevano lauti poderi nel Monferrato,ed erano per alcun tempo stati feudatarj di Asti, aveanotolto in protezione il padre di Ramengo, acquistandoglicredito e posto nelle milizie. Ma persone, la cui vistarammenti il dovere di una gratitudine che non si ha, di-vengono esecrate al malvagio. Ramengo, cresciuto concuor tristo, se al mondo un n’era, uno di quei cuori percui è necessità l’odiare, abborriva svisceratamente la fa-miglia Pusterla, perchè n’era stato beneficato; ma aven-done tratti molti vantaggi, e molti altri sperandone, dis-simulava; e fattasi una fronte inesplorabile, mostravasicoi Pusterla devoto sino alla viltà e piaggiatore, mentrecon inquieta scontentezza procurava alzarsi sulle lororovine.

Ruppesi intanto la guerra fra Ghibellini e Guelfi, e ilpapa, scomunicato Matteo Visconti, mandò l’esercito asostenere gli anatemi, tanto che Matteo, atterritone, ri-nunziò il potere a Galeazzo suo figliuolo; e datosi a vitadevota, morì poi nella canonica di Crescenzago. AlloraGaleazzo spinse vivamente le ostilità; e fattosi confer-mare signore di Milano, chiese sussidj a tutte le città vi-cine. E poichè i Guelfi fautori dei Torriani, guidati daSimone Crivelli, da Francesco di Garbagnate e dal car-dinal legato, tentavano passare l’Adda per entrare suquello di Milano, tutto al lungo di quel fiume disposecorpi d’osservazione, e rinforzò le rôcche. A Trezzo sta-va quel Marco Visconti di cui un amico mio sì bene viespose le bravure e i patimenti: il castello di Brivio, unforte eretto a Olginate e la rocchetta di Lecco erano go-

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vernati dal padre di Franciscolo Pusterla: il quale, vo-lendo che suo figlio facesse il noviziato delle armi, gliaffidò quest’ultima, ponendogli però ad ajutante Ramen-go. Ciò avveniva nel 1322.

Lecco in quel tempo era poco meglio che un mucchiodi rovine. Imperocchè essendosi esso ammutinato con-tro i Visconti nel luglio del 1296, Giavazzo Salimbenepodestà di Milano, coi collaterali del capitano e tutti glistipendiati della repubblica, cavalcò a Merate, e quivicongregati molti fanti della Martesana, mosse sopraLecco, ne levò dugencinquanta ostaggi, che spedì a Mi-lano, poi ordinò che fra tre giorni tutti i terrieri uscisserodal luogo, e a Valmadrera si collocassero colle loro robea cielo scoperto, e guai a chi si movesse. Infelici! dovet-tero obbedire, e di là dal lago videro bruciare la patrialoro, non conservata che la rocchetta per tenerli in sog-gezione; poi intesero pubblicarsi un bando, che mai piùquel borgo non fosse rifabbricato.

Simili vendette erano a tutt’altro opportune che a faramare il dominio: e in quelle parti più sempre si infervo-rò l’animosità contro dei Visconti, alimentata dalla intel-ligenza che manteneano colà i Torriani, oriondi della vi-cina Valsassina. E sebbene le replicate vittorie dei Vi-sconti avessero fiaccato la potenza di questi, ogni qual-volta però riuscissero a sollevare il capo, i Torriani tro-vavano appoggio in questi terrieri. Devotissimi a lorov’erano i Ticozzi, i Manzoni, gli Invernizzi e principal-mente Gualdo della Maddalena. Col volgere dei casi, lafamiglia di questo era stata disfatta, egli ucciso in batta-

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glia; l’unico figlio Giroldello, menato ostaggio, era riu-scito a camparsi, e aveva ultimamente preso servigionelle truppe guelfe: nè rimaneva in Lecco che una sorel-la sua Rosalia, teneramente amata da Giroldello, piùamata ancora dopo che da lei lo distaccava la sventura.

Bellissima era cresciuta la Rosalia, e con quel prepo-tente bisogno di amore che istillano negli animi dolci lesciagure dei primi anni, e che più si accende quandomancano attorno le persone su cui sfogarlo.

Franciscolo Pusterla, giovanissimo allora, aveva co-nosciuto la coetanea fanciulla, e ne compassionava la si-tuazione, tanto più perchè la vedeva così bella: qualitàche ha tanta parte nei sentimenti destati da una fanciulla.Riguardandola come vittima innocente delle civili di-scordie, come martire d’una fazione, cui la sua famigliastessa aveva aderito, e che ora rimaneva nobilitata dallasventura, volentieri trovavasi con lei, le usava manieredi singolarmente amico, e con arti di delicata beneficen-za sapeva recarle opportuni soccorsi: tanto che i moltiche han costume di non credere alla generosità se noninteressata, bucinavano che Franciscolo l’amoreggiasse.

La conobbe anche Ramengo, e le pose amore.Ma no: di questo sentimento, che in tanti è germe d’a-

zioni generose, non si deturpi il nome usandolo a signi-ficare quel che Ramengo provò per Rosalia. Calcolo,mezzi, risultamenti egli vedeva solo colà, dove gli altridell’età sua vedono affetti, piaceri, illusioni. Unica metad’ogni suo operare era di togliersi alla nativa bassezza,ed avanzare negli impieghi e alla Corte, fossero qualun-

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que le vie. Tra le vicende d’allora aveva egli veduto sa-lire quando i Visconti, quando i Torriani: e sebbene oraparesse assodato il dominio dei primi, non poteva un ac-cidente rimettere gli altri in potere? Collegarsi col Vi-sconti nel tempo del loro maggiore ascendente era ideache il desiderio poteva suscitargli, ma che la ragione ri-buttava siccome un delirio. L’umiliazione presente al-l’incontro porgeva il destro di amicarsi coi secondi; grancose bollivano: il paese era in guerra e la sorte dellearmi va sempre dubbia: se mai tornasse prospera ai Tor-riani, qual merito di essersi unito a loro in tempi di sfor-tuna, quanta ragione per venirne ingrandito!

Ma sposare la causa loro apertamente sarebbe statoun mettersi a repentaglio. Se invece prendesse per mo-glie la Rosalia, essa era tanto meschina, tanto sola oggi-dì, da non ispirar gelosia a chi che fosse; da non impe-dirlo d’esercitare il rigore contro chiunque desse segnodi devozione al nome torriano. Qualora poi i Viscontivenissero sbalzati dal dominio, la Rosalia non solo glivarrebbe di tavola per campare dal naufragio, ma perapprodare anche ad una riva fiorita.

Con questi calcoli si preparava ad un’unione, che solol’accordo dei caratteri e la virtù possono rendere beata:con questi e con altri ancora più turpi. Aveva egli avutosentore della predilezione di Franciscolo per la Rosalia,e l’aveva creduta spinta chi sa fin dove. Ma poco bri-gandosi di ciò, coglieva volontieri un’occasione di ven-dicarsi del Pusterla coll’usurpargli l’amica. A lui, che siteneva per un gran che nelle guerre, metteva astio quel

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trovarsi soggetto a un garzoncello, che allora faceva leprime armi. È ben vero che questi interamente a lui de-feriva nelle cose di guerra, ma però aveva più volte po-sto freno all’eccessivo rigore onde perseguitava la parteavversa; e principalmente una volta gli aveva fatto se-riissimi rimproveri perchè avesse mandato uomini intraccia di Giroldello, venuto in Lecco a salutare nasco-stamente la sorella, e ingiunto a loro che, non potendovivo, il prendessero morto, Ramengo cominciò da quelpunto a considerare Franciscolo colla stizza onde un fra-tello diseredato guarda l’altro dovizioso: a tenerlo perun impaccio a’ suoi progressi; a contrariarlo sott’acqua,aspettando luogo e tempo di far peggio.

E per contrariarlo richiese la mano della Rosalia acerti lontani parenti, alla cui custodia era stata commes-sa: i quali, tra per disgravarsi d’un peso, tra per la spe-ranza di cessare le persecuzioni contro Giroldello, as-sentirono. Conchiuso il sì, Franciscolo sovvenne lauta-mente a quanto occorreva pel corredo e per le nozze; dalche Ramengo a crescere i sospetti e pigliarsene peggiortalento: ma godeva di cavarne intanto alcun frutto:quando l’avesse fatta sua, penserebbe a custodirla.

La Rosalia, come succedeva allora e come succedeanche oggi al più delle fanciulle, ne venne informata adaffare conchiuso, e consentì senza sapere che si facesse.Non conosceva ella Ramengo, nè questi avea fatto operaper meritarsene la benevolenza, ma quando si vide a luicongiunta di un nodo che la morte sola può sciogliere,formò sua delizia di quel ch’era precetto; e come fa l’a-

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more, vedendo generosità e nobili sentimenti e benefi-cenza in quanto aveva fatto e faceva Ramengo, andò lie-ta di trovare uno su cui traboccare la piena di un affetto,che non aveva sin allora avuto sfogo, e lo amò con tuttol’impeto d’una prima passione.

Amare l’oggetto che si possiede: è pur divina cosa.Per brutale che uno sia, non è possibile che, nei primitempi almeno, non ami la donna sua, quella con cui di-vide i piaceri, i dolori, le cure della vita. E Ramengopose anch’egli amore alla ingenua sua Rosalia, e gustòle dolcezze del voler bene e dell’essere ben voluto; lequali avrebbero anche potuto ridurlo a più miti pensieri,persuaderlo a cercar quello, in cui solo è la felicità diquaggiù, il diffondere il bene fra coloro che ne circonda-no, grande o piccolo che sia il circolo nostro.

Ma da quei momenti di virtuosa concitazione ben to-sto ricascava egli nelle abitudini antiche, spoglie di ognigentil sentire, e per cui sino i più soavi affetti prendeva-no del fiero e dell’atroce. Severo, bisbetico, cane, poi asbalzi cortese ed affettuoso, or accarezzava la donnasua, ora ne conculcava i sentimenti: oggi batteva villa-namente chi avesse osato recarle la più lieve noja od esi-tato nell’obbedirla: domani le comandava colla rigidez-za che soleva a’ suoi soldati, sottraevasi alle dimostra-zioni gentili di lei; teneva insomma i modi più opportuniad alienarsi un cuor di donna.

Conosceva egli il suo torto, ma non che emendarsene,ne traeva ragione di inviperire; non che farle merito del-la pazienza onde la meschina tollerava, argomentò che

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ella se ne vendicasse col tradirlo; argomento vago affat-to ma che pure in lui divenne un bisogno, per trovar nel-la donna un nuovo oggetto di livore. Gli antichi dubbjintorno al giovane Pusterla rinacquero più forti; la pietàdi esso parevagli segno di colpa: e poichè il Pusterla tor-nava sovente da lei, e seco volentieri passeggiava taloralungo quelle rive, colla compiacenza di un giovane chetrovò un’anima ingenua ed appassionata; e, qualora dilei parlasse, vi metteva l’ardore che suole la gioventù,non anco avvezza a fingere, a temere, a dissimulare. Ra-mengo ne divenne furiosamente geloso, o, a dir più pro-prio, ne colse pretesto di resuscitare la rabbia che i be-nefizj passati e la presente soggezione gli avevano mes-sa in cuore contro del Pusterla. Con severi rabbuffiadunque intimò alla donna come per conto nessuno vo-lesse più soffrire Franciscolo in sua casa, imponendoleal tempo stesso che si guardasse bene dal dire, nè lascia-re intravedere a questo il comando del marito. Ordineche costrinse Rosalia a quegli obliqui andamenti, cuitanto spiace alle anime leali il vedersi ridotte dalla pre-potenza e dalla ingiustizia; e non isfuggendo questi al-l’occhio scrutatore del marito, ne crescevano i biechi so-spetti.

Se non che Franciscolo abbandonò Lecco per corrercolle armi dei Brianzuoli in soccorso dei Visconti, i qua-li, dall’esercito guelfo crociato incalzati vivamente, sividero fino assediati in Milano. Breve per altro durò ilbuon vento ai Crociati, stantechè il Visconte, chiamatetutte le forze disperse, non solo liberò Milano, ma a Va-

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prio diede un tale tracollo ai nemici, che i Torriani daquell’ora perdettero ogni speranza di principato, e i lorofautori andarono sbrancati in varie parti.

Ramengo, secondo che la fortuna delle armi gli face-va scorgere nella donna sua un istrumento opportuno odinutile alle sue aspirazioni, l’aveva o meglio o peggiotrattata, ma quando seppe rovinate le speranze dei Tor-riani, usò maniere di tal rigore, con quanti nel territoriosi potevano credere devoti a quella parte, che tutti nestavano pessimamente.

La Rosalia, che erasi data a credere di poter qualchecosa sull’animo del marito, osò interporre alcuna parolaper mitigarlo almeno al suo Giroldello, ma egli aveapreso tanta insolenza, che più non si poteva seco: ributtòvillanamente la supplicante; poi, come d’un mezzo chepiù non tornava ai suoi usi, la tolse a tedio, e di vogliase ne sarebbe disfatto quando avesse potuto e celarloagli occhi altrui, e trovare qualche appiglio onde vincereil residuo di pietà che anche ai più malvagi fa rincresce-re l’immolare alcuno senza ombra di colpa.

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CAPITOLO VII.L’ANNEGATA.

Una mattina, la sentinella avanzata della rôcca diLecco riferì a Ramengo come, sul tardo della sera prece-dente, si fosse avvicinato alla fortezza, un, non sapevachi, e aveva vibrato uno strale sul verone dove stava laRosalia, la quale avealo raccolto.

Divampò alla notizia Ramengo, persuaso che coluifosse il Pusterla, il quale continuasse in tal guisa la tre-sca colla donna sua per fargli scorno. E gli balenò in-nanzi l’idea di potere, e disfarsi di lei, e procurare undolore atroce alla casa dei Pusterla, con un assassiniogiustificato dal dover suo di custode: sicchè commisealle guardie che, se mai ciò avvenisse di nuovo, traesse-ro senz’altro sopra lo sconosciuto temerario, l’uccides-sero, e zitti.

La sera, di fatto, ecco di nuovo l’uomo si avvicinaalla rocchetta: Rosalia, che stava affacciata al balcone,non appena lo vede, slancia di tutta forza verso di lui unsasso; quegli lo raccoglie, ma non appena prendeva lavia del bosco per ritornarsene, un colpo di balestra alcapo lo stende morto stecchito. Gli furono subito addos-so le guardie, e trovarono che non era se non un vallettoincognito: nessun segno, nessuna divisa dava indizio

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dell’esser suo, ma gli rinvennero il sasso, a cui era lega-to un viglietto.

Ramengo, il quale aspettava col feroce dispetto cheprovano gl’ingannatori nel vedersi ingannati, quando ri-cevette la notizia e lo scritto, compose la bocca ad unriso somigliante al ringhio di un lupo che avvisò la pre-da; congedò gli uomini: sciolse il foglio: — non è indi-cato a chi sia diretto, ma è la mano di sua moglie, e traspasmodiche convulsioni, vi legge queste parole:

Che dolcezze, da gran tempo sconosciute mi fece pro-var in tua lettera! Tu vuoi, dunque per amor mio avven-turarti a nuovi pericoli? Stringerti anche una volta alcuore, è consolazione, che appena io osavo sperare. Mase egli ti vede, ne va la vita. Però l’altro domani egliuscirà alla notte a perlustrare i posti sul lago. Appenapartito, io esporrò sul verone, a levante, un pannolino,e tu scendi alla portella di soccorso che conosci. Quan-te cose ti dirò! Sai? il mio seno è fecondo. Possa quelche nascerà somigliare a te! Addio, addio! Come tripu-dio al solo pensare che tra poco abbraccerò il mio di-letto!

A gran pena Ramengo durò sino al fine; morsicò il vi-glietto, morsicò le proprie mani, e sbuffando, bestem-miando, muggendo come un toro ferito, correva di su, digiù, dall’occhio mezzo nascosto tra le ciglia corrugategettava faville, dalla bocca mandava spuma, colle ditaserrate in pugno percoteva i mobili, le pareti, sè stesso:

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poi rompeva in esecrazioni infernali contro la donnasua, contro il drudo di lej.

Tanto è vero che può la gelosia sorgere anche dovetace l’affetto; — la gelosia, primogenita dell’amor pro-prio, che non tanto c’inviperisce per la temuta perditadella persona diletta, quanto per l’onta di vederci pospo-sti e svergognati.

Più Ramengo non sapeva dubitare che la Rosalia noltradisse: chi fosse il complice suo, l’argomentava; i so-spetti vaghi erano ormai certezza; non restava che unpartito solo — la vendetta.

Il furor suo l’avrebbe tratto in quel punto medesimo acorrere addosso alla sciagurata. — Scannarla, cavarle ilcuore, strapparle dalle viscere il feto non ben vivo, estritolarlo sotto ai piedi, erano immaginazioni in cui sicompiaceva — e si mosse per darvi effetto; e già gher-miva la spaventata Rosalia, quando gli parve che questapunizione non fosse di lunga mano proporzionata all’e-normità dell’oltraggio. Anche il drudo avrebbe volutocogliere ad una rete: — Oh allora allora!» E si pentivad’aver lacerato il foglio: — Avrei potuto inviarlo, trarlui pure nel laccio... Ma... inviarlo! a chi? dove? Se nonavessero ucciso il vile mezzano, avrei ben io, a forza ditormenti, straziandolo a membro a membro, avrei ben iosaputo strappargli il nome dell’infame. Ecco che vuoldire precipitar le vendette! Ma ora, oh l’ho imparato ora:questa sarà lunga, tormentosa... Tremate, o scellerati!»

Sperò che, quantunque non ricevesse la risposta, po-trebbe l’amante capitare ugualmente: e però l’altro do-

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mani, sull’ora bruna, accennò di doversi partire. La Ro-salia lo congedò col solito affetto, coll’affetto che oppo-neva ai mali suoi tratti, lo accarrezzò: — Perchè (gli di-ceva), perchè sempre così aggrondato? Io ho paura. Ra-mengo, sta buono!» e colla delicata destra gli palpava leispide gote, mentre coll’altra mano abbracciandolo,stringevasi tutta lusinghiera contro il suo fianco: e conquella più tenerezza che poteva, alzava gli occhi gonfidi pianto, verso i torvi e cagneschi di lui. — Sta buono.Mi vuoi bene ancora? Dimmelo! accarezzami: non sonola tua Rosalia? non porto qui dentro un nostro figliuolo?via, un bacio innanzi partire...»

Chi colla pietra infernale gli avesse toccato la vivacarne, non avrebbe recato a Ramengo tanto strazio,quanto lei con simili parole. — La bugiarda! la infame!vuol con carezze ricoprire il tradimento: baciarmi e ven-dermi. Ma ti pagherò della moneta stessa: inganni peringanni».

Tentennò, divincolossi, parve voler proferire alcunaparola, ma non si udì che un rantolo nella gola; tese lemani verso le braccia di lei, quasi per trarsela al seno;indi, come preso d’insuperabile repugnanza, coll’attomedesimo la ributtò fieramente da sè, e senza un’oc-chiata, senza un motto andossene precipitoso.

Ella sospirò, pianse: erano stranezze pur troppo solitein lui: ma ella non vi si era mai incallita.

Ramengo salì in barca, allargossi, poi presa di nuovola spiaggia e tornato, si appiattò dietro una macchia don-de potesse, non visto, vedere la rôcca: ed ecco fra non

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molto, sciorinarsi il pannolino sul concertato balcone.Al primo vederlo si rinnovarono, addoppiaronsi le furiedi lui: il cuore gonfiato non pareva gli potesse più reg-gere in petto: gettavasi sul terreno, svelleva brancate dierba e le addentava, alzavasi, traeva la sciabola, percote-va nelle piante, nei sassi, schiantava i rami, gli arbusti,bestemmiava Dio, gli uomini, il cielo. La notte si offu-scò; egli, accostatosi di più, si appoggiò fra due piantevicine, e tra quelle protese la faccia, come la jena quan-do aspetti al varco la gazzella: fissato alternatamente alviottolo, alla porticina, al verone.

Ed ecco su questo apparire Rosalia, in una candidavesticciuola lina, e mostrare di spingere lo sguardo viavia per la pendice, come all’incerto lume cercasse di-scernere un aspettato. Delusa, rientrava; usciva ancora:sedevasi appoggiando il gomito sui balaustri del verone,e chinando la bella faccia nella mano, in una ansiosa masoave aspettazione. Qualche volta alzando gli occhi allestelle, sospirava: qualche altra li teneva per alcun tempocoperti, poi più fisi gl’intendeva, se mai in quel mezzofosse comparso l’atteso: anche qualche canzone intona-va, d’aria placida e malinconica, che lene lene si perde-va tra i patetici silenzj della notte, e si mescolava al fiot-tare lontano dell’onda, che frangeva al primo marginedel lago sottoposto.

Ma l’aspettazione della Rosalia e di Ramengo restòdelusa. Non per questo egli si stancò; ma e la seconda ela terza sera rimase alla vedetta, e fin alla sesta soffrìquell’orribile tortura, sempre lusingandosi di veder

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giungere il rivale, sempre colla rabbia in cuore, coll’as-sassinio in mente: ma sempre invano. Ebbe tempo fraciò di stillarsi la sua libidine di vendetta: e fra le atrociveglie di quelle notti, l’andò ruminando, pungendoselaalla fantasia, raffinandola quanto fosse mestieri per sa-tollare quell’anima sua, ingorda di strazio e di sangue. Ilfiglio che essa maturava nelle viscere doveva possederela vita per poterla perdere: lasciarlo nascere, metter luipure a parte del castigo, esacerbare le pene della madre,a cui dovessero giungere tanto più micidiali, quantomeno aspettate.

Dissimulando pertanto, continuò verso la Rosalia coltenore di prima, crescendo anzi di cortesie come chi medi-ta un tradimento: se non che fra le carezze, l’occhio suofissavasi talvolta sopra di essa con un baleno così sinistro,così cristallino, ch’ella, gettandogli le braccia al collo glidomandava: — Cos’hai, Ramengo? tu mi guati così!»

Non rispondeva egli; ai baci di lei sentivasi correredalle chiome ai piedi un fuoco d’inferno: le dita sue irri-gidite e convulse stringevano involontariamente il pu-gnale, era duopo che la respingesse da sè, ed uscisse al-l’aria aperta a sfogare l’indocile rabbia. Comprendeva laRosalia che una grave tempesta versava l’animo di lui:soffriva, taceva, non gli scemava l’amore: consolavasinegli arcani godimenti della donna che sente in sè stessaun altro essere, unito e pur diverso, vivente della mede-sima vita, scosso da movimenti comuni, amato come sèe vagheggiato come un altro: e tripudiava nel vedere av-vicinarsi il tempo di metter alla luce un bambino, pegno

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dell’amor loro, che l’amor loro crescerebbe colle cureprodigategli d’accordo, coi vezzi infantili, colle speran-ze che danzano intorno alla culla del primo figliuolo.

Maturato il tempo, ella espose un maschio: ed appenanel bacio primo ebbe dimenticato il sofferto travaglio,— Recatelo (disse) a suo padre».

Gli recarono di fatto quella creaturina così gracile,che, sotto le prime impressioni dell’aria e degli oggettiesterni, vagiva e agitava le membra inferme: spettacolod’affetto per tutti, d’ineffabile esultanza per chi è padre.Ma l’occhio di Ramengo si fe’ più feroce che mai; digri-gnò i denti: un riso sinistro gli raggrinzò le labbra: tolseil fanciullo sopra un braccio; coll’altra mano afferrò ilpugnale, e trasse al neonato.

La bambinaja fu abbastanza lesta per sottrarlo a quelcolpo, diretto al seno: ma non così affatto, che non glirecidesse, povera creaturina! l’indice della mano sini-stra. Alla vista del sangue che ne sprizzava, agli strillispasmodici del fantolino, il violento gettò lo stile, e ma-ledicendo e bestemmiando fuggì.

Che cuore l’amorosa Rosalia all’udir questo fatto! Af-fievolita dal travaglio del parto, in quello stato in cuiogni commozione può divenire micidiale, fu per soc-combere. Però la ferita si trovò di facile medicazione;donne venali prodigarono a lei quell’assistenza che lenegava il marito: questo ridivenne mansueto e pentito.Non del pentimento però che avvia all’emenda: ma s’in-dispettiva seco medesimo d’essersi dall’ira lasciato tra-sportare a tradir il secreto, che del suo scorno come del-

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la vendetta volea fare con tutti, se fosse possibile finocoll’aria: onde accagionando di quell’escandescenzacerte sue cure penose, la fantasia turbata da molesti pen-sieri fino il desiderio di cimentare l’amore di lei collapazienza e la costanza, si mostrò mitigato, venne al lettodella moglie, le parlò cortesemente.

Questa fu la medicina migliore, il miglior ristoro allatravagliata. Stese la pallida mano tremante allo sposo,che gliela strinse nella sua: gli mostrò il bambino che te-neva al petto; e — Vedi (gli diceva) vedi com’è bello!come poppa soavemente! È tuo figlio: è figlio nostro.Di’, non gli farai paura più? gli vorrai tu bene? Che visod’alabastro! come spira amore! Guarda: egli apre gli oc-chi. — Cari quegli occhietti! son tutti gli occhi tuoi.Come ti somiglia! Prendi: levalo fra le braccia: dagli unbacio»; e glielo sporgeva.

Ramengo, comunque fiottasse dentro, lo prese, ilguardò fiso fiso, gli accostò le labbra alla faccia, e lo ba-ciò o ne fece le mostre. Ma una furia di baci gli prodiga-va la madre, che in estasi d’amore, di contentezza, sen-tendo tutta la beatitudine d’essere moglie e madre, ama-ta e amante, non poteva saziarsi d’osservarlo, di carez-zarlo; lo fasciava, lo snudava, l’adornava, l’atteggiava;traboccando sopra di esso quell’eccesso d’affetto, chenon le era dato versare sul marito.

Ma pel marito quella scena era una prolungata tortu-ra: non vedeva nel bambino che un frutto del delitto:non vedeva in lei che una infedele: e più gli appariva te-nera ed amorosa, più la esecrava come scaltrita inganna-

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trice. — Tante carezze, per qual altro fine che per ingan-narmi? È sì affettuosa a quel fanciullo: qual meraviglia?Lo concepì dagli infami suoi amori». E guardandolo,nol trovava per nulla somigliante a sè: quegli occhi se-michiusi, quel malatticcio pallore, quella cascante genti-lezza d’un neonato, punto non gli pareano ritrarre de’suoi robusti lineamenti, del fuoco del suo sguardo. —No, no: non è mio figlio. L’iniquo Pusterla m’ha oltrag-giato. Mal per lui, giuro a Dio! Per ora muojano madre efiglio, verrà l’ora, oh verrà anche per lui».

Così diceva tra il suo cuore; ma lo dissimulava, e inatti mostravasi calmo colla moglie, le dava del buono perla pace, tanto che la Rosalia ne rimase confortata, perdo-nò facilmente — e che non perdona l’amore? e come nonè ingegnoso a trovare scuse alla persona diletta? — Eglilo ama certo: oh come non amare quest’angelo? l’ha ba-ciato: e ogni giorno più lo amerà. E quando col primoriso lo saluterà? e quando articolerà una parola? E la pri-ma che l’insegnerò sarà babbo. Appena potrà mutare ipassi, caro fanciullino! correrà da me a lui bamboleg-giando, gli si avvinghierà alle ginocchia, e gongolandogli ripeterà, babbo. Esso dimentica per lui le cure, laguerra, le armi: umano si curva, il toglie fra le braccia, lopaleggia, se lo leva sulle spalle, sul capo, lo bacia e riba-cia, poi viene a deporlo sul mio grembo. Crescerà poi;verrà grande, bello, robusto come lui: tutti lo guarderan-no; e gli stranieri e le donne chiederanno; chi è quel pez-zo di giovane? Ed io e Ramengo ne esulteremo, e vedre-mo in lui il conforto dei nostri vecchi giorni.

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Questi sogni passavano per la mente della malata, in-tanto che porgeva medicamenti e latte al fantolino; e daquesti ricreata, a poco andare tornava in vigore, lasciavail letto, ricompariva per la casa. Poichè Ramengo le sioffriva mansuefatto e gentile, la Rosalia, non che sgom-brare ogni corruccio, fin la memoria depose del maggiortorto che ad una madre possa recarsi, un insulto al suobambino, e tornò tranquilla come prima, e festiva nellenuove cure, nel nuovo affetto.

Poco tempo dopo ch’ella fu risanata, — era sull’im-brunire d’un giorno di maggio, bel tempo, quieto; il pri-mo calore rendeva grazioso il soffiare dell’aria vesperti-na, e Ramengo disse alla moglie: — Vedi bella sera.Che non usciamo noi a far due passi? te ne dovresti tro-var meglio».

— Volentieri», esclamò in tripudio la Rosalia, di nullapiù desiderosa che di cogliere ogni prova d’affezionevenutale da lui, per volergliene sempre più bene.

— E il bambino? (soggiungeva) Lo coricherò, è vero?Attendi tanto ch’io l’abbia addormentato.

— Perchè nol recheremo anch’esso? (rispose Ramen-go) O forse ti da noja il portarlo?

— No! (esclamava ella affettuosa) «Oh non sai comead una madre sia gradito peso il proprio figliuolo? Nonl’ho portato io tanto tempo qui?»

Così dicendo, l’avviluppava in un pannolino, e di co-sta al marito, si avviava. Uscirono dalla rôcca, e presa lachina, vennero verso il lago.

Era la prima volta che, dopo la sua malattia, essa rive-

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deva il cielo aperto e sereno, il lago, i monti; tutta ne tri-pudiava, e come a chi esce da prigione, il petto parea di-latarsele nel respirare quelle arie così soavi, così vitali.Scesi laddove il lago slanciava quietamente le ondatesovra le arene del margine, quietamente, benchè losquagliarsi delle nevi montane e la stagione oltre l’usatodritta alle pioggie, l’avessero straordinariamente gonfia-to, là sovra un muricciuolo sedettero, contemplandoquella pianura ondosa, che neppure da una barca era sol-cata, perchè i sospetti guerreschi le avevano fatte colartutte al fondo. La Rosalia ora guardavasi alle spalle ilResegone, dalle cui cime merlate il sole ritraeva gli ulti-mi raggi; ora dinanzi, il varco della Valmadrera in cui laluce tramontando parea ricoverarsi, come il sangue alcuore d’un moribondo; e accarezzava il lattante suo, lovezzeggiava, e parlandogli come se veramente egli po-tesse intenderla e risponderle, diceva: — Apri gli occhi,amor mio: aprili, guarda questo bellissimo spettacolo.Vedi là i monti? Un giorno li conoscerai ben tu. Sulleloro coste, fin sulla vetta inseguirai i cavriuoli, lesto tupure come un cavriuolo, godendo l’aria pura, i lieti soli,la libertà. E quando sarai di qui lontano, salirai su qual-che poggio, su qualche torre, per discernere ancora quel-le creste: piene delle memorie di tua fanciullezza. Equesto lago? Mira: c’è dentro un altro bambino, bellocome te. Ma un giorno tu v’andrai per entro davvero anuoto, lo solcherai in barca.

— E perchè (l’interruppe Ramengo), perchè non an-diamo un tratto noi pure in barca?

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— Sibbene! (ella esclamò): purchè a te non ne incre-sca la fatica.

— Oh al contrario; è uno spasso, un esercizio.»E in due salti fu al molo, ove sotto chiave si custodi-

vano due navetti per servigio del cartello, gii unici la-sciati in tutta la riviera; e dati i remi all’acqua, vi raccol-se la Rosalia, che sedette sulla prora col fanciullo, men-tre Ramengo battea la voga. Scesero così giù giù per lariva, su cui oggi va crescendo la città di Lecco: passaro-no sotto al ponte, pochi anni prima gettato dal signorAzone, e seguitando fra Pescate e Pescarenico, vennerodove l’acqua dilatavasi in ampio bacino. Intanto era spa-rito affatto il giorno; le cime circostanti spiccavano nettee brune dall’azzurro fosco d’un cielo senza nubi: e i na-viganti, essendo nel mezzo, appena distinguevano lariva: ma dalle finestre delle scarse casipole vedevanoesalare il fumo del fuoco a cui la povera gente cocevaquel poco di cena che l’interrotta pesca permetteva. Tut-to era pace intorno e dentro alla Rosalia, che inondata disoave giocondità, posava la bocca sulla madida frontedel dormente bambino; allorchè d’improvviso Ramengobatté fieramente del piede sul fondo del navetto, sicchètutto lo squassò, e fece trabalzar la madre e destare insussulto il fanciulletto. Indi urlò: — Traditrice infame!hai creduto celarmi le sozze tue tresche. T’ingannasti.So tutto: e l’ora del castigo è battuta. Scellerata, muori».

Sbigottita: cogli occhi, la bocca spalancati; pallido ilviso; con una mano serrandosi al seno il pargoletto, pro-tendendo l’altra colle dita irrigidite in atto istintivo di

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difesa, voleva la meschina rispondere, domandare, pre-gare: ma non gliene lasciò tempo l’infellonito, il qualeslanciati nell’acqua i remi, si avventò egli pure nel lago.La Rosalia mise uno strido, in cui sonava l’accento delladisperazione; coperse gli occhi, allorchè lo vide gettarsidalla barca; scoprendoli poi, al fioco barlume del crepu-scolo potè vedere come, nuotando, egli guadagnasse lariva.

Cessato allora lo spavento pei giorni del marito, rima-se dapprima attonita e tolta di sè, dubbia se fosse un so-gno; poi quando cominciò a rinvenire, volse il pensierosopra sè stessa, e sopra la sua situazione. Sola, in mezzod’un gonfio lago, in piccola barca, senza remi per aiu-tarsi, sola con un bambino, la cui vita le era più cara del-la sua propria! Ruppe alla prima in un pianto angoscio-so, e le lacrime piovevano sulla faccia dell’ignaro lat-tante. Ma tantosto la scosse dal doloroso letargo il sen-tirsi bagnare le piante. Quel vendicativo avea strappatoil capecchio ond’ora calafatato il legno, sicchè l’acquavi trapelava lenta lenta per le commessure. Stette la tapi-na coll’occhio incantato sul fondo della barchetta, e par-ve consolarsi. — Un’ora, due al più, e sarà empita: af-fonderà: io con essa... e sarà finito quest’inferno. —Ma... e il mio bambino?»

A tal pensiero rabbrividì; e affaccendandosi allora nelcercare salvezza, quanto dapprima disperando avevaagognato la morte, si strappò a furia dal capo, dal petto iveli, e con quelli si pose a ristoppare le commessure, at-tentissima coll’occhio, coll’orecchio, se da veruna fes-

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sura trapelasse acqua ancora; e quando più non le parve,si consolò, riprese il fanciullo, sedette, guardò a questo,guardò alla riva, guardò al cielo... Il bambino era sopito:la riva lontana, silenziosa come l’egoista alle miserie deisuoi fratelli, il cielo bello, limpido, qual suol esser alterminare di maggio in quelle floride parti della floridaLombardia, la luna scema spuntava allora di dietro imonti dell’Albenza, le cui vette si disegnavan sovra ilprofondo ceruleo dell’aria per la quale scintillavano mi-gliaja e migliaja di stelle.

Quante sere, lucide come questa, avea la Rosalia pas-sate nell’amorevole e gioconda compagnia delle ami-che, presso ai parenti, spensierata fanciulla, lieta di pla-cidi gaudii, di allegre fantasie! E dopo sposa, quantevolte, in quell’ora, sul battuto della rocchetta erasi bada-ta ad ascoltare i malinconici concenti dell’usignuolo, oda spingere lo sguardo giù verso la riva e per lo scarcodelle colline, se vedesse tornare lo sposo! — Ed ora?L’idea dello sposo le richiamava alla mente i più minuticasi del passato; gesti, parole, tratti, che avevano volutoo non vedere o interpretar in bene, ed ora le rivelavanouna miserabile tela di sdegni covati, di meditate vendet-te. Da lui condannata di colpa, onde non si conoscevarea, di cui poteva giustificarsi con una parola, condanna-ta a penare qui, com’ella si credeva, una notte intera, neldeserto delle acque, fra il disagio e la paura... — Oh!che nessuno mi venga a soccorrere?... Nessuno?... Certoegli a quest’ora è giunto al castello; entrò in casa, rividei luoghi pieni delle memorie de’ nostri primi giorni di

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felicità; nessuno gli si fece incontro a festeggiarlo; rivi-de il letto, rivide la cuna, — la cuna vuota; si ricordò dime, del bambino che non ha colpa; s’è pentito d’avercimessi a questa croce, e corre a salvarci. Oh! saprò benio dissipare i suoi sospetti: saprò bene col doppio diamore quietargli ogni sdegno... Mio Ramengo! ancorami vorrà bene, m’abbraccierà ancora. Ecco, la sua destraè sotto al mio capo; la sinistra mi accarezza, e tra noidue è questo caro fanciullo, e ci baciamo tra noi, e lo ba-ciamo lui. Ve’! qualcosa di chiaro s’inoltra nel fondo...È senz’altro la sua barca.»

Il lume si avanzava lento, eguale, ma pallido, azzur-rognolo, accostavasi alla barca; — era un fuoco fatuoche seguitando si disperdeva. La Rosalia, che al suo av-vicinarsi aveva mandato il grido di chi implora soccor-so, che coi palpiti ne aveva misurata la distanza ed illentissimo procedere, come anche questa speranza dile-guò, sospirava, piangeva, piangeva.

Posò il bambino sullo scannello di prua, e inginoc-chiatasi e sporgendosi da una proda, cominciò collemani a imitare l’ufizio di remo, se mai riuscisse a farsipiù presso alla riva. Il navicello si moveva, sì, ma aggi-randosi intorno a sè stesso, senza nulla guadagnare ver-so il lido, talchè, stanca, rifinita, scoraggiata, tornò ladolorosa a sedersi, a levarsi in grembo il fanciullo, a co-prirsi gli occhi con le mani, a piangere ancora, a fanta-sticare.

— Questa notte, per lunga, per ambasciosa, passerà:verrà il mattino; alcuno comparirà, mi farò sentire; sarò

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aiutata, tratta a riva... E poi? che farò io? dove anderò?Ritornare a lui?... ma se egli mi ha scacciata... se ha de-cretata la mia morte... E la gente?... che dirà la gente semi vedono tornare a questo modo? Comprenderanno ilfatto, me incolperanno di tradimento, Ramengo di vio-lenza. Che ne sarà di lui? di me? Che avesse egli a sof-frire per mia cagione? Oh Dio! Dio!» e raddoppiava igemiti, alzava le strida: strida da passare il cuore, mache si perdevano inesaudite nel silenzio dell’ondosa pia-nura e della notte arcana.

Solo, tratto tratto riscosso da quelle, il fantolino me-sceva ad esse i suoi vagiti; ella carezzandolo allora, ba-ciandolo, porgendogli la mammella, il tranquillava; e,quasi avesse intendimento, gli diceva: — Dormi, fan-ciullo mio, viscere mie, dormi. Questi mali almeno tunon li senti, tu. Ma la povera tua madre!... Oh! sono io,vedi; sono io che ti ho dato la vita, son io che ti nutriscodi me stessa, che ti alleverò, che ti educherò. E guarda!ora son qui, di notte al bujo, sola, in una barca, nel mez-zo di un lago che non ha fondo... non ho un palmo diterra dove posare i piedi; non un sasso dove declinar latesta. Ma tu intanto, tu almeno riposa. La tua cuna, lamorbida coltricina ti aspettano invano stasera, ben mio;pure hai le mie ginocchia per letto, hai per guanciale ilmio seno: il seno di una madre: puoi tu desiderar di me-glio? Oh no? Tu poppa in pace. A me sola i guaj, a me latempesta, a me l’inferno. O Signore! O Madonna santa!Ma voi, Maria, foste anche voi madre, anche voi porta-ste un bambino, e fu cercato a morte, e vi toccò di cam-

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parlo fuggendo. Deh! traetevi a compassione di me;guardatemi dal cielo, datemi forza di passare questa not-te, quest’angosciosa notte, questa notte d’inferno».

E si segnava, segnava il bambino, bisbigliava le suepreghiere, e un poco di pace sembrava pure stendersi so-vra quell’anima ambasciata. Le chiuse gli occhi unastanca calma; un lieve sonno la tolse all’ansia del pre-sente. Ma breve. In sobbalzo si svegliò, riaperse gli oc-chi, non bene ancora sdormentata, credendo trovarsinella propria camera, nel letto consueto, ma tantostoguardando, toccando, si riconobbe, ricordò dov’era,come v’era arrivata.

Coll’appressarsi della mattina, erasi levato una brezzasottile e frizzante, che la faceva intirizzire e batter i den-ti, e che, ajutata da quella che gli idraulici chiamanocontrazione della vena, spingeva, lentamente sì, masempre in giù la barchetta. Foschi nuvoloni si eranopure addensati attorno alle creste della Grigna e del Re-segone, che incalzati dai venti delle diverse gole, di qua,di là avanzandosi come due schiere nemiche, avevantutto ottenebrato il cielo. Poi spesseggiavano i lampi, untuono sordo brontolava, cominciò la pioggia, si fece di-rotta, ed una furiosa tempesta si gettò sul lago. La Rosa-lia si volse a guardar Lecco, sempre più s’andava quellodiscostando; e per quanto al tetro guizzo dei lampi ellaaguzzasse le pupille, nessun soccorso vedeva comparire,nessuno più ne sperava.

Allora si presentò al pensiero della costernata la pro-babilità, indi la certezza di un caso peggiore, che dappri-

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ma nol si fosse immaginato; allora cominciò a capireche l’alba dovea, non che terminare i suoi patimenti,esacerbarli.

L’acqua cadeva come se la versassero; dove ripararsi?come? La barca non aveva padiglione, non tenda; già ilbrontolio dei tuoni e lo schianto delle saette avevanosvegliato il bambino, e le braccia materne non bastava-no a schermirlo. Dapprima, ella si trasse la sottana incapo, e sotto a quel tetto sè medesima e lui protesse; mal’acqua incessante ebbe ben presto inzuppati gli abitiche grondavano, ond’ella si batteva il petto, stracciavale chiome, percotevasi il capo; più non vedeva, più nonsentiva. Coricò il fantolino sul fondo, ove più rialzatolasciava un po’ d’asciutto, indi messasi carpone, appog-giata sulle mani, si fece tetto a quello; e in sì penosa at-titudine, porse al bambino la poppa, al modo che soglio-no le belve delle foreste.

Scarso partito anche questo! All’acqua trapelata lasera per le fessure, aggiungevasi ora quella che il cielorovesciava; le ginocchia, le gambe di lei ne erano im-mollate; pure, pazienza! tollerava. Ma sempre più alzan-dosi, dal peso medesimo determinata, saliva l’acqua an-che dov’era posato il bambino, onde la misera più nonsapeva che farsi, come schermirlo. Si levò di dosso ipanni, e inzuppandoli nell’umore entrato, li spremevafuori dalle prode; facendo pala delle mani accostate,buttava fuori l’acqua; ma in questa fatica di tanto stentoe di piccolo profitto conveniva lasciar discoperto il fan-ciullo che tutto si infradiciava, che correva pericolo

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d’annegarsi. Spossata, la Rosalia tornò a collocarsi car-pone, strinse il fanciullo contro il petto, e piangeva epregava, mentre intanto continuava la pioggia come Diola sa mandare, e l’aria di tramontana cacciava il battelloall’ingiù. Tratto tratto sollevando il capo, essa vedevatraverso a quel diluvio, passar sulla riva i casali e le ter-re, e come venne là dove alla Rabbia dopo Olginate, ilfiume piglia un corso violento, sentì trabalzare, aggirarevorticosamente il suo legnetto: si credette sommersa, —baciò il bambino, e raccomandò l’anima sua al Signore— l’anima sua e la vita del suo poppante. Ma dopo so-spinta alquanto dalla corrente, e respinta dalla ritrosa, sitrovò in mezzo alle acque che riposavano di nuovo, len-tissimamente inoltrata dal vento che scemava di forza.

Oggidì le molte palancose, che, o per comodo dellapescagione, o per dedurre l’acqua ai mulini, furonopiantate in quel lago ove torna a restringersi per formareil fiume dell’Adda, lo impigriscono talmente, che fraOlginate e Brivio può dirsi un paludo morto, ingombrodi alghe e di cannuccie. Ma in quel geloso tempo ser-vendo di frontiera, non permettevano i signori di Milanoche rimanesse rallentato da qualsifosse ingombro, sic-chè sbrigliato scorreva; oltrechè, essendo, come abbia-mo accennato, rigonfio per le nevi sciolte e per frequentiacquazzoni, versavasi per quell’unico suo scaricatore, eseco traeva la navicella di Rosalia. All’avvicinarsi d’o-gni casa, d’ogni villaggio, quante speranze sorgevano incuore della meschina che alcuno la vedesse, la sovvenis-se! Ma era troppo di buon mattino: pei timori di guerra

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nessuna nave, come abbiamo ripetuto, solcava alloraquel fiume, e la direzione della corrente la trascinavaverso la riva sinistra, deserta di abitazioni.

Anche a Brivio da ultimo passò innanzi, e come videscostarsi pure questo castello, come si sentì trasportatarapidamente dal fiume, che sotto di quello scende ascorsa, si diede per senza scampo perduta. Il temporale,secondo suole in quella stagione, erasi presto sfogato; eRosalia, alzando gli occhi, vide lo stesso vento che aveaaddensate le nubi, spingerle ora lontano, al modo ondesi dileguavan le sue speranze, e spazzare la volta delcielo, sulla quale cresceva il sole. Ma qual pro che ilcielo cessasse d’ispirarle sgomento, se non minore glie-lo infondeva la rapidità dell’Adda, che, raggirandola,barellandola, la traeva frammezzo a isolette, a selve, adirupi, ove non avvisava un abituro, un campocoltivato? Gli occhi di lei più non avevan lacrime, nonpiù voce la gola; e quelle ore di spasimo le avevano im-presso sul volto un solco profondo, come anni ed anni dicordoglio, come un’ora di colèra. Con una stupida mara-viglia levava gli occhi al cielo, li girava sulle spiaggieche le si involavano dai lati, li chinava sulle acque chespumavano, rumoreggiavano, facevano vortice dinanzial serpeggiante navicello; ma sempre finiva col fissarlisovra il suo pargoletto con un amore più intenso, quantopiù s’accostava alla disperazione.

Si assettò di nuovo, se lo coricò sulle ginocchia, gliporse una poppa... l’altra.... Ohimè! erano inaridite!...Una notte come quella, in sì fiero struggimento e sì pro-

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lungato, ne aveva esausto il latte. Invano il bambino col-le avide labbra facea forza di suggere; invano ella stessale premeva; a forza di dolori ne sprizzava sangue vivo,ma nessun nutrimento. Un’altra idea s’aggiungeva dun-que alle atroci da cui era già straziata: l’idea di aver amorire dalla fame, prima che le acque gli inghiottissero.— Ma no (diceva tra sé), il fiume è violento, molti sco-gli l’ingombrano; romperemo a qualcuno... Ecco là infondo come spumeggia intorno a quel masso... ecco làcome pare si precipiti. Ivi sarà l’ultimo tratto, sarà lafine di tante pene. — Ma, e il mio bambino? tu, fruttodelle mie viscere? Perir anche tu? perire innanzi di avergustato la vita? innanzi di aver altro provato che pochigiorni di pianto? O mio Dio! Dio mio! salvate quest’in-nocente! O angelo suo custode, venite, levatelo sulle vo-stre ali, portatelo a salvamento! e me, me lasciatemi pural mio destino, non piangerò, non gemerò, morrò con-tenta, solo che sopravviva il figliuol mio... Ma che? tuvagisci?... poverino! hai tu fame? Oh trista me! Desolatame! E non avere onde ristorarti! o doverti vedere a lan-guire, e forse a morire fra poco!

Le tornavan copiose le miserabili lacrime, ed ancoraporgeva il capezzolo al figliolo, ma ancora senza frutto!onde, convulsa, disperata, chiamava, strideva; — non ri-spondeva nessuno; nessuno l’udiva;.. Illanguidita, pie-gavasi sovra il pargoletto, giungeva le sue alle labbra dilui, nell’atto del colibrì quando porge la lingua a sugge-re per alimento agli aerei suoi pulcini.

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O mio Dio! Dio mio! salvate quest’innocente!

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Rapido intanto, tortuoso caracollando scendeva il na-vetto. Qualche casipola di pescatori, qualche mulinoscorgeva di distanza in distanza; alcun contadino, alcunboscaiuolo, alcuna lavandaia, intenti alle opere loro sul-la spiaggia, ove n’era alcun lembo, se vedeano quellabarchetta di lontano, la fissavano un tratto; qualchedunoesclamava: — Strano gusto d’andare giù pel fiume orache è così grosso!»

Ma altri soggiungeva: — Non vedi che non ha remi,nè timone? È una barca che si perde.

— Si perde? Corriamo ad ajutarla. Malann’aggia laguerra che ci tolse i nostri battelli!»

Correvano, e non sapevano dove, e gridavano verso labarca, e alcuno affrettavasi ai posti dov’erano le senti-nelle e le vedette, ma prima che fossero arrivati, l’acquasuperba avea tratto innanzi la navicella così che più nonpotevano se non guardarle dietro ed esclamare: — Pove-ra gente che v’è dentro! Gli ajutino le anime del Purga-torio!»

Il fiume, che in quello spazio corre a rotta anche ne’tempi ordinarj, ma a vero precipizio quand’è gonfiato,giunto al luogo che chiamano il Sasso di San Michele dauna chiesuola erettavi dalla timorosa pietà, entra in unletto più angusto, con furia ancor più minacciosa. Dicoil luogo appunto, ove, tre secoli dopo quel tempo, venneaperto a gran forza ed artificio un canale navigabile, chedal sovrastante villaggio è denominato il Naviglio diPaderno, e che con moltiplicati sostegni modera l’acqua

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in modo, che senza guasto le navi discendono l’altezzadi ventisette metri nella traccia di un miglio o poco più.

Nulla eravi allora di ciò, e il fiume in balia di sè stes-so dando volta, s’insaccava in quella stretta, che oggiancora, benchè difesa da salda e fitta travata, mette i bri-vidi ai pochi naviganti che s’avventurano a passarle dalato, e che ripetono al piloto, ai rematori, di tenersi benrasente alla riva opposta, mentre si raccomandano al Si-gnore, e rammemorano i non rari casi d’infelici, che l’i-nesperienza o l’impeto strascinò attraverso per le Tre-corna, come vien chiamato quel gorgo. Di qua e di là delquale ergesi a picco una montagna, da cui i secoli divel-sero enormi catolli, onde è seminato ed irto quel varco.Alcuni si alzano giganti da emulare i greppi laterali; al-tri sporgono appena a fior dell’acqua la cima tagliente;dell’acqua che, riurtata fra i massi, spumeggia loro in-torno, si ritorce in sè stessa vorticosa, ruggisce sì che dalontano se ne ascolta il frastuono, come da lontano se nevedono balzare le spume ad incanutire i più erti scogli, ediffuse in minutissima spruzzaglia, ingombrar l’aria d’u-na nebbia trasparente, e colorarsi dell’iride, rinfrangen-do i raggi del Sol levante e del morente.

Intese la Rosalia il grave e minaccioso frastuono, poivide quell’abisso; in soprassalto di terrore si scosse dalmomentaneo assopimento, cacciossi le mani nelle chio-me irte sul capo; aperse quindi le braccia, le tese colledita aggranchite, spalancò gli occhi, la bocca ad un ah!disperato quando la barca fu presso, quando venne dalvortice strascinata. Al primo sobbalzo si credette morta;

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premette al seno il bambino, quasi il suo seno potessesottrarlo da quel furore; avventò uno sguardo ansiososulle rive, quasi lusingandosi che le potesse bastar laforza per recare, sventurata! attraverso quell’impeto, fincolà il diletto suo peso.

Udiva frattanto il fondo della barca crocchiare stri-sciando sul fendente dei macigni: era diguazzata oradalle onde che sovverchiavano il legno, ora dal piovosopolverio, in cui quelle si risolveano frangendo contro ironchioni; ogni nuovo fiotto era una trafittura; nessunaera quella della morte. La morte coglie bensì l’uomo,contento fra le lautezze della gioja, ma risparmia l’infe-lice quando la invoca siccome termine delle sue miserie.

Ed io, nato sulle rive di quel fiume, non dimenticheròmai d’aver veduto... Egli era un povero sartore della miaterra, fidanzato ad una setajuola della riva opposta, po-vera anch’essa, ma ricchi entrambi di sentimento. Salìegli in battello per varcare il fiume, e andarla a trovare;l’Adda era grossa: veniva la sera; egli, mal destro nel re-mare: la corrente gli tolse la mano e gli strappò un remo,onde giù e giù. Noi accorremmo; egli fece ogni industriaper ajutarsi, ma non vedendo più modo, in abbandonod’ogni rimedio umano — parmi vederlo tuttora — ingi-nocchiossi, incrociò le mani sul petto... noi pregammoper l’anima sua. Al domani si trovarono giù per le Tre-corna i galleggianti frantumi del suo battello.

— La setajuola!Ma per Rosalia non andò così. La sua barchetta, per

non so qual ventura, ficcossi fra due scogli vicinissimi,

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uno dei quali, d’ingente mole, era stato rovesciato dalcaso sopra l’altro, in guisa che questo gli serviva di pun-tello, come il guanciale a cui un gigante riposasse lemembra enormi, stancate nella battaglia; e sotto al lorocavo, alcuna quiete avea quel bollimento. Ivi non per-cosse la barchetta sì forte da andarne spezzata, e il rin-calzo delle onde ve la tenne come confitta e in tentennofra il mugghio, fra i vortici, fra la spuma, fra la continuaaspettazione della morte irreparabile.

La Rosalia si levò, curvossi sopra quell’acqua — unsalto e più non comparire fuori, — e aver finito, finitoquesto prolungato crepacuore. — Ma, e il bambino? Ohfinchè pure un filo di vita restasse, bastava per attaccar-vi la fiducia. Misurava coll’occhio l’ertezza di quellerupi; arrampicarsi fin lassù... nulla pareva impossibilealla forza, dirò meglio, alla frenesia dell’amor materno.Ma e poi?... gente all’intorno non v’è: il rovinio delleacque non lascia intendere le chiamate. Avrebbe dunquea morir lassù di fame, dopo aver uno ad uno noverati isingulti del moribondo figliuolo, dopo sorbito stilla astilla il calice di quella desolata agonia. Ora la corrente,che tanto l’avea dianzi spaventata, le pareva desiderabi-le, come un rimedio, come l’unica speranza; poteva for-se recarla ad una riva, dove alcuno la guardasse, la soc-corresse. Ma qui, qui non altro poteva aspettare che lamorte.

Risoluta pertanto ad avventurarsi di bel nuovo, col vi-gore che le infondevano il prepotente istinto della vita ela pietà materna, puntò le braccia contro quei massi, ne

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staccò la navicella aderente, sicchè fra essa ed il maci-gno potesse mettersi un filo appena d’acqua, il quale disubito dilatandosi il passo, allontanò il legno, e spinse;l’istante dopo trovavasi ancora in balia della corrente,trovavasi fra nuovi gorghi, fra nuovi scogli, poi librataall’impeto dell’Adda che, emersa da quel sasseto, e ripi-gliando libero corso, la portava colla rapidità del deside-rio. Lo sgomento attuale cancellava la ricordanza delprecedente; avrebbe voluto ancora trovarsi fra quei sas-si, fra quelle angustie di prima, ma ferma ed appoggiata;e pregava Iddio di ridurla colà, di presentarle un altroscoglio, ove un istante assicurare la vita sua e del suobambino. Chieder salvezza più non osava: assai le erainvocare la morte men dolorosa; o piuttosto ella medesi-ma non sapea più che dimandare, se non ogni momento,una situazione diversa da quella in cui si trovava.

Però, dopochè nuovi pericoli la sgomentarono sotto alcastello di Trezzo, l’Adda, spaziando in men ripido let-to, portava la navicella con minor violenza, e nelle vici-nanze di Vaprio, l’andava sempre più accostando allasponda, sicchè un raggio di speme tornò a brillare sugliocchi di Rosalia. Di fatto ella fu dalla ritrosa trascinatarasente ad un masso, che scalzato di sotto dal batter del-le onde, formava una grotta, dalla cui volta pendevano iradicioni e i torti rami d’un caprifico. Ad uno di questivenne fatto a Rosalia di ghermirsi, e coll’estremo di suaforza stringendolo, — Grazie al Signore, (esclamò) ec-colo salvato».

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Respirò; con occhio consolato riguardò il suo bambi-no, e sul volto le si fece tal mutazione, qual era successanel cielo quella mattina. Il fiotto tentava bensì di scosta-re il barchetto, ma essa, attenendosi con ambe lo mani,ne vinceva lo sforzo. Cominciò poi a mirare d’intorno.La rupe, dov’essa era fermata, sporgeva erta e discosce-sa. Per quanto l’occhio arrivasse, non si discerneva unapprodo. In sulla sinistra dell’Adda, stendevasi fiorita everdeggiante la pianura, e per quella vigorosi contadinie bizzarre Bergamasche attendevan giulivamente dietroalle opere campestri; ma tanta era la lontananza, tale ilrombazzo del fiume, che ella non potea farsi intenderefin colà. Intanto il sole, giunto a mezzo del suo corso,sferzava cocente il nudo capo di lei, procurandole unnuovo tormento, quasi fosse destinata a tutti provarli inquel giorno. E le ore passavano, e col fuggire di quellecominciò ad accorgersi come la sua posizione fosse mu-tata, non migliorata. Colà, soletta, scevra da tutti, nonvedeva modo come ajutarsi. Forse la disperazioneavrebbe potuto invigorirla ancora tanto, da ghermirsi disterpo in sterpo, di ronchione in ronchione, su fino allavetta, ma e il bambino? Abbandonarlo non era neppurpensiero che le nascesse, e con esso in collo, nè di muo-versi tampoco le era fattibile: solo per esso tenevasi cosìavvinghiata al ramo salvatore.

Il bambino poco dopo si risvegliò, prese a guajolare,tormentato dall’incomodo posare sugli assi, dalla fame,e dal sole che lo coceva anche sotto ai panni, con cui,sciorinando il proprio capo e il seno, l’aveva ricoperto

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Rosalia. Ogni suo strillo era un coltello al cuore dellamadre, che tanto più addentro la trafiggeva, quanto erasiormai creduta in salvo.

E come chetarlo? Se abbandona lo sterpo, eccola dinuovo travolta nei terrori di prima. — Forse è un villag-gio qui vicino... ma, e se nol ci fosse? se non arrivasseroin tempo?» Allora tremava che il ramo non si schiantas-se, e viepiù lo stringeva, col furore onde chi affoga siappiglia a che che gli si offerisca; e gelava e sudavaqualora, intontita dal sole, le paresse veder la rupe on-deggiare e cedere, o sentisse venirsi meno la forza efiaccar le giunture delle dita, che sbattevano in convul-sione.

Finchè però stava così, non poteva accarezzare il lan-guido infante, non premerlo al seno, non l’acquetare ba-ciandolo, cullandolo sulle ginocchia, fra le braccia. Piùdunque non le restava che la voce, colla quale il venivaconfortando, lusingandolo a pazientare, a tacere, a dor-mire: non temesse più: verrebbe presto il soccorso; tor-nerebbe a suo padre, al suo tetto.... Fin qualche cantilenaintonava per addormentarlo.... cantava in quello stato, inquella agonia!

Ma il fanciullo nè ascoltava, nè smetteva il rammari-chio e gli striduli vagiti, che facevano a brani il cuore diessa. Tentava ella ogni arte per accostarglisi, toccarlo al-meno coi piedi, colle ginocchia, mentre pure colle nudebraccia supine aggavignavasi al caprifico. Più di unavolta fu per lentare le dita e lasciarsi ancora all’arbitriodel fiume, ma non osava, e rompeva in più dirotto pia-

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gnisteo, che accordavasi con quello del fanciullo inun’armonia di desolante pietà. Tratto tratto ripigliandoalquanto di lena, alzava un grido, il più forte che poteva;udivasi l’eco iterarlo; l’eco insensibile come l’animadell’avaro; gli uccelli annidati fra quei macchioni, sbu-cavano strepitando, sparnazzando; ma nessuno rispon-deva; un momento dopo, tutto era rientrato nel silenzio,appena rotto dal cozzare delle onde, che frangendo con-tro il masso, facevano barellare il navicello.

Così la fiducia tornò a dileguarsi; più non videsi da-vanti che la morte, resa anzi più atroce dalla necessità dieleggere tra l’affrontarla col rimettersi alle onde, o sor-birla qui per estenuamento di fame, con sugli occhi illanguire affannoso, negli orecchi lo straziante piagnuco-lare di quell’innocente. Quante miserie aveva essa maiosservate in sua vita; quante madri infelici le erano oc-corse, tutte ora le tornavano a mente: le une mendicantidal duro passeggiero un tozzo da sfamare i pargoletti; lealtre, confitte sur un pagliericcio, inferme, senz’altro po-ter dare alla loro prole che compianto; espulse di casa daprepotente soldataglia, da disumani mariti, coi bamboliin collo; — ma i mali di nessuna le parevano pari aisuoi: quelle avevano i piedi in terra, potevano strasci-narsi in cerca d’un alimento: destavano, se non altro,compassione in chi le sguardava, ma essa!... Quante pre-ghiere quel giorno non recitò! quanti voci non fece! Seusciva da quel travaglio, se campava il suo bambino,avrebbe digiunato tutti i venerdì, poi tutti i giorni; porta-to di continuo un cilizio sulla nuda carne; visitato, gi-

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nocchione, i Santuarj. Pareva che le preghiere la calmas-sero alquanto, la rianimassero; ma come il suo bambinolevava di nuovo i vagiti, smarrita, disperata, ancora sidava a gridare, a bestemmiare, a maledire chi di tantipatimenti le era cagione.

Il sole intanto calava; e la vampa, onde per tante orel’avea sferzata, dava luogo a quel piacevole ventare, chericrea le sere in riva ai fiumi. Già sulla spiaggia oppostaRosalia vedeva, oh con che invidia! i bifolchi, toglien-dosi alle fatiche, incamminarsi ai pacifici casolari: ilboatiere cacciarsi innanzi la mandra pasciuta: la fanciul-la colla verga ravviare i branchi di paperi al pollajo. Eral’ora del crepuscolo, l’ora delle rimembranze per chiun-que godette, per chiunque soffrì, per chiunque amò. Maper Rosalia non veniva che preludio di nuovi tormenti.La notte si oscurerebbe: se la fortuna non aveva manda-to nessuno a soccorrerla il dì, quanto meno la sera! Puredi sopra al capo suo le pareva e no intendere un sussur-ro, una faccenda: — Oh se riuscissi a farmi sentire!» Eper quanto spossata, alzò uno strillo, — il ripetè, — cre-dette essere stata intesa, perchè si fece silenzio: lo rad-doppiò, e di fatto gente si avvicinò all’orlo del masso, e— Chi è laggiù?» gridò una voce.

— Io... una infelice... ajuto, ajuto!» rispose la coster-nata.

— Ma come siete lì?» richiese la voce.Ella non replicò se non — Ajuto! ajuto! prendete il

mio bambino.»

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Erano veramente persone, che passando l’avevano in-tesa: e come poterono comprendere ch’ell’era una don-na in pericolo di sua vita, pensarono a salvarla. Macome? il discosceso della rupe impediva, non che d’ac-costarsi, nè tampoco di vedere se costei fosse nell’ac-qua, se in nave, se s’uno scoglio. Andare per una barcasino a Vaprio era lungo viaggio, poi più lungo il salire aritroso della corrente; ella intanto si sarebbe affogata.

— Volete una corda?» le gridarono.— Sì, sì... una corda: Ajuto, ajuto... subito... Il mio

bambino muore.»Lesti adunque presero un canapo, che per buona ven-

tura si trovava sul carro, e lo calarono giù: ma parte cheessi non sapevano il luogo appunto ove ella si fosse,parte che il masso, sportando, teneva la corda discostadalla barca, mai non potè la infelice vedersela sì vicino,che osasse abbandonare il suo ramo; e veniva dicendo:— A ritta — A mancina — Non la posso prendere —Ajuto — ajuto!»

Finalmente la corda le rasentò la persona, onde la Ro-salia, sicura omai di poterla tenere, lasciò il ramo perghermirla.

Ahi lassa! non appena sciolse la mano, l’acqua re-spinse la barchetta; la fune tutta molle le sguisciò fra lemani, che intormentite non avevano forza di fermarla;essa vide un’altra volta fuggir la riva; vide le personeche dall’alto del sasso la stavano additando, compian-gendo, gridando accorr’uomo. Protese le braccia escla-mando — Ajuto»; sollevò verso di loro il suo bambino;

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li commosse a tenerezza, ma essi più non sapeano via disoccorrerla; il fiume già l’aveva tratta lontano, già laportava impetuoso.

L’ultima occhiata che la Rosalia volse al lido, le mo-strò un pio sacerdote, che, a vederlo, pareva le gridassea gran voce la formola dell’assoluzione dei peccati, al-zando la destra in atto di benedirla: mentre tutti i circo-stanti, piegate le ginocchia, oravano per lei, come si oraper l’uomo in agonia.

Essa ricoricò il suo bambino, poi lasciossi in abban-dono cader sul fondo del perduto barchetto. Fra tanti e sìvariati patimenti, fra il digiuno, fra la nausea, fra la spe-ranza tante volte nata e tante sparita, solo l’amor mater-no l’aveva tenuta in vita; ora prevaleva l’ambascia; le sioffuscarono gli occhi, più non vide, più non udì...

Possa il suo pensiero in quegli ultimi istanti essersiaffratellato a quel dei fedeli, pietosamente preganti insulla riva, per domandare con essi dal Cielo quel rime-dio, che più dalla terra non poteva aspettare!

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CAPITOLO VIII.I DISASTRI.

L’uccisore di Rosalia frattanto, guadagnata la riva,traversò le rovine di Lecco, monumento di vendettapubblica: rivide la macchia, fra cui esso aveva concepitola vendetta privata, che ora tornava d’aver compiuta; en-trò nella rôcca, nella camera sua, e respirando come per-sona giunta al termine di un difficile cammino, buttan-dosi sui letto esclamò: — Alla fine son contento.»

Ma contentezza non segue al delitto, neppure in chi viha fatto il callo: le gioje che esso procura sono tempe-stose, come l’inferno da cui procedono. Quelle coltri,quel materasso riuscivano ispidi, pesanti per Ramengo;voltavasi, contorcevasi, volendo pure a sè medesimo si-mulare tranquillità, chiudeva gli occhi, si provava didormire, ma rivenendo in sè, trovavasi averli spalancati,fisi, incantati sopra i fantasmi che l’immaginazione glipresentava. Non erano fantasmi di paura, ma quei delladonna sua, del figliuolo, delle loro ambasce; e lì immo-bili, confitti alla proda del suo letto, al capezzale, allaporta: sicchè non potendo stornarli, procurava mutar lospavento in un’atroce dilettazione. Balzò di su la coltri-ce, salì sulla vedetta: e quivi fermi gli sguardi lampeg-gianti sopra il lago, col fosco crine spartito sulle due

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tempia convulse, il pugno sopra la spada, l’altra manoaggrappata ad un merlo, si sarebbe detto una statua po-sta colà ad ornamento o a spauracchio. Tentennò poi ri-solutamente il capo, e proferì: — Sei là! là in mezzo.Maledetta! perchè non dura eterna questa notte? perchènon può colei sentir in essa tanti affanni, quanti da duemesi a me ne ha fatti soffrire!»

Poi mirò farsi bujo verso tramontana, e un nebbione,quasi densa fumea di fornace, avanzarsi radendo il lago:previde la burrasca, e ne tripudiò: tripudiò quando lavide scoppiare: ogni groppo di vento che rompesse, ognifulmine che cascasse, egli trasaliva d’infernale piacere,nella frenesia della rabbia figurandosi quel che ne pati-rebbe la donna. L’acquazzone tutto il lavava; gli stridevatra le chiome il vento; — e’ non lo sentiva; non sentivaaltro che l’ardore della vendetta.

Solo al primo albeggiare si tolse da guardare il lago; esalito a cavallo, uscì furiosamente lunghesso la riva semai essa vi fosse approdata, se piuttosto la procella neavesse rigettato il cadavere. Nulla vide, nulla ne inteseraccontare, onde fu al colmo della soddisfazione, spe-rando che, com’era stato suo disegno, il lago avesse in-ghiottito e la vittima e le traccie del delitto. Su quei pri-mi giorni mascherò il rimorso con una smania di opera-re; spedì attorno a cercare se mai il nembo o la pienaavessero fatto pericolare alcuno: sotto veste di esploraregli andamenti di certe bande che infestavano la valleSan Martino, mandò di qua, di là scorridori che gli rife-rissero a minuto quanto udivano, ma nessuno gli fe’ cen-

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no di una donna affogata: onde esclamò: — Hai purdato l’ultimo tuffo! — Possa la tua agonia essere statalunga, affannosa quanto te l’auguro io, quanto la meriti!Possa io un giorno, come ho goduto, della tua morte,così godere di quella dell’infame tuo drudo!»

A chiunque abbia idea della disordinata prepotenzadei governi militari in ogni tempo, e della confusionespeciale d’allora, quando, per troncare un viluppo ine-stricabile, fu fatto uno statuto16 che nessuno si ricercasseper delitti commessi durante la guerra di Monza dal pri-mo novembre 1322 all’undici dicembre 1324, sarà age-vole spiegare come veruno giuridicamente chiedesseconto a Ramengo della donna scomparsa; in privato poi,coi subalterni gli valeva la superiorità per farli tacere:coi pari e coi superiori non gli mancavano sfuggite epretesti. A Lecco diede voce che la Rosalia fosse andataa Milano: a Milano che fosse corsa ad unirsi co’ suoi pa-renti forusciti; poi che era morta, morta lei, morto ilbambino, e se ne finse accorato, celando il suo delittosotto impenetrabili apparenze, come celato lo aveva lasuperficie del lago, cui unicamente l’aveva confidato.

La prima volta che di ciò fu inteso, il giovane Puster-la se ne mostrò tocco nell’anima, siccome succede allor-quando vediamo peccare chi più ci pareva dabbene; al-lorquando vediamo chiuder il libro della vita chi non neavea scritto ancora che pochi fogli. E non rifiniva dichiederne; e s’ingegnava di consolare Ramengo, prima

16 È il CLXXII degli Statuti Criminali di Milano.

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colla speranza che certo ella tornerebbe al marito, al do-vere: poi, dopo credutala estinta, coll’enumerarne le bel-le doti, e rammentare certi atti minuti, certe leggiere pa-role, che tra i casi ordinarj sfuggono innotati, ma chetornano a mente vivacissimi allorchè scomparve quelloalla cui memoria erano attaccati.

Ma questa commiserazione, questi encomj, ben altrosuono facevano a Ramengo. Non già ch’e’ fosse cotantogeloso dell’onor suo che credeva oltraggiato: ma lacommiserazione faceva dispetto a lui, bramoso di ecci-tare invidia: e nella ribalda anima sua il rimorso pallia-vasi sotto altri affetti, dei quali soli era capace: odio, di-sprezzo, vendetta.

Sebbene verun tribunale, veruna potente voce chia-masse conto a Ramengo dell’operato, sì lo interrogavafieramente una voce interna, quella che, se i gran malva-gi asseriscono di non sentire più, o mentiscono, o il veroè che l’hanno soffocata sotto altre voci, principalmentesotto alla smania che gli invade di nuovi delitti. Comel’ubbriaco, allorchè il vino comincia a fargli dar volta alcapo, crede ripararvi col berne del nuovo: come unadonna che d’una prima infedeltà sentesi spinta a cancel-lare la memoria col commetterne di nuove, e sostituirela vorticosa illusione della voluttà alla severità dell’in-nocenza perduta e al salutare stimolo della coscienza;tale Ramengo per rapirsi allo strazio del primiero mi-sfatto provava una diabolica necessità di consumarne dinuovi. E com’è sottilissimo l’amor proprio a trovarescuse fino alle atrocità; così Ramengo versava ogni col-

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pa sua sul Pusterla: fingeva a sè stesso di avere amatoRosalia d’immenso amore, sinchè tra i loro cuori non sifrappose quell’esecrato: esagerava le speranze che aveafondate su quel fanciullo; e col lungo fingere un tal sen-timento, talvolta Ramengo ritrovava in sè un vero ram-marico di avere perduta quella sposa, di cui gli ricorre-vano a mente le rare doti del corpo e dell’animo, e ledolcezze ch’essa gli prometteva.

Più ancora compiangeva il perduto figliuolo: così èdolce cosa a tutti il vedersi crescere intorno un bambolo,col quale ritessere il cammino della vita: così all’ambi-zioso è caro il poter erigere su quello la speranza e i di-segni dell’avvenire! Nè poteva Ramengo ripiegare conun nuovo matrimonio, poichè da una parte la vulgareopinione aggiungeva non so che obbrobrio alle secondenozze e a chi le contraeva; i feudatarj ne esigevano unatassa a profitto delle loro stalle: obbrobrio che, a chipretendesse trovar ragioni delle popolari ubbie, parràstrano davvero in tempi che nessuno se ne apponeva alconcubinato, all’adulterio. Ma se questo riguardo eragittato alle spalle dai principi e dai maggiori cittadini,doveva rispettarlo Ramengo, smaniato com’era di salire,e quindi in necessità di accarezzare e i vizj de’ magnati ei pregiudizj de’ volgari. Dall’altra parte chiedendo unaseconda sposa poteva indurre e questa e i parenti a cer-care più sottilmente l’esito della prima moglie, e rime-stare così una sucida pasta.

Doveva dunque dire addio alle casalinghe consolazio-ni, smettere la lusinga di potere, quel che a stento gli ve-

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niva fatto per sè stesso, montare sublime per via di unfigliuolo. Ma, anzichè accettare ciò come conseguenza epunizione del suo misfatto, non volea vedervi che unaragione onde portare peggior odio al Pusterla, onde con-centrare su lui solo tutto l’astio, che era un bisogno del-l’anima sua, e che dapprima sfogava contro la poveraRosalia.

Però una vendetta subitanea e violenta poteva fallir-gli, e venire punita, e non corrispondeva agli spasimiche nella sua immaginazione a lui preparava. Conservòdunque le apparenze di servitù e di amore verso i Pu-sterla, anzi le raffinò, come è stile dei traditori: nonavresti detto potersi dare altri più zelante dell’onor diquella casa: ma intanto ne spiava ogni andamento, simi-le al lupo cerviero, che con lunga persistenza seguita lavittima che destinò pasto alla rabbiosa sua fame.

Corsero gli anni: al Pusterla incontrarono i casi chegià accennammo, e si sposò colla Margherita Visconti.Ramengo, siccome cliente della famiglia, assistette allapompa della benedizione conjugale: e quel sacro istante,in cui il cuore balza fra due vite, fra i desideri del passa-to e le promesse dell’avvenire, ricordò al feroce il mo-mento in cui egli erasi giurato amore colla sua buonaRosalia. Vide poi la tenerezza e la felicità spargere fioria gara intorno e sopra della Margherita: con invidiosostruggimento vide il suo abborrito diventar padre d’unvezzoso fanciullo: la beatitudine che quello godeva nel-le incolpate mura domestiche, gli riaprì, se mai erasi ri-marginata, la ferita onde in grazia di lui dicevasi trafitto.

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— Ecco! a me rapita una moglie, un figliuolo: messanell’animo mio questa procella.... tutto per colpa di lui...ed egli nel colmo d’ogni felicità! E quel bambino? Ohun figlio! se avessi io pure avuto un figlio! quanti inef-fabili gaudj! quante floride speranze! Poter anch’ioamare, poter destare invidia! E non l’avrò mai... mai!Colpa di chi? Ed egli lo ha... e così bello! Ha una don-na... una tal donna! Oh potessi turbargli cotesti godi-menti! oh potessi mescere alle sue labbra un sorso delfiele, di cui esso ha attossicate le mie!»

L’astio (tant’è versatile!) assunse perfino le apparenzedi amore. Perocchè, o rimanesse veramente preso ancheRamengo alla virtù e alla bellezza della Margherita,come se un demonio s’invaghisse d’un cherubino: o nonsi tenesse per pagato fin a che non ricambiasse colloscorno lo scorno che dal Punteria pretendea aver ricevu-to, incominciò a corteggiare la costui moglie. E prima levenne in atti ed in parole prodigando le lusinghe, da cuiella potesse argomentare come di lei vivesse passionato:spinse quindi la sfacciataggine fino al punto di richie-derla apertamente di amore. La Pusterla vedevasi di cosìimmensa distanza superiore a colui, del quale, se nonsapeva tutte le nequizie, indovinava per istinto la mali-gna natura, che dalla sozza sua persecuzione affatto sitrovava sicura, e senza farne motto a veruno, le parveassai castigarlo col disprezzo. Ramengo però non erauomo da fare come sbigottito e vinto al primo colpo:anzi viepiù s’infervorava, fosse per punta, fosse perchè,confidente nei meriti suoi, come suol essere chi non ne

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ha, credesse potere coll’assiduità riportare una vittoria,tanto più gloriosa quanto più difficile. Oltrechè ferma-mente erasi proposto di cominciare le sue vendette con-tro il Pusterla dal contaminarne la donna: e quando purenon vi dovesse riuscire nel fatto, anche le apparenze glisarebbero bastate; bastato che la vulgare malignità tro-vasse onde appuntare la Margherita, e turbare i sonni aFranciscolo. — Ma costei (diceva tra sè) non è costeicome tutte le donne? A qual di esse torna ingrato unomaggio che si presti alla loro bellezza? Oh cadrà, ca-drà: venga solo l’occasione».

E l’occasione parvegli venuta nell’incontro che stoper dirvi.

Sebbene non ancora tanto divulgata come si fece poinel secolo XVI e nel seguente, pure già correva alloral’opinione, che un uomo potesse far patti cogli spiritidell’inferno, ed acquistare così una facoltà soprannatu-rale, alcune volte di giovare, più spesso, di nuocere al-trui. Sapevasi che versiere e stregoni potevano destare iturbini e quietarli; ogni temporale si credeva da loro su-scitato; e ne trovavano irrefragabili prove nelle straneapparenze che assumevano le nubi accavallandosi, enelle quali l’immaginazione ravvisava figure di giganti,di bestie, di demoni. Gli astrologhi, generazione moltoattenente alle cose della magia, davan norme ai principi,che dal cenno di essi facevano dipendere le azioni loro,le guerre, le partenze. Ove, per dirne una sola, ricorderòl’avventura del Petrarca che, mentre nel nostro duomorecitava un’adulatoria orazione per l’inauguramento di

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Bernabò, Galeazzo e Matteo Visconti, si vide sul piùbello interrotto da quell’astrologo Andalon del Nero,che altrove mentovammo, il quale aveva scoperto esserquello il preciso minuto della combinazione di stelle mi-gliore per fare la cerimonia. Ogni malattia poi alquantobisbetica veniva attribuita a fascino e sguardo maligno:erano fatture di streghe gli accidenti, di cui l’uomo onon sapeva render ragione o non aveva coraggio d’in-colpare sè stesso: e credevasi ch’elle si congregassero,certe notti, in certi luoghi, a tenere i loro conciliaboli in-fernali.

Nè tutte queste opinioni erano germogliate unicamen-te nelle teste plebee: forse anzi si apporrebbe chi dicesseal contrario non essersi tra il vulgo radicate se non ingrazia delle discussioni e degli ordinamenti di chi diri-geva il vulgo. Le città dettarono leggi contro i maliardi:qualche chiesa introdusse formole per esecrarli e scon-giurarli; i sapienti ne discutevano di proposito e sul se-rio; quando poi i tribunali processarono per delitti dimalía, la credenza diventò certezza: volevate che i giu-dici e i tribunali s’ingannassero? Da una parte dunqueridotta a sistema, questa opinione si confermò in coloroche pretendevano di sapere, dall’altra, sparsa tra il vulgoda parabolani d’ogni abito e d’ogni condizione, acquistòfin al segno, da parere bestemmiatore ed eretico chi nedubitasse.

Crescendo adunque il potere e il numero degli streghia misura delle persecuzioni, anche i ripari e gli antidotisi moltiplicarono: e mentre la classe culta aveva scon-

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giuri e fiamme, il popolino ne praticava di meno empj eatroci; ad ubbie opponeva ubbie; e tra siffatti rimedj, ef-ficacissima era tenuta la rugiada della notte di San Gio-vanni. Chi si bagnasse a quella, asserivano poter tuttol’anno vivere sicuro da fatucchiere: certe erbe sbocciatee côlte in quella notte, erano il tocca e sana degl’incanti.La quale opinione si collega ad altre che qui non è il po-sto di commentare, ma di cui alcuna traccia è rimastaviva fin nel secolo delle macchine a vapore, sì in Italia,sì fuori. In tutto il nord, dalla Svezia alla Sassonia e sulReno, si accendono ancora grandi falò pel San Giovan-ni; un Inglese trovandosi in Irlanda la vigilia di quelgiorno, fu avvisato non si meravigliasse se a mezzanottevedrebbe accendersi dei fuochi su tutte le alture del con-torno17; a Newcastle le cuciniere fanno quella sera fiam-mate di gioia, a Londra gli spazzacamini vi menanodanze e processioni in vestire grottesco; in una valledella contea di Oxford, detta Caval Bianco, si raccolga-no tutti i vicini a ripulire, come essi dicono il cavallo18,cioè a svellere l’erba da uno spazzo sterrato, che rappre-sentava un cavallo colossale, ed a passarvi la giornatafra campestri allegrie. Io so di paesi lombardi ove, mal-grado le proibizioni, quella notte suonano continue lecampane: fanciulletto fui più d’una volta, da qualchefemminella all’antica, condotto a ricevere la guazza diSan Giovanni, e in diversi luoghi mi furono mostratienormi noci, i quali, fin a quella sera conservatisi aridi

17 Vedi il Gentleman’s Magazine 1795.18 Scour the horse.

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come di gennajo, la mattina si trovano verdeggiare delpiù folto e gajo fogliame.

Ai tempi della nostra Margherita, in proporzione dellafede o della corrività, più solennemente celebravasi lavigilia di San Giovanni. Dal cadere della sera fino all’al-ba successiva non tacevano mai le squille sui centoventicampanili della città, affinchè le streghe, a cui, se nol sa-peste, è spaventosissimo lo scampanio, non potesserocogliere le erbe nocevoli, nè impedire con loro malizieche fossero côlte le preservative: intanto la gente nonvelava occhio per uscire garagollando a ricevere laguazza miracolosa. Era quindi una specie di festa, unberlingaccio notturno. Nei villaggi, adunati tutti allacampagna, su qualche aja, in certi luoghi da ciò, i villa-ni, al suono di zampogne e cornamuse, canticchiavano,ballonzavano, pregavano: dico la gioventù, nel mentreche i vecchi strascinatisi anch’essi pigramente al lampa-neggio, ripetevano una litania di storie di streghe: unadonnicciuola assicurava d’avere ella stessa veduto il taleo tal caso: l’altra di avere conosciuto due, tre, più fatuc-chiere: quale, intender ogni notte un gatto miagolare sultetto della vicina: quale sentir la sua pigionale, di mezzanotte, massime quando il marito non fosse in casa, apri-re e bisbigliare, certamente, col foletto; il maggior nu-mero e le più sincere si erano quelle che assicuravano invita loro non aver mai patito di malíe, perchè mai nonaveano lasciato di bagnarsi alla rugiada del San Giovan-ni.

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La Chiesa, che in tutto allora interveniva, neppur quimancava: come si continuò fino a noi nella solennità delNatale, così allora in quel giorno si celebravano tre mes-se, una a mezzanotte, l’altra all’alba, la terza sull’oranona. Durante e dopo la messa notturna, si cantava unritmo, cioè un inno, una sequenza, lunga e di metro va-riato, della quale pongo qui sotto per saggio alcune stro-fe19; la cantavano preti e chierici; e il popolo, a tuttagola e cogli spropositi onde suol rifiorire i cantici latini,rispondeva per ritornello:

Quam beatus puer natusSalvatoris angelus,

Incarnati nobis datiVerbi vox et bajulus.

19Nondum natum sensit regem

Nasciturum juxta legoSine viri semine.

Quem dum sensit in hac luceTamquam nucleum in nuceConditum in virgine....

Lux non erat sed lucerna:Monstrat iter ad supernaQuibus suum pax eternaPollicetur gaudium...

Ab offensis lava, Christe,Præcursoris et BaptisteNatalitia colentes,Et exandi nos gementesIn hac solitudine.

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In Milano, senza ch’io vel dica, immaginerete che lasolennità era più raffinata e clamorosa. Niuno sarebberimasto fra le mura: tutti uscivano chi di qua, chi di là; ipiù verso una selva, posta dove ancora si dice San Gio-vannino alla Paglia: ed era una gara delle donne di ve-nirvi in begli abiti bianchi e divisati, che facevano sin-golare spicco al bujo della notte; scollacciate secondoche portavano l’usanza e la stagione, e con una vaghez-za di fiori in capo, in mano, alla cintola, al lembo dellevesti. Molte in coro intonavano certe canzoni, di sempli-ci note, cui gli uomini tenevano bordone; altre ad allegresinfonie menavano vivaci carole: non potendo nel recin-to di quella selva penetrare nè lettighe nè cavalli, e tro-vandosi a ronzare tutti a piedi, indistinti i nobili dai ple-bei, i ricchi dai pezzenti, tolto di mezzo l’oltraggioso ri-cordare della diversità delle fortune, nasceva una libertàsicura e procace, somigliante a quella dei balli masche-rati in carnevale. La notte, la folla, l’allegria non è me-stieri ch’io vi dica di quanti disordini fossero cagione odincettivo in tempi come quelli.

Se la Margherita credesse anch’ella e temesse le stre-ghe e le altre superstizioni, non ho argomenti nè per as-serirlo, nè per negarlo; è probabile di sì, giacchè, quan-do un errore è divulgato, troppo poche sono le mentiprivilegiate che ne siano tenute monde dallo spirito diosservazione e dal rifiuto dell’opinione popolare. Fatto èche colla folla soleva anch’essa colà condursi, ed unitaalle compagne, prendersi onestamente sollazzo, andan-do in ronda quanto la notte durava.

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Credette valersene agli effetti suoi il vile Ramengo, estandole indivisibile al fianco siccome un rimorso...

I cronisti, da cui ricaviamo tutta questa serie abba-stanza sconnessa di fatti, sebbene in alcune particolaritàusino troppo più licenza che nol comporti la raffinatezzadegli orecchi moderni, qui non discendono a chiarire lacosa; nè altro appare, se non che Ramengo si avvicinòalla Margherita; e quanto insolente si comportasse ilpossiamo argomentare da ciò, che ella, tutta gentile etemperata che era, lo percosse d’uno schiaffo.

Per un’anima bieca che, simile ad un vaso fetido ovesi corrompe anche la rugiada che vi caschi, convertivain occasioni di scelleraggine fino i più soavi affetti, nondomandate se questa fu profonda, immedicabile ferita.Nol rimorse la propria colpa: solo vide l’orgoglio suooltraggiato, il contaminato onor suo: la sete di vendetta,che già lo stimolava contro dal Pusterla, altrettanto e piùfiera s’accese ora contro della donna di lui: — Sì, sì; uncolpo solo le farà scontare tutte. Orgogliosa! ti avrà atornare a mente la notte del San Giovanni!»

Di questo accidente la Margherita non credette oppor-tuno far cenno al marito: infatti a che pro? quanto a sè,tenevasi più che abbastanza sicura contro un essere tan-to spregevole: dal manifestarlo allo sposo potevano na-scere e turbazioni e guai vicendevoli. Ramengo però daquell’ora non osò comparire in casa i Pusterla; le primevolte che si avvenne in Franciscolo, il cansò studiosa-mente; ma dal modo con cui egli si comportava secoqualora lo trovasse in altre case, o nelle comparse, o sot-

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to ai coperti, ebbe a chiarirsi che nulla sapeva dell’oc-corso; si rassicurò, non si mitigò. Prese anzi maggiorcorruccio dal conoscersi disprezzato, e nè tampoco cre-duto degno di ira: e poichè l’odio dei tristi grandeggia ditutta l’altezza onde il nemico sovrasta ad essi, gli parevanon aver bene di sè, finchè coloro non avessero redentocol sangue i fattigli oltraggi. Sulla casa ove più non ar-diva portare i passi, teneva aperti gli occhi indagatori:già vedemmo con quali seduzioni lusingasse Luchino avoler contaminare la bella donna: sapendo poi la ruggi-ne che era tra il Pusterla e i Visconti, confidava non tar-derebbe l’occasione di rovinarlo. Un’accusa è così pre-sto trovata!

Quasi un anno era passato dal caso che vi raccontai,ed il prossimo ritorno della solennità di San Giovanniaveva rincrudita in Ramengo la mal saldata piaga. Le di-sposizioni dei cittadini per festeggiare quella notte, dacui tre giorni appena li dividevano, i preparativi delledonne, il tripudio con cui ne ragionavano i fanciulli, peiquali un dì festivo è un avvenimento, suscitavano in luiuna maggiore furia di dispetto. Or pensa, lettor mio, se agran disegno gli venisse l’imprudente colloquio di Alpi-nolo, il quale gli poneva in mano uno stilo avvelenato,onde colpire non la sola Margherita e il consorte di essa,ma quegli altri amici, ch’egli esecrava appunto perchèamati da loro; e nel tempo stesso gli lastricava la via disollevarsi nel favore del principe con questa prova dizelo. Ambizione! l’idolo suo: e per raggiungerlo v’era dimezzo la testa dei suoi nemici.

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Recatosi dunque alla Corte, e ottenuto accesso al si-gnor Luchino, gli rivelò la gran trama, e ben credereteche trovò i colori più neri per aggravare la colpa e l’ideadel pericolo. Il tornare secreto del Pusterla a Milano, ab-bandonando la sua destinazione, già dava titolo a so-spettare: fresca era la memoria di Piacenza, perduta daGaleazzo, (noi l’abbiamo accennata parlando di fràBuonvicino), appunto per maneggi d’un marito oltrag-giato: Luchino poi e sapeva di meritar l’odio di molti,ed agognava l’occasione di punire su Margherita le vir-tuose ripulse. Quando il tristo può ritrovare un pretestoonde, sotto velo di giustizia, mascherare l’iniquità, nonha egli il suo voto?

Dalla relazione di Ramengo appariva che i primi dacogliere dovevano essere o il Basabelletta o Alpinolo: esecondo le deposizioni di questi, regolarsi per gli altri.Ma Alpinolo era conosciuto come un fiero, che avrebberesistito a qual volessero maggiore tormento, anzichèpeggiorare in nulla la causa dei suoi benefattori: avrebbeanzi voluto in ogni guisa scaricarli, a costo della propriavita: vita d’uomo oscuro, e quindi di poca importanza.Parve dunque miglior consiglio porre lo mani addosso alBasabelletta; poco interesse aveva costui a tacere: e lacorda gli strapperebbe quante confessioni bastassero perprocedere, non importa se giustamente, ma legalmente,contro degli altri che più stavano a cuore.

Coll’abituale suo passo violento, e balestrando gli oc-chi in qua e in là, attraversava Alpinolo la piazza delDuomo, sempre infervorato nelle medesime fantasie; al-

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lorchè ode chiamarsi con voce sommessa e incalzante.Si volge, e ravvisa uno dei sergenti del capitano di giu-stizia, col quale egli soleva non di rado trovarsi in radu-nanze popolari, al giuoco, negli spettacoli, sulla taverna,luoghi che Alpinolo bazzicava per moltiplicare a sè edalla buona causa amici e fautori tra la plebe e tra la gio-ventù. E gli giovò: poichè colui, passandogli a fianco,con aria di misterioso sgomento, gli disse: — Seguimi»;e senza mostrare che fosse fatto suo, piegò verso il Bro-letto nuovo, e quivi ridotti in uno di quei chiassuoli, ba-dato ben bene che nessuno gli ponesse mente, — Va,(disse ad Alpinolo con voce affannata) va, e fuggi, e fafuggire subito il Pusterla.

— Ma perchè?— Il signor Luchino manda ordine che siano incarce-

rati lui, la moglie, tutti voi altri.— Ha forse scoperto?...— Sì: ogni cosa; hanno messo alla tortura il Mencloz-

zo ed ha schiodato...— E chi fu la spia?— Dio lo sa! Nessuno ha parlato oggi col principe

fuorchè Ramengo.— Ramengo!» proferì Alpinolo, spalancando gli oc-

chi con aspetto e con voce d’un terrore disperato. Dun-que era un traditore quello di cui egli si era interamenteassicurato! dunque di un tal precipizio era colpa la suaimprudenza! Urlando e bestemmiando sè e lui, neppurfece motto al benevolo sergente (dei ribaldi ci conserva-rono il nome le cronache; questo benedetto non parve

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degno di menzione; stile vecchio), e viepiù che di passocorse Alpinolo giù per la via dei Mercanti d’oro20; fualla Balla, e fattosi alla porticina posteriore della casaPusterla, bussò violentemente. — Oh, oh? volete sfon-dare l’imposta?» gridò una vociaccia di dentro; e si videda un finestruolo da lato sporgersi una testa nera e bar-bosa, con due occhi sdrusciti e uno sberleffe attraversoalla gota. Costui, che chiamavasi Franzino Malcolzato,erasi acquistato pel paese un tristo nome di fastidioso emanesco, a molti appoggiando e pugni e brave coltella-te, ora per conto suo proprio, ora per l’altrui, finchè futolto al servizio del Pusterla. Un signore anche buonotenevasi sempre agli stipendj alcuno di questi bassi scel-lerati, sì perchè fosse uno strumento di meno in pugnodei suoi nemici, sì anche per potersene all’uopo servirecontro di essi, in tempi che la giustizia si faceva troppospesso a punta di spade e di pugnali, o almeno a basto-nate.

Quest’arnese, come vide e conobbe Alpinolo, tostogli ebbe dischiuso.

— Dov’è il signor Franciscolo?» chiese il giovanepressato.

— È fuori.— E Margherita? la signora?— Attorno anch’essa.— Ma dove, in nome di Dio?

20 Via Torino.

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Il Malcolzato non rispose che facendo spalluccie. EdAlpinolo imperversando e bestemmiando, corse allescuderie, saltò sul cavallo più corridore, e lanciollo atutta briglia per correre dove potesse immaginare che iPusterla si fossero condotti; e l’ultima parola che ne in-tese il Malcolzato fu: — Maledetto Luchino e chi fa perlui!»

— E maledetto sia,» replicò egli guardando dietro algarzone, il quale se n’andava che nè anche il vento: poi,per incantare la noja del far la sentinella, sedutosi s’unmuricciuolo daccanto alla porta, diede occhio alla serpeviscontea che era dipinta quivi sur uno stipite, e zufolan-do la guardò beffardamente. Già aveva mal sangue coiVisconti perchè gl’impedivano di esercitare liberamentele sue prepotenze; in quella casa era solito udir parlarnetutt’altro che col miele sulle labbra; ora, ispirato anchedalla sonora imprecazione di Alpinolo, così per celiaraccolse un pezzo di carbone, e attorno a quell’arma di-segnò, come sapeva, due pali ritti ed uno traverso, chedovevano significare una forca, dalla quale scendevauna soga che si attortigliava al collo del biscione. Eguardando la sua fattura colla compiacenza onde Hayezpuò aver guardato la Giulietta o la Stuarda da lui create,sghignazzava, e ripeteva con una certa buffa intonazio-ne: — Il biscione impiccato! impiccato il biscione! cosìvada il suo padrone».

Stava il tristo nella goffa estasi sua, quand’eccogli ad-dosso il temporale. Perocchè all’ordine di Luchino, ilconnestabile Sfolcada Melik, con una grossa banda di

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quei mercenarj suoi compatriotti, che Luchino compra-va per sua difesa perchè ignoravano il parlar nostro, nonbadavano alle scomuniche del papa, nè cedevano a lu-singhe di novatori, mosse tosto per sorprendere in casa igran ribelli. Allo scalpitare dei cavalli, al grave passodei pedoni, uscivano dalle botteghe, facevansi alle fine-stre le persone; — Che è? Che non è? — È SfolcadaMelik, che Dio ce ne scampi! — Dove vanno? perchèvanno? — Guarda, guarda, hanno seco picconi, arieti,scale. Che vadano a pigliare una fortezza?»

I più quieti lavoratori si accontentavano di guardardietro alla truppa, stando a sportello o sui balconi; altri,come facchini, carbonari, macellaj, correvanle dietro, edomandavansi un l’altro dove andassero, e nessuno sa-peva soddisfarne la curiosità. Vedendoli drizzarsi allaBalla: — E che si che vanno a far la festa al signor Bar-nabo? o al bel Galeazzino? Già, dà ombra a Luchino —già ne è geloso».

Ma la sbirraglia volta. — Sta a vedere! si fermano alvicolo Pusterla; — appoggiano le scale al verone. —Vedi ve’ colui come s’arrampica! e’ par tutto un orso! —Come? — Chi? — I Pusterla? — O Madonna di SanCelso! Son miei protettori. Scappa, scappa, che non micredano del loro partito».

E i più scappavano: il che chiamasi prudenza; gli altristavano a guardare, ma nella rispettosa distanza in cui litenevano le labarde dei soldati di Sfolcada Melik: partedei quali dava da qui l’assalto alla porta, alle finestre,fino al tetto; un’altra, alla guida di uno, che la buffa ca-

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lata sul viso impediva di conoscere, svoltò nella via deisignori Piatti, e arrivò addosso a Franzino Malcolzato,intento a quel giuoco che dicemmo.

— Una forca! impiccato il biscione! minacciata laforca ai Visconti! Ecco: fin ai servi sono nell’intelligen-za!» Così diceva alcuno, forbottando e legando il Mal-colzato, a cui una sbarra cacciata in bocca impediva digridare, come le corde gl’impedivano di rispondere aimolti pugni, onde valorosamente il percotevano i Tede-schi.

Per quell’usciuolo intanto, e giù per le finestre e daltetto erasi versata nel palazzo la piena assalitrice, pren-dendo i pochi servi trovati; poi si diffuse per le stanzecome assaltasse un castello nemico, cercando i granmalfattori, e tra via facendo profitto per sè col cambiardi padrone al buono e al bello che capitasse sotto lemani.

Ma innanzi a tutti davasi da fare quel tale dalla visieracalata, e che, mostrandosi pratico della casa, con verapassione frugava le camere, e pareva scontento a mano amano che, entrando in una, la trovava deserta, od occu-pata da tutt’altri che da quelli che cercava. Quando inuna galleria vide Venturino, il bel fanciullo della Mar-gherita, che infantilmente trescava con uno sparviero,senza udire o temere il fracassìo che attorno al palazzosuccedeva. Col labbro tremante nel più amaro sogghi-gno, si avventò contro lui quel malvagio, il ghermì, lofissò quasi volesse sbranarlo cogli occhi; e mentre ilmeschinello strillava a tutta gola, e chiamava il babbo,

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la mamma sua, egli lo serrava ferocemente contro alpetto, e gli chiedeva con istanza, — Dov’è tua madre?»Ma poichè egli non rispondeva se non con urli e lacri-me, esso lo minacciava, il percoteva, e senza un istanteabbandonarlo, continuava le indagini per ogni camera,per ogni ripostiglio più secreto. Che se non poteva tro-vare nè il Pusterla, nè la Margherita, raccoglieva però learmi, le valigie disposte, tutto ciò che potesse attestare ola presenza di Franciscolo in Milano, o i preparativi diuna rivolta: singolarmente fu lieto al trovare la letterache Matteo Visconti, per mezzo del Pusterla, avea daVerona inviata ai suoi fratelli. Fatti poscia incatenare iservi, già s’accingeva a partire non del tutto soddisfatto,quando, nel metter il piede sul ponte levatojo, vede af-facciarsi la Margherita.

Nella carestia che allora dominava, molte donne, pervera fame, aveano fatto getto della loro onestà. Là versoSant’Eufemia abitava una famigliuola, ridotta a tale ne-cessità, che i genitori diedero ascolto alle sozze solleci-tazioni di un ricco, promettendo alle voglie di esso unaloro figliuola, purchè egli provvedesse ai loro bisogni.La fanciulla, allevata nelle massime dell’onestà e nel ti-mor di Dio, non reggeva all’idea desolante d’un amoresenza virtù e senza avvenire; supplicava il cavaliero,supplicava i parenti; ma quello al mal talento, questi allafame più volentieri porgevano orecchio. Ridotta allestrette, la zitella ricorse alla Margherita, e non fu inva-no, che i soccorsi di lei risparmiarono un delitto. Ora,sopraggiunta a lei l’inaspettata partenza, volle dapprima

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compire l’opera sua, e sebbene affaccendata nell’alle-stirsi al viaggio, trovò un momento da correre a casadella meschina, nell’ora che sapea d’incontrarvi il nobiluomo. E quivi, non dandosi per intesa degli indegni pat-ti ond’egli entrava colà, tolse a lodarlo della carità usatacon quella gente; gli espose come ella avesse trovato unmarito alla fanciulla, un onesto cardatore di pannilani, eche domani si farebbero le promesse; talchè egli era intempo a mostrare la sua generosità.

Il ricco, preso da siffatta bontà, che non tocca maitanto come quando è vôlta sul consolare gli altrui pati-menti, fece come la Margherita volle; fu chiamato losposo, dato l’anello, e la Margherita se ne partì tra millebenedizioni di quella povera gente, che instava perchèella domani assistesse ai contenti da lei preparati.

Oh le benedizioni dei poveri fruttano sempre, ma nonnell’infeconda terra delle tribolazioni.

Mentre, imbaccucata nella mantiglia, la Margheritatornava, vede trar gente; avvicinandosi, s’accorge d’unserra serra intorno al palazzo: — Che sarà?» al cuore diuna sposa, di una madre, quanti spaventi! Tra la folla,tra la soldatesca si apre il passo; più d’uno le diceva: —Fuggite, salvatevi!» ed ella stessa, giunta al lembo dellacalca, vedendo quell’invasione nel palazzo, stava in for-se d’andarsene, allorchè mirò uscire dalla porta quelmascherato, recantesi in braccio il suo diletto bambino.

In simili casi una donna conosce pericoli? una madre?Si slanciò alla volta di quello; ma neppure di raggiun-gerlo ebbe tempo; giacchè l’incognito, non appena la

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scorse, diede un guizzo d’infernale compiacenza, chefece guaire il fanciullo abbracciato; e additando la don-na a Sfolcada Melik, — Eccola: è dessa; legatela».

Il connestabile diede l’ordine; ma come, assalendola,ne ebbero fatto cascare lo zendado, ed apparvero quellabellissima fronte maestosa, quegli occhi avvivati dall’a-more, dalla temenza, quelle bianchissime carni impalli-dite, quell’aspetto, su cui con tanta eloquenza si dipin-gevano e l’accoramento e la generosità che le faceva di-menticare il suo pericolo nell’altrui, ristettero anch’essiquasi tocchi da sacro sgomento. Ma lo Sfolcada, chepoco capiva delle affettuose parole da lei indirizzategli,e che non voleva rincrescersi di far male a quella raz-zaccia di Lombardi, contro dei quali era lautamente sti-pendiato, le fece por le manette, e strascinarla via; nonprima però che quel malnato, nascosto dalla visiera, siaccostasse alla infelice, e mostrandole il figliuolo, le di-cesse in voce sommessa, ma rabbiosa: — Margherita, viricordi la notte di San Giovanni».

Poichè allora non adopravasi cura per illudere il po-polo, gli arresti si facevano clamorosamente, a suon dicampane. E la campana del Broletto nuovo aveva co-minciato a tempellare; a’ cui rintocchi alzando il capo,gli operosi dimandavano: — Che s’attacchi fuoco?» Mapoi intendendo che non era altro se non un atto di giusti-zia, esclamavan beati i loro tempi, perchè più non erano,al suon della squilla, costretti interrompere i lavori peraccorrere sull’armi. Propagandosi però quei tocchi amartello di chiesa in chiesa, moltiplicandosi il rumore di

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vicinanza in vicinanza, mano mano che i satelliti anda-vano pei varj quartieri imprigionando or l’uno or l’altro,una sollecita curiosità, un panico terrore invadeva i cit-tadini: tutta Milano andò sottosopra; i bottegaj chiusero:i privati stangarono gli usci. Quando tale scompiglio sidilatò, era sulle ventitrè: l’ora che, di solito, chi ne ave-va, mettevasi a cena: e che dai telonj, dalle officine tor-navasi ai tugurj suoi la plebe operosa. All’intenderequella novità, avresti veduto i Milanesi arrestarsi unl’altro, farsela ripetere, poi fitto fitto ripeterla essi stessiai sopravvenuti, al compare, al collega, al camerata. —Che? anche questa? nuove vittime? nuove crudeltà?»

E sorgeva in ciascuno un sentimento misto di pietà, diindignazione, di ritorno sopra sè stessi: sentendo così inconfuso che, quanto oggi accadeva agli altri, poteva do-mani toccar a loro. I più deboli, i denarosi, i pusillanimi,stringendosi nello spalle ed esclamando, — Poveri noi!poveri noi!» si ritiravano chiotti chiotti a pollajo, senzarivolgersi indietro; chiudevano ben bene le porte, e fat-tosi attorno un cerchio della sbigottita famiglia, si dava-no a pregare, raccomandarsi al Signore; come il contadi-no allorchè vede in aria certi nugoli bianchicci, per cosìdire stracciati, ed ascolta un sordo continuo brontolardel tuono, che lo fa pensare alle fatiche durate, alla mes-se spigata, all’inverno imminente.

Ma gli animosi (e in quel secolo non erano i meno),quelli i quali alla loro vita s’erano bagnati di sangue nel-le frequenti scaramuccie, e di tempo in tempo alimenta-vano l’abito della bizzarria e della fierezza coll’attaccar

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risse e col mischiarvisi, od almeno star a vedere, appenaudito il caso, buffonchiavano, sbattevano per terra i ber-retti, arruffavano i mustacchi e il ciuffo, poi sui crocic-chi, nelle piazzuole, facevano capannelli, ove comuni-cando un all’altro l’ardore, come più faville che unendo-si formano un incendio, se prima mormoravano, alloraprorompevano in sonanti imprecazioni; e senza guardareche fosse padrone o non padrone, facevano a chi peggiodicesse del signor Luchino; lodavano il Pusterla, forsenon per altro motivo se non perchè era perseguitato;rammentavano i tempi de’ loro vecchi, quando si facevasenza d’un padrone, e si viveva da papi.

— Come? — che? nuove catture; nuovi sbandimenti?(così dicevano con varie voci e discordanti) Arrestato ilcavalier Pinalla? un fior di galantuomo di quella fatta!Io ho servito per cinque campagne sotto la sua bandiera;egli è mio protettore spacciato.

— E suo fratello Martino? Pensate! domenica udivamessa in San Lorenzo a due passi da me.

— E me? gli è mio vicin di casa, e non mi scontravamai che non mi dicesse, — Schiavo, Pizzabrasa.

— Anche Beltramolo d’Amico fu menato su ripiegatoripiegato, sai?

— Ah! quello gli sta bene: è un ghibellino marcio.Non l’ho inteso io a dire che il papa ha fatto male a sco-municare l’imperatore e il signor Matteo? Malann’ag-gia! Se non ci fosse il papa a fare star a segno questicani grossi, che ne sarebbe di noi e del popolo!

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— Ma pel popolo e per Sant’Ambrogio si sarebbe fat-to a pezzi Borolo da Castelletto; e anch’egli è col musoalla ferrata. Quanto me ne sa male! Un avventore dimeno al mio macello.

— Il peggio è però di quella buona signora Margheri-ta.

— Un occhio di sole.— Un angelo in carne.— Ad un pitocco non diceva mai, Andate in pace; nè,

Tornate domani.— Colla penuria che corre, in porta Ticinese nessuno

ha patito la fame.— Alla mia nonna inferma ogni dì ne mandava un

fiaschetto».E seguitavano innanzi con questi encomj finchè dan-

doci alle furie, gl’interrompevano certe vociaccie sgan-gherate e risolute: — Ah cane! — ah demonio! — Cosìbecca via un per uno i nostri bravi signori! — Che razzadi città ha da diventar questa mai? Non ci resteremo chenoi pitocchi. — E allora chi verrà alle botteghe? chi citoglierà per servitori? chi ci pagherà da bere? — Bel vi-vere, perdio, vorrà essere allora?

— Vivere? (soggiungevano altri). Se pure ci lasceràvivere. Perchè io lo vedo come in uno specchio; unavolta che colle sue manifatture abbia spazzato via igrossi, ingojerà i piccini in una boccata; come il lupocolle agnella dopo squartato il cane.

— Oh se avremo giudizio (replicava Antellotto Brac-cioforte, fabbro ferrajo tutto affumicato, e con voce usa-

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ta a vincere il fragore delle incudini); se avremo giudi-zio, non aspetteremo che arrivi sino a questo: e vi pi-glieremo sopra un bravo rimedio a tempo.

— Un rimedio: sicuro: Un bravo rimedio; dice beneAntellotto (davano su a molti insieme). Già non è il pri-mo che si fa freddo. Abbiamo snidato anche i Torriani:abbiamo strascinato per le strade anche Beno dei Gozza-dini. — Oh sì certo! bisogna pensarvi di maledetto sen-no, perchè ormai chi è più sicuro nemmeno in casa pro-pria?

— Oh, in quanto poi a casa mia (gli interrompeva ilbottajo Calcintesta) com’io son dentro del mio uscio,l’ho a vedere quel muso bravo che ha da portarvi dentroi barbigi, l’ho a vedere.

— E anch’io — e anch’io», replicavano altri, destina-ti, tutta la vita loro ad essere, come i più, null’altro chel’eco delle voci altrui, che l’ombra degli altrui gesti; eimitando Calcintesta, col capo e colle pugna facevanoterribili atti di minaccia, che Dio ne scampi. — E se (ri-pigliava il ferrajo) se si avrà a fare qualche fazione, amenar le mani, ehi, camerati, mi avete visto delle altrevolte. Per qualche cosa mi dicono il Braccioforte.

— E nemmen io non son mai dato indietro ai pericoli.— E nemmen io»; replicava il solito coro.

— Ohe! (saltava su il Pizzabrasa) suonano il terzo se-gno della campana! la ritirata. A casa, a casa. Io non holanterna, e non mi sento di pagare le venticinque lire dimulta.

— Neppur io: dunque buona sera.

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— Tutt’ora che mi vogliate, sul terraggio di portaTosa, lo sapete. Addio, compare, buona sera.

— Schiavo, Beccalò. — Dormi bene, Peregrosse»; equei crocchi si scioglievano, come un muro sotto allamano del mastro che demolisce; versavansi per le vie aduno, a due, a più, difilandosi alle loro casipole, al Gua-sto, alla Vetra, al Broglio, dove la poveraglia abitava,stivata sino a venti per camera, uomini, donne, fanciullialla mescolata. Tra via seguitavano a parlottare, a bron-tolare, a rinfocolarsi a vicenda. Giunti ciascuno sullapropria soglia, nel dividersi dalla compagnia, in atto difar mari e monti, si danno certe strette di mano che fan-no spalancare le bocche, ed entrano nelle loro cameruc-cie. Colla prima sera i poveri allora si mettevano a lettoper potere colla prima alba essere ai mestieri; e i lumierano una rarità. V’è dunque bujo, se non quanto le ri-schiara qualche raggio di luna, che batte attraverso leimpannate di carta oliata. All’aprire risoluto ed impetuo-so dell’uscio, la moglie alza il capo dal piumaccio, do-mandando perchè più tardi del solito; quattro o cinquefanciulli, che le posano daccanto, e che furono tenutisvegli fin allora dalla fame, chiedono al babbo che cosaportò da cena: ma i babbi infuriati non badano, non ri-spondono nè a donne nè a ragazzi, ed acceso un lumici-no a mano, s’inviano a spiccar dal muro, a trarre di sottoal letto le loro armadure: scoprono la barbuta che erastata di loro padre e del padre del loro padre, ammaccatadalle asce fraterne e dalle straniere; cacciano a mano lostocco; tentano il ferro della lancia, e si danno a spaz-

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zarne la polvere e i ragnateli, a dirugginare, ad ugnere,ad affilare, a provarsele in capo, al dosso, in pugno, adarmeggiare, facendo fischiare gli spadoni a due mani so-vra il capo dei coricati.

A tale scena le povere donne balzano sgomentate dalletto, avvolgendosi un cencio intorno alle nude carni,che le camicie erano un lusso di pochi, ed — O caraMadonna, di San Satiro! (esclamano) cosa c’è — chefai? — perchè così scalmanato? — T’è accaduto qual-che incontro? — Te n’hanno fatto una grossa?» e pian-gono, e fansi il segno della croce; e i ragazzi, vedendo lamadre a piangere piangono anch’essi, s’aggruppano conuna meraviglia paurosa attorno al padre, pregandolo adire cos’è, cos’ha da succedere, a non lasciar piangere lamamma. Egli, così fra l’allestire l’armatura, rispondecon parole ricise e a spizzico! — Eh, niente... non v’èniente... Toglietevi fuor dei piedi... Che volete mai sapervoi, tenerume? preparo le armi perchè... perchè... è sem-pre bene trovarsi all’ordine. Non è niente, vi replico:via, volete finirla? che serve piagnucolare? ci vuol altroche lagrime. Sangue ha da essere: sangue. — Per menon sarò il primo, ma giuraddio se mi schiacciano lapunta d’un dito... Cani! gliela faremo vedere. — I Mila-nesi son buoni, ma non di là da buoni. Pazienza e pa-zienza va bene; ma poi la scappa, e rotto una volta ilghiaccio, saranno guai. Brutti mostacci!...»

Queste e più violente parole, dette coll’energia deldialetto e coll’espressione dell’ira, sono atte a ben altroche a tornare tranquille le agitate famigliuole; onde per

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quella sera è un sbigottimento, una sospensione, untrambusto. Di cenare nemmanco si parla: ma ogni trattoaffacciarsi e tender l’orecchio ansiosi al minimo bisbi-glio: e sgomentarsi, ed accorrere ad ogni ubbriaco cheschiamazza, ad ogni battente che si rabbatte più risoluto:poi da un balcone all’altro chiamarsi a nome, e — Com-pare, niente di nuovo?

— No, niente; e voi?— Neppur io»; e tacere un istante per replicare un

momento dopo con un altro la stessa domanda, la stessarisposta.

A poco a poco però quell’ardore sbollisce: le donnepietose, i vecchi prudenti riescono a mandar a lettogl’infuriati: l’ultima parola è una minaccia, ma intantole impannate una dopo l’altra si ravvicinano; i lumi ap-pena trapelano dalle accostate finestre, poi si spengono,e tutto rientra nell’oscurità, nella quiete.

Alla mattina, svegliati tra il sì e il no, in mezzo al pa-cifico sbadiglio consueto si risovvengono del tramestio,della furia schiamazzante di jer sera; se ne vanno lenta-mente rivocando alla memoria le ragioni, i successi:traggono il capo di sotto la coltre; — Come? giàchiaro!» Tendono l’orecchio, sentono la calma solita, ilsolito tranquillo ronzío delle altre mattine. Sbaldanzitidunque e tutti calma, tranquillamente stirandosi, tran-quillamente mettendosi in dosso, tra il fare si affaccianoalla finestra. — Tutto è quieto: le botteghe ancora chiu-se: le campane non suonano che a mattutino o a messa;

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lattivendoli, ortolani, mastri muratori, braccianti s’av-viano alle loro faccende consuete.

— Tanto meglio! (esclamano). Sia ringraziato il Si-gnore».

Al coraggio della paura è sottentrata la viltà della si-curezza: a quel grand’impeto, a quella viva stizza, unlanguore d’inferno: se non che per codarda apprensionevorrebbero non aver fatto, non aver detto quel che si ri-cordano di jeri: — Ma erano molti, e di ragione nessunoavrà badato a me. Al caso dirò ch’io era in cimberli».

Riprendono le scuri, le seghe, le cazzuole; raccoman-dano alla moglie di riporre le armi tratte fuori, di far direle orazioni ai puttini, di avere scodellata la zuppa perquando suona la zavatara (così, dal podestà che la fecefondere, chiamavasi un campanone in Cordusio che an-nunciava il mezzodì): e sbocconcellando un pezzo scus-so di pan di miglio, goffi goffi tornano ai lavorieri, doci-li, spensierati, come se nulla fosse accaduto. Di quelcacciare di lingua, delle fragorose imprecazioni, delleminaccevoli smargiassate della sera innanzi, null’altro èsopravvissuto che un rumore misterioso, una curiositàpiena di diffidenza, un cauto mormoracchiare coi vicinidi bottega, cogli amici di più specchiata confidenza.

— E sicchè? ci ha novità?— Mah! non ho inteso niente: quando capiterà qui un

mio avventore, che è tutta cosa del cuoco del luogote-nente del capitano di giustizia, saprò il fatto a minuto.

— E degli arrestati che ne sarà?

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— Daran da fare a mastro Impicca (quest’era il nomedel boja d’allora). Gli statuti parlano chiaro: Suspenda-tur eo modo ut moriatur.

— Volete dire, eh? E noi andremo a vedere, dicobene?

— Mah! non so che dire. Chi ha buono non rimescoli.Che gerarchie entrano per la testa a questi signori? To-glier a cozzare coi muricciuoli! È proprio come se le lu-mache facessero a testate coi montoni. Dico bene?

— Voi dite come un predicatore.— L’è il caso di quell’asino che, jer l’altro passando

per di qui, s’impuntò di non voler più andare innanzi.Che ne seguì? il padrone lo mazzicò finchè poteva por-tarne; e la bestia, scalcia, ragghia, ricalcitra, alfine do-vette cedere e seguitare.

— Già il proverbio non falla: legar l’asino dove vuoleil padrone.

— Tal quale. Gli uomini sono nati parte per obbedire,parte per comandare, dico bene? Poco su, poco giù, co-mandi un solo o comandino molti, le cose vanno dellostesso piede; e ad ogni modo noi, se vogliamo trarre incastello, ci convien lavorare tutta la giornata: dico bene?

— Benissimo. Quanto a me, io sto coi frati e zappol’orto. Se oggi odo gridare Popolo e Viva Sant’Ambro-gio, grido anch’io Popolo e Sant’Ambrogio; se domaniurlano Viva i Visconti, ed io urlo più forte Viva il biscio-ne.

— Bravo! così si sta amici con tutto il mondo.— E si muore a suo letto».

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Quindi si danno a fischiare una cadenza, a cantac-chiare un motetto, a sollecitare i battimazza perchè lavo-rino, a dare uno scapellotto al fattorino impertinente, afar sentire più vivo lo strisciar delle piale, il ronzare deitornj, l’affollare dei mantici, lo stridio delle lime e delleseghe, il picchio dei martelli: mentre la folla dei curiosi,dei ricchi, degli scioperoni, degli affaccendati, dei divo-ti, seguita a riempire le strade, le case, le piazze, le chie-se, secondo l’usato, allegro e melanconico ciascuno se-condo gli accidenti suoi proprj; e nessuno in particolaredolendosi di quello che era male di tutti.

La domenica seguente fu una memorabile solennità inMilano. Poichè i tiranni hanno l’amor proprio di volereche i loro sudditi sieno allegri — ottimo preservativo daquell’incomodo vizio del pensare — pompe e feste si ri-cordano ogni tratto, introdotte o praticate dai principilombardi. A noi vaglia il ricordarne due in Milano, co-minciate nel 1335 da Azone Visconti: l’annua processio-ne del Corpus Domini, e la festa della Natività di Maria,in cui ogni città e borgo doveva, per suoi deputati, man-dare a Milano la propria insegna e un drappo di seta daoffrire alla metropolitana; i quali drappi, il primo anno,sommarono a centoventidue, del valore di settemila fio-rini.

Alla solennità celebrata nel giugno, ove ci troviamocol nostro racconto, avea dato occasione il capitolo ge-nerale dei Domenicani, tenuto nel convento di Sant’Eu-storgio, sotto alla direzione di Ugo Vantemann, sedicesi-mo generale di quell’Ordine recente e vigoroso; e vi fu

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dato compimento col trasferire il corpo di Pietro martireda Verona, stato ucciso a Barlassina da chi mal soffrivalo zelo di esso nello stabilire ed esercitare fra noi l’in-quisizione contro l’eresia. Giovanni di Balduccio daPisa, uno dei primi ristoratori della scultura, aveva inSant’Eustorgio preparato quell’arca di sì stupendo lavo-ro che tutti avete veduto; e nella quale Giovanni Viscon-ti, fratello di Luchino, in gran pontificale

depose le sacre reliquie, con una sfarzosa processio-ne, decorata da tutti i vescovi della provincia, dalla Cor-te, dal fior della nobiltà, dai paratici, voglio dire dallesessanta badie d’artefici e negozianti, ciascuna con divi-se particolari e collo stendardo del proprio Santo protet-tore. Dalle città vicine, da tutto il contado accorse il po-polo a folla, e tutto il dì fu uno scampanare a Dio lodia-mo, e corse di barberi, e rappresentazione di misteri, epreghiere, e ubbriachezze, e una devozione, e un’alle-gria da non dire; poi la sera canti e suoni e luminare efuochi di gioja — che il vulgo non distingue mai daifuochi d’artifizio.

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CAPITOLO IX.BRERA.

Fra il generale rimescolamento di quella funesta gior-nata, che debolmente noi ci provammo di ritrarre, e chenon può essere adeguatamente compreso da chi nonesca affatto dalle costumanze d’oggidì, tutte quiete, tutteregolate, coperte, personali, per trasportarsi in quelled’allora, piene di pubblicità, di vita, di spettacolo, di fra-stuono. Alpinolo, a maniera di disperato, cacciandosiper le vie di Milano, cercava il Pusterla, ne domandavaa quanti conoscenti incontrasse, batteva anche ad alcunecase, ma nessuno gliene sapeva dar contezza: i più anzilo credevano delirante, e rispondevano:

— Il Pusterla? Oh sì! gli è lontano delle miglia più diquattro», giacchè solo a pochissimi era noto come eglifosse ritornato in città.

Così cercando senza curare del proprio pericolo, riu-scì Alpinolo sulla piazza dei Mercanti, e la vista di quelluogo, di quei portici gli esacerbò il cordoglio; insaccòpoi per l’angusta callaja di Santa Margherita di Gisone,e venuto al luogo, che chiamavano le Case Rotte pei rot-tami che vi si vedevano del diroccato palazzo dei Torria-ni e del loro giardino, quivi appunto incontrò il Pusterla.

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La storica verità ci ha pur troppo costretti ad avvertirei lettori come egli, non soddisfatto nei tranquilli godi-menti, cercasse un tumulto di affetti in indecorose pas-sioni. Il mondo lo sapeva e non gliene faceva colpa, sìperchè corrotti erano i tempi, sì perchè egli era uomoricco, giovane, bello; qualità che, non so per qual biz-zarra ragione, sogliono far perdonare simili e peggioritraviamenti. Lo strano poi si è che questi traviamentiservivano ai maligni di testo per beffarsi della Margheri-ta, quasi che uno potesse rimanere disonorato dalle col-pe altrui: quasi non tornasse a maggior lode di quellavirtuosa l’irreprovevole modo ond’ella si conducevaverso sè stessa e verso il marito.

E appunto il Pusterla, non sapendo durare un intierogiorno pacifico nel suo palazzo, era uscito per salutarequalche amica sua, ed anche per dare una volta nella cit-tà, come chi toglie congedo da un suo diletto, che per unpezzo non dee rivedere.

E fu ventura. La Margherita, che era andata a fare delbene, capitò nei manigoldi; suo marito, che andava pertutt’altro, li schivò: — tanto s’inganna chi aspetta quag-giù il compenso delle azioni.

Ma ravvolto in una veste comune, senza divisa, e colcappuccio in sugli occhi, neppure Alpinolo non l’avreb-be conosciuto, s’egli medesimo, ponendosi col cavalloattraverso alla corsa di quell’infuriato, non gli avessechiesto: — Ove, così a precipizio?»

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Non ho parole per descrivere il sentimento che Alpi-nolo provò nel ravvisarlo; e senz’altro rispondere, affer-ratagli la briglia del cavallo: — Fuggiamo», gli disse.

Non ebbe tempo l’altro di chiedere perchè; e secon-dando quell’imperio di spaventato, giù a spron battutovolse con esso per la via, che allora affatto ristretta ser-peggiava tra monasteri e chiese, ora spaziosa e a filo si-gnoreggia, fiancheggiata da caffè, da palazzi, e dal tea-tro della Scala; varietà di secoli. Ma giunti là dove que-sta è tagliata da un’altra via, che da dritta metteva ad al-tre chiese e monasteri, da mancina ad un antico olmettoche le dava il nome, ecco venire soldati da ambe le par-ti; onde più e più stimolando al corso gli alenati cavalli,— Corriamo (ripeteva Alpinolo), spronate; oh potessi-mo raggiungere la porta!»

Ma come furono in vista della postierla, videro difesaanche questa da un drappello sulle armi; talchè dispera-to, il giovane cominciò a strapparsi i capelli a ciocche, abestemmiare gli uomini e Dio, e più non avvisandomodo a campare, si volse tutto affannoso a Franciscolodicendogli: — Siete perduto... cercano di voi... tutto èscoperto... vi vogliono morto».

Quelle interrotte parole spiegarono al Pusterla ciò chegli avevano già fatto presumere quella foga, e il trarredei soldati, e il martellare delle campane. Ma se l’impe-tuosità abituale, cresciuta all’eccesso per l’angustia pre-sente e pel feroce rimorso, non lasciava ad Alpinolo tro-vare un partito allo scampo, Francesco, più calcolato, lo

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ravvisò, e girata la briglia verso il convento di Brera, ivisi rifuggi.

I conventi (e chi nol sa?) erano asili inviolabili, comele croci, come i sagrati, come le chiese, come i palazzidel Comune: rimedi infelici ad infelici legislazioni, mache facevano meno sciagurato nell’applicazione il deso-lante eccesso delle pene minacciate, il precipizio onde imagistrati le applicavano, e la furia vendicativa dei pre-potenti. In Brera dunque, ancorchè potesse essere statoveduto entrare, Franciscolo doveva tenersi sicuro; ondeAlpinolo, allorquando lo vide scavalcare colà, respirò,come una madre che veda tornar sicuro nella camera unfanciulletto, il quale per isconsiderata vivezza erasi con-dotto a passeggiare sull’orlo d’un tetto. Precipitossi dun-que a terra, baciò il limitare, poi abbracciando le ginoc-chia al suo signore, e bagnandole di copiose lagrime, siaccingeva a contargli la colpa sua e il tradimento di Ra-mengo, quando il Pusterla lo interruppe dicendogli:

— Va, e salva Margherita».Spaventosa allora balenò alla mente di Alpinolo l’i-

dea che la Margherita potesse anch’ella correre pericolo,e questo dubbio ne moltiplicò l’angoscia. Un piloto cheadoperi a rimettere a galla un naviglio, dalla sua inespe-rienza trascinato nelle secche; un famiglio che aiuti aspegnere l’incendio, da esso incautamente suscitato; unamoroso che voglia trarre l’amata donna da deplorabilesituazione, ove esso l’ha sconsigliatamente ridotta, nonoperano con tanta ansietà, con quanta Alpinolo. Il menoche pensasse era il proprio pericolo; e, o fosse che le

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guardie poco badassero a questo giovane, scambiato pernulla meglio che un ordinario scudiero, fosse che la con-fusione di quel parapiglia lo giovasse, fosse quel con-corso di circostanze che chiamasi fortuna, fatto sta cheegli riuscì, sempre correndo a fiaccacollo presso al pa-lazzo dei Pusterla. Quando vide la folla maggiore intor-no a quello, gli brillò un raggio di speranza: confidò chei Milanesi vorrebbero salvare i loro concittadini e bene-fattori, e cominciò ad alzare il grido di — Viva la liber-tà!» La turba dava luogo a questo cavalcante infuriato,ed udendone il grido, guatavansi uno in faccia all’altro,e chiedevano:

— Cosa vuole colui?— Che diamine urla?— Viva la libertà? Deve essere qualche pazzo. Largo,

largo, dategli il passo».Sciagurato! Alpinolo arrivò al vicolo Pusterla nel mo-

mento appunto che i soldati eransi tolta in mezzo laMargherita, e se la portavano incatenata. Al colmo dellarabbia e del dolore, precipitossi verso di quelli, e nontrovandosi allato la spada, volea cominciare a menar lepugna, persuaso di essere assecondato dalla turba, checredeva lo avesse seguito; ma volgendosi indietro perrincorarla, si trova solo: non un viso di amico, non unasimpatia di indispettito; nei più una vile e stupida curio-sità: negli altri un’inerte compassione. Quasi vergogno-so di stare più oltre fra una razza sì codarda, già si av-ventava per morire tra le alabarde mercenarie, allorchèdietro agli altri vide quel mascherato, nel quale già i let-

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tori hanno riconosciuto Ramengo. Tenevasi egli, comeabbiamo detto, il figliuolo del Pusterla, lieto nell’atrocecuore di farne uno strumento di squisita vendetta, co-munque la cosa andasse a finire; e se pur non potessecogliere l’abborrito Pusterla, consolandosi almeno di ra-pire a questo le inenarrabili gioje della paternità, che percagione di lui credeasi avere egli stesso perdute. Strilla-va Venturino, invocando sua madre; ma ruvidamente gliturava la bocca Ramengo, e a volta a volta, gli percoteala vita e il capo, senza quasi che alcuno ponesse mentead esso, intenti com’erano alla maggior pietà della ma-dre.

Ben vi pose mente Alpinolo, il quale pur troppo ac-corgendosi di non poter essere per nulla d’ajuto allaMargherita, si spinse addosso allo sconosciuto, gridan-do: — Lascia, lascia!» Questi non rimase ad aspettarlo,ma via spronò pei tortuosi chiassuoli di colà intorno.Sentendosi però già sopra il giovane, e sperando acca-lappiarlo colle usate frodi, si fermò, e mostrando chia-marlo a sè, — Almeno (disse con aria sospettosa e convoce alterata) almeno questo l’ho salvato».

Tanto bastò perchè Alpinolo sospendesse il suo furo-re, e credendolo un amico, gli dicesse: — Porgilo a me,porgilo a me, che lo renda a suo padre.

— E dov’è suo padre?» chiese il mascherato.Il giovane schiudeva già la bocca ad una nuova im-

prudenza, quando la prima gli corse al pensiero, e conessa l’immagine più viva dell’esecrato Ramengo; allaquale paragonando la voce e gli atti dell’incognito, lo ri-

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conobbe per quel desso. Mugghiando allora come untoro percosso, se gli avventò al collo, gridando: — Ahtraditore! Ah spia infame!» Qui cominciò una lotta, nel-la quale il ribaldo, per difendere sè stesso, dovette la-sciar cadere Venturino, che a fatica e piangendo salvossidi sotto ai piedi degli scalpitanti cavalli, mentre Alpino-lo, ghermito il nemico alle gavigne, gli pestava il musoe la persona, e, fattegli perdere le staffe, il lanciava perterra. Colui si appigliò al giovane con tanta forza, chelui pure trasse di sella, onde entrambi s’avvoltolavanosullo sterrato, a guisa di due villani rissosi. Alpinolo eradisarmato e leggiero: l’altro, col morione e la lamiera diferro; ma i pugni onde il giovane lo tempestava, pareanocolpi di mazza, e non gli lasciavan ripigliar fiato; sinchèAlpinolo, riuscito a cacciarselo sotto e piantatogli un gi-nocchio sul petto, e la sinistra mano alle fauci, colla de-stra gli veniva traendo di cintola la misericordia.

Misericordia, chi nol sapesse, chiamavano certi pu-gnali, con cui, dopo avere scavalcato il nemico collalancia o colla mazza, i guerrieri gli saltavano addosso afinirlo. Tale stravolgimento di nome non farà, spero,maraviglia al secolo nostro, avvezzato anche a più stra-ni, che parrebbero una fina arguzia se non fossero trop-po atroci.

Ramengo, sul punto di pagare in una volta tutte le sueiniquità, chiedeva perdono, e gridava agli uomini, a Dio,talchè fu inteso dai soldati, da cui, non visto, s’era divi-so; il connestabile Sfolcada Melik comparve coi suoi incapo della via, e tra il fosco e il chiaro veduto quell’ab-

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barruffamento, accorreva. Alpinolo conobbe non restar-gli tempo da perdere, e avere un obbligo più sacro chenon la vendetta; onde abbandonando la sua vittima, egiurandogli che arriverebbe a lui pure il suo sabbato, sitolse sotto al braccio Venturino, e in men che dire addio,saltando in sella, spronò verso la parte opposta a quellaonde traeva gente.

Il bujo e il trambusto di quella giornata ajutarono Al-pinolo a scampare: ma divenuto ora cauto quanto eraprima sconsiderato, più non osò rivolgersi alla casa de-gli Umiliati ove stava ricoverato il Pusterla, temendoche i passi suoi fossero spiati, e potessero tradire la trac-cia dell’amico. Rinvolto perciò Venturino, il teneva na-scosto al seno, come, una gemma unica che avesse sal-vata in mano ai ladri; come la sola reliquia con cui po-tesse redimere la colpa di aver involontariamente gettatoin precipizio l’amico, il protettore suo, il salvatore dellapatria. Così svignava per le strade più deserte, occhieg-giando se scontrasse persona fidata, cui consegnare Ven-turino; ma di nessuno più sì assicurava; in chiunque ve-desse temeva uno spione, un traditore: e intanto il fan-ciullo, mal frenando il pianto e l’impaziente desiderio,gli veniva tratto tratto esclamando: — Rimettimi acasa... Dov’è il mio babbo?... La mamma dove l’hannoportata?»

Il padre suo fra ciò, ricoverato nella cella di frà Buon-vicino, in massima segretezza stava trepidando sullasorte sua, degli amici, della moglie, del figliuolo. Già illettore ha compreso come l’animo di esso fosse tutt’al-

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tro che tempra di stocco. In battaglia aperta o in campochiuso, in maneggiare lancia e destriero, non la cedevaai migliori, nè mai fu veduto a fronte dei nemici abbas-sare gli occhi, nè mentire, nè ritirarsi: ma avea bisognolo spettacolo, l’applauso, mancandogli affatto il corag-gio civile, coraggio paziente, che sotto il cumulo deiguai, si conforta col testimonio della propria coscienza,o colla patetica gioja di lontane speranze. Dalla fanciul-lezza cresciuto negli agi, avvezzo a vedersi rispettato,obbedito, non avendo sentite mai le utili lezioni dellasventura, non si era a questo disposto; e la presente infe-licità più gli pesava, quanto erano maggiori i beni a cuiaveva attaccato il cuore, senza immaginare di doversenedisgiungere mai più. In questa cella medesima, quandoancora il cielo era ridente, Buonvicino lo aveva esortatoa spiccarsi decorosamente dalle pompe cortigiane: ora,strappato con onta da quelle, doveva ricoverarsi quivicome un reo, come un perseguitato, avvilito agli occhidi quel pubblico, nel cui concetto aveva tremato di sca-pitare. Lasciò da banda le perdite reali, le dolcezze dellacasa, della patria, degli amici; una donna di cui più viveora gli si presentavano le virtù, e più enorme il torto d’a-verla trascurata. Quindi, sollecito e povero di consigli,non che far fronte alla sventura, le si piegava sotto,come il salice alla bufera; nè trovando in sè vigore oprudenza, implorava l’uno o l’altra da Buonvicino, econ una desolazione scoraggiata, non sapea che stringerla mano al frate e ripetergli: — Amico... padre!... Buon-

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vicino! mi raccomando a voi; son nelle vostre mani...che devo fare?»

Se allora Buonvicino gli valesse, lo argomenti chi neimaggiori suoi bisogni sentì la necessità di avere un ami-co, il quale voglia e sappia consigliare, soccorrere, av-venturar, sè stesso. Misurando l’ansietà del Pusterla,dalla sua medesima, dopo che gli ebbe compartite quelleconsolazioni che per momenti siffatti serbano la religio-ne e la fiducia nella Provvidenza, uscì per prendere lin-gua, per conoscere se la Margherita abbisognasse di aju-to, o non potesse ricevere più che compassione. Conqual cuore egli fendeva le strade della città! con qualtrepidazione si accostava ai crocchi, o schiamazzanti osbigottiti delle persone, per raccogliere qualche notizia,qualche parola a mezzo! con che ansia interrogava qual-che frate, qualche suo fidato! Pur troppo venne assicura-to di quello che già presentiva: la disgrazia della Mar-gherita: ma non avendo potuto sapere nulla di Venturi-no, si fece maggiore di sè, e trasse fino al palazzo deiPusterla. Quivi una ciurma di popolaccio esultava neldare il sacco, porzione di sue ingiustizie che Luchinoconcedeva all’ingordigia plebea per farla silenziosa eapplaudente. Buonvicino vi entrò, salì, cercò ogni ripo-stiglio, chiese a tutti, ma nulla scoprì del figlioletto.

Vide la sala — quella memore sala! — Ogni cosa erascompiglio e guasto; ma colà, nel vano d’una finestra, alluogo appunto ove, nel giorno del suo errore e del penti-mento, egli avea veduto la Margherita, scorse un telajo

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da ricamo, che a nessuno doveva aver fatto gola, comecosa da troppo poco.

Su quello aveva la Margherita cominciato a trapunta-re il fiorellino, chiamato come lei. Oh quando lo comin-ciò, chi le avesse detto che non doveva finirlo, e doveaveva a ritrovarlo!

Questa reliquia egli si tolse, la baciò, se la pose sulcuore, proponendosi di non distaccarla mai più da sè;poi subito un affetto generoso gli si elevò nell’anima,che condannando questo rimasuglio di affetto mondano,gli ricordava la via di perpetua abnegazione, su cui eraentrato, e lo persuase di recare quel dono al Pusterla: —qual cosa potrebbe riuscirgli più preziosa di quella, sucui la donna sua aveva fatto l’ultimo studio?

In tal guisa uscì di nuovo; uscì per l’ultima volta dalfunesto palazzo; quanto il cordoglio glielo permetteva,esortando la ciurma ad esser buoni, a star cheti, a nonesacerbare con atti o con insulti le miserie di chi già sof-friva abbastanza. La turba lo ascoltava, sospendeva i sa-crileghi guasti, dicevansi uno all’altro: — Gli è quelbuon frate, quel frate santo»; ma appena aveva rivolto lespalle, e alla riflessione succedeva l’istinto, ritornavanoa far come prima e peggio.

E difatto, in quel caso, il frate santo che nascondeva efavoriva la fuga di uno, perseguitato dalla legge, eraprevaricatore; coloro che mandavano a sacco e guasto laroba d’un ribelle, operavano legalmente: — nuovo argo-mento in favore di chi fa sinonimi giustizia e legalità.

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Tristo e desolato, col capo basso e rinvolto nel gabba-no, si ravviava Buonvicino al suo convento, tra le fo-sche vie della città, dove appena negli spazj più dilatatila luna gettava uno sguardo senza calore, come l’ammi-razione che un logorato damerino comparte alla bellez-za; come la compassione che alla miseria concede l’e-goismo. Ma poichè, sulla via stessa di Brera, giunse allachiesa di San Silvestro, ode chiamarsi con replicataistanza. Riscosso quasi a forza dalle dolorose sue medi-tazioni, così alla bruna scorge alcuno che, addopato adun pilastro, gli accenna cautamente; si accosta, e ravvisaAlpinolo, il quale occhieggiando se veruno, quantunquefosse già buon’ora di notte, il potesse notare, gli conse-gna il piccolo Venturino. Un lampo di fulgidissimo sere-no tra la fitta tenebria d’un uragano potrebbe appena as-somigliarsi alla gioja che irradiò il volto di Buonvicino;abbracciò il fanciulletto, strinse al seno e baciò in fronteAlpinolo, il quale tristamente esclamava: — O padre,non lo merito.... Salvate questo fanciullo.... salvate ilPusterla... Ditegli... la colpa di tutto fu....»

E i singhiozzi lo interrompevano: sicchè Buonvicino,udendo avvicinarsi una pedata: — Benedetto te! (gli dis-se) Va, fuggi; che il Signore t’accompagni, e renda a teil padre, come tu rendesti al genitore questo figliuolo».

Coperto poi sotto al gabbano il fanciullo, col favoredella notte chiusa entrò inosservato in Brera, dove le re-gole eran ben lontane dai rigori imposti agli Ordini piùrecenti.

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Lunghi, penosi volgevano intanto i momenti al Pu-sterla, chiuso in una cameretta, col tormento, che è som-mo, quello di vedersi ridotto all’inazione allorchè mag-gior bisogno occorrerebbe d’operare: ridotto ad aspetta-re una decisione capitale senza poter nè cansarla, nè mi-gliorarla; dubbioso su quello che fosse accaduto dellacasa sua, di sua moglie, del suo bambino; dubbioso suquel che accadrebbe di lui medesimo; senza il coraggiodi prendersi tanta sciagura in pazienza e in espiazione.Quando Buonvicino entrò nella cella, era bujo affatto, loche tolse a Francesco di vederne la fronte, pallida comedi cadavere, ma tutta l’estensione della sua disgrazia do-vette comprendere quando, chiesto a Buonvicino dellaMargherita, questi non fece che stendergli la mano con-vulsa e madida di sudor gelato, mentre un singhiozzomal represso gli rivelò il pianto dell’amico.

E l’uno pianse coll’altro, e con essi il fanciullo; —povero fanciullo, già abbastanza intelligente per com-prendere la paterna afflizione; non abbastanza ragione-vole per conoscere l’arte di non esacerbarla. Egli si ab-bracciava a suo padre, e il padre a lui, coll’impeto onde,nella perdita di una persona cara, più ci attacchiamo aquelle che sopravanzano, più proviamo il bisogno di sa-pere che le amiamo, che ne siamo amati, di dirlo, di sen-tircelo dire. E tratto tratto Venturino rompeva in lacrimepiù dirotte, e, — Babbo (esclamava), la mamma... oh setu l’avessi veduta! L’hanno legata come un ladro. Pove-ra mamma! guardava me, chiamava te, ma non piange-

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va....Dove sarà la mamma? andiamo a cercarla; stiamocon lei: — con lei anche in prigione!»

Suo padre non poteva altro che raccomandargli di ta-cere, di star zitto, perocchè frà Buonvicino neppure aisuoi confratelli erasi fidato di rivelare il segreto chechiudeva nella sua cameretta. Anzi, per dissimularlo,quella sera e il giorno da poi comparve tra essi alle ope-re, alle salmodie consuete, soffogando il dolore che lostruggeva. Ma ognuno potrà immaginarsi che trafitturefossero per lui i comuni discorsi, di cui erano tema ine-vitabile i casi del giorno precedente; e quando alcuno nedomandava lui stesso, e conoscendolo amico dei perse-guitati, gli compartiva le sguajate consolazioni cha usala società, e che non fanno se non invelenire le ferite.Colpo più forte portò al soffrente il prevosto della casa,frà Giovanni da Aliate. Eccellente uomo era questo, ma,siccome avviene troppo ordinariamente nei capi, qualo-ra tra i loro dipendenti abbiavi alcuno che si faccia ama-re e rispettar più di loro, sentiva contro di Buonvicinoun certo rancore, che egli intitolava zelo per la salute de’suoi confratelli. La venerazione in cui Buonvicino eratenuto nel convento, l’amore che gli portavano i cittadi-ni, la fama di valente e di santo che godeva presso l’uni-versale, e’ li scambiava per attentati all’autorità sua pro-pria. Non gli parve dunque vero di cogliere un’occasio-ne onde umiliare quello che esso chiamava orgoglio diBuonvicino, il torto cioè di valere da più: e perciò quan-do si trovarono tutti uniti in circolo, il prevosto avviò ildiscorso su quella cattura, e, volgendosi a Buonvicino

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con tutta l’amorevolezza necessaria per rendere più vivoil colpo, gli mostrò come avesse mancato di prudenzamantenendo entratura con una casa, che già da un pezzoera conosciuta per turbolenta e avversa al principe; indirivolto agli altri, e specialmente ai giovani, gli ammoni-va che andassero cauti nella scelta degli amici: meglionon averne; ma, se non altro, cercassero gente quieta edabbene: non imitassero l’esempio di certuni che, nutri-cando sotto al mantello dell’umiltà la superbia e l’affe-zione al mondo, anzichè volgersi ai poveri di Cristo,amano accomunarsi coi ricchi e coi potenti della terra;nè di cert’altri, ai quali sta bene quel che Festo diceva aSan Paolo: Insanis; multor te literæ ad insaniam con-vertunt.

Tutti gli occhi naturalmente si fissarono sopra Buon-vicino; i più dei confratelli dissero col cuore, ed alcunianche colle labbra, che il prevosto aveva ragione, sebbe-ne non s’inducessero a credere che Buonvicino avessetorto: altri però, e massime i novizj, chinavano il capo etacevano, e dopo un silenzio meditabondo esclamavanocon un sospiro: — Povera gente!» e taluni anche — Po-vero Buonvicino!»

Questi nulla rispose al rabuffo del prevosto, e, comesogliono le anime ambasciate, osservò rapidamente gliastanti per indagare su quale di loro potesse far conto inun caso di bisogno: se non altro, qual sentimento prove-rebbe al conoscere la vera sua situazione; e raccolto losguardo, quasi non avesse trovato a riposarlo, raggrinzòla fronte a guisa degli uomini forti, che concentrano i

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loro patimenti avvisando inutile ed imprudente lo sve-larli quando veruna parola non sarebbe bastante a ritrar-ne la profondità, dove nessuno sarebbe capace di com-prenderli.

Nella casa di Brera per tutto il giorno vi era un’attivi-tà faccendiera e regolata, quale appena negli opifizj piùfiorenti delle più vive città ai giorni nostri; dalla portaun continuo entrare di carri, portando ballotti di lanagreggia, ed uscire di altri, carichi di panni finiti; un pe-sare, un misurare, un battere di telaj, misto talvolta a de-vote salmodie, tal altra a qualche cantilena popolare. Ilsilenzio imposto negli altri monasteri, mai non erasi po-tuto prescrivere a questi, che per ciò avevano poco pri-ma vinto una lunga lite col pontefice, siccome anche pernon andar obbligati al digiuno: nè questo, nè quello tro-vando conciliabili coi traffici e col lavorìo, a cui special-mente si riguardavano dedicati.

In mezzo a quell’incessante rumore, zitto, occulto sta-vasi Franciscolo col suo bambino, accovacciato nellacella angusta, più sicuro che in qualsivoglia fortezza, macol battimento di cuore troppo naturale alla sua desolataposizione. Il dì Buonvicino li lasciava sempre soli, traper non mettere ombra col trascurare le solite occupa-zioni dell’istituto, e tra per darsi attorno, e informarsi diquello che importava sapere. La notte poi tutta la veglia-va il buon frate coll’amico a discorrere dei casi loro, aprovvedere, a confortarlo.

Di cosa mal condotta noi sogliamo dire anche oggi«La par roba di rubello»: il qual motto nasce da ciò, che

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le case e i poderi dei proscritti per titolo politico soleva-no mandarsi a guasto: demolire le prime, lasciar gli altriincolti. Azone Visconti però avea proibiti questi eccessi,e la plebaglia dovette sapergli mal grado d’averle tolto ilgusto che, simile anche in questo ai fanciulli, essa provanel distruggere. Il palazzo dunque dei Pusterla non fudiroccato e solo mandato a sacco; gli amici di Franci-scolo che non erano riusciti a fuggire, doveano fra pocovenir sottoposti al giudizio; della Margherita nulla si sa-peva: silenzio che dava maggior ragione a temere.

Mentre una volta frà Buonvicino stava cogli infelicisuoi ospiti, odono un suono di trombetta avvicinarsi,cessare, poi risonar più dappresso, interrompendosi dinuovo, sinchè chiaro lo si intese ai piedi del convento. Ilfanciullo, che facilmente veniva divagato da un’impres-sione nuova e gradita, si mise in ascolto con compiacen-za, invitando gli altri a fare l’istesso, ed accostando ilpiccolo indice al naso per accennare che tacessero, chegli lasciassero goder tutta quella distrazione. Era il ban-ditore del Comune, il quale veniva gridando per la cittàcon una voce da passar i tetti: — Cento fiorini d’oro dimancia a chi consegna vivo o morto Franciscolo Puster-la». Qui un minuto di silenzio, poi dava fiato allo stru-mento, e ripigliava: — Signori, taglia di cento fiorinid’oro sulla testa di Franciscolo Pusterla, capo d’unascellerata combriccola per abbattere il signor Luchino,scannare i preti, disfare la santa religione, e far morir difame la povera gente. — Signori....»

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E così alternando il sonare e l’urlare, allontanavasi frauna turba di plebe che lo seguiva; alcuni inorriditi delleannunziate enormità, appena credendo che gente cosìscellerata potesse vivere sotto l’occhio del sole, altriideando qual bella fortuna sarebbe la loro se riuscisseroa scoprire e consegnare il bandito: l’ideavan quegli stes-si, che, se mai ne fosse venuto il caso, per natural bontàavrebbero rinunziato alla taglia ed ajutata la fuga del-l’accusato.

Intesero frà Buonvicino e il Pusterla quel suono: eFranciscolo esclamando, — Una taglia! come un lupo,un orso!» coprì la testa del suo Venturino perchè nonudisse quelle funeste intimazioni; poi rimasto un mo-mento ad immaginare l’impressione che farebbe sullaciurma, sui malevoli, sugli invidiosi, sugli indolenti,alzò gli occhi inviso a Buonvicino, e se gli buttò al col-lo, siccome una donna che, udendo narrare i tradimentid’altri mariti, si abbraccia al suo fedele, esclamando: —Ma tu no; tu non mai».

Tolta la speranza di poter giovare alla Margherita, asè, agli amici, non rimaneva a Franciscolo altro partitoche di cercar salvezza colla fuga, e ritirarsi ad aspettaretempi migliori. — Va pure! (gli dicea frà Buonvicino)Se per la Margherita vi sarà modo di scampo, o almenodi consolazione, sai se qui lasci chi l’ama davvero, chinon farà meno di quel che faresti tu medesimo, senzaesporsi ai pericoli come te. Oh, risparmia almeno aquella poveretta il sapere perduti e te e questo vostro an-gioletto. Va; fuggi; fuggi lontano più che puoi: non dar

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troppo facile credenza alle speranze, onde i forusciti lu-singano sè stessi e gli altri: non ti fidare a vanti, a pro-messe di stranieri. Lungo è il braccio dei cattivi, e moltee tortuose le loro vie, più che il giusto neppur se lo pos-sa immaginare».

Una mattina, Angiolgabriello da Concorrezzo, porti-najo che conoscete della casa di Brera, schiudeva il can-cello della porta rustica, e lasciava uscire un barrocciodi pannilani, senza dir altro se non, — Iddio vi benedi-ca».

In alto di esso, coricato boccone e celato dalla sargia,era un fanciullo e dietro dietro gli venivano due Umilia-ti, uno ravvolto nel gabbano bianco di lana sparato di-nanzi e col cappuccio, secondo costumavano i sacerdotidel terzo ordine: l’altro a foggia dei laici, col gabbanoanch’esso, greggio, chiuso davanti e sparato ai lati pertrarne le mani, con le pantofole ai piedi, e in capo unagran berretta, della quale il popolo nostro li soprannomi-nava i berrettani. Erano essi fratel Buonvicino, il Pu-sterla e Venturino. A questo avevano raccomandato vi-vamente di tacere, di non muoversi: e il poveretto di-mandò — Si va forse a trovare la mamma?» e con que-sta speranza si accomodò e tacque. Chi entro fragile zat-tera abbandona una punta di scoglio dove era stato gitta-to dalla tempesta, e per riguadagnare il porto espone dinuovo la sua vita alla ventura dell’infido elemento, puòdar immagine di quello che provavano dentro i due ami-ci al primo metter piedi fuori dalla inviolabile soglia del

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convento, per dare alcuni passi nella città ove tutto erapericolo.

Vero è però, che, essendo già trascorsi alquanti giornida quella prima sfuriata di guardie, di bandi, di sospetti,e credendosi omai presi o scampati tutti que’ gran nemi-ci dello Stato, meno attento occhio si aveva sopra coloroche uscissero. Anche le perquisizioni della finanza nonmettevano a rischio i nostri viandanti, atteso che gliUmiliati godevano esenzione dal dazio di dieci soldi ter-zuoli, che ogni pezza di panno pagava all’uscire. E poi-chè un portinajo veniva eletto a voce di popolo per cia-scuna porta della città, che vegliasse onde veruna frodenon fosse fatta nella riscossione, alcune erano affidateagli Umiliati, cioè la porta Giovia, la postierla delleAzze, e questa del Guercio d’Algiso, dalla quale appun-to avevano a passare i fuggiaschi.

All’avvicinarsi dunque del loro carro, come fu cono-sciuto essere merce dei frati, nessuno venne a farne laveduta: i due Umiliati di guardia esclamarono — Pace,fratelli»: e — Pace anche a voi», rispose Buonvicino: eduscirono. Quando si trovarono allargati nella campagna,Franciscolo osò alzare gli occhi, girarli intorno, rimirarancora quel bel cielo lombardo, imporporato dall’auro-ra, e che viepiù gli pareva bello dopo che da molti giorninol rimirava se non attraverso una socchiusa finestra.Chiamò il figlioletto, che fin allora si era tenuto quatto,colle mani sugli occhi, senza trar fiato, al modo onde sirimpiattano sotto le coltri certi mal avvezzati, per pauradelle fantasme. L’innocente rizzò il biondo capo, e la

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prima cosa fu un sorriso al genitore il quale se lo levòfra le braccia, teneramente baciandolo e ribaciandolo: egli disse: — Ora siamo salvi».

Venturino corrispondeva a quelle carezze, poi fissan-do in volto al padre due occhi d’inesprimibile tenerezza,domandò: — E la mamma?»

Come potevano rispondergli i due se non col dare inuno scroscio di pianto? e ricorrendo su tutti i casi del vi-vere suo con quella sventurata, Francesco stette un mo-mento rivolto verso le torri che s’abbassavano della suaterra natale.

Oh, la patria, quando la si abbandona è pur cara! Equando la si abbandona a quel modo! quando vi si lasciatanta parte di sè!

Una volta usciti di città, potevano i nostri profughi ri-guardarsi come in sicuro. I Governi d’allora, tutti impe-to e di forza e poca astuzia, neppure sognavano la raffi-nata oculatezza dei secoli moderni. Quindi nè posti digente d’arme, nè squadriglie di birri, nè chi cercassedell’esser vostro, nè le mille cautele onde nei tempi coltila Polizia tutela la pubblica tranquillità. La gente poidella campagna non aveva, come la cittadina, soffertol’influenza corruttrice della Corte e degli artifizj dei ti-rannelli; e come serbava più vive le ricordanze della go-duta libertà, nutriva costumi schietti, compassionevoli:quei costumi che si alterano fra le egoistiche importanzedella città, e che non furono ancora, per fortuna, disim-parati affatto dai più lontani abitatori della campagnalombarda. Quindi da per tutto, nei riposi del lento loro

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viaggio trovarono liete accoglienze, cordiale ricovero.— Pace a questa casa ed ai suoi abitanti», esclamava fràBuonvicino entrando: e il padrone di casa correva loroincontro, levandosi il berretto: — Oh entrino i servi delSignore. Dove vanno, e’ portano la benedizione come lerondini». E accomodatili di quel che abbisognavano, echiesto con ingenua curiosità donde venissero, ove an-dassero, come prosperassero i traffici, quanto si vendes-se il braccio di panno, con altrettanta ingenuità raccon-tava le sue faccenduole, domandava un parere, esponevaun affanno. — Oh! la brina questo aprile ci portò viamezzo il frumento. Ma le vigne mostrano bene. — Miamoglie? la poveretta è morta. Eh! se la ci fosse ancora,non vi sarebbero questi garriti colla mia nuora, che se ladice male cogli altri di casa. A proposito, il suo ultimobambino, che non fa ancora l’anno, ha i bachi. Questedonne dicono sia qualche cosa di peggio, qualche malía:c’è qua una vecchia nostra vicina con cert’occhi, che....Basta! loro sacerdoti non vorrebbero si pensasse male.Pure... farebb’ella la carità di benedirlo?»

E frà Buonvicino benediceva il fanciullo malescio;esortava la nuora a conservarsi dabbene, e augurava al-l’ospite una ricompensa di poco in questo mondo e digodimenti nell’altro.

A Varese, il carro dei panni doveva far capo alla casadegli Umiliati di colà, che ancor chiamano la Cavedra.Quivi il Pusterla mutati abiti, si separò col figlio daBuonvicino. — Addio (esclamava questi intenerito).Vedi le parole scolpite sopra del nostro convento? Spera

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in Deo. E tu le scolpisci in cuore. Riposa le tue speranzein quel Signore che dà una patria anche alla capra silve-stre, e guida nel loro passaggio le rondini pellegrine.Egli è da per tutto e per tutti: ed a chi lo invoca di cuorepiove sull’anima consolazioni, che il mondo non sa daree non può rapire: Invochiamolo insieme: preghiamo cheuna volta ancora ci possiamo rivedere — rivederci inpace e in amore, a giorni più quieti per te, per me, perlei, per la patria nostra».

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CAPITOLO X.IL PROCESSO.

A Milano intanto erano stati disposti i processi dellepersone arrestate per l’affare della congiura. Il signorLuchino Visconti era studioso di serbare le apparenzedella giustizia; e i suoi lodatori rammentavano spesso agrande encomio il seguente fatto. Aveva egli commessoil governo di Lodi al suo prediletto figliuolo naturaleBruzio, giovane studioso di lettere, ma immerso a golain ogni turpitudine. Sotto la costui balìa accadde che ungentiluomo lodigiano uccidesse un altro, onde fu preso econdannato nel capo. I parenti del reo si presentano aBruzio, e — Messere (gli dicono), se avete bisogno didenaro, non perda la testa il figliuol nostro, ed eccoviquindicimila bei fiorini, un sopra l’altro».

Ciò udendo, Bruzio, avido dell’oro, cavalcò a Milano,fu dal padre, e inginocchiatosegli davanti, gli chiese gra-zia pel delinquente, mostrandogli come egli potrebbecosì ristorarsi della sua povertà. Luchino fece segno adun sergente che gli portasse il suo elmo, il quale era for-bito e lucente, con sopra un bel cimiero, coperto di vel-luto vermiglio: ed avutolo, disse a Bruzio: — Leggiqueste parole che vi sono scritte». Dicevano Justitia. —E la giustizia (soggiunse) noi porremo ad effetto; nè per-

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metterò che quindicimila fiorini possano più della miadivisa. Va e torna a Lodi, e fa giustizia, od io la farò dite».

Giustizia di questo calibro ne troverete facilmentepresso i peggiori tiranni; troverete anche chi l’ascrivaloro a merito, merito ad assassini che fedelmente sparti-scono fra loro ciò che rubarono alla strada. Ma alcuniopinano che vera giustizia non possa mai esercitarsi lad-dove chi governa ha interesse diverso dei governati; poi-chè, qualora si trovino questi in collisione con quelli,l’istinto dell’utile personale si mescola alle decisioni,quasi senza che i giudici se ne avvedano. Quanto piùdoveva succedere in tempi tanto grossolani, e ignari del-la dignità dell’uomo!

Il diritto di sangue nelle repubbliche lombarde, dopola pace di Costanza, spettava al podestà, magistrato chegeneralmente chiamavasi da paese forastiero, durava inposto uno o due o tre anni, e proferiva le sentenze diconcerto con un luogotenente o vicario condotto seco, econ alcuni pratici della legge e delle costumanze, a nor-ma di queste e di quelle. Il travalicare però il diritto neicasi di Stato era abuso di cui già si lordavano le repub-bliche, e peggio i tirannelli succeduti ad esse in ogniparte d’Italia. Quando fu trovata, o dirò meglio, quandosi tornò a studiare la ragione scritta nelle Pandette, i po-tenti non curarono gran fatto le garanzie ivi sancite dallalibera sapienza romana, ma trassero a loro servigio leesorbitanti leggi, che la timida tirannide dei Cesari ave-va mescolate agli ordinamenti migliori; e si valsero di

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quegli esempj per farne puntello alla mal fondata autori-tà e credersi giustificati, se, nei casi di maestà, trascen-devano il diritto.

Allora i giureconsulti, non guardando più ciò che eragiusto ma ciò che era scritto, sugli esempj di una societànella quale non era ancora venuto Cristo ad erigere unpotere tutelare contro la spada, degenerarono a schifosaservilità, e divennero adirati campioni della parte ghi-bellina, per quel genio d’imitazione romana che tantecose ha già guaste nel nostro bel paese. Quando il Bar-barossa adunò a Roncaglia la dieta italiana, famosi legi-sti pronunziarono che l’imperatore era padrone del cieloe della terra, delle vite e delle robe. Poco meno sostieneDante nel ghibellino suo libro De Monarchia. I giure-consulti avevano sempre, come si dice, in manica un di-scorso per indurre la città a mutare il governo a popoloin governo d’un solo: i tirannelli non domandatemi sefacessero lor pro di dottrine per le quali la legalità non siriponeva nella ragione, ma negli atti del governo, qua-lunque ei si fosse: che sostenevano essere assolutamenteobbligatorio il comando della legge, e la legge essereciò che piace al capo: pel qual modo essi tiranni potero-no vantarsi protettori della libertà, purchè questa venissedefinita il poter fare tutto ciò che non è impedito dallalegge.

Sentono di quello spirito gli statuti criminali di Mila-no, dei quali il CLXVII sancisce che ribelli del Comunemilanese s’intendono tutti coloro, che fanno contro alpacifico stato del signore e del Comune di Milano: il

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precedente ordina che, nei casi di ribellione, presa incosì lato senso, il podestà e i giudici suoi, tutti e singolisieno tenuti per proprio uffizio ad investigare e procede-re per indizj, argomenti e tormenti, e con tutti i modi cheparrà; ed a punire e condannare.

Così elastici regolamenti facevano che in ogni paese,come dice il Muratori, quando per semplici sospetti oper vendetta si voleva togliere taluno dal mondo, sem-pre era in pronto la voce e il processo di congiura.

E la voce d’una congiura l’avea qui sparsa Luchino;si trattava ora di convalidarla con un processo. Il 15 giu-gno, vale a dire sei giorni prima, era entrato podestà inMilano Francesco de Oramara marchese di Malaspina,giureconsulto anch’egli, e adoratore della lettera scritta,che poneva per primo dovere d’un magistrato il conser-vare la quiete; e nell’assumere la carica aveva giurato difar osservare gli statuti del Comune di Milano, e princi-palmente gli accennati contro i ribelli, o come qui lichiamavano, i malesardi. Non avrebbe dunque messoimpaccio alla condanna de’ ribelli: ma dall’altra parteegli era un onest’uomo, corto sì, ma retto, retto quantobastava per venir raggirato da uno scaltro birbante; maincapace assolutamente di menare una brutta pasta perpiacenteria o per sordide speranze. L’uomo da ciò l’ave-va in serbo Luchino.

Quella banda di San Giorgio, che v’ho detta raccoltada Lodrisio Visconte a danno del Milanese, dopo scon-fitta a Parabiago, si era sparpagliata; e i mercenarj, av-vezzi alla prepotenza ed al saccheggio, e buttatasi alla

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via, rubavano, assalivano, incendiavano; terribili ancoraa minuto sotto il nome di Giorgi. Per reprimerli, fu datolicenza a chiunque di farsi giustizia da sè: e le memoriedei tempi ricordano che Antonio e Matteo Crivelli, cui iGiorgi avevano guaste le ville, quanti ne poteano averegli arrostivano, e infarcendoli di avena, li davano a’ ca-valli; ad altri sul Cremonese fu stratagliata la pelle suldorso a modo di nastrini indi il boja li frustava, gridandoad ogni colpo «Stringhe e bindelli». Così si educavano iprivati e il pubblico all’umanità.

Luchino, per quel suo amore così fatto alla giustizia,aveva contro ai Giorgi istituito un magistrato nuovo, ilcapitano di giustizia, con autorità amplissima. E perchèil mite naturale de’ Milanesi non rattenesse nell’esecu-zione, scelse a quel posto un tal Lucio, severissimouomo, il quale, imprigionando e impiccando a josa,sbrattò dai ladri il contado. Dai ladri dico grossi e minu-ti; giacchè molti signori, annidati nelle rôcche e nei pa-lazzotti di campagna, non lasciavano passare immune senon chi avesse il salvocondotto della miseria. Anche acostoro pose freno Luchino: impedì le guerre tra perso-ne e persone, famiglie e famiglie: dichiarò che tutto ilcontado immediatamente dipendesse pel criminale daMilano; sicchè i feudi si limitarono a semplice giurisdi-zione, non a tirannia: e i cortigiani del principe lo pote-rono lodare d’avere stabilito l’eguaglianza di tutti in fac-cia alla legge; — eguaglianza però dalla quale si dove-vano intendere eccettuati i forti, gli scaltri, gli adulatori,il principe, i suoi favoriti, e i favoriti de’ suoi favoriti.

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Miglioramenti così fatti sono una vera benedizionedel Cielo qualora vengano da principe buono e di retteintenzioni: se mai è un tristo, gli somministrano armiterribili, che, dopo adoperate pel pubblico bene, può farservire al suo malnato talento. Luchino di fatti collastessa mano onde feriva i nemici della società, abbattevai suoi personali. Nel che egregiamente era servito daquel Lucio, così austero, così pratico delle leggi, o a me-glio dire, dei tranelli del Foro, così zelante di far osser-vare il diritto: cioè la volontà del principe, e non già percoscienza erronea, ma perchè smanioso di togliersid’addosso un’enorme vergogna che lo rimordeva piùche un misfatto, quella d’essere nato da povera gente epovero egli stesso. A chi abbia profondo nell’animoquesto abborrimento è facile, vi so dir io, il trovar mododa fare passata ed arricchire, perchè il merito, quando sivuol vendere, trova facilmente compratori.

E Luchino aveva comprato costui, e adoperatolo altrevolte a’ suoi fini: onde non esitò a porre gli occhi sopradi esso anche nel presente caso, e cominciò dal carez-zarlo e solleticarne la vanità. Nel giorno della solennetraslazione delle ossa di san Pietro martire, la gran festache abbiamo accennata terminò per la Corte in unosplendido convito, ove sedevano il vescovo Giovanni,tutti gli ambasciatori delle città e dei principi, gran si-gnori e letterati sì paesani, sì avveniticci; e tanto straor-dinaria era la profusione, che Grillincervello, facendonele meraviglie, disse all’orecchio di Luchino: — Padro-ne, hai qualche pesce da pigliare per la gola?»

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Ho detto profusione, ma niuno diasi a intendere chenelle grosse spese di quel pasto si trovasse nulla della fi-nitezza e del buon gusto che oggi possiamo immaginareed effettuare. La prima messa fu di marzapani e pigno-cate dorate, colle armi della biscia; indi vennero polla-strelli con savore; due porcellini e due vitelli interi, do-rati anch’essi; poi un’abbondanza di spicchi di castrato,di capretti interi, di lepri e piccioni e fagiani e pernici estorioni, e quattro pavoni coperti di tutte le penne e dueorsi; tacio le cento maniere di gelatine, di salse, di paste,di canditi, di frutte, uno sfarzo di piattelli e tazze d’ar-gento, d’acque odorose date replicatamente alle mani,come lo rendeva necessario il non usarsi le forcine; vinipoi squisiti e senza misura. Ogni nuova imbandigioneera portata a suono di tromba e d’altri strumenti, da don-zelli superbamente divisati, fra mezzo ai quali scorrevaGrillincervello, tenendo in allegria con motti e con versie strofe da ciò, e ricevendo da questo e da quello i rilievie i doni, dei quali aveva fatto un cumulo su un deschettoin disparte, dicendo che gli basterebbero per mantenerequindici giorni le molte mogli e i molti figliuoli che, se-condo la scostumatezza de’ pari suoi, egli teneva incasa.

I discorsi erano vivi tra i convitati; altrimenti da quelche sogliano ora a tavole principesche, e questo era unanuova lusinga all’amor proprio di Luchino, giacchè nep-pure la ilarità dei bicchieri non suscitava ragionamentiche gli potessero tornare spiacevoli. La quiete e felicitàdei popoli soggetti, gli atti di beneficenza, le prodezze

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guerresche, l’onta dei nemici, qualche lepida avventuraprivata, porgevano ampio soggetto di ciance e d’adula-zione. Mal vi apporreste credendo dovessero schivarestudiosamente di discorrere delle disgrazie della setti-mana, degli infelici che languivano nelle prigioni, men-tre alla Corte si sguazzava. Non era quello un nuovotrionfo del signor Luchino? Non era un pericolo ovvia-to? un atto di pubblica giustizia? Poco tardarono dunquea formare tema di discussione il podestà ed il capitanodi giustizia, collocati vicino e in mezzo ad altri giure-consulti.

Dei cui discorsi avvedutosi, Luchino volse la parola aLucio, e — Voi (gli disse), voi che delle leggi sapetequel che n’è; voi che tutti interrogaste gli oracoli del-l’antica sapienza, qual pensiero fate sopra tanto caso?che n’avrebbero sentito quegli insigni nostri progenitorii Romani?»

Qui la calcolata vigliaccheria del capitano era accre-sciuta dal vedersi distinto in mezzo a tanta nobiltà; sic-chè senza esitare rispondeva: — Il giudizio intorno atraditori della patria può egli essere dubbio? Quanto ame, avvezzo a sostenere francamente la giustizia, a deci-dere secondo quella, che che me ne deva costare, dico emantengo che, se la vostra serenità risparmiasse il san-gue di costoro, verrebbe meno a’ suoi doveri, e tradireb-be il potere affidatole dal popolo».

Quanto bel suono faccia ai tiranni l’udirsi parlare deldovere di essere cattivi e di fare a proprio modo, sareb-besi potuto scorgere dalla compiacenza che scintillò nel-

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l’occhio di Luchino. Il quale, lieto di essere stato cosìbene compreso, continuava: — Sì, ma qui s’avrà a farecon volpi vecchie: gente da toga e da spada, scaltriti asegno da negare i fatti più evidenti.

— Principe, a vincere nemici insegnatemi voi: per farparlare un ostinato, non ho bisogno di scuola».

Così sotto alla maschera di rozza veridicità ascondevacolui la più turpe adulazione, e pattuiva l’infamia; e quicome d’un bel fatto, venivasi vantando di difficilissimiprocessi, dove era riuscito a convincere al modo suo ipiù scarsi d’incolpazioni; dietro a che la disputa s’infer-vorava tra que’ legulej, e durava gran pezzo dopo levatele mense; finchè Luchino, tratto in disparte il capitano,gli affidò l’incarico di guidare quel processo, e conchiu-se: — I Pusterla sono ricchissimi possessori; e al fiscoabbonderanno i mezzi di compensare lautamente i fedelisuoi ministri».

Furono sproni a buon cavallo; e Lucio da quell’oranon pensò che ad ordire le fila per la tela meditata. —Datemi in mano due righe d’un galantuomo, m’impegnodi trovarlo reo di morte», ha detto non so qual modernoforestiero. Pensate poi allora, quando il maltalento deicapi e la corruttibilità dei giudici non si trovavano frena-te da provide garanzie e dall’opinione e quando fin latortura poteva essere adoperata per istrappare di boccala verità o quella che voleasi verità.

Oltre il consiglio generale, in cui sedeva la supremaautorità, ne era in Milano un altro particolare di venti-quattro cittadini, dodici del popolo e dodici dei nobili,

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parte juris periti, cioè letterati e cogniti delle leggi, partemorum periti, cioè senza lettere ma pratici delle costu-manze patrie e degli statuti: duravano in uffizio duemesi, chiamavansi società di giustizia, ed a loro spettavail conoscere i delitti di maestà preseduti sempre da ungiudice forestiero.

Il giudice presidente o capitano era esso Lucio, il qua-le passò dunque in rassegna per iscegliere quelli che fa-cessero al suo caso.

Ecco qua (diceva egli tra sè stesso) gente di idee nuo-ve, ma che pretende cavate dal Vangelo, la quale riportatutto al regolo della giustizia, supponendo che la giusti-zia sia una cosa reale, e che s’attacchi non alle conven-zioni degli uomini, ma ai voleri di Dio. Fanatici! utopi-sti! credono che il principe deva star alla rettitudinecome l’infimo de’ plebei e che sia un gran che la testa diun uomo, per quanto oscuro. Non fanno per me.

— Quest’altri sono incamminati sul buon sentiero esanno volere la giustizia senza rinnegare la politica; giu-sti fino al trono. Nelle differenze tra privato e privato e’si farebbero coscienza di portare danno pur d’un brusco-lo; ma qualora si tratti del principe, la pensano più libe-ralmente. Alcuno di questi giova introdurlo nel consi-glio, perchè gridano alto giustizia, leggi, ragione, e fra ilpopolo hanno voce d’essere zelatori. Gridino pure; main consiglio i seniori li compatiranno come inesperti, e ilvoto loro rimarrà eliso dai meglio assennati.

— Questi altri, onesti di fondo, incanutirono nel me-stiere, onde si sono formata l’abitudine di veder sempre

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nero, di credere tutt’uno accusato e reo, e necessari al-cuni sacrifizi al pubblico bene. Un pajo anche di questi.Un pajo di quei gran giurisprudenti che, fino dalla scuo-la, si sono avvezzati a intendere e proclamare che supre-ma legge è il pubblico bene, e del pubblico bene primacondizione la quiete: nè la quiete potevasi conservarsialtrimenti che col rispettare l’ordine stabilito, qualunqueesso sia; e in conseguenza essere il maggior reo coluiche dà moto a novità.

Luchino poi aveva cominciato a mostrarsi rigorosocogli uffiziali di Corte, i quali avessero angariato o ru-bato ai cittadini, e con tormenti li sforzava a palesare gliilleciti guadagni. Chi fosse tinto di questa pece avevadunque, come diceva Lucio, una museruola alla boccaper tacere e fare a modo.

Tra sì varie maniere di vedere la giustizia, Lucio potècostituire il suo consiglio senza neppur ricorrere all’a-biettissima viltà di quelli che si vendono per denaro aipotenti, e che speculano sul piatto degli oppressi. D’al-tra parte egli sapeva benissimo come in tali vertenze glisvantaggi dell’accusato sieno tanti, che è un prodigiod’innocenza chi n’esce purgato: aggiungeva le torture,sieno le sfacciate e strillanti della corda e del cavalletto,sieno le ipocrite ed ignorate della prigione e della len-tezza: onde, esaminata ogni cosa, esaminate le specialicircostanze di un delitto di Stato, ove accusatori, testi-monj, giudici sanno di gratificarsi il padrone coll’aggra-vare gl’imputati, si trovò d’aver buono in mano e disse asè medesimo: — Cuor mio riposa: un bel palazzo e un

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ricco podere e la confidenza del mio signore non mipossono mancare».

Ma per essere sempre più sicuro del fatto suo, il capi-tano sottopose per primo a giudicatura quel FranzinoMalcolzato, servitore del Pusterla, bravaccio famigeratoper risse e ferimenti e omicidj. Costui, come si vide po-sta innanzi da un canto la tortura, la forca, o al men chefosse la prigione perpetua; dall’altro promessa l’impuni-tà qualora si confessasse reo e manifestasse le volutecolpe del padrone e i complici suoi, non esitò nella scel-ta, e Lucio trionfò della sua invenzione. Secondo dun-que gli veniva questi suggerendo; il Malcolzato disseche d’una grande congiura aveva inteso ragionare: spar-lar abitualmente del principe e de’ suoi fatti; discorreredi speranze, di vicine mutazioni, d’un avvenire miglio-re; il suo padrone aver tenuto a Verona spesse e segreteconferenze col signor Mastino della Scala e con MatteoVisconti: aver ricevuto colà Alpinolo, spedito in gran di-ligenza dai congiurati milanesi, e con questo esser venu-to di volo alla città, spesso tra via bestemmiando il si-gnor Luchino; nel palazzo del Pusterla esservi armi;quella tal sera aver egli introdotto colà i più fidi amici,che dissero, che disposero, che giurarono uccidere, in-cendiare, rubare; — e seguitò narrando cose tanto assur-de e contraddittorie, da mandarlo ai pazzarelli o condan-narlo di impostura.

Nel consiglio di giustizia non mancò chi riflettesse al-l’incongruenza di tali deposizioni; ma Lucio fece sentirecome i tumulti bisognasse frenarli col porre il piede sul-

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le prime faville; che se la pace di tutti richiedeva qual-che vittima, tornava meglio colpire quel ribaldo, chenon mettere a repentaglio tante teste segnalate.

Vero è che la giustizia non dovrebbe accettare diversi-tà di persone, ma quante altre cose non dovrebbe! i po-chi opponenti, vedendo prevalere l’opinione dei più, en-travano in diffidenza della propria e in timore d’ingan-narsi; la riverenza pel potere sì profondamente era neipiù radicata, che, senza avvedersene, mescolava nei giu-dizj la probabilità di godimenti, d’onori, di partecipazio-ne a qualche brano dell’autorità stessa; poi essendo mol-ti a giudicare, ciascuno vi portava una volontà meno fer-ma, una meno intera valutazione delle conseguenze, chenon avrebbe fatto qualora da solo avesse avuto a pren-dere la deliberazione; e la responsabilità dell’esito pare-va diminuita in ragione del numero dei colleghi. Final-mente, riflettevano, si tratta d’un mal arnese, da cui lasocietà non può aspettarsi bene di sorta.

Guai all’uomo che patteggia un solo momento col-l’austerità di sua coscienza! se è privato, diverrà un ini-quo; se magistrato, un satellite; se principe, un tiranno.

A quell’indegno procedere non resse Bronzino Cai-mo, valoroso giurisperito, che in piena adunanza osòmostrarne l’enormità ai suoi colleghi. Lucio (anche i tri-sti s’ingannano qualche volta) non aveva dubitato di tra-sceglierlo, perchè, sebbene non dissimulasse la sua av-versione alle violenze di Luchino, neppure i nemici diquesto mostravano farne gran capitale, attesochè si di-chiarava sempre abborrente dalle illegali opposizioni e

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dai miglioramenti recati colla spada: onde solevano direch’egli pretendeva raddrizzare il mondo coll’aspersorioe col messale.

Ma l’aspersorio e il messale lo facevano ripugnante aqualunque viltà, e coraggioso sostenitore del vero; tantoche la processura da Lucio impiantata non sarebbe inmodo veruno potuta giungere a compimento, ove primanon si fosse punito costui, che osava di aver ragione.

Lucio pertanto, in segreto interrogatorio, potè far con-fessare al Malcolzato, che Bronzino Caimo era essopure dei congiurati, anzi uno dei più pericolosi perchèragionevole, e quando il generoso si preparava a nonpermettere che fosse, così senza un richiamo, violata lagiustizia, si vide egli medesimo trascinato nelle prigioni,e chiamato innanzi a quei giudici stessi, ai quali dovevaservire per lezione di docilità.

Senza dunque che altri più fiatasse, le confessioni delMalcolzato furono tenute buone: poi sotto pretesto cheegli non volesse dir tutto quello che sapeva, gli vennetolta la promessa impunità, e, condannato a morte, fu trapochi giorni appiccato, siccome ministro scellerato dellescellerate trame del Pusterla. Il popolo corse a vedere, edisse: — N’ho gusto! egli era un prepotentaccio, e meri-tava di finir così. Viva i nostri padroni che purgano ilmondo da questa feccia».

Ma come le ingiustizie s’incatenano! Da questo sup-plizio restava convenuto, non solo tra il popolo, ma ingiudizio, che una congiura esisteva, che n’era capo ilPusterla, che il secondavano gli altri nominati, oltre i

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più non iscoperti. Potevansi dunque chiamare in proces-so gli altri sopra un fatto, della cui verità non si dovevapiù dubitare dopo che era passato, come dicono, in giu-dicato: ed a Lucio non restava più altro a fare che mo-strarne colpevoli gli imputati....

Oh, togliamo una volta le mani da questa sozza pasta,congratulandoci dei progressi che alla ragione criminalefecero fare coloro, i quali non temettero offendere iprincipi col francheggiare la sicurezza di tutti.

Per allora la conclusione fu che, terminati i dibatti-menti della società di giustizia, i trombetti del Comuneandarono in giro per la città, e ad ogni crocicchio fer-mandosi, dato fiato alle trombe, invitarono i capi di fa-miglia, perchè, il tal giorno a mezzodì, si radunasseroalla concione generale nel Broletto nuovo.

In questo generale parlamento risedeva, come ho det-to poco sopra, l’autorità suprema del governo: intendodi diritto, perchè nella pratica si credeva che, col nomi-nare un principe, si fossero i cittadini spontaneamenteesonerati di un tal peso per gettarlo sulle spalle a questo,il quale poche volte gli incomodava a venire a dir di sì.

Una delle poche volte fu questa, acciocchè coll’om-bra del suffragio universale sanzionassero un nuovo attodi sua tirannia. Già sulla loro decisione verun dubbionon provava il Visconte, conoscendo per esperienzacome il voto della moltitudine così congregata non sianull’altro che l’espressione di quello degli intriganti, dacui si lasciano raggirare quei più che non ebbero nè vo-glia nè tempo nè capacità di ponderare i diritti e la giu-

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stizia. D’altro lato, guardando di mal occhio queste ap-parenze repubblicane, che sopravvivevano insieme collamonarchia, Luchino godeva screditare tali assembleenell’opinione, col farsele consorti nei delitti.

Allora adunque che furono ivi radunati i cittadini,comparve in mezzo di loro la società di giustizia, e il ca-pitano, salito sulla parlera, espose la congiura scoperta esventata, nominò i rei, pubblicò le sentenze proposte sìcontro gli imprigionati, si contro i fuggiaschi. I quali ul-timi non erano pochi, giacchè tutti quelli che sapevanodi essere in qualunque modo dispiaciuti al Visconte,sebbene del presente fatto non avessero nè colpa nè co-noscenza, temettero ch’egli cogliesse volentieri que-st’occasione, in cui il rigore pareva giustificato. Quellidunque, che nei tempi di fazione si eran chiariti nemicidel biscione, fuggirono; fuggirono quelli che altre volten’erano stati perseguitati, ragione per esserlo di nuovo;fuggirono Ottorino Borro e Pagano Casati, per non pro-var novamente i guai che a lungo avevano sofferto nelleprigioni di Binasco; fuggirono Lodovico Crivello, Belli-no della Pietrasanta, altri ed altri neppure nominati dalleimprudenti o dalle estorte accuse, ma, che il Visconte e isuoi enumeravano come argomento della estensione diquella trama.

Fra quelli che erano intervenuti al colloquio funesto,e contro cui vi erano imputazioni dirette, erano riusciti asottrarsi Zurione, fratello di Franciscolo, Calzino Tor-niello da Novara, Maffino Besozzo ed altri, che, se tuttiio nominassi, alcuno si dorrebbe perchè avessi richiama-

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to in luce il delitto e la pena de’ suoi avi, altri se ne fa-rebbe bello, siccome d’una domestica gloria: — tanto inciò vanno concordi le opinioni.

Letti i processi, voglio dire quella parte di processiche a Lucio piacque estrarre, apparve così enorme lacolpa di tutti, che i novecento capifamiglia, i quali dava-no voto segreto con sassolini bianchi e rossi, trovaronsitutti d’accordo nel confermare la condanna, eccetto unaqualche dozzina, che dovevano o avere sbagliato, o noncompresa la serenissima volontà.

I fuggiaschi vennero dichiarati sbanditi dallo Statomilanese, scaduti dalla nobiltà, cioè mutato il sangue; inomi loro scritti sul libro dei signori ricevitori della Ca-mera del Comune di Milano, e le effigie rozzissimamen-te dipinte sul muro del Broletto nuovo, appese alla for-ca. Ma ciò che è più positivo, i beni loro restarono messial fisco, e quelli soli del Pusterla salirono al valore didugentomila fiorini d’oro, che oggi si ragguaglierebberoa dieci milioni di franchi.

Di somma voglia Luchino avrebbe côlto il destro ditogliersi d’in su gli occhi i tre nipoti, Bernabò, Galeazzoe Matteo, siccome gliene offrivano ragione le lettere tro-vate in casa Pusterla, e che furono l’argomento di mag-gior peso in quel processo. Ma egli non aveva osato far-ne proferire sentenza finale, tra perchè il fratello vesco-vo erasi interposto a favore loro con vive istanze, traperchè temeva si levasse ancora tanto rumore, quantopochi anni prima per l’assassinio di Marco Visconti.

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Davanti a una Madonnina che soprastava alla portaRomana, furono dunque accesi due torchietti, e intimatoa Bernabò e al bel Galeazzino (Matteo era già sul Vero-nese) che, prima che i due ceri fossero consumati fino alverde, eglino dovessero uscire di città: e, come se ne fu-rono iti, fu mandato un bando che li dichiarava esclusidallo Stato come sospetti della fede, violatori dellapace, spergiuri detestandi; et che non potessero contrarmatrimonio, nè morendo avere sepoltura ecclesiastica.

Pur troppo, come sapete, ritornarono; fecero di questopaese il peggio che seppero, vennero sepolti in chiesa, elasciarono prole niente migliore.

Il peggio toccò agli infelici ch’erano stati côlti. Marti-no e Pinalla Aliprandi, chiusi nelle carceri pretorie inpiazza dei Mercanti sotto alle scale del palazzo, da unpertugio di quella carbonaja poterono udire la sentenzache li condannava a morir colà entro di fame. Poi il dìseguente videro Borolo da Castelletto, Beltramolo d’A-mico, e l’incorrotto giudice Bronzino Caimo, decapitatisulla piazza stessa; li videro, e come dovettero invidiar-ne la pronta morte, essi costretti a doverla aspettare agradi a gradi, con tutti gli atroci spasimi del digiuno!

Ogni anno si soleva imporre sul censo una tagliastraordinaria, detta il fiorin d’oro, molto incresciosa nonmeno alla nobiltà che alla plebe. La mattina dell’esecu-zione, Luchino pubblicò che quell’anno la condonava, eche non la riscoterebbe più fuorchè nel caso d’invasionedi nemici.

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Tanto bastò, e fu sin troppo, perchè il dabben popolomilanese dimenticasse quel sangue, anzi corresse a ve-dere quell’atto di giustizia del suo generoso signore; ilpopolo, tanto somigliante ai fanciulli, che da ogni cosatraggono motivo di festa, che contemplano giocondi lostrato disteso sulla bara del padre, e dicono oh bello allemolte candele accese ai funerali della madre loro.

I giudici, uscendo di carica, si trovarono consolatissi-mi d’avere, per la pubblica sicurezza, lavorato tanto,colla soddisfazione d’essere pur riusciti a scoprire i tra-ditori del paese e castigarli. Più soddisfatto rimase il ca-pitano Lucio, il quale da un viglietto di Luchino si trovòassegnato per residenza il palazzo dei Pusterla alla Bal-la, e conceduto ad uso il delizioso podere di Montebello,salvo ad accordargliene la proprietà quando fosse decisodefinitivamente intorno al Pusterla e alla sua famiglia.

Anche la storia doveva, come spesso, offrire l’umileservigio della sua penna alla prepotenza; talchè, o prez-zolata, od abbagliata, o trovando più comodo il credereche l’esaminare, affogando sotto pompose parole ilvero, e mentendo l’eloquente semplicità dell’affetto,scrisse qualmente lo sciagurato Francesco Pusterla, ben-chè il più ricco e il più nobile fra i signori milanesi, ben-chè con gran favori e con gelose missioni distinto daiVisconti, aveva macchinato a rovina di essi, e meritatocosì di cadere dalla opulenza di Giobbe nella miseria diGiobbe: grand’esempio di non tentare novità contro aisignori del proprio paese.

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Così un consesso indipendente processò: la legge pro-feri la sentenza: il suffragio universale la confermò: ilpopolo applaudì; la storia perpetuò. Chi più avrebbeosato dubitare dell’esistenza di una cospirazione, e dellagiustizia con cui fu castigata?

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CAPITOLO XI.LA PRIGIONIERA.

E Margherita?Fortunati del mondo, se tutto questo racconto non fa

per voi, meno ancora questo capitolo, che versa tutto frasolitari patimenti, che voi non potreste capire. Ma chisoffre, chi ha sofferto, mi intenderà, li compatirà.

Nessuno forse de’ miei lettori (giacchè non posso spe-rare che queste pagine mie varchino di molto il recintodi Milano) nessuno forse sarà passato sul ponte di portaRomana senza voltare un’occhiata alla casa sulla destradi chi esce, alla cui facciata servono di fregio certi bas-sorilievi che rappresentano Milano riedificata dai colle-gati lombardi. Queste sculture, testimonio della rozzez-za, di esecuzione e della rettitudine di concetto nelle artibelle del secolo duodecimo, ornavano la porta dellamura che quivi, in due archi, era stata fabbricata al tem-po appunto della Lega Lombarda; dove poi sta ora quel-la casa, Luchino edificava una fortezza, la quale di mol-to allungavasi fra la via del terraggio e la fossa. Nel-l’anno in cui ci troviamo col nostro racconto, quella for-tezza non era peranco terminata: le reliquie poi di essa,e singolarmente un’alta torre, durarono sinchè, mezzosecolo fa, non fu demolita da quella or savia or pazza

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foga di riedificare, che non sa far di nuovo senza cancel-lare le traccie degli avi.

Nell’alto appunto di questa torre venne rinchiusa laMargherita: e la stanza a lei destinata nulla avea dellosquallore, con cui quell’atrocità che si chiama giustiziapunisce l’uomo, che essa non ha ancora sentenziato de-gno di pena. Una finestruola le permetteva di vedere, at-traverso alle sbarre di ferro, i comignoli della città: siaccorgeva ancora d’un mondo che le viveva d’attorno;ancora udiva le campane, le cavalcate, il fragore delleofficine; vedeva il cielo, il sole, il verde: scarsi ristoridel tanto che avea perduto: ristori però di cui si conosceil pregio immenso allorquando il raffinamento della cru-deltà ha fatto sperimentare quanto si può star peggio.

Eccola dunque sola, strappata a tutte le consuetudinidella vita, alla libertà delle occupazioni, degli ozj, quasinon dissi dei pensieri: in balia di gente sconosciuta, dacui non intende mai una parola pietosa, mai non riceveuno sguardo di compassione; dove ogni rumore è unamano gelata che le stringe il cuore, ogni tirar del cate-naccio è un colpo di coltello.

E questo, perchè?Una profonda oscurità le cela ogni cosa.E tutti i suoi cari?Ah! le lacrime, che aveva rattenute fintanto che non

contemplava se non la propria situazione, quando riflet-teva al figliuolo, allo sposo, in copia le sgorgavano dagliocchi sconsolati. Qualche motto che ha potuto racco-gliere dalla tranquilla crudeltà dei sergenti, che la trasse-

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ro di casa e dalla schiamazzante indolenza della plebeaccorsa a vederla, e che accennava tradimento, principe,ribellione, castigo meritato, le lasciarono argomentare sitrattasse di un delitto di fellonia, onde fosse accusato ilPusterla. D’altra parte, sotto tiranni, qual è il delitto chesi appone a chi non n’ha alcuno? Ed ella conosceva Lu-chino, sapeva d’averlo irritato colla sua virtù; la parolapoi che le gridò quell’ignoto nell’atto che partiva incate-nata, le lasciava indovinare i segreti maneggi di una lun-ga e scellerata vendetta. Che non aveva dunque a teme-re? Lo sposo forse, certo il figliuolo sono stati côlti —gettati in carcere — dove? — come? Stanno forse qui,qui vicino a lei. — E non saperlo! e non vederli! — econ loro chi sa quanti dei loro amici? forse i più cari.

Allora le si affacciava alla mente un giudizio, di cuila sentenza fosse prestabilita, indi una condanna, unsupplizio. — Dio! Dio! Ella si copriva gli occhi collemani, gettavasi boccone sullo stramazzo, fremeva con-vulsa, lacrimava: poi quando questo sfogo medesimoaveva tornato un poco di calma ai suoi pensieri, ella ri-fletteva: — Se Luchino è sdegnato contro di me, controme sola dee versare il suo furore. Qual colpa hanno alsuo cospetto que’ miei innocenti? Oh fossi certa che delmio strazio avesse egli ad accontentarsi! come pazientesoffrirei ogni travaglio! come lieta incontrerei la mortepiù tormentosa! — Ma colui.... oh non se ne sazierà.Antichi rancori, invidie antiche gli risorgeranno nell’a-nimo ora che gli venne il destro di soddisfarle, e punirà

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in essi le colpe che non hanno, per lacerare me nellaparte più sensitiva del cuore».

E qui tornando sui sogni di un’agitata immaginazionesi vedeva dinanzi le torture, il patibolo, il manigoldo; equel ch’è peggio delle torture, del patibolo, del manigol-do, il ghigno di colui, che con fredda vendetta ce li pre-para; onde scorata profondavasi nell’abisso dell’incom-parabile sua miseria!

Pure la speranza, che negli infelici non è calcolo maistinto, veniva volta a volta a lusingarla. Nei primi gior-ni pensò che quella potesse essere una dimostrazione enull’altro, un atroce scherzo per isgomentarla e smuo-verne la ritrosia: — Domani verranno a liberarmi. Di meche vorrebbero mai farne?»

Ma troppo presto le correvano a mente altre scellerag-gini di Luchino: e prima ancora che quel domani indar-no aspettato la disingannasse, già lo aveva fatto la ragio-ne.

Se non che al rimembrare le colpe di Luchino, dicevafra sè stessa: — Non è costui odiato da tutti i cittadini?non ha egli rapite a mano a mano tutte le franchigie diquesto popolo che, fremendo, lo vede sciupare i fruttidel suo sudore e del suo sangue? Francesco, all’incon-tro, il mio Francesco, non è amato, accarezzato da ognu-no? Quanti poveri non sovvenne la nostra famiglia? aquanti oppressi non diede la mano? quanti non giovò diopere e di consiglio? Deh con che indignazione si saràintesa per la città la nostra cattura! Certo, il nuovo mi-sfatto avrà colma la misura della pazienza; balzeranno

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alle armi: — ecco, si combatte: — i pochi vili fautori diesso si nascondono per sentimento di giusta vergogna,per paura della tremenda vendetta popolare; le lancieprezzolate nol difendono che col valore di gente merce-naria; — i buoni trionfano: Luchino è in fuga; la cittàtorna franca; si disserrano le prigioni; fra le acclamazio-ni del popolo, Franciscolo corre a me. — Oh contento!rivederci dopo tanto pericolo! dopo sì acerbo soffrire!ed essere stati occasione di tornare la patria in libertà».

Questa idea diffondeva sulla pallida fronte della Mar-gherita il raggiante incarnato della speranza; ma o scric-chiolar di catene, o cigolio di chiavacci la richiamavano,infelice! alla troppo diversa realtà. Passa intanto ungiorno, due, tre; una settimana, due, e la liberazione nonviene, non viene l’impeto popolare, il quale, se al primoistante non trabocchi, sbolle e si racqueta. Bensì il conti-nuare al solito del rumore cittadino l’avverte come cia-scuno badi a sè, nè curi più che tanto se altri viva tor-mentato. Che più? ode, vede le cavalcate passar rumo-reggiando in vista della sua prigione, dirizzandosi a faredi sè pomposa mostra su quel corso, o ad esercitarsi nel-le caccie e nelle gualdane: suono di chiarine festose, po-polari canzoni: di tempo in tempo un festivo dar nellecampane, chiaro le dimostrano come gli spensierati cit-tadini ridano sulla tomba dei loro fratelli, la quale può, ilgiorno da poi, schiudersi sotto ai loro piedi.

Però la disperazione stessa ha la sua calma; e il tem-po, scorrendo sopra le piaghe dell’anima, mentre le in-cancrenisce, fa sentirne meno vive le fitte. Già con quie-

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ta melanconia può la Margherita rivolgere per alcunimomenti il pensiero sul passato, sul presente, sull’avve-nire: ogni ora del giorno le ricorda un’occupazione, acui soleva altre volte dedicarla. Alla mattina, quando in-contro alla prima luce dischiude gli occhi riposati, poi-chè sparve quella istantanea illusione che, sul primosvegliarsi, fa credere al prigioniero di trovarsi ancoranella sua camera, nel suo letto, pensa come occuperebbequel giorno se fosse libera di sè. Sono placide cure casa-linghe, santità di affetti famigliari, opere di pietà, doveridi religione. Qui come lo passerà? Come gli altri, inerte,lungo, pensieroso, angustiato. — Ma chi sa? forse oggiqualche bene mi succederà: se non altro un accidenteche distingua la monotonia dei patimenti».

Questa fiducia l’accompagnava il mattino; vedeva ilsole crescere sull’orizzonte, poi chinarsi come si erachinato jeri, e l’altro, e l’altro; e al modo stesso si ripe-tevano gli stessi piccoli casi, gl’insulti stessi, le stessefitte d’ogni dì. Veniva l’ora del crepuscolo, — l’ora del-le memorie e delle meditazioni; ripensava ad altri gior-ni, ad altre sere, le paragonava con queste, e coricavasicolla speranza medesima, colla quale si era levata; e almattino la ritrovava ancora sullo spinoso capezzale.

La ragione — la filosofia. — Oh che sono mai le loroconsolazioni quando il male stringe?

Ecco un sapiente ti grida, — Meglio il dolore che ildisonore.

Oh sì: ma ciò toglie forse che il dolore prema?— L’uomo (soggiunge un altro) è nato alle pene.

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Tristo conforto una sì crudele necessità! Ma comemeritò egli questo castigo del nascere? E poi, egli giragli occhi intorno, e vede altri, colmi d’ogni bene di for-tuna; prosperi gli scellerati, anche tranquilli dopo chesoffocarono il grido della coscienza tra il vortice dicommessi e di meditati delitti: vede esultare nella ven-detta coloro stessi che lo fanno soffrire così. Perchè nonhanno sortita anch’essi la loro porzione di patimenti?Qui la filosofia che cosa risponde?

Verrà un terzo, che freddamente chiede: — Il ramma-rico a che giova?

— Ah! lo sa troppo la infelice che a nulla giova, equesto appunto l’accòra, che, da tanta afflizione, verunfrutto non venga a sè, veruno a’ suoi cari.

Più risoluto intuona un altro: — Non vi è male fuor-chè la colpa.

Non vi è male? eppure essa lo sente, e tale che le vin-ce le forze. Si trattasse di doglie del corpo, le tollerereb-be. Fossero soltanto mali suoi! ma qui ha consorti neipatimenti le persone più caramente dilette: uno sposo,un figliuolo che nulla ha per anco gustato, e già si satol-la di fiele. O filosofo, condannerai gli affetti più natura-li? e come conforterai chi da questi appunto è tormenta-to? Gli rammenterai forse altri tempi, felicità godute?Ah taci, che il rincorrere i beni passati gli esacerba lapresente condizione.

O gli ripeterai i pomposi esempj degli eroi e de’ sa-pienti del mondo, e il generoso modo onde tollerarono iguaj, con cui sempre il mondo li ricambiò? Ma quanta

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parte non vi aveva l’ostentazione? L’eroe che affronta lamorte in campo, sa che migliaja di spettatori lo guarda-no, sa che muore per la salute della patria, per una cau-sa, che è o che crede buona; sa che la gloria di un nomeeterno seguiterà al suo coraggio, mentre un eterno ob-brobrio verrebbe dietro ad un istante di viltà. Chi scontasul patibolo la colpa di aver avuto ragione troppo presto,si conosce spettacolo dell’intera società, la quale dal suoultimo contegno giudicherà della sua dottrina; e vuolecolla propria costanza suggellare la santità della causaper cui muore, e l’infamia di chi lo fa morire.

Ma qui è una sventurata, sola, senza testimonj, se nonchi o per abitudine è reso incapace di compassione, oper viltà la sbeffeggia; ed ignora se, fuori di là, pur unosi ricordi che ella soffre.

— Ma ha il testimonio della buona coscienza.Oh! l’innocente sta forse a condizione peggiore del

reo: questi conosce il suo peccato, prepara le discolpe,calcola le conseguenze, se non altro dice, — L’ho meri-tato». La innocente invece non sa perchè tormenta; que-sto solo sa, di tormentare senza colpa per satollare larabbia d’un nemico. Può l’animo non covar rancore? e ilrancore non è senso spasmodico, che basta ad avvelena-re sino la felicità?

Belli sono, o filosofi, i precetti vostri, banditi dallecattedre e dai libri; eccellenti contro ai mali passati ed aifuturi; ma se il presente incalza, allora natura reclama ilsuo diritto, e ridendo di voi, li sparpaglia al vento.

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La Margherita non ignorava queste consolazioni: chesuo padre, conoscendo quanti triboli ingombrano questobreve tragitto dalla cuna alla bara, l’aveva già fanciullapremunita contro il mutarsi della fortuna; e le lezioni deiprimi anni tornano vive in mente a chi è dalla sventuraarrestato nel corso, e costretto a volgere un minutosguardo sugli anni trascorsi. Ma poichè ne aveva amara-mente conosciuta la vanità, altri sentimenti doveva cer-care nella sua memoria e nel suo cuore, ed esclamava:— Santa religione! in mezzo al tumido spirito del seco-lo, tripudiante nell’ebbrezza delle passioni, nella soddi-sfazione del senso, nella superbia della scienza, tu com-paristi ad insegnare il perdono, la pazienza: dal nasceretuo fosti nutricata di lagrime e di sangue; tra lagrime esangue crescesti ad occupare la terra! — Oh benedettoconforto, largito dal Cielo nelle miserie che i ribaldi ac-cumulano sulla terra!

Tutta assorta in quella, Margherita contemplava ilnulla delle cose di quaggiù: come nessuno sia senza col-pa in faccia a Colui, che scopre macchie negli angelisuoi, e che esercita con afflizioni anche la giusta vita pertramutarla, espiata, in una migliore. Allora essa ram-mentava un testimonio che, presente a ciascun sospiro,esplora il cuore e i pensieri, registra ogni lagrima percompensarla. Esulta l’empio nelle disoneste prosperità?Margherita il compiange, sapendo che altro giudice loaspetta con altre bilance a rivedere le ragioni di chi sof-fre e di chi fa soffrire. Trovasi divisa dai suoi; forse mai

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più non li vedrà — mai più in questa vita; ma un’altrane segue, per la quale tesorizza ogni istante di patimenti.

E quali esempj le offre questa religione? Un Dio, cheveste le miserie e il peccato altrui: viene tra i suoi, e n’èripudiato; benefica, e non trova che ingrati; sparge ilvero, ed è calunniato, e la calunnia trionfa; un amico lovende, gli altri lo abbandonano; un popolo, fra cui tra-scorse beneficando, lo grida a morte, e morte decretauna politica atroce mentre lo confessa innocente. Quan-to lui chi soffrì? Sei tu innocente? ma chi come lui? Pa-tisci per la giustizia? ed egli era venuto in terra a portarela verità e la libertà vera. Egli pure sentiva tutte le uma-ne affezioni: sulla tomba di Lazzaro pianse: s’indispettìalla durezza di cuore dei Giudei: anelò mangiare la pa-squa coi fratelli: gemette sui preveduti guaj della patria;antivedendo la passione, venne tristo fino alla morte,pregò che quel calice gli fosse levato; quando ne sorbivale ultime stille, si querelò col Padre che l’avesse abban-donato; — e spirò, e lasciava detto che, chi non toglies-se la croce sua, non era degno di lui.

E sua madre? quanto più grande, più innocente e san-to ella conosceva il divin Figliuolo, tanto più acuto col-tello le trapassò l’anima, dal povero tugurio dove appe-na aveva come ripararlo nascente, fin quando esanguese lo vide deporre fra le braccia. Il mondo la saluta regi-na dei dolorj, donna dei tribolati. Come un amico parte-cipe delle umane angoscio, la invocava Margherita nellasemplicità del suo cuore: — Tu pure fosti madre: fosti tu

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pure calunniata; vedesti il Figliuol tuo in mano dei mal-vagi. O Maria, prega per me, prega per loro.

E recavasi fra le dita il rosario.Era quel rosario, che fra Buonvicino pentito le avea

donato, augurandole che un giorno potesse da quello ca-vare consolazioni. Quel giorno è venuto, e vere consola-zioni essa ne attinge. Bacia la crocetta di legno pendenteda quello, la preme sul cuore, la stringe fra le manigiunte: — è il segno delle tribolazioni santificate dallapazienza e dall’amore; e inginocchiata si dà a ripetere lasalutazione a Maria; e l’orazione insegnata da Cristoqual compendio di quanto dobbiamo sperare e doman-dargli. Allorchè ripeteva Perdona a noi, come perdonia-mo a chi ci offese, arrestavasi per esaminare se davveroella perdonasse: — santo precetto, ignorato, o non inte-so dalla superbia del secolo, ma che pone il colmo allaperfezione, nel tempo stesso che fa un dovere la serenitàdell’amore: ed a cui volle Iddio aggiungere la sanzionemaggiore, il perdono ch’egli pure concederebbe a chiavesse perdonato.

Poi quando Margherita implorava da Maria che pre-gasse per lei adesso e nell’ora di sua morte, la materiaprevaleva un tratto allo spirito, e le si affacciava allamente quell’ora, tanto diversa da quanto fin là si era im-maginato. — Chi sa? forse qui, qui sepolta in un carce-re, dovrò aspettare, pigro, tormentoso l’estremo momen-to; e quando giungerà, non amici che mi confortino: nonun occhio che mostri compassionarmi: non una voce co-nosciuta, che dagli spasimi dell’agonia mi richiami un

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istante ancora alla vita: non una mano che risponda allelente strette della mia. Guarderò intorno, nè incontreròche visi inconsapevoli, e quelle persone che m’hannofatto soffrire. E quando gli occhi miei più non vedranno,una mano straniera sbadatamente me li chiuderà.

Qui un pensiero più truce le soccorreva: un morire di-verso, subitaneo, violento — il patibolo, una folla indif-ferente spettatrice, un superbo che sorrida... Per tutta lapersona un fremito le scorreva, e, come se veramenteavesse quelle immagini orrende sugli occhi, li coprivacolle palme e — Maria, Maria! pregate per me adesso ein quell’ora.

Per onorare la Madonna, univa la sua preghiera aquella di tutti i fedeli allorchè le squille invitavano a sa-lutarla. E principalmente quando, la sera, parevano con-gedare i mortali dalle fatiche del giorno al riposo, ram-memorando un altro riposo perpetuo, dove ci attendonocoloro che prima di noi patirono e sperarono quaggiù, laMargherita, suffragando ai defunti, abbandonavasi neipensieri del passato, ricordava coloro che aveva vedutistaccarsi dal mondo, pregava per una madre che avevaappena conosciuta, per un padre... Oh quanto sentiva didovere a quel padre! quanto ora gliene tornerebbe soaveun detto solo, una consolazione!

Poi le cadeva in mente che forse, tra i poveri morti,v’erano altre persone a lei più vicine, uno sposo, un fi-glio: — Chi sa se Luchino li risparmiò? — Chi sa se giànon mi aspettano all’altro mondo? E sconsolavasi, epiangeva dirotto: finchè la speranza veniva a mormorar-

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le nell’orecchio colla voce d’un angelo — Sono vivi: livedrai.

Ma quando?Poichè a molte superstiziose osservazioni propende

chi soffre, mille pronostici andava ella traendo dai piùnaturali fenomeni: un sogno era un presagio: — Quandoquel ragno avrà compita la sua tela uscirò di qua entro:— Conterò venti giorni, e a capo di questi verrà qualchenovità. Il finire e il cominciare d’ogni mese, d’ogni nuo-va settimana, e il mutare delle stagioni, e i dì foschi e isereni, davano appiglio alla malata immaginazione perchimerizzare, per temere, per confidarsi. Principalmenteall’accostarsi delle solennità, le si serena la speranza cherechino la fine di lunghi tormenti, e ne valuta a giorni edore l’avvicinamento; — e giungono e passano. Allora unpiù giulivo dar delle campane, un più frequente brulicardi persone in abito adorno, la fanno ricorrere col pensie-ro ai riti onde la Chiesa festeggia quei sacri anniversarj;ai tempi quando, con una pace ineffabile, ella vi assiste-va; un sacerdote apriva i tesori della parola, bandendo iprecetti dell’amore, della mansuetudine, della pazienza;un inno più allegro dei pieni cori, un’armonia solennedegli organi le diffondeva nell’anima una serenità, sco-nosciuta fra i godimenti del mondo.

Ma ora? Quei giorni in nulla sono differenti dagli al-tri, se non quanto li rende più melanconici il paragone.Appoggiata la testa e intrecciate le dita ai rigidi cancellidella sua prigione, abbassa lo sguardo su quei tranquilli,che con lieta premura s’avviano al tempio, alla festa,

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quasi voglia indovinare chi siano, di che favellino. —Questi altri tornano liberamente alle case loro. — Lacasa! oh quante dolcezze sono compendiate in questonome! e quanti tormenti per chi ne è staccato da violentamano! Vedi là quella madre col bambolo suo: forsegl’insegna le orazioni, forse gli dà un buon consiglio, unrimprovero affettuoso. Oh, anch’io una volta, aveva an-ch’io un fanciullo che amava me quant’io lui, che michiamava mamma. Oh parola di ineffabile espressione!Ed era così bello, così carezzevole, così innocente! gliangeli parevano gioire nel suo riso: i suoi baci mi face-vano prelibare il paradiso. Ei sarebbe cresciuto: soaveconsolazione della vita mia, di suo padre... Ah forse nolvedrò più più! Deh santa Vergine! liberatemi da questepene: tornatemi a mio marito, a mio figlio, a casa mia.— La mia casa... la casa mia! — O almeno fatemi con-tenta di questo! che una volta, una sola volta, io possarivedere, abbracciare il mio bambino!»

In tal guisa la Margherita strascinò i pigri giorni del-l’estate, sola, destituita d’ogni conforto, se non quelloche traeva dalla sua religione e dal tempo che medicatutto.

Coloro frattanto, per cui cagione essa pativa, sarannorimasti quieti e senza pensieri, ai comodi della vita, aglispassi. Deh! come può uno godere un istante di tranquil-lità quando sa che quest’istante è aggiunto alle angosciedella sua vittima? Come può un giudice, non dico diver-tirsi e distrarsi, ma appena riposare, ove rifletta che ogniritardo prolunga gli spasmodici dubbj d’un essere pen-

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sante e delle tante persone che vivono della vita di lui?Penetrate nei fondi delle prigioni, interrogate l’animo dichi v’è rinchiuso, calcolatene, non coll’orgoglio, macolla virtù che sente, l’eternità dei giorni inoperosi,l’ambascia delle notti insonni, toccate quella fronte, incui bolle un pensiero d’uomo, quel cuore che palpita peruna moglie, in grazia sua desolata, pei figli rimasti sen-za pane, per un padre che la sua lontananza spinge nelsepolcro. Ed è uomo come voi, come voi redento da unSangue prezioso, come voi incamminato ad un avvenire,ove la prepotenza e l’oppressione staranno su diverse bi-lancie. E forse è un innocente, che non aspetta altro cheil giudizio per trionfare nella sua virtù. E voi gli prolun-gate questi spasimi di un’ora, di un giorno? che dico?mesi ed anni il tenete fra gli squisiti tormenti dell’incer-tezza, che sarebbero troppi a punire il maggior delin-quente? Oh riflettete!...

Ma che? dipingendo il secolo decimoquarto, m’erauscito di mente ch’io vivo nel decimonono, quando lavoce di filosofi e della crescente civiltà abbastanza tona-rono a ciascuno i suoi doveri: talchè il mancarvi, non èignoranza, ma perversità.

La giustizia d’allora, ignara dei pigri avvolgimentimoderni, anzi più spacciativa che nol comportasse la si-curezza dell’innocente, non avrebbe lasciato languireMargherita sì a lungo nell’aspettazione di un processo,quando non fosse stato una mira particolare di Luchino,che voleva punirla della virtù, trarla forse agli indegnisuoi propositi, o giungere per suo mezzo ad avere in

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mano anche il Pusterla. Però un giorno, tornando d’avercorso lo sparviero, rientrava il Visconti dalla porta Ro-mana: leste le guardie, dando fiato al corno, calarono ilponte levatojo: si disposero in ala di qua e di là, mentreegli passava in mezzo a loro: giunto ai piedi dell’arco,fece di berretto, e piegò la fronte fin sulla chioma delcavallo innanzi all’effigie della Madonna, scolpita sopraquella porta. Poi girando l’occhio a sinistra, dove si la-vorava la sua rocchetta, si risovvenne di colei che inquelle prigioni pativa, cioè si risovvenne che poteva far-la patire d’avanzo.

— Ehi, Grillincervello», disse sorridendo al buffone,inseparabile compagno: — Ti ricordi della bella damache tempo fa ti mostrai su quel terrazzo alla Balla, e tumi dicesti....

— Che la non è biada pei tuoi denti», interruppe losguajato.

— Sai tu dov’ella sia?» richiese il principe.— In catorbia: lo so.— Dunque?...— Mah! badate (ripigliava il buffone) che il dunque

non sia precipitato. Quante volte io vedo sul vostro piat-tello un ghiotto boccone che mi tocca l’ugola: dite perquesto che io possa bagnarmene il dente? Gli è graziache ne senta l’odore».

Sogghignò Luchino, e, — Va, buffone, e di’ al carce-riere che passi alla nostra Corte».

In quei tempi non si stava tanto sul sottile delle con-venienze; e persone di Corte erano, come l’astrologo e il

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buffone, così il carceriere e il boja; i quali poi nella raf-finatezza successiva non dovettero ricevere gli ordini,nè presentare la relazione ai grandi se non per infinitascala di intermediarj: tutto a vantaggio della verità e del-la tenerezza di cuore.

Non paja adunque sconveniente che il carceriere sipresenti in petto e in persona a Luchino; nè di conse-guenza che noi ci fermiamo un tratto a far conoscenzacon quello, che da tanto tempo era unico compagno del-la nostra Margherita.

La giustizia non si faceva — allora — coscienza dicollocare presso al cuore delle sue vittime l’indivisibiletormento di un uomo, scelto tra la feccia più ineducatadella società, onde esercitare quest’ultimo grado della ti-rannia, che appunto per essere l’ultimo, pesa più grave,come più immediato, e perchè chi lo occupa vuole soprai suoi dipendenti vendicarsi delle umiliazioni che soffredai superiori, e si attribuirebbe a colpa la pietà, se pietàmai potesse germogliare in gente che s’induce a guada-gnare un pane sui martirj altrui. — Dico allora, quandola malata e pietosa fantasia di Silvio Pellico non avevaancora creato di pianta lo Schiller e la Zanze.

Il custode della Margherita, a vederlo, era un cosolungo lungo e badiale, colla pelle tutta chiazzata e a ma-scherizzi, occhi guerci e suffornati in archi di ciglia se-tolose, capelli rossastri spartiti in sulla fronte, e tirati giùcome una cornice barocca attorno a quel poco viso chelasciava discoperto una folta e sudicia barbaccia, damettere nausea e spavento. Nasceva egli dalla valle d’I-

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magna nel Bergamasco; e i suoi buoni compatriotti sup-plivano allora, come anche oggidì, alla scarsezza del ter-reno col lavorar al tornio l’acero e il faggio delle loroselve in palle, mestole, taglieri, truogoli, zipoli e siffatti,che poi scendono a spacciare a Bergamo o a Milano.Anch’egli era stato dirizzato su quell’arte del mestolajo,come suo padre, come suo nonno, e il padre e il nonnodel suo nonno; ma diverso in tutto da loro, sin da giovi-netto gli era stato mutato il proprio nome di Macaruffoin quello di Lasagnone, perchè non sapeva piegar laschiena, e la poca fatica gli era una sanità. Cambiò me-stiere più volte, ma senza trovar mai basto che gli en-trasse; e dicendosela assai meglio colle mezzine che col-lo scalpello e col tornio, stavasi tutta la giornata indar-no, mangiando il pane a tradimento. Accoppiando cosìl’abborrimento al lavoro colla insofferenza della povertàe colla leccornia più triviale, avrebbe rinnovato il mi-sfatto di Giuda per buscar denaro e golerie col minor la-voro. La sua gioventù fu infamata di sozze e vili cattivi-tà fra’ suoi valligiani, i quali solevano dire che esso con-traffaceva a tutti i comandamenti del decalogo, eccettoquello del non lavorar la festa. Sperando che questa do-vesse rimettergli il senno, gli diedero moglie; ma un belgiorno e’ la piantò con un figiuolo in braccio e un altronel ventre, a buscarsi il tozzo come potesse, od a basirdi fame; egli calossi alla pianura, e mescolatosi ai Gior-gi, si buttò alla strada. Neppur tanto coraggioso per riu-scir bene nella scelleraggine, poco andò che il capitanoLucio se l’ebbe nelle branche.

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Ma questa, soleva egli dire, fu la sua fortuna. Peroc-chè, facendosi rapportatore degli antichi suoi camerata edei malandrini che gli erano dati compagni nella prigio-ne, acquistò tanta grazia presso il capitano di giustizia,che tolto di là, mercè due sode braccia, un muso duro eun cuore più duro ancora, fu destinato prima per aguzzi-no, poi per carceriere nella torretta di porta Romana. Su-perbo coi sofferenti perchè vile coi superiori, sapeva checol ceffo e coi modi avrebbe sgomentato quelli, mentrea questi per nessuna cosa del mondo avrebbe osato direun no.

Nei primi giorni che la Margherita si trovò nella co-stui balìa, per procurarsi quelle prime necessità che ilsuo stato portava, ella dovette cedergli a poco a pocoogni superfluo che le fosse rimasto addosso; nè esso leconcedette requie finchè non la ebbe ridotta al più posi-tivo e indispensabile vestire. Colla sommessione dell’a-gnello che lambisce la mano di colui che lo scanna, essagli parlava: ma quello, burbero sempre, sardonico, stiz-zoso, rispondeva, la proverbiava, sghignazzava. Essa gliragionò di compassione, nè tampoco il nome ei ne cono-sceva. Essa gli ragionò di Dio: ei sapeva che vi era, glirecitava per abitudine le devozioni, da sua madre inse-gnategli, ma non andava più in là, e nemmanco figurata-si che questa credenza dovesse modificare le sue azioni,e tanto meno fargli tradire l’obbligo del suo mestiere,che credeva quello di essere spietato.

Per quanto deva patirne la storica dignità, non vogliotacere questa circostanza minutissima. Una volta (fu sui

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primi di maggio) Lasagnone entrò nel carcere di lei conuna bella rosa fra l’orecchio e le tempia. Un fiore, quelfresco colorito, quella rugiadosa fragranza, dovettero su-scitare mille care idee nella Margherita, che mossa dainnocente desiderio, con affettuosa commozione addi-tando la rosa, disse al carceriere: — Donatela a me.

— Ah sì? La vi piace, eh? rispose il villanzone; pigliòfra le dita la rosa, la annusò sgarbatamente, mostrò por-gerla alla meschina; poi ritirandola di scatto e sfogliata-la, la gettò per la finestra, e sghignazzando come di unlepido fatto, se ne andò.

Che caso da’ nulla, non è vero? finalmente non si trat-tava di pane, non d’altra necessità; eppure, che volete?alla Margherita fece tanto colpo, e tanto se ne ricordò,che quando una volta potè sfogarsi con un confidente,gli ripetè questo,a preferenza di cento altri torti.

— Lesto, lesto, Lasagnone, che ti chiama il sor padro-ne intonò Grillincervello, sporgendo la testa rasa da unfinestruolo al lungo corridojo delle prigioni, e ritraendo-lo presto e fuggendo come fa un lupo dal luogo dove al-tre volte restò preso alla tagliuola.

— Me? domandò Macaruffo tra meravigliato e pauro-so: ma non ricevendo risposta, fretta fretta gettò via unsuo abituale saltambarco sdruscito e bisunto, infilò uncappotto marrone alquanto migliore, si tirò sulle orec-chie un berretto rosso, diede una girata a tutte le prigionise fossero ben assicurati i chiavacci: e messosi in cintu-ra a sinistra un grosso coltellaccio, a destra il mazzo del-le chiavi, uscì frettoloso. Passò davanti a San Nazaro,

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lasciò a destra il lago artificiale presso al luogo ove sor-ge l’Ospedale, e di cui serbano memoria le vie di Panta-no e di Poslaghetto e venne a San Giovanni in Conca.Fin qui stendevasi il palazzo, o piuttosto l’aggregato deipalazzi dei Visconti; e Luchino stava continuandone lafabbrica con quattro grandi torri ai canti, e dentro ognimigliore comodità. Nel tornare quivi era scavalcato ilprincipe: dato un’occhiata alle costruzioni, censurato,lodato, ordinato siccome dee fare un padrone; quindi perun corridojo coperto, largo dieci e più braccia, e che ac-cavalciava i tetti, era venuto fino alla Corte, ed entratonelle splendide sale.

Poco tardò a sopraggiungere Macaruffo, e lasciandosidietro quelli che non avevano se non da esporre al prin-cipe i loro bisogni o domandargli la giustizia, fu intro-dotto da Grillincervello, il quale, con un fare tra goffo emaligno, scotendo i sonagliuzzi, imitava il rovistio dellechiavi, che tintinnivano ad ogni passo del montanaro. Epoichè questi, col berretto in mano, rannicchiato pressoallo stipite della porta, faceva grandi inchini, grandestrisciar di piedi, il buffone forbottandolo gli diceva: —Bada, frusto villano, che non mi stracci il tappeto: viendi Damasco, e me lo pagheresti con altrettanto della tuapelle».

Luchino, senza guardare in viso al carceriere, doman-dò: — Che fa la signora Margherita Pusterla?

— Oh!... magnifico.... serenissimo.... Oh signor prin-cipe! la sta da papa rispondeva l’altro. — Nessuno che

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le torca un capello. Non trae mai fiato di lamento. E poile domandi, e sentirà.

— Ma di me che dice?» richiese il Visconti.— Dice... cioè... oh serenissimo... oh magnifico...» e

seguitava questa litania, non tanto per adulazione, quan-to perchè non sapeva che cosa rispondere; onde corruga-va la fronte, e fissava due occhi stupidamente indagatoriin faccia al padrone, come per leggervi se dovea rispon-dere che lo bestemmiasse, ovvero che lo benedicesse.Ma leggere sul freddo e impassibile viso di Luchino, eraimpresa difficile anche ad occhi molto più aguzzi de’costui; laonde imbarazzato egli cagliava. Se non che lotrasse di pena Grillincervello dicendo: — Su, parla:che? hai tu veduto il lupo? Scommetto la mia marottad’argento che essa ne ragiona col miele sulle labbra: n’èvero?

— Appunto (parlava il carceriere): non sa finire di lo-dare la sua beneficenza che le ha dato sì vistoso allog-gio.

— E sicuro dai ladri», interrompeva il buffone.— E che la fa trattare come neanche a casa sua».Qui il bergamasco taceva, seguitando a confermare

l’asserito cogli atti del viso e con premer la mano sulpetto, e Grillincervello saltava su: — Non lo sapeva io?Padrone, tu puoi quando che sia licenziare il tuo Anda-lon del Nero, e nominare me per astrologo serenissimo.Egli pronostica dalle stelle, io dal mio can barbone, chepiù gliene appoggio di sode, e più mi corre a leccar lamano».

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Luchino fece un moto delle labbra che somigliava aun sorriso; poi voltosi al carceriere, — Da qui innanziperò trattala meglio, ed ogni mezzodì vieni a levare allanostra cucina un piatto da recarle».

Poi, al tempo stesso che, alzando la mano, gli accen-nava d’andarsene, soggiunse: — E le dirai che il princi-pe si ricorda di lei».

— Carità pelosa» mormorò il buffone. Il carcerierespalancava tanto d’occhi, corrugava la fronte, rotondavala bocca dalla meraviglia, e pensava fra sè: — Trattarbene un prigioniero! Ch’e’ voglia morire?» Poi, molti-plicando le riverenze profonde fino a terra, dava indietroper uscir a modo dei gamberi, allorchè Grillincervello,dopo una sonora risata, ghermitolo per un braccio, e coldito dell’altra mano accennandolo a Luchino, disse: —Lasagnone meriterebbe il suo nome in superlativo se diquel piatto non ungesse la sua golaccia, ed a voi nondesse ad intendere che madonna ne viene grassa, e cheve ne sa gran mercè.

— Potrebbe fargli (ripigliò con fiera ilarità il Viscon-ti), potrebbe fargli il pro che ha fatto jeri la lepre a quel-l’altro».

Bisogna sapere che il giorno innanzi era stato côltouno sciagurato, il quale aveva avuto l’imperdonabile ar-dimento di uccidere un lepratto: ed il principe fredda-mente aveva sentenziato che il delinquente mangiassequella bestia così cruda, con ossa e pelle e tutto, comedovette fare, e in conseguenza crepare.

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Grillincervello intese l’allusione, ed esclamando: —Dio salvi i cani da tali bocconi!» accompagnò con uncalcio Macaruffo, il quale tra i denti augurava che il de-sinare diventasse tanto tossico al linguacciuto beffardo,perchè gli avesse sturbato il disegno che aveva già fattosopra la vivanda della cucina principesca.

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CAPITOLO XII.PEGGIORAMENTO.

Il giorno dappoi, all’ora che Lasagnone soleva portarealla Margherita una pagnotta, una scodella di zuppa eduna brocca d’acqua, le comparve dinanzi con volto piùmansueto, a somiglianza d’un orso quando fa cerimonie.Obbediva egli così a colui, al quale egualmente avrebbeobbedito se gli avesse comandato, — Lasciala consuma-re di fame». E poichè le ebbe deposto per terra il vasodell’acqua e accomodata la scarsa prebenda, a guisa dichi vuol mettere in sapore di cosa inaspettata, diceva: —Qui poi, ci ho un lacchezzo per vossignoria»; nel mentreche pian pianino, sto per dire con devozione, venivarialzando i lembi di un tovagliuolo, di sotto al qualecomparve un fragrante manicaretto. Tirò il fiato per lenarici colui, come un segugio che fiuti il sito del selvati-co, e mettendosi la mano sul cuore, esclamò: — Ohbuono!» poi deponendolo avanti alla sventurata, che, aquei garbi così insoliti e così goffi, a quella voce cosìstranamente indolcita, così forzatamente cortese, aprivala fisonomia ad un malinconico sorriso, — Questo (lesoggiunse) glielo manda l’illustrissimo signor Luchino:padrone nostro e di tutta Milano; e dice che glielo man-

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derà tutti i giorni, dice; e che vuole sia trattata sempreda par sua: e dice che si ricorda di lei».

Questo cambiamento in meglio recò tutt’altro checonforto alla Margherita. Come succede al giusto con-culcato dal prepotente, ella sentivasi di gran tratto supe-riore al suo nemico; e a guisa di una molla d’acciajo, piùera calcata, più con vigore rimbalzava. Oggi però che nericeveva una cortesia, e pur troppo non poteva recarsi acrederla da pietà o dalla acquistata certezza dell’inno-cenza sua, ma dovervisi celare qualche insidia; oggi le siapriva dinanzi all’immaginazione un’altra serie di pati-menti e martirj nuovi che le sovrastavano. Quindi, allor-chè il carceriere le fissava gli occhi guerci in faccia,aspettando di vederla tripudiare dall’allegrezza, un pro-fondo sospiro mandò ella invece dal petto, e sollevandolo sguardo gonfio di lagrime al cielo, esclamò: — A voimi raccomando».

Era corso il suo pensiero alla madre del bell’Amore: alei si era votata contro i preveduti assalti. Si ricordòquando, bambina, le insegnavano ad offrire un fiore aMaria Vergine coll’astenersi, in certi giorni più devoti,da qualche vivanda che le facesse gola; buon avviamen-to a quelle abnegazioni che, in troppo più gravi cose,deve poi nella vita fare per forza chi non vi si abituò pervirtù. Anche allora dunque voltasi Margherita a Maca-ruffo, e colla destra lievemente respingendo il taglierech’ei le sporgeva: — No (disse), no. Vedete? coteste de-licatezze a me non s’addicono. Per reggere la vita n’hoassai di questo pane e di questa zuppa. Trovate di grazia

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un poveretto — qualche infermo che conosciate più bi-sognoso; dategli questo piatto, e raccomandategli chepreghi per me.

— Come? la non lo vuole?» esclamava il carceriere,fuori di sè tra per lo stupore e per la fiducia di farne suopro: e colla più tepida insistenza, che ingegnavasi di fareapparire sincera, ripeteva: — Senta, senta!» e annusavala pietanza e l’avanzava verso di lei: — Senta fragranza!È un pasticcino di beccafichi da serbatojo, tutti sugna.Ah buono! Un boccone da tornar il gusto a un morto.

— Tanto meglio (replicava la Margherita) quel pove-retto lo mangierà più volentieri.

— Ma... a... a...!» riprendeva Lasagnone assumendoun’aria seria e contrita. — Il signor principe ha ordinatodi darlo a lei, o sarebbero guaj. M’ha fatto una minacciache... il Signore me ne scampi!

— Il principe non lo saprà. Io l’ho per accettato; fateconto che l’abbia goduto io: e destinatelo, vi prego, al-l’uso che vi ho detto.

— Deh che buon principe eh?» soggiungeva Maca-ruffo, pur collo sguardo incantato sopra la vivanda. —Ella può veramente chiamarsi fortunata d’essere nellesue mani. Pare fino che abbia compassione di lei».

La Margherita chinava la testa, e colui seguitava: —Dunque darlo proprio ad un pitocco.

— Si, e che preghi per coloro che soffrono, ed ancheper coloro che fanno soffrire.

— Buon pranzo a vossignoria», esclamò Macaruffo,traendosi il berretto con un’insolita gratitudine, e tiratosi

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dietro l’uscio, se n’andò contento che non gli pareavero; e non era disceso da metà la scala, che si sedette, epostosi quel leccume sovra le gambe incrociate, si diedead ingojarlo con avidità, nell’estasi di tutta la sua ingor-digia lamentandosi che fosse poco, e leccandosi le dita,le labbra, i barbigi, il piatto: invidiando quasi all’aria glieffluvj che gliene avea rapiti.

Il giorno da poi narrò alla meschina d’averlo dato adun mendicante. — Se l’avesse veduto! sciancato, leb-broso, che non lo guarirebbe l’arcivescovo il dì dellepalme21; non poteva reggersi sulle gambe, e ogni po’ cheio tardassi, e’ cascava certamente di pura fame. Con chegola ricevette il suo dono! Aveva ad essere qualche cosadi ghiotto, io credo: Bocconi di quella fatta non ne pap-pano nemmeno i pitocchi. Fu certo la sua vita. E sa? egliha mandato una furia di benedizioni addosso a lei, aisuoi vivi ed ai suoi morti».

Era questo uno di quegli esordj per insinuationem,che in retorica c’insegnavano, giacchè alla conclusionedi esso, discoprì e le presentò un altro intingolo, che,giusta il comando, egli era stato a prendere dalla cucinadi Corte.

— Bene! (disse la Margherita) lodato il Signore che,anche in questo stato, mi presenta il modo di soccorrerei miei poveri fratelli! Ed oggi abbiate la compiacenza difare altrettanto con quest’altro.

21 In quel giorno l’arcivescovo, tornando dalla processione a San Lorenzo,lavava un lebbroso in Carrobio.

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— Come? anche oggi?» saltò su il carceriere, fingen-do meraviglia di quel che già aveva per lo meno sperato.

— Sì (ripetè la signora); anche oggi.— E anche domani?— Anche domani, e così l’altro, e finchè me ne man-

deranno.— Ma (replicava il ghiotto), se egli, se il signor prin-

cipe le domandasse, che cosa gli risponderà? Non vorreiche credesse...

— Gli dirò che l’ho sempre ricevuto.— E che lo ringrazia, n’è vero?»Così tutto a pasto uscì il leccarde, cantarellando som-

messamente — Di peggio non capiti».Ma domandandole che cosa avrebbe risposto al prin-

cipe interrogata, egli avea fatto rabbrividire Margherita,la quale presentiva che dovrebbe trovarsi faccia a facciacol suo persecutore. Nè quella paura tardò a verificarsi.Pochi giorni dopo, Luchino, girando da quelle parti conun codazzo di soldataglia e di cortigiani, si volse di trat-to al suo buffone dicendogli:

— Grillincervello, vogliamo noi fare una visita a ma-donna Pusterla?

— Questa volta non ci sarà pericolo che madonna co-lei la troviate partita», rispose il buffone.

Rinfrescavano queste parole al principe una memoriaspiacevole se altra mai, onde, a guisa d’un mastino tra-ditore, che repente si volge a morsicare la mano da cuilasciavasi quietamente palpeggiare, digrignò i denti stiz-zito, e vibrò la mazza contro il motteggiatore insolente.

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Il quale fu destro a schivarne il colpo, e cacciandosi frala turba esclamava guajolando: — S’e’ mi coglieva, po-veri i grilli del mio cervello!» Poi Luchino toccò disprone il cavallo, e s’avviò alla rocchetta. Al suo venire,si cala il ponte, guardie gridano, guardie accorrono, unossequio universale, un pendere attenti ad ogni suo cen-no; — e tutto questo perchè? perchè egli ha nome il pa-drone...

Gonfio di tanti omaggi, ebbro dell’universale obbe-dienza, della vigliaccheria universale, entra, scavalcaverso un appartamento che egli avea fatto allestire ondein ogni caso potervisi, come in luogo più sicuro, riparareda una prima furiata del popolo; e lasciata nell’antica-mera la comitiva, come fu in una stanza interna, mentreun paggio gli sfibbiava l’armatura, ordinò al carceriereche portasse colà la signora Margherita.

Lesto Macaruffo fece sonare un mazzo di chiavi; orri-bile armonia, onde tutta si risentì la nostra infelice, tantopiù quando in quell’ora straordinaria l’intese drizzarsiverso la sua prigione ed aprirla. In fatto egli schiuse, econ un ghigno di maliziosa petulanza sporgendosi mez-zo in quella camera, le disse: — Buone nuove, signora,buone nuove: l’illustrissimo signor principe è di là chel’aspetta».

Chi avesse detto alla Margherita — Sei condannata aMorte», non le avrebbe dato nel sangue una mano cosìgelata, come annunziandole che doveva trovarsi testa atesta con quel cattivo. Impallidì, sentissi venir meno,

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talchè le convenne appoggiarsi ad una seggiola; sudò,gelò, poi gettatasi ginocchione, pregò fervidamente.

La interruppe il carceriere con un — Andiamo; lesta,che il suo tempo è prezioso».

Ella rincorata si alzò, e ripetendo — Andiamo», si av-viò: mentre Macaruffo le teneva dietro replicandole: —La si ricordi che le pietanze io gliele ho portate: — e senon le volle, colpa sua: e che le ho detto che il principesi ricorda di lei; — e che l’ho trattata sempre comeva...» La aspettava Luchino in un salotto, assiso in unseggiolone a intagli dorati, coperto di damasco: avevadeposto la corazza, l’elmo, gli schinieri, ed incrociandole gambe, appoggiava ad uno dei bracciuoli il gomito si-nistro, e al dosso della mano la guancia. Due vivissimiocchi scintillavano nel viso di maschia bellezza, qualetutti l’avevano i Visconti; un viso, su cui la virilità avevareso stabile qualche ruga, disegnatavi prima dall’orgo-glio e dal dispetto. Ricca capellatura gli scendeva ina-nellata dal capo scoperto sopra le larghe spalle; e fissatoalla porta, lasciava trapelare sul volto una mistura di tur-pi speranze, e di appagate vendette.

La Margherita gli comparve dinanzi in un vestito bru-no, dimesso e trito, ma nelle pieghe di quello e nell’ac-conciatura del capo si rivelavano ancora le graziose con-suetudini della donna elegante, la quale un tempo dallelabbra di chiunque la vedesse, strappava un grido di am-mirazione. Da quel tempo oh come era mutata! eppurefra tanti segni di patimento compariva ancora troppo piùbella, che non avrebbe essa desiderato per isfuggire alle

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malnate voglie del suo tiranno. Ma più bella ancora larendeva quell’aspetto di superiorità, che la fronte del-l’innocente conserva, allorquando, per le non rare com-binazioni sociali, si trova chiamato a giustificare la pro-pria virtù innanzi all’iniquità prevalente; superiorità cosìsublime, che un savio disse, essere lo spettacolo più ma-raviglioso agli occhi degli Dei.

Poichè all’uomo abituato alle nequizie poco costa unanuova, Luchino stava aspettandola colla indolente atten-zione onde l’uccellatore attende la preda al paretajo.Forse, erudito come era, gli veniva in mente quell’impe-ratore romano che, carezzando la testa d’una sua amata,le diceva: — Mi piaci tanto più, perchè penso che conuna parola posso fartela balzare ai piedi».

Vero è che nell’animo suo non aveva fatto disegno diusare violenza con essa: dirò più retto, non aveva pensa-to che dovesse tornarne bisogno. L’anima abjetta credegli altri somiglianti a sè. Luchino nei volubili suoi ca-pricci rado o non mai aveva (miseri tempi!) trovato labellezza resistente alle lusinghe dell’oro, della vanità,del potere. Come credere che l’avrebbe fatto questa?questa, a cui i passati patimenti dovevano aver fattochiaro da chi pendesse ogni sua fortuna; come un cennodi lui potesse ridurla infelicissima, o sollevarla a pri-meggiare nella Corte fra le sue eguali, e tornarla, che èpiù, al marito, al figlio, che importa se contaminata? —Il temere di essi, lo sperare in essi, il vivere per essi èpure l’unico sentimento, che nei sudditi suppongono i ti-ranni, e che credono bastante a frenar sino il pensiero;

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che dico? a farli sino amare. Quindi cortese salutò la tri-bolata, e — In quanto diverso stato io vi riveggo, ma-donna.

— In quello (rispose la Margherita) in cui piacquealla vostra serenità di ridurmi.

— Ecco!» esclamava Luchino, rizzando il capo e bat-tendo della mano sulla sedia. — Ecco già sulle primeuna parola schifa e superba. I casi dunque non vi avran-no rintuzzato cotesto orgoglio? Perchè non riconoscerepiuttosto i vostri errori? perchè non dire: Sono nello sta-to ove mi trassero le mie follie — e le altrui?

— Principe (replicava la signora con una dignità ac-corata), vi prego ricordare che non fui per anco giudjca-ta: e che il giudizio potrà mostrare come a torto mi siappongono delitti che ignoro. La sicurezza della miafronte dovrebbe del resto attestarvi della miainnocenza».

Sogghignò egli col freddo e crudele orgoglio, chesuole il potente ribaldo al nome di virtù, e — La sicu-rezza (soggiunse) l’ostenta anche il ladrone, reo del san-gue di molti. Non ho veduto mai un ribelle, che sulleprime non abbia in ogni atto, mostrato quell’innocenzache poi alle prove scomparve. Ben forti ragioni, o signo-ra, ben forti devono essere quelle che m’indussero atrarre qui una persona, che voi sapete se io stimo... seamo».

E sorgendo le si avvicinò con aria di procace dimesti-chezza; essa dava indietro taciturna e sospirosa. Comeferiscano al vivo le proteste d’amore fatteci da colui che

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ci perseguita, neppure al mio più atroce nemico augure-rei di sperimentarlo.

— Ma voi (continuava Luchino) come rispondestealle prove del mio affetto? Alterigia, fastidiosi dispregi escherni, e dietro a questi, facile passaggio, congiure, tra-dimenti. Or chi siete voi da volervi alzare contro il vo-stro padrone? Miserabili! egli soffia, e vi fa polvere».

Così ora placido, ora severo egli veniva da varie ban-de tentando l’animo di essa, che sempre dignitosa, ne ri-provava gli argomenti, lasciava sfogare le sue escande-scenze; aveva ragione e gli chiedeva perdono, mentreegli la ingiuriava e chiamavasi offeso: — vicenda tantoconsueta nei fasti della povera umanità. Sovratutto po-neva essa ogni studio a sviare, a troncare un discorsoche egli pur sempre rappiccava, il discorso d’amore: epoichè Luchino insisteva, essa gli disse: — Ma se èvero, o principe, che mi amate, perchè non inchinarvialla preghiera mia, la prima e forse l’ultima che io vifaccia? Salvate il mio sposo, salvate mio figlio!» e get-tatasegli ai piedi, gli abbracciava le ginocchia, con tuttal’eloquenza d’una bellezza innocente ed infelice ripeten-do: — Salvateli!

— Sì (rispondeva egli): sta in voi; voi ne sapete ilmodo. Meno orgoglio da parte vostra, ed io li salvo, veli rendo».

Il timore che i suoi cari fossero già caduti vittima delnemico, aveva sempre straziato quella meschina. Nonsaprei accertare se con arte e per meditazione le fosseuscita quella preghiera, onde scoprire la verità: ma dalla

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risposta veniva rassicurata che erano vivi; onde tripu-diando nel cuore e non celando di fuori l’interna gioja— Che? (esclamava), vivono dunque tuttora? rendete-meli; sono innocenti... io sola sono rea; me punite, me:ma loro... O signore! ve ne prego col calore, onde inpunto di morte voi pregherete Dio a perdonarvi... Dehconcedetemi ch’io li veda; una volta sola vederli, poifate di me lo strazio che vi piace».

Era venuto per tormentarla, e l’aveva contro vogliaconsolata: avea fatto conto sullo scoraggiamento di essa,e senza accorgersi le era stato egli medesimo cagione disorger d’animo, di esaltarsi. Di ciò non poco s’inquieta-va Luchino, e come succede a chi incontra inaspettatiincagli, viepiù si avviluppava quanto ingegnavasi d’u-scirne e perdeva dell’abituale sua freddezza; ora volen-do farsi un merito di questa involontaria rivelazione, oraprocurando, strapparle la speranza ond’ella si lasciavalusingare: e — Non dubitate no (replicava esso) li ve-drete, oh li vedrete e ve ne rincrescerà. Dovunque siensitrafugati, non tarderò a raggiungerli. Allora... oh allora...

— Trafugati? come? sono dunque sfuggiti?» proruppela donna quasi fuor di sè dalla insperata consolazione.— Dunque non sono in vostro potere? Vivi e non in po-ter vostro! Oh gioja!» Sorgeva, alzava al cielo le mani, esulla faccia lacrimosa scintillava un raggio d’ineffabilecontentezza. — Gran Dio! (esclamava) ti ringrazio! Iomi lamentava che tu m’avessi dimenticata nel fondo del-le sciagure, e non era: no, non m’avevi abbandonata.Che mi fanno ora i martirj? O principe, più non mi la-

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gno, più: soffrirò che che spasimi volete; tacerò: raddop-piate pure, raffinate i tormenti miei; se essi sono salvi,più non mi cale della mia vita».

Colla gioja di essa cresceva il furore del tiranno, indi-spettito dell’aver rivelato una notizia, che non sapeva dalei ignorata, del vedersi messa a nudo e rinfacciata cosìla sua ingiustizia, nè altro sperarsi da lui se non un esa-cerbamento di castigo. Ora dunque raddoppiava le mi-nacce, ora tentava profittare del turbamento di lei pergl’indegni suoi istinti: ma se ella aveva resistito prima alusinghe ed a paure, pensate ora, che sapeva vivi e liberii suoi cari, ora che si teneva dall’ira di lui sicura, poichèn’erano sicuri gli oggetti per cui palpitava.

Accorciamo ai lettori l’ansietà di quel colloquio, piùfacile a immaginare che onesto a riferirsi, e basti il con-chiudere che la Margherita trionfò.

— Trema! tu non sai fin dove possa giungere la miavendetta!» furono le ultime parole che le gridò dietrol’iracondo, mentre ella sollevando gli occhi, ridenti diquella illibata serenità che è un raggio di cielo sul voltodella virtù campata da grave pericolo, ringraziando Id-dio, s’avviava alla sua prigione.

Luchino, sbuffante, scalpitando, digrignando i denti emordendo le dita passeggiò alcun tempo di su, di giù pelsalotto; indi, prese le armi, uscì buzzo, taciturno, agita-to: passò senza far motto nè cenno tra i cortigiani, cheinchinandosegli, si tentavano un l’altro col gomito, edammiccavansi malignamente. Come fu sul pianerottolodella scala, ecco farsegli incontro l’impertinente Grillin-

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cervello, e presentargli una pezzuola, dicendogli: —Perchè vi forbiate la bocca».

L’insulto era pungente, il momento scelto male, e labaja tornò sul capo del beffardo, giacchè Luchino d’uncalcio il trabalzò sino al fondo della scala onde restò sìmal concio, che per tutta la vita ebbe ad andare scianca-to. I cortigiani, la famiglia: che tutti gli volevano il peg-gior male del mondo in grazia di quella lingua, onde perdritto e per traverso scornacchiava ognuno, accennavan-si un coll’altro, e gonfiando le gote, e a fatica reprimen-do gli scrosci delle risa, si dicevano sottovoce: — Ve’ve’: e’ rotola come un battufolo. Questa è lezione colsale e col pepe!» Alcuno anche più caritatevole tentavaaizzargli contro i cani, e passando dappresso a lui chesanguinava dal capo rotto e sdolorava delle peste mem-bra, gli sgrignava sul viso ripetendogli a mezza voce: —Ben ti sta malignaccio!»

Quindi tacitamente s’avviavano dietro a Luchino, chesaltato a cavallo, si cacciò di carriera verso il palazzo.Non era amore che lo martellasse, — poteva mai talesentimento pigliar vigore in un’anima logorata dalle vo-luttà? Era corso di piacere in piacere sfiorando quel chedi bello gli occorreva sulla perversa sua vita; se costeiresisteva, che doveva importarne a lui? Cento altre il po-trebbero compensare. Ma, d’altra parte, ebbro d’orgo-gliosa ambizione, aveva veduto i signorotti d’Italia cer-carlo amico o paventarlo nemico; avea veduto umiliar-segli davanti quelli che, mentre durava in condizioneprivata, lo soperchiavano: avea veduto (quel che più va-

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lutava) inchinarsegli certi cittadini, gran vantatori dellepatrie libertà: all’intorno tutto pendeva da un suo cenno:ed ora una donna, una sua prigioniera, osava resistergli,insultarlo, — poichè nel vocabolario dei tiranni chiama-si insulto il protestare contro le loro iniquità. Di ciò l’a-mor suo proprio non sapeva darsi pace, e si rodeva en-tro, e il ciglio corrugato, e l’aggrondatura della frontedavano spia dell’animo esagitato. La gente, che lo vede-va venir via per le strade a spron battuto, con dietro laturba e la famiglia, salvavansi a precipizio; e se alcunogli alzava gli occhi in volto, avvertendo quello iroso ci-piglio, esclamava: — Acqua grossa oggi!» e facendo diberretto, tirava muro muro.

Non ebbe questa precauzione un fanciullo di forsedieci anni, il quale era stato messo da’ suoi genitori sul-l’uscio di via con un canestrino di ciliegie primaticcie,per offrirlo al principe, sperandone, come altre volte gliera successo, una buona mancia. Attento ad ubbidiresenza più altro guardare, il garzone si postò in mezzoalla strada con un ginocchio a terra e il canestro sovra ilcapo: ma Luchino quando se n’accorse fe’ un cenno aimastini suoi fedeli compagni, e questi gittatisi sul mal-capitato, l’addentarono, lo pestarono, senza che nessu-no, nemmanco i parenti, ardissero dare il ben gli sta aquegli animali.

Arrivato poi al palazzo, Luchino smontò senza far pa-rola; salì, stette un poco da solo; chiamò quindi il can-celliere, come per distrarsi dalle proprie cure collo spac-ciare gli affari altrui, e chiese che l’informasse. Prese

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questi alcune pergamene, e scorrendole coll’occhio —Qui (diceva) il castellano di Robecco avvisa che fu coltoun pastore, il quale tagliava un palo nei boschi di vostraserenità.

— Segargli le mani», diceva Luchino.Il segretario inchinavasi, e proseguiva: — Nel borgo

di Abbiategrasso, dove è la villa della magnificenza vo-stra, alloggiò un pellegrino proveniente di Toscana: e s’èscoperto qualche caso di peste.

— S’abbruci l’albergo, il pellegrino, gli ospiti etutto», rispondeva Luchino.

— Scrive da Lecco il connestabile Sfolcada Melik,come uno dei suoi soldati rubò la marra ad un bifolco.

— S’impicchi colla marra a canto.— Fu fatto così appunto, ed al villano pagata la mar-

ra. Ma costui la notte, andò a levar via dalla forca quel-l’arnese

— Ebbene, si appenda anch’esso alla forca medesi-ma, e la marra fra loro due.

— Sarà obbedita. Qui poi c’è una lettera di Ramengoda Casale...

— Ramengo? e donde?» l’interruppe Luchino consollecitudine.

— Da Pisa sul punto d’imbarcarsi: e scrive in cifrache ha fiutato, dice, il covile della preda che vostra sere-nità, intende, e fra breve confida di consegnargliela.

— Sì? bene, bene! approposito davvero!» esclamòLuchino battendo palma a palma come per applaudire asè stesso, e con un riso di selvaggia consolazione.

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— Ma (ripigliava il segretario) esso Ramengo, oltregli augurj e baciamani di formalità, fa a vostra serenitàuna domanda.

— Una domanda? che non è mai sazio? Genia infamecotesti spioni! non basta la confidenza che se ne mostra?Feccia vilissima, che si schiverebbe fino di toccar colpiede, se non tornasse necessaria a tener in dovere cer-t’altri. Ma cosa vuole? dite su, udiamo.

— Egli rammenta che, a chi consegna un bandito, ilcapo 157 degli statuti di Milano concede di poter libera-re un altro da qualunque...

— Che viene ora a metter in mezzo gli statuti? Lalegge sono io. Ma insomma cosa vuole, cosa chiede?

— Implora che la vostra serenità conceda, senza re-strizione, impunità d’ogni delitto commesso sì a lui, sì asuo figliuolo.

— Suo figliuolo? Dove l’ha? nol conosco.— Soggiunge in fatto che si riserba di farlo conoscere

alla serenità vostra.— Sì sì bene!» rispose Luchino — Speditegli subito

il breve d’impunità la più intera, la più assoluta, ma apatto che al più presto abbia consegnato nelle mie manichi deve. Largheggiate pure in promesse; ma insisteteperchè sia presto, infallibile. Capite? presto.

— Sempre nuovi argomenti della sovrana clemenza»esclamò il cancelliere strisciando una riverenza e ritiran-dosi: e Luchino, lieto in viso più che non potesse esserein cuore, stropicciava le mani, chinava a scosse il capocon una ferina voluttà e pensava: — Ecco, il castigo se-

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gue davvicino all’oltraggio. Superba! sarai contenta. Misentiva proprio bisogno di questo balsamo. Ora mi trovosollevato».

Non occorre dirvi che dei severi ordini di quel giorno,buona parte ricadde sopra la Margherita. Non solamenteesso le levò quel ristoro giornaliero, ma la fe’ gettare inuna prigione assai peggiore e, sotterranea. Il carceriere,essere miserabile, contento di bistrattare a baldanza lepersone a lui consegnate, come le vide tolto quel ciboch’era un sacrifizio gradito alla sua ghiottoneria, le di-venne oltre misura severo, quasi per vendicarsi di leiche avesse demeritato un favore, unicamente a lui pro-fittevole. Che se dapprima il corruttibile animo suoscendeva con essa a qualche cortesia, almeno di parole ea modo suo, ora con atti dispettosi, con arguzie che fantanto male a chi soffre, compiacevasi esacerbare le ven-dette del suo signore.

La carcere dove essa fu mutata nel recinto istesso delcastelletto di porta Romana, era proprio conveniente aquei tempi, in cui furono fabbricate le Zilie di Padovada Ezelino, e da Galeazzo i Forni di Monza, nei quali icondannati si calavano per un foro della volta, e posava-no sopra un pavimento scabro e convesso, in tanta angu-stia di spazio, da non potersi nè tirar ritti sulla persona,nè distendere per terra. In quei forni era stato custoditoLuchino per alcun tempo dall’imperatore Lodovico ilBavaro: e poichè la sventura ai tristi non fa se non peg-giorarli, volle che poco migliori riuscissero queste, chestava fabbricando.

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La Margherita nella sua poteva appena mutare quattropassi: nessun’altra luce che la scarsa d’un alto finestruo-lo, il quale usciva a fior di terra in un cortile, per modoche nei giorni piovosi l’umidità vi scolava e ne rivestivad’afronitro le pareti. Passati i giorni vernerecci, era allo-ra incominciato il maggio, quando le tiepide arie fannobrulicare la vita nei campi, e infondono un ineffabilesentimento di gioja negli animali e nell’uomo. Dalla pri-mitiva sua stanza, Margherita aveva veduto rinfrescarsiil verde dei prati, le gemme degli alberi gonfiare e sboc-ciarne le foglie primaticcie, delle quali, coll’amore ecolla compiacenza che solo i prigionieri conoscono, ellaosservava dì per dì e misurava il crescere, il dilatarsi, ilverdeggiare; aveva sentito i venticelli fecondi alitarlesul viso: garruli stormi di augelletti rinnovare i canti egli amori sotto al soave raggio del sole, che più sempreinalzandosi, faceva men lungo il tedio delle notti, sì caroil rosseggiare della mattina e del tramonto, invitando imortali a ringraziare il Signore, che all’inverno fa suc-cedere la primavera, ai patimenti le consolazioni.

Ma qui, nulla di tutto ciò, non più il sole, non più spa-ziare colla vista sopra le sterminate campagne, e lontanlontano, verso occidente, posarla sulle montagne, appe-na distinte dall’orizzonte: qui non più una pianta, nonuna zolla erbosa, non vedere un uomo che a suo talentovada o resti o torni; non potersi affissare nei melanconi-ci splendori della luna: solo tenebria e lezzo e il taceredi un deserto, o le querule bestemmie di un inferno. Ep-

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pure le lagrime della Margherita scorrevano più libere,meno angosciose.

Al primo entrare in quella tana, si prostrò ginocchio-ne a ringraziare la Madonna; aveva salvato il suo pudo-re, e di più aveva appresa quella vitale novella. Oh comelo disacerbavano i patimenti! come le sorrideva l’imma-ginazione! E poichè il prigioniero ama gettarsi lontanocolla fantasia, e fermarsi su casi che possono succederedopo molti anni, anzichè considerare quelli più viciniche troppo crudamente lo richiamano alla spietata suasituazione, le veniva nel pensiero e nella speranza ungiorno, in cui col marito e col figliuolo ritornerebbe li-bera nella città, alla campagna, a tuffarsi nelle onde diluce, che così limpido versa il sole sulle terre lombarde,a rivedere le rive del lago Maggiore, piene delle verginimemorie dell’età sua più gioconda perchè più spensiera-ta; e poi invecchiare nella propria casa, colmata di dol-cezza da un figlio, degno di tutto l’amor suo, e con lui,coi figliuoli che nascerebbero da lui, ritesserne piacevol-mente il viaggio della vita. Immaginando quel tempo, sene figura al vero le gioje, e ne ringrazia Dio, e già lepare essere con Francesco suo, col suo Venturino, neiluoghi usati, fra cari amici, e più di tutti gli amici caroquel Buonvicino, che le aveva dato la maggior provapossibile di amore, quella di trionfare del proprio amore.

Nulla era accaduto che l’avesse pur d’un capello av-vicinata all’avveramento di questi sogni: ma era fattacerta che que’ suoi cari vivevano tuttavia; e la speranza

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è tanto ingegnosa a ordir le sue tele, appena trovi un filopur debole a cui attaccarle!

Quindi, allorchè la mattina un tardo raggio di fiocaluce scendeva attraverso le ferriate della sua prigione,col primo pensiero ella correva ai suoi cari, che godreb-bero intera la delizia della luce; ad essi mille volte fra lemonotone cure del suo giorno; ad essi principalmentenell’ora che il dì se ne andava; ora feconda di tanti so-spiri all’esule, al solitario, a chiunque ama, a chiunquepatisce. Li sapeva liberi; dunque ne andava seguitandole orme; — dove? con chi? non poteva indovinarlo, mapoteva essere per tutto ove non giungesse la tirannideviscontea: tanto più vasto campo alla fantasia della pa-ziente. E le idee carezzate fra il giorno le si riproduceva-no poi nel dormire, e le facevano consolati almeno gliistanti del sonno. Soffriva, deh se ancora soffriva! pureun pacato raggio a volta a volta diradava quell’oscurità,sicchè talora l’avresti fin detta allegra.

Più d’una volta Macaruffo si accostava origliando al-l’uscio della prigione, forse per il barbaro gusto di sen-tirla mormorare e indispettirsi, e tutt’al contrario l’udi-va, con sommessa voce ma soave quanto un flauto cherisuoni di lontano fra il tacer della notte, cantare le lita-nie, pregando la Madre degli afflitti che pregasse pernoi. — Malann’aggia costei!» esclamava lo scortese. —Che mai non deva io vederla impazientirsi?» Egli igno-rava che ella sapeva invocare Iddio. A sturbarle però al-meno un istante quella calma, il villano bussava, rumo-reggiava attorno alla porta, alzava in tono minaccievole

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quella sua voce rantolosa e squarciata: un ribrezzo cor-reva per la persona alla Margherita, e lunga pezza ilcuore le batteva convulso: il canto per tutto quel giornoera interrotto: lugubri fantasie si attraversavano alla suamente, e piangeva, e invocava il nome del Signore, e losupplicava di potere una fiata, una sola, per un sol mo-mento rivedere lo sposo, il suo figlioletto!

Qualche volta anche le giungeva all’orecchio il vagiredi un bambino, una voce fanciullesca che chiamava lamamma, o ripeteva la parola dell’innocenza sicura. Era-no forse figliuoli di qualche soldato, o chi sa? di qualcheprigioniera, con cui dividevano e della quale alleviavanoil castigo. Ma alla Margherita quanti pensieri suscitava-no, quanti affetti! che non avrebbe dato per poterli vede-re, vedere quell’età, somigliante agli angeli, quei cariocchi da cui non traspare che ingenuo affetto e un amorenon simulato, non calcolatore, e una placida curiosità;nulla di maligno, nulla di crudele, nulla di bugiardo! Semai potesse almen da lungi rimirarli, inerpicavasi ellaverso il pertugio da cui riceveva lume ed aria. Ah! nonvedeva che mura scabre, altissime, con alte finestruoleferrate, entro alle quali altri languivano, forse innocential pari di lei, forse il ladro, l’assassino. Ne intendeva levoci: per lo più erano o sucidi parlari, o bestemmie, o unbatter rabbioso dei ceppi contro le spranghe: nessunaparola di pace, nessuna di benevolenza, di perdono. Perimplorare su di essi il dono della pazienza, essa pregavail Signore, e in quell’atto alzando i begli occhi, vedevaun piccolo campo di aria, e fermavasi a contemplarlo.

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Oh come il prigioniero conosce ogni stella, ogni nube,ogni accidente del palmo di cielo, in cui tante volte hafissato lo sguardo!

Poi se miravasi dinanzi, a fiore della sua finestra eralo sterrato del cortile, per cui passeggiava una sentinel-la: tratto tratto vedea giungere qualche nuovo infelice, erabbrividiva; qualche altro uscirne liberato, e con luiconsolavasi: alcuno anche partire pel patibolo, ed eravolta che esclamava: — Almeno quegli ha finito». El’occhio le si empiva di lagrime; scendeva, pregava; poi,come se l’idea del morire, la quale fa tanto spavento aifortunati, recasse a lei la consolazione di sapere che queimali non durerebbero eterni, e che un altro ordine dove-va venire appresso, sedevasi più tranquilla sul rozzo suotrespolo, e quivi rincorreva i tempi passati, tempi di vir-tuosa giocondità, di benefica floridezza; pensava a’ suoicari, alle speranze.

Talvolta perfino intonava le canzoni che aveva intese,che aveva ella medesima ripetute mentre giovinetta at-tendeva al donnesco lavoro, o quando colle compagnevagava di primavera cogliendo mazzolini di primolette evirgulti di mirtillo, ovvero nell’estate, in una barchetta,lungo le floride rive del Vergante, lasciandosi in balìa diun placido venticello, salutava le bellezze della natura, eal creatore di essa porgeva l’omaggio di un cuore puro egiocondo. Erano cantilene di amore; più spesso eranoarie melanconiche, la cui mesta armonia meglio si addi-ceva allo stato dell’animo suo. Singolarmente le andavaal cuore una romanza, in altri tempi composta da Buon-

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vicino, e che egli medesimo più volte aveva accompa-gnata col liuto, mentre essa la cantava sopra le note,pure da lui ritrovate. Ed era questa:

AMALIA

— Torni alfin, diletto Piero!Ti vedrò col nuovo dì».Lieta Amalia in tal pensiero

S’addormì.

Ecco il mira. In armi splendeQual l’Olrisio fe’ tremar.Sul suo cuore il cuor ne intende

Palpitar.

Oh il tripudio del ritornoFra le braccia dell’amor!Volge in riso quel bel giorno

Il dolor.

A lui narra i lunghi affanni,Notti insonni, ansiosi dì:Pa lui sente i casi, i danni

Che patì.

Ahi, fu un sogno! Spirto lieveEi serena il suo dormirCon delizie onde non deve

327

Mai gioir.

Sanguinoso al nuovo giornoLe presentano un cimier:È il cimiero ond’ella adorno

Ha il suo Pier.

— Già vicino al patrio lido;Man rival l’assassinò:Cadde, e l’ultimo suo grido

Te chiamò. —

Chiusa Amalia in pio recintoFra le suore del Signor,Canta Iddio, ma al caro estinto

Vola il cor.

Dal seren di miglior vita,Dolce spirto, miri al suol?Odi il gemer dell’attrita?

Vedi il duol?

Dolce spirto, l’ora affrettaChe, disciolto il mortal vel,Presso a te la tua diletta

Goda in ciel.

Fermavasi alquanto la Margherita, poi ripeteva:

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Oh il tripudio del ritornoFra le braccia dell’amor!Volge in riso quel bel giorno

Il dolor.

E dopo un altro istante di silenzio pensierosa tornavaa cantare:

Ahi fu un sogno! Spirto lieveEi serena il suo dormirCon letizia onde non deve

Mai gioir22.

A che pensava ella? di chi si ricordava? Un giorno, là,sul far della notte, le interruppe questo canto uno scal-picciare nel cortile, maggiore del consueto, un tuono disghignazzi, d’insulti, fra cui si distingueva un rammari-chio più gentile che non soglia fra prigionieri, ed affattodiscorde dalle aspre voci che oramai sole era abituata audire. Il cuore dello sventurato è così aperto sempre allapaura! Coll’ansietà di una colomba, che abbia veduto ilcuculo fissare gli occhi sul fecondo suo nido, balzò laMargherita allo spiraglio, colle delicate mani si ghermìalle grosse sbarre, gettò lo sguardo verso quel rimesco-lamento, vide un fanciulletto che, scomposta la biondacapellatura sopra gli occhi, strillando e dibattendosi frale braccia degli sgherri, andava gridando: — Babbo!

22 Sì questa romanza, sì l’ode dell’Esule, furono messe diverse volte inmusica.

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babbo!» verso di un altro che tutto in catene e col voltodimesso, lo seguitava.

Ah! — La Margherita mise uno strillo come d’uomopercosso nel cuore, e cadde svenuta sul pavimento.L’occhio, l’orecchio, benchè di lontano, benchè a lumeincerto, le avevano in quei due infelici fatto avvisare ilsuo Franciscolo, il suo Venturino.

Poveretta! Si fosse almeno ingannata.

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CAPITOLO XIII.RICONOSCIMENTO.

Camminerebbe pur bene il mondo, se, nell’effettuarelodevoli disegni, ponessero i buoni tanto impegno,quanto nei loro scellerati i ribaldi, pei quali le malvagitàche non han potuto compire, sono un debito che si cre-dono obbligati di spegnere. Luchino e Ramengo aveva-no raggiunto la Margherita e molti dei presunti congiu-rati: ma si eran lasciati sfuggire Franciscolo, e tanto ba-stava perchè considerassero il colpo come fallito. Ra-mengo specialmente rodevasi dentro, che il suo nemicoavesse potuto camparsi col figliuolo; il figliuolo che tan-to gli faceva stizza e invidia, come quello che gli ram-mentava l’unica gioia innocente che esso agognasse sul-la terra, e che, come voleva credere, per colpa di Franci-scolo, eragli stato tolto di godere.

— Che importa (diceva tra sè) che costui deva andareramingo sopra la terra? Egli ha un figliuolo. Io vivo inpatria, ma solitario; non avrò mai un figlio, le cui bellez-ze e le glorie si riflettan sopra di me, che m’aiuti a sali-re, che faccia me invidiato quant’io invidio altrui.

E più smaniava di vendetta allorchè rifletteva comequel fanciullo l’avesse avuto in propria mano, e gli fossestato rapito con forza e con ischerno da quell’abborrito

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Alpinolo, a cui sempre più male voleva, come sogliono iribaldi a coloro che ne sfuggirono gl’inganni o la vio-lenza. Nell’ebbrezza pertanto della sua scelleraggine,propose al signor Luchino di uscire all’inchiesta delgran cospiratore e dei complici suoi. Per colorire lacosa, Luchino comprenderebbe anche Ramengo nella li-sta degli indiziati e degli sbanditi: talchè egli, in aspettodi perseguitato, entrerebbe creduto e compatito in mez-zo ai forusciti, e potrebbe così, sotto l’ombra d’una fra-ternità di sentimenti e di castigo, discoprirne le trame;ritrovare il nascondiglio del Pusterla, e forse trarlo nellereti. Così leali mezzi adoperavano i principi — allora.

Ben fornito a denaro, ma in apparenza di fuggiasco, etravisandosi col mutar foggia di barba, di capelli, di ve-stito, uscì dunque Ramengo di città, e prima scorse loStato dentro ai confini, se mai s’avvenisse a qualcheamico dei profughi che stesse macchinando, o che glidesse fumo di ciò che gli importava. Da per tutto ritro-vava la gente bassa intenta ai lavori dei campi, al traffi-co, alla domestica economia; i baroni nei loro castellidesiderosi di godere la vita e di conservare il poco pote-re che avevano ancora; i giovani cupidi di imprese inguerra e in amore; e per mezzo a tutti, preti e frati chepredicavano la necessità di amarsi, di compatirsi, di ne-gar la propria volontà, chi voglia vivere meno male que-sti fugaci giorni dell’esilio. Ramengo entrava fra loronarrando, chiedendo, tentando; essi gli rispondevanosenza sospetto, senza doppiezze; rimembravano miglioritempi, l’udivano volentieri quando esso per suggestione

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accennava la probabilità che rinascessero, ma tutto fini-va qui; ed egli, domanda, guarda, rifrusta, nessuna potètrarre alla luce delle bramate iniquità. Fermò dunque inanimo di proseguir le sue indagini verso il cuore d’Ita-lia, e dirizzossi al Po. Schivando Pizzighettone e Cre-mona, come faceva di tutte le città lombarde, dopoGrotta d’Adda piegò in quel terreno che scende laddovel’Adda mette foce nel re dei fiumi; terreno allora del tut-to incolto, ghiajoso e sterpigno, in cui le acque esercita-vano a baldanza i loro guasti, non frenati dalla manodell’uomo. Nel fendere quella lama, un improvviso tem-porale, come suol avvenire sul mettersi dell’autunno,colse Ramengo in sulla sera, ove, non che vedere alcunricovero, nè tampoco un sentiero discerneva che lo av-viasse. Cacciato dalla pioggia battente e dalla notte checadeva, spronò il cavallo senza sapere verso dove, masecondo il terreno gli pareva abbassarsi, sperando che inriva al fiume troverebbe una casipola, un navalestro, unpescatore. Di fatto la sua fortuna, o la disgrazia altrui,gli fece discernere un giovane mugnajo, che a mazzatecacciavasi innanzi l’asinello colla soma del grano, perriparare la quale erasi cavata la giubba, buttandovela ad-dosso al modo di sargia.

— Ehi! quel ragazzo! c’è a trovar un ricovero da que-ste bande?

— La venga con me. Qua a mancina sta un macchio-ne di pioppi, indi il fiume e il mulino di mio babbo».

Così rispose il ragazzetto, ma poichè il somarello an-dava più di buona voglia che di buon passo, Ramengo

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n’ebbe abbastanza di quell’indicazione, e toccò via ditrotto serrato, sotto all’incessante acquazzone, finchè al-cuni lastroni di macina l’avvertirono del mulino cui eragià addosso, senza peranco vederlo. Un lampo gli mo-strò sopra un dosserello la casipola, in riva al fiume, co-perta da due pioppi piramidali e da un cespuglio di onta-ni, e vicina ad un barcone da mulino. Da un finestruoloe dalle fessure degli assi mal confitti sbucavano liste difumo e traluceva la vampa di un fuoco allegro, sul qualeuna donna veniva rosolando una frittella, come ne davanl’avviso e l’odore oleoso e lo scroscio che confondevasicon quello della pioggia esterna.

Ramengo, scavalcato, bussò risoluto alla mal chiusaportella; un cane alzò subito vivi latrati: la donna di den-tro abbandonando il fuoco e rompendo a mezzo un’AveMaria, corse ad alzare il saliscendo, gridando:

— È lui: è Omobono: entra: tu devi essere lavatocome un....

Interruppe il paragone al vedere, invece del somaro,un puledro che ansava e fumava, e invece del figliuoloch’ella aspettava, uno sconosciuto; però men dispiacen-te che maravigliata, con rusticale cortesia l’invitò ad en-trare. Entrò di fatto Ramengo in una cucina bassa, tuffa-ta, fumicosa, col pavimento di terra battuta e disuguale;nel mezzo quattro sassi fermavano il focolare, dove ar-deva una fiammetta, e sebbene fosse appena di settem-bre, la famiglia stava a godersela come di gennajo, men-tre recitava il rosario. La vampa che se ne diffondevamostrava gli utensili più necessari a preparare i cibi

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grossolani; la madia, una cassapanca, un par di scannel-li; poi appiccati agli arpioni, alle rastrelliere, nasse, fio-cine, bertovelli, lenze, e insieme vagli e sacchi d’unbianco polveroso come il vestire di quegli abitatori.

Al comparire dell’ignoto, un ragazzo ed un vecchio silevarono da sedere; Ramengo senza tampoco salutarli sifece al fuoco, dicendo: — Che tempo del diavolo! Hodovuto ritirarmi qua entro per non annegare.»

Il vecchio, riponendo la coroncina e racchetando ilcagnuolo, soggiungeva: — Se vossignoria si contenta diciò che v’è, è a suo piacere.»

Egli, accomodandosi al fuoco, donde quelli con ri-spettosa cordialità s’erano ritirati, — Sopratutto (disse)vorrei riparato bene il mio cavallo.

— Oh per questo (replicò il sere di casa) vossignorianon si dia pena: ci abbiamo uno stallino pel nostro giu-mento, con riverenza parlando, e dove i bardotti stabbia-no qualche volta i rozzi che tirano l’alzaia. Vi troveràanche la compagnia di un puledro, che le so dire vale ilsuo. Ehi! Dondino, va a riporlo.»

— Un altro puledro? (chiese sbadatamente Ramengo)e di chi? Vostro?

— Mi corbella, signoria? nostra una bestia di quellafatta? È d’un cavaliere nostro amico.

— Un cavaliere vostro amico? (ripetè Ramengo conun certo sogghigno beffardo). E come si chiama?

— Si chiama... Oh vossignoria deve conoscerlo... ètanto nominato! Si chiama il signor Alpinolo».

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E proferiva questa parola con una dignitosa compia-cenza, col tono solenne d’un medico che pronuncia ilnome greco della malattia considerata, sicchè era unasquisitezza il vederlo. Ma Ramengo a quel nome rizzòla testa, tese le orecchie, siccome il suo cavallo quandoudisse schioccare la frusta, ed esclamò: — Alpinolo?che veniva da Milano? un tòcco di giovane ben com-plesso? sui diciott’anni, capelli neri, ricciuti, occhi difuoco?

— Ma sì, ma sì, (interruppe il buon mugnajo a quelladescrizione da passaporto). Forse che vi sono due tor-razzi di Cremona o due Alpinoli a questo mondo? Si-gnoria, sì, quel desso in petto e in persona.

— Oh come capitò da queste bande, che non ci ver-rebbe uno se non perduto? e lo dite amico vostro?» Edora dov’è? continuò Ramengo, mal celando l’ansietàmessagli in animo da questa notizia.

L’altro, tutto pacato, se non che un’aria del più perdo-nabile orgoglio rideva sul suo volto, proseguiva: — Eb-bene, ha da sapere vossignoria.... Oh, l’è una favola adirla. Ma prima si accomodi. Ehi, Omobono, (così dice-va a quel tale garzoncello, figliuol suo, ch’era giunto an-ch’esso, e che tanto volentieri avrebbe trovato sgombroil focolare e lesta la cena), accosta un trespolo, reca unabracciata di legna, poi va a dare un’occhiata al mulinose tutto è bene. Vossignoria si faccia presso al fuoco,che non abbia a pigliarsi una infreddatura. Oh, questapioggia le ha passato la gabbanella: la dia qui alla miadonna da sciorinare.

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— Sì, sì, ma continuate quel che v’ho chiesto.— La sappia dunque che il signor Alpinolo.... tale

quale mi vede, io son suo padre... cioè... egli deve a mela vita. Anzi sono più che suo padre, perchè suo padre èstato... che so io?... qualche crudelaccio che lo buttò via;che, quanto fu da lui, tentò di mandarlo a male e...

— Non dite così» gli dava sulla voce la Nena, suamoglie; giacchè il lettore può essersi accorto ch’eranoquel Maso e quella Nena, da cui Ottorino Visconti aveaportato via Alpinolo ancor fanciullo. — Non dite così;siete troppo facile a pensar sinistro.

— Eh!» rispondeva Maso, dimenando il capo e strin-gendo le labbra con un garbo fra di bonarietà e di im-portanza: — Tu non hai perduto mai di vista i pioppi diquesta riva. Ma io del mondo n’ho veduto la parte mia,e ho sempre trovato che chi pensa male pensa bene. Fat-to è che Alpinolo moriva se non ci fossi stato io.

— Ed io?» soggiungeva la donna.— Sì; anche tu: ma la storia è lunga e vossignoria

vorrà dormire, neh?— Contate, contate» insistette Ramengo, non tanto

desideroso d’incantare la noja coll’apprendere la storiad’Alpinolo, come intento a scavare dove egli si trovasse,avendo per fermo che con lui sarebbe anche il Pusterla.E chi dirà se quell’anima truce non meditasse anche diricambiare l’ospitalità del pescatore coll’accusarlo d’a-vere tenuto mano coi ribelli e d’averli ricoverati? Purchègli tornasse conto, purchè si avvicinasse alla sua meta,che importavano all’ambizioso quelli che doveva in sul

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cammino calpestare? Ma il mugnajo, sicuro dell’inno-cenza sua, proseguiva: — Per rifarmi dunque da capo,vossignoria deve sapere che... un pezzo fa... voglionoben essere sedici o diciasette anni, n’è vero, Nena

— Fate il vostro conto» rispondeva la moglie. — Sa-pete che allora io aveva al petto il nostro Omobono cheè qua.

— Appunto! or mi raccapezzo; sconta dall’anno chepassarono di qua i Fiorentini soldati, con tutte quellecroci segnate sulle spalle; e dicevano che il papa perogni milanese che ammazzassero, gli assolveva da unpeccato mortale».

Il buon uomo voleva dire dei crociati che, al tempodella guerra di Monza, mossero contro de’ Visconti sottoal cardinale legato. Ma Ramengo, ristucco di tante di-gressioni quanto n’è il nostro lettore, — Facciamola unpo’ corta», gridava risoluto.

— Or bene (seguitava il pescatore); diciott’anni fa,salvo errore, una mattina appena l’alba, come è costumedi noi molinaj, m’alzavo per cacciare in alto il barcone:quand’ecco là basso, dove il fiume fa una ritorta o ungorgo sotto agli ontani, vedo attraversato un barchetto,fatto in tutt’altra foggia dai nostri, e nessuno che lo gui-dasse. Qualche disgrazia, diss’io tra me; i barcaroli sisaranno annegati. Corriamo a tirarlo alla riva, se mai ca-pitasse il padrone: se no, sarà legna per st’inverno. Maindovini mo?»

Qui Maso alzavasi sulla predella, e traendo la manodalla giubba, la sporgeva distesa verso Ramengo.

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— Dentro v’era una donna con un bambino».A queste parole, uno sbadiglio che errava sulle labbra

di Ramengo, si convertì in un Oh! e sentendosi tutto ri-mescolare, balzò in piedi di scatto; l’attenzione suacambiò di natura, e spalancò gli occhi addosso il vec-chio, il quale proseguì: — Una donna e un bambino; si-gnor sì: non c’è meraviglia che tenga: ma una donna ve-stita bene: n’è vero, Nena? doveva essere di condizione:giovane, bella che non le dico altro: e il bambino non fi-niva forse un mese. Ma l’uno e l’altro erano bagnati,fradici, e inoltre morti.

— Morti?» urlò Ramengo.— Morti: sì, signore» continuò Maso. — Io dissi:

Bella pesca ho fatt’oggi! Li trassi a riva; chiamai gente,li levammo fuori, li portammo in casa, e qui mia moglie,che tiene della medichessa, si pose intorno a loro ostina-ta di farli rivivere. Ma tutti li tenevamo per ispacciati;pallidi, freddi, non polsi, non fiato: Che vuoi? le diceva-mo, vuoi rinnovare la risurrezione di Lazzaro? le dice-vamo. Ma ella, questa buona donna incapricciata chefossero vivi ancora, tanto fece e tanto, che li vide ancoraa respirare.

— Erano dunque vivi» interruppe Ramengo con vivaimpazienza.

E il pescatore: — Gnor sì, vivi, ma se non fu un mira-colo questo, io per me non credo neppur a quelli delsanto di Padova. Il bambolo, appena riavuto, si attaccòal seno della mia donna, e in poco tempo tornò vispo ebello. — L’avesse veduto!» entrava in mezzo la Nena.

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— Un bambino che pareva pitturato: bianco, sodo, comedi cera: certi occhietti da mangiarlo; dritto come unfuso: e solamente aveva manco l’indice della mano sini-stra.

— E si vedeva (interrompevala Maso) che gli era sta-to tagliato via: che’l vi avesse qualche brutto male. Maper seguitare, signoria.... o l’ho ristucco con questechiaccole?

— No, no, seguitate; ma presto; come andò a finire?»diceva Ramengo: e se la stanza non fosse stata cosìbuja, lo avrebbero veduto divenire a tratto a tratto smor-to e divampante, e il suo labbro e le sopracciglia con-trarsi e squassarsegli tutto il corpo in violenta convulsio-ne. Maso intanto, con quel misto di bonarietà e di rusti-chezza che distingue i costumi campagnuoli ed insiemecoi sentimenti generosi senza ostentazione, che megliosi trovano quanto più basso si discende nella scala so-ciale, proseguiva pacatamente:

— E sicchè... ma dove son restato? Ah si! ora mi rac-capezzo. E sicchè il bambino a vedere e non vedere sirifece sano e in tono. Ma colla madre fu un altro canta-re. Tornò sì in vita: quando aperse gli occhi si guardavaintorno e chiamava... un certo nome...., un nome bisbeti-co.... Nena, lo ripeschi tu quel nome?

— Diceva, Ramengo, mio Ramengo dove sei?— Chiamava Ramengo?» tonò lo sconosciuto.— Sicuro!» seguitava il pescatore. — Proprio Ra-

mengo; non m’è uscito mai di mente quel nome. La non

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sapeva dir altro: ed anche quando delirava non facevache ripeter quello, e....

— E qual altro? chiese il fellone, spalancando gli oc-chi incontro alla nuova parola che aspettava.

— E diceva anche: Povero bambino, e molte altrevolte, Caro, perchè non vieni? tanto aspettarti? ma ave-sti paura, eh? Egli è burbero, ma è buono» ed altre cosesenza senso, perchè era fuori di sè. Già del guarirla nonne fu nulla. Quel che la mia Nena le fece intorno non sipotrebbe mai dire.

— Oh bello!» ripigliava la donna con una compiacen-za tutta ingenua. — Ho fatto il mio dovere. Non siamonati per volerci bene, per farci del bene uno all’altro?Dico vero, signor forestiere? E poi, chi non avrebbe aju-tato quella povera creatura! A vederla si capiva ch’erafresca di parto: bella che doveva essere stata un angelo:ma sfinita e tutta pesta, e guardava con due occhi da am-mansare una tigre».

Ramengo si scostava dal fuoco, e sciorinandosi e sof-fiando passeggiava pel camerotto.

— Che, le fa caldo?» domandava Maso. — Pure badiche le fumano ancora gli abiti indosso.

— Sì, sì» gridò questi con un tono dispettoso: ma fi-nite cotesta cantafavola, prima che vi venga un cancheronella lingua. Non so come diavolo c’entrino queste bu-bule con quanto io vi ho domandato.

— Come c’entrino? bubule?» ripigliò il molinaro, unpocolino meravigliato di quelli sbattimenti. — Ora losentirà. La donna dunque andò di male in peggio. Entro

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quella barca, sole, acqua, fame, lo sa lei sola ed il Si-gnore quel che ha sofferto: e quando a riciso ce ne con-tava alcuna cosa, bisognava piangere come ragazzi.Pure anche un cieco avrebbe veduto che qualch’altracosa le stava sul cuore, peggio che i patimenti del corpo,una passione, ma di quelle! Perchè, appena si trovava insè, dava in pianti dirotti, e non c’era più via di farla par-lare. Quando vide il suo fantino riavuto, si fece serenacome un occhio di pesce, lo prese, lo baciò, il guardòfisa fisa: poi ricadde in delirio: — E l’ha voluto ammaz-zare?... e non lo vedrà più... e non conoscerai nemmenotuo padre — e altre parole da vera delirante.

— Per venirne a una, costei è viva o morta?» saltò suRamengo impazientito.

— E Maso: — Vede quelle foglie, là, entro quel bugi-gattolo, con sopra un po’ di materassuccia? Sono il no-stro letto, e quivi, potè ben farne la mia Nena, ma quellapoverina dopo pochi giorni spirò.

— E quando spirò (seguitava la Nena asciugandosigli occhi col grembiule) l’avesse vista! Mi stringeva lemani sode sode. Capivo ben io quel che voleva dire! Vo-leva dirmi: Tenete da conto il mio bambino e...

— E voi che n’avete fatto?— Che vuoi che ne facessi? lo allattai del mio petto,

diventò grandicello, e buono come il pane, ma vivocome un pesce e ardito come un capriuolo, e stette alnostro mestiere, fin quando un signore, che aveva ilnome di quelli che comandano a Milano, il menò con sè,ed ora è il signor Alpinolo.

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— Ma chi fosse costei non ve lo disse? nol poteste sa-pere?» domandava Ramengo con ombrosa curiosità.

— Mah» rispondeva la Nena. — Cosa non avrei datoper saperlo! Una donna così gentile, un puttino così in-nocente, qual crepacuore pei loro parenti d’averli perdu-ti! E se io avessi potuto presentarmi ad essi, e dire: Io soquel che n’è successo; la gioja loro mi sarebbe stata caraun mezzo mondo.

— E conti poco il gusto di saperne la storia?» parlavaMaso. — Perchè, Dio buono! la doveva venire da lonta-no: che barche di quella generazione sul Po, lo conoscotutto quanto è lungo, non ce ne vanno».

E la moglie ripigliava: — La storia sarà che suo ma-rito un giorno l’avrà menata a spasso: lui cascò nell’ac-qua; i fiumi erano grossissimi, e la poveretta fu menatagiù.

— Ah! sarà» rispondeva Maso dimenando il capo: —ma ti ricorda come esclamava, — Perchè lo ferisci? quelcoltello piantalo nel mio cuore! — Io sarei piuttosto dicredere che un qualche suo nemico l’abbia ridotta così.

— E perchè avevano a lasciarla viva?» saltava dentroOmobono.

— Come sei materiale! per farla penare di più. Deicattivi ce n’è di molti, credilo a me che so del mondo;ed essi conoscono bene che il morire è poco: ma il beve-re la morte a sorsi a sorsi, come ha fatto questa creatu-ra...

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— Oh, babbo mio, chi gli fosse bastato il cuore di farciò, aveva ad essere non un uomo, ma un demonio incarne e ossa».

Quali dovessero sonare a Ramengo tali discorsi, loimmagini il lettore.

Ai rimproveri della coscienza opponeva lo spietatogusto della vendetta, più sentito ora che comprendevaquanto essa fosse stata atroce; ora che la vedeva non fi-nita ancora; e che senza saperlo, trovava d’aver già con-tro il frutto del delitto, preparato nuove trame onde per-derlo, e ciò che più il dilettava, perderlo insieme col-l’autore dei suoi giorni, e d’un sol colpo sterminarequanto al mondo aveva di esecrato. Quindi, dopo unbreve silenzio, che i buoni villani aveano creduto dicompassione, addimandò: — E Alpinolo dov’è?

— Lo sa lei?» rispose il mugnajo, contraendo il capofra le spalle. Quattro o cinque settimane fa, una nottetardi tardi, eramo a letto, e sentiamo un cavallo arrivare:fermasi: bussano: — Qualcuno, diss’io fra me, al qualefaccia male l’aria di qua del Po, e voglia passarlo. Mi af-faccio, domando. — Chi è? — Son io. — Chi io? — edegli — Padre (perchè m’ha sempre conservato questonome), son Alpinolo: apritemi». Corsi io, corse la Nena,corsero Omobono e Donnino; per tutti era una festa ilsuo arrivo. Ripone il cavallo: entra... Se l’avesse visto!che cera! che occhi! — Al figlio di mia madre non la sidà ad intendere, gli diss’io; te n’è capitata una grossa:di’ su: possiamo nulla per te? E lì mia moglie e i miei fi-gliuoli a confortarlo, ad esibirsi, a interrogarlo; non ri-

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spondeva; stava come trasognato; poi scrollava il capo,pestava i piedi, esclamando: — Infame! maledetto! Equella meschina? ed io dargli ascolto? — e simili voci,da cui nulla si raccapezzava. Volevamo indurlo a metter-si a letto con noi: non volle: ci pregò d’andar noi a dor-mire: ma era possibile? sedemmo dunque sui sacchi difarina e sullo spento focolare: egli stava appunto ove oralei, colla testa fra le mani, così; e noi attorno a guardar-lo, a sospirare anche noi, finchè cominciò a farsi giorno.Allora alzossi, passeggiò innanzi indietro, appoggiossialla spalletta dell’uscio, e stette intento all’alba chespuntava. Certo allora gli rivenivano per la mente i gior-ni di sua fanciullezza, quando non era che figliuolo diMaso, e correva spensierato e folleggiante con questi al-tri a diguazzarsi nella rugiada. Eh! loro signorie hannode’ grandi piaceri nel loro stato, ma non è poi tutto oro;e noi poveri abbiamo anche noi i nostri, e meno scese dicapo. Insomma è che Alpinolo parve un tantin sollevato;ci chiese scusa, povero giovane! del dolore cagionatocila notte; che erano avvenute a Milano gravi disgrazie;cacciati a prigione dei suoi più cari amici; che per luinon v’era pericolo, ma andava per certe sue bisogne adun luogo qui poco oltre, onde ci lasciava il cavallo; e semai tardasse oltre una settimana, era buon segno, e vor-rebbe dire che aveva preso altra strada, e il cavallo di-ventasse nostro e i denari. Ci baciò tutti, e piangeva: ese n’andò; e dopo d’allora l’ha visto lei?

— E dell’anello?» diede su la vecchia.— Oh questo che cos’ha a che fare?

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In quelle carte Ramengo cercava, ….

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— Ha che fare moltissimo» riprendeva essa. — Con-viene ben dire che gli frullasse pel capo qualche fattoassai rischioso, se depose quelle robe che mai non avevadivise da sè.

— Che robe sono?» domandò Ramengo. E il mugna-jo, quasi per supplire all’inettitudine di sua moglie chetartagliava nel cominciar il racconto, proseguì: — Essavuol dire che Alpinolo, già uscito di casa, fermossi, pen-sò, esitò un tratto, poi si cavò dal seno un arnese e daldito un anello che sempre portava; baciò il tutto affet-tuosamente, e li diede a mia moglie, dicendo: Custodite-li con ogni cura: è quanto or mi resta di caro nel mondo:e replicò i pianti, tornò a baciarli, poi se ne fuggì a pre-cipizio.

— E cotesto arnese che cos’è» richiedeva il traditore.— È tutta l’eredità di sua madre», gli replicava la

Nena.— Essa nelle ultime sue ore non faceva che baciarli e

guardarli; poi mi fece promettere gli avrei dati al bambi-no, perchè li portasse sempre, in memoria, diceva, delledue persone che più di tutte, diceva, essa amò al mondo.E sono, un anello di diamanti, e un borsellino con cucitientro due pezzetti di carta, due lettere, mi hanno detto.

— Due lettere?» proruppe con voce tonante Ramen-go, i cui occhi gettavano faville. — Due lettere di Rosa-lia? Ove sono? a me: voglio vederle: datemele: presto:le voglio.

Quel tono imperioso, quel gridare, quel muoversi vio-lento, parvero cosa straordinaria alla rustica famiglia,

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che in muta ammirazione guardava al forsennato, millesospetti formando: ma poichè egli instava, la donna sivolse al marito e — Ch’io glieli mostri?»

Questi fe’ spalluccie; ma l’altro replicava: — Sì, sì,datemeli: li voglio, o vi mostrerò chi sono: porrò a soq-quadro la casa: li torrò per forza»; e tanto minacciò epromise, che la donna aprì la cassapanca, e con occhiosospettoso rivoltasi a colui — Ma mi promette di resti-tuirmeli?»

Prima di rispondere, esso glieli aveva strappati dimano, e con un tremito febbrile strinse Fanello: — eral’anello ch’egli avea dato alla Rosalia quando la promi-se sposa. A guardarlo, che pensieri gli corsero alla men-te, che tempi si ricordò! Tempi d’amore, di pace; cheavevano lampeggiato un istante sul bujo dell’anima sua,come se una rosa germogliasse fra le cocenti arene delSahar. Colle dita tremanti fece un moto quasi volesseavvicinarlo alle labbra, poi dispettoso lanciollo per terra.E mentre la Nena premurosa ne seguiva il fosforico bril-lare fra le tenebre, e raccolto lo riponeva, gli uomini conun silenzio pieno di aspettazione si fissavan sopra quel-l’uomo, alla cui figura cresceva terrore la rossastra lucedel fuoco. Egli stracciava il sucido involto dell’amuleto,e svolgeva due brani di pergamena, indi accostatosi adun tizzone, leggeva tra sè:

Poichè il destino della nostra patria è deciso, la ab-bandono, e vo contro gl’infedeli. Solo m’affanna il di-scostarmi da te che sopra ogni cosa amo. Cinque giornirimango da queste parti. Se puoi eluder la vigilanza di

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lui, fa ch’io possa una volta vederti, abbracciarti. Ilvalletto che ti reca questo, doman sera tornerà per larisposta. Qualunque rischio a me non parrà troppo perpoterti dire a voce quanto ti ami

il fratel tuo.In quelle carte Ramengo cercava, voleva trovare il

delitto, e scopriva invece l’innocenza della Rosalia!Come intontito rimase alcun tempo sopra quei caratteri;poi ripensando, svolse a furia l’altro viglietto: — Chi sache non trovi in esso quello che cerco?» ma era dellamedesima mano, e vi stava scritto così:

Tutti questi giorni aspettai il valletto, colla risposta;nè l’un nè l’altra arrivò. Che sarà? Parto dunque senzavederti, sorella diletta, ma dovunque io sia, qualunquesorte m’attenda, te porterò sempre in cuore, sempre ilCielo pregherò di concedere a te la felicità, ch’io nondevo conoscere più. Addio.

— Dunque ella era innocente!» proruppe Ramengo inun tono che fece sbigottire tutta l’intenta famigliuola.Sorse furibondo, mugolando, cosperso di bava, digri-gnava i denti, morsicò e fece a brani quei viglietti, ecacciavasi le mani nei capegli, stracciandoli a ciocche.Gli ospiti, ad uno spettacolo di cui nulla comprendeva-no, eransi tutti insieme ristretti da un canto, e la donna sisegnava dicendo: — Ch’e’ sia indemoniato?» Egli per larozza cucina trascorreva a passi concitati, ora bestem-miando, ora gridando con voce senza parole; poi d’uncalcio sfondò la porta e uscì. Era una notte fosca come isuoi pensieri; la pioggia ingagliardita e tuoni e lampi

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l’accompagnavano; ma egli non vedeva, non udiva lanotte, l’acqua, il vento, il cielo malvagio. Donnino, chegli tenne dietro così di lontan via, lo vide a gran passitraversare la campagna, e poi ben tosto il perdette di vi-sta, e tornando al casolare, ne contava fra meraviglia epaura, le smanie, l’agitazione, esclamando: — Deveaver le lune ben a rovescio».

Altro che lune! era un demonio, col quale in cuoreRamengo continuò l’errante corso. L’aver ucciso una in-nocente ed a quel modo, sarebbe stato ragione sufficien-te per giustificare quel turbamento disperato in un ani-mo molto ribaldo. Ma nel suo non era commozione dipentimento, bensì una foga di ire, di dispetti, poichè iltristo, non che indursi a dar torto a sè medesimo, daiproprj peccati trae motivo di nuovi odj: vaso guasto, ovesin la rugiada si corrompe; serpe, nel cui seno perfido ilmiele diventa succo mortale. Quella donna egli l’avevapure amata: aveva provato le dolcezze dell’essere ria-mato, come si suole di cosa perduta, ne rammentava tut-ti i pregi, nessuno dei difetti, il peccato in lei suppostoera scomparso. Ed egli l’aveva uccisa! Aveva privato sèdell’unica incolpevole dolcezza che in vita sua gustassemai! — Foss’ella vissuta, oh come diversa sarebbe tra-scorsa la mia vita! Placido in grembo della famiglia, pa-dre di cari bamboli.... Padre! oh! essere padre! questaconsolazione l’ho libata, ma solo quanto bastasse persentire più grave la maledizione del non poterla provaremai più. Fosse ella vissuta; che importerebbe a me que-sta superba di Margherita? che invidiar alle gioje del Pu-

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sterla? E di tutte queste privazioni, chi fu la causa? senon il Pusterla istesso? Maledetto! egli mesce il velenonella mia tazza; egli appuntò un coltello fra me ed ilseno delle mia donna. Scellerato! S’ei non l’amava per-chè farne le mostre? perchè tentar di sedurre quell’ange-lo? perchè, se non per farmi onta e dispetto?»

E stringendo il pugno, e stralunando gli occhi verso ilcielo, scagliava sopra di quell’innocente le imprecazionipiù rabbiose e più immeritate. — Se tu non fossi stato(proseguiva) sarei con onore vissuto tra gli uomini, nontrascinato sopra una via, per la quale ora mi è forzacamminare. Sì... è forza ch’io ne tocchi l’estremo; e seper tua cagione perdetti i gaudj dell’amore, possa io al-meno inebbriarmi in quelli della vendetta! Rosalia! Ro-salia! te lo giuro! ti vendicherò! ti vendicherò!»

Così la conoscenza del suo delitto a nuovi delitti lotraeva; somigliante a chi, nel terrore di un incendio, get-ta nuova esca al fuoco, sperando di soffocarlo.

Taceva, seguitava, errando come una cosa pazza perla landa uliginosa, affondandosi nelle pozze, saltando ifossati, poi si fermava, apriva il pugno coi brani dei vi-glietti lacerati, che macchinalmente stringeva, fissava sudi essi gli occhi cristallini, dimenava il capo: — Ecco!essa gli avrà baciati tante volte, vi avrà sparso sopra chisa quante lagrime; sarà morta premendoli al cuore, colnome di suo fratello sulle labbra, mentre avrà traboccatel’ira e le maledizioni sopra colui che la uccideva... So-pra lui, e non sopra quello che ne era la causa! Col latteavrà stillato l’odio nel mio bambino, gli avrà insegnato

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ad abborrirmi... Ma no! oh no! egli ignora l’autore deisuoi giorni, e spasima di saperlo, per poter con lui com-parire nella società, ed ottenere quell’onore della caval-leria che gli fu negato, sol perchè d’ignota razza. Certolo cerca, e non sa che quel desso erasi posto sulle ormesue per trarlo a rovina. Ma ora il troverò ben io, me glipaleserò: gli dirò che son suo padre. Qual tripudio perlui aver trovato un padre! come mi amerà! ed io ameròlui, compenserò lui dei torti fatti a quella sciagurata; po-trò ricomparire nel mondo tenendomi ai fianchi un fi-gliuolo, che sarà il mio decoro, il sostegno e la consola-zione dei miei vecchi giorni. Ma che? no! neppur questomi sarà dato forse. Eccolo involto nella malvagità delPusterla. Perdio! avrà dunque il Pusterla a presentarsitraverso a tutte le mie gioje, a tutte? essere causa sempredei miei tormenti? Maledizione sul capo di lui!»

E imperversava di nuovo: poi fermavasi a guardare lanotte, ad ascoltar lo scroscio dell’acqua, unica voce

nel silenzio della campagna disabitata. Quella campa-gna, quella notte un’altra gliene ricordava, un’altra incui aveva ricevuto dalla Margherita quell’affronto; unaffronto che omai non si poteva lavare se non col san-gue. A tale rimembranza viepiù ribolliva il suo furore;nell’istante che scopriva il proprio misfatto e la innocen-za dell’uccisa e del perseguitato, invece di pentimento,concepiva i più atroci disegni di vendetta.

Pure tra quell’inferno gli tornava innanzi giocondo ilpensiero del sapersi padre! padre di un figlio che, igno-rando l’antica sua colpa, l’avrebbe amato come quello

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che gli porgeva il modo di collocarsi con onore nella so-cietà; sostituendo così sempre il calcolo al sentimento,come uomo avvezzo a non vedere negli uomini chemezzi od ostacoli al salire. E quel figlio era lì vicino; eforse coll’alba poteva vederlo; forse tornando nel caso-lare vel troverebbe. Appena dunque la nuova luce gli la-sciò distinguere gli oggetti circostanti, s’avviò per rin-tracciare la strada. Molto era corso quella notte, l’ac-quazzone aveva cancellato ogni sentiero, ogni pedataper la selvaggia lama; pure il muggito del fiume si udi-va, dietro al quale dirigendosi, arrivò dopo lungo cam-mino, alle sue rive, secondando le quali distinse final-mente la baracca de’ mulinai. Vi si accostò come uomoche va ad intender la sentenza di sua vita o di sua morte,entrò, ed alla Nena, che stava accosciata al fuoco, e chetutta si risentì al vederlo, chiese: — È tornato?

— Chi?» domandò ella.— Chi! chi! Alpinolo.— Signor no... ho gran paura... Dio nol voglia, ma

qualche disgrazia deve certo essergli accaduta. Un ani-mo me lo fischia all’orecchio. Povero giovane!»

E fra il così dire, dava pure qualche sguardo sospetto-so e di sottecchi a quell’ignoto, ripensando in che granbestia l’avea veduto la sera antecedente. Egli fece sella-re il cavallo, e se n’andò, lasciando detto che, se mai Al-pinolo capitasse, ad ogni patto il ritenessero finchè eglitornasse, importandogli come la vita di parlargli. Quelgiorno, il domani, e i seguenti vagò alla ventura, secon-do che il capriccio, il caso, il cavallo, qualche idea,

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qualche superstizione lo portassero: fermavasi in unpaese senza un perchè, camminava, tornava indietro,finchè ricapitava pur sempre al mulino. Quivi il suogiungere turbava la vita ingenuamente spensierata diquella buona gente, che ricordandosi quelle furie, avreb-bero visto meno male il traboccare del Po. — Fosse al-meno la febbre costui (talvolta diceva la Nena) che conuna messa a san Sigismondo me ne libererei». E qualchealtra: — Fin Giuda a casa del diavolo trova riposo la do-menica: ma per costui non c’è festa che tenga».

Così colla testa ingombra di pregiudizj e col migliorcuore del mondo, non sapeva perchè, ma non poteva tol-lerare quell’uomo: — E neppure il nostro cagnuolo(soggiungeva) si è potuto mai assuefare a vederlo senzaguaire come se lo pelassero».

Ma poichè per gli importuni ci vuol meglio che augu-rj e imprecazioni, Ramengo tornava sempre, assiduocome un creditore; la prima domanda che faceva erasempre di Alpinolo se fosse comparso; la risposta erasempre il medesimo no.

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CAPITOLO XIV.PISA

Perduta ormai la speranza di rivedere Alpinolo, certoche, dovunque fosse, costui ne avrebbe fatte di tali dalasciarsi scoprire anche troppo. Ramengo andava tra sèpensando ove rintracciarlo; giacchè il desiderio di sco-prire un figlio lo faceva disviare dalla pesta che fin laaveva ansiosamente fiutata. In una delle sue corse allaventura, mentre costeggiava il Po, ascoltò di sotto unmacchione uscire un fischio come d’uomo che chiami:s’accosta: era un barchettajuolo, il quale sommessamen-te gli chiese: — Vuol forse passare, signor cavaliere?

— Perchè cotesta domanda?— Oh la si lasci servire. Conosco ai panni ch’ell’è un

milanese. Se n’ho passati queste settimane!»Tali parole diedero la spinta all’irresoluta volontà di

Ramengo, il quale risposto un sì piuttosto agl’internisuoi ragionamenti che all’inchiesta del barcaruolo, ca-lossi, fece allogare il cavallo nel barchetto: poi mentre ilrematore faceva forza vogando e tagliando obbliqua-mente il filone del fiume, il ribaldo, intento a scalzare,gli domandava dei passeggieri, degli abiti loro, dei di-scorsi, del dove si dirigessero: poi l’interrogò se fra

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quelli aveva veduto un bel fante così e così, dipingendoAlpinolo.

— Eh eh! (rispondeva il remigante) se dovessi averlia mente tutti. L’è stato un via vai! Però... quel che midescrive mi pare di averlo veduto sì: un uomo così fra itrenta e i trentacinque...

— No, no: meno: neppur venti; capelli neri...— Appunto: or mi raccapezzo: occhi grigi, bassotto,

tarchiato...— Anzi, occhi neri: alto tanto più di me; ben tagliato

in tutte le membra: — impossibile vederlo e non ricor-darsene.

— Uh! tanti asini si somigliano».Capì Ramengo che l’uomo era tanto gonzo, tanto oc-

cupato del mestier suo, da non poterne succhiellar nulla:onde giunto all’altra riva, scarsamente regalatolo, simise alla ventura, perchè l’unica indicazione datagli dalnavalestro fu che quei profughi erano andati di là. Varcòancora da luogo a luogo, richiedendo da per tutto, e daper tutto udendosi rispondere che Milanesi di fatto, sen’eran veduti molti, ma niuno sapeva ridire chi fossero,dove si dirizzassero: al più conoscevasi che andavanofuori via dalla patria per la tirannide di Luchino.

Ma altri tiranni egli vide dominare per le varie città diRomagna: a Rimini i Malatesta, gli Ordelaffi a Forli, aFaenza Francesco di Manfredi, i Polenta a Ravenna:Roma lamentavasi vedova, dopo che i papi, tramutando-si in Avignone, l’avevano abbandonata alla tirannide dique’ suoi baroni, contro dei quali doveva pochi anni

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dopo, sollevare generosa ed impotente la voce ColaRienzi: Bologna riceveva vita e splendore da forse quin-dicimila Italiani e Tedeschi, studianti sulla sua Universi-tà, la quale fino d’allora procacciavale il titolo di dottache conservò sin qua, come conservò nello stemma laparola LIBERTAS, quantunque già in quei tempi si fos-se ai papi assoggettata. Valicando poi l’Apennino, Ra-mengo si calò nel bel paese toscano.

Quivi la libertà era con maggior gelosia custodita,quanto a peggiori abusi vedeansi rompere i signorotti diRomagna e di Lombardia: tutte le terre difendevanoacremente le loro franchigie, ed abborrivano il governod’un solo. Ma come sperare che una fanciulla si conser-vi innocente fra bordellieri e femmine da conio? Queitristi vicini se ancora non osavano attentare direttamentealla libertà dei Toscani, se ne preparavano la via colromperli, e col fomentarvi i mali umori. Sotto pertanto aquest’infame influenza, le nimicizie cittadine ivi peggioche altrove imperversavano: e i nomi di Guelfi e Ghi-bellini, che negli altri paesi avevano quasi perduto la si-gnificazione, mantenevano quivi una tenace vitalità.Ghibelline erano Pisa ed Arezzo; guelfe Pistoja, Prato,Volterra, Samminiato, Siena, Perugia e principalmenteFirenze; talchè, invece di maturare un concorde senti-mento di nazionalità, dal quale soltanto potevano spera-re frutti per l’avvenire, combattevansi e contrariavansil’una l’altra; patria riguardavano l’angolo dove ciascunoera nato: forestieri ed avversarj tutti quelli d’altra terra,tanto più accaniti quanto più vicini; e nelle loro querele

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invocavano spesso o le funeste armi o la più funesta me-diazione dei comuni e più veri nemici, gli stranieri.

Fra quelle lotte però sentivasi la vita: ciascuno capivaquel che valesse di per sè, e quel che potrebbe d’accor-do cogli altri; il commercio, l’agricoltura, le arti eranosalito in gran fiore; pittura, scultura, architettura, offri-vano modelli, che il difficile nostro secolo non cessò diammirare; e la lingua, venuta a mano di Dante Alighierimorto venti anni prima, e del Petrarca e del Boccaccio,giovani ancora, acquistava il primato che più non perde-rà, sopra l’altre d’Italia.

Come in quella Grecia, a cui per tanti lati somiglia lapatria nostra, si dimenticavano le mutue nimicizie perconvenire ai giuochi in Olimpia, così l’umore allegrodei Toscani li raccoglieva alle splendide feste, onde so-levano spesso ricrearsi le diverse città, o nelle solennitàdei loro santi patroni, o per memoria di antichi fatti, oper celebrazione di nuovi. Pisa in quel tempo aveva ap-punto riportato vantaggio contro i Moreschi, che dallecoste d’Africa infestavano il Mediterraneo e l’Italia;onde, per solennizzare quel trionfo e la presa di alcuneloro galee, dovevasi finire il carnevale colla festa diPonte. Nè d’altro che di questa udiva Ramengo ragiona-re per tutta Toscana allorchè vi capitò: chi poteva, pre-paravasi per andarvi; gli altri se ne struggevano di desi-derio. — Perchè non v’andrò anch’io?» disse Ramengo.«Fra tale concorso di gente, nulla più probabile che in-contrar quello ch’io cerco».

E vi si drizzò.

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Pisa in quel tempo era nel maggior suo fiore. Portofrequentissimo come (fatta ragione ai tempi) oggi sonoAmsterdam e Londra, nel 1283 aveva armate fino cento-trè galee per guerreggiare Genova, che gliene opposecentosette: vedeva a’ suoi mercati accorrere Mori d’A-frica, Normanni del Settentrione, Turchignoti di Levan-te; mandava i suoi legni verso le Indie orientali a cari-carsi di spezie, che poi diffondava per tutta Europa, ri-portandone in cambio legnami, canapa, stoffe, denaro.Alle speculazioni congiungendo l’amore per le arti bel-le, innato nella patria nostra, dalle imbarbarite regionidell’Asia i Pisani traevano marmi, colonne, sculture, dicui abbellivano la patria: di Palestina recarono terra perriempiere il loro cimitero, onde poter dormire in terrasanta; attorno a quel cimitero, i ristoratori delle arti bellefabbricavano, scolpivano, dipingevano, più insignemen-te perchè l’originalità non era stata per anco soffogatadall’imitazione, nè il raffinamento materiale aveva toltola mano alle idee ed al sentimento. Su quelle pareti erastata ridotta a figure la Divina Commedia di Dante, perleggere la quale avevano eretta una cattedra nella nuovaUniversità; — poesia, pittura, scuola nazionale e religio-sa: commercio, arti, devozione, sapere, libertà; beglielementi della vita italiana d’allora.

Oggi Pisa è ben altro. Una borgata a mare, allora ap-pena avvertita, le tolse quel resto di commercio, che lemutate condizioni d’Europa lasciarono alla Toscana; icencinquantamila suoi abitanti sono ridotti ad un setti-mo appena; la marmorea cattedrale, lo stupendo battiste-

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ro, la mirabile Loggia dei mercanti, gli altri edifizj diantica maestà fanno un melanconico contrasto coll’erbacrescente per le vie spopolate, col silenzio delle ammu-tolite officine, coll’inoperoso vuoto del suo Lungarno; ela bizzarra Torre sembra chinarsi in atto di compassioneper deplorarne le perdute grandezze.

— Potenzinterra! ei dee venire da in capo al mondose mai non ha inteso parlare della festa di Ponte»; dice-va a Ramengo l’oste Acquevino, che, venuto giovane daPontedera senza un becco d’un quattrino, come egli di-ceva, in sulla via di Pisa avea rizzato dapprima un fra-scato, ove dava bere a’ mulattieri, cavandone le spese equalche zaccherello di vantaggio; poi coi quattrini fa-cendo quattrini, e spacciando gran nomi ai piccoli viniche la sete faceva parere strabuoni, murò un’osterietta,che, se alcuno gli diceva essere piccola, egli, senza certoaver mai letto di Socrate, rispondeva, — Così potessiaverla sempre piena di avventori». Posta sur un dosse-rello, aveva dinanzi uno spazzo ove si giocava al palla-maglio, e da cui vedevansi passar rasente quelli che siavviavano alla città, e dominavasi la vasta pianura, cheda un lato scende fino al mare, dall’altro è chiusa da col-linette biancheggianti nel verde degli olivi, e tramezzatadall’Arno che poi a forma di semicerchio divide Pisa.Colà Acquevino fatto maturo e grassotto, ma semprefresco, snello, gran chiacchierone, gran lodatore del suopaese, del bel cielo, della buon’aria, della buona gente,quanto un poeta arcade, dava alloggio a qualche fore-stiere, facendogli poi nello scotto pagare la colpa di non

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esser toscano; somministrava bubbole e da bere a vettu-rieri e pedoni; e con religiosa integrità serbava prosciuttidel Casentino e fiaschetti d’aleatico e di Montepulciano,che un professore dell’Università aveva paragonati al-l’ambrosia e al nettare degli Dei; similitudine che Ac-quevino, da venti anni ripeteva come nuova di zecca atutti i signori, che (diceva egli col tono onde una civet-tuola dice esser brutta per sentirsi raffermare il contra-rio) venissero ad onorare quella sua catapecchia. — E(soggiungeva) qui gente non ne manca mai. Perchè ionon sono come que’ miei confratelli, che vogliono farcommenti all’altrui starnuto. Libertà per tutti; chi paga èbuon amico».

Vedendo arrivare in sulla sera Ramengo solo e conmagra valigia, gli aveva dapprima fatto gli occhi grossied era stato con lui tant’alto; ma quando lo intese co-mandare la camera migliore, i più squisiti bocconi, ilcentellino più scelto, e gli balenarono all’occhio i fiorinid’oro lampanti, onde aveva rigonfia la borsa, disse frasè: — Costui vuol riuscire meglio a pan che a farina»; emutò cantare: non fu buon garbo che non gli usasse, ementre si dava fretta intorno alle pietanze e ai forestieri,trovava qualche ritaglio di tempo per regalare due paro-le all’ospite dalla buona borsa, e vantargli il suo paese ela sua osteria. — Pisa (gli diceva) fior del mondo; senzafar torto a nessuno, e meno al suo paese, signor forestie-re. E se non fosse stata Pisa, tutta Toscana era a mancod’un pelo di venir turca, e non si berrebbe vino. —Ch’io le ne mesca un altro bicchieretto? — Vogliono es-

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ser forse trecent’anni, i Saracini avevano posto piede inCalabria: ma i Pisani, nemici dei nemici di Dio, manda-rono il fiore della nostra gioventù a snidarli. Cosa pen-sano quei dannati? Con navi sottili e col diavolo che liajuta, nel fondo della prima notte di gennajo hanno fac-cia di entrare in Arno, invadono il sobborgo, lesti e queticosì che nessun popolano se n’accorse, fuorchè ai colpidei malnati e alla vampa degli incendj. Allora tutti afuggire senza guardarsi alle gambe, e senza pensare adavvertire la città perchè si mettesse in difesa. Una donnasola, oh viva le donne toscane! — la sola Cinzica de’ Si-smondi, attraversa i maledetti che già occupavano ilponte d’Arno, corre ad avvisare la Signoria; e subito undar delle campane, un sonar di trombe, un leva leva, unpresto presto, un corri corri, tutti, a vedere e non vedere,pigliano le armi; fanno fronte ai Saracini che, rincaccia-ti, n’hanno di grazia a fare salva chi può, si tolgono ditesta il baco di mai più tentare la gente più valorosa dicristianità. In memoria di quel trionfo sul pontestesso...»

Qui Acquevino, richiesto da altri avventori, dovetteinterrompere la narrazione di quel fatto, successo intor-no al mille, e in memoria del quale il borgo rifabbricatodi là d’Arno fu nominato di Cinzica, ed istituita la festadel Ponte. Noi meno, pressati dagli avventori che nonfosse Acquevino, procureremo supplirgli alla meglio neldivisarne il modo.

La smania di fazioni, di allegrie, di battaglie, di devo-zioni tutt’insieme, che Pisa, colonia greca, aveva dalla

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Grecia portato, suggerì quel genere di festa; lo tennevivo il desiderio politico di alimentare gli spiriti guerre-schi, tanto necessarj per mantenere la pace e tutelare idiritti. Imperciocchè in grazia di quella, i più valenti eanimosi fra i giovani pisani si addestravano continua-mente nelle armi e nei movimenti del corpo; e in tal gui-sa formavansi prodi e disciplinati sotto capitani, che,come più esperti, erano a ciò trascelti per voce di popo-lo, e che, dopo le finte lotte, poteano guidare anche allavera.

La città e il territorio si dividevano in due fazioni,chiamate dei Bianchi e di Borgo, ovvero di Sant’Anto-nio e di Santa Maria, da due chiese una di qua, l’altra dilà del fiume. Nappe di color diverso, per lo più intrec-ciate e regalate dalle belle, distinguevano i parteggianti;e per quindici giorni innanzi alla festa non era quasinient’altro che lottare e tambussarsi, ora in pochi, ora inpiù, con guasto anche di molte vite. Giunto poi il dì so-lenne, i combattenti delle due fazioni, protetti il capo dicelate, con alla mano noderosi randelli che chiamavanoi targoni, schieravansi dai due capi del ponte di mezzo,formando una fronte di forse quaranta. Non appena al-zata la sbarra, si movevano all’incontro, e venuti al col-mo, allora era il menar delle mani, il cozzare, il pic-chiarsi; e la baja diventava pur troppo da vero. I primi,coi targoni appuntati al petto, pigiavano, spunzavanocontro gli avversarj; altri menavano, facendosi piazza;alcuni carpone si ficcavano tra le gambe dei combatten-ti, o per arrovesciarli, o per alzarli di peso e buttarli in

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Arno. Sulle spallette intanto venivano i capitani, col bat-tacchio anch’essi, dando un poco di regola a quel tumul-to, rincorando, zombando, ma coll’occhio attento a schi-vare gli avversarj, che, se vedevano il bello, con unospintone li sbalzavano dal ponte. Sotto a quei colpi, traquella furia, guaj a chi stramazzasse ai piedi della calca!Il men male era per chi dai parapetti traboccassero inArno, ove stavano pronte le barchette a raccorli. Del re-sto si ferivano, si abbattevano, si disarmavano avversarj,si facevano prigionieri; nè per tre quarti d’ora restava ilcalcare, il ferire, l’accopparsi, come diceva Acquevino,con mirabile tripudio degli spettatori. Dalle finestre, daiterrazzi, dalle bertesche, d’in su i tetti, una calca di gen-te attendeva, smaniando di gioja, di timore, di applausi,d’incoraggiamenti, di fischi, secondo che questa o quel-la parte piegava o prevaleva; secondo che era in fortunao in disdetta l’amico, il parente, l’amante; secondo cheSant’Antonio o Santa Maria più acquistavano del com-battuto ponte; e sì gran fervore ponevano nel matto par-teggiare, che madri, sorelle, amiche, all’udirsi annunzia-re le ferite e fino la morte dei loro cari, domandavanoqual delle due parti avesse avuto il meglio, e se l’annun-zio rispondeva ai loro desiderj (Spartane fuor di tempo)obliavano i più teneri e sacri affetti per prorompere infestose acclamazioni.

Spirato il termine concesso a quel furore, sonavasi araccolta, calavansi di nuovo le sbarre, e la parte che piùavea preso dell’erta, veniva gridata vincitrice. Qui lebaldorie, il trionfo, e i più segnalati campioni, incoronati

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dalla Signoria, abbracciati, baciati da chiunque avea lafortuna d’esserne, in quel giorno, amico; e scornacchia-re i vinti, e cantare inni, come fossero stati distrutti i ne-mici della patria.

Poichè le usanze sopravvivono al loro motivo, i Pisa-ni continuarono il sanguinoso spasso anche quando ilvalore non solo era divenuto inutile, ma si sarebbe repu-tato una colpa; e finalmente Pietro Leopoldo di Lorena,trovandolo troppo per un giuoco, troppo poco per unaguerra, lo proibì.

— Non ha mai visto, signor forestiero, in vita sua eper tutto il mondo, un tal concorso di cristiani?» doman-dava l’oste a Ramengo, il quale, la mattina dello spetta-colo, stava sopra un terrazzino, ombreggiato da un lec-cio, osservando Pisa e la folla che vi traeva. E girandoin tondo la mano distesa, seguitava: — Le par poco?Che sciali! Che bellezza! che brio! Un toscano si discer-nerebbe anche di mezzo alla moltitudine di Val di Gio-safatte. Quelli che vede in lucco maestoso sono i Fioren-tini; ricchi sdondolati, sa, speculeranno anche sulla fe-sta. Quest’altri, tutti in fronzoli e in fiocchi, sono Pisto-jesi; quelli là, da Siena, la gente più leale e sincera delletre parti del mondo. Il desiderio di vedere le nostre festegli ha fatti dimenticare delle vecchie emulazioni; e aPisa tutti saranno i ben accolti, e nemmeno si temeràche ci portino la peste. Oh veda la bella cavalcata! Sonosignori della Versilia e della Lunigiana, terribili nei lorocastelli non meno che sul mare; lo sanno i viandanti. —Buon divertimento a lor signori! Posso servirli di nulla?

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— Questi sono di que’ ricchi cogli arnioni, e vengonodalla val di Nievole, fertile e ridente, ch’è il paradiso diToscana, come Toscana è il paradiso del mondo. Snida-rono essi gli antichi baroni, e si piantarono nei loro pa-lazzotti per coltivar le vigne e gli uliveti. Osservi, bellee robuste figure. E tutti hanno in groppa fanciulle e don-ne, che, non v’è rimedio, le eguali non vede il sole, perquanto giri. — Viva il bel sole, vivano le belle donne diToscana».

Così, ma a spizzico e scappa scappa, raccontava l’o-stiere a Ramengo, intanto che dava ricapito agli altri,che cominciavano bene la mattinata con un fiaschetto; equel vivo spettacolo pareva ammansare il truce animo diRamengo, che, nella contentezza di sapersi padre, nellasperanza di pur trovare suo figlio, di riconciliarsi conesso, pareva entrare in una vita nuova, e talora sentivasipreso da un tal accesso di benevolenza, che proponevalasciare la micidiale e infame sua scelleraggine, e cerca-re con belle azioni la stima dei buoni, la tranquillità del-l’animo, la serenità che attorno a sè vedeva regnare nel-la turba festiva.

Alla quale intento, mirava dai poggetti, dagli scende-relli, dai tragetti, sbucare i villani, a larghi cappelli ditreccia bianchi, con nastri rossi e neri; e quadriglie dicontadinotte che, cammin facendo, trecciavano la pa-glia. — Esse scendono dai colli di Signa (ripigliava Ac-quevino). Questi sono i robusti montanari di Lucca. Co-testi pallidi e scialbi vengono dai contorni del lago diBientina»; ed ai vivaci colori del loro vestito faceano

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contrasto i bigi e neri e bianchi delle tonache di tantifrati, e il marrone dei mendicanti, che accattavano peipoveri e per Dio.

Su per l’Arno intanto vedeva un mondo di bacchetteguizzare leggiere fra mezzo ai grossi legni ancorati. Chicapitò a Pisa per la festa della Luminara, che si rinnovanel giugno d’ogni terzo anno, ed ha goduto, per non piùdimenticarlo, l’incantevole prospetto di quella città, contutti gli edifizj, le cupole e i campanili accesi a lumicinie fiammelle, e una quantità di navicelle illuminate voga-re l’una a prova coll’altra, potrà immaginare il tripudioche, in tempi tanto più prosperi ad essa, vi si dovevafare alla festa di Ponte. Fra tutta quella moltitudine erauna curiosa allegria; eccitata viepiù dal felice rinnovarsidella stagione, ed alimentata da capricciosi scherzi, dabizzarri motteggi, che si facevano, che si slanciavano gliuni agli altri, nella dolcissima e vivace loro favella. Uncoro di giovani, dando fiato alle zampogne, accompa-gnava gli accordi di altri che cantavano la nota ballata:

Vaghe la montanine pastorelle,Donde venite sì leggiadre e belle?

E com’ebbero finito l’aria, una forosetta, che, pergrandi occhi e per guancie rubiconde come una melaro-sa, si discerneva dalle compagne, rispondeva con vocepiù robusta che delicata, mentre appunto passava sottoal balcone ove stava Ramengo:

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E s’io son bella, io son bella per mene,Nè mi curo d’aver de’ vagheggini;E non mi curo niun mi voglia bene,Nè manco vo’ ch’altri mi facci inchini.

— Guarda che bella tosa», esclamò un giovane, sbu-cando di dietro la taverna, e spingendosi audacementeverso la fanciulla. Al suono della parola e dell’accentoforestiero si voltò Ramengo, e riconobbe un crocchio diLombardi. Quando ogni paese portava diversissime fog-gie di vestimenti, bastava un’occhiata per discerneregente da gente; e i Lombardi d’allora, dico i più ricchi eda festa, usavano nobili panni, assettati alla persona, fo-derati di seta, o cappe tedesche foderate di vaj; cappuccialle gote con fregi d’oro intorno alle spalle; ai piedi cal-ze e calzeroni; alla cintura larghe correggie con fibbied’argento, da distinguerli al primo sguardo.

Vibrò Ramengo un’occhiata fra loro; fissò con sguar-do scrutatore quei visi, ed accertatosi che fra quelli nonv’era chi lo conoscesse per veduta, o gli potesse inter-rompere i disegni suoi, scese, e col parlare si diede a co-noscere per loro compatrioto. Tosto gli furono essi intor-no con quell’amorevole premura, onde si suol salutareun concittadino su terra lontana, dove basta la comunan-za di patria per far riguardare siccome amico anche unosconosciuto.

In quella libera città avevano fatto capo i molti foru-sciti da ciascuno dei varj paesi lombardi; e quivi, pa-scendosi delle speranze, dolce e indigesto nutrimento

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dei profughi, preparavano maneggi ed armi contro al ti-ranno della patria loro. Ma il tiranno della patria loroaveva il vantaggio, che ha sempre chi già trovasi in pos-sesso d’una cosa, sovra colui che ne lo vuol privare; ementre essi menavan trattati a danno di lui, altri più vivine raggirava sott’acqua, Luchino; quelli andarono sven-tati, questi riuscirono al loro intento.

Ma non anticipiamo gli eventi, e ci basti per ora mo-strare come quella festa, al pari di tutte le altre antiche emoderne, nostrali e forestiere, potesse rassomigliare alcolor di rosa, che tinge le guancie d’alcuni consumati damal sottile: sul volto non appare che la sanità, ma dentrocresce lo spasimo e il marasmo; oggi sorridono, domanimorranno.

Ramengo, sicuro tra quei sicuri, salutava, rispondeva,abbracciava, stringea la mano a questo o a quello, e seb-bene potesse sperare che il nome suo fosse tra i foruscitiriguardato come quel d’un amico, d’un compagno disventura, gli parve però prudenza il dissimularlo, e sidiede per un tal Lanterio da Bescapè, nato all’ombra delDuomo di Milano, abitante alle Cinque Vie, e come lorofuggiasco dalla patria, — perchè (diceva) chi può regge-re regga in una terra, a quel modo oppressa da così scel-lerato tiranno. Tenga egli seco i suoi mastini, tenga ilsuo Sfolcada Melik; non chi sentesi nelle vene stilla disangue italiano».

Pensate se quelle parole andassero a’ versi de’ foru-sciti, e quasi il parlare avventato fosse infallibile con-trassegno di spiriti animosi e sinceri, già, senza un so-

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spetto al mondo, computavano il nuovo arrivato per unacquisto; già prendevano occasione di narrargli ciascunoi torti fatti da Luchino alla loro patria, a Cremona, Pa-via, Lodi, Como, Bergamo, ed i particolari loro disgusti,o domandarlo de’ suoi, che immaginate s’egli sapevaimpiantare e colorire al vero. Ognuno poi si affrettava achiedergli di questo o di quello fra i parenti, fra gli ami-ci che aveva lasciato a Milano.

— A che partito sono gli Aliprandi?— Morti per fame.— E Bronzino Caimo, quel gran moderatone, sta

sempre col tiranno?— Sta col muso alla ferrata per aver osato difendere

la verità, se pure non gli è già capitato di peggio.— E Matteo Visconte?— Confinato a Morano di Monferrato.— E Barnabò?— In Corte dello Scaligero. E dicono farà un parento-

rio con quella signora regina.— E Galeazzino? sempre bello? sempre galante?

sempre adoratore di madonna Isabella?— Oibò! Il signor Luchino dorme soltanto finchè

vuole. Il bel Galeazzo è vagabondo per povertà, e perfar perder allo zio la sua traccia. Dicono però sia inFiandra»,

Così rispondeva Ramengo alle varie domande, lietodi mostrarsi informato per guadagnare maggior fede, edi narrare quel che sapeva onde ricavarne quel che cer-cava. Perocchè, come il marinaro nel riveder le onde

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quiete, come il ladro al presentarglisi un bel tiro, come ilbeone all’entrar in una bettola, dimenticano ogni propo-sito antecedente, così Ramengo dissipò quei momenta-nei impulsi al bene, tosto che si vide innanzi l’occasionedi poter nuocere; volle mentire sulle prime, affine discoprire, se potesse, ove trovare Alpinolo, quindi, al so-lito, un peccato il trasse all’altro, all’ebra necessità deldelitto, a far il male per il male istesso.

— Ma dunque (gli domandavano quegli infervorati),che vivere è oggi a Milano?

— Il vivere (rispondeva Ramengo) dell’inferno e diogni paese in servitù. Luchino ogni giorno più imbaldi-sce, perchè vede che le alre città, spaurite, vengono alui, come il bove che volontario andasse al macello.Dieci n’ebbe già Azone in obbedienza, non è vero? Eb-bene, costui già v’aggiunse Bobbio, Asti, Parma, Crema,Tortona, Novara, Alessandria....

— Vili! così lor pute la libertà? così vogliono farsipuntello al trono di uno scellerato?» l’interrompeva Au-rigino Muralto da Locarno. Ed Acquevino, che mescevaloro del più generoso, ripetendo, — Guardino com’e’brilla, spruzza, salticchia! Resusciterebbe un morto»,ascoltando quegl’infervorati loro parlari, quel prender-sela così d’impegno, dimenava il capo ed esclamava: —Poveri paesi! Viva la libertà toscana! Per dio bacone,viva il giardino d’Italia!... Ma trovato quest’aria, questovino, questa pace, cosa importa a loro chi sia e quale ilpadrone? Non basta ciò alla vita beata?» E andandosene

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canterellava: — Nè per tempo nè per signoria non ti darmalinconia».

Prediche al deserto. Ramengo, dopo vuotata una tazzacon quei compatrioti, proseguiva: — Giudichereste peròche egli cresca per questo in potenza? Tutt’al contrario:ingelosi le potenze vicine, e al primo vento le barbe di-verranno rami. I signori Gonzaga lo guatano da Manto-va in cagnesco; il conte di Savoja già levossi i guanti, eprepara delle buone armi; il marchese di Monferrato nonvede quell’ora di romperla seco. Ma chi la romperà inmodo da non rappiccarla più, ve ne accerto, sarà Masti-no della Scala. Nel paese poi non vi dico altro. Sapeteche gran ghibellino si è mostrato Luchino finchè durò incondizione privata. Chi non avrebbe creduto che doves-se ora in ogni cosa dar mano alla parte migliore? soste-ner i nobili contro la ciurmaglia? Ma no, li tratta nè piùnè meno di quel che faccia coi Guelfi più marci nell’ani-ma. Questi però non gli credono, e lo tengono un impo-store; gli altri se gli rovesciano ogni di più; cosicchè gliè proprio il colosso di Nabucco dai piedi di creta.

— Ma il sassolino che basti ad atterrarlo?» soggiun-geva Caccino Ponzone cremonese.

— Eh! il sassolino ci saria ben egli (rispondeva quelfalso) e se... Ma lingua taci...» e battevasi sulla bocca.

Era il miglior modo di metterli in savore, onde, strin-gendosegli viepiù intorno e punzecchiandolo, — Che?dite su; c’è qualche nuvolo in aria? c’è speranze? Abbia-mo ben compreso che voi in cose di Stato pescate alfondo. Perchè far misteri con noi? la causa dei Milanesi

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non è quella pure di noi tutti? e siam qui per dare dispalla quanto valiamo. Non si aspetta che quel momentodel Signore, il dies irae. Ma chi dirigerebbe?

— Se Franciscolo Pusterla...» Proferito questo nome,Ramengo si recava sulla sua, con una di quelle pause atempo, che sono il giuoco dei maliziosi, e girava unosguardo aggressivo su tutti quegli impavidi visi, comeper succhiellarne il pensiero più arcano. Ma non faceabisogno di tanto perchè l’imprudenza andava in essi dipari coll’ardor giovanile, tanto che il tristo n’ebbe mi-glior mercato che non isperava. — E che? (gli domanda-vano coloro) siete anche voi di quelli del Pusterla?

— Come! se sono dei suoi?... (ripigliava Ramengo)Chi aveva il mestolo di tutta quella faccenda a Milano?e perchè m’ho avuto di grazia ad uscirne colla pelle?Ora qui (e li mostrava) ho dispacci da recare a lui... ma,acqua in bocca, che alcuno non mi ascoltasse. La pru-denza non è mai troppa. Coloro hanno bracconi da tuttele bande. Io ho lettere per lui dal signor Mastino dellaScala...»

Ramengo punzava, ed emetteva queste parole a scos-se; balestrando gli occhi in faccia a tutti: essi credevanoper cautela, in fatto era per ispiare l’impressione che suloro faceva, e se alcuno potesse o volesse dargli notizieo modo d’averne. E notò alcuni che dimenavano il capo,come volessero esprimere, — Non ne faremo niente»;sicchè continuò: — Ma! quando si dice gli uomini!...Chi lo avrebbe creduto? Egli, che poteva, sol che voles-

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se, divenire capo e salvatore della patria, ora dorme...s’è rimpiccinito... scappa come un fiacco paltone...

— E’ bada a fare mea culpa ai piedi di un fornaio...»uscì a dire Aurigino Muralto.

Fornajo di mestiere, quindi Fournier di soprannomeera stato il padre di Benedetto XII papa, allora sedentein Avignone. L’indicarlo a quella guisa, anzichè spiattel-larne il nome e il luogo, era stato una di quelle poveretransazioni che fanno colla prudenza coloro i quali san-no alle sue leggi rassegnarsi solo fino ad un certo punto.

Aurigino non si sarà creduto d’aver fatto il minimo,male, non n’avrà concepito il minimo rimorso, eppureavea messo lo spione sulla traccia, che più non perde-rebbe. Ramengo toccava appena il suolo colle piante perl’esultanza di questa scoperta, ma dissimulando e facen-dosene appieno informato, — Di certo (proseguiva) e’s’è messo ad Avignone come un chierico, il quale aspirial cappel verde o al rosso, o come un basso delinquente,che cerca sicurezza celando lo stocco micidiale fra le to-nache e le cocolle. Ma lo ridesteremo noi da codesto pi-gro sonno... oh, lo ridesteremo!

— E qui (soggiungeva il Ponzone) troverete amicisuoi, da potervi dare indirizzo e ajuto.

— Vi saranno, m’immagino, suo fratello Zurione,Maffino da Besozzo, quel della Pietrasanta...» domanda-va Ramengo. E gli rispondevano: — Sì, ma chi ne mo-stra più amore e devozione è lo scudiere Alpinolo.

— Alpinolo?...» ripetè colui, sentendosi dai capellialle piante rimescolare. — Alpinolo? dov’è? ch’io lo

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veda tosto, ho estrema necessità di parlargli per cosa chemolto dappresso lo tocca. Dov’è? dov’è?

— Che furia!» saltava su quel mezzo prudente da Lo-carno. — Finiamo di bere, e poi venite con noi. Laggiùve li faremo trovar tutti. Che festa per loro a rivedervi!...

— Ma io voglio parlare con Alpinolo dapprima... conlui testa testa. Le cose so come vanno trattate»; e mentreegli era dominato dall’ansietà di trovare un figlio, e dal-la speranza che, scoprendosegli padre, ne avrebbe e per-dono ed amore, essi continuavano a bere, a discorrere, aragionare, massimamente di Alpinolo.

— È un demonio colui quando si tratta di mettersi adun’avventura.

— E per un proponimento non ha il pari. Ti ricordi,Ponzone, i primi giorni? Noi lo credevamo muto: nèparlava nè faceva segno. Che è, che non è, aveva fattoproposito di non proferire sillaba per sei mesi.

— E così giovane! (soggiungeva il Muralto.) Chegran soldato vuol riuscire!

— Ed ai nostri giorni (replicava il Lambertengo) sen’è visto dei soldati, con nient’altro che la propria spa-da, fare slanci, e toccare i primi gradi. Costui lo vedogià a un gran posto.

— Di chi dicono? (s’inframmetteva Acquevino) Diquel garzonotto con quegli occhi senza secondi? E comese lo conosco! Caspita! gli è di buon gusto e vien a berequi tal volta un par di gotti, e non mesce a miseria; edice che vini come i toscani, è inutile, non se ne trovanoal mondo nè in maremma. L’altro dì era con alcuni; e

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dagliene un sorso, dagliene un secondo, erano brilli; evenuti a parole, uno gli disse: — Taci là, tu che non hainemmeno padre. — Non avea finito, che Alpinolo, sen-za dire, guarda che ti do, stampandogli le cinque... vollidire le quattro dita della sua mano sulla guancia, gli but-tò tre denti in gola».

Che suono facessero ad un padre, ad un tal padre, sif-fatte parole, immaginatelo. Sapeva d’esser vicino al fi-glio, e quel figlio lo sentiva lodato: lodato per quell’uni-ca virtù ch’egli valutava: l’unica che, in tempi di quellasorta, potesse aprirgli facile varco alla glòria e alla po-tenza. Che lusinghe per la vanità di Ramengo! comestruggevasi di vederlo, di abbracciarlo! Come si compo-neva in bocca le parole per calmare la prima furia! Di-menticava perfino di avere scoperto il nascondiglio delPusterla, dimenticava Luchino ed i premj sperati e legiurate vendette. Quindi, col cuore palpitante, al modoche gli aveva palpitato nelle notti che stette appostandoil drudo della Rosalia, calossi verso Pisa in mezzo aquei buoni Lombardi, i quali, intrecciati braccia conbraccia, intonavano le canzoni della patria loro, — can-zoni che per l’esule finiscono sempre in un sospiro!

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CAPITOLO XV.PADRE E FIGLIO.

Entrando nella città, ritrovarono tesi da parete a pare-te drappelloni bianchi e vermigli, e filze di verzura se-condo la stagione, che ivi chiamano le fiorite; dai balco-ni e sui muri sfoggiavansi ricchi tappeti e arazzi portatidi Levante, e stoffe di seta, che alle Corti dei re pareva-no ancora un lusso esorbitante, e qui abbondavano inmano di quegli attivi negoziatori. In alcun luogo zampil-lavano fontane di vino, tra un’ingorda ciurmaglia intentaa riceverlo nelle aperte bocche, od attingerne col cavodella mano; in altri apparivano credenze e buffetti cari-chi d’ogni rarità venute dal Mar Nero, dal Golfo Arabi-co, dal Baltico, e serbate in memoria delle ardite e felicinavigazioni. Brigate di giovani pisani, con a capo i loropiù valenti e denarosi signori, tutti divisati ad un modo,con vesti di colori appariscenti, e briose cavalcature,movevano incontro ai vegnenti e salutavano i nostriLombardi, i quali rispondevano: — Addio, BenedettoLanfranchi! — Bel puledro, Nieri! — Passerino si di-scerne sempre alle più ricche divise! — Viva BanduccioBuonconti! — e stavano ad osservarli, mentre, dietro agonfaloni con varie imprese e con motti bizzarri e inge-gnosi, a suon di nacchere, di tamburi, di zuffoletti, si ti-

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ravano appresso la turba. Meno pompose venivano poi,dirigendosi al tempio od al ponte, le arti e le maestranze,guidate dai loro abati, tutti vestiti a una taglia, e tutti conun tal abbandono d’allegria, che Ramengo non potè dimeno di riflettere quanto a Luchino avrebbe dato gustol’avere un popolo così festivo, e quindi così facile a go-vernare e raggirare.

Udiva intanto un gridio, un trescamento di merciajuo-li, che, colla bottega ad armacollo, gridavano, a’ bei vez-zi, a’ bei nastri, agli abitini, alle crocette; di montanariche, al suono di ribecchini e tamburelli, facevano ballarei cagnuoli e le marmotte; di Lucchesi che esibivano san-tini di gesso, santa Zita, loro patrona, e santa Verdianada Firenze, che dava a pascere ai serpenti. Altrove si fa-ceva cerchio attorno al cerretano dai rimedj e dai segre-ti, od al cantastorie il quale mostrava sur un cartellone,il disastroso allagamento di Firenze dell’anno 33, —quando, (diceva esso) quest’Arno che vedete tanto quie-to, straripò sulla città, portando via bestiame, case, pala-gi e migliaja di persone, che pareva il finimondo. Perchènon s’è portata via del tutto quella città, che Pisa ne sa-rebbe più grande e più gloriosa?»

Così il cantafavole; e il popolaccio, con villano pa-triottismo, ne secondava l’imprecazione, gridando: —Mora Firenze! e viva Pisa!» nè volevasi ricordare che ilciurmadore istesso, poco prima o poco dopo, avrebbe inFirenze augurato col rabbioso Ghibellino che la Caprajae la Gorgona chiudessero la foce dell’Arno, sicchè inPisa annegasse ogni persona.

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La genìa dei cerretani, e col nome proprio e con altripiù onorevoli, non s’è ancora estirpata, come ognunvede; bensì è finita un’altra, che avea gran corso allora.Persone non d’ingegno, ma di memoria e di fronte ve-triata, ricorrevano a quei che sapessero far versi; e partea prezzo, parte per misericordia, parte per importunità,ne impetravano alcune composizioni, italiane o proven-zali, che poi, con grande enfasi e gesti smaniosi, recita-vano su per le fiere e nelle sale. Il Petrarca23 ci ha lascia-to memoria di molti fra costoro, che gli vennero innanzipoveri in canna, od ottenuti da lui alcuni sonetti, li rivi-de, pochi anni dopo, ben in arnese, ben in carne e ben alsoldo, mercè le largizioni degli ammiratori.

Il poeta era dunque miglior mestiere che non oggidì,quando di simil arte più non avanzò se non qualche im-provvisatore, da assettar piuttosto nella riga di quelli de-scritti innanzi.

Ramengo, infatti, ne intese di molti, i quali, in abitibizzarri, accompagnandosi colla ghironda e la mandòla,gridavano stanze e sonetti appunto del Petrarca, di Cinda Pistoja, di Guido Cavalcanti, o leggende in cui si ri-cordavano le antiche vittorie dei Pisani sopra i Saracinidi Sardegna, le imprese loro alle Crociate, il valore dellaCinzica de’ Sismondi, le cortesi prodezze di Uguccionedella Fagiuola; senza dimenticare il conte Ugolino, sullacui fine versavan tanto obbrobrio, quanta dispettosacompassione v’avea profuso l’Alighieri.

23 Senitium Lib. V, ep. 3.

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Fra il latrato, la gioja, la curiosità del popolo, che nonsi ricordava come la peste già irrompesse da ogni bandanel paese; che non si sovveniva di aver avuto fame jeri,e che l’avrebbe domani ancora, spingevansi i nostriLombardi verso i varj posti dove sperassero scontrareAlpinolo, e li seguiva Ramengo, al quale il cappuccio agote dava il modo di celarsi, quando mai imbattesse per-sona che gli convenisse evitare. L’ansietà che dovevastringergli il cuore, non tolse ch’e’ restasse compreso dimaraviglia nel veder quella stupenda piazza, ove nelmezzo sorge la maestosa cattedrale; davanti, il battisterorotondo di San Giovanni, e la torre inclinata, tutta a co-lonne; da lato, il Camposanto: storia compita e parlantedelle arti belle in Italia. Byron, anche ai nostri giorni,chiamava quella piazza un sogno orientale; qual dovevaapparire colla mobile decorazione di una folla stermina-ta e vivace?

Fra la quale videro guizzare un Milanese, a cui, dan-do la voce, il Muralto addomandò: — Ehi, OttorinoBorro, perdio tanta premura? Sapresti dirci ove stia Al-pinolo?

— Sta in prima fila per combattere al Ponte; là sonotutti i nostri camerata. Corro a raggiungerli»; e si perdet-te tra la calca.

— Ma come gli entrò il ticchio (esclamava (Ramen-go) di mettersi a questo inutile sbaraglio? Combattere infrotta colle pertiche come un villano?

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— Andate a dirlo a lui (gli rispondevano). È così fat-to. Quando sia da porsi in prova il coraggio, il volerlodistogliere è un buttare il fiato».

Mentre queste parole erano fra di essi, la campana delComune toccò. — È il segno! è il segno!» gridarono inostri, e accorsero, ed a spintoni si fecero strada. Ma diarrivare fin presso al combattimento non era speranza;onde, ficcatisi sotto un portico, sostenuto da una colon-na di porfido egiziano e da una greca scanalata, un po’colle buone e un po’ colle brusche salirono sovra certeare, qui portate dall’Attica, e poterono dominare quellafolla di teste, parte nude, parte coperte colle più variefoggie del mondo, dal vistoso turbante del Levantino alpositivo berretto del Veneziano; dalle ondeggianti piumedel cavaliere provenzale, all’abborrita reticella gialla deipoveri Ebrei; dal tòcco di velluto ad oro dei baroni na-poletani, al cappuccio arrovesciato dei Milanesi, che sierano posti fra i primi per testimonj alle prodezze delloro compagno.

Allora, a suon di tromba, comparvero il gonfalonieree gli anziani sotto un pergolo adornato a guisa di un pa-diglione turco; la turba spettatrice più sempre si accalca-va, mentre i disposti al combattere fremevano impazien-ti attorno alle sbarre dei due capi del Ponte, come fremeun torrente attorno alla chiusa. Poi, quando ad un nuovosegnale caddero le sbarre, fra uno schiamazzo universa-le, tutti con tutti andarono ad affrontarsi, e per quantoRamengo guardasse, non gli apparve nella prima mez-z’ora che una procellosa mescolanza di gente che assali-

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va, di gente che respingeva, che si raffagotava; noderosirandelli a furia picchiavano su quelle povere teste, suquelle povere spalle; e gli urli di chi batteva, gli strilli dichi era battuto, mescolavansi alle acclamazioni di: —Viva Santa Maria! viva Sant’Antonio!»

Cresceva furore ed interesse alla scaramuccia l’esser-visi, come soleva, interessate le fazioni e i politici punti-gli; e le due parti dei Raspanti e dei Bergolini, che neiconsigli e nelle frequenti baruffe per le strade divideva-no Pisa, qui avevano tolto la prima a favorire Santa Ma-ria, l’altra Sant’Antonio; onde il grido di guerra, le ban-diere, gli applausi, gli insulti infervoravano la rabbia, ilbaccano, fieri quanto si possa immaginare.

Poi a poco a poco divenuta meno stivata la mischiapei morti, i feriti, gl’intronati, gli stanchi, già si potevadiscernere da qual parte la fortuna piegasse; intanto sivedevan ora deporre dalle barche, intirizziti e guazzosi,quelli raccolti dal fiume, ora i mal capitati strascinarsida sè, od esser portati a braccia fuori della zuffa, pre-mendosi le mani sulle membra fiaccate, sulle tempiasanguinanti, protestando al cielo e alla terra di non av-venturarsi mai più in quegli stolti badalucchi; — maquelli che guarivano, credete a me che vi saranno torna-ti.

Però, dinanzi a quelli della parte di Santa Maria e deiRaspanti, si vide ben tosto sopra gli altri distinguersiuno per disperata robustezza di colpi, pel cerchio chelargamente si faceva, per la rovina che menavasi davan-ti. Ramengo, alle fattezze e al grido dei compatriotti,

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non tardò a riconoscere Alpinolo, nè più da esso dispic-cò gli occhi, ora inquieto del vederlo in pericolo, orapieno di compiacenza e meraviglia a tanto vigore, e mo-strando agli altri Lombardi quei colpi, che veramenteparevano più che da uomo.

I Bergolini e Sant’Antonio non poterono a lungo starealla prova di quella furia; e per sottrarre le teste voltaro-no il dosso. Allora quelli che, come dietro a un torrione,s’erano tenuti a riparo alle spalle di Alpinolo, con un co-raggio da non dire si precipitarono addosso ai fuggenti,per aver la gloria, men bella forse, ma più sicura, di bat-terne i terghi, urlando a tutta gola: — Viva Santa Maria!— Viva i Raspanti! — Vergogna ai Bergolini! — Viva iGambacurti! — Viva gli Aliati! — Abbasso Dino dellaRôcca», questi eran i nomi dei capi delle due fazioni.Alpinolo cessò le picchiate quando cessò la resistenza,ed appoggiatosi al riposato targone, osservava, immotocome uno scoglio fra le ondate, il facile coraggio dellavittoria.

Ad un cenno del gonfaloniere, fu di nuovo abbassatala sbarra; trombe e chiarine diedero dentro a giubilo:Santa Maria scampanava a distesa, e i Milanesi, fattosilargo, accostaronsi ad Alpinolo, e tripudianti abbrac-ciandolo, se lo tolsero sopra le braccia per recarlo a rice-vere la corona dalla Signoria, e gridavano: — Viva Alpi-nolo! — Viva Milano! — Viva Sant’Ambrogio!» E poi-chè la folla di rado grida un viva senza aggiungere unmora, è probabile, quantunque la storia nol dica, che

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gridassero: — Morte al Visconte! — Morte ai traditoridella patria».

Il lampo di gioja che quel trionfo faceva brillar sulviso di Alpinolo, mescevasi in modo indefinibile collacupa costernazione che vi avevano improntata i casipassati, e coi segni d’un dolore profondo e celato che lostraziava. Quando Aurigino Muralto, riuscito ad acco-starsegli, — Sta su allegro (gli gridò). Buone nuove: èarrivato un Milanese.

— Un Milanese?... e chi?— Un tuo conoscente: Lanterio da Bescapè; occhio

dritto del Pusterla; e t’ha a dire cose di gran rilievo, maa te solo.

Un tumulto di idee scosse in quel punto la mente diAlpinolo; e Francesco, la Margherita, fra Buonvicino,gli Aliprandi, gli amici tutti lasciati a Milano se gli para-rono innanzi, colla speranza forse di vederne alcuno,d’averne forse un messo, certo notizie; onde, coll’impa-zienza più viva, senz’altro aspettare i premj nè la coro-na, sviluppatosi dalle braccia dei compatriotti, si difila-va verso là dove gli avevano detto che troverebbe que-st’amico, sotto al portico dei Marmi, con una premuratale, che guaj ai petti, alle braccia di coloro che gl’impe-divano il passo. — Eccolo! vello!» dissero i Lombardi,mostrando l’avveniticcio ad Alpinolo, che, fissandolo, sitrovò a fronte Ramengo.

Invano avea questi voluto sottrarsi all’incontro, edavere Alpinolo da sè a sè; invano ora accennava al gar-zone che tacesse, venisse, dovea parlargli. Un padre che

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abbia scorto un aspide attorcigliato al collo dell’unicosuo figliuolo, non fa gli occhi così spaventati come Al-pinolo allorchè i suoi scontrarono l’esecrata faccia deltraditore.

— Ramengo!» urlò con voce somigliante ai mugghidi toro ferito a morte; e non badando agli atti che questogli faceva, agguantar di nuovo il randello, sua armatrionfale, e scaraventarsi alla volta di esso, gridando: —Infame spia!» fu un batter di palpebra. I Lombardi, nonsapendo spiegare quell’ira, si ritraevano e il lasciavanofare, ma non istette ad aspettarlo Ramengo, che, vistoquel flagello, precipitossi dietro ai marmi, ivi accumula-ti, ed uscendo dall’opposta parte, si ficcò dove la calcaera più serrata, e gobbo gobbo tra quel brulicame cerca-va di sgattajolare. L’iracondo, con un diavolo per pelo,non lasciava però di seguirne le vestigia, ripetendo agran voce: — Spione! pur t’ho côlto! Largo! guardate lavita! lasciate ch’io l’accoppi! un colpo le pagherà tutte!»e per farsi piazza, batteva da destra, da sinistra su chiun-que pe’ suoi peccati gli cascasse fra i piedi.

Il vulgo pisano, non diverso dal vulgo degli altri luo-ghi e degli altri tempi, aveva già provato un poco di di-spetto (chi vuole, lo chiami nazionale) al veder che unostraniero avesse riportato l’onore di quel giorno; e,come suole, gliene volevano male i vincitori, non menoche i vinti. Ora poi nel veder quello stesso, se non basta-va mostrare di non curarsi del premio, accendersi in irasì rabbiosa, e senza conoscere il perchè di quella bussadisperata, non se ne davano pace:

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I più timidi levavano il volo, come colombi grulli,spaventati; i prudenti s’addomandavano: — Con chil’ha costui?» e facevano largo; ma quelli di spiriti piùvivi, quelli che ancora si sentivan la stizza d’altri colpitoccati dalla mano di lui, perdettero la pazienza, e co-minciarono a voltarsegli con un viso brusco, e romperela strada a lui ed ai concittadini suoi, che per amor dipatria, anche senza dimandarne la cagione gli davanospalla. — Per tutti i santi del calendario! (esclamava ilpopolaccio). E’ pare che costui abbia bevuto sangue didrago e pasciuto carne di cocodrillo».

— Vuoi finirla una volta, ambrosiano insatanassato?E qui tra Milanesi e Pisani cominciava quella batta-

glia di lingue, che suol precedere la battaglia di mani.— Fatevi da banda, anime di sambuco! Pisani, vitu-

pero delle genti!» gridavano i Lombardi guardando incagnesco.

— Andate via, Milanesi mangiafagiuoli», rispondeva-no i Pisani mostrando il pugno.

— Meglio fagiuoli che non le cee24 che se ne compra-no trentasei per un pel d’asino.

— Che state dunque qua, baggiani da dodici lacrazia? che mutate l’Arno nella cantarana di Sant’Am-brogio.

24 Così pronunciano per ceche; certi pesciattolini come anguilline bianche cheil vulgo mangia a Pisa. Per beffa, dicesi che i Pisani si segnano in nome di sanRanieri, der gioco der ponte, della luminara e delle cee.

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— Ci stiamo perchè possiamo. E però?... spendiamodei vostri? Covielli, che un solo Milanese vi ha volti infuga a diecimila?

— Odi parlare che par tedesco!— Odi che favellando par che sgargarizzino!— Sì — no»; le ingiurie eran più che le parole; dalle

parole si fu ai fatti: — Sono Guelfi, sono Ghibellini,sono Raspanti traditori»; una frastagliata di minacce, poipara, picchia, martella: una soda baruffa si impegnò,peggiore della prima e di maledetto senno, per calmar laquale ebbero a fare e dire assai, parte i soldati, parte iprudenti e i nobili e il gonfaloniere; più d’uno restòmorto sul campo, moltissimi ebbero di che ricordarseneper tutta la vita; ma come spesso nelle baruffe degli in-nocenti profittano i ribaldi, tra quel bolli bolli potè Ra-mengo pigliare il tratto innanzi, e tra il pigio della folla,andarsene a Dio ti rivegga.

Quando Alpinolo s’accorse che il più seguirlo era unperder tempo, non vi starò a descrivere che rumore me-nasse, quanto bestemmiasse quel che si bestemmiaquando altro non si sa o non si ardisce, cioè il destino,per averglielo mostro un tratto, poi tolto di nuovo: so-pratutto dava biasimo a quei Lombardi come impruden-ti, come sconsigliati, per avergli pôrto ascolto; e che bi-sognava arrestarlo, e che non s’ha a prestar fede al pri-mo avventuriero che capita... ma tra quel rimproveraresorgeva la voce della coscienza a dirgli: E tu?

Allora gli cadevano le parole di bocca e la baldanzadi cuore, nè più pensando a rimbrottare altrui, con sè

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solo la prendeva, tornava a maledire sè stesso, e il dì chenacque, e chi lo generò, e la fantasia entratagli di met-tersi a combattere; la quale se non fosse stata, avrebbeincontrato Ramengo, avrebbe fatto le vendette di sè, diFranciscolo, di quell’angelo di Margherita, della patria,per sua cagione perduta, dell’umanità da lui disonorata.

Io auguro che i lettori miei trovino, quantunque intempi più fieri e meno maliziosi, essere strano che di-verse persone dessero nel calappio, teso dal ribaldo.L’auguro per il loro meglio, giacchè questo proverebbeche essi non hanno, ai loro giorni, avuto incontri con si-mile fiore di scellerati, nè conoscono per prova conquanta sottigliezza sappiano essi insinuarsi negli animi,colorire l’impostura, ammantare di generosità l’infamia,di amicizia il tradimento, e col mutare voci e costumi,placidi coi quieti, iracondi cogli stizzosi, bugiardi contutti, acquistarsi fede d’ogni parte. L’auguro anche inquanto sarebbe indizio che non hanno mai provato i duripassi dell’esilio, nè quindi indovinano, quanta consola-zione rechi, a chi va profugo dalla patria, lo scontrarsi inaltri, di sorte e di pensieri conformi; quanto facile sorri-da la speranza di potere, con un modo o coll’altro, spes-so coi più disastrosi, ricuperare la terra nativa. A chi ditali cose avesse esperienza, pur troppo non saprebbe distravagante e di improbabile la confidenza che, al primoincontro, posero in Ramengo quei garzoni, e che in luicollocherà un altro nostro amico25.

25 È ad avvertirsi che tutto ciò era stampato dieci anni prima che un identi-co fatto si avverasse a Parigi col Partesotti: il quale fingendosi esule e liberale,

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Perocchè Ramengo, appena si trovò campato dal peri-colo di cadere ammazzato dal proprio figliuolo, comin-cio fra sè a rammaricarsi e indispettirsi. E abituato comera ad imputare sempre altrui le conseguenze dei suoiproprj delitti, ed a cercare nell’ira rimedio ai rimorsi,anche per questo accidente voleva sempre maggior maleal Pusterla. — Perchè egli m’ingannò col mostrarseneamoroso, uccisi la mia donna. Un figlio almeno mi re-stava di lei, un figlio che poteva formare la mia compia-cenza, rendermi invidiato da quelli che ora mi disprez-zano, ed ecco fra noi cacciarsi di nuovo quest’infame, eper le pazze sue fantasie, padre e figlio rimangono divi-si, inimicati. Ma no; mai non desisterò finchè io non rie-sca a riconciliarmi col figliuol mio. Torrò di mezzo co-stui che l’affascina, allora ci ravvicineremo io ed Alpi-nolo; ricomparirò con esso nella società a Milano, allaCorte. Quando io sarò salito in grandissimo stato, oh chimi cercherà di qual passo io vi sia giunto? Ma tu, tu ma-ledetto... tu che sei cagione di staccarlo da me, ora sodove ti annidi; e non sia mai uomo se non te ne fo scon-tare la pena col sangue. Allora solo le poste saranno pa-reggiate».

E scrisse a Luchino Visconti la lettera che abbiamotrovata in mano del segretario, il giorno del colloquio dilui colla Margherita, nella quale gli chiedeva l’impunità

tramò coi fuoriusciti italiani, e i loro disegni comunicava alla Polizia di Mila-no: ordì di trarre uno dei capi nello mani di questa, imbarcandolo per una spe-dizione contro il regno dì Napoli. Morendo, fu onorato di generose esequie:poi nelle sue carte si trovarono le copie dell’infame carteggio.

GLI EDITORI.

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per suo figlio, ed accennava in nube d’essere sul puntodi partire per raggiunger il Pusterla. Di giorno più nonosò mostrarsi per le vie di Pisa; non tornò all’albergopresso Acquevino, il quale teneva infamata la sua betto-la per aver dato ricovero ad un cotale, e ripeteva che diquella genia non ne fu mai stampa, nè mai ne sarà in To-scana. Un bucuccio segnato con una frasca, e dove perpochi soldi dormivano facchini, marinaj e male donnealla loro posta, diede ricovero a Ramengo nei giorni se-guenti, ma abbondando di denari e di scaltrimenti, nontardò ad accontarsi con un capitano di marina, il quale,col primo buon vento dovea mettere alla vela per Anti-bo, e con esso, di fatti, tra pochi giorni abbandonò sanoe salvo l’Italia.

Alpinolo, che nè dì nè notte si dava pace per trovarlo,e in tutte le vicinanze lo appostava, e spiava ogni angolopiù riposto, ogni concorso più affollato, ebbe un bell’a-spettarlo; nè più lo doveva incontrare se non — vedretein qual orribile luogo!

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CAPITOLO XVI.L’ESULE.

Sull’ardua montagna, d’un ultimo sguardoMi volgo a fissarti, bel piano lombardo;Un bacio, un saluto, ti drizzo un sospir.Nel perderti, oh quanto mi sembran più vaghiL’opimo sorriso dei colli, dei laghi,Lo smalto dei prati, del ciel lo zaffir!

Negli agili sogni degli anni felici,Ai baldi colloqui d’intrepidi amici,Nel gaudio sicuro, fra i baci d’amor,Natale mia terra, mi stavi in pensiero:Con teco, o diletta d’amore sincero,La speme ho diviso, diviso il timor.

Tra cuori conformi, nell’umil tuo senoIn calma operosa trascorrer sereno,Fu il voto che al cielo volgeva ogni dì;Poi, senza procelle sorgendo nel porto.Del pianto dei buoni dormir col confortoNel suol che i tranquilli miei padri coprì.

Ahi! l’ira disperse l’ingenua preghiera;Rigor non mertato di mano severa

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Per bieco mi spinge ramingo sentier.O amici, piangenti sull’ultimo addio,O piagge irrigate dal fiume natio,O speme blandita con lunghi pensier,

Addio! — La favella sonar più non sentoChe a me fanciulletto quetava il lamento,Che liete promesse d’amor mi giurò.Ignoto trascorro fra ignoti sembianti;Invan cerco al tempio quei memori canti,Quel rito che al core la calma tornò.

Al raggio infingardo di torbidi cieli,All’afa sudante, fra gl’ispidi geli,Nell’ebro tumulto di dense città,Il rezzo fragrante d’eterni laureti,Gli aprili danzati sui patrj vigneti;La gioja d’autunno nel cor mi verrà.

Intento al dechino dei fiumi non miei,Coll’eco ragiono de’ giusti, de’ rei,Del vero scontato con lungo martir.Il Sol mi rammenta gli agresti tripudj;L’aurora, il silenzio dei vigili studj;La luna, gli arcani del primo sospir.

Concordia ho veduto d’amici fidenti?Tranquilla una donna tra tigli contenti?Soave donzella beata d’amor?Te, madre, membrando, gli amici, i fratelli,Te, dolce compagna dei giorni più belli,

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Che acerbe memorie s’affollano al cor!

Qual pianta in uggioso terreno intristita,Si strugge in cordoglio dell’esul la vita;Gli sdegni codardi cessate, egli muor,Se i lumi dischiude nell’ultimo giorno,L’amor dei congiunti non vedesi intorno,Estrania pietade gli terge il sudor.

Al Sol che s’invola drizzò la pupilla;Non è il Sol d’Italia che in fronte gli brilla,Che un fior sul compianto suo fral nutrirà.Spirando anzi tempo sull’ospite letto,Gli amici, la patria, che troppo ha diletto,L’estrema parola dell’esul sarà.

Così, non è molto, lamentavasi taluno, nel punto diabbandonare l’Italia; eppure la condizione dell’esulequanto non è oggi senza confronto migliore di allor-quando la subiva il Pusterla! Agevolezza di comunica-zioni hanno oggi, sto per dire, tolte di mezzo le distanzee le barriere fra popolo e popolo; posta di lettere, gior-nali, commercio, viaggi, fecero comuni a uno le usanze,le idee di tutti; una gente conosce l’altra, una all’altrasomiglia per vestire, per costumi: — sei fuori, ma fre-quente incontri tuoi concittadini, ma ogni tratto te negiungono ragguagli; calchi una terra forestiera, ma lesimpatie di nazione, di opinioni, di ingegno, di speranzevengono a mitigarti la durezza dell’esilio, ti fanno trova-re nuovi amici, udire in diversa lingua l’espressione dei

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tuoi medesimi sentimenti, la fratellevole compassioneper le tue sventure. Allora, al contrario, da paese a pae-se, per quanto vicino e confinante, correva maggior dif-ferenza, che non oggi dall’America all’Europa; poco siconoscevano le lingue; uno Stato ignorava quel che suc-cedesse nel suo limitrofo; e corrieri a posta ci volevanoper trasportare lettere o notizie.

Quanto aveva dunque a dolere a Francesco il dipartir-si dalla terra natale! e dipartirsene, non colla pace dellarassegnazione, nè tampoco col magnanimo dispetto deiforti, costretti a cedere alla prepotenza degli eventi; mada una parte cruciato da irrequieto desiderio di operare,dall’altra sollecito di quel che di lui direbbe la patria, di-rebbero i conoscenti, direbbe la posterità; avvegnachènon aveva egli concepito per gli uomini quella dose didisprezzo, che si richiede in chi voglia giovarli davvero,senza nè curarne i torti giudizj e maligni, nè temernel’ingratitudine.

Quando frà Buonvicino accomiatò il Pusterla, lo com-mise alla fedeltà di Pedrocco da Gallarate, capo di unadi quelle specie di carovane che, due o tre volte l’anno,facevano il viaggio di Francia per portarvi le derrate diLevante e i panni nostrali; raccattarvi lino, canapa, lana,e trasmettere il denaro in natura, come erasi costretti afare prima che fossero praticati i giri di cambio.

Avea Pedrocco la persona come un facchino: facciaabbronzata dall’avvicendarsi dei soli e dei geli, mani ro-buste e callose da scusare il martello e le tanaglie; unacasacca, stretta alla vita da una larga cintura di cuojo

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nero, ricamata a punti rossi, gli teneva pronto un palo-scio, mentre il cappuccio tirato sugli occhi gli dava unafierezza di fisonomia, da far credere che per ogni pocolo caccierebbe a mano. Eppure a praticarlo era il migliorcuore del mondo: indole giuliva e tranquilla che nonavrebbe fatto male ad una mosca; e col girare perpetuoaveva acquistato quella franchezza di trattare, quellaestensione di veduta, quella spontaneità di riflessioni,che appena un lungo studio può dare a chi non uscì maidal tetto paterno. Distinguiamolo bene dai cavallarid’oggidì, poichè in fatto egli era il capitano di una ban-da di mulattieri, uno spedizioniere ambulante. Da tuttele parti riceveva commissioni per vendere e comprare,per riscuotere somme e versarne, per avviare specula-zioni; onde dovea goder reputazione di destro e di ga-lantuomo. Ma per massima tramandatagli dal padre edall’avo, adempiva le incombenze affidategli senza cer-care più addentro; onde al modo stesso avrebbe portatoun’indulgenza plenaria ed una sentenza di morte; unacassa di reliquie ed il prezzo dell’infamia e del tradi-mento.

Aveva ora caricato il suo convoglio di panni, uscitidalle fabbriche degli Umiliati di Brera e della Cavedradi Varese, per recarli a Lovanio, a Sedan, agli altri luo-ghi, donde ora ci arrivano se possono e quando possono;e come Buonvicino gli ebbe raccomandato di condurrequesto amicissimo suo e di tacere, si pose la mano alcuore, esclamando: — Padre, farò ogni mio possibile»;e con fedeltà anche maggiore del solito assunse questo

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incarico, per la grande stima in che vedeva tenersiBuonvicino.

— La si confidi a me (diceva Pedrocco al Pusterla),io la servirò di cappa e di coltello. Anche cotesto picco-lino vuoi menare in Francia? Ei comincia presto. Ma an-ch’io, alla sua età, passeggiavo già le montagne, e dopod’allora ho girato tutta la vita come un arcolajo. E contavossignoria piantare negozj in Francia?»

Il Pusterla rispondeva di no, e lasciava comprenderecome fuggisse la tirannia del suo paese. Pedrocco l’in-terrompeva: — Di queste cose io non me ne intendo: main Francia la si troverà da papa. E il papa stesso non la-sciò la sua Roma per la Francia altrui?»

Con una fila di muli si avviarono dunque per la Val-gana, indi per Marchirolo a Pontetresa, confine alloradel contado rurale del Seprio, e varcata la Tresa, costeg-giarono la rupe Cislana verso Luino, finchè voltarononella Val Travaglia. Ma quando erano più inviluppati traquelle gole, ecco sbucava loro addosso una masnada diarmati, che in sulle prime fecero paventare Francescoper la vita propria e del figliuolo; sicchè, raccolti i mu-lattieri, preparavasi a venderla cara. Presto però si ac-corsero come quelli non attentavano alla vita: andasseropur dove volevano, purchè lasciassero quivi le robe, opagassero una enorme taglia: giacchè provenivano daMilano, e coloro appunto eran nemici del signore di Mi-lano.

Pedrocco protestava che, nemici o no, egli di cose po-litiche non se n’intendeva: ch’era roba dei frati, e che

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l’avrebbero a fare con tutti gli Umiliati di Lombardia, ecol papa che li proteggeva. Ma quei masnadieri poco te-nevano conto delle minaccie: e davano già mano a spo-gliarli, se non che il Pusterla intese come fossero uominid’Aurigino Muralto da Locarno. Era questi, se vi ricor-da, uno dei fidati del Pusterla, intervenuto all’adunanzadella sera fatale; e cercato a morte dal Visconte, invecedi fuggire cogli altri, erasi ridotto fra i patrj monti ed aLocarno, ond’era signore, e quivi intesosi coi Rusconi,dominatori di Bellinzona, aveva alzato bandiera controLuchino.

Quel nome, quell’annunzio bastò per dissipare dall’a-nimo del Pusterla tutti i proponimenti di quiete, di fuga,di nascondiglio. — Aurigino? (diceva agli uomini dimasnada), grand’amico mio: guaj a colui che toccheràun filo di questa roba! Siamo del partito istesso: vengo afar causa con lui».

E ottenne di fatto che quei masnadieri, i quali aveva-no una specie di buona fede al modo loro, e di dirittodelle genti al modo dei moderni Beduini, lasciasseroquelle robe in deposito: mentre Pedrocco, che ripetevanon intendersi nulla nè di partiti nè di causa comune,tornava a Varese per impegnare gli Umiliati a riscattarele mercanzie. Il Pusterla si imbarcò sul Lago Maggiore,ed oh come il piccolo Venturino pareva deliziarsi al ve-dere tanta bellezza di cielo, di acqua, di rive, un pelagocircondato da scabre montagne o da spiagge ammantateda lussureggiante vegetazione! Vi restava un tratto col-l’occhio incantato, poi volgendosi al padre, — Oh se ci

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fosse mamma!» esclamava: e l’uno premeva il volto alvolto dell’altro, e sospiravano. Ma se il cuore e la mentedel fanciullo non si pascevano che di amore, ben altreidee occupavano il genitore; il quale già si figurava capodi un esercito di prodi e risoluti montanari, terribile alVisconte; e via di vittoria in vittoria scorreva col pensie-ro fino al momento di dettar patti a Luchino, e ricupera-re per forza di armi la patria e la consorte. Arrivando difatti a Locarno, vi fu ricevuto coll’entusiasmo onde sisuole un nemico d’un nostro nemico; feste, tripudj, emostrargli ogni apparecchio, ed esagerargli le forze, emenarne trionfo, quale forse gli Americani allorchè ilgiovane La Fayette andò a spargere per essi il nobilesangue francese. Ma Aurigino Muralto era in casa sua,era capo: per rinunziare al comando si vuole più virtù emeno impeto che non avesse il giovane ribelle. Cortesiedunque senza fine al Pusterla; dato libero l’andare alconvoglio di Pedrocco; ma quanto fosse ad autorità,nessuna ne concedeva al foruscito; al quale, il trovarsimeno che secondo in piccola terra sapeva d’agresto, as-sai più che non l’obbedire nella patria, in città grande,ad una grande famiglia. Alle brevi illusioni tenne dun-que dietro un prestissimo disinganno: e colla solita irre-quietudine, già si augurava in qualunque luogo primache in questo, ove gli amici stessi, diceva, l’abbandona-vano, il tradivano.

Che far dunque? Ripigliare il duro viaggio dell’esule,che va e va, nè sa dove riposi al fine dell’amara giorna-ta.

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Sopraggiunse intanto Pedrocco, che era corso ad av-visare gli Umiliati del sorpreso convoglio; e mentre rin-graziava Francesco di averglielo riscattato, gli dava let-tere di Buonvicino, ove, con tutto l’ardore dell’amicizia,lo supplicava a fuggire, a scostarsi più che poteva, a nonlasciarsi allucinare dalle troppo facili speranze dei foru-sciti: ricordasse che la vita della Margherita poteva di-pendere da un suo moto: pensasse al figliolino che ave-va seco, e che doveva conservare all’amore di quellasventurata; poi gli esponeva i preparativi che Luchinofaceva, e contro cui certamente non avrebbe potuto reg-gere un pugno di sollevati, comunque coraggiosi.

In effetto Luchino, indispettito della resistenza oppo-stagli da quelli di Locarno e di Bellinzona, e dei guastiche recavano alle sue terre con correrie e rappresaglieincessanti, temendo anche il contagio tanto sottile del-l’insubordinazione, volle con uno sforzo straordinariodomare la straordinaria opposizione. Dal Po, dal Ticino,da Pizzighettone, da Mantova, da Piacenza, raccolse nelTesinello navi da tal servigio, ben fornite in opera dibattaglia; fece fabbricare sei ganzerre, barche di grossis-sima portata, con cinquanta remi ed ampie vele e torri emacchine, montate ciascuna da cinque o seicento arma-ti. Capitanata da Giovanni Visconti da Oleggio, la flottavenne pel Lago Maggiore ad assaltare Locarno; mentreSfolcada Melik da terra guidava un grosso di mercenari,che sottoposero Bellinzona, e scesero di là contro i Mu-ralti, assalendoli così vigorosamente, che Locarno fuespugnato; i capi dovettero per le montagne fuggirsene;

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i primarj borghesi furono trasportati a Milano; e per te-nere quel posto in soggezione, fu fabbricato un robustocastello; sicchè i rimasti dovettero chinare il capo, rode-re il freno, e raccomandare ai loro figli pazienza e ven-detta.

Prima che questi avvenimenti si compissero, France-sco Pusterla, secondando in parte i consigli dell’amico ela prudenza, in parte il dispetto del vedersi posposto,erasi ritirato da Locarno, ove si fecero di lui tante beffe,quanti applausi dapprima: e in compagnia ancora di Pe-drocco valicava le Alpi per vie, segnate unicamente dal-lo scolo delle acque, e da qualche croce che additava ipassi ove altri viandanti erano caduti in precipizio. Fa-ceva uno strano spettacolo ai profughi nostri quella filadi muli, che, tenendosi sempre sull’orlo dei precipizi,s’arrampicavano tortuosamente, lenti e col capo basso,senza che per l’ampia solitudine altro si udisse che ilbattere dei loro zoccoli, il tintinnio delle loro sonagliere,e fioccare i giuraddii dei mulattieri. Nel centro della ca-rovana Francesco procedeva sopra un mulo più robusto,tenendosi in groppa il suo Venturino: e pedestre a cantodi lui camminava Pedrocco, accorrendo qua e là a dargli ordini opportuni come uomo esperto, poi tornandopur sempre a sollevare con parole la noja del signorelombardo.

— Oh di qui in Francia si va d’un salto. Io vi sarò tor-nato trenta volte alla larga. Paese d’ogni bene è quello: apetto suo, la Lombardia non vale la metà. — Come vi sistia a Governo? Mah! di queste cose io non me ne inten-

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do. — Le strade? Faccia conto siano tutte sull’andare diquesta che, come sa, l’ha fatta il diavolo. Abissi, preci-pizi, rovine e frane tra i monti; boschi, pantani alla pia-nura; ladri da per tutto. I muli però sanno ove tenere ipiedi, ed alle volte si compie il viaggio senza che uno sen’accoppi. E poi, che serve aver paura? Se si muore,buona notte: tanto una volta quella corbelleria la s’ha dafare. — Dice bene: il peggio sono i malandrini. Non havisto come l’abbiamo scappata bella con quelli laggiù?Nel mille trecento, e non mi ricordo quanti, tornavamoda Avignone con sessantamila fiorini d’oro che fumava-no. Mi getto via nel rammentare quel bel marsupio. Megli aveva fidati il santo padre da recare al cardinale delPoggetto, suo nipote o non so che altro, per pagare letruppe ch’egli assoldava onde tenere in senno certe fa-zioni, ed altre cose che io non me n’intendo. Il santo pa-dre, perchè gli stavano sul cuore, mi diede cencinquantacavalieri per convogliare i miei trenta muli: cavalieri, leso dir io, che ne tremava l’aria. Si va; si passa fiumi emonti senza incontro: quando insaccatici in una valledella Savoja, io comincio a notare certe faccie che nonpromettevano nulla di bene, ed avvedermi di un certoarmeggio. Pas peur, dissero quei cavalieri francesi: noimangiare Italiani in un boccone. Ma convien dire non sifossero ben raccomandati a san Cristoforo pel buonviaggio: poichè i Francesi hanno tutte le buone volontà,ma non la divozione. Mentre stavamo, come si fa, vo-tando non una bottiglia, ma una botte, eccoci addossouna banda, Dio sa di quanti. Ferma, dagli, piglia, lascia:

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quei Francesi parevano tanti Orlandi paladini. Ma biso-gna confessare che, per menar le braccia, gl’Italiani nonhanno pari al mondo. Insomma quella truppa, ch’eranodi Pavia, gettarono a terra i Francesi, e sollevatili dalpeso dei cavalli, li rimandarono ad Avignone a piedicome pellegrini; a me poi tolsero la metà giusta del de-naro e dei somieri, cosa che non era più accaduta dacchèi Pedrocchi vanno da Gallarate in Francia; e dovetti con-durre al cardinal legato quel che mi rimaneva».

Così Pedrocco dava risposta alle varie domande delPusterla, risposte meglio opportune a distrarlo che aconfortarlo. Ma più che al disagio ed al pericolo dellavia, accoravasi il Pusterla per l’abbandono della patria;e quando giunse sul ciglio del monte che separa le duefavelle, arrestossi, guardò di qua, di là, il cielo, la terra:pareva le ginocchia gli mancassero sotto, talchè Pedroc-co gli domandò se si sentisse male. Egli rispose sospi-rando: — Qui finisce l’Italia».

Anche questa era una delle tante cose che il buon ca-vallaro non intendeva, pure il confortava alla meglio,raccontandogli siccome anche in Francia vi fossero uo-mini simili a noi, e buone case, e monti, e fiumi, ed erbaalla primavera, e messi all’estate e all’autunno le deliziedella vendemmia; i Francesi amabili, dilettevoli, sociali,buoni e vattene là: Ma il Pusterla ripeteva: — Non è l’I-talia».

Ma una vera Italia (soggiungeva Pedrocco) ella potràritrovare in Avignone. Là cardinali, là servi, là camerie-ri, là poeti, là buffoni, tutto italiano».

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Il Pusterla voleva far capire all’altro i disconci chevenivano all’Italia dallo starne fuori i pontefici, e lesconvenienze della politica e della religione; ma Pedroc-co, protestando che di queste cose non s’intendeva, ma-gnificava le splendidezze dei prelati, e il continuo anda-re e venire di corrieri, di soldati, di ambasciatori, diroba, di denari, e i bei guadagni che egli ne cavava.

— E conoscete voi colà Guglielmo Pusterla?— Chi? l’arciprete di Monza? Se ve l’ho accompa-

gnato io stesso.— E come vi sta?— Sta benissimo: grasso, trionfale, ha salute da cam-

par cent’anni.— Lo so: ma dico se il papa lo favorisce; se saprà le

disgrazie della sua famiglia a Milano: se in Corte è ilben veduto.

— Mah! di queste cose io non me n’intendo».V’era però una materia, in cui Pedrocco s’intendeva

come Manzoni nel far versi, e che importava non pocoanche ai Pusterla. I Lombardi, nel tempo che si reggeva-no a comune, erano deditissimi al traffico, e frequenta-vano Francia, Olanda, Fiandra, Inghilterra, fin l’estremaRussia, dove aprivano case di commercio, e dove ancorase ne conserva memoria nel nome d’alcune strade equartieri. Lombardi anzi venivano colà per antonomasiachiamati i banchieri; perchè davano opera principalmen-te al cambio del denaro e agli imprestiti. Perduta coi go-verni a popolo l’energia della classe media, primo ele-mento delle speculazioni ardite, ormai quel traffico era

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passato nei Toscani: ma i più denarosi fra i Lombardinon s’erano ancora immaginato che il guadagnare colcommercio sporcasse la nobiltà, nè quindi avevano riti-rato dai negozianti i capitali, come fecero due secolidopo, quando l’albagia pitocca degli Spagnuoli diede,con questi pregiudizj, l’ultimo tuffo alla vivacità com-merciale del nostro paese, uccidendone la prosperitàmentre gli rapivano l’essere, il fare, il pensare.

I Pusterla, ricchissimi non meno di terreni che di ca-pitali, ne aveano investiti dei grossissimi sulle banchedei Lombardi, dei Lucchesi, dei Fiorentini a Parigi. Oravenivano a grand’uopo a Franciscolo per ristorarlo deibeni confiscatigli in patria, e apprestargli il modo di po-tere, sopra la terra straniera comparire, non solamentecol decoro conveniente alla grandezza di sua famiglia,ma col lusso ancora che la sua vanità desiderava, e chetrovavasi e si trova necessario per acquistare considera-zione fra gli sconosciuti, e non avere bisogno di quellacompassione, che tanto confina col disprezzo.

Da ciò avevano materia di ragionamenti i due vian-danti, ove Pedrocco era nella sua beva, e potè dare buonindirizzo all’innominato suo compagno. E questo neprofittava grandemente, non solo per ciò, ma anche per-chè la vita di quel trafficante, tutta attiva di corpo e pla-cidissima di spirito, dava tregua alle agitazioni di lui, glimostrava altre vie nella società, che dapprima egli nonaveva nè tampoco immaginate: gli faceva qualche voltainvidiare di trovarsi fuori delle politiche turbolenze, oalmeno di mutare la traditrice compagnia dei grandi, in

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quella meno appariscente e più sincera delle persone oc-cupate. Ma la forza dell’antica consuetudine rivaleva: enon appena si vide sul suolo di Francia, sicuro e conquanti denari bastavano per accattarsi amici, si congedòdalla compagnia di Pedrocco, senz’altro conservarne senon la ricordanza che si suole d’un buon galantuomo,incontrato su questa strada che tutti battiamo senza sa-pere dove ci conduca.

E prima Franciscolo trascorse i varj paesi della Fran-cia, cercando un poco di svago, e cogliendo i fiori, che,sul cammino d’un ricco, naturali o artefatti, spuntano daogni terra. Venne poi a Parigi, la città del fango (Lute-tia), che tuttavia giustificava quel nome colla sozzuradelle sue strade. Da ogni parte del mondo vi accorreva-no studenti all’Università, metodo tanto opportuno d’e-ducazione allorchè non v’era la stampa e scarseggiava-no i libri, quant’è ora disutile e pernicioso. Era cancel-liere di essa Università Roberto dei Bardi fiorentino, ilquale, facendo gli onori all’illustre arrivato, — L’Italia(dicevagli) primeggia pel diritto, Parigi per la teologia eper le arti liberali. A ragione il nostro Petrarca chiamòquesta città un paniere, ove si raccolgono le più belle erare frutta d’ogni paese: poichè vi convengono quelliche siano in qual vogliate facoltà eccellenti. Il nostrosommo Alighieri, nell’esiglio suo, qui studiò dai grandottori della Sorbona, e il dirò per vergogna dei tempi,lasciò di farsi addottorare solo perchè gli vennero menole spese. Qui avemmo anche Giovanni Boccaccio, ungiovane che farà onore alla patria, e che raccoglieva no-

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velle da Francesi e Provenzali, e le riduceva in vulgarnostro. Da Padova ci arrivarono dodici garzoni, che ilsignor Ubertino da Carrara qui mantiene a scuola di me-dicina. Vive poi, e vivrà sempre la memoria degli Italia-ni che qui lessero scienza: un Pier Lombardo novarese,maestro delle sentenze; un Egidio Romano, un Albertinoda Padova agostiniano, il francescano Alessandro daAlessandria, i due astrologi immortali Dionisio Robertida Borgo San Sepolcro e Pietro d’Abano padovano, equei che valgono per tutti, il dottore Serafico e l’Angeli-co».

Denotavansi con tali nomi, chi nol sapesse, Bonaven-tura da Bagnarea e Tommaso d’Aquino, gigante dellascienza dei secoli cattolici, la cui sintesi grandiosa danessun posteriore tentativo fu eguagliata.

— Ed ora (proseguiva il valoroso Fiorentino, prodigodi lodi come un segretario e di frasi come un accademi-co) ora piangiamo estinto Nicolao de Lira l’autore dellaPostilla Perpetua sopra tutta la Bibbia, e del Commento,opera di tanta lena, che a stento crederanno i posteri leabbia potute un uomo terminare. A questo augusto con-cilio di dotti, non altrimenti che a Bologna, ricorronoprelati e città e principi o per la decisione di casi di co-scienza, o compromettendo i loro litigi. Volete più? lostesso re d’Inghilterra Enrico II sottopose a noi le suedifferenze con Tommaso da Cantorbery. Le scienze sonoil rifugio nei mali, l’ha detto l’oratore d’Arpino. A que-ste volgete l’animo; qui fermate vostra stanza, e provatequel che ne cantò Giovanni da Salisbery:

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Felix exilium cui locus iste datur».

Il Pusterla trovava in fatto Parigi gajo, vivace, pienodi quel fecondo movimento, che infonde ad un paese ilfiore della gioventù radunata. Tanti v’erano gli studenti,che a fatica trovavano alloggi sulle piazze; li vedeva di-scorrere o disputare, seduti in circolo sopra la paglia:nella via degli scrivani aveano tutto quel che occorresseper lo scrivere: diecimila amanuensi attendevano conti-nuamente a copiare libri. Gli scolari la mattina badava-no alle lezioni, il dopo pranzo alle dispute, la sera alleripetizioni. Quest’era il lato bello; ma Francesco scoprìben presto le magagne che vi covavano; attorno ai ven-ditori di vino, che lo spacciavano per le vie, quei giova-ni commettevano disordini d’ogni maniera: usurieri edebrei traevano profitto dall’inesperta loro generosità:male donne li corrompevano, per cui cagione non passa-va giorno che non si facessero baruffe e sangue.

E poi la Francia non era il paese che potesse far di-menticare l’Italia a chi non vi avesse passioni od inte-ressi predominanti. Taciamo la diversità di cielo, la col-tivazione delle terre, trascurata a confronto della Lom-bardia, il sudiciume delle città, la miseria delle borgate,il disagio delle abitazioni: la Francia non erasi purgatadalle ferocie del medioevo passando, come i nostri pae-si, attraverso alla libertà municipale. I governi a comuneavevano tra noi fiaccato il potere feudale: e quei baroniche nelle rocche minacciose, ricinti da vassalli e da servidella gleba, facevansi unica legge il loro superbo e mi-

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naccioso talento, erano stati rintuzzati dai campagnuoli,dai mercanti, dai giureconsulti, da tutti i borghesi, e co-stretti a disarmare la loro prepotenza e farsi cittadini. Itirannetti, che usurparono dappoi il comando, non fece-ro che ajutare quest’opera; e, come vedemmo in Luchi-no, sebbene non per amore del popolo, ma pel propriovantaggio, vennero stringendo sempre più il freno aifeudatarj aumentando le franchigie del vulgo per farecontrasto a quelli; e dilatando viepiù i privilegi della po-polazione campestre, la quale, sotto le repubbliche, ave-va cominciato a mutarsi dalla condizione di schiavi inquella di coloni, e ricuperare l’umana dignità. In genera-le dunque la nobiltà d’Italia non era più che un patrona-to, onde il plebeo si affezionava e si legava col ricco.

Tutt’altrimenti in Francia: mille baroni erano altret-tanti piccoli re, il cui dominio viepiù pesava quanto inpiù angusto confine lo esercitavano. Non una moltiplici-tà di repubblichette, non una lega di queste gli avevaimbrigliati; e quantunque il re, il quale non era che ilprimo fra di essi, s’ingegnasse di opporre a loro le co-munità cui veniva rinvigorendo, era ben lontano da riu-scire a notevole risultamento; e il bel regno di Franciaconsisteva allora in un re impotente, pochi forti oppres-sori, la moltitudine oppressa.

Quindi prepotenze in ogni parte e di ogni genere:quindi miseria: quindi l’arbitrio al posto della giustizia edelle leggi. E Pedrocco, tutto che lodatore delle cose diFrancia quanto alcuni miei amici che non la conoscono,non poteva cessare i lamenti per gli spessi pedagi, per le

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generose mancie che doveva dare ai capi degli uominid’arme, per le menzogne onde doveva ricoprire la ric-chezza del suo convoglio. Poi additando varj castelli alsuo compagno di viaggio, — I vassalli di questo (dice-va) sono obbligati per turno a ripulire le stalle del padro-ne. — Questi altri non possono far testamento, senza la-sciare metà dei loro beni al feudatario. — Il vescovo eprincipe di Ginevra succede nell’eredità di chiunquemuore senza figli. — Vede là quei villani colle pertichein riva a que’ paludi? Sono obbligati a far la ronda, ac-ciocchè i ranocchi non disturbino il padrone mentre dor-me». Tacio le prelibazioni oscene; tacio quel che era co-mune, il contadino pareggiato nelle fatiche ai bovi chel’ajutavano: alla porta di ogni castello, insieme col te-schio di lupi e di cervi, e cogli avoltoj confitti sulle im-poste ferrate, spenzolava da una carrucola la corda dellatortura, in segno del diritto di sangue; e sulla spianataergevasi la forca, da cui a dozzine pendevano i giustizia-ti per le più lievi cagioni, per un capriccio, per una ven-detta.

Ben altro giudizio delle cose di Francia dovranno por-tare gli esuli d’oggidì: ma i lamenti che da loro intesi mifanno calcolare con quanto maggior ragione il Pusterladovesse dire allora, che, per amare assai la sua patria,conviene aver veduta l’altrui.

E poi Parigi aveva già fin d’allora il privilegio fune-sto delle grandi città, di poter uno vivervi, godere, spasi-mare, morire, senza che altri gli badi o se n’accorga. Ilche, se era il caso per un profugo bramoso di pace e d’o-

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scurità, non poteva per verun modo accomodare a Fran-cesco, sempre desideroso di primeggiare, sempre spintoall’azione, al movimento, e che colà andava confuso,inosservato, fra una turbo che veniva e tornava e cam-biavasi ogni dì; fra un numero infinito di pitocchi, chebeneficati non facevano se non divenire più importuni, echiedergli denaro coll’insistenza del ladro, fra la spen-sierata scolaresca, fra i segregati dottori, fra anime chenon potevano neppur comprendere i patimenti d’un esu-le italiano.

Ma una parte di Francia tutta italiana, siccome gliaveva detto Pedrocco, erano il contado Venesino, padro-neggiato dai papi, e la città d’Avignone appartenente aRoberto re di Napoli; nella quale Clemente V, il 1305,aveva trapiantato la sede pontificia, e per gridare e spe-rare che gli Italiani facessero, e per quanto sembrassestrano che i papi preferissero restare sudditi in Francia,anzichè sovrani a Roma, più non la tornarono sul Teverese non nel 1376.

Colà dunque si rivolse il Pusterla, e vi trovò una vita,un moto straordinario. Dimessa l’idea di trasferirsi inItalia, Benedetto XII faceva murare, per alloggiar comesi conviene al capo della cristianità, e tutti i cardinali er-gevano palazzi, splendidi d’ogni suntuosità, e non infe-riori alla Corte di verun principe d’allora. Artisti italianivi accorrevano ad abbellirli, altri a lusingare coi canti,colle piacenterie, colle novelle, cogli strologamenti: deiporporati ognuno v’avea condotto numerosa famiglia diservi e camerieri e scrivani; talchè poteva dirsi proprio

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una colonia d’Italia, con tanto maggiore verità, perchèquel clima meridionale fa ricordare le dolcezze del no-stro.

In un tempo quando il papa stava ancora disopra delleautorità temporali come depositario della celeste, vale adire della giustizia, vedevansi alla sua Corte ambascia-dori d’Ungheria, di Polonia, di Svezia, d’altri potentati,che rimettevano all’inerme sua decisione le loro politi-che differenze: cosa che deve recare grande scandalo alsecolo nostro, il quale vuol piuttosto vederle risolte col-le bajonette o rattoppate dai Castelreagh e dai Talley-rand coi protocolli...

I cittadini di Monza, agitati dentro dalle fazioni deiMagantelli e degli Stratoni, e minacciati fuori dalle armidei Visconti e Torriani, avevano (già ne abbiam toccatouna parola) nascosto il prezioso tesoro della loro basili-ca, che valeva ventiseimila fiorini, cioè un milione emezzo d’oggidì. Il nascondiglio non era conosciuto senon dal canonico Aichino da Vercelli; il quale, venuto incaso di morte, ne fece la confidenza a frate Aicardo arci-vescovo di Milano, e questo al cardinal legato Bertrandodel Poggetto, che lo fece cavar fuori e trasferire in Avi-gnone. Ora quietati i tempi, per ricuperarlo avevano iMonzesi mandato il loro arciprete Guglielmo Pusterla,insieme con lo storico Buonincontro Morigia. E sebbenequell’arciprete non fosse ancora potuto venire a capo dinulla, erasi però insinuato nella grazia dei papi, segui-tando tre regole di condotta, che a modo di proverbioegli ripeteva sovente; lasciar andare il mondo co’ suoi

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piedi, fare il dover suo piano e tranquillamente, e dirbene de’ superiori. Le aveva imparate in convento sin daquando era novizio, ed ora con queste meritò di esserescelto prelato di Corte, ed in appresso arcivescovo diMilano.

Di buon cuore com’era, fece egli una festa da nondire a suo nipote Francesco, il quale, col mezzo di lui,potè collocarsi bene, ottenere alla Corte rispetto ed amo-revolezze, e speranza di acquistare entratura col papa,nella cui assistenza ormai vedeva l’unica via di miglio-rare la condizione sua e della patria. Ma quest’ultimacorda non sonava bene allo zio arciprete, il quale era ilpiù nuovo uomo nei garbugli della politica.

— Caro nipote (egli diceva) tu eri ricco; tu stavi dapapa; tu invidiato da tutti; che importava a te che re-gnasse Pietro o Martino? Lascia cuocere i potenti nelloro brodo, e troverai maggior pace. Guelfi e Ghibellini,l’imperatore e il pontefice, la tirannide e la libertà, tutteidee astruse; è necessario che vi siano, come gli scanda-li: ma un galantuomo può arare dritto senza intrigarsi diqueste gerarchie. Credi a’ miei capelli grigi, expertocrede Ruperto: lupo non mangia carne di lupo: e i po-tenti se l’intendono quando si tratti di spalleggiarsi fraloro. L’imperatore par che l’abbia col santo padre: ma sevedesse un altro sul punto d’opprimere il santo padre,darebbe mano a questo per abbattere il primo. E tantomeno ti riuscirebbero cotesti intrighi ora che il papa è unuomo di pace e bonæ voluntatis. Giovanni XXII, nellecose del mondo e nelle questioni scolastiche (diciamolo,

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chè tanto e tanto è morto) si affaccendava troppo; morìlasciando diciotto milioni di fiorini in oro, e sette in va-sellami e gioje e con questo marsupio poteva fare piùche non Archimede colla sua leva: coelum terramquemovebo. Ma sono otto anni ch’egli è in paradiso; e ilpapa adesso è di tutt’altro umore. Per sapienza teologicanon è un’aquila: degl’intrugli di gabinetto se n’intendebuccicata: tanto meglio: e così non desidera che metteracqua là dove i suoi predecessori attizzarono il fuoco;ribenedire dove essi avevano scomunicato. Quando,contro ogni sua aspettazione si sentì chiamato papa, saiquel che disse ai cardinali? Cari fratelli, i vostri voti sisono accordati sopra un asino. Tant’è umile! E con luinon han nulla a sperare nipoti e parenti. Una sua carissi-ma nipote gli fu chiesta sposa da un gran barone, ed eglinon consentì, perchè non era da par suo, e la maritò adun negoziante. Di sposa, ella col suo consorte venne atrovarlo qui, e tutti dicevano, — Chi sa che regali!» In-dovina mo?... gli accolse bene, ma li rinviò senz’altroche rifarli delle spese di viaggio, e dare la sua santa be-nedizione. Vedrai la sua anticamera zeppa di abatini e dimonsignoroni che vengono a sollecitare benefizj: maegli preferisce di lasciarli vacanti, anzichè, com’esso siesprime, adornare di gioje il fango e l’argilla. Quandoegli solleva qualcuno a dignità, si può assicurare cheegli ha trovato del merito sodo».

E in così dire, lo zio arciprete rizzava il capo con unsentimento di decoro che non potevasi dire superbia.Franciscolo pensava: — Mio zio ha bel dire che non gli

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piove addosso»; e s’ingegnava di fargli capir quellach’ei chiamava ragione, ma il buon uomo lo interrompe-va: — Non hai tutti i torti; molto hai perduto; hai lascia-ta quella donna, che la pari non si trova al metodo. Matutto questo perchè? T’ho pur detto delle volte assai che,per camparla bene, bisogna facere munus suum taliterqualiter. Se mi avessi dato ascolto, non avresti volutoprimeggiare: bene vixit qui bene latuit. Ora l’esperienzati ammaestri. Stavi bene, volesti star meglio: vedifrutto? Almeno profitta di quel che ti avanzò per tirar in-nanzi alla meglio questi pochi anni di vita. Fugit irrepa-rabile tempus. Vuoi piaceri? vuoi spassi? vuoi pompe?qui non hai che a desiderare. Vuoi conoscenze di lettera-ti? vedi quanti poeti provenzali; vedi quel che tutti livale, il gran Petrarca. Vuoi discussioni fine e puntigliosedi teologia e di erudizione sterminata? ti farò conoscereil monaco calabrese Barlaamo, quel che insegnò il grecoal Boccaccio. Fu mandato qui da Andronico imperatoredi Costantinopoli per maneggiar la riconciliazione dellaChiesa greca colla latina. Quello è un uomo! L’avessiinteso jeri a otto disputare contro gli onfalopsichi! Que-sti eretici dicono: Chiuditi nella tua cella; siedi da uncanto, leva lo spirito sopra le cose terrene; appoggia labarba sul petto; fissa l’umbilico; tieni il respiro; cercanelle viscere tue il cuore, sede della potenza dell’anima,e vi troverai dapprima tenebre, poi una luce limpidissi-ma come quella apparsa sul Monte Tabor. Ma frate Bar-laamo risponde....»

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E qui lo zio arciprete, coll’interessamento di un dilet-tante, esponeva a Francesco le ragioni, con cui il mona-co confutava questa specie di quietisti: ma dall’addurleci dispenseranno facilmente i lettori, come volentieri nel’avrebbe già allora dispensato il nipote. Il quale, o pervoglia o per forza dovette acquietarsi al consiglio dellozio; a Corte, da tutti i cardinali, fra tutti i cittadini lo ren-devan il ben accolto sì le sue aderenze, sì la splendidez-za che sfoggiava negli abiti, nel treno, nell’avviamentodella famiglia, tanto da poter emulare quella dei prelati.E per quanto noi ci sentiremmo inclinati a dipingere bel-lo e ideale lo sposo della nostra Margherita, siamo co-stretti a dire che, siccome la prospera, così l’avversa for-tuna non sapeva egli portare dignitosamente; giacchè,invece di rendere sacra la sua sventura con un decorosodolore, voleva schivar la compassione collo star sullegale, e non perdere la maggioranza del vivere sfoggiata-mente. Al pericolo poi che gli poteva venire dall’essereconosciuto e nominato, credeva di ovviare col rendersi,come faceva, ben accetto chiunque fosse di nome e dipotere o di scienza segnalato in Avignone.

Tra questi riportava allora il vanto Francesco Petrar-ca, già famoso per tutta Europa, sebbene appena in etàdi trentasei anni, e caro ai papi ed ai prelati. Stava dicasa a Valchiusa, poche miglia discosto da Avignone,impinguandosi di benefizj, scrivendo di filosofia, imi-tando i versi dei Provenzali in sonetti e canzoni italiane,che doveano smentire quel detto che chi imita non saràimitato; dando pareri ai potentati, che non gli ascoltava-

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no, o facendo da quattordici anni l’amore in rima conLaura, figlia di Audiberto di Noves, cavaliere della pro-vincia avignonese, donna di trentadue anni, da quindicimaritata con Ugone de Sade, sindaco di quella terra, alquale, mentre il poeta ne veniva cantando la verginalecastità, ella avea partorito uno stuolo di figlioletti. Ilpoeta platonizzando aspirava all’amore di Laura; Lauraa una fama estesa ed eterna col far la schiva quanto ba-stasse per non lasciarsi sfuggir di rete il cantore; ella riu-scì nell’intento; se anch’esso, è disparere tra i fisiologi egli estetici.

Il Petrarca era esule anch’esso; avea scritto dei Rime-dj dell’una e dell’altra fortuna: filosofo patriotto pervoce comune e grand’amatore dell’Italia, Franciscolo,che lo avea conosciuto a Padova e a Milano, sperava dalcolloquio di esso ritrarre e consolazioni e consigli; ondesi recò in Valchiusa, e volle condurvi anche il suo Ven-turino, persuaso che ai fanciulli l’aspetto e il favellared’un grande sia ispiratore di generosi sentimenti.

In un enorme masso apresi una profonda oscura grot-ta, dalla quale sbocca la Sorga, che, chiusa da inaccessi-bili scogli, forma questa valle, che trae il nome dalla na-tura sua. Quivi in una deliziosa villetta Franciscolo ri-trovò il Petrarca, in mezzo ad anticaglie, di cui esso fa-ceva gelosa conserva, e a grandi armadj di noce, benchiusi a chiave, entro ai quali custodiva il tesoro de’ suoilibri. Non appena lo riconobbe, il poeta gli lesse il so-netto

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Piangete, o donne, e con voi pianga amore,

che allor allora aveva composto per la morte di Cin daPistoja, stato suo maestro in poesia.

Finito il quale, e domandato se non gli paresse vera-mente un capolavoro, senz’altre parole attendere dal Pu-sterla oltre le congratulazioni, — Deh perchè (gli dice-va), perchè abbandonaste Italia e l’onorata riva? An-ch’io ho corso le barbare terre; visitai le Gallie fino alReno, e l’Alemagna non per alcun negozio, ma per desi-derio d’imparare, come quel grande che molte città videe costumi d’uomini; ho costeggiato i lidi di Spagna, na-vigai l’Oceano, toccai l’Inghilterra; ma quanto vidi, piùm’ha fatto amare ed ammirar l’Italia. E come volentieriper essa lascerei questa Babilonia occidentale di cui nul-la più informe il Sol vede; lascerei il Rodano feroce, si-mile all’estuante Cocito ed al tartareo Acheronte26, senon mi trattenesse amore, se qui tutte non avessi le miedolcezze. Il 6 d’aprile 1327 vi conobbi quella, che persempre mi doveva tor pace; e queste chiare, fresche,dolci acque della Sorga divennero il mio Ippocrene. Quiscrivo in rime vulgari i miei sospiri pei presenti; ma giàrimansi dietro il secondo anno da che ho cominciatol’Africa, poema che mi farà immortale a paro con Virgi-lio e Stazio nell’età ventura. Qui mi trovano gli amici,qui mi cercano i grandi della terra; e sebbene io non diaretta alle fole de’ medici e degli astrologhi, vedo quanto

26 Mi sarei ben guardato dal far dire al Petrarca cosa, nè quasi parola, chenon fosse nelle opere sue.

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fosse veridico uno di questi, allorchè a me fanciullo in-dovinò che godrei l’amicizia di tutti i più illustri e gran-di uomini della mia età. E voi, date anche voi opera aglistudj?»

E poichè Franciscolo rispose un mezzo sì, — Attene-tevi (prosegui il Petrarca) attenetevi ai classici. Cotestimoderni filosofanti non vi gabbino. Meglio tornerebbestudiassero in Cicerone, che non in Aristotile e Averoé,da cui succhiano l’empietà. Anche me vorrebbero farateo: e perchè io sto al credo vecchio, dicono che son unbuon uomo, ma ignorante».

Quando poi il Pusterla, bramoso di pur dire anch’egliqualche cosa, e massime di quel che più gli stava sulcuore, entrò a discorrere di Milano, — Milano! (l’inter-ruppe il poeta) paese glorioso per salubrità, e per cle-menza di clima invidiato! di quante cortesie non mi col-marono e colmano i Visconti! Il signor Luchino, granprotettore del bel sapere: grande specchio di giustiziaquel fratel suo arcivescovo e mio padrone! Ma dite, chefa quivi Giovanni da Mandello, il dolcissimo degli ami-ci miei? E a Bergamo? non dimenticherò mai, l’ultimavolta che vi fui, un orefice, il quale mi venne a moltemiglia incontro colle maggiori feste del mondo, e mivolle ospite suo, e spese ogni avere per festeggiarmi; in-cantato della mia gloria. Oh i posteri lo sapranno. A Ber-gamo conoscete il Grotto, fortunato raccoglitore delleopere del gran padre dell’eloquenza? Osservate: e’ m’hacopiate le Quistioni Tusculane, di cui io non aveva sco-perto che parte, e mandommele a regalare. Che carattere

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elegante! Io stesso, calligrafo qual mi vanto a nessunosecondo, non n’eguaglierei la nitidezza. Ma voi, deh,quando tornerete in Italia, cercate per me opere di Cice-rone. L’Italia è inesauribile miniera. Colà ho rinvenuto iltrattato de Gloria: che gioja di libro! Ora l’ho prestato aConvenevole maestro mio27, che se ne delizia. In Veronascopersi le Lettere famigliari, e queste ad Attico che oratrascrivo: le opere di Catone, di Censorino, di Varronesopra l’agricultura, le Commedie di Plauto, le Istituzionidi Quintiliano, colà io le ho disseppellite. Che non dareiper iscavare il libro De Republica che deve esser unaperla, e le Consolazioni e le Lodi della filosofia! Ma inFrancia, nulla v’è a profittare: i libri sono merce esotica.Basta il dirvi che in tutto Avignone non trovereste unesemplare della Storia Naturale di Plinio, se non dalpapa o da me».

Per accorciarla, il Petrarca non parlò che per sè, chedi sè; onde Venturino ebbe a dire allo zio arciprete: —Come predica bene quel signor canonico!» e Francisco-lo, lasciandogli la sua ammirazione, portò seco l’ideache questi grand’uomini non rechino grande ristoro nègrande ajuto nelle infelicità. Se pensasse il vero, lo dicachi ne praticò.

Io toccherò innanzi, contando come gli occhi del Pu-sterla si volgessero continuamente all’Italia, e per tor-narvi non gli pareva qualche volta neppur troppo gravela prigionia e fino la morte. In sulle prime, la ricchezza

27 Che non glielo restituì, onde quell’opera andò perduta pei posteri.

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sfoggiata il fece trovar bene alla Corte pontificia, guar-dato, accennato da ognuno, ed all’ambizione del compa-rire univasi, per mitigare le sue amarezze, la speranza dipoter cogliere i frutti del martirio, più sempre agognatiche le sue palme.

Perocchè il papa se la diceva poco coi Visconti, i qua-li, desiderando tiranneggiare la patria, opprimevano lacausa guelfa per affidarsi agli imperatori, da cui riceve-vano sempre appoggio i nuovi signorotti. Le cose eranoprocedute a segno, come altrove abbiamo accennato,che il papa, in castigo del parteggiare coll’imperatoreLodovico scomunicato, proferì l’interdetto contro i Mi-lanesi. Terribili e spaventose conseguenze recava questocastigo; gli altari restavano senza croci nè candellieri, senon al momento che si celebrava la messa a porte chiu-se: nessuno, eccetto i chierici, i pellegrini, i mendicantied i fanciulli minori di due anni, potevano seppellirsi inluogo sacro: nessuno accettavasi alla penitenza ed al-l’eucaristia se non in articolo di morte; proibito il menarmoglie o baciarla o mangiare carni, e fino radersi: ognigiorno, a terza, sonavano le campane, al cui tocco dove-vano tutti recitare preci di penitenza.

Vero è bene che, parte perchè abituati, parte perespresso comando dei Visconti, queste proibizioni nonerano così a minuto osservate in Milano; e i papi stessi,rimettendo dal primitivo rigore, erano discesi a qualcheconcessione; però, in tempi come quelli ove la religioneesercitava tanto imperio sulle opinioni e sulla vita, trop-pe anime timorate venivano a trovarsi in continuo con-

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trasto fra la coscienza propria ed i comandi superiori,dal che seguiva uno scontento universale, un desiderioogni giorno più sentito di tornare in pace col capo de’Fedeli. E già Novara, Como, Vercelli, altre città avevanofatto la loro sommessione al papa, promettendo di nonaderire a Lodovico il Bavaro nè a veruno scismatico,onde erano state ricomunicate. Bologna, che aveva ri-calcitrato al pontefice, ora, per lo spavento di vedersiprivata d’ogni splendore col perdere l’Università, e perla speranza che la Santa Sede potesse colà trasferirsi,erasi di nuovo piegata all’obbedienza. Siffatti esempipotevano moltiplicarsi a scapito dell’autorità de’ Viscon-ti; tanto più che l’imperatore Lodovico, del quale chia-mavansi vicarj, era scaduto interamente di credito e dipotere: e non più riverito perchè non più temuto; nonpoteva col nome suo ricoprirne l’usurpato potere.

Tenevano conto di tutti questi fatti coloro che raggira-vano le tresche politiche; e quindi accarezzavano il Pu-sterla, che davasi gran moto, e spendeva senza misura,nella fiducia di nuocere ai nemici della sua patria. Maintanto da questa patria nessun ragguaglio riceveva,stante la scarsità dei corrieri, i quali non venivano spedi-ti che espressamente da Corte a Corte pei pubblici affario pei principeschi. Ed oltrechè questi rimanevano un se-greto dei gabinetti, e i privati stavano anni ed anni a co-noscere gli avvenimenti anche strepitosi delle terre fore-stiere, ogni comunicazione era con Milano interrotta perle ruggini sopradette. Da Pisa, città di più vivo commer-cio, sapeva il Pusterla che stavano colà suo fratello e gli

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altri che noi v’incontrammo; aveva loro, per sua sventu-ra, dato a conoscere dove fosse: qualche imbasciata n’a-vea ricevuto; ma parte neppur essi erano esattamente in-formati delle condizioni di Milano, parte trascuravanogli interessi e gli affetti privati per discorrere dei disegnisediziosi, delle esagerate speranze. Che ne sarebbe dun-que de’ suoi conoscenti? degli amici? di Buonvicino? EMargherita? la sua Margherita, alla quale oh come oragli rimordeva d’aver recato torti, d’averle causata tantasciagura, di non essere con lei camminato alla felicità!Oh potesse mitigarne in qualche modo i patimenti! po-tesse chiederle perdono! potesse almeno averne notizie!mandargliene. Quindi un intenso struggimento di torna-re, se non altro di avvicinarsi alla terra natale.

E poichè alle anime passionate ogni accidente perpiccolo s’ingigantisce, fortemente il commossero gliambasciadori, che contemporaneamente giunsero da Pa-rigi e da Roma per invitare a gara il Petrarca a ricevervila corona trionfale. Allorchè questi, preferendo la patria,si recava ad incoronarsi di alloro in Campidoglio, il Pu-sterla nemmeno potè sorridere al vedere il grand’uomomostrare suprema contentezza nel ricevere un lauro,principalmente perchè somigliava di nome a colei chesola gli pareva donna: e vedendolo restituirsi in Italiafra gli applausi, fra un trionfo che rinnovava la pompadei tempi antichi, a vanto non più d’insanguinati con-quistatori, ma del pensiero e della scienza, ebbe tal pres-sura al cuore, che per gran tempo ne stette malato —malato di quel mal di patria, che spezza tante esuli vite.

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Col Petrarca era egli cresciuto di dimestichezza nelvederlo presso i cardinali a cui profondeva adulazioni; el’aveva pregato che dall’Italia gli scrivesse. Lo fece ilgrande Aretino, e poichè gli ebbe dipinto coi colori reto-rici le rivedute bellezze del paese che Apennin parte, ela festosa venerazione onde l’accoglievano da per tutto,lo esortava a fuggire da quel suo ricovero: — Va da pertutto, anche fra gl’Indiani, purchè tu non duri in cotestaBabilonia, non rimanga ancor vivo in cotesto inferno.Avignone è sentina d’ogni abbominio: le case, i palagi,le chiese, le cattedre, l’aria, la terra, tutto v’è pregno dimenzogna; le verità più sante vi sono trattate di favoleassurde e puerili; terra di maledizione, se non avessedato i natali a Laura»28.

Il Petrarca con ciò non faceva che un esercizio di sti-le, egli che in quell’inferno erasi annicchiato così perbene, e che fra poco vi doveva tornare di voglia: mastrazianti cadevano quelle parole sull’anima ulcerata delPusterla. Al quale già riusciva insoffribile quella freddacompassione; quella diffidenza che tiene dietro ai passidei forusciti per farli più amari; quella perpetua propen-sione degli uomini, e massime dei fortunati, ad attribui-rò all’infelice la colpa delle sue disgrazie, e credere untristo colui che non seppe camparsela bene in casa sua,fra’ suoi concittadini. E poi la pietà è sentimento istanta-neo, e presto da luogo all’indifferenza.

28 Quid libet vide; Indos quoque, modo ne videas Babylonem, nequedescendas in infernum vicus, etc. Vedasi Epistolarum sine titulo liber, epp. 15,16.

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A fargli ancora più rincrescere la stanza d’Avignonesopravvenne un cambiamento di politica rispetto ai Vi-sconti. Luchino e Giovanni sentirono la necessità di rap-pattumarsi colla Corte pontificia; onde spedirono adAvignone soggetti creduti ed esperti, quali furono Gui-dolo del Calice sindaco e procuratore, che già aveva ma-neggiato la sommessione di altre delle città interdette,Mafino Sparazone giureconsulto, e Leone Dugnano,quel che dappoi compilò gli Statuti milanesi. Le bene-voli inclinazioni di Benedetto XII agevolarono il rinte-gramento della pace e della concordia. Lo zio arciprete,tutto sereno, un giorno raccontò al Pusterla: — Consola-ti! la nostra patria torna finalmente al cuore, torna la pe-corella sviata all’ovile. Oggi, in pieno concistoro, i mes-si del signor Luchino protestarono della piena e sincerariverenza figliale e della zelante fedeltà dei Visconti ver-so la Santa Sede, ad ogni voler della quale mostransi di-sposti a consentire. A nome del signor loro professaronodi credere che il papa non può esser degradato dall’im-peratore, come pretendeva quel superbo Lodovico diBaviera: che, quando l’impero sia vacante, come è ades-so per la scomunica e la deposizione d’esso Lodovico,al papa solo ne spetta l’amministrazione, e quindi da luisolo Luchino e Giovanni riconoscono il governo di Mi-lano e delle città dipendenti». Il Pusterla, a cui tutt’altroche buon suono faceva quest’annunzio, — Ma (l’inter-ruppe), questo vuol dire ch’essi dichiaransi soggetti alpontefice in parole, purchè egli li lasci padroni in fatti.

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— Non credere però (ripigliava l’arciprete Gugliel-mo) che il papa non abbia ingiunto di buone condizioni.I Visconti, nè direttamente nè indirettamente imporran-no gravezza di sorta sopra luoghi e persone religiose:pagheranno l’annuo tributo di cinquantamila fiorini d’o-ro; a queste condizioni il santo padre cassa come iniqui iprocessi d’eresia fatti contro i Visconti, diciannove annifa: li nomina vicari imperiali di Milano e delle altre cit-tà: permette che Giovanni venga all’Arcivescovado diMilano, riservandone alla Santa Sede diecimila fiorini direndita. Ogni scomunica, ogni interdetto rimane pro-sciolto a patto che si erigano in Milano due cappelle aSan Benedetto, una in Sant’Ambrogio, l’altra in SantaMaria Maggiore: ove in perpetuo, il giorno che i vescovidi Lodi, di Cremona, di Como ribenediranno la città inquesto maggio, abbia a cantarsi messa coll’interventodel principe e de’ magnati, e distribuire a dugento poveriun pane di frumento da dodici once. Quest’ultima con-dizione la suggerì il papa di propria testa.

— E degli esuli? e dei prigionieri, non disse nulla?— Nulla: raccomandò per altro ai signori di Milano

d’essere pii, generosi, più pronti a ricompensare che apunire, se vogliono che altrettanto faccia con loro il Si-gnore. Ma, nipote mio, appena io mi contengo dalla gio-ja al pensare la contentezza dei Milanesi, de’ miei buoniMonzaschi quando udiranno la fausta novella: e riapertele chiese, e sepolti in luogo benedetto i loro morti, inten-der di nuovo i cantici, assistere alle cerimonie solenniche da venti anni più non vedevano!»

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E le lagrime agli occhi venivano all’arciprete in cosìparlare. Ma questi trattati, questa conclusione moltomale notti cagionarono al nostro Franciscolo, tra il di-spetto delle speranze fallite e del prosperato nemico, edil timore di vedere in compromesso la propria sicurezza.Oltrechè coloro, i quali si conducono non per sentimen-to ma per machiavellica, e che alla Corte blandivano ilPusterla come uno stromento da poter venire a tagliocontro i nemici del loro padrone, ora gli facevano pocaaccoglienza e manco cera, sì perchè diventato inutile, sìper non fare cosa che disgradisse al nuovo amico: e icortigiani, che pigliano il tono dai capi, il ricevevanocon tale grazia anacquaticcia, che la sua ambizione nepativa acerbamente, e gli persuadeva che quella non fos-se più aria per lui.

In così funesto punto giunse in Avignone Ramengo, esi presentò al Pusterla come ad un amico. In fatti egliera un antico fedele di sua famiglia, legato ad esso dalbenefizio: era stato lo sposo di quella Rosalia che, seegli non aveva amata d’amore, aveva però tanto compa-tita; le enormità di lui, l’attentato all’onore della Mar-gherita, gli erano restati ignoti. Quanto all’ultimo tradi-mento, Alpinolo su quel primo momento erasi gettato a’piedi del Pusterla per confessargli la propria debolezza ela scellerata perfidia di Ramengo; ma per correre a sape-re il destino della Margherita s’interruppe, e confessionidi tal genere se non si facciano in un primo impeto digeneroso pentimento la riflessione ne toglie il coraggio.

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Così era succeduto al giovane, che animosissimo con-tro gli aperti cimenti, veniva meno in que’ minori, ovenon trattavasi che d’affrontare il perdono d’un offeso.Colle penitenze imposte a sè medesimo acquetò il co-mando che la coscienza gli faceva di manifestare il suoerrore, e si tenne discosto da Franciscolo. A questo inve-ce, allorchè stava rimpiattato nella cella di Brera, fràBuonvicino aveva nominato Ramengo tra quelli banditicome ribelli: e quantunque sapesse che costui non avevamai avuto parte seco, non che a trattamenti, neppure adalcun discorso politico, forse che migliori ragioni avevaLuchino di perseguitare gli altri tutti! Non poteva esser-gli parsa colpa bastante l’avere Ramengo portata anticaosservanza e servitù colla casa del Pusterla?

Al primo veder Ramengo, se gli fece incontro l’esulenostro con cordialità, domandandolo: — Siete venutospontaneo o spinto?

— Mezzo e mezzo», rispose l’altro: ed infilò quantebugie occorrevano per acquistar fede e compassionepresso il signore. Concittadino adunque, noto d’anticabenevolenza, come lui esule della patria, come lui perse-guitato e forse per sua cagione: erano titoli più che suffi-cienti onde il Pusterla accogliesse a braccia aperte quelmostro, lo volesse ospite suo e con ansietà prendesse aragionar seco di quel ch’è il primo discorso d’ogni foru-scito, la patria ed i suoi.

Pur troppo il liuto era in mano di chi lo sapeva sona-re. Avviluppando il falso col vero, seppe Ramengo, nonche rimuovere ogni sospetto dal cuore del Lombardo,

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acquistarsene intera la confidenza. In uno sfogo che datanto tempo non gli era più consentito, Francesco esposeal nuovo venuto i dispetti suoi pel mutato contegno de’cardinali e il sospetto fondato, a dir vero, sopra troppialtri esempi di somiglianti slealtà.

Devo ricordarvi, lettori miei, come Ramengo ai rifug-giti di Pisa avesse mostrato certe lettere di Mastino dellaScala, delle quali diceva dover essere portatore al Pu-sterla. Era un’altra ordita di sua accia. Perocchè, sapen-do quanto Francesco fosse bene nelle grazie dello Scali-gero, e come questo l’avesse confortato a vendetta du-rante la sua ambasceria a Verona, finse, d’accordo conLuchino, una carta, nella quale il signore veronese mo-strava all’amico suo come gli fosse venuto lezzo dell’ar-rogante potenza del Visconti, aver già cominciato a mo-strarsegli avverso coll’impromettere sua figlia Reginaall’esule Bernabò Visconti: ora volere del tutto buttargiù buffa, e bandire guerra a costoro che ponevano ingran punto la libertà di tutta Italia. Lo invitava pertantoalla sua Corte promettendogli e lauti assegni e gradod’autorità pari al merito d’uomo sì universalmente caroe riverito: che trarrebbe sotto a’ suoi vessilli chiunquefosse voglioso di ricuperare la patria e il franco stato.

Sopra un animo ambizioso e irrequieto come quel delPusterla, il colpo riusciva da maestro; e Ramengo, bat-tendo il ferro mentre era caldo, gli espose le condizionidi tutta Italia, i disegni dei forusciti che aveva potuto su-bodorare a Pisa: raccontò come con questi si fosse ab-boccato ed inteso, e che anche da parte loro veniva a

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sollecitarlo perchè prendesse pietà della patria, che glichiamava mercede: uscisse dall’inerte riposo: si ricor-dasse come Matteo Visconti dopo nove anni d’esiglio,fosse tornato in signoria, allorquando i peccati dei Tor-riani prevalsero a quelli di lui. — Ed ora (soggiungeva)i peccati del Visconti hanno colma la misura. Dei vostriamici alcuni già hanno perduto la testa sul patibolo, la-sciando a voi per eredità il vendicarli: altri aspettano an-cora un giudizio, di cui voi non potete cambiare l’esitoprestabilito; i liberi tramano qualche nuovo colpo. E ladonna vostra? quella incomparabile geme nelle prigionidel sozzo Luchino. In chi altri può essa avere speranza,dopo Dio, se non in voi? Finchè qui dimorate, la vostrasicurezza è, o vi sembra maggiore: ma intanto neppureun passo date per la salute di lei. Non avrà ella ragionedi credere che l’abbiate dimenticata o in poco conto? Icittadini vostri non potrebbero accusarvi di codardo o dineghittoso? voi, quel solo che potete dar ombra a Luchi-no, e state qui allo schermo dei manti sacerdotali? Se in-vece osate, se raccogliete gli amici, i consorti vostri, piùdi sei capelli diventeranno canuti al tiranno della Lom-bardia, tutta Italia si scoterà dal pigro sonno. E poniampure che lo Scaligero vi venisse meno delle sue promes-se — promesse di principe — ; nemici al Visconti netroverete in ogni lato per darvi mano. Pisa stessa, avver-sa e timorosa, quanto si voglia, non darà soccorso aduomo sì reputato, per ficcare una spina nel piede al suonemico? coi denari e col credito vostro facilmente assol-date delle bande in ajuto della causa migliore. Lodrisio

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non fu ad un pelo di rovesciare la baldanza dei Visconticon nulla meglio che una turma prezzolata? Quanto piùvoi che, non in soccorsi mercenarj, ma porrete fidanzain coloro che generosamente combattono per la patria eper la libertà».

Queste o sì fatte ragioni convalidava col venire trattotratto, in vista tutto pieno di compassione, stimolando lagelosia del Pusterla nel dipingere il pericolo in cui sitrovava l’onestà della Margherita. E si confessi ad onoredi Francesco, che gran colpo faceva sull’animo di lui iltimore che ella potesse credersene dimenticata; e che lanoncuranza mostratane nei giorni di sua prosperità, orala dovesse trarre nella persuasione che, lontano e fra di-strazioni d’ogni genere, egli negligesse l’eccesso dellemiserie di lei. E chi dirà se quest’idea veramente non siaggiungesse qualche volta ai tanti spasimi di quella no-stra infelice?

Ondeggiando tra la fantasia che gli sorrideva un avve-nire di vendetta e di dolcezza, e i consigli dello zio e diBuonvicino, talora sospinto ad avventurare ogni cosa dibel nuovo per uscire dal tedio d’una calma, somigliantea quelle micidiali che colgono talvolta i naviganti inmezzo ai mari dell’equatore; tal altra bramoso di pace,di un riposo di cui si sentiva più cupido che capace, pro-vava la pessima delle condizioni, quella d’uomo chenon sa prendere partito.

— Perchè non ricorrete a Tommaso Pizzano?» glisuggerì Ramengo.

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Era il Pizzano un astrologo, in quel tempo rinomatis-simo ad Avignone; e il sostituire ai calcoli della pruden-za gli indovinamenti degli impostori o le lusinghe di chinon sa che consentire, era allora, e non allora soltanto,ottimo spediente per gli esitanti. Piacque il consiglio aFrancesco; e l’astrologo, dopo che, con gran mostra distudj e di cognizioni arcane, ebbe molti giorni durato adosservar la mano di lui e le stelle, e formare l’oroscopo,e trovare l’ascendente, alfine gli annunziò: — La vitavostra si trova ora in gravissimo punto; alcuno, col mo-strarvisi grazioso, pensa tradirvi ai vostri peggiori nemi-ci».

Non bisognò più avanti per confermare il Pusterla neldubbio già concepito che la Corte papale volesse, comeuna vittima espiatoria, consegnarlo al perdonato Viscon-ti. Si allestì dunque alla partenza; e per quante ragionigli adducesse lo zio, per quanto il buon uomo l’esortas-se, fin colle lagrime agli occhi, a dar ascolto alla divinasapienza, la quale chiama stolti coloro che spendono illoro denaro in tentare la rovina dei potentati, per quantolo assicurasse che tradimenti così neri non dovevansimai aspettare da sacerdoti del Dio della giustizia, il Pu-sterla si ostinava più sempre nel suo proposito di tornarein Italia. — Finalmente (diceva) che male me ne potreb-be seguire? Non mi pongo già in arbitrio del mio perse-cutore: lo tolga il cielo: non mi confido ciecamente aduna indulgenza, ad una generosità menzognera. No: ri-vedo l’Italia. — Italia! chi può proferirne il nome senzaaggiungervi bella e sventurata? Mi accosto agli amici, a’

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miei sofferenti, alla Margherita. Colà potrò più da vici-no scorgere e calcolare la situazione della patria mia; epiù che non Avignone, terra da preti, mi fornirà di sicuroe decoroso asilo Pisa: Pisa libera, signora dei mari, e ne-mica dei Visconti».

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CAPITOLO XVII.TRADIMENTO.

Pertanto al principio di luglio del 1341, colle lettereche in diligenza spacciavano da Avignone gli ambascia-dori milanesi per mezzo di Pedrocco da Gallarate, il si-gnor Luchino riceveva un biglietto di Ramengo, che noiriporteremo tal quale l’abbiamo tratto fuori dagli archivjsegreti.

Magnifico Domno Luchino

Come arrivè, juxta la jussione vostra, in Avenione, èreuissilo de trovare el malesardo Francisco Posterola,cum el toso. Nil magis cupiens quam fare servitii alprenze nostro, a ki messer Domenedio konceda lætizia,my sono andato dreto tanto, che induxetti ello a imbar-carse verso Portum Pisarum. E mo se partiremo perNiza de Proventia, La seguente septimana, Deo favente,fiemo in mare sul naviglio nuncupato el Caspio. Ideosuplico vostra magnificentia a disporre de modo ut alnostro advento sia parato per catturare el Prefato Po-sterola et putto. Tunc riferirò più destensamente omnecosse a piedy de la Vostra Serenità, ke ora baso humile-mente.

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Pridie kal. julii anno domini MCCCXLI.

Ramingus de Casale.

Secondo che qui accennava, appena si fu messo mareacconcio, Ramengo salpo da Nizza, conducendo il suonemico, nulla più diffidente che la pecora tratta dal vil-lano al macello. E la fortuna servì ai disegni dello scel-lerato, meglio ch’e’ non potesse sperare: giacchè, men-tre non mirava che a trascinare il Pusterla in luogo piùvicino, dove meglio potesse nascere occasione di darlopreso, essa gli agevolò di consegnarlo direttamente all’i-nimico.

Pisa (già ne toccammo), capitana della parte ghibelli-na in Toscana, gareggiava continuamente con Firenzeguelfa: e questo soverchio mescolarsi delle cose di terrane aveva disavanzato la potenza sul mare. Intenti a favo-rire gli imperatori svevi ed Enrico VII e gli altri, accor-renti al fiuto delle italiche ricchezze, i Pisani trascurava-no di necessità il commercio ed i lontani possedimenti;la Sardegna si videro tolta dagli Aragonesi; dovetteroabbandonare molti banchi della Siria, acquistati nellecrociate, più non valendo a proteggerli contro i Musul-mani per terra e contro i corsari sull’acqua; e più non fu-rono i più ricchi e rispettati mercanti di Costantinopoli edell’Adriatico.

Dentro provavano il contraccolpo delle scosse este-riori; ed era un parteggiare micidiale, un odio, un so-spetto, che distruggevano l’accordo, necessario per la

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prosperità e la sicurezza dignitosa. Alcun tempo primala fazione popolare aveva avuto il sopravvento, e poichèquesta pendeva sempre alla bandiera guelfa, legò amistàcon Firenze. Non potevano di ciò darsi pace i nobili,ghibellini per affezione, per eredità, per calcolo persona-le, e senza far mente ai reali vantaggi della patria; ondestavano addocchiando ogni occasione d’umiliare i popo-lani, romperla con Firenze, e tornar in auge la fazioneimperiale. E l’occasione venne, allorchè i Fiorentini, de-siderando acquistare Lucca, posseduta allora da Mastinodella Scala, rifiutarono come sospetti gli ajuti che Lu-chino esibì loro onde toglierla per forza, e la compraro-no per dugencinquantamila fiorini, a patto di lasciarle ilgoverno a comune.

Un rumore senza pari levarono i Ghibellini pisanid’un tale acquisto, per cui la città, loro nemica naturale,come caritatevolmente dicevano, si accampava alle stes-se porte di Pisa; e sparsero voce che i Fiorentini avesse-ro stabilito di ridurre Pisa a nulla più che un quartiere,col nome di Firenzuola. Tali voci, appunto perchè esa-gerate, guadagnarono fede tra il popolo; si gridava al-l’infamia del governo che aveva sopportato un tale ob-brobrio; e secondo le suggestioni dei mettimale, delibe-rarono di romper guerra a Firenze. — Daremo ogni avernostro (dicevano), fin le nostre donne prenderanno learmi; ma perdio, non lasciamoci togliere Lucca; e il Si-gnore per certo darà vittoria al diritto contro l’iniquitàarrogante».

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Tornati allora in posto i nobili, se l’intesero coi prin-cipali Ghibellini di Toscana e, quel che più importa, conLuchino Visconte, il quale, indispettito dal rifiuto deiFiorentini, bramoso di fare onta all’abborrito Scaligero,sperava inoltre di potere stendere così l’influenza suasopra quelle parti, e forse, poichè da cosa nasce cosa,anche il dominio; e vantaggiarsi di tanto coll’aggiungereai suoi Stati mediterranei anche un porto di mare. Chie-se dunque a’ Pisani cinquantamila fiorini d’oro, l’annuoomaggio di un palafreno, di due falconi pellegrini e diuno marino; e consentitigli, ebbe a sè Giovanni Visconted’Oleggio, soldato di ventura, che da chierichetto delduomo di Milano salì fino a dominare dappoi Bologna;e gli affidò duemila cavalli, dicendogli all’orecchio: —Va, e muovi difilato sopra Pisa: entravi, e in sicurezza dipace occupala; e fa che i molti partigiani nostri gridinome signore. Se così ti vien fatto, buon per te».

Ventura fu che l’accortezza degli scaduti popolani ri-mediasse alla ambiziosa cecità dei nobili signoreggianti;il colpo fu scoperto e riparato, e Giovanni e Luchino,senza far mostra di nulla, ajutarono in fatti Pisa ad otte-nere Lucca.

Ma non va mai senza castigo un popolo libero, che at-tenta alla libertà d’un altro.

L’alleanza di un tiranno subdolo e attivo qual era Lu-chino peggiorò i costumi repubblicani di Pisa, e la trassea consigli sleali e scellerati. Che per la prima cosa eglidomandasse lo sfratto dei rifuggiti lombardi, facilmentel’immaginerete. Mandata la proposizione a partito, molti

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generosi favellarono contro una domanda sì bassa e ver-gognosa, ma i contrarj prevalsero, e quei miseri furonocostretti cercare altrove nuovi oltraggi.

Nelle piccole cose e nelle grandi, nei gabinetti delledame e in quelli di Stato, una concessione ne chiamaun’altra, un passo dato in falso ne esige un secondo. Ionon vi enumererò i diversi errori, a cui trasse i Pisani lafunesta amicizia del tiranno, bastandomi dirvi che Lu-chino osò chiedere di potere, nelle loro acque, appostareil naviglio che riconduceva il Pusterla, col pretesto chequesti fosse un suo gran nemico, un insidiatore dellapubblica quiete; il quale veniva a muovergli incontrouna maledetta trama.

I vili suggerimenti di pochi calcolatori ambiziosi, chesi pretendevano interpreti della pubblica volontà, im-pressero sulla libera Pisa questa nuova macchia, senzache la popolazione generosa ne avesse colpa; e consenti-rono che Buonincontro da Samminiato, condottiero aglistipendj di Luchino, arrestasse in mare una galea sottobandiera pisana, e ne strappasse fuori il ribelle d’un al-tro Stato.

Così nera, sozza, avvilupata procedeva la politica —di quei tempi.

Varia fortuna corse sulle prime il vascello il Caspio,che di Francia riconduceva il Pusterla: rovesci di piog-gia, turbini di vento e tempeste furiose, più che non so-gliano mettersi in quel mare, parevano quasi voler re-spingere gli sventurati dalla terra desiderata e funesta.Venturino, riavendosi dal nauseato stupore in cui lo ave-

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va gettato il trabalzare del naviglio, — O padre (diceva)perchè ci siamo dipartiti da quel paese? Là stavamo fer-mi in terra e sui nostri piedi».

E il Pusterla rispondeva: — Perchè quella non è lanostra patria.

— Ma ora dove si va?— Nol sai? andiamo in Italia.— In Italia? Oh dunque nel nostro caro paese, eh? Là

udremo ancora parlare come noi, è vero? Là vedremotutta gente che si conosce. E la mamma la troveremo noisubito?

— Povera mamma!» replicava Francesco sospiroso;e, carezzando i biondi capelli del suo fanciullo, — Sì, lavedremo, se Dio vorrà. Ora prega per lei.

— Pregare? Oh, non passa giorno ch’io nol faccia;non momento che io non me la ricordi. Anche stanotteme ne sono insognato. Eravamo là nella villeggiatura diMontebello; ma la villeggiatura era in città; stavamo insala, io e lei; e tu entravi a cavallo con un esercito... Oh,non mi raccapezzo... ben so che non l’ho mai veduta piùbella, nè più cara. Oh fossi io grande! avessi io il brac-cio forte! forte come te, come Alpinolo, correrei ben io aliberarla!»

Il Pusterla lo abbracciò intenerito, e alzando gli occhiverso Ramengo, che teneva su loro intento lo sguardo,come la vipera sull’usignuolo ammaliato, — O amico,(gli disse) qual consolazione nella solitudine, nelle sven-ture, il trovarsi allato un figliuolo!»

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Come al gettar olio sul fuoco, tal divampò Ramengonell’intendere parole, che gli rammentavano quanto essopure avrebbe potuto godere di quella consolazione; ecome gli fosse stata rapita, diceva egli, da quel Franci-scolo che ora n’era beato. — Ma il sarai per poco!» urlòstringendo le pugna verso il cielo, e precipitossi a sfoga-re il suo furore giù nella stiva, tra la meraviglia dei com-pagni di viaggio.

Frattanto una mattina, al dissiparsi di una nebbia leg-giera, simile al velo che si getta sui mille ninnoli, suglieleganti gingilli dei tavolini delle nostre sale, che li co-pre senza nasconderli, il sole nascente mostrò spiccatele coste d’Italia. Francesco le contemplava in un’estasireligiosa piena di memorie, mentre la sua fantasia, stan-ca di prevedere il male, non gli dipingeva che le imma-gini deliziose del passato, le lusinghevoli dell’avvenire.E il fanciulletto, attenendosi alla mano del genitore, gliandava col piccolo dito segnando le cime di terra ferma,miste alle fantastiche apparenze di qualche bianca nuvo-letta, sorta sull’orizzonte, e chiedendo: — Che monte èquello che sporge là in mare? e quell’altro così elevato eacuto? e questa vetta nevosa? Vedi l’altra laggiù chefuma? Oh non è un paese quel bianco? Pisa sta forsedentro a quel seno? Ve’ ve’ quel vascello che si avvici-na! Ei porta sulla bandiera il biscione come a Milano».

Stava in fatto così: ma quello che pel fanciullo era og-getto di consolazione, fu di terribile pronostico perFrancesco. A osservar la nave che si accostava, trasseropasseggieri sul ponte, e già distintamente, insieme col-

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l’arma di Pisa, discernevasi quella dei Visconti. Curiosidi saperne la ragione, non più tosto furono a portata del-la voce, il capitano del Caspio chiese nuove a quell’al-tro. — Viva Pisa e i Visconti!» fu la risposta; indi, collaconcisione e il disordine solito in tali incontri, informòcome Pisa si fosse congiunta coi Visconti di Milano, eche dal suo porto continuamente traversavano legni allaSardegna, ove Luchino, per recente eredità, possedeva ilgiudicato di Gallura.

— Pisa allearsi col Visconti! (esclamava qualche Pi-sano) Sarà la società della pecora col lupo.

— Non dartene gran pena (gli soggiungeva un secon-do). È un cavallo bizzarro che per poco sopporterà ilfreno; e sbalzerà di dosso il cavaliere. La servitù non èper le città ricche di marittimo commercio.

— Per me (diceva il capitano, contemplando con oc-chio indifferente quella nave, i passeggieri, il mare, ilcielo), per me, comunque stia la patria, poco me ne cale.Vivendo sempre sulla nave, io mi sento libero come l’e-lemento che trascorro».

Questi e simili commenti facevansi a quella notizia;ma per Francesco riusciva la più spaventosa che in quelmomento potesse ascoltare. Trattavasi nulla meno chedella vita sua e del figliuolo, perdute irreparabilmente sedesse in quelle navi. Bianco dunque come le vele delsuo bastimento, coll’ansietà che gli cagionavano l’istin-to della vita e l’amore di padre, cominciò a supplicare ilcapitano perchè al più presto desse la volta indietro etornasse in Francia, esibendogli pagare, non che le spese

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del tragitto, ogni danno che ne venisse a lui e agli altrinaviganti, e una grossa mancia per soprappiù; ne desta-va anche la compassione col palesare chi fosse, perchèsi trovasse colà, a quel pericolo esposto; prendesse pietàdi quel fanciulletto innocente. Udiva il capitano quelleragioni, quelle preghiere, seguitando a scompartire leocchiate fra il supplicante, i passeggieri, il sole, l’acqua;poi, stringendosi nelle spalle, disse: — Di tutte cotestefazioni io non m’intrico: io sono libero come il mare.Ma devo stare agli ordini di quel signore».

E accennò Ramengo, il quale bruscamente gli intimò:— Il vostro dovere, e innanzi!»

Che benda squarciarono tali parole d’in sugli occhidel Pusterla! Ragioni, suppliche, lacrime, che non ado-però a intenerire quell’atroce? Per quanto gli repugnassel’animo del piegarsi, di cui quel momento gli rivelavatutta la turpitudine, pure, nulla credendo sconvenevole aun padre, fino ai piedi gli cadde, e, unito al suo fanciul-lino, ne abbracciò le ginocchia, gli rammentò le antichebenemerenze di sua famiglia, il nome di Rosalia. — An-che voi dovete intender che cosa sia l’amor paterno....voi ancora un momento foste padre....»

Il satanico riso che guizzava sulle labbra di Ramengonel contemplar l’umiliazione, nell’udir le preghiere delsuo nemico, e nel sentirsi determinato a non esaudirle, siconvertì in un ruggito feroce a queste ultime parole, e,— Padre ancora e marito sarei, se tu non eri, o maledet-to!» esclamò, lanciando con un gesto brutale lontano dasè il supplicante. Poi soggiungeva: — Ma ringrazio Dio

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che almeno ho gustato la consolazione di veder tu purestraziato in quell’affetto onde hai privato me».

Non poteva il Pusterla comprendere del tutto il sensodi queste parole: la beffarda e insieme atrocissimaespressione del ribaldo, non consentiva di chiederne unaspiegazione; e poi il sentimento di sua dignità era rinato:e colla superbia che sente l’uomo leale allorchè si trovacalpestato dall’infame, voltò dispettosamente le spalle aRamengo, e, senz’altro più dire se non: — Mio poveroVenturino!» abbracciatosi al suo fanciullo, sedette soprala coffa in calma discorata. I passeggieri non restavanoindifferenti a quel patimento, alcuno interpose parolapresso Ramengo, e non profittò più che la voce di unmendicante sulla borsa di un avaro; i Pisani volevanopersuadere il Pusterla a non temere, che, essendo inmare, su libera nave, non correrebbe rischio di sorta; al-tri gli profondevano consolazioni generiche e triviali,giacchè gran filosofi sono gli uomini nel sopportare ledisgrazie altrui e nel consolarsene! Scampati dai perico-li, vicini a uscire dalle noje della lenta e discomoda na-vigazione, allettati da un bel giorno, da un prospero ven-to, dall’aspetto del lido, della patria, la salutavano ralle-grati.

Solo il Pusterla, tenendosi sulle ginocchia Venturino,sospirava in silenzio, curva la testa sulle spalle del fi-gliuolo, il quale, strettegli le braccia al collo, piangevadirottamente.

Oh! i pericoli, quando sopravvengono all’uomo liberodi sè e delle sue membra, che può volere, può tentare

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uno sforzo onde svellersi dalla penosa situazione, se nonaltro, coll’avventarsi in una peggiore, pare che raddop-pino il coraggio. Ma qui, sopra una nave, coll’inevitabi-le aspetto delle medesime cose, delle persone medesi-me, vedersi oncia ad oncia avvicinare al precipizio, enon poter tampoco allungare un braccio al riparo! Dehcome allora invocava la tempesta, paventata i giorni in-nanzi, avesse anche dovuto in quella perire! Ma calmoaffatto era il cielo, e se non fosse stato l’argenteo solcoche la chiglia lasciavasi dietro, sarebbesi potuto credereil legno fermo in un mare di cristallo; la tinta carica del-la volta aerea confondevasi col colore dell’acqua; il solefaceva scintillare mille vaghi splendori sulla liquida pia-nura, simili a diamanti che tempestassero la sciabola diun guerriero.

Il Pusterla girava gli occhi per l’orizzonte, cercandouna nube, una vela, un qualunque oggetto ove aggrap-parsi con un resto di speranza, e non vedea nulla: gli al-zava verso la Meloria, verso quelle coste d’Italia che ditanto desiderio avea desiderate, verso i monti lucchesi...Per vederli da lontanissimo, o piuttosto per indovinarli,s’era tante volte arrampicato sui più erti picchi di Fran-cia, stando ad osservarli col mesto tripudio d’un ritornopiù ambito che sperato. Ed ora che se gli facevano sem-pre vicini, gli osservava collo spavento di chi, in bujanotte smarrito per deserta campagna abbia seguitato unlume lontano colla fiducia che gli segnasse un ricoveroamico; e si trova condotto invece ad una spelonca d’as-sassini.

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La nave intanto era stata veduta, e di dietro la Caprajasbucarono due galere a remi battenti, movendosi allavolta di essa: la vipera viscontea sciorinata in penna nonlasciava dubitare di chi fossero. Il Pusterla le guardò av-vicinarsi; ardì gettare ancora un’occhiata sopra l’infameRamengo, ma senza trovargli in viso che una scelleratacontentezza: onde per disperato si aggruppò ancora colsinghiozzante figliuolo, e chiuse gli occhi aspettando l’i-nevitabile destino. Così prostrossi boccone nella sua pi-roga il selvaggio indiano, che sentivasi irresistibilmentestrascinato verso la cascata del Niagara.

Non appena i due legni si furono avvicinati, chiama-rono il Caspio all’obbedienza, ed ammainate le vele, sivenne all’arembaggio. Il capitano Samminiato richiese inomi dei passeggieri; e Ramengo traendosi innanzi, eaccennando quel pietoso gruppo, esclamò:

— Questo qua è Francesco Pusterla».Colla turpe soddisfazione della sbirraglia quando

giunse a ghermire la preda, si lanciarono tosto i soldatiaddosso all’infelice, la cui unica voce fu ancora, — Miopovero Venturino!» e caricato di catene, lo gettarononella stiva e seco il figliuolo; — colà almeno gli fu toltol’aspetto della ribalda gioja di Ramengo.

L’oro che seco portava il Pusterla divenne bottino deltraditore, il quale non si fidò di rimettere il piede inPisa, ricordevole dell’avventura dell’altra volta, e do-mandò al capitano del Caspio che lo tragittasse a Geno-va. Questi, volendo (ripeteva) esser libero come il mare,pose a terra il suo carico, e tosto diede la volta per dove

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Ramengo gli comandava. Il quale poi sbarcato, a grangiornate come chi reca una prospera novella, attraversòla Liguria e il Monferrato, toccò a Vigevano i confinidel Milanese. Quivi però dovette subire una contumacia,essendo allora sospetticcio di peste, e massime nella To-scana, ove la fame dei due anni precedenti sviluppò lacontagione in modo che la sola Firenze perdette in quel-l’estate quindicimila cittadini. Veniva come un tremendoforiero di quella che infierì sette anni dopo; intendo latroppo famosa, descritta dal Boccaccio, che sterminòcentomila persone in Firenze, ottantamila in Siena, qua-rantamila a Genova, settantamila a Napoli, fra Sicilia ePuglia cinquecentotrentamila, restando alcune città,come Trapani, affatto disabitate; e perdendo tutta Euro-pa tre quinti degli abitanti. Era ben altro che il colèra.

In quell’occasione valse la severità di Luchino, checon rigorosissimi cordoni tenne lontano l’imminente fla-gello. Per tanto Ramengo dovette durare la quarantena aVigevano, poi per lo stupendo castello di Bereguardo,fabbricato dai Visconti, passò sopra il ponte gettato sulTicino, lungo un miglio, largo e sfogato a segno da po-tervi sopra correre tre carri di fronte e sotto le navi piùgrosse; con ponti levatoj in capo, e due rôcche di legnoassai forti in ordine di battaglia. Benchè fosse uno deibei lavori architettonici, non credo che Ramengo v’ab-bia posto gran mente; e tanto meno, nel venire da Ab-biategrasso a Milano lungo il Ticinello, avrà consideratol’ardimento d’una piccolissima repubblica, che osavatentare una tanta opera, qual era condurre artifizialmente

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il Ticino per trenta miglia fino alla città. Entrò in Milanoper la stessa porta Ticinese, dond’era entrato quell’altravolta colla parata trionfale; passando dalla Palla, diedeun’occhiata al palazzo del Pusterla, ove in benemerenzaabitava il capitano Lucio; e coll’aria trionfale di chi sen-te d’avere compita una bella, se non buona impresa, sipresentò alla Corte di Luchino.

Il buffone Grillincervello stava nell’anticamera inmezzo a camerieri e donzelli e paggi, insinuando la mo-rale, e additando i buoni esempj con certe sue storiacce,ond’era provvisto a dovizia. — E sicchè (diceva) nonvedendo ella altro modo di trovarsi col ganzo, ed eglinon rifinendo di richiederla, gli fece intendere che, la talnotte, entrasse nella camera dove essa dormiva col mari-to, e si facesse alla proda del letto, dalla banda di lei. —Ma, se il marito sente, e m’accoppa» diceva il baggiano.Ed ella: — Portate in mano un par di guanti, e se vi ac-cadesse di esser sentito, scoteteli, imitando il batter delleorecchie di un cane. Egli vi crederà il bracco suo fidato,che cuccia sempre nella stanza vicina. — Non occorrealtro; e l’uomo piano piano, quatto quatto, entra fin altalamo beato. Un’anima di sambuco di quella sorte, pen-sate che paura! che battisoffiola! Moveva i passi comecamminasse sulle uova; teneva il fiato, da gonfiarecome una bôtta: ma quando si dice nascere disgraziati!il diavolo ci mise la coda, e ser colui urtò della maledet-ta nella cassapanca da piedi della lettiera. Il marito ode:— Chi è là? e il prode, che non aveva pelo che non glitremasse, comincia a dimenare i guanti. L’argo ripete

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l’intimata, e l’altro a scuoter più forte. Il marito balzadal letto; e il gaglioffo, vedendo che l’agitare dei guantinon bastava, credette far l’effetto coll’aggiungere, conuna gorgia da Cittadella, Sont el brach»29.

Uno scoppio di risa vive e sguajate secondò ed inter-ruppe quel racconto; nel più vivo delle quali appuntoecco entrare Ramengo. Tutti gli sguardi si volsero a lui,come al comparire d’un resuscitato; Grillincervello,troncata a mezzo la favola, tese il dito verso lui con unoh lungo e strascicato, fece due capriole, ed entrato daLuchino roteando il suo berretto e facendo mille attuccida babbuino, — Marcia, sparisci e torna (esclamava).Quanto mi pagate, ed io colla mia polvere di biribara, vifo comparire qua in petto e in persona Ramengo da Ca-sale?».

Luchino non mostrò nè meraviglia, nè piacere; giàl’aspettava, onde asciutto rispose: — Entri.

— Entri qui, o in carbonaja?» domandò Grillincervel-lo meravigliato.

— Qui, qui,» replicò Luchino.— E ch’io vada ad avvertire mastro Impicca di pron-

tare i ferri del mestiere?— Meno scene», l’interruppe Luchino, bujo come un

diesire: e Grillincervello, che sentivasi ancora del le bôt-te rilevate in quell’ultima lezione alla rocchetta di portaRomana, non istette a farselo dire due volte; e introdottoRamengo, diceva agli scioperoni dell’anticamera: —

29 Sono il bracco.

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Non avevo mai visto i tordi andare a cena col cacciato-re».

Il vile cortigiano espose a Luchino di punto in puntotutta la sua involtura e l’iniqua trama, mettendo nel rac-conto la furfantesca soddisfazione che gli scaltriti usanonel narrare come trappolarono un semplice ed innocen-te. Luchino gli attendeva colla severità consueta, e s’av-vicendavano in lui la contentezza della riuscita, e l’ine-sauribile disprezzo che tutti provano pei traditori e perle spie.

— Ed ora (soggiungeva Ramengo dopo finito) se hoben meritato della vostra magnificenza, permetta ch’iola supplichi ad impegnarmi di nuovo la fede sua per lapromessa impunità da qualunque delitto, sì a me, sì amio figliuolo.

— Dove avete cotesto figliuolo?» chiese Luchino.— A tempo la vostra magnificenza il saprà; ed io con-

fido potrà farsi al potere di essa robusto sostegno, quan-to volonteroso fu il genitore».

Tratta di seno la pergamena dell’impunità, già spedi-tagli, come altrove abbiamo veduto, fece che Luchino viapponesse di proprio pugno la firma. Conteneva essache a Ramengo da Casale e a quello che egli indichereb-be per suo figliuolo, fosse conceduta intera impunità;col solito ordine a tutti gli ufficiali di rispettare quellaordinanza. Ramengo teneva in serbo questo colpo estre-mo per mostrare all’esacerbato Alpinolo quanto l’amas-se, e mitigarlo, e cancellato di bando e di condanna re-stituirlo in patria agli onori ed alle ricchezze.

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Ma ad onori e ricchezze aspirando, prese egli a mo-strare a Luchino la grandezza dei prestatigli servigi:come per questi si trovasse, non solo scompigliato nelleproprie faccende domestiche — tacque della buona pre-sa fatta sopra il Pusterla, — ma disonorato in faccia deicittadini: qualora se ne sapesse: onde era del decoro delprincipe di conferirgli un grado, un impiego che lo tor-nasse e mantenesse in riputazione e in grado di conti-nuargli i servigi. Nol lasciò finire Luchino, ed alluman-dolo biecamente, con atto sprezzante ed iracondo, getta-tagli ai piedi una borsa di denaro, — Tieni (gli disse) ipari tuoi si pagano con argento e non con dignità»: e glivolse le spalle, nè più ne volle udire.

Quanto sia al povero nostro Pusterla, non tardò moltoad arrivare anch’egli: e il popolo corse a vedere quel fa-moso capo di ribelli, quel che voleva mandare Milanosottosopra, disfare lo Stato e ristampare la religione.Esso pure fu rinchiuso nella torretta di porta Romana;dove appunto lo vide entrare la sciagurata Margherita,che noi lasciammo svenuta a quella vista. Al male vo-gliamo credere il più tardi possibile; ed essa, la infelice,s’ingegnava di non dar fede ai proprj occhi: — Vedendocosì a spicchio, mi sarò ingannata. — Sarà una illusionedell’amore e del timore». Ma ogni dubbio le fu tolto ungiorno, che il carceriere Macaruffo entrò nella sua se-greta con un portamento di manierato sussiego, e con unviso schizzinoso, sciamando: — Che tanfo qua entro!Che odor di chiuso! Perchè non date aria all’apparta-mento? Non vi si regge»: e facevasi vento con una pez-

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zolina di seta. La Margherita fu presta a riconoscere ilraso, sul quale ella aveva incominciato a ricamare unamargheritina, che poi non potè finire: quel raso cheBuonvicino aveva tolto dalla sala nell’ultimo giorno chevi entrò, e dato in carissimo dono al Pusterla, il quale re-collo sempre con sè. Ora nel ravvisarlo, la Margherita siscosse tutta, come alla memoria di soavi affezioni, dicari giorni, dell’ultimo istante di sue gioje tranquille: e— Donde aveste quel ricamo?» domandò con ansietà al-l’aguzzino.

— Che? vi piace?» le rispose il ghiotto, scherzosa-mente sciorinandoglielo sopra gli occhi. — Me l’ha datoun altro camerata, alloggiato qui presso, e che voi cono-scete.

— Franciscolo?— Brava l’indovina! il signore, signorissimo France-

sco.— È veramente lui!» proruppe essa, piuttosto escla-

mando fra sè, che non interrogando quel tristo, il qualeseguitava:

— Lui appunto: ne dubitate? credereste non ci capiti-no che dei vestiti di frustagno? Guardate. Sta sotto aquesta chiave ch’è qui!

— E il figliuolo?— Oh anch’esso, s’intende. Sarebbe una barbarie se-

parar il figliuolo dal genitore».Già, per quanto s’industriasse di far inganno a sè stes-

sa, la Margherita era persuasa anche prima di aver quivicino i cari suoi; e lo sapeva la desolata stanza, riem-

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piuta, quei giorni, di gemiti senza consolazione; ma l’u-dirselo ora assicurare, ma il vedersi dalle schernevoliguise di quel figuro strappato fin l’ultimo filo di speran-za e di illusione, faceva su lei quel che fa sopra un reol’udirsi leggere la sentenza di morte, benchè già primane conosca il tenore.

— E (seguitava colui) m’ha dato questo fiore; ve’come è bello! perchè vi saluti voi e ve lo faccia vedere.

— Sa egli dunque che io sono qui?» domando la Mar-gherita, ravvivando la voce, affievolitale da quello strin-gimento di cuore.

— Se mi disse che vi salutassi, e che....— E che altro mi manda a dire?— Oh, vi manda a dire delle altre pappolate... uh! tan-

to da non venirne a capo dentr’oggi. Ma non me le ri-cordo più.

— Deh! procurate ridurvele alla mente», diceva Mar-gherita stendendo le mani giunte verso il torto ceffo dicolui, in atto di tale pietà, che avrebbe commosso le pie-tre. Chi sa?... forse le doveva dire cose, che importasse-ro alla, vita di entrambi; se non altro, una parola d’amo-re da colui, al quale tanto maggior bene voleva dopo chequel ricamo le mostrava quanto viva e delicata memoriadi lei serbasse. Ma quel rozzo, digiuno di ogni sentirgentile, con un gesto espressivo le rispondeva: — Ri-durmele a mente? Non avrebbe ella, signora mia, qual-che cosa allato per ajutarmi la memoria?...

— Nulla; buon Dio! nulla. Voi lo sapete. Tutto quelpoco che mi era rimasto ve l’ho pur dato, tutto, tutto.

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Che cosa mi avanza più se non questo trito vestire?Deh! una tal grazia vogliate farmela per carità. Oh, chisa che un giorno io non torni in grado di compensarve-ne? Se no, ve ne rimeriterà Iddio».

E blanda, supplichevole, appoggiando le belle manisulle spalle di colui, tentava piegarne l’impassibile cupi-digia, ma non faceva sovra di esso maggior colpo che ilsospiro di un vento di aprile sopra una montagna di mar-mo. — Che Dio? che diavolo? che carità? che compen-sare? (egli saltava su). La carità, io son uomo da ricever-la, non da farla. I chi sa e le promesse di là da venire, ilbettoliere non le scrive. Alle corte; o avete qualcosa dadarmi, e schiodo; se no, statevi colla vostra curiosità incorpo, finchè non ve lo dica io».

E poichè essa non aveva proprio nulla sottratto all’in-gordigia di lui, nè potea dargli altro che lacrime, che unaaccorata supplicazione, e inginocchiarsi a pregare il Si-gnore, esso, rizzato un muso duro, le voltava tanto dispalle, e facendo sonare più forte i chiavacci nel rinchiu-dere, si allontanava pel lungo corridojo cantazzando,finchè la Margherita più altro non intese fuorchè la sen-tinella, la quale di e notte passeggiava dinanzi alle pri-gioni, alternando due passi uniformi, come senza volon-tà, quasi due pesi metallici che a vicenda battessero sul-l’ammattonato.

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CAPITOLO XVIII.IL SOLDATO.

Sdrajone sul pavimento se ne stava il carceriere Ma-caruffo nel corridojo delle prigioni, facendo sue prove diappetito sopra un tozzo di pane inferigno e una fetta dilardo, e succiando tratto tratto da una brocca di vino,che con affettuosa devozione tenevasi fra le gambe, di-stese sul terreno. Era notte e silenzio, nè altro splendevase non un fioco lampione sospeso alla volta e una lanter-na sorda deposta a manritta di Macaruffo, i cui raggi loilluminavano a mezzo, e venivano riverberati da unmazzo di chiavi, pendentegli dalla cintura, e delle qualisi sentiva lo sgarbato tintinnio ad ogni volta che eglidesse. Una sentinella passeggiava da capo a fondo, taci-turna, facendo dei monotoni passi rimbombare sorda-mente il concamerato corridojo, poi si fermò accanto alcarceriere, e impugnata con ambe le mani l’asta dellalancia all’altezza della testa, se ne fece puntello alla per-sona, alquanto incurvata verso il Bergamasco, al qualedrizzò così la parola:

— Compare, la tua cena è parca da senno.— Pane d’un dì e vino d’un anno (rispondeva l’altro).

Ce ne fosse sempre, col caro d’oggidì! Tutto costa unocchio, e nel mestiero si fila sottile. Maledetta sia l’ora e

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il momento che scelsi questo mestiero! Fare il cane tuttoil giorno, ingegnarsi di tormentar più che si può genteche non m’ha offeso per nulla: e in pagamento aver dalitigare il pane, e in tasca neppur tanto da far cantare uncieco. Uf!»

E qui tirava un buon fiato di vino, poi, forbendosi labocca col dorso della sinistra, soggiungeva tentennandoil capo: — Se non fosse... se non fosse....

— Ma se tanto ti pesa codesto arrabbiato mestiero,perchè non lasciarlo?» lo interrogava il soldato.

— Lasciarlo, eh? Mi fai ridere, e ho male. Hai un beldire tu che hai tutta la casa nella valigia. Ma di’ su:come si fa allora a mantener la moglie e una nidiata diragazzi e un’altra di vizietti? E mia madre m’ha fattoqui un osso, che, è inutile, non posso lavorare: mi famale: sarebbe un accopparmi. Ma che serve darsi dellescese di capo? Cacciamo i fastidj trincando. Mille pen-sieri non pagano un debito».

E tornava attaccar la bocca alla mezzina, poi ne offri-va al soldato con rozzo garbo, dicendogli: — To’, came-rata, tirane un sorso, chè il vino sbandisce le malinco-nie».

Quegli prendeva la brocca, ne gustava, o almeno viponeva le labbra, e, rendendogliela, — Dunque vuoldire che se tu trovassi da vivere altrimenti, lo faresti, eh?

— Se lo farei? e di che voglia! Non so qual altra vitanon durerei per abbandonare le chiavi, il nervo, i ceppi,i catenacci e il diavolo che se li porti! Qualunque vita,purchè non fosse quella manifattura del lavorare. Mi ter-

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rei di passeggiare tutto il dì nato a far la ronda, come te;andrei fino a Gerusalemme in ginocchio, quand’anchevi fossero cento miglia, perchè, vedi, io son mantello daogni acqua, purchè si buschino quattrini, e non vi si ab-bia a mettere la schiena.

— Ma dimmi, se nel tuo mestiero ti cascasse da gua-dagnare?...

— Guadagnare?... (domandava Macaruffo con ansie-tà) Guadagnar denari?

— Per esempio... (continuava il soldato) una cinquan-tina di fiorini d’oro?...»

Il carceriere guardò in faccia all’altro con un’aria diattonita mentecattaggine, poi diede fuori in uno scrosciodi riso sgangherato, come chi ne sente una grossa, edesclamando, — Sì! son lì che covano!» bagnatasi dinuovo la gola, porse il fiasco alla sentinella, dicendogli:— Bacia, bacia questa reliquia, che, a quanto vedo, ilcervello ti comincia a ballare la frullana, e così finirai didarvi volta.

— Non do la volta per niente, (ripigliò l’altro, ricu-sando di bere) ti parlo del miglior senno», e cacciò amano una borsa di pelle, e svolgendola, fece scintillareallo sguardo del carceriere un bel marsupio di oro. Stu-pefatto, questi balzò in piedi; di tratto l’occhio suo, luc-cicante per quel che aveva bevuto, lo divenne ancor piùper la maraviglia, e, presa la lanterna, ne fece rimbalzarei raggi sopra quei ruspi, che il soldato gli faceva scorre-re davanti per metterlo in maggior succhio; e, col ditoteso verso di quelli, — Tu, (esclamava) tu, povero sol-

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dato, tanta grazia di Dio? Deh, che mestier grasso è laguerra! Chi più ruba è più bravo. Quello doveva esser ilmio pane. Viver di robatura non di limatura. Se però nonvi fosse quell’appendice del farsi ammazzare...

— Questi (replicava il soldato con una bizza mal re-pressa) questi non sono rubati, ma di buon acquisto. E...e se fossero tuoi?

— Se fossero miei? (rispondeva l’altro, sempre coltono dello stupore). Se fossero miei, domanderei se Ber-gamo è da vendere.

— Ebbene, (continuava l’altro) prima di domattinapossono diventare belli e tuoi, e senza una fatica almondo.

— Che celii?... Ma per guadagnarli, di’ su, che s’ha afare?

— Nient’altro (ripigliava il soldato abbassando viepiùla voce) se non tirar un catenaccio, e lasciar andare digabbia due uccelli.

— Zt!...» fece il carceriere, premendo la mano soprala bocca della sentinella. Poi, con un tono serio e pro-fondo, — Che? come? due carcerati? Poffar mio! Came-rata, so che tu burli».

Posò ancora in terra la lanterna, borbotton borbottone;si tornò a sedere dinoccolato presso di quella; pensò, vibevve sopra, e tacque un momento.

Ma i fumi del vino facevano effetto: maggior effettofaceva il bagliore di quei zecchini, il quale, siccome av-viene a chi guardò nel sole, era rimasto fitto, indelebilenegli occhi a Macaruffo, che in vita sua mai non ne ave-

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va veduto altrettanti. Onde il soldato che, scontento delprimo tentativo, non però disperato, avea ripreso il rego-lare suo passeggiare, ebbe per buon augurio quando, altornargli appresso, Macaruffo, con voce più di rammari-co che di collera, rappiccò il discorso, dicendo: — Ma tipare? Lasciar fuggire due prigionieri! Domani si cerca-no: non vi son più. Ehi, Lasagnone, che n’è? — Illu-strissimo, io non ne so niente, io; proprio niente, in co-scienza. E lui: Fuor camicciuola: mettetelo sulla corda;e dalla corda alla forca. Cu cu! Avrei fatto la pannata aldiavolo. I denari va bene, ma la forca! Di me, mia ma-dre non ne fa più.

— Oh certo (soggiunse la sentinella affettando scarsointeresse per la cosa); certo, se tu fossi gonzo al segnoda lasciarti pigliare. Ma, pareva a me che con cinquantadi tali fratelli in saccoccia, vi fosse a far meglio che co-testa arte. — In quanto? in quattro ore tu sei ai confini;varchi l’Adda, ed eccoti a casa tua, sulle tue montagne,ove voglio chiamar bravi quei che ti verranno a rintrac-ciare. Tu rivedi la moglie, i figliuoli; rizzi casa: prendifigura di galantuomo in paese; fai collottola, e la sguazziin pace e trionfale».

L’altro teneva le pupille intente senza trar fiato, assor-to nelle belle fantasie che quelle parole e quei denarisviluppavano nel suo cervello, come in quello di unafanciulla le prime lusinghe di chi le parli d’amore. Poi,strette le labbra e scotendo il capo, esclamava: — Cam-pare da vivo e ben avere da morto, è pur bella cosa: nondice male, no, costui». Poi si tornava a tacere, a pensare;

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onde il soldato, che s’accorse di far breccia, rincalzavacosì: — Ma fai bene: sta a cotesto pane: chè, chi non saghermirla, non la merita. Mi ero figurato che a cinquan-ta di questi, guadagnati in grazia di Dio, tu non dovessitorcer il grifo. Tal sia di te. Questo tesoretto non mimancherà modo di goderlo, a me. Tu seguita a ugnerti ilmuso col tuo lardo, e se un bel giorno al signor Luchinosalterà la bizzarria di cacciarti fuor dei piedi, e tu, vec-chio e impotente a lavorare, colla moglie e coi ragazzi,per Dio! allora dirai: mia colpa».

E facendo sonare la borsa, se la rimise nella fusciac-ca, e continuò le sue volte innanzi indietro, ostentandopiù trascuranza quanto la cosa gli stava più a cuore, epiù sentivasi combattuto fra la voglia di rompere ilmuso allo sciocco montanaro, e la necessità di tenerbuono colui, e di star egli medesimo in cervello.

Tutto questo a Macaruffo pareva un sogno, e si frega-va gli occhi, quasi per accertarsi di essere ben desto, eche non fosse, com’egli diceva, uno scherzo del decottodi uva; e in tentenno fra la paura e l’ingordigia, l’andavalibrando dentro di sè. Alzossi; colle mani alle reni e lafaccia curvata, a guisa di un matematico che cerchi lasoluzione di un problema, si pose anch’egli a misurare ilcorridojo con certi passi disuguali, ora celeri, ora rallen-tati, secondo gli passavano i pensieri. Dapprima andavaa ritroso della sentinella; poi, come vide che questi nonrompeva il ghiaccio, se gli accostò:

— Ehi, camerata, chi avrebbero ad essere cotesti uc-celli da sgabbiare?»

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Il soldato, facendo maggiormente il fastidioso perchècapiva prender buona piega la faccenda, rispose:

— Mi piacque! Dal momento che non te ne senti,cosa accade far coteste none? Per iscalzare, eh, poi cor-rere a rifischiarlo? ma ti costerebbe salata!» e spalan-cando due occhi di fuoco, faceva colla labarda un gesto,del cui significato non si poteva dubitare.

— Chi? io la spia? nemmeno pel doppio oro di quelche hai tu allato. Di’, via; non istare sul tirato; toccalasu; ho forse detto assoluto che non volessi? parla dun-que. Chi sono costoro?»

Il soldato, accostandosi di più a Macaruffo, gli proferìall’orecchio: — Quel signore e quella signora là»; edaccennò le porte, sotto alle quali, uno dall’altra lontano,stavano rinserrati Franciscolo Pusterla e la Margherita.

— Capperi! (esclamò il carceriere) uccelli grossi.— O grossi o no, cosa fa a te? (ripigliava l’altro).

Quando tu sei fuori, tanto monta l’aver liberato costoro,come l’aver lasciato sgattajolare lo spazzaturajo, che fupreso stasera e uscirà domattina. Col divario che quelli,— già chi non muore si rivede, — quelli ti tratteranno inmodo che buon per te: il monello, all’incontrario, la pri-ma volta che gli darai nell’ugna ti farà la sassajuola».

Macaruffo ruminava un poco; indi tornava su: —Questa m’entra. Ma in fede mia, il denaro non m’indur-rebbe. Credi, se c’è persona per cui farei questo servi-zio, sarebbe quella signora appunto. È così buona! Io labistratto, l’aspreggio, che anche Giob rinnegherebbe lapazienza: ed essa mai un lamento; e mi saluta con corte-

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sia, e mi augura bene a me quand’io gliene fo delle cru-de e delle cotte.

— E poi è innocente (soggiungeva il soldato); inno-cente come una santa: è una mostruosa iniquità di quel-l’infame...

— Che innocente o non innocente? (l’interrompevaMacaruffo) I padroni san loro quel che va fatto, e noidobbiamo obbedire senza cercare il quinto piede nelmontone. Se la castiga così il signor Luchino, se le hatolto fino quei bocconi da paradiso, avrà le sue buoneragioni. E messer quell’altro chi è?

— Suo marito.— Lo so; ma che cosa ha fatto?— Niente, al par di lei; com’è vero che son battezza-

to».E Macaruffo sogghignando: — Qui dentro tutti ripe-

tono la stessa canzone. Se tu sentissi! ci pare il limbodei bambini. Ma appunto, anche un bambino egli tienecon sè.

— Sì, suo figliuolo; figliuolo di lor due.— Ma, vo’ dir io, e quello avrebbero a lasciarlo qua?— No, no: andrà con loro.— Ma tu hai parlato soltanto di due.— Oh quest’altro si sottintende: è la giunta sopram-

mercato» diceva con qualche impazienza l’uom d’arme.Ma l’altro: — Che giunta? che soprammercato? non ti-rarmi fuori altre gretole. Se ha da andarsene anche quel-lo, voglion esser altri quattrini. Dici poco? Tre personeper cinquanta fiorini! Fuori, fuori degli altri; già per

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quel che ti costano! O ripiega in altro modo: o se nonsai, buona notte; il cecino resterà in bujosa.

— Odi, mascalzone (ripigliava il soldato, frenando astento il parossismo di rabbia): cinquanta fiorini sonoqui, (e gli gettava la borsa): pel ragazzo guarda questo».E distendendo la mano sinistra, mostrava in dito un beldiamante. Il carceriere fissandolo, toccandolo, volgen-done le brillanti faccette diversamente alla luce, doman-dava: — È scaglia di bicchieri?»

Il soldato lanciò un potentissimo giuraddio, ed escla-mando a tutta voce, — Che tristo ti faccia Iddio! se tusapessi quant’è prezioso!» andò colle pugna sul viso delmalnato, e col calcio della lancia battè per terra con talforza, che Macaruffo diede un passo indietro, parandosicolle mani spiegate, e dicendo: — Ih ih, che furie! Ca-sca il mondo per così poco?»

L’altro, ricompostosi come chi si frena per necessità,e col nifo di un ragazzo che inghiotte una medicina di-sgustosa perchè sua madre lo assicura che altrimenti nonguarirà, ripigliava: — Questo anello, parola d’onore, valla metà di quei danari e d’avvantaggio. E te lo darò a tein prezzo del figliuolo, al primo uscir loro all’aria aper-ta».

Qui un gran ricambio di ma, di se, di objezioni, diconfutazioni; sinchè, per non ve l’allungare, il partito ela fuga e il come e il quando rimasero accordati. Il sol-dato baciò l’anello, e stette a contemplarlo fiso fiso. Ma-caruffo, strettagli la mano e detto — Birba chi manca»,sdrajatosi di nuovo sull’ammattonato, pieno d’allegrez-

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za e di buon pro ti faccia, al lume della lanterna guarda-va, pesava, numerava, fiutava persino i fiorini. Tantevolte il denaro corruppe per un delitto; allora corrompe-va per salvare degli innocenti: corruzione ancora: madel peccato non deve ricadere la sua parte sopra coloroche strascinano a commetterlo?

Qui però, o lettori, dovete esser curiosi di sapere chifosse il pietoso, che patteggiava lo scampo di esseri, peiquali, tristo il mio racconto se voi non aveste preso inte-ressamento.

Era Alpinolo. Vi deve ricordare come il lasciammo, inquella funesta sera del 20 giugno 1340, sulla via di Bre-ra, dove consegnò a frà Buonvicino il fanciulletto delPusterla. Scarico di quel sacro peso, allora primamenterivolse gli occhi sopra sè stesso; e non dubitando di es-sere anch’egli compreso nel novero dei proscritti, trasci-nato piuttosto dall’istinto della conservazione che da uncalcolo di salvezza, errò di via in via, di porta in porta, elungo tutta la mal compiuta mura, finchè là verso la roc-chetta di porta Romana, dove era un montone di mate-riali preparati per finire i lavori di questa, trovò modo diuscirne, siccome l’avevano trovato molt’altri dei perse-guitati e dei timorosi. Vedutosi alla campagna, si diede afuggire in arbitrio di fortuna e secondo il cavallo lo por-tava, come una cosa pazza. Pur troppo conosceva cheimmediata cagione di tanto disastro era stato lui medesi-mo; e per quanto gli paresse non averne colpa più che diuna imprudenza, colpa che la coscienza dei giovani cosìfacilmente si perdona; per quanto si industriasse di vol-

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tar ogni male a carico dello scellerato Ramengo, pure,se non un atroce rimorso, certo il più disperato furore lolacerava: bestemmiava tutta la razza umana, quasi fossecomplice delle iniquità del suo offensore: ma poi finivacol maledire sè stesso, perchè non avesse mai saputofrenare gl’impeti sconsigliati di gioventù, perchè nonavesse imparato mai la virtù che, diceva egli, è sommaed unica nella società, quella di simulare e dissimularecogli uomini, in cui non vedeva più che ingannatori edingannati, che oppressi ed oppressori, che il brutale do-minio della forza, o il maligno dell’astuzia.

Ben cercava consolarsi, rassicurarsi almeno, col ri-flettere a quanto aveva operato per salvezza del Puster-la, all’avere a questo serbato un figlio; che gli facesseconoscere la speranza, che l’attaccasse all’avvenire. Ma,come attribuire lode a sè stesso d’avere in parte medica-to una ferita, da lui medesimo aperta? — Non è il Pu-sterla tuttavia nel forte del pericolo? quando pure gli rie-sca di camparne, qual vita sarà la sua, esule dalla patria,profugo fra sconosciuti, diviso da ogni suo bene, dallaMargherita?... E questa? Sventurata! sa Dio quante am-basce, quanti patimenti! Ed io son qui, qui insicurezza?... No, no, si ritorni; dividerò con loro i guaj,di che sono stato o causa od occasione; andrò fuggiascocon lui: lo servirò da fante: gli parlerò della Margherita,gli conterò il mio fallo, diventerò per penitenza il suoschiavo: assisterò almeno alle sue miserie, come fui aparte di sue fortune».

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E così, senza dar lena o fiato al suo cavallo, voltava labriglia e si metteva a ritornare verso Milano. Schiarivagià l’alba: ed ecco altra gente venire di colà cavalcando.All’incerto crepuscolo li ravvisò: erano altri Milanesi, ocolpiti dalla persecuzione, o paurosi di quella, o goffa-mente vani di mostrarsi perseguitati. Aveano a capo Zu-rione, fratello di Francesco Pusterla, il quale ravvisatoAlpinolo, — Ehi! qual furia? dove si va? verso Milano?indietro, indietro.

— Perchè?» domandò il giovane con piglio fra torvoe smemorato, a guisa di persona destata per forza.

E l’altro: — Come? non sai nulla? tanti arresti...— Li so pur troppo!» esclamò Alpinolo.— Tu avevi entratura colla casa nostra; non la campe-

resti netta. La città è chiusa; drappelli di soldati battonola campagna su tutte le direzioni. Indietro con noi.

— E il signor Franciscolo?» proferì Alpinolo, più peruna riflessione sua che per una domanda ad altrui.

— Non si sa: è scappato; lo raggiungeremo.— La sua signora?— L’hanno pigliata».Se sapete come accori l’udirci assicurare da altri di

una disgrazia, di cui pure siamo certi, non vi stupireteche Alpinolo, a questi detti, si scotesse da quella speciedi sonnambulismo, e urlando, e cacciandosi le mani fra icapelli prorompesse: — Maledetta spia!

— Oh sì (entrava a dire Ottorino Borro). Non può es-sere stato altri che qualche infame spione. Ma...

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— Ma non andrà a Roma a pentirsi», l’interrompeva-no gli altri in coro; e ruminavano chi potesse esser co-stui, senza però nè indovinare nè darvi appresso; e giu-rando di fargliela pagare. Pronta allora come un vendi-catore, insistente come un rimorso, affacciavasi ad Alpi-nolo l’idea del suo peccato: e che colui che maledivanoera lui appunto; e perdeva il coraggio di riferire come lacosa fosse passata. Tutti avrebbero inteso la sua colpa;pochi udita, nessuno accettata la scusa.

Persuaso dalle loro istanze, e comprendendo come ilsuo tornare sarebbe, non solo inutile, ma anche dannosocrescendo i testimonj e le vittime, si accompagnò colTorniello, con Maffino da Besozzo, con Ludovico Cri-vello e cogli altri foruscenti.

Ma da una parte quei fuggiaschi, per cacciare l’incal-zante pensiero di quanto abbandonavano o perdevano,volentieri cercavano ogni occasione di spassarsi. Ben-chè si trovassero ancora su terre viscontee, la tirannidenon faceva sentire il suo maligno influsso così lontanoda sè, nè soffocava i buoni frutti della primiera libertà;incontravano cuori amorevoli, gente cortese, ospitale,che gli soccorreva d’ogni loro bisogno, li compativa, edajutava come potesse. Deposto quindi ogni timore, cer-cavano conforti ai casi loro col bagordare sulle bettole,tentare le fanciulle, mescersi ai giuochi nelle borgatedove arrivavano. Del che li disapprovava apertamentechiunque avesse fior di senno, e principalmente Maffinoda Besozzo, che ripeteva doversi acquistare credito allapropria causa, e chiarire l’ingiustizia degli oppressori,

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con un dolore decoroso, col mostrarsi allo straniero de-gni dell’amore dei buoni e superiori all’odio dei ribaldi.Ma un rabbioso dispetto ne provava Alpinolo, cheavrebbe voluto vederli tutti desolati e sempre colla lacri-ma sugli occhi, l’imprecazione sulle labbra. Anche illoro frequente augurare ogni mala ventura a chi avea ca-gionato tutto quel disastro, era un martoro insoffribile algiovane, talmente che più non potea vedersi fra loro.

Una mattina, cerca, aspetta, più non trovano Alpinolo.— Ove sarà andato?» uno domandava all’altro, e nessu-no sapeva rispondere: onde, persuasi che, per qualche-duna delle sue stravaganze, avesse preso altro partito aicasi suoi, seguitarono la strada, e passarono in terre si-cure.

Imperocchè quello sminuzzamento d’Italia, che sem-pre di tanto pregiudizio riuscì al suo politico ordinamen-to, di qualche vantaggio tornava a chi fosse costrettosottrarsi alle persecuzioni, offrendogli a pochi passi dal-la patria un asilo, salvo almeno dalla prima furia, e sin-chè il persecutore non avesse tempo di preparargli insi-die anche colà.

Alpinolo, scostatosi da loro con orribili pensieri per latesta, si avviò lunghesso il Po, verso i luoghi dove aveapassato la sua prima fanciullezza. Quante care immaginigli destava in mente il rivedere quei luoghi! immaginiplacide, serene, come son quelle dei primi anni: trastullipuerili; quiete cure attorno a colui che chiamava padre,ajutando a distender le nasse, a mettere giù le insidie aipesci, a cercare vermicciuoli da infilare su la lenza: im-

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magini a cui aggiungeva una solennità profonda il bujodella notte che tutt’intorno taceva, e che formavano, dehquale contrapposto collo stato presente di lui, or che tor-nava reo di tanta colpa, abbominevole altrui, esecrabilea sè stesso.

Quali accoglienze avesse alla capanna dei mugnaj loudiste già raccontare da Maso a Ramengo. In quel pic-colissimo mondo era stato un grande avvenimento lapartenza di Alpinolo, era un grandissimo il suo ritorno;onde tutti, Alpinolo qua, Alpinolo là; e la gioja e le ca-rezze loro e fin il tripudio del cagnuolo, avrebbero im-balsamato l’animo di esso, ove meno profonda ne fossestata la piaga. Egli, traendo tutto a suo tormento, —Ecco! (diceva) qui tanto tripudio pel mio ritorno; tantodisgusto quando scomparirò: e laggiù in quella fogna dicittà, spariscono a quel modo tante persone e tali, e po-chi lo sanno, e meno se n’accorano. O gente, gente!Davvero somigliante all’erbe, che una per una sono fre-sche e verdi, ammucchiate fermentano e imputridisco-no».

Abbiamo già detto altrove siccome colà lasciasse ilcavallo, i denari, e fin quell’anello che teneva caro sopraogni cosa, come unica eredità e memoria de’ suoi geni-tori, e che a sè stesso avea giurato di non levarsi di ditose non per l’ultima cosa di questo mondo. E per l’ultimacredeva egli in fatto abbandonarla, giacchè il suo divisa-mento era di uccidersi, per finire a questo modo gli spa-simi della sua delirante volontà.

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Con tale proposito, scese al margine del fiume, colàappunto ove gli narravano che la prima volta avea presospiaggia semivivo con sua madre: e dove poi cresciuto,avea piantato una croce sopra il cadavere di essa, edu-candovi fiori all’intorno. Ora i fiori erano appassiti; lacroce stessa, battuta dal vento, era crollata. Con mortalescoraggiamento stette a contemplarla Alpinolo, poi af-fissossi al fiume, coll’occhio cristallino e incantatod’uomo senza speranza, e proruppe: — Deh perchè nonmi diede sepoltura quando appena nato m’accolse? Al-meno sarei morto innocente e senza tanto peso d’affan-ni... e di colpe; senza conoscere gli uomini... in gremboa mia madre! Oh madre, madre mia! Aver una madre, unpadre, qual consolazione in terra maggiore di questa?Ah! ella è morta, e chi sa quanto sofferse. Ma mio pa-dre... perchè nol vedo, nol conosco, non gli parlo unavolta? una volta almeno non posso dirgli, Padre mio?Oh questo solo basterebbe a innondare di dolcezza unavita, di cui non ho assaporato che il fiele. Mio Dio! sesiete in cielo, se ascoltate il pregare degli uomini, fatemivedere una volta mio padre; un solo momento, e di piùnon vi chiedo. — Ma... che importa a me di mio padre?che m’importa di nessuna cosa terrena? Tutto è finito.Quest’acqua, ecco il mio rimedio e la mia speranza: mifu culla, mi sia tomba. Fra un momento si avvolgerà so-pra il mio capo, ed avrà spento quest’incendio. — Ad-dio!»

Volgevasi a dare un’estrema occhiata al rozzo casola-re dei quieti mugnaj. — Fossi almeno figliuolo di quelli!

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Avrei padre e madre. Scarso di speranze e di patimenti,stando al bene e al male con loro, sarei vissuto della vitaoscura e vegetativa degli operosi, che nascono e muojo-no ignorati dal mondo che nutriscono. Povera gente!così buoni! Il cavallo e i denari miei li rifacciano dellespese per me sostenute... Ecco! ho imparato anch’io dalmondo a credere che tutto si compensi a denaro, a ri-spondere denaro ove si domanda sentimento e cuore.Deh almeno ignorino per sempre la mia fine».

Disse, e si slanciò nel fiume. — O giovani! a tale pas-so lo strascinava qual altra cosa se non l’imprudenza?

Nessuno lo vide, eccetto il fido cagnuolo, che si posead urlare, a guajolare, correndo e ricorrendo dal mulinofino alla riva: l’acqua si chiuse sopra di lui, poi traspor-tatolo assai più in giù dal luogo ove erasi tuffato, lo riso-spinse a galla fra un istante. Ma quell’istante avea fattorisorgere in Alpinolo l’amore della vita e una risoluzio-ne istintiva di trarsi in salvo. Espertissimo nel nuoto,ben presto si ridusse all’altra riva, dove spossato si gettòsulla ghiaja, flagellata dalle onde; ed un sopore di stan-chezza, somigliante al sonno, lo prese. Quando l’animatornò agli uffizj suoi, era pentito del tentato suicidio. —Perchè dare altrui il gusto di avere una vittima di più, unnemico di meno? E quanto al castigare me stesso, il mo-rire che è mai? Un momento. Il peggio è vivere: qui stala forza, qui il coraggio: non nella viltà di sottrarsi a unpeso che ci aggrava.... Ed io vivrò, vivrò pel mio tor-mento, ma anche per la punizione di quello scellerato».

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Così rasciutti al sol di luglio i panni, unico avere ri-mastogli, per trovare come pascersi, su quelle prime siallogò presso un contadino, aiutandolo nei sudati stentidella segatura. Con due braccia di quella forza e una talpertinacia di volontà, era presso a tutti il benvenuto. Giàudimmo annunziare come si fosse imposto il castigo dinon profferire sillaba per sei mesi, nè occorre vi dica seegli l’osservasse a puntino, e se questo il facesse piùcaro ai villani, sì per compassione di uno sgraziatomuto, sì perchè non perdeva tempo nel chiaccolare. Cosìmise il collo sotto, tirando la vita l’un dì per l’altro, fin-chè l’ottobre terminò i lavori campestri: ed egli, ajutan-dosi alla meglio, riprese la via, tanto che si avvenne inaltri profughi lombardi, i quali lo tolsero seco, e non sa-pendosi spiegare quest’improvvisa infermità di lui, lo ri-misero in assetto di panni, e il tramutarono a Pisa. Quivia suo tempo ricuperò la favella con meraviglia di tutti, esenza che mai ne spiegasse la cagione. Già ne fu narratocome a Pisa succedesse il suo incontro con Ramengo, ecome questo gli sfuggisse. Tristo e peggio contento chemai fosse, Alpinolo per tutti i giorni successivi non sidiede pace, ricercandolo in ogni canto, appostandolo sututte le vie: ogni giorno più volte ritornava alla bettolad’Acquevino a ricercarne: ma questo gli rispondeva: —Cosa credete, che Pisa sia un orto? bisognava mettergliun grano di sale sulla coda». In fatto Ramengo gli sfug-gì pur troppo, ed egli si rimase col suo farnetico.

Ma sebbene quella città si governasse liberamente, edesse ricetto a questi e ad altri dei tanti che si sottraeva-

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no ai tirannelli, sorti in ogni paese d’Italia, non è peròche vi fossero i ben veduti. Da antico, in cuore di questipoveri Italiani sono radicati orribili rancori fraterni, chefanno riguardare come straniero chiunque nacque di làdal monte o dal fiume ond’è circoscritto quel palmo diterra che chiamano la patria: rancori che li fecero più in-gordi della vendetta che gelosi della sicurezza; ostinati avolere schiavi pericolosi coloro che avrebbero potutoprovare fedeli e soccorrevoli amici; e che li spinsero adisputarsi a vicenda un dominio ed una libertà che nondoveva a nessuno toccare. Se poi, da una parte l’esuleeccita a compassione i generosi, dall’altra gli animi vul-gari (e il vulgo è più numeroso che non si creda), avvez-zi a confondere la forza col diritto, la vittoria colla giu-stizia, lo riguardano con un occhio, se non disprezzante,almeno ombroso, quasi un irrequieto che, se non seppetrovarsi bene in patria, amico a’ suoi compaesani, peg-gio il potrà in terra forestiera.

Questo esacerbava ai nostri profughi la loro situazio-ne: talchè, segregati da quasi tutti i cittadini di colà, siadunavano fra di loro, e massime le sere nell’alberghettodi Acquevino; ove, discorrendo col dialetto nativo, tro-vandosi fra visi tutti conosciuti, cantando le patrie can-zoni, ragionando gl’interessi della terra natale, facevanoillusione a sè medesimi, quasi ancora calcassero quelsuolo che ambivano tanto.

L’ostiere li veniva accarezzando, e persuadendo asmettere gli impetuosi loro disegni, — Fate a mio consi-glio, non c’è anche in Toscana buon’aria, bel vivere, lie-

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te campagne, squisito vino e cortesi donne? Perchè bra-mate miglior pane che di frumento? Godete la vita e lagioventù». Ma essi ne beffavano i codardi pareri, e con-fondendo l’iroso desiderio colla speranza, tramavano leguise di ricuperare la patria e di migliorarla, senza met-tervi però nè la pazienza, unica operatrice degli stabilimutamenti, nè un giusto calcolo delle difficoltà che poisono rivelate dal primo accingersi all’opera.

Scarse (già molte occasioni avemmo di ripeterlo) era-no le comunicazioni fra gli Stati, non occorrevano gaz-zette che, spacciando il falso ed alterando il vero, servis-sero agli interessi delle fazioni; e se Pisa pei tanti negozjpoteva, più d’ogni altra città d’Italia, cioè del mondo, ri-cevere e trasmettere notizie, queste però arrivavano rici-se e in ombra nelle lettere dei mercanti, dei quali era co-stume non dare mai nè derrate senza giunta, nè novellesenza frangia. Ciò appunto apriva più vasto campo alleimmaginazioni concitate, che sopra un motto, un cenno,ergevano i più superbi edifizj, cui la prima aria mandavain fumo, siccome il bel fenomeno della fata morgana.

Tra quei rifuggiti, molti n’avea di buona fede, che di-sinteressantemente amavano la patria, ricordavano i pas-si che aveva fatto mentre si governava a comune, e va-gheggiavano la gloria di renderla a quel franco stato, du-rante il quale tanto era progredita. E per l’abitudine, tan-to più naturale all’uomo quanto è più giovane e sincero,di supporre in altrui i proprj sentimenti, credevano che icompagni della sventura e del servaggio fossero anchecompagni d’affetti e di pensieri; e che per via di ragioni

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si potrebbe, non che Milano, tutta Lombardia ridurreconcorde nel non tollerare un’ingiusta oppressione. E adimostrarla ingiusta ricorrevano alla storia, — fievolevoce dove tuonano altre più robuste; e ricordavano itempi della Lega Lombarda, e l’ultimo atto ove i nostriaveano espresso la loro volontà, cioè la pace di Costan-za; ne sognavano il rinnovamento, e una federazioneche resuscitasse la penisola a nuove sorti gloriose.

Capo di questi che, comunque passionatamente, pureragionavano, era Maffino da Besozzo, quel che, ancorain patria, vedemmo come fosse accusato di freddo, dimoderato, di troppo cristiano.

Pover’omo! balzato nella sventura, ridotto a vederesempre in opposizione i diritti col fatto, la giustizia col-l’esito, fu tratto al sepolcro da una malattia endemica trai forusciti, e che i medici non seppero battezzare, perchènei loro cataloghi non hanno classificato il crepacuore.

Altri operavano ad impeto e per vendetta: credevanolegittima qualunque via per ottenere il vantaggio dellapatria; esageravano, e per sino fingevano i torti privati ei comuni; i disastri cagionati al paese da Luchino: torti edisastri che credevano fin troppi per sollevare, al primoinvito, tutta Lombardia contro dei Visconti; ottenere ilfavore degli altri popoli in nome dell’umanità; e deter-minare l’imperatore a sposare la causa dei molti deboliinfelici contro un solo prepotente fortunato.

Questi conoscevano l’uomo!I pochi poi, meglio astuti degli uni e degli altri, che

volevano raggirare la cosa secondo i loro fini e verso i

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proprj intenti, applaudivano alle valenterie dei secondi;fiancheggiavano le ragioni dei primi, e mostrandosi ze-lantissimi della libertà, e d’intelligenza coi ben pensantid’ogni paese, venivasi acquistando sopra i foruscitiun’autorità, che, qualora se ne presentasse il destro,avrebbero adoperata poco meglio di coloro cui mirava-no a spodestare. A questi si conveniva la divisa di tutti irivoluzionarj ambiziosi: «Esci di là, che ci voglio entrario». Mi dispiace a dire che i più frugatori tra questi era-no Zurione Pusterla ed Aurigino Muralto, che dal vintoLocarno erasi qui pure rifuggito, e che vi ricorda qualtristo servigio rendesse al nostro Francesco.

A quali appartenesse Alpinolo è mestieri ch’io ve lodica? ma la fierezza spensierata ch’egli dimostrò nel-l’incontro con Ramengo, fece conoscere agli ambiziosicome costui potesse divenire stromento opportuno aqualsivoglia colpo arrischiato: onde posero ogni artifizioad ingannarlo sul vero stato degli affari, esagerando ilmalcontento dei Lombardi, le speranze, le intelligenze,le forze congiurate.

Scorso il primo inverno fra progetti, fra ordire mac-chinazioni e dilatarle in Milano e negli altri Stati, coll’a-prirsi della primavera aumentarono le speranze dei no-stri forusciti. Nè crediate che avessero trovato qualchemiglior modo ai loro disegni: ma è uno dei fatti più ac-certati (ne diano poi la ragione i fisiologi) che il ringio-vanirsi della stagione veniva e viene riguardato dai desi-derosi di novità come apportatore del compimento deiloro voti. Onde, nel mentre ai moderati le circostanze

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parevano o sfavorevoli o disopportune, e predicavanodoversi aspettare l’occasione sicura, perchè un tentativofallito è un puntello al potere minacciato, gli impetuosili tacciavano di vigliacchi, di rémore, d’invecchiati.

— Mentre l’erba cresce, il caval muore (esclamavaOttorino Borro). L’occasione, se da sè è lenta a venire,bisogna farla nascere. Non è già tutto disposto?

— Tutto (rispondeva il Muralto). Per messi, per lette-re, da ogni parte io sono stimolato. È un fremito univer-sale... non vedono quell’ora di menar le mani. In tutti iquartieri di Milano c’è combriccole dei nostri: nostrisono i caporioni delle altre città: Guglielmo Bruciato diNovara, Simone da Colobiano in Vercelli; in CremonaVenturino Benzone....

— Passerino Bonacossi di Mantova (l’interrompevaZurione Pusterla) e il Lanzavecchia d’Este, ecco, miscrivono delle gagliarde pratiche che hanno in piedi conGuglielmo Cavalcabo di Cremona, con Giovanni e Si-mon da Coreggio e con Brandaligi de’ Gozzadini di Bo-logna».

E il Muralto soggiungeva: — Per Franchino Rusca diComo, Castellino Beccaria pavese, e i Tornielli di Nova-ra, e i Vestarini di Lodi, un segno appena, e sono assicu-rato che, a vedere e non vedere, metteranno in piedi al-trettanti eserciti.

— Ma in che anni?...» domandava Caccino Ponzoneda Cremona. E Bellino della Pietrasanta gli rispondeva:— Uh! gli anni son fatti per le prigioni. Il povero Maffi-no da Besozzo, ripeteva che le nespole maturano solo

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col tempo e colla paglia. Non siamo neanche a tiro.Vuolsi aspettare il momento favorevole, e coglierlo alvolo.

— No, no, (ripigliava Zurione) non aspettare: tenertutto in pronto, perchè occasioni può nascerne una comecento.

— E quali sarebbero?— Eh! si va a Roma per più strade. Se, per esempio,

ai Visconti rompesse guerra il papa...— Il papa? (saltava su Ottormo Borro). Ma se non sa

predicare che pace, se non sa cercare che concordia.— E se fosse vero quel che ci disse quel milanese il

giorno della festa di Ponte, che Mastino della Scala...— Quello era uomo da credergli!...» così il Pietrasan-

ta interrompeva Aurigino; ma più violentemente l’inter-rompeva Alpinolo, mandando tutte le pesti e tutte lesaette addosso all’esecrato Ramengo. Poi, come si furacchetato un po’ il bollore episodico, suscitato da quelnome e da quell’idea, Zurione ripigliava:

— L’occasione però meglio opportuna sarebbe se ilsignor Luchino morisse.

— A questa ci si ha da venire senza fallo! ma Dio saquando!» esclamava Lodovico Crivello.

— È ben vero (seguitava il Pusterla) che la si potreb-be accelerare...

— Un buon veleno, eh?» arrischiossi a dire il Ponzo-ne.

— Sì, (rifletteva il Pietrasanta) ma chi deve esserequel muso che glielo mesca? Cinto di cagnotti, non ac-

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costa al labbro un cibo che non gli abbiano fatto la cre-denza gli scalchi.

— Ma, (tornava su il Ponzone) da un coltello vo’ ve-der io chi gli faccia la credenza.

— Oh sì, un coltello (parlava l’impetuoso OttorinoBorro). Quand’io feci il passaggio oltremare intesi comenella Siria viva un gran principe; — lo chiamavano ilVeglio della Montagna — e tiene ai suoi cenni uno stuo-lo di bravi, devoti a ogni prova, che han nome gli Assas-sini. Vuole egli disfarsi di qualche nemico? castigare unoppressore? dice a un Assassino: — Va e ammazzalo».L’Assassino va e va, gira l’Asia, gira la cristianità, fin-chè lo trova. Trovatolo, se gli inchioda ai fianchi, sinchèviene il bello. Allora gli pianta un pugnale attossicatonel cuore, e con un altro uccide sè stesso».

Applaudivano quei focosi al racconto, alla risoluzio-ne, alla fedeltà; e Zurione, commentando diceva: — Eche?... mancherà chi voglia fare, per salvezza della pa-tria, quel che altri fanno per superstiziosa obbedienza?Tanti si tolgono da sè la vita per fuggire un momentaneodispiacere, e nessuno vi sarà che abbia una colpa da ter-gere, un fallo da riparare coll’avventurare così santa-mente la sua? O il colpo riesce, e sopravvive, quantauniversale riconoscenza! se perisce, qual dolce riposaresotterra, fra il compianto generale, con una fama peren-ne, agguagliato a quei generosi Armodio e Bruto, e altrieroi che liberarono il mondo da simili pesti!

Divampava, a tale discorso, Alpinolo; e considerandosè stesso come causa di tanti mali, lo credeva diretto

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proprio e unicamente a sè. Nè in tutto apponevasi al fal-so, poichè il demagogo aveva fatto disegno sulla vita diquel giovane ardimentoso, il quale, già da un pezzo siti-bondo di sangue, trascinato dalla forza prepotente di unpensiero abituale, ora più non frenandosi, si fece avanti,e battendo il pugno sulla tavola, gridò: — Io sarò quel-lo!»

Una concorde acclamazione lo saldò nel suo proposi-to. Milano è città grande e popolosa: la barba cresciutasul giovane volto di Alpinolo, e coltivata al modo chesolevano i soldati, le chiome in altra guisa composte, unabito diverso e divisato gli davano fiducia di rimanervisconosciuto. Giusto in quei dì era corsa voce che il si-gnor Luchino soldava truppe; poichè, non essendovi al-lora eserciti stanziali nè una fittizia necessità avendogiustificato il martirio di due milioni di Europei, con-dannati a patimenti e disagi per tener le nazioni una insoggezione all’altra, aveano i tirannelli compreso che,per acquistare e conservare il potere sgradito, unico spe-diente era il circondarsi di truppe mercenarie, pronte aogni cenno, a scannare quelli che essi chiamavano lorofigliuoli.

Luchino, ridotto, come tutti gli oppressori, a minac-ciare tremando, con titolo di dare riposo ai cittadini, gliaveva disarmati: ma i molti insofferenti alla vita tran-quilla e i Giorgi, sottrattisi al rigore del capitano di giu-stizia, o in grosse bande o sparpagliati, mantenevano laguerra a minuto, infestando le strade, e fin le borgate as-salivano e saccheggiavano. Che pensò dunque Luchino?

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Gli invitò a sè, promettendo stipendiarne il valore. Cosìsoggettati a militare disciplina, poteva agevolmente te-nerli in freno e a ogni suo volere; essi a vicenda trova-vano comodo peso la milizia, che porgeva occasioni dirubare e soperchiare impunemente, senza i disagi del vi-vere in boscaglia. Accettavan dunque il partito, e segui-tavano a frotte i pifferi che andavano in volta a reclutar-li; poi, sotto il comando di Sfolcada Melik, divenivanoguardiani dei luoghi che prima solevano infestare.

Fra questi fece disegno d’arrolarsi Alpinolo, confi-dando gli verrebbe il destro di trovarsi vicino al princi-pe, — Alla prima occasione (diceva esso ai compagnid’esilio) io lo assalgo....

— E non lasciarlo nemmen confessare. Vada al dia-volo eternamente», soggiunse il Muralto. Esso, con oc-chi di bragia, proseguiva: — Così potessi col colpoistesso finir qualche altro!... Poi...

— E poi (l’interrompevano i consorti) corri per le viecon quel pugnale fumante alla mano: il popolo ti traedietro esultando; la patria è salvata dalle sue branche, eil tuo nome immortale».

Se quelli che così dicevano parlassero persuasi e dicuore è bene non cercarlo: ma Alpinolo, convinto chetutti partecipassero all’ardore suo istesso, non era cosache non si promettesse. — Ma, alla peggio, (diceva) socome si fa a morire».

Con tal proposito rientrò in Lombardia, ben provvistoa denaro.

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Non volle scostarsi dal Po senza visitare anco unavolta il mulino dei suoi educatori. Travisato, e in quel-l’arnese, a pena in sulle prime il riconobbero: fin il ca-gnuolo gli abbajò contro, come a un paltoniero, maquando il ravvisarono, che gioja per quella buona gente,per Maso, e per la Nena principalmente, nel vederlo tor-nare dopo che non era male che non ne avessero temuto!La loro contentezza toccava nel più vivo l’anima affet-tuosa e passionata di Alpinolo; rifletteva: — Se è tanta,in persone non legate a me se non dai benefizj fattimi,quanta sarebbe se fossero i miei veri genitori?.. cometripudierei se una volta raggiungessi quella somma dellefelicità, da me immaginata, di poter trovare il padremio!»

Per la prima cosa ridomandò dai mulinaj quello chedi carissimo avea loro dato in serbo: le lettere di sua ma-dre e l’anello. Non sapevano essi come esporgli la cosa,e finalmente, mortificati, a ritaglio, supplendo l’unoquando mancava all’altro la parola, gli narrarono quelch’era accaduto coll’ignoto signore, e lo sperpero dellelettere, e le smanie mai più vedute. Quali imprecazioninon avventò Alpinolo contro colui che aveva trassinatocosì sacri pegni! ma quando gli fu pôrto il diamante,quasi gli venisse restituito un figliuolo da gran tempoperduto, si attutì, lo premette contro le labbra, e più diuna grossa lagrima gli cadde su quell’unica memoria deisuoi genitori. Andò a prostrarsi sulla zolla che coprivasua madre, ne ravviò i fiori d’attorno, indi prese conge-do.

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— Ora non sarai di tornata fin Dio sa quando! (gli di-ceva la Nena). Io sono vecchia: un’altra volta non mitroverai più. Ricordati sempre di me nelle tue orazioni.

— Non parlargli di malinconie (soggiungeva Maso).Io ho girato il mondo, e so che le montagne stanno a po-sto, ma gli uomini s’incontrano. Ci rivedremo, n’è vero,signor Alpinolo?

— Sì, (rispondeva questo) forse più presto che nonpensiate, e in tutt’altro aspetto.

— E di buon umore», ripigliava la Nena.— E carico di onori e di ricchezze», aggiungeva

Maso, il quale, pratico del mondo, sapeva in che consi-stano le sue felicità.

Alpinolo se n’andò; raggiunse un drappello di quellecerne ed entrò con esse in Lombardia. Eran costoro fec-cia di gente come chiunque fa mercato del proprio san-gue; ai più, da un sucido stracciume trasparivano le car-ni sporche e abbronzite; molti ancora avevano manco unocchio o una mano, perchè come ladri avevano già subi-ta la pena degli statuti di Milano, che infliggevano, pelprimo furto, la perdita di un occhio; pel secondo, l’am-putazione della mano; pel terzo la forca; ma sozzi, stor-pi, ladri, servivano ugualmente ai fini di Luchino.

Nè avvicinandosi ai luoghi di sue giovanili memorieesultava l’animo di Alpinolo; anzi, con una scontentamaraviglia, con un iracondo stupore, vedeva come, no-nostante i guaj della tirannide, i contadini seguitassero,tranquilli, ai lavori; i trafficanti, al commercio; i padri,alle faccende casalinghe; egli ch’erasi immaginato dap-

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pertutto sconforti e desolazioni, che pietà fosse il veder-li; e che fin la terra fin l’aria sfruttata, immalsanita, do-vessero partecipare al duolo e all’onta del servaggio.Quando poi dai casali e dalle borgate traevano, come sifa, a guardare quella frotta di soldati, e dietro e a paro diloro marciavano i fanciulli, misurando il passo secondola cadenza dei pifferi, il cuore faceva sangue ad Alpino-lo, sembrandogli che avrebbero tutti dovuto riguardarcon orrore quegli artefici di loro catene.

Ma, (diceva tra sè), non è che vulgo ignorante e ma-teriale. In città, oh, in città sarà tutt’altro andare».

E in città fece la sua entrata fra un centinaio di quellasoldataglia, e colà pure la plebe a riguardare le nuovereclute, e chiamarsi l’un l’altro, e mostrarsele, spensie-rati come la pecora quando vede arrotare il ferro desti-nato a scannarla. Intanto su per le piazze cerretani e sal-timbanchi mantenevano nel vulgo quell’allegria, chetanto piaceva a Luchino; i signori, in una attività inope-rosa, passavano i giorni fra risa e motti e festeggiarcompagnevole; le botteghe, non che fiorire come prima,erano cresciute in numero e in appariscenza; stabilitetessiture d’oro, d’argento, di seta; introdotte bellissimerazze di cavalli e di cani da caccia; il vino, miglioratocoll’innestare la vernaccia sulle viti nostrali, moltiplica-va le ubbriachezze popolari e la patrizia festività; gan-zerre sul Ticino e sul Po, mettevano Milano in comuni-cazione cogli altri paesi, talchè, non di una città, maaveva aspetto di una intera provincia, dove argento, oro,perle, larghissime balzane, sfoggiavan le donne sui ve-

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stimenti; nelle case cibi squisiti, bevande prelibate e fo-restiere, e ogni guisa di delicatura.

Questo fenomeno riusciva inesplicabile ad Alpinolo,il quale ignorava come ripiglino fiore le terre confortatedi pace e di sicurezza; e come alla prosperità materialesi fossero vôlte interamente le classi medie, dopo che ilgoverno di un solo le dispensava dal dover necessaria-mente pigliare parte alle fazioni interne e alle guerreesteriori. Quei principotti poi, mentre calcavano i ricchie chi faceva ombra, favoreggiavano la moltitudine; ave-vano gara tra sè, non meno in magnificenza di Corte e diapparati, che in prosperità e ricchezza dei piccoli loroStati; poco o nulla si impacciavano nelle particolaritàdell’industria e del commercio, abbandonandoli all’ope-rosità di ciascuno e all’emula concorrenza; onde, nelmentre coll’avarizia, colla libidine, coll’invidia, collepersonalità tormentavan chi stava a loro vicino, lascia-van godere agli altri i comodi della primitiva libertà,senza le agitazioni di essa.

Soltanto l’eccesso della politica depravazione rovinaa bella posta il traffico e la cultura di un paese per fiac-carlo: soltanto più tardi sentì la Lombardia la silenziosaoppressione di governi che, senza individualmente ucci-der nessuno, dissanguavano l’intera nazione. Potrebberoi primi paragonarsi ai flagelli, che tratto tratto desolanoun paese: guerre, turbini, contagi, poi cessano, e lo la-sciano rifarsi; gli ultimi, ai miasmi che corrompono l’a-ria, e che, senza parere, moltiplicano vittime alla sorda,ma continuamente.

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Chi però ha fiore di sentimento, pensi quanto atrocepenitenza si fosse imposta Alpinolo in quell’ostinato suointento. Tra una marmaglia spregevole e spregiata, di-pendente dal brutale comando del connestabile SfolcadaMelik, vivere ancora, passeggiare per quella città che insì diverso aspetto lo aveva veduto; che in ogni luogo gliridestava tante memorie; che vie più aveva cara dopocostretto ad abbandonarla: vivervi come uno straniero,come un ministro della tirannia; e non potere mai converuno manifestare le commozioni di un cuore convul-so. Mirava le case ove già soleva essere il ben accolto epassare le gaje serate: ora stavano chiuse per lui. Imbat-tevasi talora in alcuno degli amici, con cui tante volteavea comunicato timori e speranze, ragionato del pre-sente, dell’avvenire, che gli avevano promesso ogni po-ter loro per la causa del bene; ora tacevano, obbedivano.Scorreva ancora per la via degli Spadari: Malfiliocciodella Cochirola non v’era più, chè, a forza di rimpiange-re i tempi passati, era ito ad acculacciare la pietra: matutti gli altri lavoravano come e più che prima; lavorava-no (pensava Alpinolo) le armi dei proprj padroni, lepunte contro i proprj petti. S’incontrò qualche volta an-che nel Basabelletta: cauto e coll’acqua in bocca costuitirava lungo le pareti, contento d’averla scampata, nèpiù brigandosi di leggere sul libro dei ricchi e dei poten-ti. Passava Alpinolo dal palazzo dei Pusterla, vuoto de-gli antichi padroni, ed abitato dal capitano di giustiziaLucio; — un Lucio sostituito a Franciscolo, alla celesteMargherita!

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Le persone da questa beneficate se la saranno certo ri-cordata, se la ricordava la fanciulla di Santa Eufemia,per lei campata dal disonore: ma i poveri, gli infelici, idisuniti cosa altro possono che amare? Spesso in unchiassuolo, sur una piazzetta, Alpinolo scorgeva otto odieci giovani, stretti a colloquio animato, confidente,misterioso: il cuore gli diceva di che parlottassero; tantopiù che, quando s’accostava lui, con quella divisa indosso, li vedeva o disperdersi timorosi, o non dissimula-re con atti e con motti lo spregio verso chi aveva vendu-to il suo sangue per ribadire le loro catene. Come l’ani-mo di lui si struggesse sotto quella lenta tortura, io nonfarò prova di descriverlo. Fu per soccombere delle volteassai, e fuggire; — ma rimeditava il suo fallo, e gli pare-va che ad espiarlo fosse scarso qualunque inferno.

Fatalità! certe anime robuste, nate fatte ad ogni grancosa, capaci de’ più ostinati sacrifizj, delle più magnani-me risoluzioni, quante volte si vedono andar traviate, esvaporare quella vampa in null’altro che il rendere infe-lici sè ed altrui, perchè all’impeto della volontà non èproporzionata la ragionevolezza: perchè conoscono ognieroismo fuor quello della pazienza.

Così spasimava Alpinolo quando stava scevro e soli-tario dagli altri; quando era accompagnato, seppellivadentro il suo dolore; obbediva come un automa ai cennidei caporali, per quanto se ne facesse schifo; mescevasialle gozzoviglie de’ suoi commilitoni, a trar sulle carte,a sbalzare dadi, ove, ad onta delle severe proibizioni delprincipe, biscazzavano il loro guadagno; pagava ad essi

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il fiasco, lasciavasi spillare il suo, tanto per farseli ami-ci: onde tutti «Quattrodita» di qua; «Quattrodita» di là:unico nome col quale il conoscessero.

Ma il vino, che nelle orgie nauseabonde tracannava dibrigata, tornava in tanto veleno a quel dispettoso; e alvedere una ruga sdegnosa che tratto tratto gli solcava lafronte, e ne alterava il baldanzoso raggio giovanile, erafacile accorgersi come quella fosse una testa pensante,fra tutte l’altre impassibili e macchinali. E nel bel mezzodi loro, mentre in apparenza alternava con essi i brindisie lo sguajato motteggiare, concentravasi in sè stesso, efremeva e si stomacava del dover vivere confuso traquella schiuma di ribaldi, che per mestiero, diceva, oggicustodiscono l’assassino, domani il martire generoso;oggi difendono una vita insidiata, domani ne spengonomille; oggi scannano il nemico, domani il camerata; esotto la divisa che si chiama del prode velano la massi-ma della viltà, un’obbedienza irriflessiva sino al delitto,ai voleri di colui che ne forzò la volontà.

Fu alcuna volta che si arrischiò a gettare fra di loroalcune lontane parole di emancipazione, di libertà; peipiù era un parlar di colori a ciechi: i pochi che lo intese-ro gli chiedevano che pazzo gli toccasse di desiderare dimeglio? non era libertà la loro di aver da mangiare ebere e fare stare gli altri?

Alpinolo davasi premura di assentire a dottrine cosìantiche, e rodendo il freno, capiva la necessità di non farconto che sopra sè stesso per l’adempimento de’ suoi di-segni.

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Non gli era riuscito difficile accostarsi a Luchino.Quando il Visconti si presentava spettacolo ad un popo-lo che opprimeva e disprezzava, credevasi sicuro perchècinto di guardie: eppure fra queste n’era una, il cui uni-co pensiero era d’ammazzarlo. Alpinolo, in fatti, domi-nato da quell’idea, tratto tratto divampava in viso, e ne-gli occhi, sporgeva sino la mano al pugnale: pure il tro-varsi circondato da pronti nemici, e, quel che più gli pe-sava, da incerti fautori, lo smoveva dal proposito di san-gue. Allora poi che gli veniva un bel destro di scannareLuchino, e forse porre in salvo sè stesso, quello che pri-ma gli era parsa una giusta vendetta, anzi un fatto glo-rioso, gli si presentava come un delitto: spingevasi in-nanzi, poi si ritraeva sgomentato, perchè la coscienzacon voce imperiosa gli diceva, No. Di questo provavadispetto e vergogna come d’una fiacchezza, d’una viltà,d’un perfidiare alla parola data a sè stesso: e nei mo-menti di passione tentava conficcarsi nel suo proponi-mento, e rinvigorire la volontà con ragioni, con supersti-zioni, con distillare le colpe altrui e il proprio livore.Stava mezzo un dì appoggiato su quel canto del Brolettonuovo, dove erasi lasciato tradire da Ramengo: ore edore teneva gli occhi fissi sovra la porta dei Pusterla,donde avea veduto strascinar fuori la Margherita; andòalla Madonna di S. Celso, che in quegli anni appuntoaveva cominciato a diventar celebre per miracoli; e conun fervore intenso, ma distratto ed irrequieto, ben altroda quello di chi prega la giustizia ed ottiene la pace,supplicò nostra Donna: — Datemi forza per uccidere il

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nemico del pubblico bene e di quella santa che tanto v’i-mitò. Se me ne fate la grazia, voglio andare pellegrinoarmato a Nazaret, e non tornare finchè io non abbia uc-ciso mille di quegli infedeli, che negano culto al vostrosanto nome».

Da questa insana preghiera, da quel voto di vendettafatto alla Madre di misericordia, credette egli d’avere at-tinto nuovo vigore, e pochi giorni dopo parve gliene na-scesse favorevole occasione. Era di guardia ad un gabi-netto di piacere, posto in mezzo ad artificioso boschettonel parco di Belgiojoso, delizia dei Visconti; e guardan-do attraverso al graticolato della gelosia, che vi lasciavaliberamente circolare l’aria, vide Luchino che, rinvoltonel mantello, vi si era addormentato: addormentato solo,coi due mastini al piede, che dormivano anch’essi. Alpi-nolo rinnovò il suo voto, accostossi, brandì il pugnale,l’innalzò sul capo del tiranno, esclamò dentro di sè: —Cane! non ti ridesti più fino al giorno del giudizio».

Il giorno del giudizio!Questa idea se gli attraversò come una sbarra che, git-

tata fra’ violenti passi d’un furibondo, lo fa cadere perterra. — Il giorno del giudizio! Dunque e lui ed io avre-mo a trovarci un dì al cospetto di un giudice comune:Anche Luchino potrà a quel tribunale aver torto. — Edio? dovrei mostrare, io, la mano lordata d’unassassinio?»

Simile pensiero gli rattenne il colpo, sventò in un mi-nuto la risoluzione maturata per un anno; e cautamenteindietreggiava per uscire, ma non potè fare così cheto,

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che non risvegliasse i cani. Balzano questi abbajando:Luchino stesso destasi e sorge impugnando la spada:volle il caso che in quella il capitano Lucio entrasse a ri-ferire con aria trionfale, siccome il giorno innanzi, nellarocchetta di porta Romana, erano stati condotti France-sco Pusterla e il suo figliuolo.

L’accostarsi del soldato fu interpretato per zelo d’ave-re voluto dar avviso che alcuno veniva, ed Alpinolo re-stò salvo; ma qualunque peggior tormento, ma il lacerar-gli brani a brani le membra non avrebbero a pezza ugua-gliato lo strazio ch’e’ provò nell’intendere la fiera no-vella, nel mirare la gioja spietata di Luchino e del capi-tano di giustizia, a udirli dire: — Ora daremo spaccio atutto. Domani a Milano; e presto ogni cosa sarà finita».

Anche questo supplizio gli serbava la sua impruden-za! Or chi dipingerà le furibonde smanie di lui? Nuovosangue parevagli accumularsi sulla sua cervice; e daquest’ora; diverso consiglio il predominò, quello di ten-tare la liberazione di quegli infelici. Concepire un dise-gno e balzare al momento dopo l’esecuzione, senza pernulla calcolare i passi intermedj, era stile di Alpinolo: echi gli avesse posto mente, sarebbesi accorto come, daquel punto, egli acquistò quella specie di serenità, chenasce da una forte risoluzione.

Non ebbe a stentare per farsi destinar alla custodiadelle carceri di porta Romana, ma al momento di supe-rarle, tutte gli si attraversavano le difficoltà dell’impre-sa, come un viandante giunto ai piedi di una montagna,

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comprende insormontabile l’ertezza d’un varco, che dalungi gli era parso un lene declivo.

— Di notte quando le altre sentinelle dormono (consi-derava tra sè), scanno il carceriere, e libero quei tre infe-lici. Oh la gioja di rivederli congiunti! — Ma... e se co-lui schiamazza?... poi, come troverò le chiavi? come lavia per trarli non visti da questo andirivieni di camere,di anditi, di scale? — E poi, e poi... ucciderlo? cosa miha egli fatto di male? Un’altra vittima, un innocente; cheforse ama ed è amato, che forse ha quel ch’io non ho, unpadre. Son io forse il signor Luchino da sgozzare unuomo senza valutare il dolore che ne verrà a tanti esseriincolpevoli? E coll’aggiungermi quest’altro peso allacoscienza, potrei sperare d’alleggerir il primo? Per ca-gion mia non s’è pianto assai?»

Risolveva dunque di guadagnarlo a denaro — In talcaso (pensava egli) l’avrà voluto da sè, qualunque cosaaccada. Ma ancora, e quando siano tratti di carcere?Come camparli se di fuori nessuno mi dà mano, se nes-suno mi prepara l’occorrente alla fuga? Darmi io stessoin traccia dei cavalli? noleggiarli io? postarli? mi dareinell’occhio: potrei essere indicato, e mandare tutto infumo. Ne andasse solo la mia vita, non esiterei; ma laloro! Dunque è forza mettersi in mano di qualche altro.Ma a chi far capo?... Non ho io già troppo caro pagatal’aver una volta creduto ad alcuno? E poi che sozzurad’uomini non mi son veduto d’attorno? I più vi credonopazzo se vi prendete affanni per altrui: quelli di migliorpasta v’ajuterebbero anche, purchè ciò non ne guastasse

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gli agi, non rompesse i sonni, non tardasse il pranzo, so-vratutto non disgustasse i superiori. I giovani chiamanomerito il potere; i gradi, le dovizie; e politica e sapienzail conoscere l’arte di procacciarsene; i vecchi erigono invirtù l’impotenza dei loro desideri; i pochi generosi gia-ciono sviliti, e contenti di guajolare e di bramare. O uo-mini! uomini! tutti tristi, corruttibili e corrotti; nominateprudenza la scaltrezza; virtù la dissimulazione; vizio ne-cessario la falsità: il potere vi sgomenta; l’astuzia vi di-vide; l’oro vi compra; l’aspetto dell’innocenza non fache allettarvi ad ingannarla!»

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CAPITOLO XIX.FUGA.

Così esclamava Alpinolo nell’amarezza del cuore,quando al suo abbattimento trovava unico appoggio ildisprezzo; ma poi a molte eccezioni gli andava la mente,e sopratutto a una persona, sulla quale sentiva di nonpoter dubitare: fratel Buonvicino. A lui avrebbe potutoaprire alla libera il suo pensiero; a lui che, tornando,avea trovato tale appunto qual nel fuggire lo aveva la-sciato; ma qui medesimamente v’eran ostacoli, esitazio-ni, paure. — Se gli spiego tutta questa matassa (eglipensava), mi riprenderà; vorrà far prediche; troverà unmondo di ragioni da opporre; la prudenza sarà d’impac-cio al coraggio; vorrà la meta e non la via che vi condu-ce; parlerà di giustizia, quasi al mondo ve ne sia più lasemenza. Sebbene... giustizia? non è egli diritto l’ado-prare ogni sorta di armi contro chi ogni sorta ne adoperaa danno dell’umanità? E che? Dunque il ribaldo perchènon teme l’inferno, sarà tanto avvantaggiato sopra ilgiusto? Perdonare!... soffrire!... Sì! sì! belle parole: manon fanno che crescere baldanza in chi mette il piede sulcollo all’umanità. E poi alla fine, che male può tornar-ne? O l’effetto mi riesce a disegno, ed ecco salvata l’in-nocenza, ecco impedito un delitto, ecco lavatami dalla

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coscienza questa macchia, questo verme che nè giornonè notte riposa. Se il tentativo fallisce, se la fortuna midisajuta... pei Pusterla nulla è peggiorato. Non sono essigià al colmo del pericolo e della miseria, dacchè si tro-vano in tali mani? E quando pure ne accelerassi di alcu-ni giorni la morte, non è acquisto il sottrarli più prestoalla barbarie dei manigoldi? Quanto a me la vita miacessò da un pezzo di appartenermi: è appassita prima dineppur sviluppare intero il suo fiore. Come potrei spen-derla meglio che tentando lo scampo degli innocenti? Semuojo, avrò soddisfatto in parte al grande obbligo chemi rimane a scontare: troverò finalmente la quiete... ces-serò di fremere, di esecrare.

Durata molti giorni la lotta coi suoi pensieri, e semprepiù riconfermandosi di tentare ad ogni costo l’impresa,deliberò di rivelare al frate quel tanto solo che fosse in-dispensabile, cioè il fine, non i modi. Un dì, tra il chiaroe il fosco, si conduce al convento di Brera; contemplaun momento quella soglia, ricordandosi con qual devotagratitudine l’avesse baciata il giorno che vide sopra diessa salvato il Pusterla; e al portinajo chiede di veder fràBuonvicino.

Angiolgabriello da Concorezzo, antica nostra cono-scenza, nol misurò da capo a piedi coll’occhiata scruta-trice, abituale ne’ portinaj ma, tutto dolcezza e benevo-lenza, rispose: — Fratel Buonvicino? Volete forse con-fessarvi, signor soldato? Dio vi benedica! entrate inchiesa; lo chiamerò. Vado e torno.

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— No, non l’incomodate; se c’è, anderò io stesso allasua cella. So dove sta.

— Ah, siete pratico della casa? Lo conoscete quelsant’uomo?» e qui cominciava per recitare una leggendadi sue virtù, ma come vide che Alpinolo gli avea vôlte lespalle, badandogli come un pedante al buon senso, gliesclamò dietro: — Passate, passate pure, che Dio vi be-nedica!»

Stava frà Buonvicino nella piccola camera, le cuimasserizie, secondo la regola, si riducevan al paglionecon un capezzale e due lenzuola di lana e a un predelli-no di legno. Su questo sedeva il frate, inchinata la fron-te, le mani intrecciate sulle ginocchia, cogli occhi fissisopra un qual si fosse oggetto indifferente, e senza ve-derlo. Alle rughe anticipate della sua fronte, alle guanciepallide e scarne, all’occhio affossato, ognuno avrebbepotuto dire «Per costui il pensare è soffrire»; ma nel do-lore di esso non v’era abbattimento, e potevasi scorgerviframmista una speranza — o forse una memoria.

Al passo incerto, all’ansioso occheggiare, al tono del-la voce, ben avvisò frà Buonvicino nel soldato qualchecosa di straordinario; onde, sorto dal meditabondo ripo-so, se gli fece incontro col consueto saluto: — La pacesia con voi, o fratello».

Non rispose l’altro al benedetto augurio se non inter-rogando:

— Padre, siamo soli?— Soli con Dio.— Nessun pericolo che altri c’intenda?

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— Nessuno», rispose il frate, e fissava attentamente ilnuovo arrivato, il quale, fattosegli più vicino, chiese:

— Padre, amate voi Margherita? la Pusterla?»A una domanda così inaspettata, una domanda che

egli schivava di fare a sè stesso, per quanto la maestàdella sventura avesse resa più venerabile e santa agli oc-chi suoi quella che un tempo aveva amata d’amore, tuttosi risentì frà Buonvicino: rizzò la testa abbattuta, pose lamano sulla bocca del soldato, come per imporgli silen-zio, rabbattè attentamente l’uscio e l’impannata dellacelletta; indi, afferrando il braccio dell’ignoto, — Mavoi chi siete?

— Sotto le spoglie del vile prezzolato, non mi ricono-scete, fratel Buonvicino?»

Dai patimenti, dal nuovo abito e dall’arte sfigurato,tardava Buonvicino a ravvisarlo; poi, come l’altro si no-minò, anch’egli, con tono di meraviglia e di interroga-zione, ripetè:

— Alpinolo?» poi ne strinse fra le mani il capo, e, —Figliuol mio! tu qui? Come ardisci rimanere? Perchè co-testa divisa — tu?»

Alpinolo, alla presta e con termini di viva esecrazio-ne, senza perdonare a sè stesso, gli espose il seguito del-le sue avventure; la parte che aveva avuta al disastro delPusterla, il tradimento di Ramengo, che fece raccapric-ciare il frate, e che gli scoperse di tratto una serie di ini-quità, quali non aveva sospettate possibili.

— Ora comprendo (esclamava) perchè Ramengo ètornato sicuro, mette casa riccamente, e si allegra, e par

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che dica all’anima sua, Godi, esulta, abbiam trovato ilnostro riposo. Ma tu, per amor del cielo, come sei tuqui? perchè?»

E Alpinolo, — Come io sia venuto e perchè sottoqueste divise, è un segreto ch’io giurai di non manifesta-re: non vi riuscirà però difficile l’apporvi.

— Sciagurato! un assassinio?...» prorompeva fràBuonvicino, respingendolo dalle braccia tra cui lo tene-va serrato a guisa di un padre che accoglie al pentimentoun traviato figliuolo.

— Padre (interrompeva quell’altro l’incominciatorimprovero) qualunque vostra ammonizione sarebbefuor di luogo e di tempo. Così avessi avuto il coraggio!Ma più di quel che potreste dirmi ora a voce, mi disse emi dice sempre la vostra immagine, che tratto tratto misi affaccia a ripetere quei consigli che m’avete dati tantevolte in mia fanciullezza. Ora però non sono qui perquesto. Rispondete: amate voi Margherita? il Pusterla?

— Se gli amo!» esclamò l’Umiliato, e corrugò lafronte guardando il cielo con un sospiro.

— Ebbene, dovete darmi mano a salvarli.— Salvarli? Oh come?» domandò con ansietà frà

Buonvicino; e come, quando nel bujo di una camera di-vampi il zolfanello, di subito rompe le tenebre una gajaluce, che poi immediatamente spegnendosi, lascia dinuovo al bujo, così nell’occhio di frà Buonvicino lam-peggiò una gioja vivissima, ma passeggiera; all’istanteun melanconico velo gli ottenebrò la fronte, e le escla-mazioni di allegrezza finirono in un doloroso ohimè. Poi

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soggiunse: — Ah garzone, garzone! tu sei ancora queldesso; ancora non hai abbastanza imparato a che possatrascinarti cotesta foga intemperata, cotesto operar sem-pre, e non riflettere mai. Tu precipiti te stesso e loro.

— Padre, (replicava l’altro) il mezzo, a dirvelo, è me-glio nol conosciate; sull’esito però ho calcolato abba-stanza: e, se il diavolo non vi mette... cioè, se l’acciden-te... Insomma, anderà bene. Andasse anche male, ad essiche può risultar di peggio? Quanto a me, della vita mianon devo conto a nessuno.

— No? nemmeno a Colui che te l’ha data, e che puòchiederti perchè l’hai gettata, innanzi che egli medesimote la ridomandasse? Non sono davanti a lui eguali l’as-sassino e il suicida?»

Stette un momento sopra pensiero Alpinolo, poi,stringendo ancora la mano al frate, ripigliava: — Vivetepur tranquillo su quanto riguarda me. Il cuore mi diceche nessun male ne avverrà. Proprio dal cuore mi vienequesta potente ispirazione, e le ispirazioni di raro ingan-nano».

Tentennò il capo frà Buonvicino, e, posandogli l’altramano amorevolmente sulla spalla, — O figliuolo! e co-testa ispirazione da chi l’hai tu implorata? hai tu pregatomai con fede Iddio?

— Iddio! (interrompeva il giovane) c’è egli proprioquesto Dio?» E, subito correggendosi, — Ah, sì, certo,egli vi è: vi deve essere per aver creato la Margherita,per aver tratto con sè mia madre in paradiso. Ma in pa-radiso che fa egli? perchè non reprime l’iniquità? perchè

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lascia il reprobo mangiare in pace il pane delle delizie,mentre il giusto affanna ai suoi piedi? Perchè il Pusterlaè in carcere, e Ramengo fra gli agi? Perchè voi qui a ge-mere sulle miserie comuni, e Luchino in trono a molti-plicarle?

— Di poca fede! (replicava frà Buonvicino con un so-spiro) Chi t’ha dato il diritto di scandagliare l’inesplora-bile abisso della Provvidenza? Giusto è Dio, e i suoigiudizj sono veri e approvati per sè stessi; l’uomo li ri-verisca, nè presuma comprenderli. Pure tu, sei tu entratonel cuore dell’empio e del savio? Hai visto quel che sinasconde sotto le bugiarde apparenze del godimento edelle pene; dell’umiliazione e del trionfo? Che se anchein terra questo patisce e quello esulta, forse che il regnodi Dio finisce fra gli angusti confini di questa vita? Saràgiorno, quando, in bilancie assai diverse da quelle del-l’uomo, staranno il riso e i patimenti, le soperchierie e lapazienza: quando i fortunati udranno dirsi: la vostra por-zione di beni già l’avete tocca in terra. Frattanto ti vienelezzo dell’iniquità che domina il mondo? della malprovvista distribuzione di ciò che il secolo chiama benie mali? Torci da loro, e forbendoti del fango, solleva ilpensiero sopra queste lotte terrene, e pensa a Dio, e pre-ga Dio».

Soprastava l’altro così un poco, siccome in medita-zione, poi ripigliava: — Pregare! Quanto tempo ch’ionon prego Dio di vero cuore! Oh, mi ricordo, allorchèfanciullo, col signor Ottorino, colla Margherita, io veni-va a questo chiostro, in questa chiesa, e il dolce nome di

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padre, che non potevo dare a nessun uomo, lo davo aQuello che è nei cieli, e pregavo, e svelavo i miei pecca-ti, i miei pensieri a un buon sacerdote; questo mi bene-diceva, sicchè, tranquillo e consolato, io me ne partivasiccome un angioletto. Che dolcezze! che giorni! Orasono perduti, e irreparabilmente.

— Ma chi ti toglie (soggiungeva il frate, con premu-rosa amorevolezza) chi ti toglie di far altrettanto, qualo-ra tu il voglia, in questo medesimo istante? Credi forseesausti i tesori della misericordia? quel Padre non èsempre là colle braccia aperte ad aspettarti? Che non ri-spondi alle sue chiamate?

— No, no, (replicava il giovane con tono deliberato)no! impossibile! impossibile! Finchè un odio bollente,sanguinario mi parla solo di vendetta, come potrei?come ardirei? No, no; verrà tempo: son giovane; forsenon durerà sempre a questo modo. Oh allora!... Maadesso a quel che importa... Io mi apersi con voi, perchèin voi solo ho fiducia. Non venni per chiedervi parere:gli è un perder tempo il tentare di stornarmi. Ho bisognodi voi. Rispondetemi risoluto. Se io trovo modo di con-segnare a voi il Pusterla e la sua donna, prendete sopradi voi di ridurli a salvamento?

— Così Dio m’ajuti come il farò! me ne dovesse co-stare la vita! Ma...

— Ebbene, sia vostra cura che, in tutte le seguentinotti, tre cavalli di gran lena siano lesti a quell’enormenoce, sapete? là a mezzo della strada di Quadronno, dicosta alla vigna di Susone dei Cantù. Il vulgo racconta

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non so quali paurose fole di quel luogo, di quella pianta,di streghe, di tregenda, di sabati; e però nessuno vi baz-zica; onde è opportunissima per chi non patisca di que-ste ubbie».

Il frate taceva, pensava, come chi è preso da un desi-derio senza speranza; e il giovane, con accorata insisten-za, ripigliava: — Vi domando pur poco! Lo farete voi?A ogni modo, se vi ricusate, non sarà che un crescere ipericoli a me e a loro. Lo farete?»

Frà Buonvicino, deciso meno dagli argomenti del gio-vane che dalle ragioni librate fra sè, sollevò la fronte de-pressa, e con aria di tranquilla energia, ben diversa dallaimpetuosa temerità di Alpinolo, rispose: — Lo farò.

— Deh, siate benedetto!» esclamò Alpinolo con effu-sione di gioja riconoscente, stringendogli con ambe lemani la destra, e baciandola e ribaciandola; poi, divisatii luoghi, distintamente accordata ogni cosa, già si avvia-va a partire, quando si rivolse, e, messo a terra il ginoc-chio, — Un’altra grazia, o padre: beneditemi».

Il frate, commosso, posò le palme sopra il capo inchi-nato di Alpinolo, e, — Dio ti benedica! voglia insinuartiuno spirito di amore, di prudenza, che temperi cotestaimpetuosa volontà...»

Nè finì, sentendosi intenerire ai singhiozzi di Alpino-lo, il quale, come rimproverandosi questa commozione,si levò, e precipitossi fuori della cella, misurò rapida-mente il corridojo, illuminato da un fioco lampione, e,giuntone in capo, si volse, rimirò il frate, il quale ancoradalla soglia gli accennava colla mano, e si dileguò.

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Tali concerti ritornarono ad Alpinolo tutta la baldanzadel pensiero, e provò la confidenza che ispira una robu-sta deliberazione, tanto somigliante alla soddisfazione diun disegno compito. La sera dopo, era egli sciolto delservizio, onde si condusse verso Quadronno per vederese il frate vi stesse, secondo l’intelligenza. Scontrò unragazzo il quale a furia scappava, e quando vide Alpino-lo, — Signor soldato, (gli gridò) non andate in là. Alnoce v’è una frotta di diavoli in forma di cavalli»; econtinuò a correre verso la città come spiritato; e tutta lavita sua seguitò a dire a chi non credeva, che stregoni edemonj e tregende erano cose di fatto, e che egli ne ave-va l’esperienza dei proprj sensi; — esperienza infallibi-le, come dicono i filosofi.

In fatto Alpinolo, accostatosi presso al noce concerta-to, vide tre cavalli in ordine con un famiglio che li tene-va: e se le tenebre non avessero impedito la vista, pocoquindi lontano, dietro ad una macchia, avrebbe scorto ilfrate che durava in orazioni e in aspettazione. A ognistormir di foglia, a ogni susurrare del vento autunnalefra i pampani della vigna, risentivasi frà Buonvicino, eguardava; poi, a ora a ora alzavasi a mirare verso la por-ta Romana se alcuno arrivasse, e sempre se ne torcevadeluso. Veder una volta ancora la Margherita, vederlasalvata dall’abisso ove l’avea fatta perduta, darle la buo-na andata, poi tornarsene a raccomandarla al Signore,queste erano le fantasie che lusingavano il povero frate;e la delizia di saperla una volta contenta co’ suoi cari,tanto più cari dopo tanto vicendevole patire. Ma poi le

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infinite difficoltà se gli affacciavano, e disperava, e ca-deva colla fronte sulla terra pregando e singhiozzando.

L’altro domani toccava ad Alpinolo montare la guar-dia; e solo allora legò col carceriere il discorso che ab-biamo riferito, per non lasciargli tempo a riflettere, e pertenergli le mani ne’ capelli. Con esso rimase d’accordoche, quando egli, dopo la scolta che a momenti verrebbea rilevarlo, entrerebbe ancora in sentinella, farebberouscire i due dalla prigione, e per la guardina del carce-riere, scendere in un cortiletto posteriore, dov’era la por-ta del soccorso, non divisa dallo spianato che per un fos-satello largo un passo.

Abbiamo già fatto avvertire come la Rocchetta nonfosse ridotta a compimento; molte parti ancora imperfet-te di mura; non approfondita la fossa; lavori tutti cheerano stati sospesi perchè il luogo riconoscevasi non ab-bastanza addatto; per la qual cosa venne poi abbandona-to, fabbricando invece il forte dall’altra banda verso SanNazaro.

Tutto ciò agevolava un’evasione. — I soldati (dicevaAlpinolo) se la dormiranno a quell’ora così tarda; ben-chè la luna sia nel suo pieno, è però questa sera adom-brata da nuvoloni minacciosi, talchè l’oscurità ci daràfavore. Se possiamo procedere senza rumore, niente piùfacile che andar fuori.

— Come poi sarete fuori (soggiungeva Macaruffo)pensateci voi; che, quanto a me, m’allaccio le scarpe, ela do per la campagna senza guardarmi ai piedi, finchènon sento rumoreggiare il fiume d’Imagna».

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Poco dopo venne un soldato a dare lo scambio ad Al-pinolo; venne sbadigliando e divincolandosi come chiallora si sdormenta, e dicendogli con una voce sonnac-chiosa: — Avevo attaccato di gusto. Te beato, o Quattro-dita, che hai dinanzi due belle ore da dormire della gros-sa!»

Alpinolo gli cedette il posto senza lasciare scorgernulla e si ritirò nel camerotto; si ritirò, ma (lo credereteagevolmente) tutt’altro che a riposo; bensì all’agitazionenaturale del tempo che scorre fra la deliberazione d’undisegno pericoloso e l’effettuarlo. Terribile tempo, quan-do tutte le forze dell’anima stanno assorte in quel pen-siero, in quell’avvenire così vicino e forse così lontano;in un avvenimento, che fu lungo tempo meditato, svolto,blandito, e che sarà condotto a termine fra pochi istanti,o non più! Come gente che si accalchi a udire una ambi-ta novella, così mille idee di possibili pericoli si affolla-no alla mente, e dietro a queste altrettanti spedienti perripararvi; tutti gli scorre l’intelletto, a nessuno s’appi-glia. Ora una fidata speranza già trasporta l’uomo al mo-mento dopo... Gli vedresti allora l’occhio scintillare, al-lungarsi le labbra ad un sorriso. Poi la riflessione slanciaattraverso all’immaginativa un cupo spavento; ostacoliinsormontabili tra il frutto e la mano, ogni cosa scoper-ta, sventata; allora il ciglio si rabbuja, aggrinzasi la fron-te, un ribrezzo invade la persona, i capelli s’arricciano,il sangue rigurgita al cuore, e un freddo sudore cola giùper le guancie.

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In questo sogno immaginoso passavano Alpinolo eMacaruffo le due ore, — ore lente come il passo dellamorte. Il giovane computava ormai imminente l’istanteche riscatterebbe ogni suo errore, restituirebbe alla liber-tà e all’onore vittime innocenti, farebbe per astio ama-rissimo al tiranno molte giornate. Gli pareva già vedere iPusterla mettere il piede fuor della Rocchetta; — Ecco icavalli; si monta; si sprona. — Addio, Milano! domatti-na trovano il carcere vuoto; che rodimento il signor Lu-chino! ha da mettere più di sei e più di dodici capelli ca-nuti. Invano tenta soffocare il dispetto fra le tazze e lelascivie e il concetto di nuovi oltraggi. — E Ramengo?vedersi sfuggire le sue vittime — mancargli sotto labase, su cui ideava sollevare la scellerata sua grandezza— sapere liberi e lontani quelli che alzerebbero la vocea proclamarlo infame, traditore, spia! — Presto, cavallisu tutte le direzioni ad inseguirci. — Eh sì! noi siamo insicuro. Si va; si rivede il tugurio de’ mugnaj che curaro-no la bambina mia vita; ci tragittano; voliamo di là, tro-viamo i fratelli. — Qual gioja d’essere ancora fra cuoriconsenzienti, poter ancora fremere, bestemmiare!

— L’hai tu scannato quel maledetto? mi domandano:— No, ma ho fatto dì meglio: ho strappato due vittimedi bocca al biscione. — Sono conosciuti, festeggiati; lavista loro rinfuoca gli sdegni, rinfresca la memoria diquanto patì ciascuno; più non è che un fremere d’armi:ci uniamo: vendetta è il nostro grido; si muove sopraMilano; il popolo, sazio della costui tirannia, esce in fol-la ad ingrossare le nostre file; appena sa che appressia-

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mo, la città rumoreggia: dà su e, sant’Ambrogio, san-t’Ambrogio! scannano quella sua caterva di scherani: elui, quel cane... oh potess’io essere il fortunato, che, trala mischia e non più da assassino lo incontrassi, lo ab-battessi, gli piantassi questo pugnale nel cuore!»

Gli brillava dentro il coraggio, e con un moto macchi-nale che preveniva la volontà, brandiva di fatti il pugna-le in atto di chi mena un mandritto; e soffiando, si senti-va andar tutto in sudore. Trasse di capo il morione; collapalma terse la fronte, e anch’egli si pose a sedere sulpancone, sopra il quale tranquillamente sdrajati russava-no due dei suoi commilitoni. Tenne il guardo biecamen-te fisso su loro: — Anime vendute! ministri della prepo-tenza! Ancor due ore, ed avrò gettata di dosso l’infamevostra assisa. Ancor due ore, e poi... E poi? forse da quia due ore essi saranno levati contro di me, addosso ame. Se si destassero? se udissero? — Ch’io gli ammaz-zi? — Ma altre guardie vegliano là abbasso. — No; nonci voglio pensare. Frà Buonvicino prega».

E cacciava quest’apprensione come un maligno fanta-sma; e quasi per istordirsi diceva: — Che temere? dor-mono sodo. Importa assai a que’ ghiotti se stia per cade-re il tiranno che ne ha comprato il valore! D’altri suoipari sono piene le città d’Italia, non mancherà chi li tol-ga a stipendio per sicurezza de’ suoi delitti e per isgo-mento della virtù generosa».

Quindi, per far inganno a sè stesso, e mostrarsi ai pro-prj occhi spensierato e sicuro, piegava il capo, e quasi sitrattasse di deludere altrui, fingeva addormentarsi. — Sì,

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addormentarsi! La coscienza d’un gran pericolo, e nonsolamente suo, lo scoteva in fiero soprassalto; accelera-vano il battito le arterie: chi l’avesse esaminato, neavrebbe scorto il viso pallido, scontrafatto come il cada-vere d’uomo violentemente soffogato. Sentendosi man-car il respiro, si alzò: chiotto chiotto affacciossi ad un fi-nestrone alto e stretto, s’abbracciò ad un’esile colonni-na, posta a sorreggere due archetti acuminati che face-vano il vôlto; e sporto il capo fra lo stipite e quella, stet-te osservando la cupa maestà della natura, addormentatanel fondo della mezza notte. Il cielo era ingombro di nu-voloni, pregni di pioggia e di tempesta, che rapidi pelfosco silenzio camminavano, cozzavano, accavalciavan-si, come i pensieri nel capo di esso.

— Oh, versassero almeno torrenti di acqua! rumoreg-giasse il tuono, sicchè, fra il crosciare della pioggia e loschianto dei fulmini, andasse inascoltato ogni rumorede’ passi nostri! Perchè... già un passo basta a risveglia-re questi mastini. — E allora?... Oh ma no: tutto è silen-zio, il tuono li desterebbe: meglio così. E la luna sia ve-lata, almeno sinchè abbiam valicato quel fossatello. Al-lora, giù pei campi... il desiderio di libertà impenna l’alea quegl’infelici. — Quanti ringraziamenti! quanto benme ne vogliono! — No, no; ora non è tempo di parole,di ringraziamenti; lesti al noce; colà sono i cavalli...»

E l’occhio di lui correva via via per la pianura, collacelerità che augurava possibile ai passi fuggitivi. Lacampagna era posseduta dalla sorda bonaccia che suoleprecedere lo scoppio della tempesta. — Fra poco (riflet-

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teva Alpinolo) quella quiete sarà rotta dallo scalpitarede’ tre cavalli che ci porteranno lontani da questa male-detta Milano».

E spiegando verso la città il pugno, in atto di chi slan-cia un sasso, rizzavasi, e incrociate le braccia sul pettoanelante, si poneva a riguardarla.

— Anche colà tutto dorme. Dorme il povero, trovan-do nel sonno tregua alla fame, mal saziata col tozzo cheo un ostinato lavoro o la superba carità del dovizioso gliprocacciarono; dorme il ricco, smaltendo la sovrabbon-dante cena; dormono i forti concordi e i disuniti oppres-si: dorme il tiranno... Possibile che dorma esso, mentretante voci gridano contro di lui vendetta in cielo? men-tre qua vegliano tanti per sua cagione, per ordine suo,nel dolore beffato? mentre per lui son io tempestatocosì? Eppure sì, dorme certo: non l’ho visto io dormirenel parco di Belgiojoso? Che fa a lui il duolo, il piantodei miseri, se quel duolo, quel pianto ne assodano il po-tere?

— Ma i cittadini?... Dormono anch’essi. Oh, se nonvegliarono mai neppure di giorno! Se, cullati dalla pacetra le oziose braccia, hanno sempre gli occhi chiusi aitorti, onde vengono oppressi ogni ora, ogni momento?Vigliacchi! hanno veduto la rovina di tante persone lorcare, e tacquero. Che fa a loro il soffrire degli altri? Equand’anche toccano una nuova sferzata dall’oppresso-re, si risentono un tratto, danno una volta stizzosa pelletto gridando, Come si sta male! poi rattaccano piùsodo. Se alcuno alza la testa, vede gli altri che dormono,

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e non l’odono o non gli badano; onde per lo meglio tace,si adatta, e l’ahi che preparava, finisce in un va bene.Quando verremo a liberarli, non ci cureranno: starannoforse contro di noi. Vigliacchi! Eppure tanti ne co-nobb’io — generosi, pronti a versare il sangue per l’uti-le comune. Or dove sono? Dove son più quei giorni?Ecco! appena diciannov’anni io conto, e già rimpiangoil passato come un vecchio che gemette sulla tomba ditutti i suoi conoscenti!»

Lievemente ondeggiando il capo, cogli occhi aggra-vati da una spasmodica veglia e colla bocca socchiusa,stava incantato a riguardare quei tetti, quelle torri, su cuitratto tratto qualche nuvola squarciandosi versava unraggio di luce, tanto chiaro quanto fugace. Adesso eranoimmagini lontane, ch’egli cercava nelle proprie rimem-branze; la fanciullezza sua, gli spensierati trastulli, rivetranquille dove era destinato a trascorrere sua vita, igno-rando le iniquità degli uomini; accudendo un mulino, in-sidiando ai pesci, ed imbandendoli la sera sulla mensafrugale, pari a tutti gli altri mugnaj.

— Eppure no: chè essi hanno padre, madre, fratelli;io no, io nessuno! io germogliato come il grano di sega-le che il vento trasportò in cima di questa torre. Oh po-tessi almeno rimembrare di mia madre! potessi richia-marmi i sorrisi, i vezzi onde m’avrà vagheggiato appenaio nacqui, e in quella sua terribile corsa giù pel fiume!»

Osservava in dito l’anello, il baciava e ribaciava.— Avevo giurato di non ispiccarmelo se non moren-

do. Ora lo butterò in gola all’avaro carceriere. Che im-

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porta! Trattasi di compire una buona azione. Tu ne seicontenta, o madre: non è vero? Tu sei santa lassù, e tipiace ch’io salvi quest’altra santa in terra».

E raddoppiava i baci intenerito.— Ma mio padre? dov’è egli? perchè non lo

conosco? Oh se lo sapessi! se il rivedessi! una parola dilui basterebbe a formare la dolcezza di tutta la mia vita;un suo consiglio temprerebbe questa foga rovinosa. Ve-derlo, trovarlo ed esser beato — beato come nel paradi-so!»

Nè con minore sospensione d’animo passava queltempo Macaruffo. Seduto per terra con una gamba diste-sa e coll’altra piegata in modo, che colle giunte mani lareggeva al ginocchio, inchinato il capo sicchè tutta lafaccia rimaneva adombrata, guardava egli sottecchi die-tro dietro al soldato che sbadatamente passeggiava. L’a-ria fiera di quel soldato, la partigiana che quegli recavasiin mano, e il cui ferro luccicante riverberava a momentila fievole luce del lampione, mettevano i brividi a Ma-caruffo. Già gli pare d’essere scoperto, e vedersi quelguerriero venire incontro a ferirlo; già sentesi il gelo diquell’arma in mezzo al ventre... aspira con angoscia,come davvero ferito; ed un ahi di spavento gli corre finoalla gola. Allora per isviare la paura caccia la mano intasca, palpa la borsa, lento la slega, fa scorrere sotto aipolpastrelli gli zecchini; e come un innamorato formamille proponimenti, che tutti poi distrugge il primo rive-dere dell’oggetto de’ suoi sospiri, così i terrori sbrattano

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dall’animo del carceriere al tocco, al rovistìo di quelmetallo.

— Uno, due, tre... venti... quarantanove, cinquanta! esono miei!» pensava egli. — Altro che giuggiole! Tantianni di fatica non mi partorirono che stenti e miseria; edecco una notte mi fa capitare quello che in vita mia nep-pure avevo sperato! Oh stamattina devo pure essermi se-gnato bene! Ora capisco perchè il fuoco jersera soffiavaa quel modo... Ed io balordo anguillai prima di accetta-re! Sì, sì; m’han detto giusto a chiamarmi il Lasagnone.Ma ora sarà finito questo rodimento di ascoltare ognitratto, Lasagnone to qua, Lasagnone fa questo, fa quello.E i bettolieri? chè non c’è buco dove io non abbia messoil chiodino: domani gli avrò pagati di moneta corrente.Domani di quest’ora, se le gambe mi dicono il vero, siarriva a casa: moglie, figli saltano dal pagliericcio, mi sifanno intorno a chiedere: Che novità è codesta? non èNatale, che anche i banditi vengono a casa. — Cheti là,dico io: son fuggito. — Ma il signor Luchino? dice ladonna. Dico io: Me ne infischio del signor Luchino e dichi fa per lui: mangi chi vuole quel suo pane di settecroste, dico: vale meglio un cantuccio del mio paese elo stare in santa pace a maturar le ossa al mio focolare,che non tutta la sua città e il suo palazzo, — Sì, dice ladonna: ma mangiare?

Allora senz’altro buttar fiato, caccio a mano la borsa;la fo sonare: — Che? sono cappelletti di chiodi? do-manda Bortolino. Io li verso sul desco, e vedono — ohvedono! Che festa mia moglie! Perdincibacco, non fu sì

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allegra da nozze. E i puttini, che non han mai visto din-di, richiedono: Che roba son cotesti, o tata? — Sono,dico io, tutto quel che uno vuole: sono quelli che fannomuovere il mondo, e godere il paradiso in questa vita enell’altra. Venerateli, dico, che hanno l’impronta disant’Ambrogio. E se il tale e il tal altro vivono in scialie la portano alta, e se noi baciam basso e gli obbedia-mo e facciamo le sberrettate, gli è perchè essi hanno diquesti un buon dato. Altrimenti il Lasagnone sarebberoessi, ed io il bello e il buono e il bravo. Ah ah!

Si stropicciava le mani e brillava, e rideva davvero,talchè il soldato di sentinella si fermò a guatarlo. Quel-l’occhiata operò su di lui l’effetto, che sopra un insolen-te scolaretto côlto in fallo produce il cipiglio del soprag-giunto pedagogo. E rapido come il mutar dei vetri inuna lanterna magica, si convenivano quelle ridenti im-magini in immagini tetre, di pericoli, di castighi: e conqueste gli entrava il consiglio di un tradimento.

— Ah Macaruffo, buona minestra hai fatto! Ma son intempo di ripigliare la parola. Or ora, quando ricompareil Quattrodita, gli vo incontro e gli dico: Assolutamentenon voglio; ho detto per baja. Ma egli rivorrà il suo de-naro. Fossi matto! I fiorini al giorno d’oggi valgono ses-santaquattro soldi di terzoli, e non se ne trovano sullesiepi.... Se potessi salvare la capra e i cavoli! — A buoniconti i fiorini sono in saccoccia (e li palpava, quasi peraccertarsene): potrei andare dal signor Luchino e spiat-tellargli tutto. — Spiattellargli tutto! e poi? Vengono, pi-gliano il Quattrodita, l’impiccano: questo va di suo pie-

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de. Ma a me, cosa mi entra in tasca? Egli non potrà piùpagarmi il fiasco e un boccone, come ha fatto le tantevolte: e quel ch’è peggio, l’anello di diamante è bell’eandato. È vero che potrei dire, Signor Luchino illustris-simo, ho da cantare, ma voglio una mancia: egli me laprometterà: promettere costa poco: ma che mantenga?Dirà: Hai fatto parte del tuo dovere, e mi darà delle zuc-che marine. È poi, e poi, stesse li. La pena sarebbe chesoggiungesse: Quei fiorini sono di mal acquisto, e me litogliesse, e li serbasse coi suoi, tutti d’acquisto eccellen-tissimo».

Pure questo partito, e come più sicuro, e come il me-glio confacente alle abitudini sue, gli piaceva al gusto;ma anche qui non era tutto zucchero — Come ho dafare? Piantar qui, e correre a svegliare l’illustrissimo?— Mai più... di quest’ora! Lo dirò a questa guardia?Oibò! Forse è di balla col camerata; se no, crederà ch’iosia in cimberli. Gli mostrerò in prova i denari. Ecco su-bito un bolli bolli: — ma il Quattrodita è un bizzarro,che Dio ne guardi. Certo sta all’erta, tutt’in orecchicome una lepre: al primo passo che fo, salta fuori; a co-lui non gli croscia il ferro: e m’ha certi occhi, da non vimetter nè olio nè pepe a tirarmi una lanciata. Una lan-ciata! Allora l’illustrissimo mi rammenderà quell’oc-chiello?»

Fra questi e simili pensieri trascinò quel pajo d’ore.Non erano finite quando Alpinolo uscì a rilevare la sen-tinella, mostrandosi in atti ancora sonnacchioso.

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— Bravo Quattrodita: (gli diceva il soldato) Arrivi atempo: tengo a fatica aperti gli occhi.

— Va pur là, Pagamorta (rispondeva Alpinolo), e dor-mi col cuore quieto, che se anche lascerai trascorrere iltempo non ti guasterò il sonnellino dell’oro»

— Viva il Quattrodita» replicava l’altro, sporgendoglila mano rozzamente. — Tocca. Un po’ burbero, un po’stizzoso, ma di buon fondo. Bravo ragazzo! Lascia fare,che appena io diventi principe, ti erigerò caporale»

E con un ghignazzo che si conchiuse in un sonorosbadiglio, se ne andò. I passi di lui rimbombarono lungoil corridojo, più e più sempre allontanandosi: ed Alpino-lo li contava, guardandogli dietro con ansietà. Quelloentrò nel camerotto, lasciò rabbattersi dietro l’uscio, etutto ritornò nel silenzio. Alpinolo diede una girata ori-gliando, guardando; e non udendosi fiato, si accostò alcarceriere: — Ebbene?

— Ebbene?» replicò Marcaruffo, alzando il capocome per ismemorato, a guisa d’un baco da seta chedorme, e fissando in volto ad Alpinolo due occhi d’arti-ficiosa storditaggine. Ma questi in atto imperativo e mi-naccioso afferrandogli il braccio, diceva: — Sta su: l’oraè opportuna.

— E poi?» domandava l’altro, mentre rizzavasi di-noccolato, e sentendo in quel punto meglio che maiquanta distanza corra fra il promettere di fare e il fare.

— Come? tu cagli? e i denari?» replicava risoluto Al-pinolo.

— E il diamante?» ridomandava Macaruffo.

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— Sì, il diamante è qui; ed al varcare della soglia tigiuro da uom d’onore che sarà tuo. Ma a noi! il tempostringe.»

L’altro si mosse dimenando la testa, e brontolando frasè: — Uomo d’onore, uomo d’onore!» Ma una guarda-tura fulminante di Alpinolo, ed una stretta di mano cheparve una tanaglia, lo fece accorto che non era più tem-po di trarsi in dietro, e neppure di star in tentenno. Perfar dunque che almeno l’effetto gli riuscisse senza scon-ciature, si trasse le scarpe, ossia gli zoccoli che allora nefacevano le veci; inginocchiossi, e recitò una preghierache solo il terrore gli traeva sulle labbra, e colla qualenon voleva se non domandare a complice il Cielo. A ta-citi passi allora inoltrandosi, spense il lampione che fio-camente rischiarava il corridojo; spiccò dalla cintura lechiavi, e s’avviò muro muro e tastone verso la carcere diFrancesco Pusterla.

Solito sempre a mutare i passi fragorosamente, fi-schiando e cantando canzonacce con voce assordante,senza verun riguardo ai prigionieri, a cui il gridare spez-zava i sonni e conturbava la fantasia, ora ciampeggiavacon tutte le gelose e timide premure d’una madre, laquale gira attorno alla cuna dell’ammalato suo bambino.Il men che lieve fruscio dei panni gli metteva i brividi; ipassi suoi, comechè fosse scalzo, gli pareva sonare piùche quelli di un guerriero tutto ferro dai capelli allepiante; fin l’anelito studiavasi rattenere: le chiavi, percura che adoperasse, girando nella toppa scricchiolava-no, crocchiava l’imposta, onde se gli rizzavano le chio-

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me in capo. Men pauroso, ma più sollecito, Alpinolo gliera sempre alle spalle, colla sospensione di un ladromentre il compagno sconficca lo scrigno di un usuriere.Alla fine il chiavistello fu aperto, tirato il paletto; e Al-pinolo si precipitò giù per due o tre rozzi scaglioni,chiamando sommessamente — Francesco! signor Fran-cesco!»

Questi, al sentir dischiudere la prigione in ora tantoinsolita e in più insolito modo, già coll’immaginazioneera corso a quei timori, che sono abituali nei carcerati;una violenza, un assassinio. Buttossi ginocchione, chie-se a Dio mercede dei suoi peccati, e gli raccomandò l’a-nima sua come se fosse sul punto di comparigli davanti;risvegliò il suo Venturino, baciollo, il rincantucciò nelpiù riposto angolo della prigione, dicendogli «Sta zitto»;lo ricoperse col suo stramazzo; gli pose davanti, cometrincea, i soli arnesi che vi si trovavano, uno sgabello ela brocca: premura di paterno istinto, che ricorre ad ognimezzo di difesa, per fiacco e inutile che il mostri la ra-gione. Così la chioccia, udendo la romba del nibbio chevolge sopra il capo di essa le ampie ruote, chiama o ri-copre i pulcini sotto l’ala, che neppure un momento lischermirà dal rapitore.

Fra queste ambasciose attenzioni ode chiamarsi anome: si scuote: è una voce conosciuta, ma da gran tem-po non intesa — Chi è là? assassino o amico?» doman-dò.

— Silenzio! un amico», rispose Alpinolo, e si nomi-nò. — Vengo a camparvi: non perdete tempo, usciamo.

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— E la Margherita?» fu la sola voce che replicò Fran-ciscolo.

— Verrà anch’ella.— Dio ci ajuti!» e strinse al giovane la mano in modo

di esprimergli tutta la gratitudine passionata dell’uomoche, abbandonato da tutti, tradito, vicino a morte, ritrovaun amico. Il giovane la sentì, e parevagli significare tan-te cose, che fossero fin troppo a compensare quel cheaveva operato. Poi Francesco tolse sulle braccia il bam-bino, replicandogli: — Taci».

Il carceriere, a cui quel brevissimo indugio era parsoun’eternità, non li vide, gli udì rimontare la scaletta, eraccomandò loro all’orecchio — Fate piano».

Così vennero alla stanza della Margherita.La meschina non erasi dimenticata (e di che si dimen-

tica il prigioniero?), non si era dimenticata che quel dìera il settimo anniversario del suo Venturino. Per unamadre, per una malarrivata, di quante idee doveva esse-re feconda una tale rimembranza! Le doglie del parto,mitigate dalla consolazione di vedere, di toccare, di ba-ciare una tenera creatura, un essere vivente, frutto delleproprie viscere, pegno d’un amore benedetto, illibato;nuovo nodo di tenerezza fra lo sposo e lei; e non saziarsidi guardarlo, di blandirlo, di comporlo; e col proprio lat-te sostentargli la vita che essa medesima gli diede, sonogioje di che il Cielo privilegiò le madri per ristoro ai tra-vagli e alle fatiche del sacro loro stato.

Ricorrendo su quel giorno, alla Margherita tornavanoin mente una stanza agiata, un onorevole letto e tante

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persone intente a prodigarle amorevoli cure, compati-mento, congratulazioni: ed un marito contento, e le spe-ranze che carolano intorno alla cuna d’un neonato.

Ma ora? Tutto mutato: squallore, tenebre, insulto stiz-zoso, il dubbio, lo sgomento; e, peggio di tutto ciò, iltrovarsi disgiunta dal marito, e saperlo gettato in tor-menti pari ai suoi, se non forse più atroci. E quel fan-ciullo, quell’essere innocente e caro, sua compiacenza esuo conforto, in sull’alba della vita, condannato, senzacolpa, a soffrire le pene dello scellerato. Questo dì, chesoleva essere una domestica festività, un giorno di feli-citazioni sintanto che vissero insieme, ora non potevache esacerbare gli spasimi, ora che, così vicina a lui, aloro, non poteva neppur una volta abbracciarli, nè tam-poco vederli. Oh! vederli, vederli almeno da lontano,questo le pareva sarebbe bastato a innondarla di dolcez-za; e ne richiedeva il buon Gesù, e inginocchiata prega-va che almeno quella tenera pianticella fosse risparmia-ta, potesse crescere alla vita, conservando memoria ecompassione di un padre, di una madre, chi sa a qualfine destinati.

Poi, quando l’orazione le aveva tornato alcuna calma,esclamava: — Signore, sia fatta la vostra volontà».

Alfine aveva declinati gli occhi al sonno; il sonnoche, a malgrado dei tormentatori, vien pure soccorrevolealle ambasce del sofferente. Candida anima! il suo ange-lo le svolgeva innanzi sogni, visioni di tranquilli tempiandati, consolatrici speranze. Ridestandosi le immaginicontemplate nel giorno, le era d’avviso trovarsi libera, e

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scorazzare sicura fra i suoi, sulle rive del lago Maggio-re; ed era una primavera, bella quanto mai possa veder-si: tutto fiori, tutto riso, tutto quel mistico canto onde lanatura par che conviti i mortali al banchetto della gioja edella benevolenza, e la fantasia vi aggiungeva quei ma-gici vezzi che colorano un lungo desiderio insoddisfatto.Le pareva stare colà a trastullo colle fanciulle coetanee,ma esser già madre, e mostrare a quelle il suo bambino,che tenevasi alla poppa, e sollevandone lento lento ipannolini, scopriva ad esse quel viso d’alabastro, quegliocchi azzurri come il cielo, donde le era disceso.

Ed ecco la ferisce una voce lontana, fioca, — Mar-gherita! Margherita!»

— È mio marito (dic’ella): quanto tempo che non neintendo la voce! Sarà uscito di prigione, e vorrà vederesuo figliuolo. Ora vengo. Addio, compagne; state allegrefinchè io ritorni».

E così continuando il sogno, alzasi di fatto dal giaci-glio, e colla sorda voce del sonnambulo, risponde: —Vengo», e si muove realmente, e sente abbracciarsi. Aquel tocco, all’intendere una voce che le suona qual do-vette a Lazaro quatriduano sonare quella del divino ami-co che dal regno dei morti lo richiamava, si sveglia an-ch’essa, e trovasi in braccio al suo Francesco: — inbraccio ad esso, e fra loro il fanciullo. Credeva sognaretuttavia, moveasi, fregava gli occhi; — quella era purela mano di lui che le premeva il capo contro il suo volto;erano pur quelli i suoi baci: vere lacrime sentiva scorre-re infocate tra la guancia di lui e la sua.

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Qual momento! Godine, infelice! godine l’ebbrezza,meritata con sì lungo soffrire; godi un lampo che folgoraattraverso la notte del tuo patire: — un lampo.

— Zitta (le disse Francesco) e seguimi».Nulla rispose la Margherita; gli tolse dalle braccia il

fanciullo, e lo strinse al cuore, lo coprì di baci, lo innon-dò di lacrime: — O madri, voi sole sarete capaci dicomprendere quell’istante. Il pargoletto non sapeva chicosì affettuoso lo baciasse, lo stringesse; ma anch’egli,per quel ricambio che l’amore impone, prodigava i bacie le carezze. La Margherita, premendogli il volto controil proprio seno, tra per amore e perchè stesse cheto, simise sui passi del marito. Il quale, presala pel braccio,s’atteneva ad Alpinolo, che colla labarda in una manotentando, coll’altra stava appigliato al carceriere; e que-sto, a passi lenti e lunghi, procedeva, col corpo aggob-bato quasi per occupare spazio minore, appoggiandositutto sul piede posteriore, sporgendo le mani tentone, efermandosi ogni tratto in ascolto.

Già è varcato il primo corridojo; pas ato l’uscio, entrocui dormono le guardie; traversato un andito oscuro, en-trano nella cucina del carceriere, il quale rabbatte dietrodi sè l’imposta, e respira, come già avesse compito il piùdifficile dell’impresa. Un altro usciale metteva a un cor-tile: — l’aprono: — là in faccia si vede una porticina;— cinque passi: uscir da quella, saltare il piccol fosso, esono in salvo. Dalla soglia tendono l’orecchio.... tutto èsilenzio. Una sentinella, sdrajata boccone sur un muric-ciuolo dallato, appoggiando la fronte sulle braccia, dor-

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miva. Macaruffo l’additò ansioso a Alpinolo; ma questi,spunzonandolo, gli fece intendere a cenni che non eranulla; che dormiva sodo; niente paura, non si sveglie-rebbe. Escono: scendono tre gradini: la Margherita, ve-nendo ultima con Venturino, poneva il piede sul lastrico;la luna fendeva in quello il denso velo delle nubi, e unlimpido raggio mostrava uno all’altro i fuggitivi, e la-sciava distinguere la povera Margherita, pallida, scarna,in un trito e lacero vestire, diffuso il crine sulle spallemezzo scoperte, come donna che sorge allora allora dalletto, eppure bella in tanto travagliosa negligenza.

Francesco e Alpinolo volsero uno sguardo pieno diamore, di compassione, di venerazione sopra di essa: ilbambino sollevò anch’egli il capo, e colla manina facen-do indietro i capelli che ingombravano la vista, fissò gliocchi per veder chi fosse l’amorevole portatrice; la scôr-se: la ravvisò. Che tripudio, povero fanciulletto! — Omamma! mamma!» esclamò con uno strillo acuto, a gui-sa di chi rivedesse vivo un suo caro, che aveva piantoestinto; e le gettò le braccia al collo.

Gelarono tutti a quel grido, essa gli turò colla mano labocca: — invano! era tardi.

La sentinella riscossa alzò il capo, vide gente, balzòin piedi. — Ajuto! gente! all’armi!» Non finì di urlarequeste parole, che Alpinolo, dirupatosegli addosso, inmen ch’io lo dica gli ebbe spiccato il capo di netto; poi,colla sciabola insanguinata alla mano, accennava agli at-territi che fuggissero, campassero; egli starebbe alla por-

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ta per impedirne l’uscita ad altri, finchè essi guadagnas-sero tempo.

Tutto inutile! Il grido d’all’arme era giunto agli altrisoldati; da ogni parte traevano con lance, con fiaccole,gridando, minacciando. Alpinolo, col furibondo corag-gio di una tigre che difende i suoi parti, cominciò a me-nare prima la spada, poi la lancia, infine il troncone diquesta, col potere che aveva maggiore, sicchè ne stra-mazzò tanti quanti ne colse. Ma arrivatogli alle spalleSfolcada Melik, gli girò sul caschetto un sodo colpo dimazza, che lo fece, tutto grondante del sangue suo e del-l’altrui, ruzzolare come morto ai piedi della Margherita.Li baciò col labbro convulso Alpinolo; poi, alzando sudi essa lo sguardo ondeggiante, esclamò: — Perdonate-mi».

Macaruffo in sulle prime volle mostrare d’essere ac-corso anch’egli allor allora, e sguainando la coltella cheteneva alla cintola, con parole fiere rivolto ai fuggiaschi,gridava a testa: — Ah cani! indietro, o vi scanno tutti.Di queste s’ha da farne a me? di queste?»

Ma dovette accorgersi che il ripiego non valeva, epoichè il Melik, bestemmiando in suo tedesco e menan-dogli di piatto la sciabola sulle spalle, gli diede la fune-sta certezza d’essere scoperto, gettato l’arma e la fierez-za, si prostrò a terra, e colle braccia aperte e sollevatebadava a strillare: — O Signore! o Vergine benedetta!pietà! misericordia! ho moglie! ho figliuoli!»

La Margherita intanto erasi abbracciata col marito: leloro lacrime si confondevano: i vagiti del fanciullo rom-

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pevano l’aria, ma nell’ansietà di quel terribile istantenulla si dissero, se non che Francesco esclamò: — Omia buona Margherita!» la parola così cara a quella in-felice già nei prosperi suoi giorni, oche egli pronunziòcon un tono da esprimere a un tempo amore, speranza,disperazione, una scusa, una preghiera, una domanda,una risposta, un giuramento.

Tutta ne comprese la forza Margherita, e ne trasse unastilla di ineffabile consolazione anche in quello spasimoorrendo, anche fra le urla e gli schernevoli insulti deisoldati mascalzoni, che a forza li dividevano e li ricac-ciavano nelle loro prigioni.

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CAPITOLO XX.UN FRATE E UN PRINCIPE.

Frà Buonvicino, come l’altra notte, avea serenato,aspettando coi cavalli al noce in Quadronno; perocchè leregole del suo Ordine erano aliene da ogni severità, eper poco che l’abuso le avesse rilassate, non si facevacaso che alcuno stesse anche tutta la notte fuori di con-vento. Aveva, dissi, vegliato in aspettazione, pregando, etalvolta abbandonandosi a una gioconda speranza che ilSignore darebbe favore all’innocenza, tanto da operareun miracolo per trarre la Margherita in libertà; immagi-nava la gioja di sapere in salvo persone tanto care, ilcontento di rivederle una volta ancora, e poi mandarledove fossero sicure dalla tirannia. Ma queste lusinghedavano tosto luogo a un arcano spavento, ai calcoli de-solati della ragione: e figurandosi tutti i pericoli possibi-li, gelava, sudava, e buttavasi colla faccia sulla terra,supplicando Iddio che li salvasse: Iddio che solo il pote-va.

Il minacciare del nembo non lo distolse di là; ben al-tro avrebbe affrontato per rivedere la Margherita. Maquelle ore eterne passarono: i galli cominciavano a can-tare dai rustici casali del vicinato, — Neppur oggi (eglidisse) sarà potuto riuscire». Adunque rinviò il mozzo

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coi cavalli ad un’attigua cascina donde gli avea levati,gli diede la posta per la sera vegnente al luogo medesi-mo, e ritornossi al convento di Brera, facendo un distor-to giro delle porte.

Ancor non era ben chiaro il giorno, e i foresi del vici-no borgo si avviavano a Milano per vendere il latte, l’u-va, le ortaglie; chi con due gran corbe infilate al braccio,chi con due zane in bilico sulle spalle, uno colla gerlapiena in dosso: l’altro cacciandosi innanzi un somarello:quali spingendo le carriuole; alcune villane sbracciate escollacciate e col guarnelletto di stampato, reggevano incapo secchi di latte, coi gomiti a manico di vaso: e par-lavano tra sè del temporale della notte passata che divi-deva l’estate dall’inverno, della prosperità e delle di-sgrazie dei loro campi e degli orti, della fame che corre-va, della peste che minacciava, della comare, dell’ami-co: e facevano assegnamento sui denari che ricavereb-bero quel dì.

Giunti alla spianata fra San Calimero e la torretta diporta Romana, vedono da un ramo spenzolare non san-no che: s’avvicinano: è un uomo impiccato. — Ehi,compare! gua’; quella pianta ha messo un grappolo mas-siccio.

— Oh oh! chi sarà mai!— Mah!— E che diamine ha al collo?— Una borsa.— Una borsa? volete dire che sia piena di quattrini? E

la additavano a chi veniva dietro, e si struggevano di sa-

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perne, per essere i primi a raccontarlo o nelle case doveandavano a portare le uova e i baccelli, od alle fante-sche, loro pratiche, che capitavano colla corbella sulmercato.

Quando vennero fuori della rocchetta i primi soldati,che solevano appostare le bolle ortolanine per volere diesse il dondolo, e per pungerle con qualche arguziasguajata, si conobbe il fatto. E così la mattina per tempola notizia si diffuse, e il verzajo (così chiamano a Mila-no il mercato delle erbe e delle civaje, che allora teneva-si in piazza Fontana) fu tutto un pettegolezzo, un rac-contare e domandare della grande ribellione che aveva-no fatto i prigionieri nella rocchetta di porta Romana,ammazzato i soldati, sfondate le porte, alcuni fuggiti, al-tri ripresi; e due singolarmente (chi fosse non importa-va; già s’intende ladri, o simile lordura, che i galantuo-mini non vanno a prigione) avevano corrotto il carcerie-re per fuggire; ma côlti, erano stati ricacciati in bujosa, eil carceriere mandato sui due piedi in piccardia.

Anche in Brera, il primo lavorante che capitò la mat-tina, — Sapete niente, frate Angiolgabriello?» disse alportinajo.

— No: dite su, che Dio vi benedica; cosa c’è di nuo-vo?»

E l’altro: — Udite, e poi segnatevi»: e gli riferiva iltrambusto avvenuto a porta Romana, nel modo che an-dava per le lingue, e colle alterazioni che sogliono subi-re i racconti nel passare di bocca in bocca o di penna inpenna; — argomento opportunissimo a dimostrare, per

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nostra discolpa, la inclinazione che ha l’uomo al roman-zo storico.

Frate Angiolgabriello da Concorezzo non tardò a cor-rere a raccontarlo al prevosto frà Giovanni di Agliate.Questo era ancora a letto: esclamò — Povera gente!»diede una volta, uno sbadiglio, e rattaccò un sonnellino.Con maggiore curiosità si facevano intorno al portinajogli altri laici e professi per udirla: ed egli, glorioso d’es-sere il primo a spargere una notizia e di andare per lacomunità siccome autore (tanto questa gloria d’autorelusinga fin nelle minime cose!) volentieri la diceva, e ri-diceva come il cieco la sua leggenda. I frati ascoltavanocol pacato interesse, onde si ascolta una notizia che nonci riguarda; al più, una moderata compassione, e i mi-gliori, facendosi il segno della santa croce, esclamava-no: — Gesummaria per loro!»

Ma chi fossero quei fuggiaschi troppo lo comprese fraBuonvicino allorquando, appena mise piede fuori dellacella, il portinajo, che non aspettava che lui, corse subitoa raccontargli il fatto, senza sapere di qual coltellata lotrafiggesse.

— Ma l’appiccato (chiese egli) era veramente il car-ceriere o un soldato?

— Il carceriere, che Dio lo benedica»; rispondeva fra-te Angiolgabriello: — chi me lo narrò, l’aveva coi pro-prj occhi veduto. Ed io sono stato il primo...

— E nessun soldato n’andò di mezzo, che si sappia?»l’interrompeva frà Buonvicino.

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— Eh eh! e quanti!» ripigliava l’altro, trinciando l’a-ria colla destra spiegata.

Frà Buonvicino trasse il cappuccio sugli occhi, manon sì presto da celar la sua emozione agli occhi delnarratore. Il quale dappoi al suo racconto aggiungevaquesta nuova circostanza per dimostrare a tutti di chetempra compassionevole fosse il fratel Buonvicino, cheDio lo benedica.

Quest’ultima tavola del naufragio era dunque fallita.Non già che frà Buonvicino vi avesse posta troppa fi-danza; ma l’uomo è così fatto, che, col lungo fermarvisisopra, si affeziona anche a ciò che egli medesimo sa nonessere altro che sogni e fantasie. Due giorni e due nottiaveva egli trascorse, fissato, assorto in quell’idea, inquella speranza: ed era svanita; svanita così dolorosa-mente! Gli piangeva il cuore per Alpinolo, che credevadover esser perito in quel parapiglia: figuravasi i peg-gioramenti degli amici suoi; sicuro che l’oppressioneavrebbe da ciò preso motivo per esacerbarne la condi-zione. Poi il giudizio loro si sarebbe precipitato; e laprepotenza avrebbe côlto volentieri quest’occasione dimostrare come le intelligenze, di cui più non potevasidubitare, imponessero la necessità di togliere ai fautoridei Pusterla la speranza di camparli con qualche nuovotentativo.

Pur troppo dunque prevedendo l’esito, disperandod’ogni umano soccorso, volgevasi a Dio, a lui che puòmitigare l’ambascia di chi patisce e la fierezza di chi fapatire. All’augusto sacrifizio dell’altare se compunto

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sempre si accostava, quel giorno si presentò con più in-tenso fervore; tremando, piangendo, pregò per le povereanime di quelli ch’erano caduti uccisi, per Alpinolo: Dioè tanto buono! tiene a calcolo anche il sospiro d’un mo-mento: forse quel giovane sarà uscito da questa vita per-donando e perdonato, ed ora si trova ricoverato sotto leali di Quello, delle cui misericordie non è numero. Pre-gò quindi pei due Pusterla, che Dio moltiplicasse a lorola pazienza; che ai loro giudici compartisse, non tanto illume per conoscere la verità, quanto il coraggio per so-stenerla. E gli parve che il Cielo nuovo pensiero gli ispi-rasse, un pensiero coraggioso e nobile: il ventilò: si ri-solse.

Altamente compreso della dignità del suo ministero,frà Buonvicino era ben lontano da quella timida pruden-za, che insegna a tacere davanti al peccatore potente.Non aveva egli sottocchio le parole di Dio e gli esempjdei profeti, degli apostoli, del maggiore dei profeti, e diCristo? il Signore aveagli detto per Ezechiello: Te posisentinella in Israele: annunzia la mia parola. Se quandoio dico all’empio, morrai, tu glielo taci, sicchè esso per-siste nelle sue vie, egli morrà, nell’iniquità, e del suosangue domanderà conto a te30.

Per questo i Veggenti d’Israele nelle corrotte città siaffacciavano gridando penitenza: e benchè il vulgo nesoverchiasse la voce, e gli oppressori intimassero silen-zio, non isbigottivano, e continuavano gridando, Peni-

30 Capo XXIII.

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tenza. Così gridava il Battista alle genti sedute nelle te-nebre della morte, e portava la minaccia alla Corte delre, e n’aveva — ricompensa antica — prigione, suppli-zio.

Poi gli apostoli, fra la pertinace superbia de’ Giudei ela spensierata lascivia delle genti, bandivano una leggedi spirito, contraria alla legge della carne; instavano op-portuni, importuni31; battuti, scherniti, uccisi, l’ultimavoce loro sonava ancora una vigorosa professione dellaverità. Chi avesse lor detto di piegarsi ai rispetti delmondo, alle spietate necessità della politica! Non cosìgli aveva ammaestrati il Divino, che scese a portare laspada della parola, che predicava il regno della giustiziain faccia ai sofisti, agli ipocriti, ai forti congiurati, seb-bene sapesse lo trarrebbero a morte per seduttore dei po-poli e ribelle. Chi volle innestar il Vangelo sulla pusilla-nime prudenza dei figliuoli degli uomini, piegarlo agliinteressi del secolo, a rinfrancare i prepotenti contro ideboli, dovette snaturarlo nel carattere suo principale.

Non così l’aveva inteso frà Buonvicino; onde altrevolte era uscito per le vie di Milano rimproverando i di-sordini della plebe, gli stravizzi dei ricchi, la corrutteladegli obbedienti e l’eccedere dei magistrati. Vero è cheallora, quando non erasi ancora aperto questo cancrodell’indifferenza, questo ateismo pratico, la voce dei re-ligiosi sonava venerata, perchè suggerita da intima con-vinzione, ed ascoltata con fede: i sacerdoti si guardavan

31 A Timoteo II. IV, 2.

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per annunciatori di pace, come il loro capo era destinatoa stare sopra i potenti della terra coll’inerme eredità diCristo per insegnare la giustizia colà, dove tutto regola-vasi a forza di spade o d’astuzia.

Traviarono? mescolarono gl’interessi della fede conquelli del secolo? Compiangiamoli: ma quale ingiustiziaattribuire alla religione i disordini ch’ella appunto ripro-va! Benediciamo anzi la Provvidenza che, tra la ferociadi animi incomposti, tra quel cozzo degli elementi so-ciali, avesse stabilito un ministero di riconciliazione32

per frenare il braccio del violento, spruzzare l’acquadella pace sui rancori fraterni, chiamare i furibondi a de-porre gli sdegni nelle braccia d’un Crocifisso. Beneficopotere, che interponeva il nome di Dio agli atti umani;se non altro, protestava in favore della calpestata umani-tà: chi oggi ne adempie le veci? Le istituzioni umanevanno soggette a speranze e timori; può la prepotenzalusingarle od atterrirle; può la scaltrezza farsele alleate;tristo chi non si affida che nella polizia e nelle bajonette,e chi a queste non sa opporre che la rivolta e l’assassi-nio.

Frà Buonvicino fermò dunque in animo di andar a pe-rorare dinanzi a Luchino la causa dell’innocenza. Invo-cato Colui, che solo può dare efficacia alla verità, forzaalla persuasione, e far dalle rupi zampillare acque vive,si diresse al palazzo, come Natan andava a rinfacciare aDavid il suo peccato. Le persone vulgari, che lo vedeva-

32 Ai Colossensi, 5.

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no meditabondo e sopra sè attraversare le vie, dicevanoai loro figlioletti: — Gli è un santo: quando lo scontribaciagli la mano». I nobili, facendo tacere l’orgogliodella nascita avanti ai meriti dell’intelletto e del cuore,gli cedevano il lato rispettosi; le guardie del palazzo egli adulatori diedero il passo, inchinandosi a colui cheindovinavano come venisse a bandire la verità dove essifacevano ogni studio per palliarla; ma è privilegio dellaverità il rendersi venerata da coloro stessi che l’abborro-no, come è privilegio della lusinghiera viltà il toccare losprezzo anche di quelli, innanzi a cui arde i suoi fetidiincensi.

Nell’avvicinarsi alla torre, entro cui soggiornava Lu-chino, quattro fieri mastini si levarono incontro al frate,con un abbajare, con un ringhio, che a stento represseroi custodi. Grillincervello, trattosi anch’egli il suo burle-sco berretto, senza permettersi contro del frate i motteg-gi che a nessuno risparmiava, corse ad annunziarlo alVisconti, limitandosi a dire sottovoce agli altri: — Oggiil principe ha predica in camera».

Il Visconti stava in quel momento ritirato in un ripo-sto gabinetto della sua torre, insieme con un uomo digran barba, ravvolto in una veste nera, lunga fino ai tal-loni; il quale, con aria d’importanza o d’impostura (l’u-na somiglia tanto spesso all’altra), teneva il dito teso so-pra una figura geometrica che aveva delineata, e che ve-niva dimostrando al principe. Un astrolabio ed una sferaarmillare posti fra loro, indicavano come costui fosse unastrologo. Era di fatti quell’Andalone del Nero che ci fu

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nominato altre volte, non meno celebre a Milano chefosse ad Avignone quel Tommaso Pizzano, si mal a pro-posito consultato dal Pusterla.

Luchino, come tutti solevano nei casi più dubbj e rile-vanti, aveva interrogato Andalone nientemeno che sopraun problema, a cui attendono da secoli migliaja di per-sone... cioè se fosse possibile congiungere l’Italia sottoun solo signore, e se egli potrebbe essere quel fortunato.

Gli elementi per risolvere quest’arduo problema sa-rebbero certo assai diversi ai nostri giorni; per lo menonon v’entrerebbero più quel che allora pareva capitale,voglio dire il consenso delle stelle e le influenze celesti.Anzi io credo che, in tale discussione, troppo poco siguarderebbe di sopra dei tetti.

Giovane, prode di sua persona, ricco d’accorgimenti edi scaltrezze, non mai rattenuto nella sua vita dallo sgo-mento d’un delitto, valutando gli uomini come mezzi, lealleanze come lacciuoli, i patti come un’esca agli incau-ti, e ragione la prepotenza, e giustizia la buona riuscita,Luchino poteva sperare di raggiungere una meta, allaquale avevano sempre avuto la mira i suoi predecessori:raggiungerla, purchè qualche aspetto maligno di pianetinol contrariasse. Ma chi spassionato guardasse alle con-dizioni del paese, trovava da un lato le abitudini radica-tissime in popoli avvezzi a riguardarsi non solo comestranieri ma come nemici, la malvagia ingerenza deglistranieri che soffiavano nelle ire fraterne, le gelosie de-gli altri signorotti, e l’ostacolo interiore di una potenza

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che i diritti temporali sosteneva con armi spirituali, allo-ra spaventosissime.

Queste cose vedeva Andalone del Nero colla pruden-za della politica: ma fingendo leggerle nella congiunzio-ne degli astri, aveva rizzato l’oroscopo, ed ora spiegan-dolo a Luchino, da una parte non voleva scemare creditoall’arte sua con promesse che uscissero poi vane, nè dal-l’altra disperare affatto l’ambizioso signore. Esponevadunque le cose con tale avviluppo, con gergo sì dottrina-le, con tanti misteri, che Luchino nè sapeva trovarvi ac-carezzate le sue speranze, nè volea vederle sventate, tal-chè ne rimaneva scontento e indispettito.

Più s’indispettì all’annunzio di Grillincervello. Cono-sceva egli Buonvicino fin da quando era nel secolo, e lotemeva come uno di quegli uomini dritti, che alle operescellerate, agli iniqui consigli oppongono un ostacolo le-gale quando possono, o, quando non possono, una passi-va resistenza; — uomini odiosi al potente ribaldo, giac-chè con nessun atto eccedente gli offrono ragione o pre-testo di reprimerli, di perseguitarli.

A mal cuore sentì pertanto il venire di lui; pure nonardì negargli udienza, sì perchè rispettato, sì perchè larecente sua riconciliazione col papa il costringeva amaggiori riguardi verso i religiosi. Onde comandò an-dasse ad aspettarlo nella sala della Vanagloria, accioc-chè la regia pompa del luogo facesse meglio sentire lagran distanza fra il principe temuto e l’umile frate, fral’uomo circondato dalla forza e quello che non ha senon le umili virtù della beneficenza.

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Quivi entrando, Luchino, sebbene si fosse messa in-torno al cuore la calcolata freddezza di un potente cheva ad ascoltare chi ha già deliberato non esaudire, purecon sembianze cortesi mosse verso frà Buonvicino, di-cendogli — Ben giunto! che ci recate, o padre?»

Al che frà Buonvicino inchinandosi, — Quando il mi-nistro del Dio della misericordia si affaccia alla soglia diun potente, può egli recarvi altro che consigli di man-suetudine e di clemenza?

— E sempre saranno qui ben accetti», soggiungevaLuchino con affettata sommessione, da cui ingegnavasidi non lasciar trapelare l’alterigia, che di leggieri acqui-sta chi non sa se non essere obbedito. E il frate: — Sia-tene benedetto! Ma non basta che l’orecchio sia dischiu-so al vero, se il cuore poi non lo riceva. O principe! cor-rono per la città strani rumori di nuove vendette...

— Vendette! vendette!» interruppe l’altro rinforzandola voce. — Vendette! solito nome con cui la malignitàqualifica le punizioni. Dunque se un traditore mi si sol-leva in casa, se alcuno trama per togliermi quel che a di-ritto possiedo, ed io punendolo riparo me e la società dicui son tutore, avrà a dirsi vendetta? Non m’ha data Id-dio la spada per ferire?

— E Dio», riprendeva il frate con voce tanto piùcommossa quanto iraconda erasi fatta quella del Viscon-ti. E Dio vi conceda lume per ben adoperarla. Ma aveteesaminato voi stesso se mai non vi traviassero personaliaffezioni? Siete certo che non v’inganni alcuno di quelli,di cui sta scritto che preparano continuamente saette

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per colpire nelle tenebre i buoni33? Avete consideratocome il sangue innocente gridi incessante al cospettodell’Agnello?»

Nei moti del Visconti appariva la insofferenza di unlinguaggio così vero, ma così inusitato, e il frate prose-guiva: — Ma sia; abbiano ordito tradimenti; non è unprecipizio punir l’attentato come la colpa? Quanti cuorinon vi guadagnerebbe la clemenza? quanti non ne rimo-verà da voi il rigore? Oh la clemenza! essa è un vantoper l’autorità benefica, è un calcolo per i malvagi allor-chè suggerisce che ogni enfiato non si dee tagliare, cheil rigore può imporre il silenzio, ma non infonder l’amo-re, unico fondamento stabile della podestà. Essa è uncalcolo allorchè fa vedere quanto divario corra fra unprincipe benedetto dal popolo, che egli dirige da buonpastore, corregge da padre amorevole, e un altro che nolfrena se non tenendogli alla gola il pugnale. Guai algiorno che quel pugnale si spuntasse! Ma questi sonodiscorsi di prudenza umana. Io son ministro del Vange-lo, e come tale vi domando: Siete voi cristiano?»

Rizzò la testa Luchino a un’interrogazione che gli so-nava potente come uno scongiuro, ma tosto armatosidell’ironica indifferenza contro cui si spuntano e la ra-gione e la pietà, tentennando il capo, rispondeva: —Cristiano? io? me lo chiedete voi, o padre? voi di unconvento che dovrebbe conoscermi?

33 Salmo X.

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— Come tale (ripigliava frà Buonvicino) fate ogniopera onde conformarvi a quel divin Modello, che nondomanda olocausti ma giustizia, che al par di sè ci vuoletemperati e misericordiosi. Ora egli intimò preciso, che,se il fratello ci offende non una volta, ma settanta voltesette, altrettante condoniamo; e promise misurar noi col-la misura che avremmo cogli altri adoperata. E voi stes-so rinnovate quel patto ogni giorno allorchè pregate cheegli perdoni a voi, come voi agli offensori. Or quandoripetete questa preghiera, bagnato del sangue, anzi purdelle lagrime di un nemico, non vi ricorda che vi è unpunto a cui tutte le strade mettono capo? che un giornoun giudice...

— Lo so, lo so», interruppe Luchino, sollecito disviare un pensiero che fa gelare il ribaldo sotto alla co-razza o fra un cerchio di spade.

— Lo so: ma so ancora che l’ingiustizia invendicataprovoca a nuove offese. Bello, sì, sublime è il Vangelo,ma per ridurre in pratica quella sua angelica società,converrebbe che tutti l’adempiessero».

E il frate, — Ma quando il fallo altrui potè scusare ilnostro? E se tutti seguitassero cotesta vostra ragione,che sarebbe il mondo più che una spelonca di ladri? Ah!già troppo la forza ha dominio nelle cose umane; giàsuggellò atroci distinzioni fra gli uomini. Invece di scu-sarsi coll’esempio di chi travia, perchè i potenti, perchèvoi non vi fate esempio agli altri; non cercate rilevarel’umana dignità abbattuta, col sostituire il diritto allaprepotenza?

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— A questo modo vorreste inferire che sin ad oggi er-rarono quelli che punirono, errarono le leggi, errarono inostri antichi, e quei lumi di ogni sapienza, i Romani».

E il frate di rimando: — Quelle leggi chi le ha fatte?l’uomo, abisso di contraddizione e di miseria. Ma piùsopra sta un altro legislatore, infallibile, scevro da pas-sioni e da interessi, che ha fatto legge la carità, dovere ilperdono. Se le istituzioni umane vi si conformano, bene-diciamo il Signore. Ma se sono disformi, se i sudditimormorano...

— E di che non mormorano essi?» interruppe Luchi-no. — Non udite come continui suonino i loro lamenti?Mormorano di quei gloriosi imperadori romani; mormo-rarono contro il gran padre mio; mormoreranno di me.Perchè dunque piuttosto non vi diffondete tra cotesti, in-tolleranti di ogni autorità, a predicare la somma dellevirtù, la subordinazione? perchè non mostrate a codestiperpetui scontenti come il comandare sia peso assai piùgrave che non l’obbedire? Oh no; allora non occorrereb-bero codesti panegirici della clemenza, i quali tornanoconto solamente ai rei, come ai vinti il panegirico dellagenerosità».

E col piglio fra sprezzante e scrutatore che acquistanocoloro, in cui la politica soffogò l’umanità, fissava ditraverso la venerabile fronte di frà Buonvicino, mortifi-cato, ma non da riguardi umani, e più nobile in mezzo aipatimenti. Il quale proseguiva: — Se i popoli si lamen-tano sempre, non correte a trarre per unica conseguenzache siano dunque incontentabili. Quanto alla subordina-

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zione, che altro facciam noi se non bandirla tutto dì frail popolo? Oh forse la verità va riguardosa allorchè parlaa coloro, coi quali può essere franca impunemente? MaDio ci comandò di dirla al forte; e per questo ci teniamoobbligati a predicare che, nel libro stesso ove è impostoai sudditi di obbedire, è comandato di ricordare che tuttivengono da un padre, tutti camminano a un fine. A chiin contrario procede, quale castigo intima Iddio? chetremeranno ove non sia timore34. Se poi gli eccessi delcapo, non dico scusino ma traviino il popolo, se questopopolo mormori, se pensi togliere l’autorità a chi neabusa, avrà questi il diritto di vibrare la spada controagli offensori? Non l’ha rintuzzata egli stesso il giornoche la volse a sostenere l’iniquità?

— Egregiamente!» riprendeva Luchino; e pratico nel-l’antico sofisma che mostra il torto dell’avversario colfargli dire più che non abbia inteso, continuava: —Egregiamente! negare al principe il diritto di punire!renderci da meno di un superiore dei vostri conventi!Ma già il mondo non s’impara fra quattro mura, nè ilgoverno di una comunità ecclesiastica insegna quel chegiovi a una città, a un popolo... Sì, sì, vorrei veder io chistarà arbitro fra me e cotesto popolo; chi verrà a dirmi,— Trascendesti i patti, dunque discendi».

E batteva la mano sul pomo della spada. Ma fràBuonvicino, — Ecco dunque qual parrebbe a voi il gra-vissimo dei misfatti: l’osar parlarvi la verità. Sempre

34 Salmo XIII.

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dunque misura delle opere la potenza, ogni quistione ri-solta colla forza, per la quale potete comandar di tacere.Eppure questa società vi ha affidato il potere: essa èl’organo di Dio, il quale è superiore a cotesto brando incui fidate...

— Eppure» l’interrompeva Luchino colla compiacen-za di chi ferisce l’avversario colle armi sue stesse: —eppure questo Dio si compiace di esser chiamato il Diodelle vendette».

Ma il frate, senza esitare, — Sì, perchè egli è giustoper essenza, e però vendica gli innocenti, giudica le giu-stizie, si fa rifugio dell’oppresso e del tribolato. Ed egli,scevro da passioni e da interessi mondani, dettò una leg-ge superiore a queste, fatte dall’uomo, fallibile per cuoree per mente, una legge di mansuetudine e di perdono.Ed egli stesso ha dato la spada ai signori della terra, maper punire, non per vendicarsi, per tutela della società,non per oltraggio, non per far misura delle opere la po-tenza. Se il patto s’infrange, non cessa da questo istanteil diritto? E il ministro di Dio non ha obbligo di rinfac-ciarlo al trasgressore?»

A guisa di un fanciullo caparbio e ritroso, che non sacome replicare, pur non vuole obbedire, il Visconti conun tal riso che gli era proprio, esclamava: — Obblighinuovi! nuovi incarichi!

— Nuovi! (soggiungeva fra Buonvicino) nuovi quan-to il libro ove il più sapiente dei re scriveva: Ascoltate, oregnanti; imparate, o giudici: da Dio v’è dato il potere,ed egli interrogherà le opere vostre, e vedrà se mai voi

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primi aveste contraffatto alla sua legge35. Nuovi quantoil Vangelo, dove è raccontato del servo che fu sentenzia-to alle tenebre inferiori perchè non aveva usata al con-servo debitore la misericordia che egli stesso aveva otte-nuta dal padrone. Meno poi avrebbero a somigliar nuoviin Milano, e a voi che tante volte traete a pregare allabasilica ambrosiana. A quella stessa drizzavasi un altroprincipe, la più gran maestà della terra, un Teodosio im-peratore romano: quand’ecco uscirgli incontro un vesco-vo, il mite Ambrogio, e rimproverargli il sangue versatoin città ribelle. Eppure questa città era sorta alle armi eall’eccidio. O principe, il mite Ambrogio non ricevettealla comunanza della preghiera e del sacro pane l’impe-ratore finchè con lunga penitenza non ebbe tersa la mac-chia.... O principe, e le mie son novità?

— Ma al nome sia di Dio; in conclusione che voleteda me? (dava su Luchino con irrefrenata impazienza).Che io disserri le prigioni, o mi empisca il paese di fur-fanti e di assassini?»

Allora il frate con tono supplichevole, — Sono tuttifurfanti e assassini quelli che chiudete nelle vostre pri-gioni? E con loro confusi non gemono forse altri, nondirò rei, ma accusati di trame contro la vostra autorità?Quale impresa tentassero io nol so. Ma se, così pochi,pensavano togliervi un potere difeso dal popolo che velo conferì, non meritan piuttosto compassione che casti-go? Non torna meglio farsene altrettanti amici col per-

35 Sapienza, VI

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dono? Se poi avete ragione di credere che il popolo stes-se con loro, come persuadervi che il sangue di pochi af-fogherà le ragioni comuni? e allo sdegno sostituirà nellamoltitudine l’amore, unico fondamento durevole all’au-torità? Non è a temere piuttosto che il gemito di ognivittima risuoni nei cuori già commossi, per eccitarvi ildesiderio di vendetta? Tanto più se le vittime sono illu-stri, se care per virtù, se credute innocenti. O principe,voi tenete nei ceppi Francesco Pusterla e la donna sua....

— Che? tutta la predica dunque riesce a questo? Ovesi tratti di bella donna, anche voi, reverendo, ne prende-te a cuore la sorte?»

A fra Buonvicino andarono nel fondo dell’anima que-ste parole. Recatosi in sè stesso, rapidamente esaminò sei primieri affetti avessero troppo parte nella condotta suapresente: gli parve di no, ma disse in cuor suo: — Ciòsia in riscatto dei miei trascorsi» e tacque. Luchino, acui quello scherzo era sfuggito in un momento ove il na-turale prevalse alla riflessione, rifattosi più serio di pri-ma, continuava: — Voi non ignorate come i costorocomplici siano stati processati, e come dalle spontaneeloro confessioni pur troppo risulti che la famiglia Pu-sterla, ingrata a tanti benefizi, stava a capo di una tramacontro la sicurezza mia e del mio Stato. Osereste richia-mare in dubbio un giudicato?

— Anche Cristo fu giudicato; giudicati i martiri, e ilcristiano che sel ricorda, sa che talora la spada della giu-stizia emula il coltello dell’assassino: sa vedere l’inno-

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cente perfino in chi sale al palco, e il riprovato da Dio incolui che lo condannò.

— Ebbene, Dio li salvi se sono giusti (parlava Luchi-no). Quanto a me, per non sembrare mosso da particola-ri affetti li sottoposi a giudici indipendenti, e secondoparrà alla loro rettitudine, sarà fatto.

— Qui appunto sta il forte, (riprese la parola fraBuonvicino animandosi), che sotto al manto della retti-tudine non si mascheri l’iniquità. I giudici saranno egli-no incorrotti? Avranno il coraggio di sentenziare diversoda quel che altri accenna loro come desiderio del padro-ne?»

Non parve vero a Luchino di trovare un appiglio ondeirritarsi e gridare, e sottrarsi così alle argomentazioni delfrate, che più lo serravano quando erano esposte conmaggiore aspetto di calma e di soggezione. — E che?(gridò) osereste dubitare dell’integrità dei miei giudici?Padre, finchè parlaste di noi, finchè mi intimaste i mieidoveri, dritto o no, io vi ho dato orecchio colla sommes-sione di un fedel cristiano. Ora non più: voi intaccate ipiù onorevoli fra i miei cittadini. Silenzio, dunque: ba-sta. Della premura che vi prendete per l’anima nostra eper la nostra fama, gran mercè: ve ne ringrazieremo me-glio che con parole. Ma qui finisce la vostra parte. Visono leggi, e vi sono giudici per applicarle. Innanzi adessi compariranno cotesti vostri protetti, vedranno snu-date le loro scelleraggini, e... morranno».

Così disse con quella voce risoluta che non ammettepiù replica, e quest’ultima parola, traboccatagli come in

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ricatto della forzata degnazione adoperata sino allora,rimbombò terribile per la dipinta volta del salone, e aguisa di un fulmine colpì il frate, che ammutolito chinòla testa. Quando la rialzò, vide Luchino che varcava lasoglia a passi concitati, lasciandolo solo. Così anche lepoche volte che la verità può accostarsi all’orecchio deitiranni, la funesta abitudine di veder fatta legge la pro-pria volontà reprime quel grido, e pone ancora al luogodel diritto l’arbitrio e la potenza.

Luchino tornò ad almanaccare la conquista di tuttaItalia con Andalon del Nero; l’Umiliato discese comecieco le scale del palazzo; attraversò la città compassio-nando i popoli, a cui Dio manda il peggiore dei flagelliche accolga nei tesori dell’ira sua, una trista signoria; evenne al convento di Brera, meditando le miserie delgiusto, le quali gli gridano come la sua patria non èquaggiù.

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CAPITOLO XXI.SENTENZA.

Frattanto ogni cosa era disposta pel nuovo giudizio.Quel Lucio, capitano della giustizia, del quale abbiamoaccennato i severi e maligni procedimenti, era stato, inpremio del suo zelo e della fedeltà, messo al temporariogodimento del palazzo in Milano e della deliziosa villadi Mombello, ricchezza un tempo e ricreazione dei Pu-sterla; lasciandogli scorgere che, qualora i primitivi pos-sessori cessassero di potervi pretendere mai più, ne ri-marrebbe in lui l’assoluta padronanza.

In un anno egli vi si era naturalmente affezionato, enaturalmente desiderava conservarseli tutta la vita, tra-mandarli al suo carissimo primogenito; e, o non ritorna-re mai più nella patria, la quale ricordava la vergognade’ suoi bassi natali e della originaria sua povertà, o re-carvi un fasto e una ricchezza che gli attirasse l’invidiadi chi prima gli aveva avuto compassione. Il mezzo poiera così facile! Quando mai l’avaro e l’ambizioso si tol-sero da un loro divisamento perchè costasse un’ingiusti-zia?

Facile, ho detto, il mezzo, cioè la condanna dei Pu-sterla, poichè i giudici sapevano di gratificarsi il potentecoll’aggravare il preteso colpevole, e che, sentenziando-

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li a morte, secondavano la legge, la forza, la passione diuna di quelle anime dispotiche, in cui il non volere avertorto è il sentimento surrogato a tutti gli altri. E giàcome complici della congiura del Pusterla molti eranostati mandati al supplizio: forse anche è vero che alcuni,o per violenza di tormenti, o per propria fiacchezza, operchè credessero minor male il versare ogni colpa so-pra chi pensavano trovarsi in luogo sicuro, avea depostoa carico di Francesco quanto bastasse alla legge perchiarirlo reo. Egli stesso, il Pusterla, col fuggire aveasomministrato un indizio di sua reità. Il principe poiaveva manifestato troppo apertamente il voler suo colviolare persino il diritto delle genti affine di aver nellemani quel famoso ribelle; come tale egli era stato rap-presentato ai Pisani, affine d’indurli a consegnarlo;come tale nominato alle varie Corti che s’informavanodi quel fatto; come tale ritenuto nei discorsi del popolo,fra il quale la congiura del Pusterla era divenuta, a forzadi ripeterlo, un fatto di comune persuasione.

Senza dunque parlare dei vigliacchi che non valutanola coscienza se non pel vantaggio di poterla vendere, an-che i meno ligi fra i giudici, convocati a formare la com-missione di giustizia, erano in disposizione sfavorevoleaffatto ai Pusterla. I nuovi tenevano a gran calcolo l’o-nore fatto ad essi dal Visconti col trasceglierli a ricono-scere la rettitudine del suo procedere; e poichè ognunocrede sè medesimo probo e generoso, persuadevansi cheegli, coll’elegger loro, avesse dato prova di giustizia, e

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quindi, senza quasi accorgersi, pendeano a non mostrareingratitudine a Luchino col contrariarne i disegni.

Ben n’avea di quelli che, come buoni padri di fami-glia, come cittadini di uno Stato che conservava il nomeed alcune apparenze di repubblica, avevano fremutocontro di un processo che l’equo sentimento e l’esamespassionato dichiaravano iniquo: ma le fittizie opinionidella società hanno saputo creare due onestà diverse pelparticolare e pel magistrato, e insinuarono che uno pos-sa come privato ammirare colui, che come giudice pre-tende esporre all’infamia.

Io non dico che queste cose si analizzassero comeoggi: dico che come oggi le si facevano.

Quanto a coloro che avevano già avuto mano nel giu-dizio precedente, troppo interesse trovavano che il nuo-vo non ne discordasse. Posto ancora che contro dei Pu-sterla fossero mancate tutt’altre prove, fossero anzi(caso poco men che impossibile in processi di tal gene-re) apparse dimostrazioni di sua innocenza, il confessar-lo incolpevole non tacciava di falsi i giudizj precedenti?Che sarebbesi detto se fossero risultati innocenti quelli,su’ cui compiici già si era proferita una condanna? Dovesarebbe andata la dignità della giustizia qualora si fossemostrato possibile che ella s’ingannasse? e s’ingannassein decisioni irreparabili? il ritrattarsi è tale forza di virtù,che rare volte ne è capace un privato: non so se mai uncorpo.

Pendevano dunque i giudici a volere trovar reo il Pu-sterla, persuasi fosse questo un atto di mera giustizia;

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per lo meno una conseguenza immediata e necessariadelle giustizie antecedenti. Così l’iniquità ha natura si-mile all’acqua; se appena faccia pelo in un edifizio, perrobusto ch’e’ sia, a poco andare l’avrà scassinato e ri-verso.

Lettori miei, di buon cuore e di buon senso, voi vede-te che io m’ingegno di mostrarvi come l’uomo, passopasso, giunga a reprimere il sentimento del retto e deldovere, deposto in fondo all’anima sua. So chi da talifatti deduce che quel sentimento è un sogno, che l’uomoè una belva feroce, a frenare la quale bastino appena laforza dei patti sociali e la severità delle leggi: ma seesploreremo le vie che guidano al pervertimento morale,e quel che possano l’educazione e le leggi, vedremoche, se esso si vela e si deturpa fra l’ambizione, l’egoi-smo e la prepotenza, vive però nelle anime schiette e pa-ghe del loro stato, per attestarne l’origine divina.

Per la pura verità bisogna confessare che la causa delPusterla trovavasi ora di gran lunga peggiorata. In quelsuo esigilo erasi egli veramente adoperato a cercar ne-mici al Visconti; gli stava a fronte Ramengo, il qualesmaniava di trarre a fine una tela scelleratamente ordita,e pur troppo poteva produrre a carico di Francesco lepratiche conosciute a Pisa, i discorsi da lui tenuti nel-l’abbandono della confidenza; in fine il suo tentativo perunirsi allo Scaligero, a danno del Milanese. Farsi capodi esercito straniero contro la patria era colpa, che desta-va orrore a qualunque buon Lombardo.

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Dopo ciò mi permetterete ch’io tralasci la fralezzadelle prove, l’assurdo dei confronti, il sofisma delle de-duzioni, le confessioni estorte o con tormenti o con rag-giri o con suggestioni; tutto l’artifizio onde Lucio e glialtri s’industriarono a travisare la verità. Qui, come al-trove, la storia potrebbe aver apparenza di satira.

Che se pure fra i disconforti che troppo spesso ellareca, vorremo in tutto questo cercare cosa che ne conso-li, sia il considerare quanto la dignità dell’uomo abbia,da quel tempo in poi, acquistato rispetto. Allora dallacondanna restava generalmente colpito, non il reo sol-tanto, ma tutta la famiglia; e non intendo solamente deldisonore, che fin oggi non s’imparò a limitare unica-mente sul colpevole, ma le pene ancora ricadevano sugliaderenti del condannato, come sugli averi di lui. Nei de-litti di Stato principalmente la brama di atterrire conesempj spaventosi faceva che i fratelli, la donna, i fi-gliuoli s’involgessero nella condanna del ribelle; tenerifanciulli (tutte le storie il ricordano) vennero, per le col-pe dei padri, sepolti nelle carceri, tratti al patibolo, dati asbranare ai cani. Ora la nascita e la parentela danno sol-tanto diritto a gradi ed onori; allora si era più atroci, maanche più logici.

Terminato il processo segreto dalla commissione digiustizia, il voto doveva, come l’altra volta, essere espo-sto al consiglio generale, che rappresentava o figuravasirappresentare il popolo milanese. E Lucio in fatti, con-gregatolo per ordine del signor Luchino, gli presentò il

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processo affinchè lo trovasse giusto, e ne ratificasse lasentenza.

La campana del Broletto nuovo, che invitava i capifa-miglia a radunarsi, ad ascoltare e dir di sì, piombò sulcuore di frà Buonvicino, come un preludio di morte,come i botti dell’agonia; e abbandonata la sua cella, di-scese a pregare nella chiesa. Quivi si andò a prostraredavanti a quell’avello medesimo, sopra il quale erasi in-chinato nel memorabile giovedì santo, in cui Dio gliaveva parlato al cuore e chiamato a penitenza ed a vitanuova. Quante cose erano mutate da quel giorno! Ancheora la Margherita stava in cima dei suoi pensieri, ma dehin qual diversa sembianza!

Meditò, pregò pei sofferenti, pei loro oppressori: so-migliante ai primi seguaci di Cristo allorchè, nelle per-seguitate catacombe, si raccoglievano sulle ossa deimartiri a supplicare il Signore pei loro fratelli, che inquel momento suggellavano col sangue la fede nella vir-tù e nella verità. Invocò lo Spirito divino perchè miti-gasse colui che pur troppo aveva in sua mano la vita diquegli sventurati; perchè, se non altro dissipasse da que-gli infelici lo sconforto e i dubbj desolati, se mai, comepur troppo temeva, fossero destinati a vuotare il calicesino alla feccia.

Quando la vita sua propria fosse stata in quel momen-to sotto alla deliberazione di un tribunale, non avrebbefrà Buonvicino fatto altrettanto fervida e passionata l’o-razione, non ne sarebbe stata altrettanto penosa la incer-tezza. A volta a volta gli sorgeva in cuore una consolan-

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te fiducia nella bontà morale dell’uomo, nel trionfo deisentimenti generosi, ma tosto ne ricadeva in disperatoabbandono. Tutto allora fissavasi in Dio; in Dio che sifarebbe sostegno e premio dell’innocenza, che non da-rebbe il giusto qual nuovo trofeo all’empietà: ma poi siricordava che Dio non somiglia al fango coronato delmondo, la cui autorità cessa appena che, come l’ultimodegli schiavi, ritorni alla polvere donde è uscito, ma cheil suo regno si stende oltre i confini della tomba, e di làappunto cominciano le sue retribuzioni.

Alcune ore egli era rimasto così assorto nella medita-zione e nella preghiera, allorchè sentì gentilmente toc-carsi la spalla. Levò lo sguardo come persona riscossada un profondo pensiero, e vide accanto a sè un giovanein elegante vestitino succinto, metà cilestro e metà bian-co, schietto, assettato in modo da dar rilievo all’adattastruttura e all’agile robustezza del corpo, su cui il farset-tino e i calzonetti non facevano tampoco una piega. Ap-poggiando con leggiadria al fianco sinistro la mano ar-rovesciata, con cui reggeva il berretto di velluto, purbianco, donde cascava con grazioso vezzo una piuma dipavone, posando la destra sur una elegante bacchetta diebano col pomo e il calzuolo di terso argento, tenevasiesso in rispettosa distanza, con quell’atto di ossequiosagentilezza che si imparava nelle Corti. Una grossa serpericamata di argento sul suo giustacuore non lasciò dubi-tare a frà Buonvicino che non fosse un cameriere del Vi-sconti; e, palpitando di speranza e di timore, se gli levò

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incontro coll’occhio che tutta ne esprimeva l’ansietà, edisse: — Che ha a comandarmi il signor vicario?»

Al che l’altro con un inchino rispondeva: — L’eccel-lentissimo signor vicario presenta per mio mezzo i suoirispetti alla riverenza vostra; ha mandato larga limosinadi messe al convento, e si raccomanda specialmente alleorazioni di esso. Poi le fa sapere come a quelli che furo-no stamane giudicati....

— Furono dunque giudicati?» l’interruppe frà Buon-vicino, impallidì, arrossì, e chinando gli occhi, con voceprofonda richiese: — E come?

— Alla morte» soggiunse l’altro con una indifferenzaavviluppata nella cortesia, a quel modo che insegna ilbel tratto sociale.

Frà Buonvicino ebbe appena forza di ridomandare —Tutti?

— Tutti» riprese l’altro. — E il principe, in singolartestimonianza della sua stima concede a vostra riverenzadi poterli assistere negli ultimi loro momenti».

Fu vera pietà? fu un insulto raffinato questo di Luchi-no? Il frate nol cercò, ma in un istante misurò tutta l’a-cerbità di questa nuova situazione, una di quelle in cui ilcuore o si spezza o s’impietrisce. Sollevò lo sguardo alcielo esclamando, — Si compia il sacrifizio!» indi, ri-volto al messo, — Ringraziate il signor vicario di que-sto, che ricevo da lui come un favore, e dal Cielo comeun’ultima prova.... e la più tremenda».

Delle ultime parole l’araldo non avrà inteso che ilsuono. I sentimenti profondi delle anime appassionate

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come possono venir compresi da chi si è logorato fra leapparenze pompose e le frivole importanze di una socie-tà in maschera? Onde, strisciando nuovi inchini, sen’andò a portare a Luchino i ringraziamenti del frate; eil frate tornò a inginocchiarsi, a orare, a prelibare tuttal’amarezza del calice preparatogli, e supplicare Iddioche desse coraggio a lui, a loro; che il sostenesse nel piùdoloroso e più sublime uffizio del suo ministero.

Al tocco del mezzogiorno dell’altro domani la Mar-gherita sente aprire la sua prigione, e alza gli occhi: —Oh! non è un burbero carceriero; non incontra, come alsolito, uno sguardo insultatore o indifferente; no: vede,— oh! vede, conosce un amico — Buonvicino! — Sulleprime non sa credere a sè stessa: un ah! uno spalancardegli occhi, un tender le braccia, rivelano la maravigliaond’è inondata: poi balza dal suo scannello, si avvicinaal frate....

Momenti così fatti non hanno parole; e il muto lin-guaggio non esprime altro, se non che la piena dell’af-fetto impedisce di manifestare l’affetto. Quando poiriebbe le parole, — O padre! (esclamò) o fratello! qualconsolazione è mai questa? Neppur addomandarla al Si-gnore avrei osato. Il Signore dunque si ricorda di me, emi manda un angelo fra questo purgatorio!

— Iddio, figliuola, non si dimentica di nessuno, nep-pure del vermicciuolo che calpestiamo passando. Tantomeno poi delle creature che più a lui somigliano».

Così il frate, con una voce carezzevole, affettuosa edaccorata, che mostrava come egli a fatica ritenesse le la-

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crime e che le cavava altrui. La Margherita infatti ruppein un forte scoppio di pianto: era sì gran tempo che nonprovava l’ineffabile consolazione di piangere sopra unseno amico, di sfogar un’anima ambasciata con chi l’ac-cettasse, la comprendesse, la compatisse! Poi, fra i sin-ghiozzi ripigliava: — Lo so, padre, lo so che Dio non siscorda di nessuno, che non si è scordato di me. Oh chim’avrebbe sostenuta fra tante angoscie se non era ilpensiero del Signore? Ma dite: mio marito?... il mioVenturino?... Ne sapete notizie? Vi è permesso di dar-mene?»

E lo fissava con una sollecita attenzione, fra lo sgo-mento d’un sinistro annunzio e la fiducia che un taleamico non gliene dovesse recare che una consolante. Sirannuvolò novamente in viso frà Buonvincino, corrugòla fronte, e traendo un grave sospiro, come se il cuoregli scoppiasse, — Finora (rispose) sono sani — finora!gli ho abbandonati testè. Fui con essi jeri, vi sarò anchedomani. Ed oggi e domani e l’altro verrò a portare a voi,buona Margherita, quelle consolazioni, che un Dio mor-to in croce ha lasciato per gli infelici, destinati a seguir-lo ne’ patimenti».

Una parola umana all’orecchio di chi soffre non haprezzo sulla terra. Quanti, nei primi passi dell’errore acui forse li sospinse la negligenza e il disprezzo degliuomini, o torcerebbero o si ravvederebbero, qualoral’orgoglio degnasse inchinarsi a sussurrare all’orecchioloro una voce di commiserazione, un invito al pentimen-to, un fiduciale richiamo alla virtù! Ma l’uomo pensa al

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castigo, alla vendetta; ed esacerbando, ostina nel delittochi così facilmente potrebbe ravviare al bene. Quandopoi patisce il giusto, come la Margherita, abbandonatoagli strapazzi degli scherani, all’ansietà della solitudine,un motto di conforto somiglia alla voce dell’angelo, chead Agar, languente di sete col bambino nelle solitudinidi Betsabea, additava la fonte ristoratrice.

A questi salutevoli conforti non providero le istituzio-ni umane; ma la religione che, mentre tutta sembra in-tenta al cielo, non abbandona mai in terra chiunque du-bita, travia, combatte, patisce, ha scritto fra i più assolutiprecetti della misericordia il visitare i carcerati36. Leconvenienze degli uomini, le quali nulla hanno a farecol vangelo, delle carceri hanno formato un luogo disquisiti tormenti per l’uomo, non reo perchè non ancorasentenziato. Ma nei paesi cristiani non hanno ancora ri-mosso dal sofferente le consolazioni della pietà religio-sa, nè l’uomo condannato a morire ha privato dell’ulti-mo conforto, del mostrargli aperte le vie del cielo quan-do gli uomini lo cacciano dalla terra.

E che conforto sia quello il provava la nostra Marghe-rita. Pur troppo l’apparizione del ministro della peniten-

36 Pochi altri precetti sono espressi con maggiore asseveranza ed insisten-za. Tobia visitava i suoi fratelli in cattività porgendo loro salutevoli avvisi (To-bia I.15): San Paolo prega la misericordia di Dio sopra Onesiforo, che non pre-se vergogna delle catene di lui (II. a Timoteo I. 16); ed agli Ebrei scrive, si ri-cordino degli imprigionati come fossero imprigionati con essi. Cristo nel dì delgiudizio dirà ai buoni: — Io era in carcere e mi visitaste: «benedetti dal Padremio venite alla gloria»; ed ai malvagi: — Via da me, maledetti, perchè io erainfermo e in carcere, e non veniste a trovarmi» (Matteo XXV).

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za le annunziava chiaramente che il suo fine si avvicina-va: però in quel momento sembrava tutto dimenticato,tutto, pel tripudio di trovarsi ancora presso ad un uomo;un uomo diverso da quelli, che soli da gran tempo vede-va, tormentati o tormentatori; uno che per ministero do-veva esser buono, compassionevole, devoto alla sventu-ra; uno poi come questo.

Con nuovo sfogo di pianto attestò ella dapprima lasua commozione: e frà Buonvicino non glielo interrom-peva se non con qualche riflessione di pietà, di Dio, diperdono. Come essa potè riavere la favella, mille do-mande affollava intorno a que’ suoi cari. Non aveva ellacompreso il senso delle parole di frà Buonvicino? o nolvoleva comprendere? Poteva la ragione dirle altro, senon che erano destinati al supplizio al pari di lei? Eppu-re voleva fare ancora illusione a sè stessa: e qual volta lecorreva al labbro una interrogazione precisa sulla sortedi essi, la respingeva sempre, quasi il sentirsene assicu-rare dovesse rompere quel tenue filo di speranza, al qua-le, siccome l’uomo che affoga, voleva pure tenersi appi-gliata in quell’estremità.

— E il mio Francesco? Tanto m’ero allegrata allorchèlo seppi salvo! Come ricadde nelle mani di costoro? nonl’avevate voi avvisato di non fidarsi?... Oh quel giornoch’io l’ho veduto a condurre! Quanto deve anch’egliaver sofferto! Eppure in tanti patimenti non s’è scordatomai di me. Se sapeste! Egli ebbe cura di raccogliere uncencio, dove io aveva cominciato a ricamare un cesto dimargheritine, quando mi condussero via di casa. Egli lo

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raccolse, il serbò: oh queste finezze non le sa che l’amo-re più vero, più gentile».

Frà Buonvicino chinava la testa e taceva. Ella prose-guiva:

— E vi hanno narrato di quella terribile notte? Io nonso bene ancora rendermi conto di quel trambusto. Parmi,tuttavia fosse un sogno. Eppure no, no, l’ho veramenteabbracciato il mio Francesco; ho portato veramente suqueste braccia il mio Venturino. — Sfinita come sono,non avrei creduto mi reggesse la forza di mutare duepassi; ma l’amore materno che non fa? Io lo sostenni;l’avrei sostenuto, quel povero fanciullo, camminandoper molte miglia. O padre, che consolazione fu quella!che speranza! quanta vita in quei beati istanti!... e quan-to fugaci!»

Sospirava, e copertasi la faccia colle mani taceva;indi abbandonandosi di nuovo agli impulsi di un cuoreschietto, bisognoso di esalare in parole l’affetto che datanto tempo vi stagnava, — Oh se sapeste (continuava)se sapeste a mezzo quanto mi hanno fatto soffrire!» Egli raccontava alcuni dei suoi patimenti, i più vivi, i piùricordati, con una melanconia profonda, eppure scevrad’ogni rancore. — Qui dentro (proseguiva) sono entratail 20 di giugno anno passato: or siamo al primo d’otto-bre: quattrocensessantasette giorni! Vi pare? non uno nesfuggì inavvertito alla prigioniera: non uno in cui la mo-notonia de’ patimenti quotidiani non fosse rotta da qual-cuno straordinario. E qui non vedere, non ascoltar altroche oppressi o tiranni: mai una faccia amica, paziente,

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caritatevole: mai una parola di consolazione; mai potercredere; mai esser creduta! E neppure, vedete, neppureun poco d’aria libera da respirare. — Io che l’amavatanto! io che là in riva al mio lago... Oh voi dovete benricordarvene!»

E qui si gettava sulla rimembranza delle serene oregiovanili, indi ripigliava: — Ma coloro che possono,deh come non pensano al tanto che fanno patire?... Ahpur troppo ci pensano!»

Gemeva, e una nube subitanea di corruccio le contur-bava la fronte. Poi sforzandosi di stornare il pensiero daisuoi persecutori, seguitava dicendo: — E il sole?... o fràBuonvicino, come deve parer bello il sole; il sole nellasua pienezza, nella libertà, su per le colline! Io non neho sentito che l’afa per tutta quest’estate; ed ora, in talrezzo, già rabbrividisco dal freddo. Eppure non fa checominciare l’ottobre. Che sarà poi in dicembre, in gen-najo!»

Un sospiro gemebondo del frate fece accorgere laMargherita del vero; e cascando ginocchione, esclamò,— Ah sì! allora non ci sarò più».

Un dirotto pianto seguitò all’ineffabile espressione diqueste parole, così semplici e così solenni. Tanto è bellala vita, che l’abbandonarla rincresce per fino a chi la so-stenta solo di travagli e di privazioni. Non insulti il risodelle anime forti all’accoramento della mia meschina.La generosità non consiste nel disprezzare la vita, sibbe-ne nel non commettere alcuna viltà per conservarla. Chi

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durò i combattimenti da cui ella era uscita vittoriosa, neschernisca il dolore, gli altri compiangano.

— Morire! (prorompeva essa) Morire così giovane! emorire innocente!

— Anche Cristo era innocente, figliuola mia; e lasciòper esempio nostro sè stesso, che bestemmiato tacque,che possente non minacciò, che moriva perdonando».

Così le diceva il frate; e dopo che l’indulgente suapietà ebbe secondato l’affanno dell’angoscia, blanda-mente cominciò a svolgerla dalle cose del mondo, perfissarla unicamente nel pensiero di Quello, davanti alquale fra poco doveva comparire. Queste idee non riu-scivano a lei strane e nuove; già seminate in cuor suonella prosperità, erano rampollate fra le traversie: e la fi-duciale compunzione da essa palesata la mostrò a fràBuonvicino tanto più degna di vivere, quanto meglio latrovava disposta a morire.

Facilmente il lettore potrà immaginarsi come passas-sero il tempo fra loro, come lo passassero dopo che siabbandonarono la prima giornata.

Un uomo, che, sfinito da lunga e dolorosa malattia, edai tedj, sovente non meno spiacevoli, della cura e deimedicamenti, comprende o da aperte parole o dagli attimal dissimulati dei parenti, dei circostanti che per lui èfinita, che conviene disporsi al viaggio, da cui in eternonon si ritorna, sente in quell’istante rincalorirsi l’affettodella vita; e come un autore che, giunto al termine diun’opera sua, la rilegge e medita foglio per foglio, paro-la per parola, così egli ripassa sopra un corso di giorni

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ormai compito; numera ad una ad una le persone dilette,da cui fra breve sarà spiccato; ritorna sulle abitudini, suiluoghi, sulle cose che amò e che sta per lasciare: puòrassegnarsi, per virtù benedirà anche il Padrone dellavita e della morte, ma natura reclama i suoi diritti; e dehcome ne lusinga la languida vitalità anche il più fiocoraggio di scampo che gli baleni sugli occhi! Il momenta-neo ristoro di una medicina, pochi minuti di sonno ripo-sato, uno spasimo che si rallenti, una buona parola delmedico, un’adulatrice congratulazione dei visitanti, glifanno riguardare come certa la guarigione; già in suamente ritesse la vita; quanti propositi, quante fantasie,quante opere, quanti godimenti!... Sciagurato! l’istantesuccessivo, il male si aggrava, e lo spossamento, l’aneli-to, il rantolo vengono a poco a poco rimovendolo dalleaffezioni, e facendogli desiderare l’indolente calma delsepolcro.

Ma chi, sano di sua persona, in tutta l’integrità delleforze del corpo e della mente, si conosce destinato a vi-vere ancora molti anni, sopra ai quali ha fatto un calcolotanto più fondato, quanto egli è giovane e vigoroso, ep-pure ode intimarsi aver gli uomini decretato ch’eglimuoja, che muoja il tal giorno, alla tal ora determinata:questo è tormento oltre il quale non sa spingersi la piùtetra immaginazione. Nè questo avverrà nel fervore d’u-na battaglia, ove la foga, lo spettacolo, la mischia confu-sa, un’ira coraggiosa, una feroce emulazione inebriano isensi e gli spiriti così, da gettar alle spalle il pericolo:ove il pericolo stesso è incerto, possibile la resistenza, la

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franchezza applaudita, ogni dimostrazione di timore bef-fata; ove il colpo giungerà repentino — se pure giunge-rà. Neppure è la condizione di chi trovasi in alto mare,sopra un legno che affondi, senza scorgere a tiro d’oc-chio una spiaggia, un naviglio. Quell’immensità medesi-ma del cielo e delle onde sembra sostenere la speranza;l’affaccendarsi della ciurma a ristoppare, ad allegerire, ariversare l’acqua nell’acqua conforta l’immaginazione:la distraggono i tanti compagni di sventura se non altrovede unicamente la mano di Colui che padroneggia glielementi e che ordina ogni cosa al meglio delle sue crea-ture.

Ma qui, nella muta solitudine inosservata d’una pri-gione, sapere che ogni respiro avvicina alla morte: econtarne ogni passo, e non poterla nè impedire nè ritar-dare; e conoscere che un cenno degli uomini basterebbea tornarti in mezzo del cammino di tua vita, ma che gliuomini hanno decretato il momento, in cui un altr’uo-mo, che non ti conosce, che non conosci, snuderà il tuocollo, ti saluterà amico, e per guadagnare una mercede,in un atomo ti renderà cadavere sformato!

L’umanità, nei vantati suoi progressi, ha studiato ilmodo di render quell’atomo men doloroso al corpo: fre-mette pensando che gli avi nostri ne esacerbassero glispasimi: disputò, sperimentò qual sia men tormentoso alcorpo: il soffogarne il respiro con un laccio, o il romper-gli il petto colle palle, o lo spiccarne il capo: con delica-ta sollecitudine valutò il calibro e la scorrevolezza delcapestro, il fermo polso dei prodi che mirano all’inerme

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petto del loro camerata, il fendente della mannaia chedeve sprofondarsi in un ceppo, ma attraverso il collo diun uomo; calcolò i guizzi dell’appiccato, notò il rossoreche coperse il viso di una magnanima decollata.

Miserabili! aggiungete queste atroci ironie alle troppealtre, onde mascherate d’ipocrita sensibilità l’egoismo.Miserabili! sembra troppo il dolore, dolor di un momen-to; se il carnefice non è abbastanza destro per lungaesperienza, se alla vittima prolunga il patire, un fremito,un bisbiglio, una indignata commiserazione si fa inten-dere tra la folla accorsa a vedere: Infelice! meschino!pover’anima, quanto sofferse! Pietà interessata, o piut-tosto macchinale simpatia della natura alla vista dellepene di un nostro simile: pietà sconsiderata che non av-verte al lento, penoso, atroce martirio dei momenti sìlunghi mentre passano sì celeri quando si contano passa-ti, che compongono quell’uno, quei tre giorni interpostifra la sentenza e la esecuzione...

Ma quel dolore è inevitabile; ma la società ha dirittodi recidere i membri infetti.

Sì? so che’l si dice; ho udito filosofi e statisti soste-nerlo, filosofi e statisti impugnarlo, con ragioni per lomeno equilibrate, sicchè il dubbio stesso dovrebbe so-spender l’azione. Che sarà se vi si aggiungano l’umanitàe la religione: se la speranza ponga una mano su quelcapo destinato al manigoldo, e mostri che si può farneancora un cittadino, un padre, migliorandolo colle tre-mende lezioni della sventura, o colle amorevoli del per-dono? se la fede indica una stilla di un sangue d’infinito

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prezzo, caduta a redenzione anche sovra quel capo chedal giudice è impassibilmente decretato alla forca, allaforca impassibilmente trascinato dal manigoldo?

E se mai fosse innocente? se capace di pentirsi, di tor-nar utile? come rimediare al colpo di quel ferro che tan-to studiaste perchè riuscisse men doloroso? E se pure èuna di quelle che voi chiamate necessità, come la guer-ra, come tante altre cose che per tali proclamate, per-mettete che io non ammiri tutti i progressi di una socie-tà, costretta a rimedj siffatti; di una società che stipendiaun uomo per ucciderne un altro, che rende spettacolo deicittadini il supplizio di un loro fratello.

Se però la religione non ha potuto ancora abolir lepene capitali, neppur segnando ciascuno col suggellodella redenzione, neppur mostrando come a quel modostesso finiva il Giusto; come, colui che ora è martoriato,può, il momento dopo, esultare fra i beati; se non potèancora ispirar tanto amore quanto basterebbe per farcessare i delitti, ella accostossi a quelli che soffrono, eportò consolazione fino a quel terribile punto, per cui ilmondo più non ne ha veruna.

Tra queste passò la Margherita il primo dei tre giorniconcessile per prepararsi alla morte. Il secondo, a mez-zodì, ricomparve frà Buonvicino presso la tribolata. Sulvolto di lei era cresciuto il pallore; tutto annunziavacome nessun riposo fosse stato concesso all’ansia deisuoi pensieri. Non per sè sola aveva essa patito: erasi ri-volta ad altri esseri così cari, così vicini, e che pure nonpotea vedere, non rivedrebbe più — o li rivedrebbe sul

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patibolo. — Anche sul volto di frà Buonvicino, alle trac-cie di un lungo e abituale tormento se ne erano aggiuntedi nuove e spasmodiche. Quando ebbe salutato la suapenitente, con voce fioca e ben diversa da quella diuomo che annunzi un favore, una grazia, — Signora, (ledisse) vogliono ch’io v’informi come le consuetudini viconcedono di poter domandare quella grazia che vi piac-cia».

L’occhio sbattuto e abbacinato della Margherita lam-peggiò d’una gioja speranzosa; sopra il volto esangue lesi diffuse un rossore così gentile, come quello ondel’immaginazione dipinge all’esule montanaro un tra-monto di primavera sulle nevose cime della sospiratasua patria. E senza esitare esclamò: — Che mi mostrinomio marito».

Il frate l’aveva preveduto, e a stenti frenando le lacri-me rispose: — Di questo desiderio non può oramai con-solarvi che Dio.

— È morto?» chiese ella ritraendosi spaventata, e ten-dendo le mani irrigidite.

Il silenzio del frate e un sospiroso abbassar del capo,le diedero una terribile conferma.

— E mio figlio?» richiese ella con angoscia crescen-te.

— Vi aspetta in paradiso».Come colpita da un fulmine, rimase immota, non

pianse, non parlò: chè dolori siffatti non hanno nè lacri-me nè parole; poi, come rinvenuta, esclamò: — Eccospezzati tutti i legami che mi tenevano avvinta a questa

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terra»; e levando gli occhi in atto di una sublime offerta,conchiuse: — Prepariamoci a seguitarli».

Si prostrò ginocchioni dinanzi alla sua seggiola, fra isinghiozzi ripetè le preghiere di suffragio pei morti, al-ternandole col frate, il quale erasi con lei inginocchiato;udì con rassegnato accoramento le ultime affettuose pa-role e le tenere scuse che le mandava il suo Francesco:intese con che coraggio fosse egli, un’ora prima, salitoal supplizio in pace con sè stesso e cogli uomini, e con-ducendosi a mano il suo fanciullo, a cui aveva speratoessere scorta sul cammino di una vita splendida e nomi-nata, e in quella vece lo doveva sorreggere sulla scalainfame del patibolo.

I pensieri dunque della Margherita non avevano piùdove arrestarsi in terra: dunque il cielo, oltre essere ilporto da tante procelle, era anche il solo luogo dove ora-mai potesse ella confidare di raggiungersi con quei suoidiletti, unica speranza, unico suo voto da tanto tempo.Colla confessione terse le macchie che potessero averappannata l’anima sua, santificata prima dalla benefi-cenza, poi dagli affanni, e colla fiducia di chi è ben vis-suto, si dispose a presentarsi al tribunale di un Dio, lacui giustizia è così diversa da questa inumana del mon-do.

In quel mezzo la città seguitava tranquillamente lesue fatiche ed i suoi riposi. L’alidore della stagione, lascarsa vendemmia di quell’anno, la guerra che avevantemuta, la peste che temevano, l’ultimo balzello impo-sto, le domestiche faccende, i pubblici divertimenti, era-

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no il tema vagabondo delle comuni conversazioni. Alcu-ni parlavano del supplizio eseguito quella mattina; altriannunziavano che il giorno da poi s’aveva a giustiziarequalche altro: ma i privati sofferimenti non dovevan dis-sestare i negozi e gli interessi comuni. Abitudine antica:giacchè frà Buonvicino nell’osservare un siffatto conte-gno, ricordavasi come già dai suoi tempi, Isaja lamen-tasse che mentre il giusto perisce, non v’è chi in cuorsuo vi pensi37.

I membri della commissione di giustizia, alle care fa-miglie, ai raccolti amici, nelle case, sotto i coperti, rac-contavano gli andamenti di quel processo, il gran da fareche si ebbe per convincere persone, che si ostinaronosempre a protestarsi innocenti: ma si sentivano, diceva-no essi, tolto un peso dal cuore coll’aver, dopo sì grantempo, esaurita una causa tanto importante e avviluppa-ta.

Che se alcuno domandava loro se la sentenza fossestata giusta, dimostravano che era stata legale.

Il signor Luchino quella mattina abbandonò Milano,per passare un pajo di giorni a Belgiojoso, villa tantoopportuna per le caccie in quella stagione. Usciva conlui la signora Isabella, che della lontananza del bel Ga-leazzino sapeva e darsi pace e rifarsi. Cavalcava conessi di conserva l’arcivescovo Giovanni, che nell’attentapettinatura della corona di capelli che circondavangli larasa testa, e nell’esattezza delle pieghe e nella disposi-

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zione di una grande tonaca rossa foderata di zibellino, amaniche larghe, mostrava un desiderio più che scolare-sco di far pompa di una bellezza che lo faceva primeg-giare sovra tutti i prelati del mondo. Dietro a loro segui-tava uno stuolo di amici, amici da Corte, e servi e cac-ciatori e palafrenieri. Il vulgo traeva ad ammirar que’bei cavalli, quelle stupende mude di segugi di Tartaria,quei falchi di Norvegia; vantava il lusso dell’arcivesco-vo, la furberia della signora Isabella, e la grande abilitàdi Luchino a trar d’arco, a cogliere col lancione una le-pre, un cervo, un cinghiale.

Questo popolo, nel dare a Luchino il diritto di con-dannare a morte i rei, non gli aveva dato anche quello difare la grazia? Una parola di lui poteva dunque campar-li, anche secondo l’opinione di chi li tenesse per colpe-voli. Ora non è micidiale del pari chi trucida e chi, po-tendolo impedire, nol fa? e potendolo così agevolmente?

Ma queste considerazioni non passavano per la menteal dabben popolo milanese — d’allora.

Si sarebbe desolato ove la grandine avesse guasti icampi: ma avrebbe creduto follia il togliersi fastidio perun’ingiustizia che si commetteva a carico di altri cittadi-ni.

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CAPITOLO XXII.LA CATASTROFE.

Come gli antichi adornavano di fiori le vittime checonducevano a scannare sugli altari, così un costumeuniversale copre di cortesie l’uomo che deve essere ab-bandonato alla giustizia, cioè al carnefice. Anche laMargherita, la vigilia della sua morte fu tolta dalla tanaentro cui da mesi languiva, e collocata in una stanza,meno lurida, che serviva di chiesino. Anche questa eraangusta, ma elevata e ariosa; una finestruola ingraticola-ta di ferro dava la vista sopra la campagna; un materas-so, un tavolino, un ginocchiatojo e due sedili ne forma-vano tutto l’addobbo; un altare posticcio con due cande-lieri di legno faceva ricordare quelli, su cui i primi cri-stiani immolavano l’ostia incruenta nelle perseguitatecatacombe.

Ivi la Margherita passò la notte — l’ultima sua notte— in preghiere e meditazioni. Pensava alle cose delmondo: tutto le rammentava che doveva lasciarle frapoco, ma vi si era ella forse attaccata più di quello chefosse necessario per conoscerle e trascurarle? Pensava aisuoi cari, e consolavasi di doverli presto rivedere in pa-radiso. Rincorreva il suo passato; non le pompe e gli il-lustri natali e la decantata bellezza e le magnificenze in-

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vidiate le tornavan ora in mente, ma lacrime terse, op-portuni consigli, pietà profusa, ingiurie perdonate, ri-sparmiati disgusti, li conosceva un tesoro riposto e vici-no a fruttare.

Quello spiro d’aria più fresca, che suole mettersi sul-l’avvicinare dell’alba, la riscosse con un brivido mole-sto: e le corsero al labbro queste parole: — Che freddoavrà il mio Venturino colà alla campagna aperta!»

Erano voci strappatele dall’istinto, che la ragione tro-vava vaneggianti, ma non provava per assurde. Affac-ciossi quindi alla finestruola, e pose mente al primobiancheggiare dell’alba, colà verso i monti della berga-masca; un cielo limpido, soave, d’un tremulo sereno,qual suole nelle prime mattine dell’ottobre invitare aipasseggi, alle caccie, alla giuliva faccenda delle ven-demmie. Dappertutto alla pompa dell’estate era succe-duta la fantastica pacatezza dell’autunno. Una rugiadabiancheggiante luccicava sugl’incurvati steli delle erbenei prati intorno, e sulle tremule foglie dei pioppi che inlunghi filari stendevansi per la campagna, agitandosi esibilando come sentissero la vita, come salutassero l’av-vicinarsi del sole, così caro dopo le notti già lunghe epiù che fresche.

La Margherita si affissò in quello spettacolo: — L’ul-tima aurora che io vedo!»

Così ogni cosa le rammentava come tutto fosse sulpunto di finire; il rammentava a un’anima, che dalla na-scita porta in sè l’orrore della distruzione, il desideriodella immortalità.

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Ma a che vorrei io provarmi di ridire che cosa passas-se nell’anima di essa? quante memorie e affetti e tor-menti e desiderj e pensieri terreni e celesti si affollasse-ro, si mescessero nella sua mente? Mille e mille soffer-sero, se non in quel grado, però a quel modo: l’uomo licompianse, e ne crebbe il numero. — Affrettiamoci allafine.

Non appena albeggiò, frà Buonvicino presentossi al-l’uscio della cameretta, e ritenne il piede sulla soglia inriverente e pietoso silenzio contemplando la Margheritache pregava.

La lanterna, ch’egli recavasi in mano, lasciando lui etutto il resto nel bujo che colà entro dominava ancora,raccoglieva i raggi sopra la Margherita, la quale così pa-reva alcuna cosa più che mortale. Erasi ella inginocchia-ta sul nudo pavimento, china la fronte sopra le manigiunte, e queste, appoggiate sur una sedia, avevano in-trecciato fra le dita un rosario di cui stringevano la cro-cetta: — quel rosario stesso, quella croce, che con sì pa-ziente cura avea frà Buonvicino medesimo intagliati neiprimi giorni di sua conversione, e che aveva a lei pre-sentato mentre dimorava in una ricca casa, cinta da ognimaniera di agiatezze e di eleganze, applaudita, contenta,fortunata, con a fianco il marito e sulle ginocchia unbambino, il quale cianciugliando la chiamava madre. Edora? quel marito, quel fanciullo erano sotterra, e fra po-chi istanti ella pure sarebbe precipitata con loro. Osser-vandola frà Buonvicino con questi o simili pensieri, piùe più gli si affondava l’occhio, si affilavano le scarne

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guancie, simili a un ruscello, ove l’assidua vampa delsole disseccò ogni umore, non lasciando che l’arido sol-co. Attento in lei, non ardiva turbare quello stato, chesomigliava a calma. Anzi sarebbesi detto che ella dormi-va, se tratto tratto un guizzo convulso, che le correva dalcapo alle piante, non avesse dato troppo segno che ellavegliava, pativa.

— Sia lodato Gesù», pronunziò finalmente il fratecon voce fioca e sommessa, alla quale risentitasi, laMargherita levò il capo, balzò di scatto in piedi, e facen-dosegli incontro colle braccia tese, dimandò col tonodell’angoscia: — O padre, vi è qualche speranza?»

Così questo balsamo, che natura preparò agl’infelici,come il latte della nutrice all’egro bambino, mai nonvien manco fino all’ultima ora della vita. Il frate sospi-rò, alzò la destra e gli occhi al cielo, e proferì: — Lassùsono le speranze che non falliscono».

La faccia della Margherita, cui una viva fiamma ave-va tutta colorita, di nuovo si fece pallida come tramor-tisse: giunse le mani; anch’ella eresse al cielo gli occhilagrimosi, ed esclamò: — Signore, la vostra volontà enon la mia».

I conforti, le orazioni dei giorni antecedenti furonorinnovate in questo, tanto più vivamente quanto più sen-tivasi l’uno e l’altro vicini a separarsi fra loro e dallaterra, per ricongiungersi a Dio.

Frà Buonvicino offrì in presenza di lei il sacrifiziodell’altare, la commemorazione quotidiana del Giustoimmolato per la verità, per la redenzione degli uomini,

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coi quali aveva diviso il pane e le miserie. Poichè il sen-timento dei proprj mali non toglieva alla Margherita diconoscere e valutare gli altrui, si accorse a troppi segnidell’ambascia morale onde era compreso frà Buonvici-no, e pregò Dio di dargli forza al passo tremendo. Dopoche il frate le ebbe comunicato il pane degli angeli, latravagliata si rasserenò; e, munita di viatico sì prezioso,stette con lui ragionando del nulla di questo mondo, del-le gioje a venire, dell’incontro coi suoi cari in grembo alvero amore.

Se io riferissi quei discorsi, sarebbero di edificazionealle anime pie: potrebbero forse, in terribili momenti dilotta e di scoraggiamento, recar ristoro a qualche acco-rato; ma che direbbero i lettori, che diranno già essi diun racconto, ove i più cercavano forse null’altro che ilpassatempo spensierato o un rimedio o un palliativo aquella micrania dell’anima, la noja, e invece vi trovanola riflessione e la religione?

Dai pii ragionamenti furono scossi quei due pietosi altocco di una campana a martello.

Trasalì la poverina; il frate si fece come se gli avesse-ro confitto un pugnale nel cuore. Avevano entrambi in-dovinato esser l’agonia che, per lei, per lei sana, battevala squilla del Broletto, ove doveva succedere l’esecuzio-ne. Intanto uno spesseggiar di passi, un affaccendarsi dipersone, un tirare di catenacci, lo scricchiolare d’un car-ro, davano avviso che era giunto il gran momento. LaMargherita s’inginocchiò, e volle che di nuovo fràBuonvicino le compartisse l’assoluzione, e come in arti-

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colo di morte, chiamasse sopra di lei la benedizione delSignore. Il frate, levato in piedi, con solenne dignità divoce e di atto, protese le braccia, e spiegate le palme so-pra il capo inchinato della donna, colla fronte supina,pallida sì, ma inondata di quella fiducia, che non allignase non in chi crede e teme e spera altre cose che le mor-tali, pareva che congiungesse il cielo cui tenea levato losguardo, con quella penitente su cui ne invocava la mi-sericordia e le retribuzioni. Margherita, in ginocchioavanti ad esso, colle braccia incrociate sul seno e lebianche mani che spiccavano sopra il nero vestito, pie-gando il collo in atteggiamento di compunta rassegna-zione, ricevea quelle parole tremende e consolatrici. Lalanterna, posata sullo scannello e divenuta pallida per laluce cresciuta del giorno, guizzando ad ora ad ora comesullo spegnersi, vibrava attorno alla testa della bella pre-gante un’aureola di tremoli raggi, qual si dipinge in giroal viso dei santi.

Ella ascoltò, segnossi, indi sorse come chi, avendoposto assetto ad ogni affar suo, si muove ad un lungoviaggio, da cui più non deve ritornare. Ma il frate alloracadendole ai piedi, — Signora (esclamò) fin qui hoadempito al sublime ministero di sacerdote dell’Altissi-mo. Ma io son uomo; io sono un peccatore miserabile:voi siete una santa. O signora! prima... prima di... vo-gliate dirmi che mi perdonate... mi perdonate se un tem-po, io sciagurato, insidiai alla vostra virtù. Voi la conser-vaste. Benedetta! che così avete procurato a voi, a metali consolazioni in quest’ora tremenda.

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— Sì, benedetto Iddio», rispose ella con languida masoavissima favella. — Fu dura la battaglia allora: temet-ti non bastarvi incontro: ma il Signore ci ajutò; e diede avoi fermezza di generosa risoluzione. Perdonarvi?»

E singhiozzando gli posava le candide mani sovra latesta piegata. — Perdono io non devo accordare a voi,che non mi offendeste. La vostra memoria mi restò sem-pre come schermo contro gl’inganni del mondo. Nei pe-ricoli della gioja, fra i sinistri consigli del dispetto, io ri-pensava ai vostri nobili patimenti, io mi ripeteva, Chene dirà Buonvicino! Ed ora che son qui... Ah! di quelche vi devo non potrà retribuirvi che Dio».

Lo rilevò di terra, gli mostrò quel rosario, quella cro-ce; e baciandola aggiungeva: — Quando voi me la do-naste, vi ricorda? Voi mi facevi l’augurio che un giornopotesse tornarmi di consolazione. Quel giorno èvenuto... così diverso da quanto nè io nè voi nè altriavremmo allora potuto figurarci... e le consolazioni misono abbondate! Amico, io voglio morire con questa co-rona sul petto. Dopo che... io sarò... voi stesso levateme-la dal collo. — Ah! il collo allora non l’avrò più... E ser-batela sempre, in memoria della povera Margherita, chetanto e sì bene amaste».

Tacque, pianse, poi facendosi nuova forza, ripigliò:— Al signor Luchino andrete voi; voi stesso, ve ne pre-go: fate anche questo sacrifizio per me. E direte che gliperdono: Troverà egli superba questa parola? Ditegliche in paradiso pregherò per lui... che abbia compassio-

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ne della mia povera patria. È questo il voto di una mo-rente».

Qui nuovo silenzio, nuovo pianto, da cui la destò unaltro botto della campana ferale; onde riprese: — Buon-vicino, amico mio, vero amico... addio! addio! ci trove-remo in cielo, e presto!»

Si sforzò di proferire con fermezza queste parole, mail singhiozzo gliele ruppe in gola: il frate ripetè«Presto!» indi si trasse il cappuccio sugli occhi, e s’av-viarono.

Già in piazza de’ Mercanti era stato raccolto un visi-bilio di popolo, o dalla curiosità, o dal non sapere chealtro farsi, o dal gusto plebeo di contemplare la soffrentenatura, o dal contento di vedere una giustizia o una ven-detta. Il caso, non così frequente, d’una donna condottaal supplizio, fece trarre anche più gente del consueto.

Da un giuggolo, o come diciamo noi lombardamentezenzuino, aveva preso nome un’osteria, presso alla qualeerano il ricetto delle male femmine, cinto di mura, e lacasa del carnefice, dietro al palazzo di giustizia, ovedurò fin testè. Da quell’osteria, da quel lupanare moltagente sbucò quando videro mastro Impicca avviarsi co-gli orribili attrezzi del suo mestiere, e sempre nuova tur-ba gli si affilava dietro per la strada. Gli artieri, smetten-do il lavoro s’invitavano uno coll’altro.

— Dove vai?— Al broletto nuovo a vedere. E tu, non ci vieni?— Un momento, e verrò anch’io».

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I garzoncelli erano svignati dalle botteghe; le madriaccorrevano portando in braccio i pargoletti, affinchèabbandonati non piangessero; i signori venivano a ca-vallo facendosi largo fra la pedonaglia, ed eccitando lemaledizioni di quelli a cui si piantavano davanti; ed erauna pressa d’arrivare i primi, di farsi più vicini, di collo-carsi più opportunamente.

Già in altra occasione ebbi a divisarvi la piazza deiMercanti, quella che allora dicevano il Broletto nuovo.

Delle due piazze, in cui esso rimane diviso per via delPalazzo della ragione, quella a libeccio, che sin qua con-servò maggiori vestigia dell’antico, era appunto destina-ta al supplizio dei nobili (i plebei si giustiziavano alprato delle forche verso Vigentino): poichè la civiltà, nètroppo affinata nè abbastanza ipocrita, non si dava granpensiero di allontanare il boja dal giudice, il luogo dellasentenza da quello dell’esecuzione. Un palco di tavoleposticcio innalzavasi dal mezzo, affinchè maggior nu-mero di gente potesse godere la scena, e su quello veni-va disponendo ogni cosa il manigoldo, uomo adusto etarchiato, i cui robusti muscoli pronunziati si poteanocontare, e vedeansi guizzare sotto l’abbronzita pelle delcorpo, non coperto che da due rozze brache di pelle,strette alla carne. Fra goffi sghignazzi stava egli col suogarzone saldando due assi fra cui doveva inginocchiarsila paziente, librando la mannaja con cui doveva farlebalzare la testa saggiandone il filo, esercitandovi il brac-cio.

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— Ehi mastro Impicca, questa scala tentenna», dicevail fattorino.

— Lascia pure, lascia (rispondeva il manigoldo).Quei che ci salgono non badano tanto per la sottile:quando discendono, non se la sentono sotto ai piedi».

Alcuni soldati, antichi compagni di Alpinolo, i quali,ordinati dal connestabile Sfolcada Melik a piedi dellascala e intorno al palco, contenevano la folla, ridevano aquegli scherzi, applaudivano a’ bei colpi che colui trin-ciava in aria; si ricambiavano le più lepide celie conun’indifferenza assassina, della quale ho trovato pocomigliore, sopra un campo diverso, la serena tranquillitàcon cui un logoro damerino scherza sui sentimenti diuna bellezza appassionata, facendole stillar sangue colcarezzarle gentilmente una piaga infistolita.

Il più limpido sole che possa vedersi in Lombardianelle migliori giornate della vendemmia, inondava d’u-na bianca luce e d’un mite calore le fosche pareti delBroletto, e risaltava sopra quella mobile decorazione diteste, la più parte scoverte, sopra petti ignudi di robustioperaj, sulle intarsiate carnagioni di donne vulgari, suifrustagni e le mezzelane dei braccianti, a cui facevanocontrasto i variopinti mantelletti dei nobili, le piume on-deggianti dei berretti di velluto, il luccicare delle coraz-ze e dei bruniti morioni. Pieno stivato era lo spazzo; lealtane e gli sporti dei tetti circostanti erano orlati di fac-cie curiose: alcune dame (ho a dirlo?) avevano fatta res-sa di trovare un balcone, un terrazzino, da cui potesseromirare quella infelice, ed onorarla di loro commiserazio-

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ne. Arrampicati sugli sporti, spenzolati dalle ferriate, sa-liti uno sulle spalle dell’altro, i ragazzetti facevano di-spregi ai vicini, lanciavano motti ai lontani, davansiscappellotti nascondendo la mano, come si fa in grandenella società. Qualche madre, mostrando al suo fanciul-letto quell’apparecchio di morte, gli dicea: — Vedi quel-l’uomo lassù, colla barbaccia così nera e la cotenna cosìrossa? È quel che mangia i cattivi in due bocconi: è ilbau: è il demonio; e se piangerai, ti porterà via».

Il fanciullo sbigottito gettava le tenere braccia attornoal collo di sua madre, e celava il viso nel seno di essa.

Alcun altro facendosene nuovo, forse chi sa? per unultimo resto di vergogna d’essere vanuto a bella posta,— E chi è (domandava) che hanno da giustiziare?

— L’è (rispondeva il fortuito vicino) la moglie di quelche hanno fatto morir jeri.

— Ah, ah! (soggiungeva un terzo) dunque la madre diquel piccolino, che hanno ucciso insieme col signor Pu-sterla.

— Che? (ripigliava il primo) hanno ucciso anche unpiccolino?

— Sicuro di sì (entrava una donna): e che bel ragazzi-no! due occhi azzurri come questo cielo: un visetto daGesù bambino; capelli poi, che parevano oro filato. Iomi sono voluta mettere proprio da piè della scala, perfarlo vedere a questo mio figliuolo ch’è qui, affinchètenga a mente come Dio castiga i cattivi: e per questo hoveduto ogni cosa.

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— Contatela anche a noi: contatelo, comare Radegon-da».

E la Radegonda, superba d’intrattenere un crocchio,— Conterò (diceva). Quando fu là... ma per carità, fateun po’ di largo: volete soffogarmi il mio Tanuccio? Esicchè, allorquando si trattò di montare su per la bruttascala, a vederlo quel fanciullo! non voleva a nessun pat-to; puntava i piedi, strillava, piangeva...

— E come forte! (interrompeva il Pizzabrasa). Lo sisentiva fin là dalla loggia dei Mercanti, dov’io m’eroannicchiato; e chiamava, babbo, mamma!

— Tal e quale (ripigliava la donna); e che aveva pau-ra di quel ceffo così brutto, tendendo il ditino verso ma-stro Impicca. Suo padre singhiozzava che non potevaparlare: ma il frate confessore gli si abbassò all’orec-chio...

— Anche questo ho veduto», tornava il Pizzabrasa adinterromperla; e smanioso di far pompa di sue empirichecognizioni, proseguiva: — E i biondi capelli del bambi-no si mescolavano colla barba e colla nera chioma del-l’Umiliato, che parevano i ghirigori d’oro s’un coltroneda morti. Ho visto anche come il bambino accarezzavail frate, mentre questo gli parlava: e il frate...

— Come si chiama il frate?» dava su quel primo, cheper sistema facevasi ignaro di tutto, e parlava semprecol punto d’interrogazione. Allora rispondeva una figu-ra, vestito mezzo da prete, con faccia di devota presun-zione, ed era lo scaccino della Passerella: — Egli èquello che predicò la quaresima passata in Santa Maria

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dei Servi. Avrebbe convertito anche un re Erode. Ma itempi sono guasti, e profittava nè più nè meno che sepredicasse al deserto.

— Ma il nome?— Buonvicino, dei frati della ricchezza di Brera. Ma

le ricchezze ch’egli cerca, come ripete sempre il mio si-gnor curato, non sono di quelle che si acquistano coltessere panni. Lo conoscete il mio curato? quello è unuomo! chiedete, domandate, egli sa tutto a mena dito...e...

— Ma cosa diceva il frate al bambino?— E lui cosa rispondeva?— E suo padre cosa faceva?» interrogavano tra molti,

non badando ai panegirici del sacristano, più che a quel-li d’un giornalista.

Qui la Radegonda, ch’erasi alquanto indispettita diaver perduta la tribuna, contentissima ora di poterla ri-prendere quando nessun altro poteva dar ragguaglio,così ripigliava:

— Piano, piano: parlate voi o parlo io? Certuni vo-gliono ficcar il naso, e ne sanno un pien sacco. Cosa vo-lete che il frate gli dicesse? Che andasse con coraggio;che da lì a un momento sarebbe cogli angeli in Paradiso.

— E il fanciullo?— E il fanciullo a non volere; e dire, Lo so; il paradi-

so è un bel luogo; vi sono gli angeli; vi è il Signore; v’èquella cara Madonna: ma io voglio star qui con miopadre e colla mia mamma: voglio star qui con loro, re-plicava e piangeva.

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— Santa innocenza!» esclamava per istinto di com-passione e non senza qualche lagrima, alcuno degliastanti, il quale poi, a interrogarlo se quel bambino fossestato ben ucciso, avrebbe risposto di sì a non dubitarne.E la narratrice proseguiva: — Allora il frate — chi nonl’ha visto! Sapete quando alcune volte, all’estate, la mo-glie del diavolo fa il bucato, che piove e nell’istessotempo dà il sole? Così era il viso del frate. Gli cadevanodagli occhi lagrime grosse come i grani d’un rosario, etutt’insieme sorrideva come un angelo anche lui. E poidiceva al ragazzino: Tuo padre viene con te in paradiso.

Il fanciullo lo guardò con occhi consolati, poi richie-se: Ma la mamma? — La mamma, rispondeva l’Umilia-to, verrà anch’essa tra poco. Allora il bimbo: Dunquese io stessi al mondo rimarrei senza di loro? E come ilfrate gli disse di sì, egli si pose co’ suoi ginocchi aterra...»

Qui il singulto smentì l’ostentata franchezza dellanarratrice, che quasi vergognavasi d’avere o di mostrarcompassione di condannati, come una damina di piange-re al teatro; e il Pizzabrasa proseguiva: — Si mise a gi-nocchi, alzò al cielo due manine piccole, piccole e bian-che come di cera, e intanto il manigoldo gli tagliava icapelli, e gli faceva i bocchi per mettergli paura.

— Quanto avrei pagato ad essere presente:» Saltavasu qualche circostante. «Mi piacciono tanto queste scenecosì affettuose!

— E perchè non venirvi?» gli chiedeva un vicino.

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E l’altro: — Che volete? m’è toccato andare fin lag-giù a San Vittor grande, a portare una briglia e una sellache avevo raccomodate.

— Ma però (ridomandava il primo interlocutore)avrete visto a far la fattura ad altri.

— Oh certo; ma a donna mai.— Io (tornava a parlare lo scaccino della Passerella)

io ho veduto quando hanno giustiziato la Mainfreda,quella scolara della Guglielmina, che voleva farsi papa.Lo Spirito Santo incarnato in una femmina, e i preti e ilpapa donne! Si può dar di peggio!»

E qui, colla facilità onde la compassione suole di-strarsi dalle sventure non sue, voltavano il discorso sulletonsure che le costei seguaci si facevano in mezzo alletreccie: su quel nascondiglio al terraggio di Porta Nuo-va, dove femmine e maschi si congregavano, e poi spe-gnevano i lumi e buona notte.

Altri spettatori frattanto di maggiore calibro discorre-vano sulla colpa de’ condannati.

— Che giustizia, eh, quella del nostro vicario!» escla-mava Malfiglioccio della Cocchirola, il quale, fallito nelsuo mestiere, or dava pareri ai governanti. — Se merita-no castigo, neppure a’ suoi parenti egli la perdona.

— Erano gente senza religione», diceva un chiericoin aria contrita.

— Ma se contano all’incontrario che l’uomo era fug-gito ad Avignone per intendersela col papa.

— Se era ad Avignone, perchè non starvi?— Era dunque un guelfo marcio.

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— Guelfo? (ripigliava il Malfiglioccio). Coteste leson novelle sparse per dare pasto a voi, gente grossa checredete. La sarebbe curiosa che fosse un peccato pei Mi-lanesi l’essere guelfi. Per l’abbondanza che ci recaronoquegli imperatori e i loro Ghibellini! tanta da avernetroppo per odiarli e noi e i nostri figli e i figli dei nostrifigli.

— Eh, voi non dite male (riprendeva il primo). Ma inostri padroni amano più stare attaccati all’imperatoreche non al papa: perchè quello è lontano e non dà fasti-dio; e se commettono birbonate non li scomunica.

— Zt,» faceva un altro ponendosi il dito sul naso; poicon voce sommessa seguitava: — Se ho a dirvela, io soda uno di quelli che hanno mano in pasta, che i giusti-ziati di adesso e cotest’altri dipinti là sul muro, avevanofatto una maledetta trama per venderci agli stranieri, permetterci sotto la dominazione degli Scaligeri di Verona.

— Come? di queste? dite vero? Cosa ci hanno a faregli Scaligeri ed i Veronesi con noi? Noi si vuole il bi-scione, e Sant’Ambrogio» gridavano zelanti patrioti. E— Viva il biscione, Viva Sant’Ambrogio» ripetevanomolti altri: il qual grido dai fautori del principe venivainterpretato per un’espressione di popolare consenti-mento all’atto che si stava per eseguire.

Non mancavano però di quelli che, senza impacciarsicolla politica, ne tiravano della morale brava e buona,ripetendo ai loro vicini: — Ma! non so che dire. Colpaloro se sono stati così gonzi di lasciarsi acchiappare. I

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delitti si vogliono commettere colle debite cautele. Dicobene, Basabelletta?»

Tale interpellanza era drizzata a quel Menclozzo Ba-sabelletta, preso e torturato per cagione dei discorsi te-nuti appunto in piazza dei Mercanti con Alpinolo, e cheera venuto ad osservare quell’apparato per esclamare,— L’ho scappata bella!» Non aveva dunque voglia nè dirispondere, nè di commentare; e senza darsene per inte-so, guardava al cielo e diceva: — Bel tempo oggi: vuoldurare».

Ma ai balconi, sui terrazzini circostanti, e nelle came-re delle magistrature, ben più fini e socievoli discorsi te-nevano signori e damine, di gualdane, di battaglie, deipettegolezzi privati: degli ondeggianti favori della Cor-te; della passata dei tordi e della scarsezza delle lepri;chiedevano e riferivano novità; leggevano sul libro e diquesto e di quello. E la signora Teodora, sposa novelladi Francesco de’ Maggi, una delle più lodate per avve-nenza e per l’arte d’approfittarne, domandava così sba-datamente nel mettersi il guanto: — E come ha nomecotesta che hanno da far morire?

— Margherita Visconti por servirla», rispondevapronto Forestino, figliuolo naturale del principe, che fa-ceva il vagheggino tra quelle bellezze.

— Visconti? (ripigliava la sposa). È dunque parentedel signor vicario?

— Così alla lontana», rispondeva il giovane: ma ilbuffone Grillincervello soggiungeva: — Ed avrebbe po-

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tuto venire con lui a parentela molto stretta: e appuntoper non l’avere voluto, le tocca questo fine.

— Eppure le deve rincrescere (diceva qualche altro).È così giovane: così bella!

— E poi non assuefatta a morire», l’interrompeva ilburlone, e destava all’intorno una vivace ilarità. Poi vol-tandosi a Forestino e al costui fratello Bruzio, intorno aiquali, perchè sterponi d’un gran signore, facevasi un cir-colo rispettoso, diceva loro a mezza voce: — Serenissi-mi, vi do avviso che, se mai aveste fatto assegnamentosulla sposina del signor Francesco dei Maggi, ella nonm’ha l’aria di essere disposta a imitare dama Margheri-ta».

A tali detti Bruzio chinava gli occhi con ipocrita mo-destia; e mentre il maligno giullare correva di qua e di làa stornare la melanconia e i pensieri seri con arguzie, egiustificare con lazzi la iniquità, i due imitavano il padreloro donneando, mentre coll’assistere alle giustizie di luipreparavansi poi ad imitarlo quando potrebbero.

Fra ciò la campana aveva ricominciato i rintocchi:ogni picchiata del martello destava un suono, prolungatodall’oscillare del metallo; moriva; un momento di silen-zio, poi un altro colpo, indi un altro, lento come i palpitidi un moribondo — e come quelli straziante.

— Viene?— No.— Ma che tarda?» si chiedevano l’uno all’altro, ed

era un diffuso ronzío di curiosa impazienza, nè più nèmeno di quanto in teatro indugiano al alzare il sipario.

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— Che le avessero fatta la grazia?» domandava qual-cuno.

— Per me tanto e tanto n’avrei piacere»: e il pubblicoin fatti ne avrebbe avuto piacere tanto, quanto della ese-cuzione, perchè l’una e l’altra gli offrivano del pari ar-gomento di ammirare, di scuotersi, di discorrere, di cen-surare, e di applaudire.

Ma presto furono tolti da quest’idea al vedere sullaparlera, che già era stata coperta di uno strato nero e dicuscini di velluto, uscire i principali magistrati, il pode-stà, il suo logotenente, e sopra gli altri distinto il capita-no Lucio. Ve l’ho replicato che la giustizia era atroce,ma non ipocrita, e venivano a rimirare il compimentodel loro lavoro.

Poi non tardò a vedersi un brulicare più vivo nei vichistrettissimi di là intorno, a sentirsi un susurro, un ronzíopiù fitto, più pronunziato verso il portone che esce sullaPescheria vecchia, per dove appunto doveva sfilare lacompagnia ferale, dopo fatto un lungo giro affinchè amaggior numero fosse dato godere della scena o profit-tare della lezione.

— È qui, è qui», cominciavasi a dire: e come un drap-pello di difensori della patria al cenno di un prepotentecaporale, così tutta quella calca si leva in punta dei pie-di, tutti i colli si protendono, tutte le teste si piegano aquella banda, tutti gli occhi. Ed ecco, all’accelerato rin-tocco della campana, comparire dapprima uno stendardonero orlato di argento, sul quale era effigiato uno schele-tro in piedi, colla falce nell’una, l’oriuolo a polvere nel-

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l’altra mano; alla sua dritta un uomo col capestro al col-lo; a sinistra un altro col proprio teschio nelle mani.Dietro, coppia a coppia, si affilavano i fratelli della Con-solazione. Erano una devota scuola, fondata in SantaMarta dei Disciplini alla Romana, come chiamavasi unoratorio, che poi fu ridotto in una delle meglio architet-tate chiese di Milano. Di questa scuola che poi fu trasfe-rita in San Giovanni alle Case rotte, era principale istitu-to il confortare i giustiziati e suffragarli. Procedevano iconfratelli in una veste di tela bianca collo strascico, ecol cappuccio tutto cucito in giro, sicchè non potevasilevare che colla tunica stessa; al posto del viso non ve-devasi che una croce di scarlatto, sotto i cui traversi siaprivan due forellini, tanto solo da dar luogo alla vista;sopra il cuore portavano una medaglia nera, dove era ef-figiato un Gesù crocifisso, con ai piedi della croce il te-schio del santo Precursore; discinti in vita, colle manigiunte entro le maniche cascanti, avevan sembianza dinotturni fantasmi. Gli ultimi portavano un cataletto,mentre a coro in lugubre melodia, cantavano il Misere-re: — cantavano le esequie, portavano la bara per unoche era sano tuttavia.

Fendendo la turba giunsero presso al patibolo, ovedeposero il letto funereo: e su per la scaletta e a piè diquella si schierarono in due file per ricevere tra loro lacondannata, formando quasi una barriera fra il mondo eun essere che, di lì a pochi istanti, cesserebbe di apparte-nervi.

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Ed ecco, tratto da due bovi guarniti a nero, avanzarsilentissimo un carro, e sopra quello la povera nostra Mar-gherita.

Per obbedire a quel vago sentimento, che comanda diornarsi per tutte le cerimonie, anche le più melanconi-che, la Margherita aveva voluto accomodarsi di un abitonero decente, e ravviarsi, e lisciare i capelli, il cui nerolucente viepiù spiccava sulla fredda uniforme bianchez-za di una pelle morbidissima ma patita. Sul collo, doveun tempo le perle facevano gara di candidezza, ora ap-pena le coccole del rosario parevano segnare la traccia,che fra poco la mannaja solcherebbe. Fra le mani giuntestringeva la crocetta pendente da quello, senza rimuove-re mai gli occhi che già solevano splendere di giulivabenevolenza, ed ora, sbattuti in dogliosa spossatezza,non vedevano più che un oggetto, una speranza.

Le sedeva a canto frà Buonvicino, ancor più pallidodi lei se era possibile, con alla mano la crocifissa effigiedi Colui che patì tanto prima di noi, e per noi; e le anda-va tratto a tratto suggerendo una preghiera, un conforto:di quelle preghiere che nei giorni della gajezza infantilec’insegnano le madri, e che rincorrono opportune fin neimomenti più disastrosi. — Signore, nelle vostre maniraccomando lo spirito mio. — Maria, pregate per menell’ora della morte. — Esci, anima cristiana, da questomondo che ci è dato per esiglio, e torna alla patria cele-ste. — In paradiso ti rechino gli angeli, santificata daituoi patimenti».

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Nessuno guardava ad altri che a lei. Benchè sfinita datanti martirj, benchè colle traccie in viso della morte vi-cina, quando la videro esclamarono tutti: — Oh com’èbella! Così giovane!» e più di una lagrima cadde in quelpunto, più di un sudario di seta coperse gli occhi dellesignore; più di un guanto, usato ad impugnare lo stocco,asciugò o respinse il pianto che spuntava sul ciglio deicavalieri. E si voltavano a guardare verso la tribuna,verso Lucio, se mai sventolasse la fusciacca bianca insegno di grazia.

Dietro al carro, colle braccia avvinte al tergo, sì stret-to che la corda entrava nella carne, scarmigliato il crinee la barba giovanile, bendata la testa con un cencio difazzoletto, in lacero arnese, serrato fra i soldati, arranca-vasi ai piedi zoppicando e doglioso, un altro nostro co-noscente, Alpinolo. Le percosse rilevate la notte dellafuga non l’avevano ucciso, ma solo tramortito; poi, rin-venuto, i medici si adoperarono a restituirgli la salute,intanto che i giudici si preparavano a togliergli la vita.

In fatti anch’egli venne sottoposto al giudizio, cheperò, trattandosi non di un uomo, ma di un soldato, erasciolto da tante formalità, e affidato alla spicciativa pro-cedura dei suoi capi. Ma questi non riuscirono mai a far-lo parlare: i tormenti più squisiti furono adoperati: comefosse poco lo slogargli le braccia, gli fu applicato il fuo-co alle piante dei piedi finchè ne scolasse l’adipe; ficca-tegli delle punte sotto alle unghie: oppressogli il pettocon enorme peso: tutto soffrì senza contorcersi, senzaproferire una sillaba. Soltanto una volta, che gli spasimi

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doveano averlo posto fuori di sè, fu inteso proferire que-ste due voci, Poveretta e Padre mio.

Non appena fu qualche istante lasciato libero, tentòsfracellarsi il cranio contro delle pareti, onde da quell’o-ra fu continuamente guardato a vista. Ma chi egli fosse,nessuno lo sapeva: i camerata lo conoscevano pel Quat-trodita e nulla più: lombardo pareva alla bastarda pro-nunzia, ma nè del nome nè della condizione sua non sipotè venire in chiaro, onde colla semplice indicazione di— un soldato per soprannome il Quattrodita — , vennecondannato a dover fare da boja nel supplizio dei Pu-sterla, e dopo di loro essere giustiziato anch’egli; il suocadavere tratto a coda d’asino alle forche fuori porta Vi-gentina, e ivi lasciato impeso per pascolo dei corvi.

Neppur dopo condannato vi fu modo di fargli aprirbocca; se non che, allorquando fu interrogato, secondol’uso, se prima di morire avesse nulla a dimandare, chie-se gli si restituisse l’anello che aveva sempre portato indito. Quell’anello, unico suo bene ereditario, gli ram-mentava, se non altro, di avere avuto una madre, ora chegli toccava di morire senza aver adempito quella che erastata l’idea fissa di tutta la sua vita, cioè di trovare l’au-tore dei suoi giorni: onde, allorchè gli fu esaudita la do-manda, se lo ripose in dito colla devozione di un mori-bondo.

Quando Francesco e Venturino furono condotti amorte, Alpinolo era stato trascinato ai piedi del palco,perchè, secondo la sentenza, dovesse fare le veci di ma-nigoldo. Ma era facile eseguire la condanna in ciò che

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concerneva il suo cadavere, non era altrettanto nell’ar-margli la mano contro di coloro, che tanto aveva eglifatto per salvare. Intimatogli quell’ordine ferocementeinsensato, e scioltegli le mani, esso entrò in tal furia, sipose in atto così minaccioso, che n’ebbero di grazia alegarlo di nuovo, persuasi che, fin quando gli rimanessefiato, non si piegherebbe a tanta infamia.

Anche senza di ciò, nel veder sul patibolo que’ suoicari, nel pensare che avea contribuito a condurveli, con-siderate come Alpinolo si sentisse nel cuore! Se non chegli fu di alcuna consolazione il trovare che la Margheritanon era con loro. — La tigre (disse fra sè) rimase satollacol sangue nostro».

Come ebbe veduto balzare la testa del fanciullo, poiquella del padre, versando dalle pupille grosse lagrime,più di rabbia ancora che di dolore, si mosse francamenteper porgere il collo al manigoldo, credendo che allorafosse la sua volta. Ma in quella vece si vide rimosso dalpalco, senza conoscere il perchè, tratto ancora al suofondo di torre a macerarsi un altro giorno, compassio-nando il giudizio veduto, e paventando la vergogna diun perdono e la gratitudine della clemenza.

Ma al domani fu cavato di nuovo, e il suo tormentogiunse veramente al colmo quando scôrse la Margherita,la sorella di Ottorino, la sua amica, la signora sua, trattasul carro dei malfattori a rinfrescare col suo sangue ilsangue del consorte e del figliuolo. Così incatenato neseguiva il lento cammino, cogli occhi il più spesso in-chiodati a terra, talvolta balestrandoli sopra la moltitudi-

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ne, quasi per cercarvi o il generoso coraggio che strap-passe la vittima al tiranno, o almeno la generosa com-passione, il cui fremito è compenso ai più rovinosi colpidell’iniquità potente. Ma non avvisando in tutti che unaindolente curiosità, atterrava novamente gli sguardi inatto di fiero disprezzo, e li riposava su quelli della mar-tire; e allora esalava un sospiro dal più profondo delcuore.

Come l’onda trabocca al levare della chiusa che lareggeva in collo, così dietro ai soldati che tenevansi inmezzo Alpinolo, si rinchiudeva la folla divisa, e si ac-calcava, ingegnandosi di mettere il passo innanzi a chigli aveva preceduti, per vedersi poi oltrepassati anch’es-si dai nuovi che sopravenivano. E già il carro era ristatoai piedi del palco: un solenne silenzio possedeva la tur-ba spettatrice. La Margherita smontò, accostossi allascala — la scala che per lei era quella del paradiso. Ilcarnefice, discesole incontro, le porse la lurida mano,come per ajutarla a salire. Era la mano che, il giorno in-nanzi, si era intrisa nel sangue dei suoi diletti! La Mar-gherita, con un fremito istintivo, ma senza odio, la ricu-sò, e con passo quanto più poteva sicuro, incominciò amontare.

Povera martire! non hai finito di patire.Passava ella in mezzo ai confratelli della Consolazio-

ne, quando da uno di essi, con voce sommessa ma fiera,sentì dirsi: — Margherita, ricordatevi la notte di sanGiovanni».

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…. presentò al popolo la testa recisa e boccheggiante.

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Come la rana già morta guizza al passar della corren-te elettrica, così la Margherita, che già pareva tolta dallecose terrene, trasalì al suono di quel motto; volse losguardo, pieno di terribile maestà e di profondo orrore,sovra il miserabile che aveva parlato, e traverso ai foridella buffa vide fissato sopra di sè un occhio acuto comedi velenoso serpente.

Quelle parole lo diedero a conoscere anche a fràBuonvicino, il quale stava a fianco della Margherita:sporse la mano a questa che, vacillando in atto di cade-re, gliela ghermì collo spaventato vigore, onde, nei mo-menti che ci strazia un nemico, sentiamo imperioso bi-sogno di stringerci ad un fedele. E l’Umiliato, ponendo-le innanzi alla vista il crocifisso, le gridava:

— Egli morì perdonando ai suoi uccisori».Ritenne Margherita le pupille nella devota effigie, le

alzò al cielo, parve riconfortata, e raggiante del presenti-mento dell’immortalità, giunse sul funereo palco. Unistante appresso, il carnefice, afferratala per le nerechiome, presentò al popolo la testa recisa e boccheg-giante.

Un fremito universale ruppe la taciturnità: chi diedein pianti, chi esclamò, chi intonò le preghiere di suffra-gio; i più vicini gridarono ai remoti e a quelli che nonavevano veduto: — È morta». Allora, colla furibondaansietà onde i cani assetati si precipitano alla fontana,furono visti alcuni correre sul patibolo, raccogliere inuna scodella il sangue che sgorgava dal busto e piovevadal capo, e fumante tracannarselo. Erano infelici, tor-

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mentati dall’epilessia, i quali credevano con tale rimedioorrendo guarire dalla più orrenda delle infermità.

Allorchè la Margherita porse il collo al fendente, fràBuonvicino, messosi con lei in ginocchio, alle orecchie,che fra poco più non udrebbero, le mormorò gli ultimiconforti; poi, con un atto risoluto, come chi finalmenteesce da lunga situazione penosa, impugnato il crocifis-so, levò con esso le giunte mani al cielo, le abbassò finsul tavolato, e si lasciò cadere colla fronte sopra di esse.Il sangue di quella vittima lo spruzzò. Tutto era consu-mato, ed egli non si rimoveva da quell’attitudine. Fuscosso... Era morto.

Così l’angelo destinato a custodia di ciascuno, appenacessa di vivere quello al cui fianco era stato collocatodalla Provvidenza, compiuta la divina sua missione, ri-torna con esso in Paradiso.

Sulla compassionevole scena tenevano fisso l’occhiodue altre persone, con sentimenti, deh come diversi: Al-pinolo e Ramengo, giacchè era lui appunto il confratelloinsultatore. Il primo, sotto all’aspetto di scellerato, co-priva un generoso pentimento, un’immensa compassio-ne, che nella fine lagrimata di quegli esseri virtuosi, glifaceva dimenticare affatto come, tra pochi momenti,avrebbe anch’egli a seguitarli di là dei confini della vita.

Ramengo, sotto alla maschera della pietà, celava unodi quei cuori nefandi, che l’ira di Dio slancia talvoltasulla terra per una prova, e per un saggio dell’inferno.Guatava egli la Margherita, siccome pago della spasi-mata vendetta; e quando mirò spiccato il bel capo, si

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sporse avanti, struggendosi di potere, come quegli altrisciagurati, smorzare la lunga sete col sangue che nesprizzava, e del quale alcune goccie gli chiazzarono ilbianco vestito; contemplò, numerò, analizzò le spasmo-diche contrazioni della faccia moribonda, il pallore chela occupava man mano che abbandonavala il sangue, ilrotare degli occhi, che, più sempre affondandosi nelleorbite, parevano ingordi della luce violentemente rapita;s’immaginò perfino che uno sguardo ultimo lanciasserosopra di lui, ed esclamò: — Ora sono soddisfatto».

Mentre il carnefice, rimovendo la raschiatura inzup-pata di sangue, e collocando nella bara il tronco esani-me, che sotto al suo piede aveva cessato il doloroso vi-brare, esclamava «E uno». Ramengo, girando la vista, sitrovò dinanzi il soldato sconosciuto, che con coraggiocupo e taciturno montava sul patibolo. Pallido e sbattutoper le ferite del corpo e dei patimenti dell’animo, lamorte istante non lo agitava però, nè deprimeva la fie-rezza della sua fronte, somigliante, a quella di un angelodecaduto, che si orgoglia del suo peccato, e non vuoleperdono.

Appena gli vennero sciolte le mani incatenate allereni, di schianto, siccome allo sbandarsi di una molla, sele recò alle labbra baciando l’anello. Quel diamante,fiammeggiando sugli occhi di Ramengo, gliene dovetterichiamare alla memoria uno somigliante, che aveva al-tre volte posto in dito alla sua Rosalia, e poi trovato nel-la capanna di quei mulinaj sul Po. Questo vago senso emomentaneo si tramutò ben tosto in un fiero sbigotti-

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mento allorchè vide il condannato trarsi l’anello daldito, affisarlo teneramente, baciarlo, premerselo al cuo-re, baciarlo di nuovo; indi, coll’espressione di chi si di-vide dalla cosa che più di tutte ha cara, che anzi unicaormai ha cara sopra la terra, porgerlo al garzone del ma-nigoldo, e dirgli: — Tieni; dopo morto, va e seppellisci-mi presso a quella santa».

Tra quel fatto, Ramengo avea osservata la mano diAlpinolo, con un dito meno: il dito appunto che essoaveva reciso al suo figliuolo, allorchè gli trasse nel suogeloso furore; quel dito, quell’anello, il suono delle pa-role misero il colmo alla sua agitazione. Si fece un pas-so avanti, spinse il braccio, e rapito l’anello di pugno almanigoldo, esclamò: — Lascia vedere! lascia vedere!»

Rimase questi attonito all’atto. Alpinolo gli fissò sulviso mascherato gli occhi tra curioso e indispettito; l’al-tro, mirando il condannato, fra i lineamenti scomposti ealterati non esitò a raffigurarlo. Raffigurò Alpinolo, il fi-gliuol suo, — quello che tanto aveva desiderato, tantocercato, — quello che solo poteva restituirlo alle conso-lazioni dell’amore, alle speranze della vanità, all’invidiadel mondo; lo trovava, ma col piede sul patibolo, e por-tatovi da lui medesimo.

Non si ritenne: e come fuor di sè gridando, — Alpi-nolo, Alpinolo, ti ravviso», si scagliò tra il carnefice elui, che già era salito sul pianerotte. Alpinolo ristettemaravigliato nell’udire una voce che a nome pareva ri-chiamarlo alla vita. Il carnefice, non sapendo spiegarequesta scena, rimase un tratto sospeso, poi gridandogli,

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— Via, sgombrate, toglietevi fuor dei piedi», tornavaper afferrare la vittima a sè destinata.

Ma quel rimbaccucato, opponendosegli a viva forza,— No, no, (gridava), egli non deve morire, no... Eglinon è quello che è creduto... Non è un soldato mercena-rio... S’è infinto. È il bravo scudiere Alpinolo: quel des-so che salvò il signor Luchino a Parabiago. — No, si-gnori, no... non deve essere ammazzato così come unassassino.

— Che bubbole mi contate? (ripigliava mastro Impic-ca.) Sia chi si voglia, il mio mestiere è di ammazzarlo.Credete che io non sappia far la festa anche ad uno scu-diero? Le vostre ragioni dovevate dirle al signor vicario.

— Sì (replicava Ramengo con ansietà), il signor vica-rio le sa; non lo ha condannato: è un puro sbaglio... Perlui mi ha dato l’impunità, per lui... Aspetta... per carità...un momento... sospendi... Signori soldati, badate: questoqua, che si finse un vostro camerata, è lo scudiero Alpi-nolo, quel che fece prodezze a Parabiago — l’avretecerto sentito a menzionare, eh? Bene, è desso; e s’è fattovostro compagno. Ma voi certo non soffrirete che un ca-merata vostro vada alla forca. — Udite, datemi mente.— Non dico di salvarlo ingiustamente: ingiustamente illasciereste morire.... Di grazia, fate sospendere un mo-mento... una mezz’ora sola. Vi prego, vi scongiuro, perle vostre donne, pei vostri figliuoli... C’è nessuno fra divoi che abbia moglie? che abbia un figliuolo? Fate cheaspettino: chiamate il vostro capitano. Ehi, signor Me-lik, lei che è così bravo, così valoroso.... questo giovane

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non è quel che credono; lo guardi, non lo conosce? hacombattuto con lei il giorno di santa Agnese: dov’ellas’è fatto tanto onore. E quando il signor vicario sapràchi è, li castigherà se l’avranno lasciato finire a questomodo... perchè egli, il signor Luchino, mi ha rilasciatolettera d’impunità. — No, non deve morire. — Che? aMilano comanda il principe o il boja? — Non ha da mo-rire, no!»

E bruscamente respingeva la branca del manigoldo,stesa impazientemente sopra di Alpinolo. All’ascoltarqueste parole recise, affollate, emesse traverso al pannodella visiera col gorgoglio di un fiasco, pel cui collo an-gusto si versi l’acqua della pancia capace, con un tonodi angoscia, di affetto, di spavento, i soldati si guardava-no l’un l’altro in viso; il capitano, che non sapea render-sene ragione, facevasi più d’accosto per conoscere ilvero: se Lucio fosse stato ancora presente, sarebbero ri-corsi a lui per nuovi ordini: ma egli, tosto che vide com-piuta la sua giustizia, senza curarsi più che tanto di unsoldato, che nè tampoco aveva un nome, se n’era ito adesinare. Tutto il vulgo spettatore accalcavasi viepiù daquella parte; e, — Chi è quel mascherone? — che facolà tra il boja e il condannato? — cosa predica? — per-chè questo ritardo?» e i più lontani facevano prova diaprirsi un varco a spintoni; quelli arrampicati sugli spor-ti o accomodati ai balconi, ai loggiati, alle finestre, spor-gevansi in fuori a guisa dei passeri nidiaci, allorchè sen-tono la madre ritornare coll’imbeccata.

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Mastro Impicca, sazio dell’indugio, battendo il piedecosì, che fece sobbalzare e sonare tutto il palco, esclamòcon dispetto: — Ho altro a fare che dar ascolto alle tuefandonie, mascherone maledetto! Fatti da banda. In unbatter d’occhio te lo spedisco, e dopo gli farai compli-menti quanti vuoi»; e si accingeva a ridurre queste paro-le in fatti.

Ma Ramengo ripigliava: — No, no. Ti dico che tunon ci hai a far nulla: che fu condannato in iscambio:Ha il breve d’impunità: gliel’ho ottenuto io... O che?non deve valere il decreto fatto, firmato e suggellato dalvicario di un imperatore? Se tu sapessi quel che ho fattoper ottenerglielo! E ora il frutto di tante fatiche farmeloperdere a questo modo?»

E perchè il manigoldo, incapace di ragioni come dipietà, metteva risolutamente le mani alla vita di Alpino-lo, Ramengo, inferocito, lo percosse di tale spunzonenei fianchi, che, cogliendolo improvviso, lo gettò ruzzo-lone dal palco. La plebaglia, vedendo a cascare il carne-fice, ruppe in alti schiamazzi, in un batter di mani, in unbravo! bene! come quando vedeva un bel colpo alla pal-lamaglio. E Ramengo, lanciatosi al collo di Alpinolo,vedendo che i soldati si movevano per mettere un termi-ne colla forza a questa nojosa resistenza, — Signori sol-dati (esclamava), signor capitano, voi, gente così gene-rosa, volete ora venire a dar mano al boja, voi? a fare daboja voi stessi? Vergogna! Io posso farvi del bene. Deidenari ne ho molti, ne ho troppi — ve li darò — ve nedarò finchè ne volete, ma deh! ajutatemi, soccorretemi a

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camparlo. Giù le mani, canaglia! cosa credete, che eglisia carne venduta al pari di voi?... Egli è... è mio figliuo-lo!»

Il condannato fino a quel punto non avea compresonulla più che gli altri della pietà inattesa e disinteressatad’uno sconosciuto, così lontano dall’idea, che purtroppoegli erasi formata della universale nequizia e vigliacche-ria. L’udirlo parlare di impunità, di grazia ottenutagli, ilvedere frapposto un ostacolo alla sua morte, che anchepei meglio risoluti è un gran passo; la premura appassio-nata che traspariva da ogni parola, da ogni gesto di quel-l’incognito, lo tenevano assorto e in dubbio, come uomoche sta sur un filo tra la vita e la morte. Ma appena udìquella parola di figliuolo, tutto si riscosse, ed esclamò:— Come?... figlio? voi mio padre?»

Sventurato! mai in tutta la vita sua non aveva intesodirigersi quella parola soave; non aveva gustato mai ladolcezza dei domestici affetti; aveva sempre ambito, maanche disperato di poter mai dire «O padre mio». Ed ora— Sarebbe possibile? questo sconosciuto sarebbe il pa-dre mio? Eppure deve ben essere così. E chi altri se nonun padre si curerebbe di un miserabile già sotto la manodel carnefice?

Quindi con inesprimibile sentimento accoglievasi tut-to anch’esso contro Ramengo, lo abbracciava, trasalivasotto gli amplessi di lui. Ora sì che il timore della mortelo invadeva! ora sì che avrebbe voluto ritrarre i piedi dalpatibolo, tornare alla vita, dove gli era preparata unasoavità non assaporata mai; dove non si troverebbe più

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solitario: dove all’esser suo si mescolerebbe un elemen-to nuovo, da cui ogni cosa restava modificata tutt’altri-menti, e che, togliendogli quel nauseato dispetto degliuomini ond’era invaso da un pezzo, gli abbelliva i moltigiorni promessigli dalla sua fresca età. Colla fantasia nescorreva i casi; sedeva a un convito d’amore ignorato;ritesseva una tela di vicende, a fianco di un padre, sottouna mano amorevole, che lo esortasse, il reprimesse,l’applaudisse. Ma se da questo sogno, che in un atomoabbraccia tanto tempo, ricadeva sul presente, eccogli da-vanti un ceppo, fumante ancora d’un sangue prezioso, edove, fra un istante, anch’egli verserebbe il suo, sottoagli occhi di una moltitudine indifferente, tra la qualeforse sarà mescolato colui, quell’esecrato autore di tantimali; e starà a contemplarlo e sorridere.

A tali immagini, il garzone, pur dianzi così sicuro,sgomentavasi come il fanciullo all’idea del fantasma, ealtrettanto abborrendo dalla distruzione quanto primal’avea desiderata, ascondeva la faccia contro il seno del-lo sconosciuto, e ripeteva angosciosamente: — Padre,salvatemi. Sì, sono Alpinolo; sono il figliuol vostro; sal-vatemi».

Queste parole inferocivano il vigore di quell’altro, ilquale con una smania rabbiosa lo cingeva delle bracciaconvulse, strideva, chiamava il cielo, chiamava gli uo-mini, implorava pietà, giustizia...

Pietà, giustizia implorava egli!Ma il conestabile Sfolcada Melik, nojato ormai di

questo indugio, — Suvvia, (disse ai soldati) non sia mai

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detto che lasciaste ritardare la giustizia da un mascalzo-ne. Animo: traetelo di là, e avanti».

Si mossero eglino di fatto, e tolsero in mezzo Alpino-lo, il quale allora, dato nelle furie, cominciò a menarcalci e pugni, mordere, graffiare, sinchè, sferratosi, riu-scì a strappar di mano ad uno la mazza ferrata, e dispo-sto a far le forze estreme, cominciò con essa a lavoraredi qualità, che mal per chi l’accostava. I soldati, che, daquella notte in poi, sapevano come pesassero le costuibraccia, impacciati anche dall’angustia e dal barcolla-mento del palco, davano indietro, intanto che Ramengo,collocatosi in mezzo della scaletta, come per abbarrarladel suo corpo, gridava in risposta al conestabile: — Achi mascalzone? Mascalzone sei tu, tedesco venduto! Io,sai chi sono io?» E stracciandosi d’in sul viso il cappuc-cio, si scopriva esclamando: — Sono Ramengo da Casa-le; impara a rispettarmi!»

L’alterazione prodotta della maschera e da una situa-zione così strana, non aveva lasciato che Alpinolo rico-noscesse alla voce chi fosse il suo protettore. Ma comelo intese nominarsi, come, sospendendo un terribile col-po su cui abbandonavasi a due mani, si volse, e raffigu-rò quella faccia, la faccia che gli era fitta nella memoriasiccome quella di un demonio, si tramutò a guisa di unuomo, il quale mentre accarezza e palpa il suo fido cane,tornato dopo lunga assenza, ascoltasse taluno gridargli:— Bada che è rabbioso».

Slanciò la mazza sul palco, e cogli occhi stralunati,colle braccia e gli indici protesi rigidamente verso di lui,

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profferì: — Ramengo! voi mio padre!» Mandò un urlodisperato, levò la faccia al cielo, colle mani fra gli irticapelli, indi, invano rattenuto da quell’altro, che a guisadi energumeno smaniando, divincolandosi, pregava, be-stemmiava, chiedeva perdono, corse egli stesso a furia,a sottoporre il capo al fendente.

Un minuto dopo, il disciplino tenevasi boccone, ab-bracciato ai piedi di un cadavere, seguitando a prorom-pere in urli, in pianti, in imprecazioni — ma chi l’avreb-be compassionato? era una spia.

I confratelli della Consolazione intonarono la pre-ghiera dei defunti, e levando il feretro, più carico delpreveduto, si avviarono a Santa Marta per darvi sepoltu-ra. Il popolo, rispondendo a quelle preci, sfollava dallapiazza e si diramava anch’esso, per le varie stradelle,cedendo il passo a nuovi curiosi, che a fiotti si avvicina-vano al patibolo per vedere, se non altro, gli apparati egli avanzi, ed informarsi di quell’ultima scena. Poi ritor-narono ciascuno alle occupazioni della giornata, fra lequali più di uno usciva tratto tratto esclamando con unsospiro: — Povera signora!»

— Un bel colpo!» diceva un altro. — La non deveaver patito nulla. Non si può dire che i nostri signori nonci mantengono uno dei carnefici meglio esercitati.

— Hai visto (aggiungeva un terzo) con che divozio-ne, prima di sottoporre la testa, ella baciò il Crocifisso?

— E non volle (replicava un altro) che il boja le le-vasse il fazzoletto dal collo».

Qualche femminetta soggiungeva:

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— Ma! a quest’ora la sarà in purgatorio a mondarsidei suoi peccati. Il Signore è misericordioso.

— E quel frate (riflettevano altri) se era sì dolce dicuore non dovea far quel mestiero di assistere i giusti-ziati. Manca gente avvezza a queste funzioni? Si sa: nontutti son buoni per tutto».

Un altro intanto aggiungeva: — Che cosa poi saltassein mente a quel disciplino di non voler lasciare, comedice il mio padrone, libero corso alla giustizia, vattelaaccatta.

— Avrà creduto di far un’opera di misericordia», ri-spondeva lo scaccino della Passerella.

— Oh, sta a vedere! (tornava su il primo) Che ci ha afare la misericordia coll’impedire che si ammazzi? Ope-ra di misericordia è seppellire i morti, dico io.

— Per me (udivasi qualche giovane) è la prima chene vedo di queste, ma sarà anche l’ultima. Gesummaria!alla notte mi tornerà sempre sugli occhi quella figura,quel tronco, quel sangue...» e rabbrividendo si copriva ilviso.

— Tutto sta ad assuefarsi» rispondeva un uomo matu-ro.

Ma questa era la ciurma, ignorante e brutale a segnoda trarre curiosa a tali miserie. Che se la storica verità cicostrinse a rivelare, pur troppo al vero, quel vulgo, ci èdi soddisfazione l’assicurare come la razza dei generosinon fosse scarsa, frammezzo agli insultanti dominatori eai vili depressi; sconosciuta da questi, sospetta a quelli,ma destinata a far fede della virtù, allorchè i casi umani

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trarrebbero qualcuno a rinnegarla indispettito. Con fre-mito virile, e con dignitoso compatimento, riguardaronoessi quel caso come un pubblico lutto, una lezione, unavviso; parte abbandonarono la città, perchè non sem-brassero tampoco colla loro presenza autorizzare l’as-sassinio legale; alcuni vestirono a lutto; altri manifesta-rono anche in aperte voci l’indignazione, ed erano glistessi che avevano disapprovato il Pusterla finchè lo cre-dettero cospiratore.

Le madri poi, le buone madri lombarde, narrandoquel caso ai raccolti figliuoli, e commovendoli a pietà,facevano loro suffragare i poveri condannati, e ripeteva-no: — Preferite di esser la Margherita sul patibolo, chenon Luchino sul trono».

Così quel giorno tutti parlarono della meschina, delfrate, del disciplino; molti ne discorsero anche il doma-ni, più pochi il terzo dì; poi nuovi mali, nuovi casi, nuo-vi supplizj vennero ben tosto a far dimenticare quei pri-mi, a destare nuove curiosità, nuova compassione, nuo-ve ciancie.

La scena si fu alla Corte, allorquando, ritornato Lu-chino a Milano, Grillincervello si pose dinanzi a lui adatteggiare quel supplizio, ora contraffacendo con attuccie moine la rassegnata devozione della Margherita e laprofonda pietà di fra Buonvicino, — tanto è facile vol-gere in riso le cose più serie e le più sante! — ora sma-niando e armeggiando come aveva fatto Ramengo, ecci-tando al riso la brigata, e riscotendo gli applausi di quel-

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li che ne erano stati testimonj oculari, e che esclamava-no: — E’ fa tal quale».

Luchino ne rise più degli altri, ma uno storico sog-giunge che quella notte non dormi.

Chi può averlo detto a quello storico?Poi anche alla Corte, come in città, a breve andare

tutto fu messo in dimenticanza. Di fatto, al raccor deiconti, che cosa era succeduto? Alcuni innocenti in aspet-to di rei eran stati percossi dall’iniquità in aspetto di giu-stizia: accidente tanto solito nella società — d’allora— , che non poteva destare nè mantenere a lungo l’inte-resse, non che l’orrore.

Ed io medesimo, ben lo sento, io ho troppo presuntocol darmi a creder che, con patimenti così usuali, potessitanto tempo occupare il lettore senza annojarlo.

Ma l’ho detto, e lo ripeto, non ho scritto per tutti,anzi, non ho scritto pei più, sibbene per quelli che dav-vero soffrono o hanno sofferto. Oh, se tra le pene ingiu-ste, con cui la calunnia, o la vendetta, o la satanica vo-luttà del far male, o anche l’interesse del potere e la pre-tesa necessità delle circostanze opprimono qualche voltal’innocente, se alcuno verrà un giorno a ricordarsi dellamia Margherita; e nel pensare quanto quella pover’ani-ma ha patito anch’essa dai cattivi, se ne sentirà un solomomento confortato; se mai nell’ora della prova qual-che virtù vi trovasse un sostegno, una vergogna, qualchevizio, non crederò perduta la fatica di questo lavoro, do-vesse pur rimanere trascurato e venire deriso dai mieicompatriotti: n’avrò anzi conseguito quel compenso che

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unico desidero, — unico, dopo che il meditare e descri-vere le sventure di quella meschina, disacerbò in lunghie terribili giorni le mie.

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CONCLUSIONE.

Prima di finire, volendo toccare un motto anche dellealtre persone che s’incontrarono colla Margherita inquesto racconto, dirò come, tre anni dopo, un caso inter-venne a Grillincervello, il più spiacevole caso che glifosse mai tocco nella sua vita beffarda e beffata, ridentee paziente. Il signor Luchino, nella deliziosa sua villeg-giatura di Belgiojoso manteneva un intrigo con una fan-ciulla paesana; ma, o non gli convenisse il farne mostra,o volesse solleticare il logoro senso del piacere col sa-vore del pericolo e del mistero, egli conduceva di piattoquesto suo amorazzo, e non traeva a sè quella facile bel-lezza se non di sera al bujo, facendola, per una porticinad’in fondo al parco, entrare in quel casino, dove Alpino-lo l’aveva visto una volta a dormire, posto fra gli om-brosi andirivieni di un artificioso boschetto. Non isfuggìla tresca alla maligna curiosità del buffone, e si proposedi giocare un mal tiro al signor suo, per farne poi scene.

Non so se mi sia venuta occasione di accennarvi cheLuchino, in mezzo a tanta fierezza, era pauroso del dia-volo, del fantasma, degli esseri impalpabili, contro dicui non valevano nè la spada sua, nè il ringhio dei ma-stini, nè le labarde degli scherani. Una sera, non avevaegli fatto che entrare colla druda nel conscio nascondi-

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glio, quando, tra il fosco, gli appajono sulle pareti, in li-vida luce, i contorni di certe strane forme, metà uominie metà bestie, con immense code e corna, e occhiaccistralunati, e tanto di lingue sporgenti; e nel tempo stessocomincia un fracassio, un sibilo fremente, un agitar dicatene: le figure, il sobbisso che attribuiscono al diavolocoloro che pretendono di averlo veduto e udito.

La ragazza, tra piena di ubbie, come sono o eranoqueste campagnuole, tra rimorsa del suo peccato, vogliolasciar pensare a voi di che paura restasse presa. Maneppure il signor Luchino seppe contenersi; e sgomenta-to non meno di un fanciullo male avvezzo, sbucò gri-dando accorr’uomo.

Gli sghignazzi di Grillincervello gli diedero ben tostoa capire come fossero orditure di costui, il quale, connon so che sue misture, aveva rappresentato quegli spa-ventosi apparimenti. Accorsero servi, accorsero soldaticon fiaccole, con armi, accorsero i figliuoli e la eccel-lentissima moglie e monsignor arcivescovo; talchè quel-la che dovea restar mistero, divenne una pubblicità, coniscapito dell’onore della docile contadina.

A Luchino, occorre ch’io vel dica? quel tiro spiacqueche niente più; non tanto per veder rivelato quel suo taf-feruglio (alla fin fine erano peccati abituali, e sapevaegli stesso riderne e farne ridere) ma per aver mostrato aquella donna, al giullare, agli accorsi, la sua paura: cosache con tanto maggior sollecitudine si nasconde, quantapiù se n’ha. Cacciò mano alla misericordia, e Grillincer-vello non mangiava più pane se, lesto come uno scojat-

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tolo, non si fosse arrampicato sino in vetta di un olmo,dove, appollajato, serenò quella notte alla fresca.

Il dormirvi sopra attutì la bizza di Luchino, non peròcosì, che non volesse farla scontare al buffone con al-trettanta e maggior paura. Il domani, dietro mangiare,quando solevano introdursi i buffoni a cantare e spassa-re, e colle arguzie loro agevolare la digestione signorile,Luchino, voltosi ai tre suoi bastardi, alla moglie, al fra-tello arcivescovo e agli altri commensali, disse: — Vo-glio che ci divertiamo».

E ordina che venga Grillincervello.Questo, al non vedersene più fatto cenno nè motto,

argomentava che quella sua bizzarria fosse, come tantealtre, messa sotto un piede. Pure, volendo meglio dile-guarne la ricordanza col far ridere di più, si mise addos-so una veste di raso perlato, che la signora Isabella ave-va, pochi dì prima, regalato ad una delle mogli o femmi-ne di lui. Piccinacolo com’era, se la strascicava dietro, econ quel ceffo da beffana, e due gran mustacchi cho s’e-ra acconci, e con istrani reggimenti del corpo, avrebbemossa a riso la malinconia in persona.

Tutti in fatto cominciarono le risa più grasse; ma Lu-chino no; anzi, con un piglio arcigno se altra volta mai,lo rimbrotta delle insoffribili sue petulanze, e comanda amastro Impicca (personaggio il quale seguitava la Cor-te), che lo conduca davanti a quel casino istesso, e senzapiù, lo appicchi per la gola. Indi invita i commensali avuotar colà alcuni fiaschi di San Colombano, e vedere ilcastigo del mal burlone.

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Benchè il tono di Luchino gli paresse fiero e risolutooltre l’ordinario, ed egli si sentisse in colpa, nonostantequello sciagurato, persuaso o volendo persuadersi nonfosse altro che una celia, fece ogni prova per voltar lacosa in burla, con una affettata paura ed uno svenevoleaccoramento. E Luchino, sodo. Come dunque egli videil padrone ripetere l’ordine con un fare davvero spaven-tevole, e nessuno dei circostanti mostrar segno di favorenè di compatimento, e il carnefice ghermirlo senza ceri-monie, fu preso da tanto sbigottimento, quanta era dap-prima la sua baldanza. Bianco siccome un panno lavato,tremebondo come un paralitico, non reggendosi sulle gi-nocchia, mentre il boja ora lo tirava, ora lo spingeva,strillava al pari di un’aquila, chiamava misericordia, evolgendo la faccia contrita, raccomandavasi ora al pa-drone, ora al prelato, ora ai figliuoli, e massimamentealla signora Isabella e alle dame di lei, rammentando adesse che aveva tre mogli e una nidiata di puttini. Poi, ve-dendosi non ascoltato dagli uomini, non lasciò santo chenon invocasse; implorava almeno di confessarsi, di sal-var l’anima; ma nessuno facea viso, non che di esaudir-lo, neppure di commiserarlo; e il maggior loro da fareera il tenersi serj e composti, a malgrado dell’enormeantitesi fra quel vestire, quel ceffo, e quelle supplicazio-ni. Ed oltrechè per abitudine non pendevan troppo allapietà, volevano così tener mano con Luchino, sapendonon esser altro che una baja, da risolversi comicamente,e riderne poi per mezz’anno.

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Intanto mastro Impicca arriva al luogo designatogli,getta la soga a cavalcione di un ramo di quercia da uncapo, e dall’altro, formato un nodo corsojo, lo circondaal collo del buffone, e fattolo salire, o piuttosto portatolosu per quattro o cinque piuoli di una scala a mano, iviappoggiata, gli da una spinta, e giù.

Un ghigno universale scoppiò allora fra gli astanti,nascosti nel bosco: giacchè, secondo l’intesa, non essen-do il capestro assicurato al ramo, il buffone, invece direstarvi appeso e strangolato, cascò stramazzone sull’er-ba. Fattisi dunque tutti vicini ad esso, chi lo chiamava,chi lo urtava coi piedi, chi lo punzecchiava colla mazzao colla spada, e rinforzando le risa, gli ripetevano: —Ohe! sta su! — Che? ti sei addormentato? — Lazzaro,vien fuori» gli gridava l’arcivescovo; e Forestino sog-giungeva: — Gua’ come imita bene il morto».

Il fatto però stava che egli era morto davvero: lo spa-vento lo aveva accoppato. Questo principesco diverti-mento non dispiacque a tutti, molti anzi si tennero dibuono al veder tolto di mezzo questo implacabile mordi-tore.

— Visse come i cani di legnate e di buoni bocconi:come un cane sarà sepolto», disse Forestino prendendoal braccio e conducendo via la signora Isabella.

— Salute a noi finchè non torna lui», soggiunse Bru-zio seguitandolo. Anche Luchino, volgendo un’ultimaocchiata nel partire, esclamò: — Me ne sa male: mi fa-ceva tanto ridere».

Al che monsignore: — Basta fargli dire del bene».

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E Borso: — Puh! di buffoni non è scarsità»; e giravaun’occhiata fra sprezzante e atroce sopra i cortigiani chestavano attorno.

Chi mi domandasse come la signora Isabella sentissee sopportasse questi disordini del marito, e gli scorniche le recava, sarei costretto a rispondere: «Al modo dimolte: facendone altrettanto». Quando essa partorì duefigliuoli, Grillincervello diceva che Luchino potevamangiare in venerdì la parte che vi aveva avuto; nel chepare che egli non desse lontano dal vero, attesochè,dopo morto Luchino, essa dichiarò che non venivanle dalui.

Una volta poi, essa, volendo trovarsi comodamentecon un certo, anzi, con certi suoi innamorati, finse averfatto voto di visitare San Marco in Venezia. Grossa co-mitiva di signori e dame principali delle varie città ob-bedienti ai Visconti, l’accompagnarono nel devoto e vo-luttuoso pellegrinaggio, e sull’esempio della principessasfoggiarono in lusso e lautezze non mai più vedute, eruppero in scandaloso libertinaggio. Tutto il mondo nefacea cronache: solo il marito, come suole avvenire, nerimaneva all’oscuro, finchè l’astrologo suo Andalon delNero, fingendo leggere nelle stelle quel che contavasiper tutte le barbierie di Milano e di fuori, ne diede noti-zia al Visconti. Questi consentiva ad essere tradito; maingannato, no: e, furibondo della beffa più che dell’ol-traggio, mancò all’abituale sua dissimulazione, e la-sciossi intendere che, con un bel fuoco, stava per fare lapiù grande giustizia che mai si fosse eseguita.

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Non l’avesse mai detto. Isabella intese che bisognavaprevenirlo. Come fu, come non fu, Luchino, di ritornoda una corsa, beve una coppa di vino, ed è preso da do-lori atroci; chiamano quel dottissimo Matteo Salvatico,il quale nel visitarlo impallidisce, guarda in viso alla si-gnora che piangeva e strillava, si pone un dito alla boc-ca, e chiesto che mal fosse, risponde in aria di oracolo:— Un bel tacer non fu mai scritto».

E Luchino morì, sette anni dopo il supplizio della no-stra buona Margherita, e fu sepolto, dissero le gazzetted’allora, cum grande honore de cavalli et de bandiere,cum infinito dolore de l’arcivescovo et de la inconsola-bile moglie, et incredibili lacrime de tutti li fedeli suddi-ti de Milano et contorni.

Quell’incredibili non si legge che in pochi esemplarigenuini.

Dopo queste dimostrazioni, tutte del pari sincere, lasignora lasciossi racconsolare, e il popolo obbedì volen-tieri al solo arcivescovo Giovanni. Era egli oltremodomagnifico, gran persecutore degli eretici, gran limosi-niere, gran fautore dei letterati e del Petrarca, il quale e iquali seppero mostrarne la medaglia da un lato solo: lastoria mostrò anche il rovescio a chi possieda lente perleggere di sotto la patina della retorica e dell’adulazio-ne. Il popolo, accortosi di aver poco migliorato, deside-rò disfarsene; e la morte ne lo disfece dopo cinque anni.

Non erano ancor finite le splendide esequie fattegli inpubblico, e le imprecazioni lanciategli in privato, che,per paura non mancasse un padrone, noi popolo col suf-

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fragio universale ci affrettammo di eleggere principiBernabò, Galeazzo e Matteo, quei tre fratelli che i nostricongiurati avevano sperato liberatori del paese. Essi coifatti davano segno di far ogni male, e i Milanesi se nepromettevano ogni bene. Il servire era diventato abitudi-ne, abitudine non si può dire altrimenti che comoda; lalunga dominazione dei primi Visconti aveva associato alnome di questi l’idea di padronanza; onde, sebbene l’e-lezione si facesse dai novecento, scelti dal principe adorgani del voler popolare, si sarebbe creduto ingiustiziail non conferire il potere a un Visconti, non per altra ra-gione se non perchè un Visconti lo aveva avuto e abusa-to.

Quei tre, compromessi da giovani come nemici dellatirannia, o, per dirla alla moderna, come liberali, sapeteche non riuscirono migliori. Galeazzo e Bernabò permaggiore comodità di divisione, ammazzarono Matteo,e si spartirono lo Stato, facendo a chi peggio. Le lepideenormità di Bernabò, che diceva d’essere nei suoi paesipapa e imperatore, sono vive nella tradizione vulgare; ei Milanesi più non potevano durarle, quando un bel gior-no intendono che Giovan Galeazzo, figliuolo e succes-sore del bel Galeazzino, un’acquamorta, un santocchio,tirò in trappola lo zio Bernabò, e lo ha cacciato nel ca-stello di Trezzo, a crepare di rabbia, se non fu di veleno.

Il popolo, tutto allegria di vedersi senza fatica liberatodal tiranno, gridò Viva la libertà, o unanimemente accla-mò per padrone il nipote traditore. Questo non dirazzòdagli avi, e per esimere i Milanesi dall’incomodo di

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eleggere ogni volta il figlio o il nipote del morto, chiesedall’imperatore di Germania, e ottenne in proprietà que-sto bel paese. L’imperatore, contento di buscar soldi, gliconcesse questa grossa porzione, senza tanto guardare adiritto, e colla cortesia onde io regalerei quel poderettoche mi hanno assegnato laggiù in Arcadia, quando ne fuiacclamato pastore. Il popolo, stracontento di avere unduca, e un duca che fabbricava il Duomo di Milano e laCertosa di Pavia, assistette in affollato tripudio allainaugurazione di esso e...

Nessuno ignora le vicende che da quel punto corse ilducato, or preda degli ingordi, or rapina dei prepotenti,or trastullo degli scaltriti, or dote di donne come i mobi-li e le mandre, finchè traverso a lunghi e indecorosi do-lori, potè arrivare a quel riposo e a quella felicità checiascun vede.

Se alcuno mi domandasse a che riuscì quel Lucio ca-pitano di giustizia, che tanto erasi affaccendato a spe-gnere la razza dei ribelli, non si aspetti una fine cattiva,simile alle altre del mio racconto, le quali sarebberotroppe se non fossero storiche. Era diritto che il com-penso venisse generoso a chi generosamente aveva aju-tato il principe a liberarsi da’ suoi nemici. Il lauto e deli-zioso podere di Mombello, confiscato come roba di ri-belli, fu da Luchino concesso a Lucio, il quale si ritiravacolà a riposo ogni qualvolta glielo consentissero le pub-bliche occupazioni, e le cariche affidategli dalla gratitu-dine della patria, cioè del principe, in cui vantaggio con-tinuò ad esercitare la lunga e onorata canizie.

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In un oratorio, là tra Bovisio e Mombello, si vede an-cora una grande arca di granito, con un epitaffio cheloda la vita e piange la morte di uno, del quale sul co-perchio si vede l’effigie ad alto rilievo, col berretto dot-torale in capo e la toga fino ai piedi, e colle braccia in-crociate sul petto, al modo onde muojono i buoni cristia-ni.

Là dentro fu sepolto Lucio.Là dentro aspetta il giudizio di Dio.

FINE.

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FONTI STORICHE

PETRI AZARII notarii novariensis synchroni auctorischronicon de gestis principum Vicecomitum.

Luchinus gessit et æegrum animum contra magnates,qui conversationem habuerant cum præfato dominoAzone. Et dicebatur, quod id faciebat propter alterum deduobus; scilicet, aut pro co quod morti domini Marcifratris sui assenserant consulendo, aut quia, temporedomini Azonis, ipse paucum profictum ex titulo et hono-re habebat. Nam præfatus dominus Azo consiliariis suismultum credidit, et eum eo in infinitum facti sunt opu-lenti. Et pro eo dictos consiliarios male tractabat,etiamsi essent de optimatibus Mediolani. Et inter alioserat Franciscolus de Pusterla, ditior et felicior quovisLombardo, si tamen temporalia hominem possunt facerefelicem. Et quod sit rerum, audietis. Nam pulchriorem etnobiliorem mulierem Mediolani habebat in uxorem.Nobiliorem quia de Vicecomitibus; pulchriorem, quiaetiam vocabatur Margarita. Et certe mirum fuit, quodnemo in luxuria erat dicto Franciscolo coæqualis, intantum quod a prandio se levabat ut haberet coitumcum ipsa Margarita uxore. Et sic faciebat equitando, sidebuisset de equo descendere, et invadere publicas

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meretrices. Ex ea habuerat tres filios mares, pulchrioresforma aliquibus Mediolani. Et si aliter fuissent,degenerassent, quia ipsorum parentes tam vir quammulier formosi ultra modum erant et valde pulchri.Domum autem in Mediolano habebat pulchriorem;possessiones, mobilia, in tantum quod numerus nonextabat, et certe alter Job potuit dici.

Sed quia ad plenum enarrare longum nimis esset,concludam, quod præfatus dominus Franciscolusaccusatus fuit de quodam tractactu. Et certe potuit esseverum. Nam dicebatur, quod ipsius uxor prædictaconquesta fuerat, quod dominus Luchinus volueratnobilitatem ipsius turpi coitu fædare. Nam præfatusdominus Luchinus extiti luxuriosus. Et quod graviuserat, propter ægrum animum, quem in eo ridebat,habebat de statu dubitare. Et certe si, prædictusdominus Franciscolus cogitata cito explevisset, de facilifuissent effectum consequuta. Sed quia tanti et potentescives ipsi tractatui assentiebant, necessarium fuit abaliquo publicari, et male. Quocirca dominus Luchinusmultos cepit, et capti fuerunt statim decapitati, et famealiisque tormentis necati. Et quia nimis longum essetenarrare opus, de ipsis ad præseus tacetur. Dicam,quod prædictus Franciscolus fugit, ed eum pluribus exfiliis Avenionem se reduxit. Sed quia nec ibi, nec ultramare, nec citra permisisset cum vivere, necessarium,fuit alio divertere; nam exploratores ipsumsequebantur: et captus fuit in marinis partibus, superPortum Pisanorum, et ducti fuerunt Mediolanum.

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Multos alios publicatos accusavit, quos morte, peremit.Et demum ipsum et filios duos cum parentibus inBroleto decapitari fecit, et quosque tam mares quamfœminas, et ipsam Margaritam consumavit, quæpropterea alia fuit Hecuba, ut legitur in processibusTrojanorum. Purgavit adeo dominus Luchinus corumcontumaciam, quod credo nunquam Mediolanensesausuros tractare (etiam quia timidi sunt a natura)contra Vicecomites.

BERNARDINO CORIO, L’Istoria di Milano.

Nel medesimo anno (1340), ancora nell’agosto,Francesco da Pusterla, il quale in Milano sopra ognialtro cittadino di ricchezze abbondava, avendo ridotto asua divozione Galeazzo et Bernabò supradetti, insiemecon Pinella et Martino fratelli de’ Liprandi; Borollo daCastelletto, et un Bertoldo d’Amico, conspirarono con-tra di Luchino Prencipe di Milano, da gli antecessoridel quale erano fatti grandi, tanto di ricchezza, quantodi riputatione, et nome. Cominciarono adunque a trat-tare della morte del Prencipe, onde Giuliano, fratello diFrancesco, impetrando aiuto ad Alpinolo Casale, li ma-nifestò il tutto, per esser lui suo caro amico. Costui disubito al fratello Ramengo riuelò il trattato, la qualcosa intendendo Francesco sopradetto, non essendogliRamengo beniuolo, pensò che la cosa saria palesata alPrencipe, il perchè di subito insieme col fratello, et due

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figliuoli già di età perfetta, fuggì da Milano, et secreta-mente andò in Auignone, et Ramengo senza metterlitempo, hauuta la certezza del fratello, fece intendere aLuchino Visconte quanto contra di lui s’era ordinato.Onde Pinalla, Martino, Borollo et Beltramolo gli feceimprigionare, et posti al tormento manifestarono lacosa. Fatto dunque che hebbero il processo di tanto ma-leficio, gli furono confiscati tutti i suoi beni, et posti nel-le carceri furono fatti gli ambi fratelli morir di fame.L’Amico, à più uituperoso fine fu reseruato. Le famigliesue restarono in somma pouertà. Malgherita, moglieradi Francesco, germana di Luchino per esser lei sorelladi Ottorino Visconte, et figliuola di Vberto, quale fu fra-tello di Matteo Magno, essendo stata la inuentrice ditanta scelleraggine, fu crudelmente incarcerata, etFrancesco dall’altro canto per le continue insidie, inAuignone quasi non era sicuro. Et così finalmente unMilanese con simulazione fuggì da Milano et andò inAuignone; il perchè da Luchino fu messo nel bando, etlui dell’altro canto faceva venire a Francesco letterecontrafatte da parte di Mastino della Scala, che volesseandare a Verona, concio fosse che da lui sarebbe hono-rato con onesto stipendio. Credette Francesco alle falselettere, il perchè partendosi giunse a porto Pisano, dovela potenza di Luchino era oltra modo estimata, per di-fendere lui i Pisani dai Lucchesi. Quivi mandò adunqueBuonincontro di San Miniato Toscano, et suo Condot-tiero, il quale come Francesco, ed i figliuoli furonogiunti, li fece prigioni, et fra pochi giorni essendo con-

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dotti a Milano, nella pubblica piazza del Broletto furo-no decapitati; per impositione del Prencipe, Beltramolosopradetto, palesamente fu il manegoldo. E dopo peressere molto odiato da Luchino, cantra del quale anco-ra nei tempi passati altri mancamenti hauea commesso,fu strasinato a coda di due Asini fino alle forche, fuoradella città, dove senza dimandar perdono de i suoi pec-cati, con una catena al collo per insino dai corvi fu de-vorato, restò impiccato con perpetue esecrazioni d’ogniviandante.

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INDICE

L’Editore ai LettoriCAPITOLO I. La parataCAPITOLO II. L’amoreCAPITOLO III. La conversioneCAPITOLO IV. L’attentatoCAPITOLO V. La congiuraCAPITOLO VI. Un’imprudenzaCAPITOLO VII. L’annegataCAPITOLO VIII. I disastriCAPITOLO IX. BreraCAPITOLO X. Il processoCAPITOLO XI. La prigionieraCAPITOLO XII. PeggioramentoCAPITOLO XIII. RiconoscimentoCAPITOLO XIV. PisaCAPITOLOCAPITOLO XV. Padre e figlioCAPITOLO XVI. L’esuleCAPITOLO XVII. TradimentoCAPITOLO XVIII. Il soldatoCAPITOLO XIX. FugaCAPITOLO XX. Un frate e un principeCAPITOLO XXI. SentenzaCAPITOLOCAPITOLO XXII. La catastrofe

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ConclusioneFonti storicheBernardino Corio — L’istoria di Milano

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