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RESISTENZA E INDIPENDENTISMO VERSO LA PATRIA GRANDE NUESTRAMÉRICA LE RIVOLUZIONI Eroi e rivoluzionari 10/2014

Eroi e rivoluzionari - Consolato Venezuela in Napoli | Un ... · Pineda (partecipazione) Testi selezionati di: Alejandro Casas, Pablo Neruda, Eduardo Galeano, Gabriel García Márquez,

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Page 1: Eroi e rivoluzionari - Consolato Venezuela in Napoli | Un ... · Pineda (partecipazione) Testi selezionati di: Alejandro Casas, Pablo Neruda, Eduardo Galeano, Gabriel García Márquez,

RESISTENZA E INDIPENDENTISMOVERSO LA PATRIA GRANDE

NUESTRAMÉRICALE RIVOLUZIONI

Eroie rivoluzionari

10/2014

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Coordinatrice generale:Marnoglia Hernández Groeneveledt

Coordinatrice di redazione:Emilia Saggiomo

Hanno collaborato:Ambasciata della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Etiopia, Geraldina Colotti, Marnoglia Hernández Groeneveledt, Alessandra Riccio, Emilia Saggiomo, René Velásquez (articoli); Porfirio Hernández, Indira Pineda (partecipazione)

Testi selezionati di: Alejandro Casas, Pablo Neruda, Eduardo Galeano, Gabriel García Márquez, Luis Vitale, Arturo Warman

Traduttori:Ciro Brescia, Samanta Catastini, Marco Nieli, Pier Paolo Palermo, Simona Palumbo, Emilia Saggiomo

Fonti:AA.VV., Concurso “Salón Libertadores y Héroes sociales de Latinoamérica y el Cari-be”, pubblicazione a cura del Ministero del Potere Popolare per gli Affari Esteri, Repub-blica Bolivariana del Venezuela; avn.info.ve, correodelorinoco.gob.ve, Alejandro Casas: Pensamiento sobre Integración y Latinoa-mericanismo, Ediciones Ántropos, Bogotá, Colombia, 2007; Ufficio del Viceministro per l’Africa della Cancelleria del Venezuela (da afroamiga.wordpress.com); Nina Bruni: La in-surrección del Negro Miguel en las letras y el muralismo de Venezuela in Cuadernos Ame-ricanos 144 (México, 2013/2, pp. 205-225); Juan José Ramirez: alcaldiadematurin.gob.ve; radiocomunaelhatillo.blogspot.it, treccani.it, ccsbmontreal.org, blogs.elpais.com, pablo-ne-ruda2-france.blogspot.com, sagarana.it, bbc.com, radiomundial.com.ve, theprisma.co.uk, simonbolivar.gob.ve, kyky.org, nocturnar.com, collater.al, psuvelhatillo.blogspot.com, albaciu-dad.org., granma.cu, 5av.it, eldiariointernacio-nal.com, aporrea.org, alainet.org, muralespo-liticos.blogspot.it

Contatti:via A. Depretis, 102 – NapoliTel.: +39 081 5518159Per scrivere alla redazione: [email protected]

Consulado General de la República Bolivariana de Venezuela en Nápoles ConsulVenNap www.consulvenenap.com

Elaborazione Grafica:Dario Buonanno e Pino Buonanno

Agenzia di Pubblicità:Adek | adekcreative.it

Foto di copertina:Dario Buonanno

EditorialeEroi rivoluzionaridi Marnoglia Hernández Groeneveledt

Resistenza e indipendentismo.Verso la patria grande

La resistenza indigenadi Luis Vitale Eroi ed eroine afrovenezuelani di AA.VV. / Ambasciata della Repubblica Bolivariana del Venezuela in EtiopiaPensiero sull’integrazione e il latino americanismo.Progetto unionista nell’Indipendenzadi Alejandro CasasBolívar e Chávez: due epoche, due giganti, un progettodi René VelásquezManuela Sáenz, la Colonnella d’Americadi Marnoglia Hernández GroeneveledtDa Anacaona a La Pola, L’America latina riscopre le sue eroinedi Emilia Saggiomo

Nuestramérica. Le rivoluzioni

La Rivoluzione messicanadi AA.VV.Novantanove anni fa Zapata e Pancho Villadi Adrián Durán Sandino, esaltatore dell’identità latinoamericanada “Correo del Orinoco”La Rivoluzione cubanadi AA.VV.Storia di un’amicizia: il Che e Fideldi Alessandra RiccioLa morte del Chedi Julio Cortázar Salvador Allende attraverso gli scrittidi Pablo Neruda / Gabriel García Márquez / Eduardo GaleanoStorie di guerrilleros (In Venezuela ; Identità latinoamericana e guerrilla)di Geraldina Colotti

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Eroi e rivoluzionariConsolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli

S O M M A R I O

Il Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli declina ogni responsabilità circa la correttezza o completezza delle informazioni rese disponibili; inoltre, al di là di possibili affinità o divergenze di pensiero rispetto ai contenuti degli articoli, garantisce ai suoi collaboratori la libertà di espressione della loro personale opinione. Infine, la sede diplomatica si riserva esplicitamente la facoltà di sottoporre a revisione e, ove necessario, a correzione i testi tradotti, nonché di sospendere temporaneamente o definitivamente la pubblicazione di un articolo.

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E D I T O R I A L E

Si può essere eroi senza essere rivoluzionari? O essere rivo-luzionari senza essere eroi? Eroe è colui che compie atti coraggiosi diventando un

personaggio degno di ammirazione che si distingue per le sue gesta e virtù. Nella mitologia greca l’eroe è un se-midio, figlio di un dio e di un essere umano. D’altro canto, il rivoluzionario è qualcuno che con le proprie azioni provoca cambiamenti profondi nelle istituzioni politiche, economiche e so-ciali di un territorio.L’eroe politico-sociale è obbligato a es-sere rivoluzionario: dalla sua impresa valorosa dipenderà il destino altrui. Sebbene il rivoluzionario cambi il cor-so della storia attraverso le sue idee e azioni, tuttavia questi non suscita ne-gli altri ammirazione immediata e, al contrario, provoca una moltitudine di detrattori: per questa ragione molti ri-voluzionari non sono considerati eroi. Gli eroi rivoluzionari sono uomini e donne che hanno dato la vita in nome di una causa: per la terra, per la liber-

tà, per l’unione, per la giustizia sociale. Uomini e donne che hanno scosso una società e il cui modo di agire segna un precedente che cambia il destino di migliaia di persone. Sono eroi in carne e ossa, lontani dalla mitologia, persone che hanno osato fare grandi passi, che hanno tralasciato il benesse-re individuale e si sono consacrate alla lotta degli oppressi, degli emarginati, all’impegno nella costruzione di un’al-tra società, senza uniformarsi all’ordi-ne stabilito e decidendo di combattere per i propri ideali.Da Mexicali a Capo Horn, la storia dell’America Latina è stata scritta da eroi rivoluzionari, con il loro valore e con il loro coraggio. Il lascito latino-americano trasmesso al mondo intero è quello della resistenza indigena, con il coraggio di Lautaro e la prodezza di Cuauthémoc; quello delle gesta indi-pendentiste, la grandezza di Bolívar, l’audacia di Miranda, la passione di Sáenz e l’ingegno di San Martín; quello dei movimenti rivoluzionari nell’Ame-rica Latina del Novecento, la rivolu-

zione di Zapata in Messico per la terra e la libertà, la rivoluzione cubana e il Che, la democrazia socialista del pre-sidente Allende. Eventi e processi epici che preparano il Continente al conso-lidamento della Patria Grande nel XXI secolo.Questo numero è dedicato alla memo-ria dei creatori della Patria, dei com-battenti per la libertà e per la giustizia, di coloro che nacquero mortali e che nella lotta divennero eterni; alle ri-voluzioni che questi uomini e queste donne hanno concepito e compiuto, e all’eredità di cui hanno lasciato il seme in ogni dove in America Latina; eredi-tà che li proclama oggi e sempre eroi rivoluzionari.

Traduzione di Emilia Saggiomo

* ConsoleResponsabile culturaConsolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli

Eroi rivoluzionaridi Marnoglia Hernández Groeneveledt*

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Resistenza eindipendentismo

Verso la patria grande

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Tra le tante leggende che ritrovia-mo nella tradizionale storiografia si distingue quella in cui si dice che gli indigeni, dopo aver ricevuto occhiali e bigiotteria, si sottomisero rapidamen-te ai colonizzatori.La resistenza degli indigeni ha avuto due fasi, una che riguarda i primi anni della conquista militare, caratterizza-ta da una forte difesa dell’etnia e della terra; e l’altra che riguarda soprattutto l’interminabile spedizione dove i con-flitti tra etnie si intersecano con le lotte contro lo sfruttamento nelle miniere, fattorie e piantagioni.In generale, si potrebbe dire che popo-li come i cañaris, mapuches, caribes, charrúas, tribù amazzoniche, ecc, -

non soggetti ad imposta o a qualsiasi Stato, furono quelli più attivi e resi-stenti da un punto di vista militare.Tuttavia, altri, come gli Aztechi e In-cas furono inizialmente i più sorpresi; alcuni, non concordi con il dominio dello Stato inca o azteco e con la tas-sazione forzata, all’inizio approvarono i ranghi spagnoli, credendo di liberarsi della precedente sudditanza.Ossia, il dominio dello Stato azteco ed inca e il suo sistema fiscale spianarono la strada per la conquista spagnola, ge-nerando il malcontento di molte tribù che, in una certa misura, li abituò alla tassazione.Al contrario, popoli come i Mapuches resistettero per più di tre secoli agli

spagnoli, nello stesso modo in cui ave-vano affrontato gli Incas [...] In realtà, i Mapuches non furono mai sottomessi, non furono costretti a pagare le tasse o ad obbedire al padrone. Anche altri popoli con esperienze simili, come i Charrúas ed i pampa argentini, non si inchinarono mai agli spagnoli.In ogni caso, sia l’uno che l’altro mo-strarono una spietata resistenza nei confronti dei conquistadores. Seguen-do il percorso della conquista spagno-la, si può anche comprendere la lotta che intrapresero i Popoli Indigeni.Nell’isola La Espanola i Tainos intor-no al 1500 realizzarono la prima spe-dizione contro gli spagnoli in Ameri-ca Latina. Secondo Roberto Cassà : “Il capo tribù indiano di Managua, Cao-nabo, guidò una lega militare di capi tribù indiani che riuscì ad ostacolare i propositi degli spagnoli. In seguito alla cattura di questo capo tribù indiano, si formò ancora un’altra lega più estesa dove apparentemente misero la mag-gior parte dei capi tribù indiani del settore centrale dell’isola e anche di al-tre regioni. La grande capacità di resi-stenza degli indigeni obbligò Colombo a pianificare una campagna che sareb-be durata diversi mesi e che portò poi alla totale sconfitta degli indios dopo una serie di scontri che culminarono nel combattimento del Santo Cerro”.1

I Tainos inizialmente si opposero ri-fiutandosi di pagare le tasse poi passa-rono ad altre forme di resistenza come la fuga verso le montagne, campi agri-coli abbandonati per costringere gli spagnoli a lasciare l’isola per la fame, diffusa pratica di aborti e di alcuni sui-cidi individuali e collettivi.L’insurrezione più importante fu gui-data da Enriquillo, capo tribù delle montagne del Baoruco, che riuscì ad unificare dopo 15 anni di lotta (1519-1533) diverse comunità e a far arruo-lare numerosi compatrioti che aveva-no abbandonato i propri incarichi. Le doti militari di Enriquillo si esterna-vano soprattutto nella capacità di sce-gliere le zone inaccessibili al nemico,

1 ROBERTO CASSA: Historia Social y Económica de la República Dominicana, Tomo I, p. 41, Ed. Alfa y Omega, Santo Domingo, 1978.

La resistenzadegli indigenidi Luis Vitale*

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forniture sicure, scegliere per bene gli informatori e affrontare gli spagnoli nel campo più adeguato alle proprie esigenze. Enriquillo riuscì, per la pri-ma volta in America, ad unirsi nella lotta con gli schiavi neri che si era-no ribellati nella regione di Baoruco. Entrambe impiegavano la loro forza militare contro i conquistadores, sabo-tando le miniere d’oro del Cibao e le piantagioni, dove di solito gli spagnoli cercavano di convertire al cristianesi-mo gli indigeni e neri che lavoravano nelle encomiendas e nei campi che producevano zucchero. [...]Uno degli eroi della resistenza sudame-ricana all’epoca della colonizzazione spagnola fu l’indio Hatuey che arrivò a Cuba, fuggendo dalla persecuzione dei conquistatori , da una piccola isola nell’arcipelago della Hispaniola. Nella parte orientale di Cuba organizzò una guerriglia insieme ai Tainos. [...]Quando, catturato e legato ad un palo, un religioso di San francisco gli disse che sarebbe stato meglio morire da cristiano e che quindi avrebbe dovuto ricevere il battesimo egli rispose “per quale motivo, se i devoti di questa re-ligione sono cattivi?”. Il Padre repli-cò: “coloro che muoiono da cristiani andranno in cielo, vedranno Dio e avranno gioia”. Egli chiese se in cielo sarebbero andati tutti i cristiani. Il Pa-dre continuò dicendo che sarebbero andati solo coloro che si erano mostra-ti buoni. Al che concluse che non vole-va andarci, perché essi andando lassù poi ci restavano per sempre.2 Quindi fu bruciato al rogo. [...]Gli Aztechi, a differenza degli Incas, furono conquistati rapidamente, in quanto l’unità dell’impero era meno solida e l’insoddisfazione di alcuni villaggi era maggiore. Difatti quando Hernán Cortés sbarcò e successiva-mente occupò Veracruz assediando Tenochtitlán, molti indigeni abban-donarono Moctezuma e altri, come gli indi Totonacas e Tlaxcalani pas-sarono al fronte spagnolo. Tuttavia,

2 BARTOLOME DE LAS CASAS: Historia de las Indias, libro III, Cap. XXV, Ed. Aguilar, Madrid, 1927.

Tenochtitlán, che era ben sviluppata politicamente ed etnicamente omoge-nea combatté fino alla resa dell’ eroi-co Cuauhtémoc nell’agosto del 1531. Cuauhtémoc fu selvaggiamente tortu-rato da Cortés rifiutandosi di indica-re dove erano nascosti i tesori del suo popolo.[...] La tecnica adottata da Cuauhtém-oc per la gestione delle ricchezze della propria cultura fu seguita da diverse popolazioni del Messico che ricopri-vano i monumenti e le opere d’arte con terra e rami, - come possiamo ammi-rare nella piramide delle sette Culture Cholula- affinchè i conquistatori non li distruggessero o si impadronissero di essi con fini di lucro. Questa tradi-zione di difesa della cultura indigena e di ripudio nei confronti della con-quista spagnola è rimasta così salda nel tempo che il popolo messicano è uno dei pochi in America Latina che ha statue di conquistadores spagnoli nei luoghi pubblici. Ricoprire le opere d’arte fu una forma di resistenza abo-rigena che non finì con la caduta della capitale dell’impero azteco. Dal 1524-1528, a Oaxaca, i Zapotechi minaccia-rono gli spagnoli. [...]In America Centrale si ebbe una forte resistenza ai conquistatori, un esempio fu Gil Gonzalez, che riuscì a sottomet-tere gli indigeni dell’Honduras, o an-cora Pedrarias Dávila che fu nominato governatore del Nicaragua. Tuttavia, essi non riuscirono mai a sconfiggere il capo tribù Urraca, che affrontò per nove anni l’esercito spagnolo, utiliz-zando diverse tattiche di guerriglia. [...]In Colombia, i conquistatori trovarono resistenza nel capo tribù Bogotá che combatté per diverso tempo; suo fi-glio fu torturato dagli spagnoli. Questi ultimi miravano al tesoro di Bogotà. La morte del torturato non abbatté gli indigeni che riuscirono ad organizzare una nuova resistenza sotto il coman-do di Sagipa, un nipote di Bogotá. Si combatté sulle montagne del Gaitana, della panchea, los Pijaos de Ibague e le

chimilas di Santa Marta. 3

L’impero Inca ebbe una maggiore resi-stenza rispetto al popolo azteca grazie ad una più efficiente organizzazione territoriale e politica. La prigionia di Atahualpa e l’entrata di Pizarro a Cuzco nel 1533 non riuscirono a schiacciare gli indiani. Manco Inka assunse il comando del suo popolo marciando fino ad arrivare nel 1535 ad assediare Cuzco con l’intenzione di cacciare gli spagnoli. Vi trovarono una forte difesa e per tale motivo fu-rono costretti a dar fuoco alla loro cit-tà. La resistenza momentaneamente si indebolì per la defezione dei “Canari” (Ecuador), che mai accettarono il do-minio dello Stato Inca.La lotta ricominciò nella zona di Vil-cabamba, dove gli indigeni del luogo e gli Incas riuscirono a costruire in breve tempo una grande fortezza. L’ar-cheologo peruviano Edmundo Guillén ha riscoperto nel 1976 l’intera fortezza e nonostante la rapidità con cui fu co-struita per far fronte ai conquistatori, è un’opera d’arte straordinaria quanto Macchu Picchu. La statua del leader della resistenza, Túpac Amaru, fu ese-guita dal viceré Francisco de Toledo nel 1572. [...]I conquistadores guidati da Diego de Almagro, e poi da Pedro de Valdivia, continuarono l’esplorazione verso sud alla ricerca di El Dorado. Non lo tro-varono. Trovarono, invece, la più fer-vida resistenza aborigena. I Mapuches (Mapu = Terra, Che = popolo), chia-mati Araucaniani dagli spagnoli, che resistettero per tre secoli in una delle guerre più lunghe della storia univer-sale, infliggendo agli invasori una per-dita di soldati compresi tra 25 e 50.000 per l’intera campagna. [...]La prolungata resistenza fu dovuta non solo all’ingegno militare di leader come Lautaro, Caupolicán e Pelanta-ru, bensì fondamentalmente al soste-gno attivo delle popolazioni indigene. La guerra Arauco fu una guerra vera e propria; una guerra popolare che durò tre secoli ispirata dal profondo

3 JUAN FRIEDE: La conquista del ter-ritorio y el poblamiento, en Manual de Historia de Colombia, T. I, p. 106, Bogotá, 1978.

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odio che gli indigeni provavano nei confronti dei conquistatori. I motivi di tale tenacia furono la difesa del terri-torio, le tribù, i costumi e il diritto di vivere liberamente in piccoli villaggi. [...]Gli indios delle pampas argentine fu-rono tenuti sotto controllo per tutta la campagna spagnola. La colonizza-zione della provincia di Buenos Aires, non avvenne oltre i 100 chilometri dal porto. Neanche gli spagnoli furono in grado di dominare l’area centro-nord a causa della spietata resistenza indi-gena.I Charrúas dell’ Uruguay sconfissero i primi conquistadores guidati da Juan de Solis nel 1516. Soltanto un secolo dopo, gli spagnoli osarono addentrar-si in questa zona, guidati da Hernan-darias de Saavedra, che fu comunque sconfitto dai Charrúas. Solo i gesuiti ed i francescani furono in grado di ga-rantire un certo assoggettamento me-diante la fondazione di colonie, come quella di Soriano nel 1624.Pertanto alla fine della campagna, i Mapuches, i pampas ed i charrúas mantennero la maggior parte delle terre che già possedevano prima della conquista spagnola.I Guarani della zona paraguaiana, i guaycuríes del Chaco argentino e la

regione brasiliana limitrofa del Pa-raguay nel 1525 affrontarono i primi conquistadores, uccidendo in breve tempo Alejo García, che era andato alla ricerca della Sierra del Plata. Più tardi, sconfissero anche il navigatore Sebastiano Caboto, il primo ad at-traversare con navi europee il fiume Paraguay. Sia Garcia che Caboto fal-lirono nel tentativo di conquistare la terra con “sangue e fuoco”. Trovarono invece la feroce resistenza dei Guara-ni,” più facili da persuadere che da sot-tomettere”. 4

Gli indigeni del Brasile combatterono con i portoghesi; dopo la sconfitta si ritirarono nella foresta, qui fronteg-giarono alcuni schiavi neri in rivolta.Alcune tribù delle Amazzoni si uniro-no a quelle dell’ Orinoco, ma in par-ticolar modo ai Caribes, sorprenden-do con imboscate i conquistadores. I caribes fecero diverse incursioni nelle Antille, lungo la costa e all’interno del Venezuela, arrivando a scontrarsi con gli spagnoli a Valencia (1572-1584). Attaccavano e nascondevano le loro canoe nel Guárico per tornare poi alla base di sicurezza, l’imponente Orino-co.

4 EFRAIM CARDOZO: Breve Hi-storia del Paraguay, p. 10, Ed. Eudeba, Buenos Aires, 1965.

Secondo i cronisti, uno dei primi im-portanti scontri armati tra gli spagnoli e gli indiani si verificò sulla coste ve-nezuelane nel 1515. Quattro anni più tardi, ci fu la ribellione. Il cronista Gonzalo Fernández de Oviedo e Val-des ha detto che “nel 1519, nello stesso giorno, gli indios di Cumana, quelli di Cariaco, di Chiribichi, Maracapana, Tacarras, Neveri e Unari si ribellarono e uccisero principalmente nella pro-vincia di Maracapana circa ottanta cri-stiani spagnoli in meno di un mese”.5

Uno dei capi indios più importanti fu Guaicaipuro. Egli fece il suo primo intervento nelle miniere d’oro di Los Teques quando aveva appena venti-cinque anni. Riuscì a coordinare le tribù del centroamerica e a costitui-re un esercito di oltre 14.000 uomini tra il 1560 e il 1568. Il suo desiderio di guidare non solo la lotta dei popoli indigeni ma anche quella degli schia-vi neri, fu espresso nel tentativo di combinare le battaglie degli indigeni con quelle dei seguaci di Miguel, capo della rivolta dei neri nel Venezuela oc-cidentale.Guaicaipuro affrontò il più coraggioso degli spagnoli, Diego de Losada, che,

5 GONZALO FERNANDEZ DE OVIEDO Y VALDES: Historia General y Natu-ral de las Indias, Bibl. de la Academia Nacional de la Historia, Vol. 58, T. I, p. 62 y 63, Caracas.

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secondo il cronista José de Oviedo y Baños, “si trovò di fronte a più di die-cimila indiani guidati dal capo tribù Guaicaipuro. Essi al battito dei tambu-ri e al risuonare dei fotutos annuncia-vano la nobile battaglia” .6

Il cronista ha distintamente sottoline-ato la prodezza di Gayauta, di Tiuna e dei bambini indigeni, come anche la strategia di guerra di Guaicaipuro che “incominciò a far commuovere i capi tribù indiani, ad agitare le nazioni e a fare in modo che queste ultime, in-teressate al bene comune, si presentas-sero completamente armate”.7 Insieme a Terepaima, Guaicaipuro riuscì a sconfiggere più volte Fajardo e altri comandanti spagnoli. Consapevole del pericolo, il governatore decise di orga-nizzare una grande spedizione al co-mando di Diego de Losada, che dopo diversi attacchi riuscì a sconfiggere l’e-sercito di Guaicaipuro nel 1568.Tuttavia dopo la morte Guaicaipuro, la lotta continuò per diversi decenni con il comandante Pacamaconi e Cono-poima. Tamanaco riuscì a radunare circa 15.000 uomini che fecero irru-zione negli accampamenti e nei villag-gi spagnoli. Fu sconfitto e condannato a tormentarsi come un cane rabbioso. [...]Il popolo dei Caribes fu quello che nelle Antille oppose maggiore resi-stenza ai conquistadores affrontando spagnoli ma anche inglesi, francesi ed olandesi. Gli spagnoli furono sempre sorpresi dalle incursioni dei Caribes. I francesi furono respinti quando nel 1635 cercarono di occupare l’isola di Dominica. Nel Guadalupe i Caribes resistettero a lungo fino a quando non furono sconfitti nel 1640. Tuttavia tor-narono a ribellarsi nel 1653, devastan-do le isole di Grenada e San Vicente; stavano per conquistare la Martinica. Nel 1657 attaccarono diverse isole con una rivolta globale e ben guidata ma furono sopraffatti dal generale Du Parquet, che propose ai 6.000 Caribes

6 JOSE DE OVIEDO Y BAÑOS: Hi-storia de la conquista y población de la provincia de Venezuela, Capítulo III, Bibl. de la Academia Nac. de la Historia, Caracas.7 Ibid., Cap. IX, p. 54.

di vivere in pace a Dominica e San Vi-cente dove gli sarebbero state concesse delle terre. È importante sottolineare che, nelle insurrezioni dei Caribes fu-rono coinvolti schiavi neri che riusci-rono a scappare dalle numerose pian-tagioni che vi erano nelle Antille.Durante la resistenza gli aborigeni im-piegarono diverse tattiche e metodi di lotta. Dopo le disastrose conseguenze delle prime esperienze, di attaccare in massa, gli indigeni riadattarono la loro tattica e affrontarono gli spagnoli attaccandoli a gruppi; in alcuni casi si arrivò a combinare i metodi che ca-ratterizzavano una guerra di gruppo con quelli adottati in una guerra fatta di spostamenti ovvero concentrare le forze per attaccare, disperderle rapida-mente e fare un nuovo attacco a lungo raggio, muovendosi in ampie fronti di lotta. [...]La genialità delle popolazioni indige-ne nel trarre conclusioni rapide sulle proprie esperienze militari si eviden-ziò anche nell’invenzione di nuove armi. In pochi anni sostituirono arco e freccia con le clave, scudi e lance con punta in acciaio, utilizzando strumenti di ferro che traevano dalle miniere o dalle armi nemiche. Ben presto impa-rarono ad usare armi da fuoco, come i

moschetti e cannoni. Iniziarono a rac-cogliere lo zolfo per mettere a punto la polvere da sparo. Un’altra invenzione dei Mapuches fu il laccio, con il quale sorpresero gli spagnoli nella battaglia di Marigüeño, facendoli cadere dai loro cavalli.Uno degli aspetti più rilevanti del-la resistenza fu l’unità d’azione che si raggiunse in innumerevoli occasioni tra le ribellioni degli indigeni e quelle degli schiavi neri. Esempi notevoli di questa lotta comune furono Miguel il Nero a metà del XVI secolo in Vene-zuela e Enriquillo Bahoruco nella zona di Baoruco sull’isola La Española. Nonostante i combattimenti, gli abo-rigeni non poterono mai passare all’ offensiva strategica. Non superaro-no la tappa della difesa attiva e della controffensiva sporadica. È noto che al trionfo finale si arriva solo quando si conviene ad una guerra regolare, guerra realizzata con metodi conven-zionali. [...]

Traduzione di Simona Palumbo

*Storico argentino-cileno

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Con le loro idee e con le loro lotte hanno segnato la storia del Venezue-la, sebbene rimangano sconosciuti ad alcuni. Un buon motivo per racconta-re, almeno in breve, le azioni eroiche dei ribelli venezuelani afrodiscenden-ti, precursori dell’Indipendentismo.

HIPÓLITA E MATEA BOLÍVAR

Hipólita e Matea rimase-ro con il piccolo Simón di nove anni quando nel 1792 morì ancora molto

giovane sua madre María Concepción Palacios. Hipólita lo adottò come figlio proprio mentre Matea lo curava come un fratellino. Le due donne lo accom-pagnarono nel penoso calvario, segui-to alla morte nel 1803 di sua moglie María Teresa del Toro nella casa “El Ingenio” a San Mateo.Anni dopo, lo videro arrivare trion-fante a Caracas nell’agosto del 1813, in

seguito alla Campagna Ammirevole. Agirono come soldatesse e infermiere, quando la bella casa di San Mateo si trasformò in quartier generale dell’E-sercito Liberatore. Bolívar per loro continuava a essere “il piccolo Simon-cito”. Molti raccontavano che il Libera-tore, nel vederle, dichiarò: “ecco le mie amate negre: Hipólita che mi ha dato da mangiare, Matea che mi ha inse-gnato i miei primi passi”.

Hipólita Bolívar era nata a San Ma-teo, stato di Aragua, nel 1763 e Matea Bolívar a San José de Tiznados, stato Guárico, nel 1773. I loro nomi sono da sempre nella memoria del Venezuela perché rappresentano la negritudine, l’afro-discendenza, l’identità venezue-lana, oltre alla storia tenera e bella del Padre della Patria durante la sua infan-zia, adolescenza e gioventù.

Eroi ed eroineafrovenezuelanidi AA.VV.*

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JUAN ANDRÉS LÓPEZ DEL ROSARIO, DETTO “ANDRESOTE”

Si dice che fosse nativo di Valen-cia, stato Carabobo, figlio di un afro-discendente e di un’indi-gena. Era uno zambo (cioè un

meticcio nato da un genitore indio e da un genitore nero africano) schia-vizzato in una hacienda di Yagua, pro-prietà di un Portoghese.Lottò contro la schiavitù e l’ingiusti-

zia degli Spagnoli e della compagnia Güipuzcoana, che voleva mantenere i suoi privilegi, uccidendo e punen-do tutti quelli che non le obbedivano, non pagando il salario e mantenen-do schiavizzati i negri e gli aborigeni. Il movimento di Andresote è uno dei primi organizzati contro gli Spagnoli – va contestualizzato tra i movimenti di pre-independenza, iniziati dal negro Miguel de Buría a Yaracuy, continua-ti con la rivolta del negro Guillermo a Barlovento e con quella dell’eroico José Leonardo Chirino nella sierra di Coro a Falcón – e vi presero parte aborigeni, negri, zambos, mulatti e bianchi creoli uniti in una lotta comune. La rivolta ebbe successo ma subito Andresote si vide obbligato ad abban-donare la lotta: con alcuni seguaci, si imbarcò su di un battello olandese – tra il 1732 e il 1735, nella regione del fiume Yaracuy - e non ritornò mai più in Venezuela. Ma tra le montagne dello Yaracuy rimase il focolaio della

ribellione, che arrivò a essere domina-to solo grazie alla collaborazione che i missionari cappuccini offrirono alle autorità.

JUANA RAMÍREZ,“LA AVANZADORA”

Nel 1790 nacque, nella hacienda di cacao dei Ramírez Rojas a Chagua-ramas, a Piar nello stato

Mongas, la mulatta Juana Ramírez. Dalla cucina, Juana ascoltava le notizie che alimentavano il suo spirito liber-tario. A 15 anni era già la mano destra del Generale Don Andrés Rojas ed era pronta ad affrontare le avventure della guerra; a vent’anni - mentre aveva luo-go la rivolta del 1810, la Prima Repub-blica - Juana era diventata una donna molto imponente e carismatica, che infondeva agli schiavizzati la passione per la lotta indipendentista.È così che, tra il 1813 e il 1814, Jua-na partecipò alle cinque battaglie che si realizzarono nelle vicinanze di Ma-turín contro Antonio Zuazola, de La Hoz, Monteverde e Morales. La più ri-cordata è quella di Alto de los Godos, una battaglia che, grazie all’intrepida avanzata di Juana fu una vittoria sicu-ra per i patrioti: a causa di quest’episo-dio, l’eroina venezuelana è conosciuta come Juana “La Avanzadora”. Inoltre, Juana fondò il famoso battaglione che fu chiamato “Batteria delle Donne” formato da tutte le donne del popolo.

LEONARDO INFANTE

Nato a Maturín, stato Mo-nagas, nel 1795, discen-deva da una famiglia povera, abituata al rigore

della servitù. Espresse fin dall’infanzia tutto il suo odio verso l’oppressione e l’amore per la libertà. A quindici anni di età, Infante, con tutta l’energia e la decisione del suo carattere, si manife-stò devoto alla grande rivoluzione che assicurò le nostre libertà pubbliche. La rivoluzione del 1810 operò in quell’a-nima una trasfigurazione: l’uomo della pianura si trasformò in arcangelo della guerra.Con il suo comportamento nell’azio-

ne di Carabobo Infante si guadagnò le simpatie del Liberatore e il grado di Comandante, che lo destinò a ser-vire nella cavalleria leggera per le sue brillanti attitudini nel maneggio della lancia.Il 17 aprile del 1818 a San José de Tiznados, nel luogo conosciuto come il Rincón de los Toros, salvò Simón Bolívar, in seguito a un agguato dei re-alisti. Partecipò insieme al Liberatore alle battaglie liberatrici della Nuova Granada, ottenendo il trionfo in ognu-na di esse. Fu catturato e fucilato il 26 marzo del 1826.

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LUIS BELTRÁN PRIETO FIGUEROA

Fu uno dei più importante edu-catori venezuelani del secolo XX, promotore di una edu-cazione democratica, gratuita

e obbligatoria, nonché distinto lotta-tore per i diritti del popolo. Nato a La Asunción, stato Nueva Esparta, il 14 marzo 1902, si laureò al liceo Caracas, diretto dal maestro Rómulo Gallegos e a 18 anni cominciò a lavorare come maestro di scuola nell’Isola di Marga-rita: da quel momento, non tralasciò di trasmettere i suoi insegnamenti a bambini e giovani.Dottore in scienze politiche e sociali all’Università Centrale del Venezuela, fu co-fondatore di diverse organizza-zioni politiche di indirizzo democrati-co e popolare. Come conseguenza del colpo di Stato del 24 novembre 1948, Prieto Figueroa fu esiliato. Fino al suo ritorno in Venezuela – in seguito al ri-stabilimento della democrazia puntofi-jista il 23 gennaio 1958 - si dedicò al lavoro educativo all’estero come capo di missione al servizio dell’UNESCO, in Costa Rica e Honduras; fu anche professore dell’Università de La Ha-bana.Come giureconsulto al servizio dell’e-ducazione, integrò la Commissione Redattrice del Progetto di Costitu-zione Nazionale (1936) e della Carta Magna (1961). Morì a Caracas il 23 maggio 1993. Lungo tutta la sua vita esercitò importanti cariche pubbli-che, ma i Venezuelani lo ricorderanno sempre come “il maestro Prieto”.

LA COMANDANTA ARGELIA LAYA

Nata in una hacienda di cacao a Río Chico, stato Miranda, il 10 Julio 1926, la “Comandanta Jacinta”,

originaria di Barlovento e orgogliosa della sua afro-discendenza, è l’esempio più alto della partecipazione politica della donna venezuelana nel campo della politica contemporanea. Suo pa-

dre era un montonero (membro della guerrilla contadina) e finì varie volte in prigione; sua madre, membro del “Gruppo Culturale Femminile”, le in-segnò a difendere la condizione delle donne e dei neri.Essendo entrata nel Partito Comuni-sta, nella politica della lotta armata e nel movimento guerrillero, si diede alla clandestinità e percorse le montagne di Lara: per sei anni fabbricò bombe molotov e impugnò il fucile, lottando quotidianamente contro l’ingiustizia sociale. La guerrillera conobbe Mao Tse Tung, Ho Chi Min e Fidel Castro e fu anche presidentessa del Movimiento al Socialismo (M.A.S).Argelia Laya muore nel 1987, lascian-do un’eredità di eterna lotta per le don-ne, per il socialismo alla creola e per le trasformazioni economiche, sociali e politiche necessarie per migliorare le condizioni di vita.

JOSÉ LEONARDO CHIRINO

Nel 1754, Curimagua, sierra Falcón, fu il luogo natio dell’eroe ribelle afro-di-scendente José Leonardo

Chirino, forse il maggiore rappre-sentante dell’integrazione dei due continenti (Africa e America), grazie alla madre indigena e al padre negro schiavizzato, unione che fece sì che le sue lotte anti-schiaviste si estendessero anche ad altri gruppi etnici.L’eredità della rivoluzione francese (Libertà, Eguaglianza e Fraternità) e il processo liberatore e indipendentista di Haiti servirono da ispirazione per il suo lavoro rivoluzionario nel Venezue-la colonizzato: nel 1795, si concretizzò l’insurrezione del leader afro-discen-dente, seguito in gran parte da negri della tribù dei “loangos” o “minas”, del Regno del Congo, che misero su un programma rivoluzionario: l’in-staurazione di quello che chiamavano

la Legge dei Francesi, cioè, la Repub-blica: l’eliminazione della schiavitù, l’eguaglianza delle classi sociali, la sop-pressione dei privilegi, la deroga alle imposte di gabella.Sconfitta la ribellione, Chirino fu cat-turato dalle autorità e trasferito a Ca-racas, dove la Real Audiencia lo con-dannò alla forca (10 dicembre 1796), sentenza che fu eseguita nella plaza Mayor (oggi plaza Bolívar). Come se-gnale di ammonimento e per scorag-

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giare future ribellioni, la testa di Chiri-no fu posta in una gabbia di ferro che fu messa lungo il cammino verso le Valli di Aragua e Coro.

PEDRO CAMEJO“EL NEGRO PRIMERO”

Nato nel 1790, a San Juan de Payara, stato Apure, il soprannome Negro Prime-ro che gli fu affibbiato era

ispirato alla sua destrezza nel maneg-gio della lancia.All’inizio della Guerra d’Indipendenza formò parte dell’esercito realista. Nel 1816 si arruolò nelle fila repubblicane, nelle forze che comandava il general José Antonio Páez nell’Apure. Fu uno dei 150 lancieri che parteciparono alla battaglia di las Queseras del Medio (2 aprile 1819) e in quell’ occasione, rice-vette l’Ordine dei Liberatori del Vene-zuela. Nella Battaglia di Carabobo (24 giu-gno 1821) fu membro di uno dei reg-gimenti di cavalleria della prima divi-sione di Páez, e lì lasciò la vita: «Mio generale, vengo a dirle addio perché sono morto». Furono le ultime parole che diresse al Generale Páez a Carabo-bo.

GUILLERMO RIBAS, L’EROE CIMARRÓN

Conosciuto come “El Cimar-rón” (schiavo ribelle fuggiti-vo), fu lo schiavo del regi-dor Marcos Ribas, dalle cui

mani era fuggito nell’anno 1767; non volle adattarsi ai capricci del conqui-stador spagnolo e fondò - insieme al suo compagno Francisco Mina e alle eroine cimarronas Juana Francisca, María Valentina e Manucha Algarín - il cumbe della montagna di Ocoyta (1768), luogo considerato il primo bastione libertario contro la schiavitù e il colonialismo nella sotto-regione mirandina (gli Spagnoli chiamavano cumbe quei luoghi inaccessibili dove si rifugiavano gli afro-discendenti cimarrones che rifuggivano il giogo schiavista). Questo cimarrón cercarono di cattu-rarlo in diverse occasioni ma inutil-mente. Fino a che, il 16 ottobre 1771, il negro Guillermo con 18 dei suoi uomini si presentò nel villaggio di Pa-naquire, dove sequestrarono il tenente della guardia locale Pedro Casaña: per questo, gli hacendados spagnoli chie-sero al governatore della Provincia di Venezuela un’azione urgente contro l’afro-discendeente ribelle, dal mo-mento che costituiva un “cattivo esem-pio” per gli schiavi. Il cumbe di Ribas a Ocoyta fu circondato e attaccato: Guillermo e Francisco Mina morirono nell’imboscata; altri furono catturati e alcuni riuscirono a scappare.Il Negro Ribas fu decapitato e gli ta-gliarono una mano: la sua testa e la sua mano furono collocate all’entrata del villaggio di Panaquire, affinché servis-se da segnale ammonitore per il resto dei negri intenzionati a liberarsi. Ciò nonostante, il cimarronaje a Barloven-to continuò ad aumentare.

MARTA CUMBALE,IL BRACCIO DESTRO DELL’AVANZADORA

Nata a Güiria de la Costa, in una famiglia di negri manumisos, ancora giova-ne si confrontò alle tristi

condizioni alle quali erano sottomessi gli schiavi, e per questa ragione si ri-fugiò nei culti e rituali ancestrali afri-cani. Le condizioni di maltrattamento

e annichilimento nelle quali vivevano gli schiavi, provocarono la ribellione di quelle famiglie. Questa giovane gioiosa e di forte tem-peramento cominciò a militare sui campi di Chaguaramal, al lato di Jua-na Ramírez la “Avanzadora”. Già negli anni 1811-12, indios, negri, meticci creoli e orilleros formano un solo rag-gruppamento. Marta andò a integra-re le fila della famosa Batería de las Mujeres, quelle eroine che combatte-rono senza tregua in cinque battaglie libertarie: il 18 marzo 1813, l’11 aprile 1813, il 25 maggio 1813, l’8 settembre 1814 e l’11 dicembre 1814. Il villaggio dove viveva fu raso al suolo dal furio-so Francisco Tomás Morales, il quale

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agiva così per vendicare la morte del generale spagnolo José Tomás Boves.Alla fine della Guerra di Indipenden-za, Marta cercò di dedicarsi alla vita familiare e a Carúpano si sposò con Don Santiago Aristiguieta, dal qua-le non ebbe figli. Morì il 28 dicembre 1864.

MIGUEL DE BURÍA, ANTESIGNANO DEI RIVOLUZIONARI

Miguel del Barrio dires-se la rivoluzione degli schiavi di Nueva Sego-via de Buría tra il 1552

e il 1553, la prima rivoluzione vene-zuelana. Le proficue alleanze con gli indios jiraharas gli permisero di por-

tare a termine l’impresa con successo: attaccarono alcuni villaggi spagnoli, pianificarono la liberazione di El To-cuyo e della Nueva Granada, aboliro-no la schiavitù e organizzarono sotto forma di regno uno dei primi tenta-tivi di stabilire in America uno Stato indipendente dagli Europei. Dopo il sollevamento guidato da Miguel con-tro l’oppressione spagnola nelle Minas de Buría nel 1553, si scatenò una serie

di insurrezioni, tra le quali possiamo ricordare: quella di Cañada de los Ne-gros in Messico nel secolo XVII; quella di Palenque di Palmares in Brasile nel secolo XVII, diretta da Zumbí di Pal-mares; il sollevamento dei tre capi neri in Suriname alla fine del secolo XVII; la ribellione dei Sastres o Alfayates a Bahía; il Giuramento di Bois Caïm-an ad Haití nel 1791, al comando di Toussaint Louverture; la Cospirazio-ne di Aponte a Cuba, tra il 1811 e il 1812, guidata dal liberto José Antonio Aponte.Nonostante l’importanza di questo atto di ribellione, la rivoluzione di Buría non è conosciuta in Venezuela. Tuttavia, compare come riferimen-to letterario o racconto storico nelle opere dei più autorevoli intellettuali e scrittori venezuelani: nel Resumen de la historia de Venezuela (1810) di An-drés Bello, nel racconto La negramenta di Arturo Uslar Pietri (1936), e in Can-taclaro (1934) e Pobre Negro (1937) di Rómulo Gallegos, i primi romanzi che fanno riferimento alla rivoluzione di Miguel.

JOSÉ ASCENSION FARRERAS

Discendente di Africani, nato ad Angostura, Stato Bolívar, il 27 agosto 1785. Abbandonò le forze reali-

ste nel 1817 e partecipò alla battaglia di San Felix, nella quale liberò la Guya-na. Fu compagno di Bolívar e Sucre. Nel 1828, fu promosso a Colonnello. Nel 1861, fu promosso da Juan Cri-

sóstomo Falcón a Generale di Brigata e tre anni più tardi a Generale di Divi-sione. Morì il 18 gennaio 1865.

FRANCISCA PAULA AGUADO

Originaria dello Stato Mi-randa, schiava della man-tuana (aristocratica) Gertrudis Aguado, che le

concesse la Lettera di Libertà a con-dizione che stesse a suo lato fino alla

sua morte. Dopo la morte di questa, l’erede di Gertrudis, Miguel del Toro, si rifiutò di darle la libertà. Francisca Paula vinse una causa che cominciò il 7 luglio 1800 e terminò il 9 agosto 1801. Così, ottenne un’importante vit-toria giudiziaria nella lotta contro lo schiavismo.

GERÓNIMO “GUACAMAYA”

Miguel Gerónimo, so-prannominato “Guaca-maya”, era un Africano schiavizzato tra gli anni

1794 e 1795, nello Stato Miranda. In-sieme a María Concepción Sánchez, guidò il cumbe di Taguaza nella comu-

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nità di Aragüita, a Barlovento. Di questo cumbe, si riconob-be la forza dei membri cimarrones che, molto ben organiz-zati, reclamavano le proprie legittime libertà, dando vita a un’importante ribellione nel Venezuela di fine secolo XVIII.

INÉS MARÍA PÁEZ

Originaria della Stato Carabobo, Páez, sposata con un mantuano, fu portata in Tribunale per avere osato utilizzare un cuscino per inginoc-chiarsi alla Messa, privilegio esclusivo delle

mantuanas. Fu difesa da Juan Germán Roscio Nieves, i cui argomenti ottennero che la Real Audiencia Española si pro-nunciasse a favore di María Inés. Fu la prima causa contro la discriminazione e l’inizio della difesa dei diritti civili in America.

Traduzione di Marco Nieli

*Si ringraziano: l’Ambasciata della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Etiopia per il suo contributo coi testi della mostra Heroes y heroínas de la afrovenezolanidad, nonché i siti e i testi consultati per i contenuti di questo articolo (afroamiga.wordpress.com, radiocomunaelhatillo.blogspot.it, Juan José Ramirez da alcaldiadematurin.gob.ve, e Nina Bruni da La insurrección del Negro Miguel en las letras y el muralismo de Venezuela in Cuadernos Americanos 144, México, 2013/2).

AFROAMERICANI

L’opposizione alla schiavitù fu tenace e attuata con tutti i mezzi possibili: la morte per inedia, il suicidio (fonda-to sulla concezione che l’anima ritorna ai luoghi degli antenati), l’aborto (per evitare al nascituro la schiavitù), il sabotaggio del lavoro, la fuga, le rivolte, numerose e sanguinose. Celebri quelle ad Haiti, a Santo Domingo, nelle Antille inglesi, a Puerto Rico, nella Martinica. La più famosa fu quella iniziata ad Haiti la notte del 14 ago-sto 1791 con una cerimonia vudù, che si concluse, dopo il massacro dei bianchi, con l’indipendenza dell’isola (1804). Si ebbero ribellioni anche nel Nord-est del Bra-sile come quella dei Malê, organizzata da capi musul-mani. Fu famosa la ‘repubblica di Palmares’, fondata ad Alagoas da schiavi fuggiaschi (metà XVII secolo). Tali rivolte fallirono tutte (tranne ad Haiti).

Le fughe diedero invece origine a persistenti comunità di afroamericani detti marrones (dallo spagnolo cimar-rón, «porco selvatico»), rifugiatisi in località inaccessibi-li dove poterono sopravvivere tratti integrali di culture africane. Per esempio i Bush negroes (poi quasi scompar-si) che nel XVIII secolo costituirono nelle Guiane grup-pi organizzati riuscendo perfino a fondare degli Stati, con i quali i governatori bianchi dovettero concludere trattati di amicizia. Altri gruppi finirono invece assorbiti dalle popolazioni aborigene. Schiavi di origine africana e popolazioni amerinde si sono talvolta fusi dando luo-go a un tipo di meticcio detto cafuso o carioca in Brasile e zambo o lobo nell’America spagnola.

Gli afrovenezuelani. Il Venezuela è oggi una nazione multietnica, e almeno il 32% della popolazione è di di-scendenza africana. Il presidente Hugo Chávez, in visita negli Stati Uniti, dichiarò in un’intervista: «Quando era-vamo bambini, ci raccontavano di avere una madre pa-tria, la Spagna. Successivamente, abbiamo scoperto, nelle nostre vite, che come dato di fatto, avevamo molte madri patrie. Una delle più grandi patrie di tutte è senza dubbio l’Africa. Noi amiamo l’Africa. E ogni giorno siamo sempre più consapevoli delle nostre radici africane. Il razzismo è una caratteristica dell’imperialismo. Il razzismo è una caratteristica del capitalismo. L’odio verso di me ha sen-za dubbio a che fare con il razzismo. A causa della mia grande bocca, a causa dei miei capelli ricci. Io sono molto orgoglioso di avere questa bocca e questi capelli, perché sono africano».

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Durante il progetto di in-dipendenza politica dalla Spagna e dal Portogallo, si possono identificare tre

grandi tappe nella formulazione e con-formazione del progetto di unità ispa-noamericana, come costruzione della “patria grande”.La prima, precedente allo scoppio ge-neralizzato dei movimenti rivoluzio-nari e che si identifica come quella dei “precursori”, in buona misura diede il fondamento e l’impulso iniziali delle fasi posteriori. La seconda, dal 1810 al 1821, che consiste nella formulazione e nello scambio di dichiarazioni uni-laterali di unionismo continentale; la terza, fra il 1821 e il 1828, che porta la consapevolezza della necessità di una gestione diplomatica dell’unionismo continentale […]Se è vero che il progetto unionista di carattere ispanoamericanista fu quel-lo dominante ed egemonico, in non poche occasioni coinvolse il Brasile direttamente o indirettamente, sebbe-ne più nelle intenzioni che non nelle realizzazioni.

GERMI DEL PENSIERO INDIPENDENTISTA E INTEGRAZIONISTA

Una delle cause scatenanti della lotta indipendentista nelle colonie spagnole fu senza dubbio la detroniz-

zazione del re di Spagna nel 1808 da parte di Napoleone, che fece da sti-

molo per gli obiettivi di autogoverno già esistenti in importanti settori delle colonie. I creoli più radicalizzati vide-ro l’indipendenza come una dinamica che doveva abbracciare tutto il conti-nente.Si visualizzavano problemi comuni di oppressione e dipendenza, strut-tura sociale, tradizione e lingua che condussero i creoli (si comprendono in questo concetto bianchi, meticci, mulatti, neri e indigeni) a intende-re l’indipendenza in una prospettiva continentale. Lo scontro che avrebbe portato alla sconfitta degli imperi op-pressori doveva basarsi su una lotta unitaria e concertata.[…]Non dobbiamo dimenticare che la prima rivoluzione indipendentista di successo, e con peculiarità notevolissi-me, ebbe luogo ad Haiti, che raggiun-se l’indipendenza politica nel 1804, proclamata da Jean Jacques Dessali-nes – comandante in capo del primo esercito del primo paese libero dell’A-merica Latina. La grande insurrezione di schiavi neri, scatenatasi nel 1791, e capeggiata da Touissant L’Ouverture, finì per assumere il carattere di guer-ra d’indipendenza. Nel 1793 si abolì la schiavitù, settant’anni prima che negli Stati Uniti.In Brasile, l’indipendenza arrivò per via graduale, dall’alto, senza che man-cassero antecedenti rivoluzionari, come la Congiura dei Minatori, per la quale furono giustiziati nel 1792 Tiradentes e altri leader. Il principe

reggente e la corte di Portogallo si tra-sferirono in Brasile per non cadere pri-gionieri dei francesi dopo l’invasione napoleonica del 1808. L’erede del prin-cipe, diventato imperatore, dichiarò l’indipendenza nel 1822. L’America portoghese, a differenza di quella spa-gnola, riuscì a conservare la sua unità sulla base di un’importante centraliz-zazione politico-militare, e mantenne un modello monarchico che ritardò di molti decenni l’instaurazione della re-pubblica e l’abolizione della schiavitù.

MIRANDA:LA MAGNA COLOMBIA

Francisco de Miranda è consi-derato un precursore fonda-mentale dell’unionismo lati-noamericano. Il suo “piano

unitario” prevedeva che il Brasile fosse

Pensiero sull’integrazione e il latinoamericanismo

Progetto unionista nell’IndipendenzaGenesi e apogeodi Alejandro Casas

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parte integrante della lotta di libera-zione dei popoli della “Magna Colom-bia” (termine che comprendeva tutta l’America Latina), così come le regioni di lingua francese. Dopo 15 anni di preparazione, arrivò ad Haiti nel 1806, con un contingente militare chiamato “Esercito della Colombia al servizio del popolo libero del Sud America”. Aveva intenzione di instaurare un go-verno monarchico-repubblicano, con un’importante partecipazione degli Inca.Dopo la sua sconfitta in terra vene-zuelana, si dirige a Londra, dove rag-gruppa i settori latinoamericani di avanguardia. […] In Miranda predo-minano idee politiche conservatrici, più vicine al modello politico ingle-se di monarchia limitata dell’epoca e lontane dai principi dell’illuminismo francese. Questo lo portò fino a met-

tere in discussione i principi e le isti-tuzioni consacrati nella Costituzione venezuelana del 1811. Temeva di più la “anarchia e la confusione” della stessa dipendenza.

PICORNELL, GUAL E ESPAÑA: LA LOTTA UMANITARIA

Ispirati dai principi della Rivolu-zione Francese e di quella Haitia-na, Juan Bautista Picornell, Ma-nuel Gual e José María España

capeggiarono nel 1797 un altro movi-mento precursore, questa volta in Ve-nezuela. Il primo, ispiratore in buona misura del programma rivoluzionario, oltre a proporre una rivoluzione libe-ral-borghese, era fautore dell’ugua-glianza sociale e di un chiara difesa delle aspirazioni dei neri e dei popoli autoctoni. L’appello alla lotta unitaria fu un pilastro del suo movimento.Nel documento Ordenanzas Constitu-cionales si parlava di una società orga-nizzata in base a un sistema repubbli-cano, federale e democratico, di modo che “fra bianchi, indios, pardos1e neri regni la massima armonia, vedendo-si tutti come fratelli di Gesù Cristo”. Si chiedeva anche l’abolizione della schiavitù, pene per chi offendesse le donne e uguaglianza sociale.

CARATTERE CONTINENTALE DELLA PRIMA INDIPENDENZA

A partire dall’esplosione ri-voluzionaria del 1810, le prime giunte governative rivoluzionarie (di Caracas,

Bogotà, Buenos Aires, Quito, Cile e Paraguay) invocarono l’unità conti-nentale.Il 21 dicembre del 1811 si licenziò la Costituzione della Prima Repubblica del Venezuela, che poneva un’enfasi ancora maggiore sull’idea unionista, prevedendo perfino l’ammissione di qualsiasi altra provincia del “continen-

1 Si definivano pardos i figli nati dall’unione di schiavi di origine africana con persone indigene ed europee.

te colombiano”, “che voglia unirsi sot-to le condizioni e garanzie necessarie per fortificare l’Unione con l’aumento delle sue parti integranti e dei legami fra di esse”. Si proclamavano allo stesso tempo “l’amicizia e l’unione più sincere fra noi stessi e con gli altri abitanti del Continente Colombiano che vogliano associarsi a noi (…) alterare e mutare in qualsiasi momento queste risoluzio-ni, in accordo con la maggioranza dei Popoli della Colombia che vogliano ri-unirsi in un’entità nazionale” […]Nel 1810 il messicano Miguel Hidalgo si proclamava “Generalissimo d’Ame-rica”, reclamava la “valorosa Nazione Americana” e l’unione per ottenere la sospirata libertà: “Uniamoci dunque, noi tutti che siamo nati in questa terra fortunata: vediamo da oggi come stra-nieri e nemici delle nostre prerogative tutti coloro che non sono americani”. Nel 1811 diceva il cileno Juan Egaña:

Siamo uniti da vincoli di sangue, lin-gua, rapporti, leggi, costumi e religio-ne […] Ci sembra che manchi solo che la voce autorizzata dal consenso gene-rale di un qualsiasi popolo dell’Ameri-ca faccia appello agli altri, in modo so-lenne e chiaro. E chi impedirà questo Congresso? (citato in Ardao, 1997b, 7).

Sempre nel 1810, a Buenos Aires, Ma-riano Moreno riaffermava la fratellan-za e la solidarietà rivoluzionaria ispa-noamericana, che si doveva spingere a “soffiare sul fuoco della ribellione del Brasile contro la dominazione porto-ghese”.[…]In Uruguay, allora detto Banda Orien-tal, José Artigas esaltava nel 1811 la patria continentale, anche se non en-trava nel tema del Congresso Generale e ancor meno in quello del governo unico. Nel 1812 manifestava la vo-lontà di estendere i trionfi delle sue armi “fino a portarli in tutto il nostro continente”. Nel 1813, la sua coscienza continentalista si sarebbe manifestata così: “La libertà dell’America costitui-sce il mio sistema, e stabilirla (è) il mio unico anelito”.

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[…]Le idee di unità latinoamericana fece-ro la loro comparsa anche in Brasile. I patrioti di Pernambuco, che capeg-giarono la rivolta del 1817 contro l’imperatore, aspettavano l’ingresso di Bolívar in Brasile affinché collaborasse al rovesciamento dell’impero porto-ghese e la proclamazione della Repub-blica. D’altro canto, insieme a Bolívar e con un ruolo da protagonista, lottò poi Abreu Lima, figlio del martire di Recife. […]Nel 1823, O’ Higgins chiamò Bolívar “l’Anfizione d’America”. Era fiducioso che potesse realizzare la CONFEDE-RAZIONE degli stati americani, “che è ancora un sogno per l’Europa”. Nell’America Centrale si distinse José

Cecilio del Valle. Questo honduregno invitava nel 1822 a tenere un congres-so ispanoamericano, affinché nessuna provincia dell’America “sia presa da invasori esterni, né vittima di divisioni intestine”.[…]Juan Nepomuceno Troncoso, anche lui centroamericano, formulò un pro-getto di confederazione continentale, con punti concreti “come la fondazio-ne di una banca nazionale, un fondo di previdenza dei contadini e l’apertura del canale di Panama”. L’unità centroa-mericana riuscì a concretizzarsi per al-cuni anni quando Francisco Morazán riunì con successo cinque stati durante gli anni Trenta.[…]

SAN MARTÍN: “UN GOVERNO GENERALE DI TUTTA L’AMERICA UNITA”

José San Martín merita senza dub-bio un posto di primo ordine nel pensiero e nella prassi di libera-zione e unità latinoamericane.

Dopo una paziente preparazione a Mendoza durante il 1816 e simulta-neamente alle spedizioni di Bolívar da Haiti per riconquistare il Vene-zuela, San Martín intraprendeva nel 1817 la traversata delle Ande, che lo avrebbe portato prima a trionfare in Cile (1818), poi in Perù (1821) e infi-ne all’incontro personale con Bolívar nella storica intervista di Guayaquil (1821).

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[…]Da parte sua il Direttore Juan Martín de Pueyrredón, a capo del governo di Buenos Aires […] diresse una lettera a Bolívar nella quale esprimeva la vo-lontà di unificare gli sforzi nella stes-sa causa di liberazione e unione delle nazioni americane. Nel Proclama agli abitanti della Tierra Firme sostiene che “arriverà il giorno in cui, conte d’allori, si uniranno le nostre armi trionfanti”.[…]San Martín contò anche sulla impor-tante collaborazione di O’ Higgins e di Manuel Rodríguez nella cosiddetta Guerra di Zapa. Con essa si intendeva minare il morale dell’esercito spagnolo in Cile, in una guerra di guerriglia che ebbe l’appoggio dei contadini, di buo-na parte del popolo e degli artigiani di Santiago […]Il 26 maggio del 1821, in una lettera a Bolívar da una Lima fresca d’indipen-denza, scrisse San Martín:Difensori di una stessa patria, con-sacrati a una stessa causa e uniformi nei nostri sentimenti per la libertà del Nuovo Mondo, spetta a Vostra Eccel-lenza il merito del fatto che i soldati della Repubblica di Colombia si ado-perino contro il potere tirannico della Spagna in qualsiasi parte del continen-te in cui siano afflitti i figli dell’Ameri-ca (citato in Ardao, 1998b, 9)

La vittoria di San Martín a Lima ac-celerò l’insurrezione creola di Guaya-quil e del nord del Perù. A Lima pose la questione della liberazione degli schiavi e si affinò il suo progetto di una monarchia costituzionale in America Latina. Forse quest’ultimo aspetto fu una differenza importante rispetto a Bolívar nell’intervista a Guayaquil, il 27 luglio del 1822, in cui trionfa l’idea repubblicana di quest’ultimo. […]

BOLÍVAR: “UNA SOLA DEVE ESSERE LA PATRIA DI TUTTI GLI AMERICANI”

Distingue Bolívar dal resto delle figure dell’indipen-denza il fatto di essere un grande scrittore, oltre che

un grande statista, pensatore e milita-re di rilievo. Uno dei suoi più grandi meriti consiste nell’aver coniugato la chiarezza concettuale e dottrinaria con una visione strategica (non tatticista o di corto respiro) basata su principi progressisti di organizzazione politica e democratica, ancorati al contempo a un forte realismo politico (che ci fa respingere per lui l’etichetta di utopi-sta), con cui si adattava ai momenti e alle sfide del processo indipendentista. Condivise una visione americanista con grandi dirigenti come San Martín e Sucre, Artigas e O’Higgins. Per que-sto si definirono il bolivariani futuri rivoluzionari come Francisco Bilbao, José Martí, Fidel Castro e Che Gueva-ra, così come l’attuale rivoluzione del Venezuela.[…]Da molto presto Bolívar si ispira alla concezione “magno-colombista” di Miranda e altri precursori. Già nel 1810 affermava da Londra: “Nemme-no tralasceranno [i venezuelani] di in-vitare tutti i popoli d’America a unirsi in una confederazione. Tali popoli, già preparati per questo progetto, segui-ranno svelti l’esempio di Caracas”. Nel 1811 disse al riguardo: “Posiamo sen-za timore la pietra fondamentale della libertà sudamericana: vacillare vuol

dire perderci”. Mentre nel 1814 affer-mò chiaramente: “per noi la patria è l’America”.[…]Bolívar non pretendeva la costituzio-ne di un solo stato nazione in America Latina. La sua proposta girò intorno all’idea di una confederazione che raggruppasse gli stati esistenti, in base comunque all’esistenza di una patria grande o nazione americana, che per-mettesse anche di avere un governo unificato.[…]Dopo quel periodo, si riprende il pro-getto rivoluzionario e americanista, a partire soprattutto dalla traiettoria li-beratrice di San Martín nel Sud e del contatto più fluido fra i due grandi go-verni rivoluzionari ispanoamericani. Nella sua risposta, nel 1818, alla già menzionata lettera di Pueyrredón, il Libertador afferma nel 1818: “Una sola deve essere la patria di tutti gli ameri-cani, poiché in tutto dobbiamo avere una perfetta unità”. Torna all’idea della confederazione, nel promuovere il pat-to americano che, formando di tutte le nostre repubbliche un corpo politico, presenti l’America al mondo con un aspetto di maestà e grandezza senza pari fra le antiche nazioni. L’America così unita, se il cielo ci concede que-sto desiderio, potrà chiamarsi la regina delle nazioni e la madre della repub-bliche.

In questa epoca il progetto bolivariano acquista un chiaro carattere sociale. Su questo influì in modo decisivo l’esilio di Bolívar, la rielaborazione di alcu-ne delle sue concezioni e strategie e il soggiorno ad Haiti, prima repubblica indipendente di ex schiavi […]Nel 1816 e 1817, sul suolo patrio, Bolívar dichiarò la liberazione degli schiavi, e abolì tutte le forme di servitù a Guayaquil e Quito (1820). Attuò il regime salariale, dopo la liberazione di queste regioni, fortemente marcate da rapporti di produzione servili.[…]Nelle istruzioni ai suoi delegati diplo-matici, nell’ottobre del 1821, Bolívar promosse “la formazione di una lega

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veramente americana” che superasse i principi della mera difesa militare co-mune. “È necessario che la nostra sia una società di nazioni affratellate, se-parate per ora e nell’esercizio della loro sovranità dal corso degli eventi umani, ma unite, forti e potenti per sostenersi a vicenda contro le aggressioni del po-tere straniero”.[…]Nel 1822, rivendicando la nazione del-le repubbliche, dice ai capi di Stato ri-voluzionari:

il grande giorno dell’America non è arrivato. Abbiamo cacciato i nostri op-pressori, rotto le tavole delle loro leggi tiranniche e fondato istituzioni legitti-me: ma dobbiamo ancora porre le basi del patto sociale che deve formare a partire da questo mondo una Nazione di Repubbliche […] Chi resisterà all’A-merica unita in un solo cuore, sotto-messa a una sola legge e guidata dalla torcia della libertà?

Prima della dominazione portoghe-se Bolívar, sollecitato da Alvear, si impegnò a lottare contro i propositi espansionisti dell’imperatore Pedro I del Brasile. Quello conosceva già il suddetto espansionismo, da quando le truppe brasiliane occuparono la provincia di Chiquitos, nell’Alto Perù. Ma non poté concretizzare le sue aspi-razioni: né la Colombia né il Perù gli diedero il via libera per marciare verso il sud. Tuttavia, la cosa fondamentale fu la sua decisione di arrivare in Ar-gentina per collaborare alla lotta con-tro l’imperatore Pedro I, che aveva già preso possesso della Banda Oriental, sotto il nome di Provincia Cisplatina, da vari anni. La solidarietà di Bolívar si estese anche ai leader del movimen-to libertario clandestino a Cuba e Por-to Rico.

Traduzione di Pier Paolo Palermo

*Storico colombiano

AMERICA LATINA E LATINOAMERICANISMO

di Alejandro Casas

America Latina è la denominazione proposta dal cileno Francisco Bilbao nel 1856 e poi, nel 1865, dal colombiano José María Torres Caicedo, per riferirsi al nostro subcontinente (compresi il Brasile e i Caraibi). Questa nozione si è imposta fino ai nostri giorni e ha ot-tenuto un importante consenso, insieme a quella di Nostra America, di José Martí.

Sono esistite e perdurano altre denominazioni più restrittive sul pia-no concettuale o nella loro portata, come quelle di Colombia, (nella versione del precursore Francisco de Miranda), Ispanoamerica, Ibe-roamerica e Indoamerica, fra le altre.

Il latinoamericanismo presenta due grandi accezioni: una più mili-tante e l’altra più accademica. La prima è legata alla lotta per il rico-noscimento e l’affermazione dell’entità storica dell’America Latina, in diverse forme: quella di comunità, quella di integrazione e quella di unione delle sue repubbliche o nazioni, nella sfera culturale, econo-mica e politica. La seconda mirerebbe allo studio sistematico delle questioni concernenti l’America Latina. Il primo concetto emerge già a partire dai precursori latinoamericanisti delle rivoluzioni indipen-dentiste contro la Spagna e il Portogallo. Il secondo comincia a svi-lupparsi organicamente a partire dagli anni Quaranta del secolo XX, con il movimento della Storia delle Idee, che confluisce nel latinoa-mericanismo militante vincolato all’dea di unità continentale.

Ad ogni modo, non dobbiamo adottare una distinzione rigida. Si tratta di due dimensioni di uno stesso processo sociostorico. Il la-tinoamericanismo, nelle sue diverse espressioni, come quella dello stesso Bolívar e quella di Martí, per nominarne solo due, fondamen-tali nel secolo XIX, è difficilmente scindibile in una versione militante ed una più propriamente riflessiva. La prima versione apporta diversi dei fondamenti politici e ideologici per la formulazione di un pensie-ro propriamente latinoamericanista. In questo senso, vale la pena di riprendere l’importanza del pensiero di José Martí e il suo carattere fondante di una tradizione di riflessione e pensiero, che lo rende il primo pensatore moderno dell’America Latina.

Trad. P.P.P.

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Il 28 luglio di quest’anno in uno degli atti commemo-rativi per il 60° anniversario della nascita dell’ex Presi-dente Hugo Chávez, il Presidente della República Bo-livariana del Venezuela Nicolás Maduro ha affermato: «A volte mi chiedo: perché Dio ce l’ha portato via così presto? Ce l’ha sottratto quando il mondo ne aveva più bisogno. Ma la Storia ha dimostrato che i profeti qua-si sempre muoiono giovani. Vengono e accendono la luce che illumina il cammino dei popoli affinché que-sti continuino sul cammino da loro tracciato».

Il Presidente Maduro si riferiva alla precoce scomparsa del Libertador Simón Bolívar a 47 anni e a quella del Presidente Chávez prima di compiere i 59. Le vite di questi due prede-cessori si sono spente dopo aver sofferto penose malattie. I due hanno compiuto ineguagliabili missioni storiche e considerarono che se ne sarebbero andati senza aver conso-lidato il grande progetto della creazione della Patria grande latinoamericana e caraibica costituita da nazioni pienamen-te indipendenti, sovrane e completamente integrate nonché

fondate sui valori della fratellanza, della pace, della coope-razione, della solidarietà, del rispetto, e sul rifiuto di ogni forma imperialista e colonialista. Bolívar, nel 1819, dopo il fallimento della I e della II Repub-blica e dopo aver stabilito le basi dell’unità grancolombiana, nel suo celebre discorso di Angostura del 15 febbraio dello stesso anno, aveva affermato:

«Nel mezzo di questo mare di angosce non sono stato nulla più che un semplice giocattolo dell’uragano rivo-luzionario che mi travolgeva come una debole paglia.»

Il 13 gennaio del 2011, 192 anni dopo, il Presidente Cháv-ez nel suo ultimo discorso di fronte alla sovrana Asamblea Nacional disse:

«Siamo obbligati a consolidare in questa terra latinoa-mericana e caraibica un mondo di pace, e dare l’esem-pio a questo mondo di guerre, di miserie, di invasioni e di violenze, di come si costruisce un mondo in de-mocrazia.»

Entrambi erano coscienti delle avversità che si presenta-

Bolívar e Chávez: due epoche, due giganti, un progettodi Luís René Velázquez*

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vano nella loro epoca e accetarono la sfida di mettersi alla testa della lotta di classe provocata dalla Storia e riflessa nel vortice dello scontro tra forze politiche e sociali che tenta-no di rendere possibili i cambiamenti reclamati dai popoli, e quelle che oppongono una feroce resistenza difendendo modelli politici e strutture socioeconomiche già decadute nel loro momento.Per stabilire la relazione di continuità dell’opera che hanno intrapreso i nostri due personaggi bisogna tenere presente il contesto storico nel quale sono nati e vissuti da giova-ni ognuno di loro. Cominceremo identificando la diversa estrazione di classe che li contraddistinguevano. Bolívar nasce il 24 luglio del 1783 in una delle famiglie più ricche e agiate della società coloniale caraqueña. Egli, quin-di, godeva di tutti i privilegi della nobiltà criolla. Era figlio di proprietari terrieri, padrone di schiavi, era stato forma-to nelle milizie del Re Fernando VII, ebbe l’opportunità di viaggiare e conoscere l’Europa, fu suo ospite e conobbe il lusso nel quale viveva il monarca. Perse i suoi genitori in età precoce ma ricevette un’educazione moderna grazie a per-sonalità di riconosciuto spessore intellettuale come Andrés Bello, Simón Rodríguez, il padre Andújar, Miguel José Sanz e intrattenne lunghe conversazioni con il barone Alejandro Humboldt ed il Marchese Ustáriz, tra gli altri. Apparante-mente non aveva ragioni per lottare contro un sistema che favoriva tutti gli interessi della classe sociale al quale appar-teneva. Nella seconda metà del XVIII secolo, il sistema colonia-le feudale e schiavista costituito dalla Spagna e dalle altre potenze in America mostrava indicatori di esaurimento che si riflettevano nelle numerose ribellioni e rivolte sociali contro l’inumano trattamento che i propietari terrieri e le autorità coloniali riservavano alle comunità schiave e i con-tadini come: La Ribellione di Andresote tra il 1730 e il 1733; La Ribellione di San Felipe dal 4 al 16 genaio del 1741; la Ribellione di El Tocuyo del 11 maggio 1744 e la Ribellione dei Comuneros di Mérida nel Maggio del 1781. È, però, la colonia francese di Haití, la prima nel dichiarare la sua indi-pendenza nel 1791. Quattro anni dopo, nel 1795 si produce la rivolta di José Leonardo Chirino nella Provincia di Coro, domini della Capitanía General del Venezuela, a seguito della Cospirazione ordita da Picornell, Gual e España nel 1797. Questi elementi indicano che in diversi settori della società coloniale albergava lo spirito dell’indipendenza e che era venuta meno la paura della tirannia coloniale. Questa sto-ria recente è conosciuta e valutata criticamente dal giovane Simón e presto comincia a prendere forma in lui il suo spi-rito combattivo contro il sistema oppressore attuato dalla Spagna con i suoi propri antenati familiari. Di conseguenza, di fronte alle invasioni di Miranda nelle terre del Venezuela nel 1806, di Napoleone in España, con la conseguente abdi-cazione di Fernando VII nel 1808, a soli 22 anni e dopo aver perso molto precocemente sua moglie, il 15 aogsto 1805, in presenza del suo più influente maestro Simón Rodríguez, il

giovane Simón realizza il suo celebre Giuramento di Monte Sacro, (Roma, Italia) nel quale dichiara:

«Giuro davanti a voi, giuro per il Dio dei miei padri, giuro per loro, giuro per il mio ono-re e giuro per la mia patria, che non darò ri-poso al mio braccio, né riposo alla mia anima, fino a quando non avrò rotto le catene che ci opprimono per volontà del potere spagnolo!»

Diversa è la provenienza sociale di Chávez che è figlio di una famiglia contadina, il cui più grande privilegio risiede nel fatto che i suoi genitori sono maestri rurali e le loro più importanti virtù: l’umiltà e l’amore per il lavoro. Ma così come per Bolívar, la nascita del bambino Hugo Rafael, av-viene in un monento di grandi cambiamenti e scontri che hanno lo stesso impatto in America. Nel mezzo di un susseguirsi di avvenimenti politici inter-nazionali le cui circostanze aiutano l’avanzamento del so-cialismo conquistando spazi al capitalismo, inizia la vita del bambino Hugo Rafael. Si può affermare senza alcun dubbio, che così come i rivoluzionari borghesi di USA e Francia ispirarono i settori politici e sociali delle colonie europee dell’America per scontrarsi con il modello colo-niale feudale e schiavista avvenuto alla fine del XV secolo e che ebbe come effetto nel XIX la fondazione di repub-bliche oligarchiche dipendenti dal neocolonialismo euro-peo, nonostante gli USA emergessero come potenza ege-monica nella regione all’inizio del XX secolo, imponendo alle nostre nazioni deboli, terribili dittature militari per la maggior parte di quel secolo, le rivoluzioni socialiste saranno il nuovo riferimento per la continuazione del-la lotta per l’emancipazione dei popoli latinoamericani. Giovane studioso critico della Storia, il leader inquieto e con alta sensibilità sociale, fin dall’infanzia, non dovrebbe sorprendere il suo allinearsi con le cause e le lotte dei popoli oppressi della sua Patria, e il dichiarare la sua simpatia per le rivoluzioni socialiste del mondo e dei governi progressisti in America latina. Il giovane Capitano Chávez è convinto di essere utile ad uno Stato dominato dalle elites politiche ed economiche prostrate agli interessi del capitale transna-zionale. SI riafferma che… l’indipendenza, secondo El Li-bertador… unico bene conquistato a spese di tutti gli altri dalla guerra contro la Spagna era stata tradita in tutte le sue dimensioni. Lo rinforza lo spirito e la determinazione a im-pegnarsi completamente per il riscatto della dignità e della sovranità del suo popolo che tanto sangue aveva versato per conquistare una Patria libera e per superare le miserevoli condizioni di vita che ha subito per 500 anni.La realtà complessa svelata nella coscienza di Hugo Chávez come tragica e immeritata per il nostro popolo, è paragona-bile alle situazioni in cui si è trovato Bolívar trasformatesi nel mare di angosce e con la stessa intensità anche lui si è visto trasformato in un semplice giocattolo dall’uraga-no rivoluzionario. Indignato altresì dai governi della con-ciliazione di cui furono protagonisti i governi del Pacto di

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Punto Fijo che misero la sovranità e le richezze nazionali nelle mani dei capi-tali straieri, il Capitano Chávez con-voca e motiva un gruppo di giovani compagni ufficiali con la sua abituale uniforme di campagna a riprendere l’impegno del giramento di Bolívar nel Monte Sacro nel 1805. La Storia lo nar-ra in questo modo:«Giuro per il Dio dei miei genitori, giuro per la mia Patria, Giuro per il mio Onore, che non darò tranquillità alla mia anima, né riposo al mio brac-cio, finché non vedrò rotte le catene che opprimono il mio popolo per vo-lontà dei potenti.Elezioni Popolari, terre e uomini liberi. Orrore all’Oligar-chia».Giuramento del Samán de Güere, Maracay, 17-12-1982Come si può vedere, la differenza delle origini di classe non è di alcun ostacolo per il giovane capitano dell’Esercito a che si allinei con la stessa missione storica del Libertador Simón Bolívar che non fu altro che quella di: «consolidare in questa terra latinoamericana e caraibica un mondo di pace, e dare l’esempio in questo mondo di guerre, di mi-serie, di violenze e di invasioni, di come si costruisce un nuovo mondo in democrazia.»Bolívar non ha sacrificato la sua vita solo per liberare i no-stri popoli dalla dominazione politica spagnola e fondare alcune repubbliche borghesi, la sua visione andava oltre. Nel 1816 decretó in Carúpano, Stato Sucre, la libertà degli schiavi che si aggregarono alla causa patriottica. Tale giusta misura la propone nuovamente nel suo celebre Discorso di Angostura nel quale inoltre segnala per orientare il parla-mento nella redazione della Costituzione della nuova Re-pubblica:

«Il sistema di Governo più avanzato, è quello che produce la più alta quantità di felicità possibile, la più alta quantità di sicurezza sociale e la più alta quantità di stabilità politica.»Angostura, 15 febbraio 1819

Basandosi su questo documento, Chávez suggeriva che si sarebbe dovuto interpretare e considerare Bolívar come uno dei precursori del socialismo, solo che gli intrighi delle oligarchie e l’ingerenza diplomatica degli USA, nelle na-scenti repubbliche sabotarono la grande opera liberatrice, antischiavista, umanista, integrazionista e antimperialista del genio d’America. Tanto acuta è stata la sua profetica vi-sione che nel 1829 in una lettera di un colonnello amico, dichiara:

«Gli USA sembrano destinati dalla Provvidenza a appestare l’America di miseria in nome della libertà.»

Lettera al Coonello PATRICIO CAMPBELL, Guayaquil, 5 agosto 1829Nei giorni successivi, disilluso dalla miseria dei suoi ne-

mici, per la disintegrazione dell’unità della sua amata Co-lombia, totalmente esautorato dal potere politico-militare che arrivò a detenere e frustrato da una penosa malattia, nel suo ultimo proclama enunciato pochi giorni prima della sua morte, Bolívar afferma:

«Colombiani! I miei ultimi voti sono per la felicità del-la mia Patria. Se la mia morte contribuirà a che cessino i partiti e a che si consolidi l’Unione, potrò scendere tranquillamente nel sepolcro.»

Santa Marta, Colombia 10 dicembre 1830.Nel caso di Chávez, la sua intensa attività politica comincia dopo il suo giuramento presso il Samán de Güere quando crea dalla clandestinità, con un gruppo di ufficiali dell’E-sercito: il Movimento Bolivariano 200 (MBR-200). Con questa piattaforma politico-militare inizia ad eleborare il suo piano per la presa del potere. L’esaurimento del modello capitalista imposto dall’impero yankee con il Patto di Punto Fijo già indebolito, entra in crisi con l’esplosione sociale del 27 febbraio 1989 che avviene in conseguenza dell’applica-zione del pacchetto di misure neoliberali imposto dal FMI e dalla Banca Mondiale all’inizio del secondo mandato di Carlos Andrés Pérez (CAP) e che passa alla Storia come El Caracazo. Il popolo indignato per le misure economiche abusive si riversò spontaneamente nelle strade a reclamare con la forza i beni primari e gli alimenti per la sua sussi-stenza. Questa rivolta fu selvaggiamente repressa dalle forze militari dello Stato borghese con un saldo di oltre 5 mila morti, uomini e donne disarmati, ma accellerò e fu di moti-vo per l’insurrezione del MBR-200 guidato da Hugo Chávez il 4 febbraio del 1992. È la prima apparizione pubblica del personaggio che cambierà la direzione storica, non solo del Venezuela ma della grande regione latinoamericana e ca-raibica. La ribellione fallisce e i protagonisti furono arrestati, ma il volto del leader del movimento con il suo breve intervento nei media nel quale pronunciòil fatidico por ahora, acce-sero la fiamma della speranza dei settori opporessi e tante volte traditi nella storia patria. Tanto profonda era la crisi in seno alle Forze Armate del puntofijismo che il 27 novembre dello stesso anno si produce anche la ribellione di un im-

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portante numero di ufficiali della Fuerza Aérea Venezola-na, che ugualmente è controllata dagli stessi fattori militati e politici favorevoli al governo di Carlos Andrés Pérez, il quale in seguito la Contraloría de la República e il Congreso Nacional viene messo sotto inchiesta per fatti di corruzio-ne; finisce per essere destituito dalla presidenza e la Corte Suprema di Giustizia lo condanna agli arresti domiciliari. Il periodo costituzionale dovette essere concluso dal Dottor Ramón J. Velásquez. Per il successivo periodo costituzionale (1994-1998) è elet-to presidente, ormai svincolato dal Patto di Punto Fijo per la seconda volta Rafael Caldera. Questi decreta l’indulto e concede la libertà a tutti quelli che permangono presi per gli eventi insurrezionali del 1992.Chávez comincia a girare tutto il paese e decide di parteci-pare alla presa del potere nell’ambito delle regole del siste-ma puntofijista e per questo crea il Movimiento V República e la sua principale offerta elettorale era stimolare un proces-so constituente per rifondare le basi della Repubblica. Tale progetto denominato Revolución Bolivariana ottine il suo primo sostegno popolare vincendo le elezioni del dicembre del 1998. Al momento dell’investitura in quanto Presidente all’inizio del 1999, senza alcuna titubanza sollecita la Corte Suprema di Giustizia a che attivi un meccanismo per convocare un referendum e realizzato questo, conformemente a quanto stabilito dalla legge, il popolo elegge la prima Assemblea Nazionale costituente della storia venezuelana.Ciò che avviene successivamente è un susseguirsi di trion-fi caratterizzati dal sostegno popolare. Allo stesso modo, però, della cariera politica di Bolívar, le forze reazionarie

interne ed esterne non smettono di contrastare i cambia-menti stimolati da Chávez e si uniscono nella cosidetta Co-ordinadora Democrática, organizzazione che attivia tutti i meccanismi di cospirazione e destabilizzione con l’aperto sostegno del governo USA per abbattere il potere legittimo determinato dal popolo tramite elezioni liberee riconsciute nazionalmente e internazionalmente. Chávez è poi relegit-timato successivamente dall’approvazione della Constitu-zione della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Il 5 marzo del 2013 avviene la sua morte per la quale non potrà esercitare il suo terzo mandato di governo dei suc-cessivi sei anni. Ma a differenza della sorte della opera ini-ziata dal suo ammirato Libertador de América, la sua non è stata tradita e la rivoluzione bolivariana-chavista continua affrontando e vincendo tutte le minacce e gli attacchi che naturalmente continueranno da parte dei nemici storici del socialismo. E come sostiene il Presidente Nicolás Ma-duro, nella citazione dell’inizio di questo articolo, Chávez e Bolívar morirono molto giovani ma la loro colossale opera, che in entrambi casi rimane inconclusa, lascia nelle diverse epoche storiche il cammino aperto e fertile per i popoli che continueranno questa opera emancipatrice e integraziona-lista imprescindibile per la costruzione del pieno stato di sovranità, di giustizia ed uguaglianza per le grandi maggio-ranze storicamente dimenticate.

Traduzione di Ciro Brescia

*Docente (Universidad Bolivariana de Venezuela)

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A Quito, nella seconda deca-de dell’Ottocento, vive una donna dal carattere di fuo-co, di grande impeto, fede-

le alla causa di liberazione dei popoli della Nostra America. Una donna che ha destato sia odio che amore. La sua tempra e la sua intuizione la trasfor-mano in nemica dei nemici del Libe-ratore Simón Bolívar. La società dell’e-poca non le ha mai perdonato la sua irriverenza verso i costumi del tempo, la sua libertà di decidere come donna e soprattutto la sua lealtà verso Bolívar, sommergendola di calunnie incessan-temente, fino ai secoli successivi. Que-sta donna è Manuela Sáenz Aizpuru, la Colonnella dell’Esercito Liberatore.

Manuela nasce nella città ecuadoriana il 27 dicembre 1797, da Simón Sáenz e María Joaquina de Aizpuru. Dopo la morte di sua madre viene portata in convento e, successivamente, per terminare gli studi entra in monastero (Santa Caterina da Siena). All’età di 19 anni, per mettere a tacere le voci sulla sua indole ribelle, contrae matrimonio con il medico inglese James Thorne a Lima, allora capitale del Vicereame. Nella società limegna stringe amicizia con Rosita Campusano, che la invita alle riunioni di patrioti che si teneva-no in casa sua, e si avvicina alla causa patriottica di San Martín. La Manuela cospiratrice svolge diversi incarichi di spionaggio e ottiene che il battaglione

realista Numancia si unisca alla causa patriottica: questo e altri episodi per-suadono lo stesso San Martín a deco-rarla nel 1821 con l’ordine “Cavalle-resco del Sole”, come altre 111 donne impegnate nella causa dell’Indipen-denza del Perù.Manuela, consapevole dell’infedeltà di suo marito e della campagna di libe-razione che si ordiva a Quito, decide di abbandonare suo marito per unirsi a suo fratello e tornare alla sua città natale per proseguire la sua lotta pa-triottica. Arrivata alla città ecuadoria-na, Manuela comincia a lavorare alla causa libertaria con l’invio di mule da trasporto al battaglione colombiano di Paya del generale Sucre, e nell’attività

Manuela Sáenz,la Colonnella d’Americadi Marnoglia Hernández Groeneveledt

LEI

Tu eri la libertà,liberatrice innamorata.Doni e dubbi portavi,irriverente adorata.Era spaventato il gufo nell’ombrafinché la tua chioma passò.E rischiararono le tegole, gli ombrelli si illuminarono.Cambiarono veste le case.L’inverno si fece trasparente.Era Manuelita che attraversòle strade stanche di Lima,la notte di Bogotá,l’oscurità di Guayaquil,l’abito nero di Caracas.E da allora è giorno.

(da Pablo Neruda, L’insepolta di Paita)

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di spionaggio della pattuglia militare spagnola a Quito. Dopo la Battaglia di Pichincha, Manuela diventa Tenente.Nel 1822 Manuela conosce Simón alla sua entrata trionfale a Quito: l’aneddo-to sul primo contatto tra i due patrioti vuole che durante l’accoglienza a Bolív-ar Manuela avesse lanciato una corona di alloro al cavallo del Libertador, e che questa fosse finita accidentalmente sul petto di Bolívar, che immediatamente avrebbe scorto l’autrice di tale gesto. Qualche ora dopo, durante il ballo di ricevimento, Bolívar, facendo sfoggio della sua galanteria, lusinga Manuela:

Gli porsi le mie scuse per quanto acca-duto la mattina e lui mi rispose dicen-domi: «Mia cara signora, ma sei lei è la bella dama che ha incendiato il mio cuore toccandomi il petto con la sua corona! Se tutti i miei soldati avessero questa mira, avrei vinto tutte le batta-glie». Mi vergognai un po’, cosa che S.E. notò all’istante e, scusandosi, mi prese per mano invitandomi a ballare una contraddanza (da M. Sáenz, Diario de Quito).

Senza curarsi delle accuse di adulterio rivoltegli, Simón e Manuela da quel momento diventano compagni inse-

parabili. Sáenz era una donna sposata, ma nonostante le insistenti richieste di suo marito per riaverla al suo fianco, la combattente non cede; la sua deci-sione era già presa: decretava la fine del matrimonio con Thorne e l’unio-ne a Bolívar e alla causa patriottica nel campo di battaglia. Nei mesi che precedono il tradimento a Bolívar, la società bogotana odiava Manuela. I nemici di Bolívar tentano di denigrarla in più di un’occasione, fino a richiedere di portarle via il tito-lo di Colonnella, per il fatto di essere donna. Manuela subisce le conseguen-

ze della sua avversione all’ordine stabi-lito, soffre come chi si oppone a coloro che pretendono di decidere dell’altrui destino.Durante la sua partecipazione alla campagna patriottica, Manuela non solo si prende cura dei feriti in bat-taglia, ma vestita da ussaro cavalca al comando di una truppa di patrioti, battendosi anche a fuoco aperto con-tro il nemico nella Battaglia di Ayacu-cho insieme a Antonio José de Sucre. Per questo il Maresciallo di Ayacucho appoggia la sua promozione a Colon-nella. Al tempo stesso, Manuela è incaricata

di custodire gli archivi del Libertador, impegno cui tiene fede fino all’ultimo momento della sua vita. Svolge anche attività di pattugliamento per la sicu-rezza di Bolívar, e infatti in due occa-sioni gli salva la vita: una volta durante un ballo in maschera, e poi di nuovo nel 1827, quando Sáenz mette in salvo Bolívar da un attentato ordito dai suoi nemici, affrontando dodici cospiratori mentre Simón fuggiva dalla finestra della sua camera. Di qui l’epiteto di Libertadora del Libertador. Manuela è stata una donna combattente, disposta a dare la vita per Bolívar e per la ri-voluzione patriottica, un’eroina che ha sacrificato tutto per la Patria Grande.

«Mia Capitana —mi disse un indio—, grazie a lei la Patria è salva». Lo guar-dai e vidi un uomo con la camicia sgualcita, insanguinata. Ciò che restava dei suoi pantaloni gli arrivava ai ginoc-chi sporchi. I suoi piedi avevano il gros-so callo di quegli uomini che non ebbero neppure la possibilità di usare le alpar-gatas1. Ma era un uomo felice perché era libero. Non sarebbe più stato uno schiavo (da M. Sáenz, Diario de Paita).

Manuela non ha potuto essere vicina a Bolívar nei suoi ultimi giorni: era a Bogotá, impegnata nella cospirazio-ne per portare al potere il Generale Urdaneta (fedele alla causa boliva-riana) dopo che i nemici di Bolívar avevano assassinato il Maresciallo di Ayacucho, presidente incaricato della Colombia. Dopo la morte del Liber-tador, gli attacchi aumentano: Sáenz è vilipesa, perseguitata, fatta prigionie-ra ed espulsa dalla Colombia e, non potendo reggere tanto dolore, tenta il suicidio. Esiliata in Giamaica, pia-nifica da lì il suo ritorno a Quito nel 1835 venendo immediatamente esilia-ta al porto peruviano di Paita. I suoi beni vengono confiscati, così Manuela si dedica al commercio di dolci e ta-bacco, al ricamo e al lavoro a maglia, e alla traduzione di testi. Nel 1847, alla morte del suo Thorne, Manuela rifiuta

1 Calzatura in fibra naturale, in tela o cotone, con la suola in corda di iuta o canapa, diffusa in Spagna e in America Latina.

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l’eredità, pur vivendo immersa nella povertà e nonostante le buone relazio-ni che manteneva con il defunto.Presso la sua ultima dimora le fanno visita diverse personalità, tra cui Her-man Melville e Giuseppe Garibaldi. Muore di difterite a 59 anni senza po-ter tornare a Quito, e avendo in custo-dia molti dei documenti del Liberta-dor, che vengono inceneriti insieme a lei, probabilmente secondo la pratica utilizzata all’epoca per i defunti vitti-me del virus. Hanno voluto cancellare Sáenz dalla storia, eliminando ogni in-dizio della sua esistenza, e limitando la sua figura al solo ruolo di amante del Libertador. Ma Manuela era una don-na colta, che aveva letto Plutarco, Ta-cito, Cervantes, Garcilaso e Álvarez de Cienfuegos. Una donna che già prima di incontrare Bolívar era impegnata nella causa patriottica, e non accettava l’oppressione e la giustizia della società dell’epoca; amava, invece, la libertà, e per questo amò Bolívar. Manuela stes-sa era l’emanazione delle idee di libertà e Independenza.Il lascito di Sáenz è andato oltre le nuo-ve generazioni e nel 2007 il presidente Rafael Correa la proclama “Generales-sa dell’Ecuador”. Manuela, la insepulta de Paita, non solo salva il Libertador, ma salva se stessa da una società spie-tata, rivendicando le donne rivoluzio-narie d’America e sfidando gli schemi della società borghese. Manuela col suo coraggio, rivendica e fa insorgere la lotta di donne umiliate, punite pub-blicamente ed esiliate; Juana Azurduy, Policarpa Salvatierra, Luisa Cáceres de Arismendi, Luisa Arambide de Pa-canis; Nanny dei cimarroni, Micaela Bastidas, Josefa Camejo. Manuelita, la Colonella, è stata e sarà il simbolo delle donne valorose che hanno dato la vita per la causa patriottica.

Traduzione di Emilia Saggiomo

JUANA AZURDUY,EROINA TRA MITO E STORIA

Insieme a Manuela, c’è stata una seconda colonnella degli eserciti liberatori: Juana Azurduy, eroina dell’Alto Perù (attuale Bolivia). Di padre spagnolo e madre indigena, durante l’infanzia era in contatto con la cultura, i riti e le ce-rimonie dei popoli originari, parlava sia spagnolo che aymara. Dopo la mor-te dei suoi genitori entra in convento: qui forma gruppi clandestini e viene espulsa dall’istituzione. In ambienti legati alla rivoluzione patriottica cono-sce il suo futuro marito Manuel Padilla, che nel 1809 si unisce alla resistenza guerrigliera; Juana, nonostante le proibizioni imposte alle donne di prendere parte a quei conflitti, nel 1813 è tra i rivoluzionari che occupano Potosí. Nel mezzo della sommossa perde i suoi cinque figli a causa di malattie contratte nella zona. Nel 1816 Juana e suo marito al comando di 6.000 indigeni con-quistano la regione di Chuquisaca e Santa Cruz de la Sierra, azione che vale a Don Manuel il titolo di Tenente Colonnello. Dopo il suo assassinio, Juana continua a combattere finché non perde il sostegno dei combattenti. Muore anziana e dimenticata da tutti. Ma gli indigeni la considerano l’incarnazione della Pachamama (in lingua quechua, la mitica Madre Terra).

Trad. E.S.

DALLE LETTERE DI SIMÓN BOLÍVARA MANUELA SÁENZ

Senza data

Manuela, sei arrivata all’improvviso, come sempre. Sorridente. Familiare. Dolce. Eri tu. Ti guardai. E la notte fu tua. Tutta. Le mie parole. I miei sorrisi. Il vento che avevo respirato e che dai miei sospiri arrivava a te. Il tempo è stato complice per il tempo che ho prolungato il discorso al Congresso per vederti di fronte a me, senza muoverti, calma, mia…Ho usato le parole più soavi e decise; ho indicato territori con problemi da risolvere mentre la mia immaginazione percorreva te; i generali che applaudi-vano in piedi non hanno immaginato che stessi descrivendo la notte di mar-tedì quando i nostri cavalli hanno galoppato insieme; che la descrizione delle possibilità di superare il problema della guerra fosse la descrizione dei tuoi baci. Che le risorse che sarebbero arrivate per comprare aratri e cannoni fos-sero il miele dei tuoi occhi che nascondevi per proteggere la mia stanca per-sona, come mi ripetevi per nascondere le lacrime del piacere che ti inondava.Poi ho ascoltato la tua voce. Era la stessa. Ti ho dato la mano, e la tua pelle mi ha percorso tutto quanto. Come... i minuti eterni che hanno arrestato le ma-ree, il vento del nord, la rosa dei venti, il tintinnio di stelle sospese in giardini segreti e l’arcobaleno che si vedeva fino a mezzanotte. Tutto questo sei stata, avvolta nella tua uniforme dai distintivi dorati, la stessa con cui aggredisci la ripugnanza di quanti ignorano come si costruisce la vita. Domani si terrà un’altra riunione al Congresso. Ci sarai?

Trad. E.S.

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PIONIEREDELLA RIVOLTA

Repubblica Dominicana. ANACA-ONA (1474 - 1503). È considerata la prima eroina. Cacicca dei Taino, nell’isola La Española, e moglie del cacicco Caonabo, viene ricordata per la sua arguzia e per il talento poetico. Flor de Oro - questo il significato del suo nome nella lingua taino - governa Jaragua all’arrivo di Cristoforo Colom-bo nel 1492 e in un primo momento è incuriosita dagli spagnoli; ma i loro abusi sulle donne taino a Fuerte Navi-dad le fanno cambiare atteggiamento: convince allora Caonabo a sterminarli. Al suo ritorno sull’isola, il 28 novem-bre de 1493, Colombo trova la fortez-za distrutta e i suoi 39 uomini uccisi. Anni dopo Anacaona protesta contro il governatore Nicolás de Ovando: la cacicca viene catturata, condannata

alla forca e giustiziata nel 1503. Nasce così l’eroismo in America.Colombia. GAITANA (anni ‘30/‘40 del XVI secolo). Cacicca di Timaná, nelle Ande colombiane, conosciuta anche come Guaitipán, guida il suo popolo contro i conquistadores spa-gnoli (1540 ca.). In quel tempo, vive-vano nella regione gli indigeni Yalcón, che contavano cinquemila guerrieri, e i Timanaes, gli Avirama, i Pinao, i Guanaca e i Paez. La Gaitana (così gli spagnoli chiamavano la cacicca) met-te insieme più di seimila indios, che all’alba attaccano Pedro de Añazco e i suoi 20 umonini: 16 vengono am-mazzati, 3 fuggono, e Añazco cade in mano dei suoi nemici. Gaitana gli fa cavare gli occhi e lo esibisce portando-lo con un cappio al collo di villaggio in villaggio fino alla morte. Qui la re-sistenza indigena conta molti episodi che portano alla caduta dei capitani

Ampudia e Añazco; finché gli spa-gnoli, tornati coi rinforzi, mettono gli indigeni in schiacciante svantaggio e fanno strage, fino all’estinzione di in-teri popoli: secondo fra Pedro Simón, di quindicimila indigeni presenti a Ti-maná nel 1626, ne rimasero forse 600.Venezuela. OROCOMAY (prima metà del XVI secolo). Cacicca, esem-pio del potere delle donne in epoca precolombiana: 5.000 indigeni delle comunità lungo del fiume Unare ob-bediscono a lei. Gonzalo Fernández de Oviedo riporta nel trattato Historia general y natural de las Indias (1535): «signori assoluti governano i loro Stati e praticano l’arte della guerra, come la regina Orocomay».Perú. KURA OQLLO e MAMA ASARPAY (anni ‘30 del XVI secolo), tra le prime eroine. Entrambe lottano e congiurano contro gli spagnoli in epoca incaica, ed entrambe trovano la morte (la prima a Cuzco, la seconda a Lima) per ordine, rispettivamente, di Hernando Pizarro e Francisco Pizarro.Cile. GUACOLDA (metà del XVI se-colo). Combatte al fianco di Lautaro in difesa del territorio: l’espulsione dell’invasore spagnolo era una missio-ne condivisa da tutto il popolo mapu-che, incluse le donne. L’esistenza reale di Guacolda, e delle altre combattenti Fresia, Tila e Caupolicán, è oggetto di discussione: secondo alcuni storici, Guacolda sarebbe un mito nato dal personaggio letterario dell’autore spa-gnolo Alonso de Ercilla y Zúñiga nel suo poema epico La Araucana.

DA ANACAONA A LA POLA

L’America latina riscopre le sue eroine

a cura di Emilia Saggiomo*

Una rassegna sintetica per ricordare le protagoniste della Resistenza indigena e dell’Indipendenza latinoamericana, recuperate alla memoria storica grazie al revisionismo e agli studi di genere indirizzati da nuove istanze politiche e culturali.

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PERÙ, NEL SEGNODI TÚPAC AMARUE SAN MARTÍNANA DE TARMA nel 1742 comanda un gruppo di 52 donne guerriere che combattono contro l’esercito spagnolo guidato da Benito Troncoso nelle bat-taglie di Río La Sal e Nijandaris, dove le truppe realiste vengono sconfitte. Per tredici anni tengono testa agli in-vasori. JUANA MORENO si ribella ai soprusi degli encomenderos: si occupa di approvvigionare di armi i suoi per affrontare il tenente governatore gene-rale don Domingo de la Cajiga, che nel 1777 arriva nel paesino di Llata per ri-scuotere tasse. La casa dove alloggiava il capo dell’esercito viene circondata, e fu proprio Juana Moreno a uccidere il governatore. MARCELA CASTRO (1781) accusata di aver partecipato alla rivolta Tupacamarista a Marca-pata e di non aver rivelato nulla agli spagnoli quando interrogata, viene giustiziata: del suo corpo viene dila-niato, la testa è collocata sul sentiero che va a San Sebastián, un braccio a Sicuani, l’altro al ponte di Orcos, una gamba a Pampamarca, l’altra a Ocon-gate, e il resto del corpo viene bruciato in piazza. CECILIA TÚPAC AMARU (1781) supporta la ribellione occu-pandosi della fornitura di viveri e di un fondo economico e prende parte ai preparativi bellici di Cerro Piccho con Túpac Amaru. Soffocata la rivol-ta, viene fatta prigioniera e condanna-ta a duecento frustate per le strade di Cuzco e all’esilio nel convento Las Re-cogidas in Messico. TOMASA TITO CONDEMAYTA Cacicca di Acos e Acomayo, nel Dipartimento di Cusco. Combatte al fianco di Tupac Amaru II nella rivoluzione del primer Gri-to e muore giustiziata dagli spagnoli nel il 18 maggio 1781: il suo corpo viene dilaniato e la sua testa esposta nella piazza di Acos. MICAELA BA-STIDAS PUYUCAHUA (Tamburco, Abancay, 1744 - Cusco, 1781). Corag-giosa precorritrice dell’Independenza ispanoamericana. Moglie e consigliera di Túpac Amaru II, che nel 1780 ini-zia un movimento contro la domina-zione spagnola: Micaela assume in

esso molteplici ruoli. Una legione di combattenti andine, quechua e ay-mara collaborano con Micaela nella sommossa. Sono a capo del movi-mento anche Cecilia Túpac Amaru e Tomasa Tito Condemayta. Rimane gloriosa la vittoria di Sangarará (18 novembre 1780), quando Micaela vie-ne nominata vice comandante della rivolta. Ma a causa di un grave errore tattico, il contingente di Túpac Amaru cade in un agguato realista: insieme a lui, Micaela, i loro figli Hipólito (18 anni) e Fernando (10), e altri famiglia-ri vengono catturati e portati a Cusco. Condannati tutti alla pena capitale, il 18 maggio 1781 nella Plaza de Armas di Cuzco vengono giustiziati uno a uno con spaventosi strumenti di mor-te e sacrifici raccapriccianti. ROSA CAMPUZANO (Guayaquil, Ecuador 1796 - Lima, Perù 1851). Detta “La Protectora” perché amante del Gene-rale José de San Martín esaltado come Protector del Perú. Attivista affiliata alla causa dell’Indipendenza del Perù. Le sue capacità intellettuali, la posizio-ne economica e le importanti relazioni sociali da lei intessute le permettono di sostenere San Martín nella lotta di liberazione. LE EROINE TOLEDO (marzo o aprile 1821). A Concepción un episodio eroico nella storia dell’in-dipendenza del Perù si deve a queste tre donne: una madre, Cleofé Ramos, e le sue figlie María e Higinia Toledo. Nella sierra centrale, le “Toledo” gui-dano un gruppo di abitanti di Con-cepción per bloccare il passaggio alle truppe del generale realista Jerónimo Valdés: demoliscono il ponte sul fiume Mantaro, via d’entrata nel loro paese, così l’avanzata di Valdés è ritardata e le forze patriottiche si mettono in sal-vo. Il Protector José de San Martín le insignisce della “Medaglia delle Vinci-trici”.

IN BOLIVIAIl 5 settembre si celebra in America Latina la Giornata internazionale del-la donna indigena, istituita in Bolivia nel 1983 in memoria di Bartolina Sisa. Oggi molte comunità indigene, in par-ticolare in Bolivia, Perù, Chile e Ar-

gentina, celebrano lei e le eroine della Coronilla.BARTOLINA SISA (Sullkawi del Ayl-lu, 1753 - La Paz, Vicereame del Perù, 1782). Eroina indigena aimara, vice-regina e comandante con suo marito il viceré aimara Túpac Katari (Julián Apaza, 1750-1781). Nell’Alto Perù (oggi Bolivia) Bartolina, a capo di guerrieri indigeni, in battaglia l’eser-cito realista, è una protagonista della resistenza contro gli spagnoli insieme a sua cognata GREGORIA APAZA (Ayo Ayo, 1751 - La Paz, 1782), eroina e guerriera, sorella di Túpac Katari; poi le due eroine aimara vengono catturate e giustiziate: le membra mutilate sono inviate in diversi luoghi e il resto del corpo viene incenerito e dato al vento. EROINE DELLA CORONILLA (27 maggio 1812). A Cochabamba, duran-te la guerra d’Indipendenza dell’Alto Perù, valorose donne cochabambine, guidate dalla non vedente Manuela Gandarillas e da Manuela Rodríg-uez, lottano contro la corona spagno-la sulla collina di San Sebastián, nella Coronilla, dove i soldati realisti le ster-minano tutte.

PATRIOTE COLOMBIANEMANUELA BELTRÁN (Santander, Colombia, seconda metà del XVIII secolo). Si sa poco di lei. Era “una donna del popolo”, ma sapeva leggere abbastanza da comprendere il testo dell’editto sui nuovi tributi imposti dal prefetto Juan Francisco Gutiérr-ez de Piñerez. Facendosi portavoce dell’indignazione del popolo, Manuela Beltrán al grido “Viva il Re e muoia il malgoverno!” strappa l’editto il 16 de marzo de 1781, divenendo con tale gesto la prima donna ad affrontare il regime spagnolo e prendendo parte all’insurrezione dei Comuneros. Bel-trán, come la Gaitana, fino a quell’epo-ca sono le donne che si ricordano per il coraggio che le rese capaci di sfidare per prime la corona spagnola. POLI-CARPA SALAVARRIETA DETTA LA POLA (Guaduas, 1795 - Bogotá, 1817). Sarta e spia colombiana, opera per conto delle forze rivoluzionarie.

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Nel 1802 a Bogotá perde i genitori e due fratelli in un’epidemia di vaiolo, poi lavora come sarta a Guaduas; al suo ritorno a Bogotá nel 1817 è già po-liticamente attiva. La Pola, non essen-do nata nella capitale, può muoversi li-beramente e incontrare altri patrioti e spie senza destare sospetti; può anche infiltrarsi tra i realisti offrendosi come sarta alle mogli e alle figlie degli spa-gnoli: Policarpa entra nelle loro case e ascolta le conversazioni, raccoglie notizie sui loro piani, capisce i loro so-spetti. Le sue operazioni segrete pro-seguono finché, scoperta e accusata di aver trasportato armi, munizioni e ri-fornimenti ai rivoltosi, viene arrestata con suo fratello Bibiano. Condannati a morte per fucilazione, il 14 novembre 1817, Policarpa, il suo amante Alejo Sabaraín e sei altri prigionieri vengo-no giustiziati. Salita sul patibolo, un soldato le porge un bicchier d’acqua e lei risponde: «Non berrò l’acqua di un tiranno». La Pola muore in quella che oggi è piazza Bolívar. Dal 1967, il 14 novembre è il “Giorno della donna colombiana” in onore all’eroina. Sul monumento del 1910 a lei dedicato, a Bogotà, un epitaffio riporta un ana-gramma perfetto del suo nome (se-condo la variante arcaica grecizzan-te): “Polycarpa Salavarrieta - Yace por salvar la patria”. ANTONIA SANTOS (Santander, 1782 - El Socorro, 1819). È una delle eroine dell’Independenza della Colombia. Si unisce alla causa di Simón Bolívar e crea la «guerrilla de Coromoro», la prima formatasi nella provincia del Socorro per lottare con-tro l’invasione spagnola. Questo grup-po ha un ruolo importante nelle bat-taglie di Pantano de Vargas e Boyacá. Tradita da uno dei suoi, Antonia San-tos è arrestata e giustiziata (28 luglio 1819). Tra i suoi discendenti, Eduar-do Santos e Juan Manuel Santos, pre-sidenti della Colombia nel 1938 e nel 2010.

GIAMAICANANNY DEI CIMARRONI (Costa d’Oro, Africa 1680 ca. – Giamaica,1750 ca.). Una madre del popolo, un leader politico e religioso, i cui avi erano di

Asante (Ghana); le attribuivano po-teri soprannaturali, magico-religiosi. Protagonista della resistenza contro il dominio inglese, Nanny conduce molti schiavi fuggiaschi verso le col-line di Portland, zona che prende poi il nome di Nanny Town. Le forze co-loniali invadono le colline per recupe-rare gli schiavi e Nanny e i cimarroni, combattono contro i soldati britannici. I cimarroni si organizzano poi in due grandi comunità: quella di Leeward a est, e quella di Windward che ricono-sce Nanny come regina (Queen Nan-ny, Nanny of the Maroons). Non han-no molte armi se non quelle prese ai soldati uccisi, ma gli schiavi fuggiaschi sono abili a combattere nella selva, nel posizionare trappole, negli agguati, e Nanny nel travestimento. Nanny Town viene distrutta dagli inglesi e cambierà nome in Moore Town. La resistenza Maroon è considerata storica presa di coscienza dell’autodeterminazione della componente africana in Giamai-ca (che diventerà poi maggioritaria) nei confronti di quella bianca e ingle-se; non a caso, come riconoscimento al valore della lotta contro i britannici, Nanny è l’eroina nazionale.

HAITICATHERINE FLON (Arcahaie, Hai-ti). È un simbolo della libertà haitiana: fu lei a cucire la prima bandiera del-la Repubblica. Il 18 maggio 1803, nei pressi di Port-au-Prince, il patriota in-dipendentista Jean-Jacques Dessalines prende la bandiera francese, strappa via la frangia bianca centrale e conse-gna le due frange restanti, dai colori blu e rosso, a Catherine Flon, la sua figlioccia, perché le imbastisca. Così

nasce la bandiera della Repubblica di Haiti. Il 18 novembre 1803 l’esercito di Dessalines aveva sbaragliato i francesi nella Battaglia di Vertières, e il 1º gen-naio 1804 l’ormai ex colonia dichiara la sua indipendenza. È del 1988 il ri-conoscimento dell’importanza storica e simbolica di Catherine Flon, il cui volto appare sulle banconote da 10 gourdes e alla quale nel 2000 viene in-titolata una piazza.

ARGENTINAMANUELA PEDRAZA (Tucumán, Provincias Unidas del Río de la Pla-ta). Manuela la tucumanesa, difensora della città di Buenos Aires durante la prima invasione inglese (1806), lot-ta eroicamente nelle giornate 10, 11 e 12 agosto nella battaglia della plaza Mayor intorno a La Fortaleza (oggi Casa Rosada, sede del Governo). In battaglia perde suo marito e Manuela insegue e uccide il soldato inglese che ne aveva causato la morte. Alla fine il comandante Liniers la inserisce nel Battaglione dei Patricios dandole il grado di sottotenente. Oggi una strada e una scuola di Buenos Aires portano il suo nome, così come numerose vie e cittadine argentine.

EL SALVADORMARÍA FELICIANA DE LOS ÁNG-ELES MIRANDA (1811) Patriota salvadoregna, guida uno delle prime insurrezioni contro le autorità spa-gnole: nasce il primo movimento in-dipendentista a San Salvador contro le autorità della Capitaneria Generale del Guatemala (divisione amministra-tiva del Vicereame della Nuova Spa-gna, nell’Impero coloniale spagnolo),

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alla quale apparteneva la Provincia di San Salvador. Le sorelle María Felicia-na e Manuela Miranda diffondono le notizie sul movimento. I patrioti Juan Morales, Antonio Reyes, Isidro Ci-brián e le sorelle Miranda organizzano e guidano una rivolta a Piedra Bruja, Cabañas (29 de dicembre 1811). Cat-turati dagli spagnoli e imprigionati nel castello di Omoa in Honduras, mentre le sorelle Miranda, recluse nel conven-to di San Francisco, vengono poi pro-cessate a Sensuntepeque, condannate a cento frustate e a lavorare come serve senza paga nella casa del parroco Ma-nuel Antonio de Molina y Cañas, sa-cerdote realista che taccia il movimen-to come eretico. Pare che María de los Ángeles Miranda sia morta durante il supplizio.

VENEZUELA, EROINEAL TEMPO DI BOLÍVAREULALIA RAMOS SÁNCHEZ (Ta-carigua de Mamporal, 1796 - Barce-lona,Venezuela, 1817). Conosciuta come Eulalia Buroz o Eulalia Cham-berlain, eroina dell’Indipendenza del Venezuela, vicina ai seguaci del Liber-tador Simón Bolívar, nel 1812 sposa il patriota Juan José Velásquez, dal quale si separa a causa della persecuzione degli spagnoli. Sua figlia neonata per-de la vita mentre Eulalia è in fuga sui monti di Tacarigua: dovrà scavare lei stessa la fossa per seppellire il picco-lo corpo. Alcuni giorni dopo, a Río Chico viene catturata ma, poco prima della fucilazione, dei patrioti la soc-corrono. Tornata a casa, trova riparo e alloggio presso la famiglia Buroz (da lì l’equivoco del cognome). Nel 1814, mentre Caracas è assaltata dalle trup-pe di José Tomás Boves, scappa in Co-lombia. Mesi dopo, viaggia a Cumaná e viene a conoscenza della fucilazione del marito a Río Chico. Più tardi sposa

il colonnello William Charles Cham-berlain, un inglese che ha il ruolo di aiutante di campo di Bolívar. Nel 1817, a Barcelona, muore durante l’assedio realista di Juan Aldama: si dice che nello sparare a un soldato, gridando “Viva la Patria, a morte i suoi tiranni!”, sia stata a sua volta colpita a morte, e che il suo cadavere mutilato sia stato esibito per le strade. Oggi nell’antica Casa Fuerte di Barcelona si erge una statua dell’eroina con la pistola in pu-gno, e un municipio porta il nome di Eulalia Buroz. LUISA CÁCERES DE ARISMENDI (Caracas, 1799 - 1866). Moglie del patriota Juan Bautista Ari-smendi, suo padre José Domingo e suo fratello Félix vengono fucilati a Ocu-mare del Tuy dal comandante spagno-lo Francisco Rosete (1814). Successive sconfitte e l’offensiva di José Tomás Boves e della sua “Legione infernale” obbligano le fuerze patriottiche ad ab-bandonare la piazza di Caracas; inizia la ritirata comandata da Simón Bolív-ar e José Félix Ribas (la Emigración a Oriente); durante la quale muoiono quattro membri della famiglia Cácer-es. Molti trovano rifugio a Margarita grazie al colonnello Arismendi, che nel 1814 sposa Luisa Cáceres. Luisa, incinta, è catturata e interrogata su Arismendi e i suoi, messa in una cella buia dove iniziano torture e maltratta-menti ai quali non cederà mai. Viene obbligata a bere acqua mista a sangue dei patrioti ammazzati in prigione, e il 26 gennaio 1816 dà alla luce una bam-bina che muore appena nata a causa delle condizioni del parto e della cella. Dopo anni di prigionia e varie peripe-zie che la portano a spostarsi come pri-gioniera dal carcere della Guaira a Ca-racas, da Cadice in Spagna a Filadelfia negli Stati Uniti, nel 1819 le è concessa libertà assoluta. Vive a Caracas fino alla morte, dopo aver visto libera la sua

patria. Nel 1876 Luisa Cáceres diven-ta la prima donna i cui resti riposano nel Panteon Nazionale. JOSEFA CA-MEJO DETTA “DOÑA IGNACIA” (Curaidebo, 1791 – Maracaibo, 1870 ca.). Eroina dell’Indipendenza e tena-ce difensora della Provincia di Coro, durante la guerra d’Indipendenza del Venezuela. Il 18 ottobre 1811 firma il “Manifesto del Gentil Sesso al Go-verno di Barinas”: le firmatarie, con-sapevoli dell’invasione che avrebbero tentato i guayanesi da San Fernando de Apure, si mettevano a disposizione per la difesa di Barinas, senza timore per gli orrori della guerra. In abiti ma-schili, insieme ad altre donne, si unisce all’esercito di Rafael Urdaneta in mar-cia verso Nueva Granada dove resta per cinque anni; da guerrigliera vive clandestinamente tra i monti, vagan-do, secondo alcuni racconti, travestita da vagabonda o da mendicante. Tor-nata dall’esilio, nel 1821, con trecento schiavi sostiene la ribellione contro le forze realiste della Provincia di Coro; ma è una disfatta. Il 3 maggio dello stesso anno, con un gruppo di quindi-ci uomini si presenta a Baraived, dove riposava il capo realista Chepito Gon-zález, che affronta e sconfigge. In se-guito, si reca con altri patrioti a Pueblo Nuevo, dove il governatore è fatto pri-gioniero. Viene allora nominato un governatore civile repubblicano (Ma-riano Arcaya), e quello stesso giorno Josefa Camejo legge a Pueblo Nuevo il manifesto che dichiarava libera la Pro-vincia de Coro e nel quale si giurava fedeltà alla Repubblica. L’8 marzo 2002 la Camejo è posta simbolicamente nel Panteon Nazionale.

*Coordinatrice di redazione Amerindia Addetto alla culturaConsolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli

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NuestraméricaLe rivoluzionI

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Era il 6 dicembre 1914, quando Emiliano Zapata e Francisco (Pancho) Villa fecero il loro trionfale ritorno a Città del

Messico, capitale della nazione omo-nima. Fu un atto di vittoria e di con-quista rivoluzionaria.Zapata, che era conosciuto come “Il le-ader del Sud”, e Villa, “Il Centauro del Nord”, avevano firmato due giorni pri-ma il Patto di Xochimilco, con il quale si consolidava l’alleanza tra l’Esercito di Liberazione del Sud e le truppe del-la Divisione Nord, al fine di promuo-vere e far rispettare riforme agrarie e affidare ad un civile la presidenza della

Repubblica.Fu un momento cruciale per la rivo-luzione messicana, che ebbe inizio nel 1910 e si concluse nel 1920.Attivisti sociali, insieme a contadini e forze militari marciarono per le stra-de di Città del Messico, fino al Palazzo Nazionale, dove mesi prima c’era stato Venustiano Carranza, ritiratosi a Vera-cruz per stabilire il proprio dominio.Questo fu il plotone degli uomini del-la Divisione Nord e l’Esercito di libera-zione del Sud; due forze che si unirono con anima, cuore e armi.Poco più di 50.000 uomini si concen-trarono a Chapultepec e alle 11 del

mattino cominciarono a dirigersi ver-so il Paseo de la Reforma, secondo un resoconto del ricercatore Alejandro Rojas, il quale precisa che la giornata si concluse quando Villa, accompagnato da Zapata, si sedette sulla sedia presi-denziale.Per la ricercatrice Elsa Aguilar Casas, storicamente, il viaggio intrapreso du-rante la guerra del Messico aveva come meta finale Città del Messico, dunque tutte le forze armate avrebbero dovuto trovare un modo per raggiungere que-sto luogo simbolico, che era sinonimo di vittoria. Fu l’atto che legittimò la vittoria.

Novantanove anni fa

Zapata e Pancho Villa giunsero vittoriosi a Città del Messicodi Adrián Durán*

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Durante il soggiorno di queste forze armate a Città del Messico, Villa or-dinò di cambiare il nome di via dei Plateros in Francisco I. Madero di-mostrando così affetto e rispetto nei confronti del suo compagno che stava combattendo.

UN DURO CAMMINO

Per arrivare a Città del Mes-sico, gli zapatisti e Pancho Villa dovettero tracciare un percorso e lottare con sangue,

guerra, speranza e vittoria.Dopo l’assassinio di Francisco I. Ma-dero, che governò il Messico durante il 1911 e il 1913 e quello del Vice Presi-dente José María Pino Suárez per con-to del generale Victoriano Huerta, in Messico si sprigionò una lotta contro Huerta per tradimento e il colpo di stato che aveva causato.Con il passare del tempo, il governo , al di fuori della costituzione di Huer-ta, diventò impossibile da sostenere, in quanto durante la dittatura militare si sciolse il Congresso dell’Unione e si ignorò la Costituzione e successiva-mente si intensificò anche la lotta iniziata nel 1910 contro gli zapa-tisti, poi ‘trattenuta’ nel 1911 quando si formò il governo di Madero.Per contrastare il terrore in-staurato da Huerta, le forze rivoluzionarie chiesero aiuto a Venustiano Carranza, che divenne primo capo dell’eser-cito costituzionalista e rappre-sentante del potere esecutivo. Gli oppositori di Huerta optaro-no per il costituzionalismo contro la dittatura, dissolto poi nel 1914, quando Huerta fuggì dalla capitale e presentando successivamente al Con-gresso le sue dimissioni. Questo segnò il trionfo dell’esercito costituzionale.Tuttavia, i conflitti interni , sia politici che ideologici, infuriavano.«Se si giunse ad un accordo, ottenendo così la resa di Huerta, è anche vero che successivamente le difficoltà tra Villa e Carranza, e tra Zapata e Carranza divennero sempre più delicate», dice

Aguilar Casas nel suo testo Villa e Za-pata a Città del Messico. Questo accadde quando ci fu l’ incon-tro tra tutte le forze patriottiche nella città di Aguascalientes, ossia quando Carranza fu respinta dagli zapatisti e villisti i quali non vollero riconoscere il Plan de Ayala, che prevedeva la rifor-ma della normativa agricola, la libertà, la giustizia e la legge, e con la quale si ripudiava il governo del presidente Francisco I. Madero (1911-1913), ac-cusato di tradire la causa contadina.A quel punto era impossibile generare un accordo per lo sviluppo del paese.Zapata e Villa decisero di unire i loro eserciti e quindi iniziarono la guerra contro Carranza, che a sua volta era sostenuto dal generale Alvaro Obre-gon il quale si era recato a Veracruz per avere il supporto degli invasori americani. Con questa unione, gli zapatisti e le forze della Villa riuscirono ad accede-re a Città del Messico.«In perfetto schieramento / allinea-

to, rigoroso, fiero / conformemente impostato / e di prescrizione milita-re/come ogni squadra di spessore/ si sfilò in modo bizzarro guardando la gente che era lì ad assistere il soldato che marciava fiero e che raggiungeva il fronte», dice una poesia di un autore anonimo.

Dopo questo evento storico che segnò la rivoluzione messicana, gli eserciti

di Villa e Zapata Carraza si affron-tarono nel 1915 e 1916.

Carranza, che nel 1917 fu elet-to presidente costituzionale, firmò la Magna Carta, con la quale si stabiliva la distribu-zione della terra, ciò che in-debolì la causa zapatista. Il 10 Aprile 1919, Zapata fu ucciso in seguito ad un ordine

autorizzato da Carranza. Nel frattempo, Villa fu assassinato

in un agguato il 20 luglio 1923 .«Meglio morire in piedi che vivere

in ginocchio tutta la vita»: così oggi ricordiamo le parole di Zapata.

Traduzione di Simona Palumbo

*Giornalista venezuelano AVN

“Chi desidera essere un’aquila, voli! chi desidera essere un verme, strisci!

ma che non gridi quando lo pestano!” Emiliano Zapata

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LA RIFORMA AGRARIA MESSICANA: UN SEGNO CHE DURA NEL TEMPO

di Arturo Warman*

La riforma agraria messicana fu un processo lungo e com-plesso. La riforma ha avuto origine nello stesso tempo in cui era in atto una rivoluzione popolare per svilupparsi poi durante la guerra civile. Il Plan de Ayala, proposto da Emi-liano Zapata e adottato nel 1911, chiedeva la restituzione ai popoli delle terre che erano state un tempo concentra-te nelle haciendas. Nel 1912 alcuni leader militari rivolu-zionari fecero le prime distribuzioni delle terre. Nel 1915 le tre principali forze rivoluzionarie, costituzionali, villisti e zapatisti emanarono le leggi agrarie. L’attenzione ad una diffusa richiesta di terra diventò una condizione di pace e di restaurazione di un governo nazionale dominante: la costituzione del 1917 comprendeva la distribuzione della terra nell’ articolo 27. Da allora, e con successivi adegua-menti fino al 1992, la distribuzione delle terre coincide con un mandato costituzionale e politico dello stato messicano. Questa distribuzione rimane la prerogativa dello Stato, se si considera la riforma agraria come una distribuzione più ampia del concetto di proprietà semplice.Durante il lungo periodo che va dal 1911 al 1992 agli agri-coltori sono stati dati più di 100 milioni di ettari di terra, pari alla metà del territorio del Messico e circa i due terzi della proprietà totale del paese. [...]La riforma agraria è nata come un processo di formazione di alcune piccole aziende la cui produzione era insufficiente a soddisfare pienamente le esigenze delle famiglie rurali. [...] Nel primo periodo della riforma agraria, che va dal 1920 al 1934 le terre distribuite furono un supplemento del salario dei lavoratori rurali, beni che avrebbero dovuto fornire cibo di base, alloggio e altro per migliorare il reddito maturato presso le aziende agricole e le proprietà di agro-esportazio-ne, il settore più efficiente dell’economia messicana.La distribuzione della terra viene quindi intesa come un atto di giustizia che eleva il benessere dei contadini; ma la sua importanza per lo sviluppo economico nazionale non è stata presa in considerazione. [...]

Traduzione di Simona Palumbo

*Antropologo ed ex ministro della Riforma Agraria in Messico

“TIERRA Y HOMBRES LIBRES”

Ezequiel Zamora(Cua, Venezuela, 1817- San Carlos, Venezuela, 1860).

Considerato il “Generale del Popolo Sovrano”, propugnò una radicale riforma agraria a favore dei contadini. E per molti fu il più grande leader popolare venezuelano del XIX secolo.

Militare e politico, fu uno dei principali protagonisti della guerra federale e primo leader sociale venezuelano. Duran-te la sua gioventù un amico lo indirizza alla filosofia mo-derna, diritto romano e agli ideali rivoluzionari. Più tardi a Villa de Cura si occuperà di un negozio di alimentari ma subirà la crisi economica causata dalla Guerra di Indi-pendenza. Successivamente simpatizza con le proposte del Partito Liberale, capeggiato da Antonio Leocadio Guzman e diviene capo regionale dei liberali. Nel 1846 si presenta come candidato ad elettore per Villa de Cura, ma la sua nomina è contestata dai conservatori. Per questo motivo chiede di “far guerra ai nobili” a beneficio dei poveri. En 1846, mentre Jose Antonio Páez leader dei conservatori è nominato capo dell’esercito nazionale, a Guambra Zamora sta per attaccare, al grido di “terra e uomini liberi”. Risulta vittorioso a Los Bagres e Los Leones ma nel 1847 è scon-fitto e catturato. Il tribunale di Villa de Cura lo condanna a morte, ma il presidente Josè Tadeo Monagas gli concede l’indulto. Nel 1859 durante la guerra Federale, si unisce al leader dei liberali Juan Crisóstomo Falcón, che lo nomina guida nelle operazioni in Occidente. Organizza un esercito popolare pro-federalista e fa in modo che lo stato di Coro si converta in Stato Federale. Il 23 marzo trionfa a El Palito e poi si dirige verso le pianure occidentali. Cinque giorni dopo occupa San Felipe e riorganizza la provincia con il nome di Stato Yaracuy. Il 10 dicembre sconfigge l’esercito centralista nella battaglia di Santa Inés. Nel 1860 decide di prendere d’assalto la città di San Carlos ma muore dopo es-sere stato colpito alla testa. La sua prematura scomparsa ha cambiato il corso della guerra. Dopo la sua morte, la sua persona è stata sistematicamente denigrata dai conservato-ri. Il nome di “Stato Zamora” con il quale si chiamarono gli attuali stati di Apures e Barinas dal 1862, fu cambiato defi-nitivamente in Barinas nel 1937, in quanto i proprietari non furono d’accordo a rendere omaggio alla figura di Ezequiel Zamora. Inoltre, la statua che avrebbe commemorato la sua memoria nella piazza Zamora de Barinas è stata demolita e gettata nel fiume Santo Domingo. Tuttavia, le sue spoglie riposano nel Panteon Nazionale.

Trad. S.P.

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Nato nel 1893, Sandino ha combattuto contro l’intervento statunitense in Nica-ragua. A partire dal 1926 si è impegna-to nella battaglia contro le forze occu-panti che si erano istallate sul territorio nicaragüense dal 1916 per difendere gli interessi delle transnazionali degli USA.

Il 18 maggio si commemora l’an-niversario della nascita del le-ader guerrigliero nicaragüense Augusto César Sandino, origi-

nario della città di Niquinohomo, nel dipartimento di Masaya, edificatore dell’idealità nuestroamericana eredita-ta da Simón Bolivar e dalla Revolución Mexicana.Nato nel 1893, Sandino ha combattuto contro l’intervento USA in Nicaragua. A partire dal 1926, dopo essere stato in Honduras, Guatemala e Messico, dove ha lavorato presso gli zuccherifici e i pozzi petroliferi, si è distinto nella

battaglia contro le forze occupanti che si erano istallate sul territorio nicara-güense dal 1916 per difendere gli in-teressi delle transnazionali degli USA. Il Nicaragua era inoltre vittima dell’ac-cordo Bryan-Chamorro, che conce-deva agli USA i diritti di costruzione di un canale interoceanico e una base navale nel golfo di Fonseca; nonché del trattato Stimson-Moncada, firma-to il 4 Maggio del 1927, tra l’inviato plenipotenziario di Washington Hen-ry Stimpson ed il generale José María Moncada.Anche conosciuto come Pacto del Espino Negro, attraverso questo accor-do il governo di turno e la fanteria di marina degli USA imposero la resa ed il disarmo dell’Esercito Costituziona-lista nonché la supervisione delle ele-zioni da parte dei marines statunitensi.Tale patto segnò l’inizio della intesa

lotta di Sandino, che si oppose all’ac-cordo decidendo di espellere i mari-nes, dovendo scontrarsi con traditori ed invasori, in una lunga lotta di libe-razione nazionale.

SIMÓN BOLÍVAR NELLA LOTTA DI SANDINO

L’insieme delle idee che hanno costituito la lotta di Sandino è stato costruito sulla base del pensiero di Simón Bolívar.

Ciò si riconosce nel manifesto del 20 marzo del 1929, che il capo guerriglie-ro nicaragüense definì “Plan de reali-zación del supremo sueño de Bolívar”, inviato ai 21 governanti latinoameri-cani dell’epoca.Tale Piano si presenta come uno de-gli antecedenti più importanti della Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América (ALBA) e della

A 121 anni dalla nascita

Sandino, l’edificatore della nazionalità latinoamericanada www.correodelorinoco.gob.ve

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Unión de Naciones Suramericanas (Unasur).Sandino indica la necessità della creazione della Nazionalità Latinoa-mericana essendo “profondamente convinti come siamo del fatto che il capitalismo nordamericano (USA) è arrivato alla fase suprema del suo sviluppo, trasformandosi di conse-guenza, in imperialismo, e che ormai non rispetta più alcuna teoria di di-ritto né di giustizia passando, senza alcun rispetto, sopra gli inamovibili principi della Indipendenza degli stati dell’America Latina”, si legge nel testo.Il progetto, che invita alla creazio-ne di una Alianza Latinoamericana, dichiara “abolita la dottrina Monroe e, di conseguenza, annulla la pretesa di tale dottrina di immischiarsi nella politica interna ed esterna degli Stati Latinoamericani”.Inoltre si dichiara “riconosciuto il diritto di alleanza ai ventuno Stati dell’America Latina Continentale ed Insulare, e quindi, si stabilisce una sola nazionalità, denominata Nazio-nalità Latinoamericana, riconoscen-do a tutti gli effetti tale nazionalità”.Altresì si invita a creare una Corte di Giustizia ed un Esercito Latinoame-ricano, per la difesa della sovranità dell’America Latina.

La sede della Corte viene battezzata con il nome di Simón Bolívar, defini-to “egregio realizzatore della Indipen-denza Latinoamericana” e “massimo forgiatore dei popoli liberi”.Si conviene sulla creazione di un orga-no finanziario comune, avente l’obiet-tivo di farsi carico della “costruzione di opere, materiali e strade di comu-nicazione e trasporto”. Si invitano gli Stati Latinoamericani a stimolare “in maniera particolare il turismo lati-noamericano al fine di promuovere il reciproco avvicinamento e la mutua conoscenza tra i cittadini delle nazioni del Continente”.Sandino ebbe come collaboratore im-portante il comunista salvadoreño José Farabundo Martí per consolidare il messaggio politico ed ideologico del suo movimento.Nel 1934, dietro un invito che era in realtà una imboscata per eliminarlo, il líder nicaragüense cadde sotto il fuoco dell’allora capo della Guardia Nazio-nale, Anastasio Somoza.Sandino è il riferimento ideologico dell’attuale Frente Sandinista de Libe-ración Nacional (FSLN), oggi al go-verno, e della rivoluzione promossa da questo movimento che sconfisse la dittatura somozista nel 1979.

Traduzione di Ciro Brescia

CASIMIRRI: DALLE BRIGATE ROSSE ALL’ESERCITO SANDINISTA?

Alessio Casimirri (Roma, 1951), ex Br condannato a sei ergastoli nel processo Moro-ter per la partecipazione al rapimento di Aldo Moro e ad altri attentati, vive tuttora in Nicaragua, nonostante i ripetuti tentativi delle autorità italiane di ottenerne l’estradizione. A Managua ha aperto un ristorante con degli amici (Magica Roma) e ne possiede un altro tutto suo (La cueva del Buzo). Sommozzatore esperto e diplomato Isef, l’ex Br svolge attività di pesca ed esplorazioni subacquee, e pare che sia diventato istruttore per l’addestramento degli incursori dell’esercito sandinista.

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La storia della Rivoluzione cu-bana, a metà del secolo scorso, ha sorpreso il mondo per la sua aura di leggenda, corrobo-

rata dalle testimonianze fotografiche e cinematografiche che diffondevano le immagini di giovani, belli e determi-nati, con barbe e capelli lunghi, collane di semi al collo, armati senza apparire militareschi. Fra tutti si faceva notare un corpulento avvocato, ex dirigente studentesco, autore di un sensaziona-le e fallito attacco alla più importan-te caserma dell’esercito del dittatore Batista, la Moncada, ex detenuto nel carcere di Isla de Pinos, amnistiato a furor di popolo, esiliato in Messico da dove aveva organizzato una spedizio-ne sul piccolo yacht Granma, sbarcan-do sull’isola per combattere il dittatore in una guerra di guerriglia sui con-trafforti dell’impervia Sierra Maestra. Accanto a lui, un argentino, bello e terribile, imbarcato come medico del-

la spedizione, che aveva abbandonato la cassetta dei farmaci per imbracciare il fucile durante il drammatico sbarco e la disperata ritirata verso gli anfratti della montagna.Si erano conosciuti in Messico, dove Ernesto Guevara, ribattezzato dai cu-bani “Che” a causa dell’intercalare tipi-co degli argentini, si era rifugiato dopo il golpe contro il presidente Arbenz in Guatemala. Il suo incontro con Fidel è entrato nella leggenda: in una casa ospitale i due conversano tutta la not-te e all’alba il Che è reclutato e la sua scelta di combattere per i diritti degli oppressi è definitiva. Ne scrive ai suoi familiari in Argentina quando ormai, dopo essere stato arrestato con tutti gli altri cubani, sorpresi ad addestrarsi con le armi, non può più continuare a fingere di voler proseguire nella sua carriera di medico, come aveva fatto credere fino a quel momento.Questo momento determinante è regi-

strato nelle ultime lettere che ha scritto a sua madre, amatissima, con una du-rezza che nasconde il dolore e la co-scienza della gravità della sua scelta; la redarguisce con severità per gli appelli alla prudenza e a ripensare a quel che faceva, naturali in una madre, ricor-dandole che la sua decisione scaturiva proprio dall’educazione che aveva rice-vuto da lei, donna colta e progressista. In quelle lettere, il Che non nasconde la possibilità di perdere la vita ma è di-sposto a farlo per partecipare, insieme a quei giovani compagni, a lottare per l’affermazione di diritti, per sconfigge-re un dittatore sanguinario, per com-battere lo sfruttamento, il neocolonia-lismo e l’imperialismo. La storia di Fidel Castro è diversa ma uguale nelle finalità, negli stimoli eti-ci, nella visione antimperialista, nel dovere di affermare la sovranità dei paesi latinoamericani. Fidel è cubano e a Cuba dedica il suo impegno dopo aver sconfitto la dittatura nel gennaio del 1959 ed aver dato inizio all’imma-ne lavoro di costruzione di una società rivoluzionaria. Resta a Cuba ma guar-da al mondo in un momento in cui tutto il Terzo Mondo è in fermento e dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina sorgono reclami e movimenti di decolonizzazione che trovano eco a Cuba. Il Che, ormai cittadino cubano onorario, ha accettato importanti in-carichi di governo, è Presidente della Banca, è Ministro dell’Industria ma la sua anima internazionalista lo porta a combattere nel Congo, appena dopo la morte di Lumumba, in un’avventura finita male ma importante per raffor-zare il suo internazionalismo. Ricerca-to come un delinquente, entra in clan-destinità, appoggiato, difeso, protetto e consigliato da Fidel Castro dal quale riceva anche l’aiuto –segretissimo- per organizzare la sua spedizione in Boliva con l’intento di unirsi poi alla guerri-glia in Argentina. “En silencio ha te-nido que ser”, il Che scompare dalla ribalta internazionale. Tutte le ipotesi, spesso grottesche e perfide, circolano per il mondo e mirano soprattutto a insinuare che è lo stesso Fidel ad aver fatto fuori il suo braccio destro, ad

Storia di un’amicizia:il Che e Fideldi Alessandra Riccio*

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averlo gettato in manicomio, ad aver-lo liquidato. Ma la lettera di addio che Ernesto Guevara indirizza a Castro ri-vela la nobiltà di un’amicizia profonda:

“Ripeto ancora una volta che libero Cuba da qualsiasi responsabilità, tran-ne quella che emana dal tuo esempio. Che se l’ora definitiva mi raggiungerà sotto altri cieli, il mio ultimo pensiero sarà per questo popolo e specialmente per te. Che ti ringrazio per i tuoi inse-gnamenti ed esempio e che cercherò di essere fedele sino alle estreme conse-guenze dei miei atti. Che mi sono sem-pre identificato con la politica estera della nostra rivoluzione e che continuo a farlo. Che ovunque andrò, sentirò la responsabilità di essere un rivoluziona-rio cubano e come tale agirò. Che non lascio a miei figli e a mia moglie niente di materiale, ma ciò non mi preoccupa e mi rallegro che sia così. Che non chie-do nulla per loro, perché lo Stato darà loro quel che è sufficiente per vivere ed istruirsi”.

*Docente (Università “Orientale” di Napoli) e condirettrice della rivista Latinoamerica

FELTRINELLI, KORDAE IL MITO DEL CHE

È il 1964 quando l’editore italiano Giangiacomo Feltrinelli va a Cuba e incontra Fidel Castro, che gli affida l’opera di Che Guevara Diario in Bolivia, che diventerà uno dei maggiori best-seller della casa milanese. Nel 1968 Feltrinelli si recò anche in Sardegna: secondo i documenti scoperti dalla Commissione Stragi nel 1996, l’editore voleva en-trare in contatto con gli ambienti della sinistra iso-lana per trasformare la Sardegna in una Cuba del Mediterraneo.

A Feltrinelli viene anche regalata, dal fotografo cubano Alberto Díaz Gutiérrez, noto come Al-berto Korda, la famosa foto del Che, Guerrillero Heróico. Scattata da Korda il 5 marzo 1960, essa divenne uno degli scatti più stampati e riprodot-ti nella storia della fotografia. Circostanza dello scatto, i funerali di 81 cubani morti durante un attentato terrorista finanziato ed appoggiato dagli anticastristi e dalla CIA nell’ambito dell’Operazio-ne Mongoose. Il profilo della persona che appare nella foto accanto a Guevara è quello del giorna-lista italo-argentino Jorge Ricardo Masetti, amico del Che e fondatore dell’agenzia giornalistica cu-bana “Prensa Latina”.

La celebre foto Guerrillero Heróico

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CIENFUEGOS, SIGNORE DELL’AVANGUARDIA

Insieme con Fidel Castro, Raúl Castro ed Ernesto Guevara, il rivoluzionario cubano Camilo Cien-fuegos Gorriarán (L’Avana, 1932 - Oceano Atlanti-co, 1959) è stata una figura di spicco della rivolu-zione cubana del 1956-‘59.Nato da genitori anarchici, Cienfuegos, nel 1956, dopo un soggiorno clandestino negli Stati Uniti, giunse in Messico per unirsi a Fidel Castro e ai “rebeldes”. Rientrato a Cuba con i “barbudos” a bordo del battello Granma, diventò in breve uno dei massimi comandanti militari della rivoluzione cubana e portò avanti, insieme a Ernesto Guevara, la strategia che permise alle colonne castriste a en-trare all’Avana il 1° gennaio 1959, dopo la fuga del dittatore Fulgencio Batista.Dopo l’instaurazione del governo castrista, Cien-fuegos assume il comando di tutte le forze armate cubane meritandosi l’appellativo di “signore dell’a-vanguardia”, coniato dall’amico Guevara; in breve tempo ricevette vari incarichi politici e divenne uno dei personaggi più popolari di Cuba.Pochi mesi dopo il trionfo della rivoluzione cuba-na, Camilo Cienfuegos fu inviato da Fidel Castro a Camagüey per arrestare il rivoluzionario Hu-ber Matos, che si opponeva alla svolta marxista di Fidel. Ma non fece mai ritorno: il suo piccolo aereo, un Cessna, a causa di un uragano scompar-ve nell’Oceano Atlantico. Camilo è uno dei leader della rivoluzione più amati dalla popolazione cu-bana: il suo volto è scolpito, come quello del Che, sulla facciata delle sedi ministeriali a plaza de la Revolución, e il 28 ottobre di ogni anno i cubani gettano in mare un fiore alla sua memoria.

GINO DONÈDALLA RESISTENZA ITALIANAALLA RIVOLUZIONE CUBANA

Gino Donè Paro (San Biagio di Callalta, 1924 - San Donà di Piave, 2008), nato in Veneto da una famiglia di poveri braccianti in provincia di Trevi-so, è stato un partigiano e rivoluzionario italiano, unico europeo ad aver partecipato alla Rivoluzio-ne cubana.Nel 1951 lavorava all’Avana come carpentiere per la costruzione della Plaza Civica (l’attuale plaza de la Revolución). Nel 1952 conobbe Norma Turino Guerra, sua futura prima moglie, amica di Aleida March de la Torre (futura moglie di Ernesto Gue-vara) e sostenitrice del Partito Ortodosso Cubano, il cui dirigente era il neolaureato avvocato Fidel Castro. In Messico, Fidel era in cerca giovani leali da ar-ruolare nel suo Movimento 26 luglio: venuto a co-noscenza che a Trinidad c’era un giovane italiano che aveva fatto il partigiano in Italia, lo volle in-contrare per proporgli di fare parte della spedizio-ne per liberare Cuba dal dittatore Batista. Tra il ‘55 e il ‘56, furono numerosi i viaggi di Donè tra Cuba e il Messico, per portare soldi e missive, grazie al suo passaporto italiano che non generava sospetti alle frontiere. In quanto ex soldato ed ex partigia-no, collaborò agli addestramenti militari in Mes-sico diretti da Fidel e divenne amico del medico argentino Ernesto Guevara. Il 25 novembre 1956 Doné fu tra gli 82 volonta-ri imbarcati sul Granma, che salparono dal porto messicano di Tuxpan per sbarcare a Cuba a Playas de las Coloradas, nella Sierra Maestra. Con l’italia-no Gino c’erano 78 cubani, l’argentino Che, il mes-sicano Alfonso e il dominicano Ramin Mejóas. A bordo Gino era il più anziano degli 82, e aveva il grado di tenente del Terzo Plotone comandato da Raúl Castro.In seguito Gino, ricercato dalla polizia batistiana, ricevette dai capi del Movimento 26 Luglio l’ordi-ne di salpare da Trinidad de Cuba per raggiungere Messico e Stati Uniti: “El italiano” era a New York quando, il 1° gennaio 1959, i suoi “barbudos” en-trarono trionfanti all’Avana.

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ALIUCHA, ALEIDA MARCH LA SOVVERSIVA

Aleida March (Santa Clara, 1937), ri-voluzionaria e politica cubana, è stata la seconda moglie di Che Guevara. Da giovane studia Pediatria all’università di Santa Clara e comincia a interessar-si alla politica quando la figura di Fidel Castro diviene a tutti nota per l’assalto alla Caserma Moncada.Dopo lo sbarco del Granma del 1956, la March partecipa a scioperi e azioni di boicottaggio, e viene bollata come «sovversiva» dalla polizia del dittato-re Fulgencio Batista; iniziata la guer-ra civile, Aleida milita attivamente in clandestinità nel M-26-7 ed è la mes-saggera del responsabile di Villa Clara. Lolita Rossell, sua amica e militante, dice di lei: «non aveva paura di niente. Era molto impegnata, seria, sola, non le interessavano le feste o cose del ge-nere».Intorno alla metà del 1958, Aleida ha modo di conoscere sulla Sierra dell’E-scambray il comandante Ernesto Che Guevara. Una volta a Santa Clara, luo-go natio di Aleida, la militante divenne la guida del Che all’interno della città, a lui pressoché sconosciuta: in questo periodo i due si avvicinarono, cono-scendosi meglio e avviando un solido rapporto.Dopo la vittoria della Rivoluzione, il Che e Aliucha – come lui la chiamava affettuosamente – dapprima convivo-no; poi, una volta che Guevara ottiene il divorzio da Hilda Gadea, si sposano il 2 giugno 1959 a L’Avana. La coppia avrà quattro bambini: Aleida, Camilo, Celia ed Ernesto.Attualmente Aleida è il presidente del centro studi “Che Guevara”, situa-to nella casa in cui vivevano insieme all’Avana.

LIDIA E CLODOMIRA, EROINE DEL SILENZIO

Lidia Doce Sánchez e Clodomira Aco-sta Ferrals, due militanti, coraggiose messaggere della Sierra Maestra, ri-mangono nella memoria per il loro valore e per la fedeltà alla Rivoluzione.Dal golpe del 10 marzo 1952, Lidia Doce manifesta la sua ribellione alla dittatura batistiana, e con lo sbarco del Granma decide di unirsi all’Eser-cito Ribelle. Secondo quanto racconta il Che, Lidia prende parte alle imprese della Rivoluzione con entusiasmo e devozione fin dal primo momento.Allo stesso modo Acosta, proveniente da una umile famiglia contadina del Cayayal, dal 1957 partecipa alla Rivo-luzione come militare dell’esercito di Fidel Castro, lottando in scontri ar-mati nella parte orientale e centrale di Cuba insieme a Guevara. Nel 1958 le viene assegnata la missione di messag-gera all’Avana, per fare da nesso tra la città e la montagna: qui conosce l’altra rivoluzionaria, Lidia Doce.L’11 settembre 1958 le due donne ven-gono catturate e torturate: il 17 settem-bre, moribonde e senza aver confessato nulla ai loro persecutori, vengono lan-ciate in mare dentro sacchi carichi di pietre e lasciate affondare. Guevara le ricorda così: «I loro corpi sono scom-parsi, stanno facendo il loro ultimo sogno Lidia e Clodomira, sicuramente insieme, come insieme lottarono fino agli ultimi giorni la grande battaglia per la libertà».

CELIA SÁNCHEZ, FLOR DE LA REVOLUCIÓN

Una delle donne più amate della Ri-voluzione Cubana è Celia Sánchez Manduley. Nata il 10 Maggio 1920 a Media Luna, in provincia di Granma, era soprannominata “la más hermosa y autóctona flor de la Revolución”.Celia inizia a prestare aiuto al suo intimo amico Fidel Castro e ai suoi compagni, detenuti in prigione dopo l’assalto alla Caserma Moncada (26 Luglio 1953). Nel 1955 fonda e dirige la sezione di Manzanillo del Movi-miento 26 de Julio, proponendosi suc-cessivamente per preparare attivamen-te il territorio allo sbarco dello Yacht Granma, proveniente dal Messico, con a bordo gli uomini che dettero il via alla Rivoluzione.Insieme a Frank País, (Santiago de Cuba 1934-1957), Celia organizza il primo contingente di rinforzi per i guerriglieri dalla Sierra Maestra e nel marzo del 1957 fa parte dei ribelli che operavano nella Sierra, occupandosi, insieme a Fidel, del comando generale del Movimiento 26 de Julio.Dopo la vittoria della rivoluzione, la-vorò come segretaria del Consejo de Ministros e più tardi come segreta-ria del Consejo de Estado. Nominata membro del Comité Central del parti-to dopo la sua fondazione, e deputata al Poder Popular , è morta l’11 gennaio del 1980.

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LA MORTE DEL CHE

di Julio Cortázar

Lettera a Roberto Fernández Retamar

Parigi, 29 Ottobre 1967

Miei carissimi Roberto, Adelaida:Ieri notte sono tornato a Parigi da Algeri. Solo ora, a casa mia, sono capace di scrivervi coerentemente; laggiù, in un mondo dove contava solo il lavoro, ho lasciato trascorrere i giorni come in un incubo, comprando giornali su giornali, senza volermi convincere, nel vedere quelle foto che tutti abbiamo visto, nel leggere le stesse notizie e nell’entrare, ora dopo ora, nella più dura delle realtà da accettare.È stato allora che mi è arrivato il tuo messaggio per telefono, Roberto, e mi sono dedicato a questo testo che avresti già dovuto ricevere e che ti invio nuovamente perché tu possa trovare il tempo di vederlo un’altra volta prima che venga stampato, poiché so quali sono i meccanismi del telex e quello che accade con le parole e con le frasi.Voglio dirti questo: non sono capace di scrivere quando qualcosa mi ferisce tanto, non sono, non sarò mai lo scrittore profes-sionale pronto a produrre quello che ci si aspetta da lui, quello che gli viene richiesto o quello che lui chiede disperatamente a se stesso. La verità è che la scrittura, oggi e di fronte a ciò, mi sembra la più banale delle arti, una specie di rifugio, quasi di dissimulazione, la sostituzione dell’insostituibile.Il Che è morto e a me non resta altro che il silenzio, chissà fino a quando; se ti ho inviato questo testo è stato perché eri tu che me lo chiedevi, e perché so quanto amavi il Che e quello che lui significava per te. Qui a Parigi ho trovato un telegramma di Lisandro Otero che mi chiede centocinquanta parole per Cuba. Così, centocinquanta parole, come se uno potesse toglierle dal portafoglio come monete. Non credo di poterle scrivere, sono vuoto e arido, e cadrei nella retorica. […] mi sento incapace di dire qualcosa di lui. Allora sto zitto.Hai ricevuto, spero, il telegramma che ti ho inviato prima del tuo messaggio. Era il mio unico modo per abbracciare te ed Adelaida, e tutti gli amici della Casa. E questo è per te, l’unica cosa che sono stato capace di scrivere in queste prime ore, questo che è nato come un poema e che desidero che tu tenga e che conservi affinché ci faccia sentire più vicini.

Che Io avevo un fratello

Non siamo mai vissuti vicini ma Non ha importanza.Io avevo un fratello

Che vagava per i monti Mentre io dormivo.

Gli ho voluto bene a modo mio, ho interpretato la sua voce

libera come l’acqua, ho camminato volta volta

vicino la sua ombra. Non ci siamo mai visti

Ma non aveva importanza, mio fratello sveglio mentre io dormivo,

mio fratello che mi indicava nella notte

la sua stella eletta.

Ci riscriveremo. Un grande abbraccio ad Adelaida. Per sempre.Julio.

(Traduzione di Samanta Catastini)

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Dai deserti del salnitro, dalle miniere sottomari-ne di carbone, dalle altu-re terribili dove si trova

il rame estratto con lavoro inumano dalle mani del mio popolo, è emerso un movimento liberatore di grandiosa ampiezza. Quel movimento ha portato alla presidenza del Cile un uomo chia-mato Salvador Allende, affinché riscat-tasse le nostre ricchezze dalle grinfie straniere. Dovunque sia stato, nei paesi più lon-tani, i popoli hanno ammirato il pre-sidente Allende e hanno elogiato lo straordinario pluralismo del nostro governo. Mai nella sede delle Nazioni Unite a New York, si è udita un’ovazio-ne come quella tributata al presidente del Cile dai delegati di tutto il mondo. Qui, in Cile, si stava costruendo, fra immense difficoltà, una società vera-

mente giusta, elevata sulla base della nostra sovranità, dal nostro orgoglio nazionale, dall’eroismo dei migliori abitanti del paese. Dalla nostra parte, dal lato della rivoluzione cilena, stava-no la costituzione e la legge, la demo-crazia e la speranza.Dall’altra parte non mancava nulla. C’erano arlecchini e pulcinella, pa-gliacci, terroristi con pistole e catene, frati falsi e militari degradati. Gli uni e gli altri giravano nel carosello della disperazione. Andavano tenendosi per mano il fascista Jarpa e i suoi cugini di Patria e Libertà, disposti a rompere la testa e a spaccare l’anima a chiunque, pur di recuperare la grande azienda: per loro il Cile era solo questo. Pur di rendere più ameno l’avanspettacolo ballavano assieme a un grande ban-chiere un po’ macchiato di sangue; il campione di rumba Gonzales Videla,

che a passo di danza, aveva consegna-to tempo fa il suo partito ai nemici del popolo. Adesso era Frei ad offrire il suo partito agli stessi nemici del po-polo seguendo la musica che questi gli suonavano. Ballava al suo fianco l’ex colonnello Viaux delle cui malefatte è stato complice. Questi i principali artisti della commedia. Avevano pre-parato i viveri dell’accaparramento, i miguelitos, la garrota e gli stessi pro-iettili che ieri avevano ferito a morte il nostro popolo a Iquique, a Ranquin, a Salvador, a Puerto Montt… e in al-tri posti. Gli assassini di Hernàn Mery ballavano con chi avrebbe dovuto di-fenderne la memoria. Ballavano con naturalezza, facendo finta di niente. Si sentivano offesi se venivano rimprove-rati per questi piccoli particolari.Il Cile ha una lunga storia civile con poche rivoluzioni e molti governi

Salvador Allendeattraverso gli scritti dei grandiautori latinoamericanidi Pablo Neruda

Il mio popolo è stato il più tradito di quest’epoca (da Confesso che ho vissuto)

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stabili, conservatori, mediocri. Molti presidenti piccoli e solo due presidenti grandi: Balmaceda e Allende. Curioso che entrambi provenissero dallo stes-so ceto, borghesia ricca, che qui si fa chiamare aristocrazia. Come uomini di principi, impegnati a ingrandire un paese rimpicciolito da una oligarchia mediocre, i due sono stati condannati a morire allo stesso modo. Balmaceda costretto al suicidio per essersi opposto alla svendita delle ricchezze del salnitro alle compagnie straniere. Allende assassinato per aver nazionalizzato l’altra ricchezza del sot-tosuolo cileno, il rame. In entrambi i casi l’oligarchia ha organizzato contro rivoluzioni sanguinose. In entrambi i casi i militari hanno svolto la funzione di una muta di cani da caccia. Le com-pagnie inglesi con Balmaceda, quelle nordamericane con Allende, hanno incitato e finanziato rivolte militari. Le abitazioni dei due presidenti sono state svaligiate per ordine dei nostri distinti aristocratici. I saloni di Balma-ceda distrutti a colpi d’ascia. La casa di Allende, grazie al progresso del mon-do, bombardata dai nostri eroici avia-tori. Eppure, questi due uomini erano molto diversi. Balmaceda, un oratore seducente. Aveva un aspetto imperio-so che lo spingeva all’esercizio solitario del comando. In ogni momento era circondato da nemici. Nell’ambiente in cui viveva manifestava una supe-riorità così grande, e così grande era la sua solitudine da essere quasi costretto a chiudersi in se stesso. Il popolo che doveva aiutarlo esisteva come forza, vale a dire non era organizzato. E il presidente finiva per essere condanna-to a comportarsi da sognatore illumi-nato: sogno di grandezza che è rimasto un sogno. Dopo il suo assassinio i ra-paci mercanti stranieri e i parlamenta-ri del suo paese hanno messo le mani sul salnitro: agli stranieri la proprietà e le concessioni, ai criollos ricche per-centuali. Incassati i trenta denari tutto è tornato alla normalità. Il sanguedi al-cune migliaia di uomini del popolo si è subito asciugato sui campi di battaglia. E gli operai più sfruttati del mondo, quelli delle regioni settentrionali del

Cile, hanno continuato a produrre im-mense quantità di sterline per la City di Londra. Allende non è mai stato un grande ora-tore. E come statista chiedeva sempre consiglio prima di prendere qualsiasi decisione. Un antidittatore, democra-tico per principio anche nelle piccole cose. Ha ereditato un paese non più abitato dagli idealisti principianti di Balmaceda; c’era una classe operaia consapevole, sapeva ciò che voleva. Ed Allende l’ha guidata da dirigen-te collettivo, un uomo che pur non provenendo dalle classi popolari, era il prodotto della lotte di queste classi contro la stagnazione e la corruzione degli sfruttatori. Ecco spiegate le cause e ragioni per le quali l’opera realizzata da Allende in cosi breve tempo è supe-riore a quella di Balmaceda; non solo, è anche più importante nella storia del Cile. La nazionalizzazione del rame ha una storia titanica. E lo è la distruzione dei monopoli, la radicale riforma agra-ria e moltri altri obiettivi realizzati dal suo governo essenzialmente collettivo. Le opere e le scelte di Allende, di in-cancellabile valore, hanno reso furio-si i nemici della nostra liberazione. Il simbolismo tragico di questa crisi si rivela nel bombardamento del palazzo del governo; fa pensare ai blitz dell’a-

viazione nazista contro indifese città straniere, spagnole, inglesi, russe; e adesso il crimen si ripete da noi: piloti cileni attaccano in picchiata il palazzo che da due secoli è il centro della vita civile del paese.Scrivo queste righe a soli tre giorni da fatti inqualificabili che hanno portato alla morte il mio grande compagno, caro presidente. Sul suo assassinio si è voluto fare silenzio; è stato sepolto se-gretamente. La versione degli aggres-sori è quella di un corpo inerte, con segni visibili di suicidio. La versione che raccontano all’estero è diversa. Im-mediatamente dopo il bombardamen-to aereo sono entrati in azione i carri armati, molti carri armati, impegnati a lottare intrepidamente contro un solo uomo: il presidente della repubblica. Allende li aspettava nel suo ufficio, avvolto dal fumo e dalle fiamme con la sola compagnia di un grande cuore.Dovevano approfittare di un’occasione così bella. Bisognava colpirlo, mitra-gliarlo perchè mai si sarebbe dimesso dalla carica che il popolo gli aveva as-segnato. Quel corpo è stato nascosto in un posto qualsiasi. E’ andato verso la sepoltura accompagnato da una sola donna, la moglie, sulle cui spalle pesa-va tutto il dolore del mondo.

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Nell’ora della battaglia fina-le, con il paese alla mercé delle forze della sovversio-ne, Salvador Allende con-

tinuò afferrato alla legalità.La contraddizione più drammatica della sua vita fu quella di essere, con-temporaneamente, nemico della vio-lenza ed appassionato rivoluzionario, e credeva di averla risolta con l’ipotesi che le condizioni del Cile consentivano una evoluzione pacifica verso il sociali-smo, all’interno della legalità borghese. L’esperienza gli insegnò troppo tar-di che non si può cambiare un si-stema dal governo, ma dal potere. Questa tardiva constatazione forse fu la forza che lo spinse a resistere fino alla morte, tra le macerie fumanti di una casa che non era nemmeno sua, una residenza costruita da un archi-tetto italiano destinata alla zecca dello

Stato, e terminò convertita in un ri-fugio per un Presidente senza potere. Resistette per sei ore, impugnando il mitra che gli aveva regalato Fidel Ca-stro, fu la prima arma che Salvador Al-lende usò in vita sua. Il giornalista Augusto Olivares che rimase al suo fianco sino alla fine, ri-cevette numerose ferite e morì dissan-guato in un ambulatorio pubblico.Verso le quattro del pomeriggio, il ge-nerale di divisione Javier Palacio, riu-scì ad occupare il secondo piano, con il suo aiutante capitano Gallardo e un gruppo di ufficiali. Lì, tra le poltrone finto Luigi XV, il vasellame di dragoni cinesi e i quadri di Rugenda del salone rosso, Salvador Allende stava aspet-tandoli. Aveva un casco da minatore, stava in maniche di camicia, senza cra-vatta e con i vestiti macchiati di san-

gue. Impugnava il mitra. Allende conosceva il generale Palacio. Pochi giorni prima aveva detto ad Au-gusto Olivares che quello era un uomo pericoloso, perché manteneva stretti contatti con l’ambasciata degli Sta-ti Uniti. Come lo vide apparire dalla scalinata, Allende gridò: “Traditore!” e gli riuscì di ferirlo ad una mano. Allende morì a seguito dello scambio di raffiche con questa pattuglia. Poi, tutti gli ufficiali, quasi seguendo un rito di casta, spararono sul suo corpo. Alla fine, un ufficiale lo sfigurò con il calcio di un fucile. Esiste una fotogra-fia: la scattò il fotografo Juan Enrique Lira, del giornale El Mercurio, l’unico autorizzato a fotografare il cadavere. Era tanto sfigurato che, alla signora Hortensia, sua moglie, mostrarono il corpo solo quando stava nella bara. E non permisero che scoprisse il volto. Allende aveva compiuto 64 anni in luglio, era un Leone tipico: tenace, de-ciso e imprevedibile. Quel che pensa Allende lo sa solo Allende, mi disse una volta un suo ministro. Amava la vita, amava i fiori e i cani, era di modi galanti come si usava in altri tempi.La sua maggiore virtù fu quella di es-sere conseguente, però il destino gli riservò la rara e tragica grandezza di morire difendendo con le armi l’ana-cronistico diritto borghese; difenden-do una Corte Suprema che lo aveva ripudiato e che poi legittimò i suoi assassini; difese un miserevole Parla-mento che aveva contestato la sua le-gittimità e che poi finì per arrendersi agli usurpatori; difendendo i partiti dell’opposizione che avevano già ven-duto la loro anima al fascismo; di-fendendo tutti gli ammennicoli di un sistema tarlato che si era impegnato ad annichilire senza sparare una sola pallottola. Il dramma accadde in Cile, per di-sgrazia dei cileni, però passerà alla storia come qualcosa che irrime-diabilmente coinvolse tutti gli uo-mini del tempo, destinato a rima-nere per sempre nelle nostre vite.

Martedì 11 settembre 1973

La vera morte di un Presidente (da Patria Grande)

di Gabriel García Márquez

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La trappola. Arrivano con le valigie diplomatiche i verdi bigliettoni che finanziano scioperi e sabotaggi e ca-scate di menzogne. Gli imprenditori paralizzano il Cile e gli tagliano gli alimenti. Non c’è altro mercato che il mercato nero. La gente fa lunghe file in cerca di un pacchetto di sigarette o di un chilo di zucchero; trovare carne o olio richiede un miracolo della Ver-gine Maria Santissima. La Democrazia Cristiana e il quotidiano «El Mercu-rio» dicono peste e corna del governo e chiedono a gran voce il colpo di stato redentore: ormai è ora di farla finita con questa tirannia rossa; gli fanno eco altri quotidiani e riviste e radio e canali televisivi. Il governo fa fatica a muoversi: giudici e parlamentari gli mettono i bastoni tra le ruote, mentre nelle caserme complottano i capi mili-tari che Allende crede leali. In questi tempi difficili i lavoratori stanno scoprendo i segreti dell’econo-mia. Stanno imparando che non è im-possibile produrre senza padroni, né

approvvigionarsi senza mercanti. Ma la moltitudine operaia marcia senza armi, a mani vuote, sulla strada della sua liberazione. Dall’orizzonte avanzano navi da guer-ra degli Stati Uniti, e si presentano da-vanti alle coste cilene. E il golpe milita-re, tanto annunciato, avviene.

Allende. Gli piace la bella vita. Ha af-fermato più volte di non avere la stoffa dell’apostolo né le qualità del martire. Ma ha anche detto che vale la pena di morire per tutto ciò senza di cui non vale la pena di vivere. I generali ribelli gli chiedono le dimis-sioni. Gli offrono un aereo per lascia-re il Cile. Lo avvertono che il palazzo presidenziale sarà bombardato da ter-ra e dall’aria. Insieme a un pugno di uomini, Salva-dor Allende ascolta le notizie. I milita-ri si sono impossessati di tutto il paese. Allende si mette un elmetto e prepara il fucile. Risuona il fragore delle prime bombe. Il presidente parla alla radio,

per l’ultima volta: - Non cederò...

«Si apriranno i grandi viali», annun-cia Salvador Allende nel suo messag-gio finale. Non cederò. Sono venuto a trovarmi in un momento critico della nostra storia, e pagherò con la vita la lealtà del popolo. E vi dico che il seme che consegneremo alla coscienza e alla dignità di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere completamente di-strutto. Loro hanno la forza. Potranno asservirci, ma i processi sociali non si fermano con il crimine e con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli... Lavoratori della mia patria: ho fiducia nel Cile e nel suo destino. Altri uomi-ni supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Andate avanti, sapendo che, più presto di quanto si pensi, si apriran-no di nuovo i grandi viali per lasciar passare l’uomo libero di costruire una società migliore. Viva il Cile, viva il po-polo, viva i lavoratori! Queste sono le

1973, Santiago del Cile (da Memoria del fuoco / Il secolo del vento)

di Eduardo Galeano

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mie ultime parole. Ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano.

La casa di Allende. Prima del palaz-zo presidenziale hanno bombardato la casa di Allende. Dopo le bombe i militari sono entrati per distruggere quel che restava: a col-pi di baionetta si sono avventati contro i quadri di Matta, Guayasamin e Por-tocarrero, e a colpi d’ascia hanno fra-cassato i mobili. È passata una settimana. La casa è un immondezzaio. Sparse dappertutto, braccia e gambe delle armature di fer-ro che adornavano la scala. Disteso a gambe larghe nella camera da letto, un soldato russa smaltendo la sbronza, circondato di bottiglie vuote. Nel soggiorno, si odono lamenti e an-simi. Lì è ancora in piedi, tutta spap-polata ma in piedi, una grande poltro-na gialla. Sulla poltrona la cagna degli Allende sta partorendo. I cuccioli, an-cora ciechi, cercano il caldo e il latte. Lei li lecca. La casa di Neruda. In mezzo alla de-vastazione, nella sua casa anch’essa fat-ta a pezzi a colpi d’ascia, giace Neruda, morto di cancro, morto di pena. La sua morte non bastava, poiché Neru-da è uomo di lunga sopravvivenza, e i militari gli hanno assassinato le cose: hanno ridotto in frantumi il suo letto felice e la sua tavola felice, hanno sven-trato il materasso e hanno bruciato i li-bri, hanno spaccato le sue lampade e le sue bottiglie colorate, i suoi vasi, i suoi quadri, le sue conchiglie. All’orologio a muro hanno strappato il pendolo e le lancette; e hanno conficcato la baio-netta in un occhio del ritratto di sua moglie. Dalla sua casa rasa al suolo, inondata d’acqua e di fango, il poeta parte per il cimitero. Lo scorta un corteo di amici intimi, capeggiati da Matilde Urrutia. (Lui le aveva detto: Fu così bello vivere quando vivevi.) A ogni nuovo isolato, il corteo cresce. A tutti gli incroci si aggiungono perso-ne che si mettono a camminare nono-stante i camion militari irti di mitra-gliatrici e i carabineros e i soldati che

vanno e vengono, su motociclette e au-toblinde, che fanno rumore, che fan-no paura. Da dietro qualche finestra, una mano saluta. Dall’alto di qualche balcone, sventola un fazzoletto. Oggi sono passati dodici giorni dal colpo di Stato, dodici giorni di tacere e morire, e per la prima volta si ode l’Internazio-nale in Cile, l’Internazionale mugolata, pianta, singhiozzata più che cantata,

finché il corteo diventa processione e la processione diventa manifestazio-ne e il popolo, che cammina contro la paura, comincia a cantare per le strade di Santiago a perdifiato, a voce piena, per accompagnare come si deve Ne-ruda, il poeta, il suo poeta, nell’ultimo viaggio.

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IN VENEZUELA

Emperatriz Guzman, alias Chepa. Terzo comandante del Frente Guerrillero Amèrico Silva. Sor Fanny Alonso, 32

anni. Carmen Rosa Garcia, 19 anni.... Tre guerrigliere venezuelane, uccise durante il massacro di Cautaura, nel-lo stato Anzoategui, il 4 ottobre del 1982. Militanti del gruppo Bandera Roja, nato nel 1970 da una scissione del Movimiento de Izquierda Revo-lucionaria (Mir). Trent’anni dopo, un libro della Defensoria del Pueblo, diretta da Gabriela del Mar Ramirez, ricostruisce quei fatti e spiega: “Per l’elevato numero di vittime – 23 – e per la violenza dimostrata dallo stato, il massacro di Cantaura costituisce il primo di quattro eventi emblematici,

durante la decade degli anni ‘80, che mostrano come la violazione sistema-tica dei diritti umani in Venezuela fu parte di una politica strutturata, co-sciente e pianificata nelle più alte sfere di potere tra il 1958 e il 1998. In meno di dieci anni seguiranno il massacro di Yumare (8 maggio 1986), quello di El Amparo (29 ottobre del 1988) e il più grave di tutti: la mattanza del 27 feb-braio del 1989 – il Caracazo -, di cui chissà mai se arriveremo a conoscere il numero esatto delle vittime”. Nel 2006, la Procuratrice generale, Luisa Ortega Diaz, ha creato una com-missione della magistratura per inda-gare sui crimini commessi durante la IV Repubblica. I familiari delle vittime hanno potuto ritrovare i corpi di alcu-ni scomparsi e ristabilire la verità sto-rica. Un lavoro che ha portato all’ap-

provazione della Legge contro l’Oblìo, diventata operativa alla fine del 2012. Una legge che rivendica il diritto dei popoli a ribellarsi, anche con le armi, e anche contro le “democrazie camuffa-te”: perché la lotta armata in Venezuela non si è rivolta contro regimi dittato-riali, ma contro governi usciti dalle urne, spesso lodati dagli Usa. “Noel Rodriguez è tornato, abbiamo trovato i suoi resti”, ha annunciato Or-tega Diaz nel gennaio del 2013. Noel Rodriguez, un giovane di 27 anni at-tivo nelle lotte sociali e militante del gruppo armato Bandera Roja, scom-parve il 29 giugno del 1973: durante uno dei governi presieduto da Rafael Caldera (1969-’74), che continuò la politica repressiva iniziata dai gover-ni di Romulo Betancourt (1959-’64), e di Raul Leoni (1964-’69). I resti del

Storie di guerrillerosdi Geraldina Colotti

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ragazzo hanno ricevuto un funerale di stato. In quell’occasione, la Fiscal Ge-neral ha annunciato il ritrovamento di altri resti (studenti, sindacalisti, conta-dini, combattenti in armi o impegnati nelle lotte sociali), scomparsi dal ’58 al ’98: ovvero dalla caduta del dittato-re Marco Perez Jimenez, il 23 gennaio del ’58, e per tutto il periodo dell’alter-nanza di governo tra centrodestra e centrosinistra, nata dal Patto di Punto Fijo. Un patto fondato sull’esclusione dei comunisti dal governo, in base ai dettami di Washington.Gli esami hanno appurato che Rodri-guez è morto per le torture subite, il 29 luglio del ’73, un mese dopo essere stato sequestrato dalla Direccion de Inteligencia Militar (Dim). L’ex agente della Dim, Felipe Diaz Marin, ha con-sentito di ricostruire i fatti.Secondo le testimonianze di alcuni militari, Victor Soto Rojas (fratello del deputato Fernando Soto Rojas) venne invece gettato da un elicottero mentre era ancora vivo. Scomparve nel luglio del 1964, dopo esser stato arrestato a Caracas dalla polizia politica e portato al Comando militare.Emperatriz, Noel e Victor sono tre simboli della lunga resistenza armata

che si è sviluppata in Venezuela du-rante i governi della IV Repubblica e che – seppur a ranghi ridotti e divisi – è continuata fino agli anni ‘80-90: aggiungendo altre sigle a quelle pri-me guerriglie (come il gruppo Punto Cero oppure la Organizacion de re-volucionarios (Or) in cui ha militato Fernando Soto Rojas). Un impegno generoso che non ha creduto nei pro-cessi di pacificazione che hanno visto rientrare nelle istituzioni gran parte delle formazioni: finché la ribellione civico-militare animata dall’allora te-nente colonnello Hugo Chavez non ha portato a sintesi la rivolta degli ufficia-li progressisti, schierati a fianco delle guerriglie, e i vari filoni del marxismo, in lotta contro quel sistema di potere. La guerriglia degli anni ‘60 – del cui percorso è impossibile dar conto qui in poco spazio – si è fatta le ossa du-rante la resistenza alla dittatura di Marco Pérez Jimenez e ha preso for-ma nella contestazione alle politiche pro-Usa di Romulo Betancourt, a metà degli anni ‘60: nel contesto della Guerra fredda, in corso allora tra Usa e Unione sovietica, tra democrazia borghese e socialismo. Il ‘62 fu l’anno dell’insurrezionalismo civico-militare,

ma già nel 1961, il Pcv e il Mir avevano adottato la lotta armata per conquista-re il potere politico, contando anche sull’appoggio del gruppo di sinistra della Union Republicana Democratica (Urd), diretta dal giornalista Fabrizio Ojeda. Prima di essere eletto in parla-mento per la Urd, Ojeda, in clandesti-nità, aveva guidato la Junta Patriotica, l’organizzazione che portò alla caduta della dittatura. Nel ‘62, lascia l’inca-rico di parlamentare e, nelle Ande, organizza un fronte guerrigliero delle Forze armate di liberazione nazionale (Faln), in contatto con il comandante Douglas Bravo. Il 20 giugno del 1966 viene catturato e ucciso. Per la polizia, si tratta di suicidio. Il 15 novembre del 2012, i resti vengono riesumati per or-dine del Ministerio Publico. E si riapre l’inchiesta sulla sua morte, archiviata per 46 anni.

IDENTITÀ LATINOAMERICANAE GUERRILLA

La lotta di guerriglia è antica quanto l’America latina, e ha preso forma anche prima del-la Conquista. Ma è solo con

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l’arrivo della dominazione europea che la presenza dei guerriglieri si è genera-lizzata per tutto il Continente. Lo stes-so Bolivar si servì di questa forma di lotta. Nel XX secolo, basti pensare alle figure di Pancho Villa o Emiliano Za-pata in Messico. Ma fu soprattutto con la vittoria della Rivoluzione socialista in Unione sovietica, nell’Ottobre 1917, che si aprì una speranza per i popoli oppressi in tutto il mondo. Il movimento guerrigliero contem-poraneo in America latina nasce con Sandino in Nicaragua e continua nel Salvador e poi a Cuba. Nel ‘59, la vit-toria della rivoluzione cubana spinge alla lotta insurrezionale i rivoluziona-ri di tutta l’America latina, ai quali si aggiungono ufficiali progressisti e altre tendenze avanzate, che abbracciano il marxismo-leninismo di fronte alla crisi dei vecchi partiti borghesi. Al-

lora nascono guerriglie in Venezuela, Guatemala, Colombia, Perù, Bolivia, dove Che Guevara perderà la vita. In quegli anni, Movimenti di liberazione nazionale costruiscono una speranza di riscatto anche in Asia e in Africa. E’ il contesto della Guerra fredda tra Stati uniti e Unione sovietica: tra il campo della democrazia borghese e quello del socialismo. Una lotta senza quartiere. Gli Usa affidano il controllo del loro “cortile di casa” ai dittatori del Cono Sur, che impesteranno gran par-te del continente negli anni ‘70 e ‘80, e a strutture criminali come la rete del Piano Condor.Nel caso del Venezuela, le prime ge-sta di guerriglia rimandano alla figu-ra di Guaicaipuro, leader dei popoli indigeni in lotta contro l’invasore, e a quelle del Negro Felipe, simbolo del-la resistenza dei popoli in catene del

continente africano. E proseguono poi con Simón Bolívar, Leonardo Chirino, Ezequiel Zamora.... Il loro esempio risuona nelle monta-gne dello stato Lara dove, nel 1926, na-sce la prima cellula comunista che, nel 1931 darà luogo al Partito comunista del Venezuela, nella città di El Tocuyo. Dalla rivolta indigena del 1960, guida-ta da “El Indio” Jacinto Romero, nasce il nucleo fondatore del fronte guerri-gliero Simon Bolivar, alla fine del ‘61. Alle gesta di quei primi “libertadores” si ispirerà Hugo Chávez per costruire una nuova speranza: quella del sociali-smo bolivariano. Il socialismo del XXI secolo.

*Scrittrice e giornalista de Le Monde Diplomatique / Il Manifesto

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Questa pubblicazione, di distribuzione gratuita, è stata realizzata dal Consolato Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli nel mese di ottobre 2014.