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HDIG ONLUS HUMANITARIAN DEMINING ITALIAN GROUP Gruppo Italiano di Sminamento Umanitario C.F.97191910583 Sede operat., via degli Avieri, 00143 RM, fiscal code: 97191910583 Per segnalazioni ed informazioni: tel.+39.348.6924401; tel.+39.339.2940560, facebook: hdig.ong website: www.hdig.org ; e-mail: [email protected] , [email protected] ; IBAN Banca Friuladria (ag.Thiene-VI): IT43 M 053 3660 7900 0004 6284703 1 EnErgia annO 2018 nOtiziE dal 16 giugnO al 23 giugnO nOtiziE E infOrmaziOni Sull’africa E, in particOlarE, Sulla SOmalia E Sui paESi dEl cOrnO d’africa, raccOltE da agEnziE, gruppi, iStituziOni, cOn parEri, cOnSidEraziOni Ed OSSErvaziOni SOmmariO Pag. 02 - 16 giu. Somalia: infermiera tedesca del Cicr rapita il mese scorso si trova nella regione di Mudug Pag. 02 - 16 giu. Onu, 70 anni di missioni di mantenimento della pace Pag. 02 - 16 giu. Uganda, un esercito per ogni guerra africana Pag. 04 - 16 giu. Somalia, proteste nella regione di Sool contro presenza truppe del Somaliland Pag. 05 - 17 giu. Marocco: un grande investitore in Africa Pag. 05 - 17 giu. Etiopia-Somalia: premier Ali incontra presidente Farmajo a Mogadiscio, focus su sviluppo comune infrastrutture Pag. 06 - 17 giu. Progetti ambiziosi. Una frontiera contro la desertificazione in Africa Pag. 07 - 18 giu. Kenya: otto poliziotti uccisi in esplosione ordigno nella contea di Wajir Pag. 07 - 18 giu. Ora tra Etiopia ed Eritrea la guerra può finire davvero Pag. 08 - 19 giu. Somalia, governo approva quadro legislativo per gestione risorse petrolifere e minerarie Pag. 08 - 19 giu. Colloqui di pace in Sud Sudan tra il presidente Kiir e il ribelle Machar Pag. 09 - 20 giu. Mani legate per l’Opec: manca troppo petrolio (e non solo dal Venezuela) Pag. 10 - 20 giu. L’Angola vuol entrare a far parte del Commonwealth Pag. 11 - 20 giu. Lucapa ottiene altri $ 2 milioni dalla vendita di diamanti estratti nella miniera di Lulo Pag. 12 - 20 giu. Etiopia: premier Ahmed annuncia vendita parziale compagnia di telecomunicazioni Ethio Telecom Pag. 12 - 21 giu. Etiopia: Yinager Dessie è il nuovo governatore della Banca centrale Pag. 12 - 21 giu. Repubblica Centrafricana - Le milizie imperversano: attaccate anche le Ong e le truppe Onu Pag. 13 - 21 giu. Somalia: offensiva Amisom e forze speciali Usa, uccisi quattro miliziani al Shabaab Pag. 13 - 22 giu. Somalia: ministro Esteri Shire, accordo con Etiopia non modifica quello con Somaliland su porto di Berbera

EnErgia annO 2018 nOtiziE dal 16 giugnO al 23 giugnOhdig.org/Articoli/Articoli Somalia/Notizie Africa dal 16 giu. al 23... · comunque di cifre importanti, tanto che nel solo 2013

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EnErgia annO 2018 nOtiziE dal 16 giugnO al 23 giugnO

nOtiziE E infOrmaziOni Sull’africa E, in particOlarE, Sulla SOmalia E Sui paESi dEl cOrnO d’africa, raccOltE da agEnziE, gruppi, iStituziOni,

cOn parEri, cOnSidEraziOni Ed OSSErvaziOni

SOmmariO

Pag. 02 - 16 giu. Somalia: infermiera tedesca del Cicr rapita il mese scorso si trova nella regione di Mudug

Pag. 02 - 16 giu. Onu, 70 anni di missioni di mantenimento della pace

Pag. 02 - 16 giu. Uganda, un esercito per ogni guerra africana

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Pag. 06 - 17 giu. Progetti ambiziosi. Una frontiera contro la desertificazione in Africa

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Pag. 07 - 18 giu. Ora tra Etiopia ed Eritrea la guerra può finire davvero

Pag. 08 - 19 giu. Somalia, governo approva quadro legislativo per gestione risorse petrolifere e minerarie

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Pag. 10 - 20 giu. L’Angola vuol entrare a far parte del Commonwealth

Pag. 11 - 20 giu. Lucapa ottiene altri $ 2 milioni dalla vendita di diamanti estratti nella miniera di Lulo

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Pag. 12 - 21 giu. Etiopia: Yinager Dessie è il nuovo governatore della Banca centrale

Pag. 12 - 21 giu. Repubblica Centrafricana - Le milizie imperversano: attaccate anche le Ong e le truppe Onu

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Pag. 13 - 22 giu. Somalia: ministro Esteri Shire, accordo con Etiopia non modifica quello con Somaliland su porto di Berbera

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16 giu. Somalia: infermiera tedesca del Cicr rapita il mese scorso si trova nella regione di Mudug

L'infermiera tedesca del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) rapita il mese scorso nella capitale somala Mogadiscio si troverebbe nella regione di Mudug, nella Somalia centrale. Lo riferiscono fonti del Cicr citate dalla stampa somala, secondo cui la donna si troverebbe nelle mani di un gruppo armato composto da circa 10 uomini in un'area situata a circa cinque chilometri dal distretto di Hobyo. Finora non c’è stata alcuna rivendicazione per il rapimento.

16 giu. Onu, 70 anni di missioni di mantenimento della pace

Le Nazioni Unite hanno operato 71 missioni di pace in 70 anni, con più di 3.000 soldati morti. La costruzione della pace è la missione primaria dell'impiego moderno delle truppe con armi leggere. Nella prima generazione di missioni, fino al 1988, le Nazioni Unite hanno schierato solo 14 volte le forze di pace. Durante la Guerra Fredda, Usa e Unione Sovietica si sono spesso bloccate a vicenda nel Consiglio di sicurezza, il più alto organo decisionale dell'Onu. Mentre il confronto Est-Ovest si dissolveva lentamente, nel quartier generale delle Nazioni Unite a New York si sperava che i contingenti di pace potessero lavorare in modo più efficace. Di fatto è iniziata una "vera rinascita del peacekeeping", afferma il professor Gareis. Durante il mandato del segretario generale dell'Onu Boutros-Ghali, nel 1992 i caschi blu assunsero incarichi più complessi. La Germania inviò polizia e soldati in una missione delle Nazioni Unite in Namibia, l'ex colonia dell'Africa Sud-occidentale tedesca. Il paese stava per attuare la secessione dal Sudafrica nel 1989 e doveva essere accompagnato durante il processo di indipendenza. I funzionari della polizia federale di frontiera della Germania dell'Ovest e la polizia popolare della Germania dell'Est lavoravano insieme per garantire la sicurezza e monitorare lo svolgimento delle elezioni. Nel 1992 in Cambogia, invece, la Germania perse il suo primo soldato in una missione all'estero.

Tuttavia la fine della Guerra fredda ha visto un cambiamento di ruolo di "caschi blu": da sorveglianti di pace, a "impositori di pace", come in Somalia nel 1992. I soldati statunitensi e delle Nazioni Unite subirono in quel paese pesanti perdite in ore di combattimenti contro i ribelli del signore della guerra somalo Aidid. Seguì il Ruanda nel 1994, dove i soldati dell'Onu furono autorizzati a usare le armi solo per autodifesa e non intervennero per placare le orrende violenze settarie tra hutu e tutsi. Fu il peggior genocidio dalla seconda guerra mondiale. Stessa cosa in Bosnia nel 1995, dove le forze di pace olandesi nulla poterono fare per fermare le forze serbo-bosniache che a Srebrenica fecero una strage di 8.000 musulmani bosniaci. Il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi ha scritto che l'Onu spesso non ha informazioni sufficienti, quindi perde traccia di conflitti complessi e reagisce in modo errato. Nelle operazioni multidimensionali, le forze Onu dovrebbero preservare la pace, stabilizzare lo Stato, addestrare le forze armate e la polizia, ma anche contrastare militarmente i terroristi. In Mali la Germania ha fornito un numero insolitamente alto di caschi blu dal 2013, con un massimo di 1.000 soldati.

16 giu. Uganda, un esercito per ogni guerra africana

Un proverbio ugandese recita “i semi di oggi saranno la foresta di domani”. In quel del Corno d’Africa, però, ciò che si appresta a crescere assomiglia più a un intricato groviglio di rovi che a una selva rigogliosa: caduta in un vortice di anarchia e in preda a interessi internazionali diversi fin dai primi anni ’90, la Somalia oggi inizia a fare i conti con l’imminente conclusione dell’AMISOM, la missione dell’Unione Africana per combattere i terroristi di al-Shabaab a cui partecipano cinque stati africani: Burundi, Etiopia (ritiratasi parzialmente nel 2016), Kenya, Gibuti e Uganda. Proprio quest’ultimo è il principale contribuente in termini di militari: sono oltre 6 mila, infatti, i soldati inviati da Kampala, una delle prime ad intervenire nell’ex colonia italiana nel marzo 2007. Sul perché il Paese dei Grandi Laghi abbia optato per questa decisione, entrando in un conflitto fino ad allora limitato dentro i confini somali e a qualche attacco lungo quello con il Kenya, si era espresso il portavoce dell’esercito, il Colonnello Felix Kulayigye, nel 2012: “Se la Somalia è instabile – riporta la BBC -, il

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Kenya è instabile. E se il Kenya è instabile, allora lo siamo anche noi, prima di ogni altra cosa”. Questo spiega anche le aree dove gli ugandesi sono presenti, principalmente nelle regioni meridionali del Medio e Basso Giubba e in quella del Banadir, dove si trova Mogadiscio.

Soldato ugandese dell’AMISOM a Maslah Town, a nord di Mogadiscio (United Nations Photo/Flickr)

Dopo oltre dieci anni di presenza sul territorio, però, il desiderio di rimanere impantanati nell’estremo est africano inizia a non piacere molto agli ugandesi. Nell’estate di due anni fa, infatti, il campo delle loro forze armate, Generale Katumba Wamala, ha dichiarato all’AFP: “Abbiamo in programma di disimpegnarci dalla Somalia a partire da dicembre 2017 (…) È una decisione che l’Uganda sta prendendo e gli altri partner sono stati informati”. In realtà, poi concretamente non c’è stato alcun calo di truppe e un’ipotesi simile era giunta già sei anni fa, dopo che le Nazioni Unite avevano accusato Kampala di sostenere i ribelli nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDC); la “scadenza” dell’AMISOM dovrebbe cadere comunque nel 2020, salvo proroghe da parte dell’ONU e dal’Unione Africana, le quali appaiono già imminenti vista l’ancora inadeguata preparazione dell’esercito somalo.

Tornando all’Uganda, ad incidere sul morale delle sue truppe è sicuramente l’alto numero di perdite che sta subendo da anni. A inizio aprile, ad esempio, sono stati 46 soldati a perdere la vita a seguito di un attacco di al-Shabaab, presso Bulamarer, circa 130 km a sud-ovest dalla capitale, anche se la rivendicazione dei jihadisti è stata di 59 morti, con una perdita di 14 propri miliziani; l’Uganda People’s Defence Force (UPDF) ha parlato invece di 30 terroristi uccisi durante gli scontri. Questo tragico bilancio non è nemmeno l’ultimo, ma anzi le perdite da ambo le parti crescono di giorno in giorno; nonostante ciò, durante un vertice con i capi militari delle altre forze della missione, a Kampala a inizio marzo, il Generale David Muhoozi, capo dell’UPDF, ha dichiarato: “L’AMISOM continua a lottare con la sfida dello squilibrio tra i compiti della Missione e le risorse e le misure necessarie per provocare un effetto desiderato entro le scadenze desiderate. Ciò include le truppe sul terreno, i rinforzi, l’efficiente supporto alla missione e, naturalmente, la costruzione dello SNA (Somali National Army)”.

Proprio la questione delle risorse economiche è una delle partite fondamentali che decideranno il futuro: il principale finanziatore è infatti l’Unione Europea, che dal 2016 ha deciso di ridurre il proprio contributo del 20%, provocando una certa preoccupazione all’interno dei Troop Contributing Countries (TCCs). Si tratta comunque di cifre importanti, tanto che nel solo 2013 i fondi stanziati sono stati oltre 124 mila euro, di cui 110 destinati unicamente al personale militare (leggi “paghe per i militari”). Un aspetto tutt’altro che secondario, poiché un soldato ugandese in Somalia riesce a guadagnare anche 1000 dollari al mese, mentre in patria la paga

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è di appena 120 dollari; certo, rischiare la vita in un Paese che non è il proprio è una richiesta che necessita di un alto compenso, ma ormai le forze armate di Kampala sono note per il proprio impiego all’estero.

Già prima del 2007, infatti, l’UPDF è stata presente in diversi conflitti africani, a partire da entrambe le guerre nella RDC, iniziate nel 1996 e tutt’ora in corso nella regione del Kivu; l’interferenza ugandese nel Paese sarebbe testimoniata inoltre dal traffico illegale d’oro che Kampala e il Burundi spartiscono con il gruppo ribelle M23, come rivelato dall’ENOUGH Project di Washington nel 2013. Nello stesso anno, le forze armate hanno anche invaso il Sud Sudan con un blitz a dicembre, prendendo “il controllo dell’aereoporto e delle principali arterie della capitale Juba”, come riportato da Fulvio Beltrami su L’Indro. Il progetto del Presidente Museveni sarebbe quello di instaurare una “Pax Ugandese” nella regione, progetto che certo non può far piacere alle altre potenze locali. Prima fra tutte l’Etiopia e bisognerà capire come evolveranno i rapporti tra questi due, alla luce della visita a giugno del Primo Ministro etiope Abiy Ahmed proprio a Kampala.

Militari in perlustrazione dopo un attacco di al-Shabaab (AMISOM Public Information/Flickr)

I progetti di egemonia di Museveni dovranno quindi fare i conti con chi, concretamente, gli darà le risorse per portare avanti i suoi progetti. La Cina è molto legata ad Addis Abeba e gli oltre 20 milioni di dollari al mese spesi dall’UE per l’AMISOM nel solo 2015 stanno diventando ricordi; l’alternativa potrebbe essere la Turchia, che con Erdogan ha stretto i rapporti con lo Stato dei Grandi Laghi durante la sua prima visita nel 2016 e il cui volume di scambi commerciali bilaterali ha raggiunto i 31,8 milioni di dollari. Un partner sempre più importante, quindi, che potrebbe rappresentare per Ankara la possibilità di rafforzare il proprio soft power nel continente senza ricorrere necessariamente alla propria forza militare, già impegnata in Siria.

16 giu. Somalia, proteste nella regione di Sool contro presenza truppe del Somaliland

Almeno due persone sono rimaste ferite negli scontri scoppiati ieri nella città di Las Anod, nella regione di Sool, nel nord della Somalia, dove centinaia di persone sono scese in piazza per protestare contro la presenza di truppe dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland. Gli scontri, secondo quanto riferisce il sito d’informazione “Garowe Online”, sono scoppiati dopo che la polizia ha sparato dei colpi di arma da fuoco per disperdere i manifestanti. Alla fine di maggio almeno otto persone sono rimaste ferite in altre proteste scoppiate nella città di Las Anod. Nelle proteste sono state arrestate almeno 60 persone. I manifestanti protestano contro quella che denunciano essere una continua interferenza delle forze del Somaliland nella regione, da anni contesa dalle forze armate del Somaliland e da quelle della regione semi-autonoma del Puntland.

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Gli scontri sono ripresi nella città di Tukaraq lo scorso 24 maggio dopo alcuni giorni di tregua, con entrambe le parti che si sono accusate a vicenda per l’offensiva. Nessuna vittima è stata segnalata nei nuovi combattimenti. Secondo quanto riferito dalla stampa locale, almeno 50 militari sono morti invece negli scontri avvenuti nella settimana precedente. La città di Tukaraq è stata conquistata nel gennaio scorso dalle forze del Somaliland al termine di un lungo conflitto a fuoco con le forze del Puntland. La regione di Sool è da tempo contesa fra i due stati, che hanno dato vita negli ultimi anni a diversi episodi di tensione fra i due eserciti.

17 giu. Marocco: un grande investitore in Africa

In Africa negli ultimi due decenni sono piovuti investimenti enormi, soprattutto dalle economie emergenti dell’Asia, in particolare della Cina. In

questa gara a prendere posizione nel continente africano sono comparse anche le potentissime, a livello finanziario, Monarchie del Golfo. Le vecchie

potenze coloniali e occidantali hanno cercato di non perdere posizioni. Ma in questa gara per posizionarsi in Africa si parla relativamente poco del Marocco che invece in questi anni è stato tra i più dinamici protagonisti

della “corsa” all’Africa. L’ultimo esempio è quello che segue, e si tratta di un opera veramente faraonica. Mentre Cina, potenze occidentali e monarchie della penisola arabica si contendono il potenziale terminale di Lamu, tra Kenya e Somalia, che dovrà portare il petrolio sud sudanese e le risorse minerarie dei Grandi Laghi sull’Oceano, Marocco e Nigeria hanno firmato un accordo preliminare per la realizzazione di un gasdotto che porterà metano e greggio della regione del Delta del Niger nel Paese nordafricano.

Nel documento si precisa che si tratta di una pipeline lunga 5560 chilometri. Rispetto ai tempi di realizzazione sono previste più fasi, ma il progetto definitivo è da completare nell’arco di 25 anni. Parte del percorso dovrebbe essere onshore, parte offshore. Interessati diversi Paesi membri della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale. L’intesa è stata sottoscritta dal re del Marocco, Mohammed VI (nella foto), e dal presidente nigeriano, Muhammadu Buhari ed è una vera e propria grande opera, anche dal punto di vista logistico. Un primo accordo sul gasdotto era già stato raggiunto nel dicembre 2016.

17 giu. Etiopia-Somalia: premier Ali incontra presidente Farmajo a Mogadiscio, focus su sviluppo comune infrastrutture

Etiopia e Somalia intendono collaborare allo sviluppo delle infrastrutture che collegano i due paesi. È quanto convenuto dal primo ministro etiope, Abiy Ahmed Ali, e dal presidente somalo, Mohamed Abdullahi Farmajo, durante il loro incontro avvenuto oggi a Mogadiscio in Somalia. Ali è giunto nella capitale somala per una visita non annunciata della durata di un giorno ed è stato ricevuto da Farmajo.

Secondo quanto reso noto dalla presidenza somala in un comunicato, Ali e Farmajo hanno discusso dei rapporti tra Etiopia e Somalia e della necessità del loro rafforzamento in ambito sia diplomatico sia economico, soprattutto con la promozione degli investimenti “per l'integrazione economica delle due nazioni”. A tal fine, Farmajo e Ali hanno convenuto sulla “rimozione di tutte le barriere economiche e commerciali” tra i rispettivi paesi e sullo “sviluppo di infrastrutture strategiche come porti e strade per lo sviluppo dei collegamenti” tra Somalia ed Etiopia.

In particolare, “nell'impegno di attrarre e mantenere gli investimenti esteri nei due paesi e nel Corno d'Africa”, Farmajo e Ali hanno concordato sul “finanziamento congiunto per quattro porti strategici e sulla costruzione di una rete stradale che colleghi Somalia ed Etiopia”. Infine, il presidente somalo e il primo ministro etiope hanno espresso il loro “reciproco rispetto per la sovranità, l'integrità territoriale, l'indipendenza e l'unità dei loro paesi”.

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17 giu. Progetti ambiziosi. Una frontiera contro la desertificazione in Africa

Nei territori della fascia sahariana e saheliana a vocazione agro-silvo-pastorale, lo sviluppo socio-economico e la sicurezza alimentare sono fortemente connessi alla disponibilità di risorse naturali (terre arabili, risorse idriche, forestali e pastorali) e ai loro modi di gestione. Da questa esigenza è nato un progetto ambizioso quello di arginare e contrastare gli effetti della desertificazione, della variabilità climatica e della pressione antropica in atto nel Sahel da decenni.

Dall’idea di partenza – creare una barriera di alberi – il progetto della Grande Muraglia Verde si è evoluto in una pianificazione di più ampio respiro finalizzata al rafforzamento degli ecosistemi della regione, alla protezione del patrimonio rurale e al miglioramento della sicurezza alimentare e , conseguentemente, delle condizioni di vita della popolazione dei Paesi coinvolti. La prima ipotesi, degli anni ’50, fu la creazione di una fascia verde di 50 km in opposizione all’avanzata del deserto. Nel 2002, al summit straordinario tenutosi a N’Djamena, in Ciad, l’idea è stata riproposta per la lotta alla desertificazione e alla siccità e, tre anni dopo, alla Conferenza dei capi di Stato e di Governo della Comunità degli stati del Sahel e del Sahara tenutasi l’1 e il 2 giugno 2005 a Ouagadougou (Burkina Faso), il progetto è stato finalmente approvato.

La Grande Muraglia Verde è, senza ombra di dubbio, il più ambizioso progetto di contrasto alla desertificazione al mondo: con i suoi 8000 km è qualcosa di più di un semplice impianto di alberi. Gli obiettivi potrebbero essere riassunti in sette punti: 1) sviluppare un territorio fertile, 2) migliorare la sicurezza alimentare delle popolazioni africane, 3) sviluppare i lavori “green”, 4) ridurre le ragioni che costringono le popolazioni africane a migrare, 5) aumentare le opportunità di business e delle imprese commerciali, 6) proporre un simbolo di pace in un contesto in cui i conflitti smembrano le comunità, 7) aumentare la resilienza ai cambiamenti climatici in un’area in cui ci si attende che le temperature aumentino più rapidamente che in qualsiasi altro luogo sulla Terra. Per l’attuazione del progetto si stanno applicando le più moderne tecniche di captazione e distribuzione delle risorse idriche. Nel 2015 i paesi membri delle Nazioni Unite si sono accordati per includere, fra gli “obiettivi dello sviluppo sostenibile”, iniziative volte a ridurre e invertire i processi di desertificazione. Anche in Cina si sta lavorando a una Grande Muraglia Verde per arginare l’espansione del deserto del Gobi cresciuto, dal 1950 a oggi, di un milione di chilometri quadrati (una superficie superiore a quella di Francia e Italia).

Attualmente le terre aride rappresentano il 40% della superficie delle terre emerse, interessano più di 100 Paesi e ospitano 2,3 miliardi di persone. Progetti analoghi a quelli di Africa e Cina sono attualmente in atto in Cile, Perù, Colombia, Madagascar, Sri Lanka, Thailandia e Cambogia.

Un paradosso se si pensa alle deforestazioni in atto in Amazzonia, Argentina e Indonesia, ed ora anche in Africa, per far posto a monocolture come quella della soia e delle palme da olio, o per sfruttamenti energetici. Recuperare aree desertificate come quella della Grande Muraglia Verde significa assorbire carbonio, ricostruire la biodiversità e gli equilibri idrici, l’agricoltura e i mercati, in poche parole creare i presupposti perché la gente non debba abbandonare la propria terra e mettersi in viaggio verso luoghi più accoglienti e un futuro migliore.

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18 giu. Kenya: otto poliziotti uccisi in esplosione ordigno nella contea di Wajir

Almeno otto poliziotti kenioti sono morti in un attacco condotto dalle milizie jihadiste di al Shabaab nella contea di Wajir, nell’est del Kenya, dopo che il loro veicolo ha colpito un ordigno esplosivo improvvisato interrato. Lo riferiscono fonti della polizia citate dal sito d’informazione dell’emittente “Kdrtv”. All’inizio di giugno altri cinque agenti di polizia erano morti nell’esplosione di una mina al passaggio del veicolo sul quale viaggiavano a Liboi, nella contea di Garissa, al confine con la Somalia. La contea di Mandera e quelle di Wajir e Garissa sono regolarmente teatro di attacchi condotti dal gruppo jihadista somalo al Shabaab, che colpiscono soprattutto le forza di sicurezza keniote preposte al controllo della frontiera. Per tentare di arginare gli attacchi le autorità somale hanno dato il via alla costruzione di un muro di confine, i cui lavori sono stati momentaneamente interrotti per consentire maggiori consultazioni tra i due stati riguardo al progetto. Il Kenya ha condotto diverse offensive militari per distruggere le basi dei militanti nella foresta di Boni, al confine con la Somalia.

18 giu. Ora tra Etiopia ed Eritrea la guerra può finire davvero Sono trascorsi quasi 18 anni da quando Etiopia ed Eritrea firmarono l’accordo di pace di Algeri, che chiudeva ufficialmente la guerra del 1998-2000. Un conflitto cruento che produsse almeno ottantamila vittime tra soldati e civili e oltre un milione di sfollati. Mentre milioni di soldati per anni sono rimasti inutilmente impegnati a salvaguardia del confine nella successiva guerra fredda, che nel giugno 2016 si era di nuovo surriscaldata.

L’accordo di Algeri, concluso con la mediazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana, delle Nazioni Unite e degli Stati Uniti, non venne progettato solo per porre fine uno dei conflitti più letali dell’epoca. Ma anche per appianare le questioni di fondo e aprire la strada alla coesistenza pacifica tra le due nazioni, che da quasi due decenni si considerano reciprocamente come la principale minaccia geopolitica da affrontare. I due Paesi sono rimasti per 18 anni in stato di belligeranza e hanno generato guerre per procura nella vicina Somalia, destabilizzando ulteriormente una regione già instabile. Le motivazioni politiche che hanno portato alla guerra si sono aggravate con le tensioni scaturite dal conflitto, creando un’insanabile contrapposizione che per lungo tempo ha reso quasi impossibile il dialogo.

È con queste premesse che, lo scorso 5 giugno, il premier etiope Abiy Ahmed e il suo governo hanno annunciato la propria disponibilità a rispettare pienamente e ad attuare l’Accordo di Algeri, oltre all’esito di una sentenza della Eritrea-Ethiopia Boundary Commission (Eebc), la commissione di frontiera sostenuta dall’Onu che nel 2002 ha assegnato ad Asmara diversi territori contesi, tra cui la città commerciale di Badme. Una sentenza che l’Etiopia negli ultimi sedici anni ha sempre ignorato rifiutandosi di ritirare le sue truppe da questi territori, rendendo in questo modo praticamente impossibile la delimitazione del confine.

La svolta dell’Etiopia era attesa da tempo, ma Addis Abeba aveva difficoltà ad accettare le decisioni della Commissione sui confini, visto che occupando Badme era stata l’Eritrea a cominciare una guerra, peraltro con scarsissime possibilità di vittoria. Che qualcosa stesse cambiando nei rapporti con Asmara si era intuito lo scorso 2 aprile, quando nel suo discorso di insediamento, il primo ministro Ahmed aveva parlato della volontà di aprire un dialogo con l’Eritrea. E aveva esortato la controparte a ricambiare i suoi sforzi per trovare una soluzione negoziata al conflitto e per creare una relazione reciprocamente vantaggiosa per il bene dei popoli dei due Paesi.

Tuttavia, non era prevedibile che solo due mesi dopo il capo del governo etiope avrebbe messo in atto un cambiamento cosstanziale nelle relazioni con l’Eritrea, prodotto anche dal fatto che Ahmed appartiene al gruppo etnico oromo, il più numeroso del Paese, ed è il primo oromo della storia etiope a guidare il governo. Un particolare non di poco conto, considerando che il territorio nei dintorni di Badme si trova nello stato etiopico del Tigrè, patria del gruppo etnico dei tigrini, che per decenni è stato dominante nel Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf), il partito al potere.

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Adesso però spetta all’Eritrea accogliere la chiamata dell’Etiopia. Da parte sua, prima di normalizzare le relazioni, il governo di Asmara richiede il pieno rispetto da parte etiope della decisione dell’Eebc, che assegna la città di Badme all’Eritrea. Tuttavia, Asmara non può continuare a ignorare l’apertura di Addis Abeba all’infinito, ponendo come condizione primaria per normalizzare le relazioni il ritiro unilaterale delle truppe etiopi da Badme e ignorando che prima della sentenza dell’Ebbc la città era sotto il dominio dell’Etiopia.

Senza dubbio, per il presidente Isaias Afewerki siglare una pace definitiva con l'Etiopia comporta numerosi rischi sul piano della politica interna, visto che il regime eritreo è stato fondato e si è rafforzato negli anni proprio sulla contrapposizione nei confronti del nemico a Sud. Ma questi rischi sono minimi se confrontati con i vantaggi sociali, politici ed economici, che deriverebbero da un riavvicinamento con l’Etiopia.

Normalizzando le relazioni, l’Eritrea può eliminare la più grande minaccia alla sicurezza che ha dovuto affrontare dalla sua indipendenza e porre fine al servizio di leva a tempo indeterminato al quale obbliga i suoi giovani, che arruolati a 17 anni, non conoscono la data di congedo. Senza contare, che molti di questi coscritti sono impiegati per costruire le infrastrutture pubbliche o per lavorare nelle proprietà dei comandanti dell’esercito. Un sistema che ha prodotto povertà e costretto migliaia di ragazzi a emigrare in Europa o nei Paesi del Golfo, spesso trovando la morte nel viaggio della speranza. Una volta restituiti alla società civile, tutti questi giovani potrebbero creare una nuova forza lavoro e rendere l’Eritrea in grado di accedere al più grande mercato della regione.

E per arrivare a una veloce soluzione, anche la comunità internazionale, in particolare l’Occidente, che ha ignorato a lungo la disputa, deve fare la sua parte cogliendo l’opportunità e agendo produttivamente, prima che le dinamiche locali e regionali cambino di nuovo.

19 giu. Somalia, governo approva quadro legislativo per gestione risorse petrolifere e minerarie Il ministero del Petrolio e delle risorse minerarie della Somalia ha approvato il nuovo quadro legislativo per la gestione delle risorse petrolifere e minerarie del paese, in particolare per quanto riguarda la proprietà e la compartecipazione alle entrate. L’accordo, come riporta il sito d’informazione “Garowe Online”, è stato siglato dal governo federale e dai rappresentanti degli stati regionali membri del Consiglio di sicurezza nazionale, sotto la mediazione della Banca mondiale e del Consiglio per la cooperazione fra stati. L’accordo delinea una “road map” di tre anni per lo sviluppo dell’industria petrolifera somala. “La conclusione dell’accordo segna un nuovo capitolo del processo di sviluppo della Repubblica federale di Somalia”, ha dichiarato il ministro del Petrolio Abdirashid Mohamed Ahmed. “Il ministero lavorerà in stretta collaborazione con gli stati membri per il monitoraggio sull’attuazione di tutte le misure”, ha aggiunto. Nel 2014 le autorità somale hanno annunciato l’intenzione di avviare la produzione di petrolio entro il 2020 e alla fine del 2016 hanno annunciato l’imminente creazione di una nuova compagnia statale per gli idrocarburi e un’agenzia di regolamentazione del settore e il lancio del primo ciclo per l’attribuzione di licenze di esplorazione di petrolio e gas a sud delle acque territoriali somale.

19 giu. Colloqui di pace in Sud Sudan tra il presidente Kiir e il ribelle Machar Domani 20 giugno, l’IGAD (Intergovernmental Authority on Development), l’organizzazione regionale che riunisce diversi Paesi dell’Africa centro-orientale (Etiopia, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Gibuti, Eritrea, Kenya e Uganda), patrocinerà i colloqui di pace tra il Presidente sud-sudanese Salva Kiir, al potere dal 2011, e il leader dei ribelli Riek Machar. Lo scopo dei colloqui, guidati dall’intraprendente Primo Ministro etiope Abiy Ahmed, sempre più audace nel porre Addis Abeba al centro degli equilibri regionali, sarà quello di cercare di porre fine alla guerra civile che insanguina il Sud Sudan dal 2013, ottenendo l’impegno dei contendenti a rispettare il Compromesso di Juba del 2015. Secondo quest’ultimo, il leader dei ribelli Riek Machar dovrebbe tornare a ricoprire la carica di Vice – Presidente, aprendo la strada ad una serie di riforme condivise miranti a creare una

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struttura di governo inclusiva e garantista nei confronti delle decine di minoranze etniche che popolano il Paese. Infatti, ad appena due anni dal raggiungimento della sofferta indipendenza dal Sud Sudan (2011), il Paese è

sprofondato in un violento conflitto civile su base etnica che vede opposti da una parte i Dinka, guidati dal Presidente Salva Kiir (nella foto a fianco), ex luogotenente del padre dell’indipendenza sud sudanese John Garang, e dall’altra i Nuer, con in testa l’ex vice-Presidente Riek Machar. Mentre le forze armate regolari e il Sudan People’s Liberation Movement (SPLM) costituiscono l’ossatura del fronte lealista, una serie di partiti e milizie su base etnica (tra i più importanti: Nuer White Army, South Sudan Democratic Movement), capitanati dal Sudan People’s Liberation Movement in Opposition (SPLM – IO), compongono le file del fronte

ribelle. Sinora, il conflitto civile sud sudanese ha provocato circa 200.000 morti, oltre un milione di profughi e circa 2 milioni di sfollati. Tra le accuse mosse dall’opposizione al Presidente Kiir, capeggia quella di aver accentrato il potere nelle proprie mani e in quelle di pochi, strettissimi, collaboratori e di aver posto le istituzioni politiche e militari sotto il controllo dei Dinka, perseguendo una marcata strategia di emarginazione e, in alcuni casi, di pulizia etnica ai danni delle minoranze. Nonostante filtri un cauto ottimismo sulla possibilità di giungere ad un accordo tra le parti, permangono seri dubbi sul processo di stabilizzazione del Paese. Infatti, il Presidente Kiir e i Dinka sono generalmente poco propensi a condividere il potere con gli altri attori politici e le altri gruppi etnici nazionali. In questo contesto, appare urgente un maggiore coinvolgimento sia delle organizzazioni regionali, come l’IGAD, sia delle Nazioni Unite per monitorare l’implementazione del Compromesso di Juba e neutralizzare le cause all’origine del conflitto. 20 giu. Mani legate per l’Opec: manca troppo petrolio (e non solo dal Venezuela) L’Arabia Saudita ha promesso di rimpiazzare il petrolio iraniano dopo le sanzioni Usa e la Russia non vede l’ora di estrarre di più. Ma soddisfare il fabbisogno del mercato rischia di non essere facile. E non solo per l’aggravarsi della crisi in Venezuela. Il crollo vertiginoso delle esportazioni di greggio di Caracas è senz’altro il problema più vistoso e drammatico, ma nella coalizione Opec-non Opec, che tra due settimane valuterà una revisione degli accordi produttivi, ci sono altri due Paesi in grave difficoltà: l’Angola, tra i membri dell’Opec, e il Messico, tra gli alleati esterni. Entrambi hanno ridotto l’output con tagli addirittura tripli rispetto a quelli assegnati, non per eccesso di zelo, ma perché non riescono a estrarre di più. Difficilmente si schiereranno quindi a favore di un aumento della produzione, andando piuttosto a ingrossare le schiere dei contrari, che sono sempre più agguerriti. Iran e Venezuela hanno assunto posizioni molto dure nelle ultime ore, che da sole potrebbero aver già ipotecato il risultato del vertice del 22 giugno: per statuto l’Opec può prendere solo decisioni unanimi, ma a questo punto raggiungere il consenso per aprire ufficialmente i rubinetti sembra una sfida ai limiti dell’impossibile. Teheran e Caracas premono infatti perché l’Opec condanni gli Usa, anziché assecondarli, e avrebbero chiesto (invano secondo la Reuters) di inserire in agenda a Vienna una mozione «a sostegno dei Paesi membri sotto sanzioni illegali, unilaterali ed extraterritoriali». «Nessuno nell’Opec agirà mai contro due dei suoi membri fondatori», ha dichiarato il governatore iraniano presso il gruppo, Hossein Kazempour Ardebili, definendo «folle e incredibile» la richiesta della Casa Bianca ai sauditi di sostituire le forniture di petrolio di Iran e Venezuela. «L’Opec non accetterà mai una simile umiliazione» Il Venezuela non riesce più a rispettare le consegne di petrolio ai clienti. È probabile che la politicizzazione del dibattito a Vienna spingerà in secondo piano i problemi produttivi di Angola e Messico. Ma per i mercati petroliferi – oggi in deficit d’offerta e non più gravati da un eccesso di

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scorte – si tratta di un tema sempre meno trascurabile. Dal Venezuela stiamo infatti perdendo almeno 500mila barili al giorno di greggio questo mese (in aggiunta agli altrettanti persi nell’ultimo anno) e dall’Iran rischia di mancare fino a un milione di bg. Luanda sta cercando di arrestare il declino della sua industria petrolifera, con nuovi giacimenti sviluppati insieme a Eni, Total e Chevron e agevolazioni al settore introdotte dal nuovo presidente João Lourenço. Ma la sua produzione, in gran parte offshore e a lungo trascurata nelle manutenzioni, è ai minimi dal 2014 e secondo l’Aie rischia di scendere ancora. A marzo l’Angola ha estratto 1,5 mbg (contro un picco di 1,9 mbg nel 2008), «tagliando» 250mila bg invece degli 80mila bg promessi all’Opec. Il Messico – patria di Cantarell, un tempo il giacimento più grande del mondo – era arrivato a produrre 3,4 mbg nel 2004, ma oggi estrae appena 1,9 mbg, con un calo di 300mila bg dal 2016 invece dei 100mila bg previsti dagli impegni con l’Opec. La riforma del 2013, che ha aperto il settore alle compagnie straniere, non ha ancora dato i risultati sperati. E ora potrebbe esserci una battuta d’arresto: il candidato favorito alle elezioni presidenziali di luglio, Andres Manuel Lopez Obrador, punta a rivedere le oltre 100 licenze esplorative assegnate e a fermare le gare.

20 giu. L’Angola vuol entrare a far parte del Commonwealth Il segretario agli Esteri britannico Boris Johnson ha occupato i titoli dei giornali in Angola questo mese, quando ha detto che se l’Angola aderirà al club del Commonwealth delle ex colonie britanniche, sarebbe "splendido". Il presidente della nazione africana meridionale ricca di petrolio, Joao Lourenco, aveva detto di voler seguire il Mozambico, come e, come l'Angola, una ex colonia portoghese, e diventare un membro del blocco anglofono. "Splendido che l'Angola voglia entrare a far parte della famiglia del Commonwealth e ha accolto con grande favore l'impegno del presidente Lourenco per una riforma a lungo termine, contrastando la corruzione e il miglioramento dei diritti umani", ha scritto Johnson ai suoi 451.000 follower su Twitter. Ma c'è stata una reazione mista alla improvvisa passione di Lourenco per il Commonwealth, con alcuni angolani che hanno avvertito che il nuovo presidente sta semplicemente cercando di mettere un poco di vernice sulla sua dolorosa storia dei diritti umani. Forse ancora più sorprendente è stato l'interesse di Lourenco ad aderire al gruppo francofono dei paesi francofoni. L'Organizzazione Internazionale della Francofonia (OIF) ha 84 membri e Stati osservatori con circa un miliardo di persone, mentre il Commonwealth conta 53 membri con una popolazione complessiva di 2,4 miliardi. "L'esempio di questo è successo con il Mozambico che, alla fine, si è unito al Commonwealth", ha detto Lourenco durante una visita in Europa all'inizio del mese. Il Mozambico, che è entrato a far parte del Commonwealth nel 1995, e il Ruanda, sono gli unici membri del Commonwealth senza legami storici con la Gran Bretagna. "Angola non è circondata da paesi di lingua portoghese, ma da nazioni francofone, quindi chiediamo di unirci a" La Francophonie "- e nei prossimi giorni chiederemo anche di unirci al Commonwealth", ha aggiunto Lourenco. La Carta del Commonwealth insiste su "uguaglianza e rispetto per la protezione e la promozione dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali" negli Stati membri. Gli angolani ordinari, alle prese con la disoccupazione e l'inflazione altissime, sono dilaniati da ciò che unire i due blocchi linguistici potrebbe significare per le loro prospettive. "È una buona idea perché il portoghese non è parlato diffusamente, quindi dovremmo combattere per unirci alle loro comunità", ha detto il presidente di Luanda, Manuel Joao, 28 anni, che parla portoghese. "L'Angola fa già parte di numerose organizzazioni simili, i cui vantaggi non sono stati visti", ha detto all'afp il 36enne Augusto Pedro, disoccupato. "Il governo sta solo sprecando denaro per bruciare la propria immagine".

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L'analista politico Augusto Bafua Bafua ha detto che l'Angola è stata delusa dalla sua attuale appartenenza all'associazione linguistica portoghese, descrivendola come "molto debole e (con) molta rivalità tra Portogallo e Brasile". "È una buona idea che l'Angola si unisca al Commonwealth e alla Francofonia perché la maggior parte dei paesi africani è legata a queste organizzazioni", ha affermato. L'improvviso desiderio dell'Angola di unirsi a blocchi non portoghesi potrebbe anche essere collegato alle recenti tensioni di Luanda con Lisbona sugli sforzi del Portogallo per perseguire l'ex vicepresidente angolano Manuel Vicente in contumacia. Ma lo scrittore Sousa Jamba ha avvertito che "far parte del Commonwealth non è facile - è un club esclusivo". "Il Commonwealth non ha le ambiguità della Francofonia, è un'organizzazione molto seria", ha detto.

20 giu. Lucapa ottiene altri $ 2 milioni dalla vendita di diamanti estratti nella miniera di Lulo

L'australiana Lucapa Diamond (ASX: LOM) ha annunciato di aver guadagnato $ 2 milioni per aver venduto un nuovo pacchetto di diamanti trovato nella sua prolifica miniera di Lulo in Angola. Insieme ai suoi partner, Empresa Nacional de Diamantes e Rosas & Petalas, Lucapa ha venduto 1.782 carati ad un prezzo medio di $ 1.150 per carato. I proventi delle vendite dei prodotti estratti dalla miniera Angolana finora quest'anno a $ 15,9 milioni ad un prezzo medio di $ 1,642 per carato.L’area, situato a 150 km dalla miniera di Catoca di Alrosa, la quarta miniera di diamanti al mondo, ospita diamanti di tipo 2a che rappresentano meno dell'1% della fornitura globale.

Lucapa ha una licenza di 35 anni per Lulo, ove all'inizio dello scorso anno è stato trovato un diamante bianco di 404,2 carati, considerato il più grande diamante mai recuperato in Angola e il più grande diamante mai trovato da un'azienda australiana. Detiene inoltre una partecipazione del 70% nel progetto Mothae basato sul Lesotho, situato a meno di 5 km dalla miniera Letšeng di Gem Diamonds (LON: GEMD), che a febbraio ha prodotto una pietra da 910-carati, il quinto più grande diamante mai trovato . L'Angola è il produttore di diamanti numero 4 al mondo per valore e No.6 per volume. La sua industria, iniziata un secolo fa sotto il dominio coloniale portoghese, sta emergendo con successo da un lungo periodo di difficoltà a seguito di una guerra civile conclusasi nel 2002.

20 giu. Etiopia: premier Ahmed annuncia vendita parziale compagnia di telecomunicazioni Ethio Telecom

Il governo dell’Etiopia venderà ai privati una quota compresa tra il 30 e il 40 per cento del suo monopolio statale nel settore delle telecomunicazioni e scorporerà la compagnia statale Ethio Telecom in due società per stimolare la concorrenza. È quanto annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed nel suo intervento di ieri alla Camera dei rappresentanti del popolo (la Camera bassa del parlamento etiope) per illustrare le misure

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approvate lo scorso 5 giugno dal Consiglio esecutivo del Fronte democratico rivoluzionario popolare dell'Etiopia (Eprdf), la coalizione al potere nel paese, che prevedono la normalizzazione dei rapporti con l’Eritrea e la parziale liberalizzazione dell’economia. “La Somalia, con una popolazione di 12 milioni di abitanti, ha quattro società di telecomunicazioni. L'Etiopia, con 100 milioni di persone, ne ha solo una. Ci deve essere più competitività nel paese”, ha detto Ahmed, citato dall’agenzia di stampa “Ena”.

“Ci saranno uno o due anni di ricerche di mercato (prima che le azioni di Ethio Telecom vengano vendute)”, ha detto Ahmed, aggiungendo che le quote in vendita saranno assegnate a società classificate tra le prime 10 del settore a livello mondiale. Nel corso della sua audizione, Ahmed ha inoltre definito “incostituzionali” le pratiche di tortura dei prigionieri politici messe in pratica dalle istituzioni etiopi. Rispondendo a una domanda di un deputato che metteva in dubbio la costituzionalità del rilascio di prigionieri politici incarcerati per corruzione e terrorismo, il primo ministro ha controbattuto che “neppure le nostre carceri e le pratiche di tortura sono costituzionali. Torturare e rinchiudere le persone in stanze buie sono una forma di terrorismo”, ha detto Ahmed. Lo scorso 5 giugno l’Eprdf ha annunciato la piena attuazione degli accordi di pace di Algeri per normalizzare i rapporti con l’Eritrea e la parziale liberalizzazione dell’economia. Subito dopo l’annuncio da parte dell’Eprdf, migliaia di persone sono scese in strada nella regione dei Tigré, nel nord dell’Etiopia, per protestare contro la decisione di attuare l'accordo di pace con l’Eritrea.

Oltre all’apertura nei confronti dell’Eritrea, il Comitato esecutivo dell’Eprdf ha annunciato oltre alla liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni, a che quelle dell’energia e del trasporto aereo, aprendoli a investimenti privati e interni, con l’obiettivo di allentare la presa dello stato sull'economia, una delle più chiuse e controllate del continente africano. “Mentre le quote di maggioranza continueranno ad essere detenute dallo stato, le azioni di Ethio Telecom, Ethiopian Airlines, Etiopian Power e Maritime Transport and Logistics Corporation saranno vendute a investitori sia nazionali che esteri”, si legge nella nota, in cui si sottolinea la necessità di riforme economiche per sostenere la rapida crescita e incrementare le esportazioni. Riforme che sono state promesse dal nuovo premier Abiy Ahmed, subentrato al dimissionario Hailemariam Desalegn lo scorso 2 aprile. Ahmed, già ministro della Scienze e della tecnologia nel governo di Desalegn dal 2016 al 2017, è il primo esponente oromo, l’etnia maggioritaria nel paese, a ricoprire l’incarico di premier dalla fine del regime di Hailemarim Menghistu, nel 1991.

21 giu. Etiopia: Yinager Dessie è il nuovo governatore della Banca centrale

Il governo etiope ha nominato Yinager Dessie come nuovo governatore della Banca centrale, subentrando a Teklewold Atnafu. Lo si legge in una nota del governo ripresa dall’emittente statale “Fana”, secondo cui non sono note le ragioni che hanno portato all’avvicendamento. Dessie è stato in precedenza a capo della Commissione per la pianificazione nazionale, organismo governativo che si occupa di politica economica. La nomina è giunta nel giorno in cui il primo ministro Abiy Ahmed, parlando alla Camera dei rappresentanti del popolo (la Camera bassa del parlamento etiope), ha annunciato che il governo venderà ai privati una quota compresa tra il 30 e il 40 per cento del suo monopolio statale nel settore delle telecomunicazioni e scorporerà la compagnia statale Ethio Telecom in due società per stimolare la concorrenza.

21 giu. Repubblica Centrafricana - Le milizie imperversano: attaccate anche le Ong e le truppe Onu

A Bambari la situazione è drammatica. La popolazione è in balia delle milizie. Mancano acqua, cibo, medicine. I bambini non riescono a frequentare le scuole. È questo il quadro tracciato dal team del Jesuit Refugee Service (JRS) della situazione della seconda città della Repubblica centrafricana, a nord di Bangui, da mesi centro di scontri. “A Bambari - spiega Aurora Mela operatrice del JRS - c’è un mix di combattenti. Gli Anti Balaka sono posizionati sulla riva sinistra del fiume, gli ex Seleka su quella destra. I due gruppi generano poi bande criminali che sfruttano il caos per arricchirsi con i saccheggi”. Quando le fazioni si scontrano, la popolazione è costretta a fuggire cercando rifugio. Queste fughe causano perdite umane, stress e lasciano le case vuote (che vengono poi

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saccheggiate). Per gli operatori umanitari è molto complicato portare avanti programmi che abbiano una certa continuità, anche perché loro stessi e le loro strutture sono oggetto di esazioni, saccheggi, minacce. Almeno un terzo delle Ong presenti ha lasciato la città. Altre hanno ridotto il personale al minimo. La maggior parte delle Ong internazionali si sono raggruppate in un solo luogo per poter meglio organizzare la propria sicurezza. “Il JRS - osserva Jean François Alain Ospital, direttore del JRS nella nazione - è stato pesantemente attaccato e saccheggiato nei primi giorni del conflitto. La nostra base è stata saccheggiata completamente e non abbiamo più la possibilità materiale di inviare il personale sul luogo, anche a causa della situazione di insicurezza che continua. Abbiamo quindi dovuto riorganizzare le attività attorno a una strategia di controllo a distanza, pilotata a partire de Bangui”. Anche la Chiesa cattolica lavora tra molte difficoltà. “Buona parte dei religiosi sono rimasti sul luogo, ma continuando a ricevere minacce” continua Jean François Alain Ospital. “Una comunità di suore è rimasta e continua a gestire una scuola. I responsabili della diocesi sono rimasti, continuando le attività alla scuola Michel Maitre. La Caritas diocesana continua le azioni umanitarie (distribuzione di viveri agli sfollati), servizi di acqua , igiene e latrine (sui siti e nelle scuole). Ecac (Enseignement Catholique Associé) continua le attività educative. Durante i momenti di crisi, il Vescovo è rimasto a Barbari”. Di fronte a queste tensioni, i caschi blu dell’Onu, dopo un’iniziale immobilità, sono passati all’azione, riconquistando alcuni quartieri. Una parte della città di Bambari è stata liberata, ma le pattuglie Onu sono spesso attaccate dai gruppi armati.

21 giu. Somalia: offensiva Amisom e forze speciali Usa, uccisi quattro miliziani al Shabaab

Almeno quattro miliziani jihadisti di al Shabaab sono stati uccisi in un’offensiva congiunta delle truppe della Missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom) e delle forze speciali Usa nei pressi della città di Chisimaio, nella regione meridionale del Basso Giuba. Lo riferisce il sito d’informazione “Garowe Online”, secondo cui l’operazione è avvenuta ieri. Seppur indebolito dall’offensiva dell’esercito somalo e delle truppe della missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom), al Shabaab continua a controllare vaste zone del paese.

22 giu. Somalia: ministro Esteri Shire, accordo con Etiopia non modifica quello con Somaliland su porto di Berbera

L’accordo fra Somalia ed Etiopia sullo sviluppo delle infrastrutture che collegano i due paesi non avrà ripercussioni sugli affari dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland. È quanto dichiarato dal ministro degli Esteri somalo Saad Ali Shire in un’intervista all’agenzia di stampa “Horn Diplomat”. “Il recente accordo tra Somalia ed Etiopia non modifica quello precedente siglato tra Somaliland ed Etiopia”, ha detto Shire in riferimento all’intesa siglata nel marzo sulla concessione del porto di Berbera, in base alla quale l’emiratina Dp World manterrà una partecipazione del 51 per cento nel progetto, mentre le autorità del Somaliland acquisiranno una quota del 30 per cento e il restante 19 per cento sarà gestito dal governo dell'Etiopia. L'accordo ha provocato la dura reazione del governo federale di Mogadiscio, che non riconosce l’indipendenza del Somaliland e, di conseguenza, ha negato la legittimità dell’accordo, definendolo “illegale e incompatibile con la Costituzione e gli standard internazionali”. Sempre a Berbera, peraltro, gli Emirati hanno di recente avviato i lavori per la costruzione di una base militare nell’ambito di un accordo che prevede, tra le altre cose, la formazione militare e la fornitura di attrezzature alle forze armate del Somaliland. Lo scorso 16 giugno il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, ha siglato a Mogadiscio un accordo con il presidente somalo Mohamed Abdullahi “Farmajo” per lo sviluppo delle infrastrutture che collegano i due paesi. A tal fine, Farmajo e Ahmed hanno convenuto sulla “rimozione di tutte le barriere economiche e commerciali” tra i rispettivi paesi e sullo “sviluppo di infrastrutture strategiche come porti e strade per lo sviluppo dei collegamenti” tra Somalia ed Etiopia. In particolare, “nell'impegno di attrarre e mantenere gli investimenti esteri nei due paesi e nel Corno d'Africa”, Farmajo e Ali hanno concordato sul “finanziamento congiunto per quattro porti strategici e sulla costruzione di una rete stradale che colleghi Somalia ed Etiopia”.