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gianfranco-martana
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8/10/2019 È solo un gioco
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Ricordo le partite a pallone giocate con i compagni di scuola su un
campetto di periferia, in certi infiniti pomeriggi di maggio. L’erba
spuntava soltanto qua e là in piccoli ciuffi, fra la polvere e il breccio-lino, e nessuno sapeva se fossero i superstiti di un prato un tempo
rigoglioso, o degli intrusi che si erano fatti largo a forza. Appena at-
traversavamo lo squarcio nella recinzione, eravamo presi
dall’orgasmo della partita, e pensavamo soltanto a tirare calci; altri-
menti li avremmo strappati volentieri, perché si finiva per inciam-
parci, e a volte facevano il solletico al pallone, e quello non capiva
più niente e prendeva traiettorie strane e infide.
Io stavo in porta, perché a correre mi stancavo, e perché il
grosso del tempo potevo passarlo a guardare gli altri, a giudicare i
loro movimenti, le loro urla e i loro corpi. Ogni tanto battevo i tal-
loni contro un palo, come facevano i portieri veri per liberare le
scarpe dalle zolle. Ma le mie suole, invece di precipitare terra, di-
sperdevano lievissima polvere.
Ero un portiere mediocre, ma non ne soffrivo: mi bastava sen-
tire l’impatto del pallone contro le mani protese, godendo della pa-rabola del tuffo, dalla curva appena accennata per la distanza cospi-
cua tra il fuoco e la direttrice. La sensazione di partecipare in pieno,
e in ugual misura, di un fuoco che distrugge e di una direttrice che
costruisce, inseriva il mio estremo tentativo di difesa nell’equilibrio
del cosmo. Ecco dunque spiegata la mia felicità nel seguire
l’esultanza degli avversari quando mi facevano gol, la stessa di
quando sentivo il tocco leggero delle palme dei compagni sulle nati-
che o sulla nuca, per ringraziarmi di una bella parata.I miei compagni, però, non si capacitavano dei miei sorrisi
quando raccoglievo il pallone in rete; me lo strappavano di mano
come se non ne fossi degno, e mi facevano certi sguardi come per
dire: “Se ci fosse un altro che vuole andare in porta, con noi non
giocheresti più”. Per loro contava vincere: dell’equilibrio del cosmo
se ne fottevano altamente.
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*
Il segreto del gioco l’avevo scoperto qualche anno prima. In certipomeriggi d’estate mio nonno mi portava ai giardinetti. Scendeva di
casa con una bianca canottiera di lana infilata nei bermuda beige. Ai
piedi aveva delle ciabatte di plastica, delle quali ricordo soprattutto il
fetore. Quando mi chiedeva di portargliele, le tenevo con la punta
delle dita, stendendo il braccio il più in basso possibile, fino a sentire
dolore, e alzando il mento. Pensavo così di allontanarle di qualche
centimetro dal naso, ma era tutto inutile. Quando ero abbastanza
vicino alla sua poltrona, mio nonno mi puntava un piede in faccia e
diceva: “Le ciabatte profumano di rose, in confronto a questo!”; ma
io smettevo subito di respirare, e non ho mai saputo se fosse vero
oppure no.
Ai giardinetti ci andava per giocare a scopone con gli amici. Si
mettevano sotto un grosso albero ritorto, intorno a un tavolo ro-
tondo, di pietra. Due di loro sedevano su panche, anch’esse di pie-
tra; gli altri due su certe seggioline pieghevoli che portavano da casa,le stesse che usavano per andare a pescare in fondo al molo. Io ero
libero di andarmene sull’altalena o sullo scivolo, ma il più delle volte
quegli attrezzi mi annoiavano, e preferivo osservare il gioco dei vec-
chi. Per timidezza me ne stavo dietro il nonno, e a volte gli poggia-
vo il mento su una spalla. Lui per scherzo mi minacciava: “Se dici le
carte a questi due fetenti ti faccio mangiare le mie ciabatte”. Ma io
nemmeno sapevo come fare. Guardavo le facce degli altri giocatori,
per capire se le stavano dicendo. Le vedevo ingrugnirsi, poid’improvviso distendersi per una bella presa; spesso ridevano, e fa-
cevano certi commenti che non capivo, forse osceni, o forse segnali
in codice. Qualche volta cominciavano una bestemmia senza finirle,
o all’ultimo momento la trasformavano in una parola innocua.
Una volta che mi ero stancato di stare in piedi ma non di guar-
darli giocare, mi arrampicai sull’albero e mi sdraiai a pancia in giù su
un ramo, ficcando la testa nel vuoto creato da due rami più piccoli.
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Da lassù scompariva la mimica dei volti, e quindi la funzione co-
sciente del gioco: vincere. Vedevo solo l’alternarsi delle braccia ver-
so il centro del tavolo. Le carte si affastellavano lì in mezzo, comeciocchi buttati in un falò primordiale e sacro, al quale tutti si scalda-
vano. Schiacciate con forza, quasi crepitavano; la sequenza veloce
dei turni teneva alta l’energia, e il bottino preso in custodia sembra-
va ancora fiammeggiare tra le mani, fino a un nuovo rimescolio.
In quel momento mi sembrò di intuire che nel gioco vale tutto
allo stesso modo: sbagliare e indovinare, perdere e vincere. Un gol
preso e una parata aumentano allo stesso modo la nostra conoscen-
za, proprio come una scopa inflitta o subita. I giocatori siedono allo
stesso tavolo, corrono sullo stesso campo: non solo i compagni, an-
che gli avversari sono nostri complici. Il vero confine è fra quelli
che conoscono il gioco e quelli che lo ignorano. Io, per esempio,
non avrei mai saputo quando lasciare il sette a terra e quando no; e
per questo stavo sull’albero, e non al tavolo.
*
E così, mentre guardavo il terribile Michelone scrollarsi di dosso la
marcatura di Gino e puntare diritto verso di me, lo sentii fratello nel
gioco, e mi buttai in mezzo ai suoi piedi per abbracciarli, stendendo
il più possibile muscoli e tendini, come ai tempi delle ciabatte del
nonno. Ai margini del campetto c’era Serena, che passando con le
amiche si era fermata a vederci giocare, ma solo perché scimuniva per
un paio di noi. Anche se aveva delle gambe che a pensarci potevifarti tre seghe di seguito, nulla sapeva di fuorigioco e rigori, di puni-
zioni dirette e indirette, e per questo mi sentii in diritto di compatir-
la.
La scarpa di Michelone doveva avermi preso in piena faccia a
mille all’ora. Prima di svenire feci in tempo a sentirlo esultare per il
gol, ma mi tranquillizzai al pensiero che i miei compagni mi avreb-
bero reso giustizia, facendolo annullare. Poi avrebbero chiamato i
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grandi, e i grandi avrebbero chiamato un’ambulanza, mentre Serena
si sarebbe coperta la faccia con le mani per la paura di vedermi tra-
mortito a terra. La poverina sapeva che avevo preso un calcio, maprovate a spiegarle cos’è la carica al portiere, e dopo due secondi se
ne scappa via con le amiche con la scusa che faranno tardi al cine-
ma.
Michelone fu il primo a farmi visita in ospedale. Dietro di lui
suo padre gli teneva bonariamente le mani sulle spalle, quelle stesse
mani che dovevano averlo riempito di mazzate, a giudicare dalla
chiazza violacea che spiccava sotto l’occhio sinistro. Lo sentii anco-
ra più fratello, nella comune disgrazia. Mi portò in regalo tutte le fi-
gurine che mi mancavano per finire l’album, e non la finiva più di
scusarsi: disse che avevo fatto proprio una bella uscita, che non se
l’aspettava, e per questo aveva tirato, credendomi più lontano dai
suoi piedi giganteschi e fatali. Mi confermò che il gol era stato an-
nullato, all’unanimità, senza discussioni, e la partita sospesa.
L’equilibrio del cosmo era salvo, e i nove punti di sutura che avevo
sulla fronte cominciavano a farmi meno male.