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estratto dal libro l’amore di Dio per noi e la nostra risposta Ciclo pittorico nella chiesa di San Giovanni di Dio Affreschi di Piero Dani (Sovizzo - Vicenza)

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estratto dal libro

l’amore di Dio per noi e la nostra risposta

Ciclo pittorico nella chiesa di San Giovanni di Dio

Affreschi di Piero Dani (Sovizzo - Vicenza)

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La

Bibbia dei Poverinella Chiesa di San Giovanni di Dio

Centro Servizi U.L.S.S. N. 4 Alto VicentinoVia Europa Unita - Montecchio Precalcino

(Vicenza)

commento agli affreschi di don Giandomenico Tamiozzo

foto e grafica di Dino Meneguzzo

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Questa nostra fatica è un grazie ai primi catechisti:

i nostri genitori

L’utilizzo delle foto degli affreschi di Piero Dani della chiesa di San Giovanni di Dio è stato autorizzato dalla direzione dell ’U.L.S.S. n.4 dell ’Alto

Vicentino

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DEDICA

Perché questo volume e questi dipinti.

Anzitutto per rendere grazie a Dio che ci ha fatto dono dell’esistenza e che, con piano ancor più mirabile, ci ha redento nel Figlio suo e Signor Nostro Gesù Cristo, nato da Maria di Nazaret per opera di Spirito Santo. Questa opera pittorica, conosciuta nella tradizione come “Biblia Pauperum” (la Bibbia dei poveri), vorrebbe essere un canto di lode al Dio di ogni misericordia e consolazione.

Questo volume è dedicato a coloro che vivono sul Calvario-Tabor di Montecchio Precalcino, ospiti ed amici del Centro Servizi, e per quanti, “piccoli” come loro, sono chiamati a “comprendere i segreti del Regno di Dio”.

don Giandomenico Tamiozzo

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Abside della chiesa di San Giovanni di Dio

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CAPITOLO PRIMO

PARETE SINISTRA

SCENE DELL’ANTICO TESTAMENTO

Come già detto nel testo introduttivo, sono rappresentate nella vela sinistra scene dell’Antico Testamento, suddivise a ritmo di tre, che illustrano l’armonia con Dio, con l’uomo e con la natura.

Iniziamo dal lato superiore.

La fila superiore del dipinto rappresenta la creazione (l’armonia piena dell’uomo con Dio, con la natura e con il proprio simile).

La seconda fila rappresenta la rottura dell’armonia, la cacciata dal giardino dell’Eden, il peccato di Caino, l’orgoglio della torre di Babele, il diluvio. È la rottura dell’armonia con Dio (cacciata), con l’uomo (Caino ed Abele), con la natura (diluvio).

La terza fila illustra la ricomposizione dell’armonia mediante le tre alleanze di Dio con Noè, Abramo e Mosè.

La quarta ed ultima serie in basso riprende alcuni soggetti simbolo dell’Antico Testamento e due scene particolarmente significative per i “fedeli” della Comunità del Centro Servizi di Montecchio Precalcino. Da sinistra a destra: le tre figure tipo dell’Antico Testamento (il profeta, il re, il sacerdote); seguono una scena dal libro di Giobbe ed una scena dal libro di Tobia, quando il giovane Tobia ritorna a casa e cura il vecchio babbo. Infine all’estrema destra è dipinto il profeta Isaia cantore del Messia e, accanto, Giovanni Battista, il precursore di Gesù, ponte tra l’Antico ed il Nuovo Testamento.

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Parete sinistra dell’abside

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Prima fila di quadri dall'alto: il trittico della Creazione - la piena armonia con Dio, con la natura, col proprio simile

I primi tre quadri rappresentano le tre grandi armonie in una mirabile unità pittorica e tematica. In realtà ci troviamo di fronte ad un unico grande quadro di sei metri e mezzo di lunghezza per uno e mezzo di altezza, rappresentante la creazione dell'uomo, degli animali e della donna.

Scomponendo i tre momenti, abbiamo all'inizio l'atto creatore di Dio che plasma l'uomo e gli soffia l'alito vivificante con la scritta “facciamol'uomo a nostra immagine”; nella parte centrale l'uomo a cavallo campeggia quale “signore” del creato, ma non despota, bensì “custode”, che si prende cura anche dell'agnellino accovacciato in grembo; nell'estrema destra c'è la coppia umana abbracciata con tenerezza in mezzo ad un mare di fiori, simbolo dell'esaltante bellezza dell'armonia familiare e sponsale.

Da notare, sul lato destro della coppia abbracciata, l'immagine di Cristo, Alfa e Omega del creato e della storia. È Lui che santifica il tutto ed è per Lui che tutto esiste e fu fatto. Nell'angolo superiore sinistro sono riportate le parole iniziali del prologo di San Giovanni, quasi fossero la proclamazione di un tema musicale che apre tutta la sinfonia cosmica e la storia della salvezza: “In principio era il Verbo”.

La scena sembra resa ancor più mossa e fresca per il fiume che scorre ai piedi della seconda parte del quadro, quel fiume di cui parla la stessa Genesi al cap. 2, e che, dopo aver irrigato il giardino dell'Eden, si divide in quattro fiumi: il Pison, il Ghicon, il Tigri e l'Eufrate (cfr. Gn 2,10-14).

Le scritte che accompagnano l'intera opera pittorica dell'abside, prese, quasi sempre, dal Nuovo Testamento, per tentare una lettura cristologica di tutta la storia della salvezza, sono riportate in grassetto. Una prima frase di Paolo nella Lettera ai Romani, trascritta sul bordo superiore del quadro, riconosce l'origine, la sussistenza e lo scopo divini di tutto il creato, e suona pertanto come una lode di ringraziamento: “Tutto viene da Te, tutto esiste grazie a Te, tutto tende verso di Te” (Rm 11,36).

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La Creazione

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Seconda fila di quadri: la triplice rottura dell'armonia con Dio, con l'uomo, con la natura

��La rottura dell'armonia con Dio: Adamo ed Eva

Il primo quadro della seconda fila è diviso in due parti: a sinistra è simboleggiato il giardino dell'Eden, ricco di colori, frutta, fiori e luce; a destra sono rappresentati Adamo ed Eva, con il volto pieno di tristezza e di nostalgia, avvolti dalla tonalità grigia, simbolo della sofferenza che colpisce l'uomo lontano da Dio. Nel quadro predominano due angeli, due cherubini, che, come dice il testo biblico, furono posti di sentinella ad oriente del giardino dell'Eden con una spada fiammeggiante. Essi dovevano impedire l'accesso all'albero della vita (cfr. Gn 3,24). È lo stesso “albero della vita” che sarà rappresentato nell'ultimo quadro della terza serie (quella del Nuovo Testamento) sulla parete destra del presbiterio, e del quale si parla nell'ultimo capitolo dell'Apocalisse di San Giovanni, “un albero, quello descritto dall’Apocalisse, che dà i suoi frutti dodici volte all'anno, per ciascun mese il suo frutto, ed il cui fogliame guarisce le nazioni” (Ap 22,2). Uno dei due cherubini porta la spada infiammata, probabile raffigurazione del fulmine, da sempre inteso come uno dei segni della potenza luminosa di Dio. Il secondo angelo, con la lancia, colpisce il drago, il serpente antico, il bugiardo fin dagli inizi, che inganna l'umanità, ma della cui sconfitta si parla ampiamente al cap. 12 dell'Apocalisse, sconfitta già predetta nel cosiddetto proto-evangelo contenuto nelle parole di Dio al serpente: “Per quel che hai fatto […]striscerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni. Metterò inimicizia tra te e la donna, tra la tua e la sua discendenza. Questa discendenza ti colpirà al capo e tu la colpirai al calcagno” (Gn 3,14-15).

Particolarmente significativi sono i testi biblici che spiegano le immagini. Anzitutto in alto sono riportate le parole del salmo 73,27 che esprimono la tragedia di chi si trova lontano da Dio: “Chi è lontano da te è perduto”. Il versetto continua: “…e tu distruggi chi si prostituisce lontano da te. Ma per me è bello stare vicino a Dio…”. Accanto al volto di Adamo c'è quella parola di Dio: “Suderai […] per procurarti il pane” (Gn 3,19) e sul ventre di Eva incinta, vengono predette le doglie del parto: “Sarai in doglie[…] e partorirai figli con dolori” (Gn 3,16). Le parole che più sintetizzano il senso del travaglio della natura e dell'uomo stesso, in attesa del pieno rivelarsi della salvezza operata in Cristo, sono quelle scritte ai piedi del quadro: “Tuttala creazione soffre e anche noi gemiamo, aspettando l'adozione a figli” (Rm 8,22-23).

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Adamo ed Eva: la cacciata dal Paradiso terrestre

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��La rottura dell'armonia con l'uomo: Caino ed Abele, la torre di Babele

Il secondo quadro della seconda fila è anch'esso diviso in due parti. La prima è una scena di violenza, con la figura di Abele, a destra, l'innocente ucciso dal fratello, simbolo di Cristo, e Caino, a sinistra, con la mano insanguinata, ricoperto dal mantello, simbolo del suo vagabondaggio di punizione (cfr. Gn 4,12), in quell'atteggiamento disinvolto e irresponsabile, espressione della risposta data a Dio quando gli chiese: “Dov'è tuo fratello?”.“Non so - rispose Caino - sono forse io il custode di mio fratello?” (Gn 4, 9).

La seconda parte del quadro rappresenta la torre di Babele, di cui pure si parla nel libro della Genesi al cap. 11. L'uomo è da sempre tentato dall'orgoglio e dal desiderio di gloria: “Forza, costruiamoci una città. Faremouna torre alta fino al cielo” (Gn 11,4). Quasi un desiderio di onnipotenza, mescolato probabilmente al bisogno d'immortalità che ci caratterizza dentro. Quella torre è il simbolo dell'umanità, quando non sa ascoltare e vivere il limite umano e vorrebbe strafare, vorrebbe essere un piccolo dio, pur sapendo che basta un terremoto, o una piena d'acqua, o anche solo un microrganismo a ridurre in polvere la tracotanza umana.

Alla costruzione di Babele è legata la tradizione della divisione delle lingue. Il nome stesso di Babele significa “confusione”. Essa rimarrà per sempre simbolo di un peccato d'orgoglio, radice questo di ogni divisione. Solo l'umiltà è capace di unire, l'orgoglio divide. Le persone ai piedi della torre sono immagini di uomini amorfi, tutti uguali, tutti scuri. Non sono più persone, vivono l'incomunicabilità. Violenza quindi, mossa dall'invidia e dal rancore, da una parte; incomunicabilità e divisione, causati dall'orgoglio e dal desiderio di supremazia, dall'altra; ecco due cause radicali della rottura dell'armonia umana.

Il colore base del quadro è grigio-scuro, segno della disarmonia. È il colore della tristezza e della non-pace.

La frase che illustra il rapporto violento di Caino con Abele è la citazione di un testo giovanneo, dove l'apostolo, parlando della necessità di volersi bene, invita i cristiani ad amare il prossimo: “Dobbiamo amarci e non essere come Caino” (1 Gv 3,11). E l'apostolo Giovanni domanda: “Sapeteperché Caino uccise Abele? Perché le opere di Caino erano cattive e quelle di Abele erano buone” (1 Gv 3,12).

La frase posta sotto la torre di Babele è una sentenza di Gesù, riportata dall'evangelista Matteo, nel contesto del grande discorso contro i farisei che amavano essere considerati gente importante, avere i primi posti ed essere chiamati “maestri”: “Chi si esalta sarà umiliato” (Mt 23,12).

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Caino ed Abele: la torre di Babele

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��La rottura dell'armonia con la natura: il Diluvio

Il Diluvio è raccontato nel libro della Genesi e occupa ben quattro dei famosi primi undici capitoli della Genesi (6-9). L'autore biblico, a partire da tradizioni orali precedenti, riflette sull'origine del mondo e sulla creazione dell'uomo posto da Dio come signore del creato, eppure incline al male a partire dalla prima disobbedienza al Creatore. Quando “la malvagità dell'uomo divenne grande sulla terra” (Gn 6,5), Dio quasi si pentì di aver creato l'uomo e decise di annientarlo, assieme agli animali. “Tuttavia Noè uomo giusto ed integro, che camminava con Dio, trovò grazia agli occhi del Signore” (Gn 6,8-9). E fu a Noè che Dio comandò di costruire l'arca per salvare la sua famiglia e una coppia di ogni tipo di animali onde ripopolare la terra.

Per illustrare tale evento, in particolare la rottura dell'armonia con la natura, il pittore ha dato grande spazio alla parte inferiore del quadro, riempito d'acqua, con immagini di morte e di distruzione: uomini, uccelli e animali morti, piante spezzate e distrutte, città sommerse.

Al centro superiore della scena galleggia l'arca, nella quale è scritto un verso del salmo 32: “Tu sei il mio luogo di riparo”. I Padri della Chiesa hanno visto nell'arca la prefigurazione della Chiesa che dà rifugio all'umanità e la conduce a salvezza. Sotto l'arca, sulla superficie dell'acqua, è riportata una seconda frase presa dalla Prima Lettera di Pietro e che fa parte di un contesto più ampio nel quale il principe degli apostoli riflette sulla salvezza operata da Cristo e partecipata a noi attraverso il sacramento del battesimo, “prefigurato” dall'acqua del diluvio che purificò l'umanità. Ecco il testo: “…essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l'arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell'acqua. Figura, questa,del battesimo che ora salva voi…” (1 Pt 3,20-21).

Ed infine la terza scritta, alla base del quadro: “non ci abbandonare fino in fondo, per amore del tuo nome”. Questa frase - presa da Daniele (3,34) - è stata scelta perché esprime il “fondo” a cui si può arrivare senza Dio, o contro Dio, sia nel senso morale che esistenziale, similmente a queste carcasse di morti diluviani nel “fondo” del mare. L'invocazione del profeta Daniele, d'altro lato, è un grido di aiuto e di lode a Dio, nella certezza della sua misericordia onnipotente, certezza che risuona nel cantico di Azaria, salvato dalle fiamme della fornace di fuoco, dove era stato gettato da Nabucodonosor,re dei Caldei, assieme a Daniele, Misaele e Anania.

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Il diluvio universale

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Terza fila di quadri: la ricomposizione dell'armonia - le tre alleanze di Dio con Noè, con Abramo, con Mosè

��L'alleanza cosmica con Noè

L'alleanza è un concetto-evento chiave per intendere la Bibbia e tutta la storia della salvezza. Dio più volte ha rinnovato il patto di alleanza, di amicizia con l'umanità, fino a quella “nuova ed eterna alleanza” siglata nel sangue del suo Figlio Unigenito sulla Croce del Calvario, e della quale rimane “memoriale indelebile e riconoscente” l'eucaristia: “Questo è il calice del mio sangue, della nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”.

Il quadro che abbiamo di fronte dipinge la prima alleanza di Dio con l'umanità, in un contesto di riconciliazione cosmica, di cui l'arcobaleno è il simbolo glorioso.

Ecco il testo del libro della Genesi che ufficializza tale alleanza di Dio: “Io stabilisco un'alleanza con voi e con tutti i vostri discendenti e con gli esseri viventi intorno a voi, uccelli, bestie selvatiche e domestiche…Mi impegno a questo con voi: nessun essere verrà mai più distrutto dalle acque del diluvio; esse non allagheranno mai più la terra per distruggerla. Ecco vi dò un segno dell'alleanza: il mio arco pongo sulle nubi, segno dell'alleanza tra me e la terra” (Gn 9,9-13).

Nel quadro, come dice la Prima Lettera di Pietro (3,20-21), sono raffigurati Noè con la moglie e i tre figli di Noè, Sem, Cam, Iafet, e le rispettive mogli (e figli); sullo sfondo l'arca dalla quale pian piano, quasi in processione di gratitudine, stanno uscendo i vari animali. Al centro c'è una ragazzina che tiene in mano una cascata di fiori, simbolo della gratitudine dell'umanità al Dio della salvezza. Nella Genesi si parla di un sacrificio cruento di animali e di uccelli che Noè bruciò sull'altare in segno di riconoscenza (Gn 8,20-21). Degli animali qui si dà risalto a dei gattini in omaggio all'amore di alcune donne amiche-ospiti del Centro Servizi, che si danno da fare per nutrire queste bestioline intelligenti e sornione, loro cara compagnia.

Da notare l'atteggiamento ieratico di Noè, vestito di bianco e di rosso, in atteggiamento sacerdotale e quasi prefigurazione dell'Unico ed Eterno Sacerdote, Gesù. Il colore bianco simboleggia la purezza totale, mentre il rosso è simbolo del sacrificio della croce.

La frase che illustra il quadro è quella già citata sopra, in corsivo, che menziona l'arcobaleno quale segno dell'alleanza di Dio con l'uomo e la natura.

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L’alleanza con Noè

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��L'alleanza con Abramo

Il quadro che rappresenta l'alleanza di Dio con Abramo è forse uno dei più complessi, sia dal punto di vista teologico che pittorico. Nella sua parte centrale, che raffigura i tre personaggi misteriosi che visitarono Abramopresso la quercia di Mamre (Gn 18,1-15), il dipinto si ispira alla grande icona di Andrej Rublëv, conosciuta come la “Trinità di Rublëv”, il più grande iconografo della tradizione russa.

A sinistra, accanto ai tre personaggi centrali, dietro alla tenda, c'è Sara, la moglie di Abramo, sterile ed anziana. Quando essa udì che il Signore aveva promesso che “avrebbe tenuto in braccio un figlio, da lì ad un anno”, sorrise incredula. Il volto di Sara è sorpreso, con una smorfia di sorriso. Sopra di lei c'è la frase che il Signore pronunciò commentando il suo sorriso e le sue parole: “Perché Sara ride? Pensa davvero di non poter avere figli nella sua vecchiaia? Vi è forse qualcosa di impossibile per il Signore? (Gn 18,13-14).

Alla destra dei Tre c'è Abramo, il “gigante della fede”, una fede esemplare che viene espressa nella frase citata ai piedi del quadro: “Abramoebbe fede contro ogni speranza” (Rm 4,18). Egli, a differenza di Sara, è umilmente inchinato con le mani incrociate sul petto e con il volto grato a Dio per la sua promessa.

Di Abramo vanno notati i colori nero del mantello e rosso della tunica, colori che corrispondono a quelli stessi di Maria nel grande quadro della Pentecoste, e che rappresentano umiltà (nero) e gloria (rosso). Abramo è alquanto sproporzionato come statura di fronte ai tre personaggi divini, segno della sua sottomissione ai voleri di Dio e della piccolezza dell'uomo di fronte al mistero di Dio, il quale, pur essendo ospite e vicino all'uomo, rimane sempre il TotalmenteAltro.

Ma il quadro non termina qui. Non si può parlare di Abramo senza menzionare le figure di Isacco e di Giacobbe, gli altri due patriarchi. Isacco è presente nella promessa del Signore: “l'anno prossimo avrai un figlio”, che sarà appunto Isacco. La vicenda invece di Giacobbe, il nipote che continuò la discendenza abramica e che porterà anche il nome di Israele, è descritta nella fascia ristretta alla destra della scena principale, divisa a sua volta in due sezioni. Quella superiore raffigura il sogno che Giacobbe fece mentre era in viaggio verso la Mesopotamia, in cerca di moglie tra il suo parentado. Di questo sogno, con la famosa scala sulla quale scendevano e salivano gli angeli a Dio, si parla in Gn 28.

Appena sopra la testa di Giacobbe che sogna, è scritta quella richiesta audace che a volte il credente biblico, primo fra tutti Mosè (Es 33,18), osa rivolgere al suo Dio: “Signore mostrami il tuo volto”. L'esperienza di Giacobbe fu, infatti, una esperienza mistica nella quale il patriarca sperimentò la presenza di Dio che gli diceva: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo e di

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L’alleanza con Abramo

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Isacco... Io sono con te, ti proteggerò ovunque andrai...” (Gn 28,13-15).La scena inferiore rappresenta Giuseppe con in mano la tunica

insanguinata dai fratelli. La scritta “è la tunica di mio figlio” riporta l’esclamazione di Giacobbe alla vista dell’indumento. Giuseppe non fu ucciso ma venduto a dei mercanti in viaggio verso l'Egitto. Dietro a Giuseppe c'è anche un pozzo, il famoso “pozzo di Giacobbe” di cui si parla nel vangelo di Giovanni al cap. 4, quando Gesù incontra la Samaritana (Gv 4,6-7), ma qui ricorda la cisterna dove fu fatto calare Giuseppe prima di essere venduto come schiavo.

Da notare che in questo quadro appaiono per la prima volta dei volti di persone che hanno vissuto o vivono tuttora nel Centro Servizi. Ricordiamo in particolare che il volto di Giuseppe con la tunica insanguinata riproduce le sembianze di un giovane infermiere, originario di Levà di Montecchio Precalcino, che morì improvvisamente nel 1990 durante l'esecuzione dei dipinti. Anche il volto di Sara, la moglie di Abramo, ha il volto di una signora ospite del Centro Servizi.

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��L'alleanza con Mosè

Il terzo dipinto della terza fila è un quadro ricchissimo di contenuti biblici che condensa gli eventi principali del libro dell'Esodo e che si impernia sulla grande figura di Mosè, colui che Dio aveva scelto per vie misteriose (cfr.Gn cap. 2), affinché fosse il liberatore del suo popolo ridotto in schiavitù e con il quale Dio concluse l'alleanza sul Monte Sinai, consegnando la legge e i famosi Dieci Comandamenti.

Al centro del quadro è raffigurato il grande Mosè con in mano le Tavoledella Legge. I Dieci Comandamenti sono divisi in due parti: sulla sinistra i primi tre che riguardano gli impegni di Israele verso Dio; sulla destra gli altri sette che indicano la via maestra per i rapporti interpersonali all'interno della famiglia e della società.

Il Decalogo, attraverso l'accoglienza che ne farà il cristianesimo, passerà come riferimento etico per il mondo intero. Gesù più volte sintetizzerà la legge mosaica nel duplice comandamento dell'amore a Dio ed al prossimo. La frase scritta ai piedi di Mosè è una delle espressioni più note dell'apostolo Paolo, quando parla dell'amore al prossimo come sintesi dell'osservanza della Legge: “Pieno compimento della Legge è l'amore”(Rm 13,10).

La figura di Mosè è circondata da quattro formelle. Sulla prima, in alto a sinistra, ci sono due scene: gli Ebrei ai lavori forzati sotto il controllo delle guardie egiziane e Mosè inginocchiato davanti al roveto ardente sul Monte Oreb, dove Dio gli rivela il suo piano di salvezza e lo incarica di liberare il suo popolo colpito da tanta tribolazione: “ho visto l'afflizione del mio popolo”(Es 3,7).

Nella formella in alto a destra viene simbolicamente raffigurato lo storico passaggio del Mar Rosso, che segna la liberazione di Israele dalla schiavitù e che il popolo di Dio canterà in perenne gratitudine al Dio liberatore (Es 15). Mosè e i tre personaggi rappresentano il popolo ebraico. Ma il passaggio del mar Rosso diventa, per il cristiano, simbolo di quella grande liberazione che avvenne per il nuovo popolo di Dio, che non segue più Mosè, ma l'Agnello, cioè Cristo immolato come agnello pasquale, ora vivente in eterno, dipinto accanto a Mosè. Le acque del Mar Rosso diventano simbolo delle acque del battesimo. Il testo biblico citato nella parte superiore del quadro, “L'agnello sarà il loro pastore e li guiderà”, preso dal cap. 7 del libro dell'Apocalisse, diventa la profezia realizzatasi in Gesù e che continua a diventare vera per le generazioni che si susseguono lungo la storia della Chiesa. Le vesti bianche simboleggiano il nuovo popolo di Dio (Ap 7,9) che segue Gesù, il Pastore che conduce “alla fonte dell'acqua della vita” (Ap 7,17). Ultimi particolari della formella sono le piramidi in alto a destra, simbolo della schiavitù e, a sinistra in alto, il tempio, simbolo anticipato della

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L’alleanza con Mosè

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libertà raggiunta.Nella formella in basso a sinistra è rappresentata la scena del vitello

d’oro che il popolo di Israele fece costruire quando, non vedendo più ritornare Mosè dal monte, pensò di farsi un idolo dorato per i propri riti di culto. La scritta “o gente testarda e pagana nel cuore” è presa dal discorso di Santo Stefano negli Atti degli Apostoli (cap. 7), dove il protomartire - citando Esodo 33,3 - rinfaccia agli increduli ebrei la testardaggine del loro cuore. La costruzione del vitello d'oro rimarrà per sempre, nella storia ebraica e delle religioni abramiche, come il simbolo di ogni peccato di idolatria, ogniqualvolta l'uomo abbandona il vero Dio, il Vivente, per edificare cose o realtà che sono solo effimere.

L'ultima formella in basso a destra sintetizza altri due momenti particolari del pellegrinare d'Israele nel deserto. Il primo fu il fatto straordinario della manna, descritta dal testo biblico “come una cosa fine e granulosa” che appariva sulla superficie del deserto, una volta sparita la rugiada. Qualche commentatore parla di probabili gocce di linfa di un arbusto del deserto che durante la notte solidificavano e avevano l'aspetto di piccole gocce bianche. Per questo il pittore ha rappresentato un ebreo che raccoglie questa specie di semi da un arbusto. Qualunque sia l'interpretazione, è fuori dubbio che Dio nutrì il suo popolo anche durante la permanenza nel deserto (Es 16) e lo dissetò con interventi miracolosi come accadde a Massa e Meriba (Es 17), dove, battendo col “bastone” la roccia, Mosè fece sgorgare l'acqua per il popolo assetato e ingrato. Sulla roccia da dove sgorga l'acqua, il pittore ha raffigurato un'immagine che vorrebbe indicare il Cristo, per rendere plastica e visibile la frase di San Paolo ai Corinzi (1 Cor 10,3-4): “Tuttimangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale dalla roccia...il Cristo”.

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Quarta fila di quadri: personaggi significativi dell'Antico Testamento

La serie di dipinti del quarto ciclo, l'ultimo dell'Antico Testamento, non segue la suddivisione generale delle tre armonie con Dio, con l'uomo e con la natura. Il primo quadro illustra le tre figure simbolo dell'Antico Testamento: il profeta, il re ed il sacerdote. Il secondo quadro affronta il problema del dolore personificato nell'esperienza di Giobbe. Il terzo quadro, che contiene un riferimento ad esperienze personali di chi ha curato la realizzazione dell'opera pittorica, rappresenta il ritorno di Tobia alla casa paterna con la guarigione del vecchio genitore. Il quarto quadro infine raffigura il più grande cantore del Messia, il profeta Isaia, che sembra consegnare il suo messaggio a Giovanni Battista, il precursore del Salvatore nato dalla Vergine. I due riquadri centrali potrebbero essere considerati come un unico grande quadro diviso in due, ma unificati insieme da uno stesso problema che trova in questo nostro Centro una particolare rilevanza, il problema della sofferenza dell'uomo giusto. Un problema che continua ancora oggi ad interrogare l'uomo contemporaneo e che solo in Gesù, il Giusto per eccellenza, può trovare risposta, luce e conforto.

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��Primo quadro: il profeta, il re, il sacerdote

Questo primo quadro della quarta fila rappresenta le tre grandi figure dell'Antico Testamento, quasi anticipazione e sintesi della dignità del nuovo popolo di Dio, un popolo di profeti, di re e di sacerdoti, come scrive San Pietro nella sua prima lettera: “Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, il popolo che Dio si è scelto…” (1 Pt 2,9). Questo versetto è riportato nella parte superiore del quadro.

La prima figura, a cominciare da sinistra, è il profeta. Il volto è quello di mons. Helder Camara, già vescovo di Olinda e di Recife (Brasile), il profeta dei poveri, il simbolo del difensore dei diritti degli umili, quasi un nuovo Amos, del quale c'è un richiamo simbolico ai piedi della figura stessa in quel paio di sandali per i quali i ricchi commercianti dell'epoca erano disposti a vendere il povero (Am 8,6). Anche il sacchetto ai piedi del profeta indica l'ingiusta ricchezza, sempre apostrofata dai profeti nell'Antico come nel Nuovo Testamento (Gc 5,1-6). Il sacchetto di monete è pure una prefigurazione simbolica del denaro usato per il tradimento di Gesù, venduto come Giuseppe. Nella mano destra del profeta c'è un “filo a piombo” simbolo di rettitudine, di correttezza e di giustizia a cui i profeti continuamente richiamavano il popolo di Dio (Am 7,8 e Is 28,17). Nella mano sinistra del profeta c'è un cuore, simbolo dell'interiorità, dell'affetto, della fedeltà a cui ancora i profeti, in particolare Isaia e Osea, richiamavano il popolo. “Questopopolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Is 29,13)... “Lo porterò nel deserto e lì parlerò al suo cuore” (Os 2,16). Va notato che il cuore in mano al profeta è un cuore coronato di spine; è quindi anche il simbolo del cuore di Cristo, “mite ed umile”, ideale per ogni cuore, simbolo dell'amore immensamente misericordioso del Salvatore, nel quale trovare “grazia al tempo opportuno” (Eb 4,16).

La seconda figura è il re, seduto in trono. Il re per eccellenza nella storia ebraica è Davide. Lo si riconosce dall'arpa che porta in mano e che usava per cantare inni e salmi a Dio. Davide è, infatti, uno dei principali autori del libro dei Salmi. Sulle maniche di Davide sono scritte le famosissime parole iniziali del salmo 51, che lui stesso compose dopo aver commesso il peccato di adulterio con Betsabea e averne fatto uccidere il legittimo sposo Uria: “Miserere mei Deus” (“Abbi pietà di me o Dio…”). Il versetto completo continuerebbe con la frase: “Secundum magnam misericordiam tuam”. La parola misericordiam è riportata sul bordo inferiore della tunica di Davide. Davide porta sul collo del vestito l’invocazione che la gente canterà nell’ingresso trionfale di Gesù nella città di Gerusalemme il giorno dellePalme: “Osanna al figlio di Davide”. Sulla corona che adorna il suo capo

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Profeta - Re - Sacerdote

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sono riportate le iniziali della dicitura posta sulla Croce di Cristo: INRI (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum). Questo riferimento cristologico è un richiamo all'unico e vero Re della storia, il Cristo, discendente di Davide. Quel re che cavalcherà l'asino, osannato dagli abitanti di Gerusalemme nell'imminenza della Pasqua, come appare dalla scena monocroma sulla parete del seggio dove siede il re Davide. Alla base del seggio sono citate le parole del salmo11:“Il Signore è giusto e ama le cose giuste”, parole che suonano come proclama politico di onestà e giustizia per quanti nella società sono chiamati a gestire la cosa pubblica.

La terza figura è il sacerdote. Anche qui la figura sacerdotale non è più soltanto quella antico-testamentaria, ma viene arricchita dalle caratteristiche del sacerdozio della nuova ed eterna alleanza stabilita nel sangue dell'unico ed eterno sacerdote, il Cristo.

Tre sono i simboli che caratterizzano tale sacerdote: il rotolo delle Scritture Sacre nella mano, rivolta verso la bocca che proclama la Parola di Dio; l'incenso, simbolo della carità che deve profumare la comunità cristiana (Gv 13,3) e segno della preghiera che il sacerdote del Nuovo Testamento è chiamato ad offrire assieme al popolo di Dio per l’umanità tutta; il pane e il calice del vino per l’Eucaristia, memoriale perenne della Pasqua del Redentore, l'azione sacra e comunitaria per eccellenza che il sacerdote del Nuovo Testamento celebra con la chiesa a beneficio del mondo.

Nel ministero sacerdotale del Nuovo Testamento, come del resto per ogni battezzato inserito nella vita di Cristo re, sacerdote e profeta, le tre dimensioni regale, sacerdotale e profetica vengono in un certo senso unificate. Il sacerdote del Nuovo Testamento e il cristiano stesso, anche se in modi diversi, sono chiamati ad esercitare il triplice impegno: il “munus docendi”(l'impegno di annunciare la parola di Dio e di farsi continuamente suo discepolo), il “munus sanctificandi” (l'impegno di santificare, celebrando come ministro o come fedele i sacramenti e offrendo al Signore preghiere e suppliche per sé e per l'umanità), ed infine il “munus regendi” (l'impegno di governare o di collaborare per il bene della Comunità con particolare attenzione ai piccoli e ai poveri).

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��Secondo quadro: il problema del dolore e la vicenda di Giobbe

Il problema della sofferenza risuona in ogni angolo di questo Centro Servizi e soprattutto risuona nel cuore e nella mente di ciascuno di noi, ammalati e no, chiamati a vivere su questo colle (“Monticulus Praecalcini”), allo stesso tempo Calvario e Tabor. Giobbe, con tutte le sue disgrazie e croci portate con estrema pazienza, ma anche con lucidità critica e con ricerca di senso, simbolizza ogni uomo che cerca significato nel proprio dolore e sostegno nella grazia di Dio, quella grazia che sgorga abbondantemente dal cuore trafitto del Crocifisso.

Il quadro è diviso in quattro momenti. Anzitutto il povero Giobbe, completamente nudo, con il corpo piagato e con il volto anonimo e irriconoscibile. Siede sulla cenere, sconsolato e isolato dagli altri, quasi nascosto dietro ad un muro che lo separa dal resto della società. Sullo sfondo scuro è scritto in latino una frase famosissima dello stesso libro di Giobbe, ripresa anche dalla letteratura cristiana: “Militia est vita hominis super terram” (“la vita dell'uomo sulla terra è una battaglia”) (Gb 7,1, citato dall'Imitazione di Cristo, L1 cap. 13). Alla sinistra di Giobbe campeggia la moglie che lo rampogna e lo deride per la sua onestà: “Ecco cosa hai ricevuto dalla tua onestà e fedeltà a Dio”.

Sopra il Santo Giobbe ci sono tre personaggi, raffigurati con i volti di tre “amici” ospiti del Centro Servizi. Essi rappresentano i tre amici di Giobbe che andarono a visitarlo e a confortarlo. Sono in silenzio e con lo sguardo smarrito. È l'atteggiamento tipico di chi non sa cosa deve dire o pensare di fronte al dolore. Narra, infatti, il libro di Giobbe che i suoi tre amici rimasero per una settimana senza parlare, senza sapere cosa dire. Davanti ai tre, su quella specie di muretto, ci sono alcune monete d'oro, simbolo di quella ricchezza che Dio avrebbe ricostituito per Giobbe, una volta superato il momento critico della prova e del dolore.

Sulla sinistra in alto, dietro alla moglie di Giobbe e ad un quarto amico più giovane, anche lui citato nel libro come uno degli amici di Giobbe, c'è la casa e la città dalla quale Giobbe è stato come bandito ed esiliato. È un po'quello che succede ancora: il povero tribolato viene anche emarginato. La scritta che campeggia sopra il quadro è una frase che Gesù disse ai suoi discepoli: “Voi avete perseverato con me nelle mie prove…” (Lc 22,28). Infine è degno di nota che proprio sul muricciolo, da dove i tre amici guardano a Giobbe, si trova la firma di Piero Dani, l'autore dell'opera, e la data di esecuzione, il 1990.

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Giobbe

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��Terzo quadro: la storia di Tobia

Il terzo quadro rappresenta il ritorno di Tobia alla casa del padre Tobi,dopo un lungo viaggio avventuroso intrapreso dal giovane Tobia, in compagnia dell'angelo Raffaele, su richiesta del vecchio padre, per recuperare un antico prestito di denaro fatto anni addietro ad un lontano parente. La bellissima vicenda è narrata nel libretto di Tobia, un gioiello dei libri deuterocanonici, che canta la Provvidenza di Dio nella vita dei suoi fedeli.

Questo dipinto è un omaggio al cappellano del Centro Servizi, che molto ama la vicenda di Tobia per il senso di profonda fede e gratitudine a Dio che pervade l'operetta. La citazione del salmo 117, che campeggia sulla parte superiore, è l'invito del salmista a lodare il Signore che ama con forza chi si affida a lui e alla sua fedeltà. “Lodate il Signore: forte è il suo amore per noi, la sua fedeltà dura per sempre”. È come un leitmotiv biblico che riassume tutta la storia della salvezza.

Analizzando i personaggi, da sinistra a destra, troviamo anzitutto l'arcangelo Raffaele, rappresentato senza ali, semplice compagno di viaggio. Il bastone che tiene nella mano sinistra indica il pellegrinare e la mano destra sulla spalla del giovane Tobia sta ad indicare la sua presenza protettrice, mediazione della cura amica e paterna di Dio stesso. Tobia, al centro, tiene in mano un pesce, quel pesce che l'angelo Raffaele gli aveva fatto pescare, e con il cui fiele avrebbe guarito la cecità del padre.

Sul muretto di fondo ci sono due uccellini, che ricordano l'origine della cecità del vecchio Tobi. Costui infatti, durante l'esilio, da buon fratello dei suoi connazionali, seppelliva di nascosto i morti della sua terra. Un giorno, mentre riposava appoggiato al muro di casa, un uccellino lasciò cadere lo sterco sugli occhi del buon Tobi, che rimase cieco.

La madre di Tobia sta in piedi, sorridente e pensosa, con in mano un piatto di fiori per rendere omaggio al ritorno del figlio e soprattutto a Dio che l'aveva accompagnato tramite l'amicizia dell'angelo. Il piatto di fiori ha reminiscenza d'India (il “tali”, piatto di fiori per l'“arati”, il rito di omaggio alla divinità), da dove il cappellano era da poco rientrato. Il padre Tobi è in ginocchio con il volto assorto e lo sguardo fisso nell'eterno. Quell'eterno nel quale il papà del cappellano era da poco entrato, quando Piero Dani dipingeva l'abside della nostra chiesa. Tobi porta sul petto un medaglione sul quale c’è una scritta molto cara al padre del nostro cappellano e che è stata assunta come suo motto di vita e testamento spirituale: “Omnia vincit amor” (“l'amore vince tutto”).

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Tobia

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��Quarto quadro: Isaia consegna a Giovanni il Battista la tavola dei vaticini messianici

Il quarto quadro della quarta fila, l'ultimo della sezione antico-testamentaria, rappresenta figure chiave della storia della salvezza. Sulla sinistra, in piedi, è raffigurato il profeta Isaia, indubbiamente il più grande profeta dell'Antico Testamento, colui che più di ogni altro aveva preannunciato la venuta e la gloriosa passione del Messia. La scritta “annuncia la bella notizia: arriva il nostro Dio” (Is 40,9), riportata accanto al profeta, può essere la sintesi del messaggio isaiano.

Isaia tiene con la mano sinistra una formella divisa in tre parti, tutte e tre raffiguranti profezie isaiane. Nella parte superiore dell'icona c'è Maria, la vergine madre dell'Emmanuele (“Dio con noi”), profezia citata in Mt 1,23: “La Vergine darà alla luce l'Emmanuele”. Nella parte inferiore a destra c'è una seconda profezia di Isaia (cap. 61), letta e spiegata da Gesù nella sinagoga di Nazaret, all'inizio della sua vita pubblica e che suona come il suo programma: “Lo Spirito del Signore mi ha mandato ad annunciare l'evangelo ai poveri” (Lc 4,16-19). La formella rappresenta Gesù che legge il rotolo del profeta Isaia e lo spiega all'assemblea. Nella parte sinistra inferiore, su sfondo rosso, simbolo della passione e della regalità, c'è il Signore Gesù a torso nudo con il flagello che ricorda la sua passione e croce. Il pesce che vomita il profeta Giona viene a completare il simbolismo del Mistero Pasquale. Infatti Gesù dirà: “Come il profeta Giona rimase per tre giorni nel ventre del pesce, così il figlio dell'uomo” (Mt 12,40) -“ma il terzo giorno risorgerà” (Mc 10,34). Le frasi citate spiegano l'immagine: “il Figlio dell'uomo sarà ucciso, ma dopo tre giorni risorgerà”.

Un ultimo particolare di Isaia è la breve scritta accanto alla mano del profeta: “Ecce ego, mitte me” (“Eccomi, mandami”), che indica la disponibilità del profeta alla chiamata di Dio.

Sulla destra del quadro c'è Giovanni il Battista, l'Amico dello Sposo, come lui stesso si definì in relazione a Cristo. La sua missione è specificata dalle due scritte, una immediatamente sopra l'icona: “Oportet illum crescere me autem minui” (“è necessario che lui cresca e io diminuisca”) che esprime la coscienza di Giovanni Battista della propria identità di precursore del Messia; una seconda scritta sull'angolo alto a destra indicata dalla mano del Battista: “Convertitevi… preparate la via del Signore”, che costituisce il fulcro della predicazione di Giovanni.

Il Precursore, dichiaratosi “l'amico dello sposo”, è vestito di una tunica che ricorda i peli di cammello usati per coprirsi; ha un mantello rosso che preannuncia il suo martirio, anticipo della morte di Cristo stesso, l'Agnello senza macchia in braccio a Giovanni, immolato per la salvezza del mondo: “ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo”.

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Isaia e Giovanni il Battista

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