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Fanculopensiero di Maksin Cristan

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Zagabria, Croazia. Un fortunato giovane manager si dimena nel cuore del traffico. All'improvviso, probabilmente per uno squilibrio mentale, tra lo sgomento di tutti 'decide' di staccare la spina. Prende il primo treno in partenza. Milano, Italia. 'Costretto' a perseguire solo quello che gli da gioia (l'unico modo per sopravvivere) quasi subito finisce per strada, condividendo a pieno titolo la dimensione di chi sta ai margini, imparando a ricominciare. Il mondo della strada. Tra l'istinto e la follia, tra una visione ironica del mondo e di sè, s'inventa un nuovo mestiere, scrittore di strada. Libero da interferenze e aspetti materialistici della vita, trascorre e trascrive le sue giornate.

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Maksim Cristan

(FANCULOPENSIERO)

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Titolo / FANCULOPENSIERO

Autore / Maksim Cristan

Collana / SPÙT

Editing / Mario Sicolo, Donatella Neri e Dario Goffredo

Illustrazioni e grafica / Paolo Guido

TUTTI I DIRITTI RISERVATI ©Lupo editore 2005

Nessuna parte di questo libro può essere riprodottasenza il preventivo assenso dell’editoreVia Prov. le Copertino-Monteroni (km. III°-cp.34) 73043 Copertino (Lecce) • Tel/fax: 0832.931743ISBN 88–87557–44–6

www.lupoeditore.it • [email protected]

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Ai caduti, di tutte le strade

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io sono sano, libero e umano,con il rosso attendo,col verde cammino

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, faccio scappare gli animali, gli corro dietro, gli tiro i sassi addosso. Li spavento a morte ed essi scappano. Fuggono, non appena scorgono la mia sagoma.In questo modo loro imparano a non fidarsi degli es-

seri umani. Poiché ci sono buone probabilità che l’Uo-mo ravvicinato sia un imbecille per davvero. Uno che tenterebbe di ammazzarli, tanto per divertimento. Per sport! giusto per usare il termine ufficiale. Emozio-nante, uccidere per sport, nonostante un sacco di altri sport a disposizione.

Vi sono tante di quelle gare su macchine turbopoten-ti, le gare su moto che praticamente volano, le gare che ti gelano il sangue nelle vene. La velocità. La sfida. La sfida con la morte. Non vi sembra già uno sport suf-ficientemente deficiente da praticare, ma sempre meglio che uccidere per sport?

C’è la boxe! Uno dei più difficili! Consigliato solo ai più forti! I meno forti devono almeno avere i piedi molto veloci. Hai due vantaggi praticando la boxe! Non solo sfidi la morte, ma molto spesso hai l’opportunità di verificare quanto sono carine le infermiere del-l’ospedale di zona.

Ci sono le corse con i cavalli, se volete proseguire. È sempre meglio spaccare una frusta sopra la schiena di un cavallo che ucciderlo per sport. O no?

PROLOGO

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(Fanculopensiero)

Vediamo poi... le immersioni in apnea! M’è venuta giusto per dimostrare che ce n’è per tutti i gusti. Trattasi, in pratica, di lasciar cadere nel profondo del mare un’ancora legata a una corda, a profondità mai raggiunta prima dall’Uomo. Il concorrente, a quel punto, fa un enorme respiro in superficie e cerca di farselo bastare fino al termine della corda.

Se ce la fa, ha vinto. Per ritornare in superficie non sono previsti ulteriori premi. Non solo gli anima-li non vengono uccisi, ma pare che questo affascinante sport susciti molto interesse anche tra l’intera fauna marina. Specialmente tra i pesci carnivori che s’aggi-rano dai cento metri in poi. Sono state avvistate vere e proprie tifoserie che con le bollicine sospese atten-devano: Ce la fa, o non ce la fa? In ogni caso uno sport che ti lascia senza fiato.

Ma sììì, ci sono un sacco di sport che sono molto me-glio che uccidere per sport, inutile elencarli tutti.

Alpinismo! Free climbing! Uno dei più “bei”. Tutto in mezzo alla natura. Be’ ragazzi, se questo sport non è meglio che uccidere...

State a sentire. Il concorrente si arrampica, si ar-rampica e s’arrampica, senza mai guardare giù.

– Mai guardare giù! – Glielo insegnano il primo gior-no. Almeno fino ad arrivare in cima. 8000 metri. Al-lora sì che può guardare. Sia per ammirare quanto sia stata straordinaria la sua impresa, sia per godersi la vista sull’intero pianeta seduto sul cocuzzolo della montagna, fatta a forma di una torre alta alta altis-sima oltre le nuvole, sia per capire: come cazzo si fa a scendere.

Eh? Troppo all’antica? Non è affatto così. Questo

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Prologo,

sport è altresì molto tecnologico. Un vero “natural–tecnological” sport. Certo, serve la straordinaria pre-parazione fisica, i muscoli e la resistenza, poi, la preparazione mentale, quindi la concentrazione e la vo-lontà di spirito, ma non vai in altissimo senza gli at-trezzi speciali dell’ultimo grido tecnologico, cioè: la piccozza speciale, gli stivali speciali, le corde spe-ciali, la tuta speciale, la bussola speciale e infine l’attrezzo assolutamente indispensabile d’aver dietro in quel momento, a 8000 metri (che indubbiamente unisce la natura con l’alta tecnologia), dico indispensabile in quel momento è avere un c–e–ll–u–l–a–r–e, carico, a disposizione.

– Sììì!!! – Si udì un urlo dal tetto del mondo. Non perché arrivato in vetta, ma perché ha così genialmente ricordato di mettere nello zaino speciale il dolce, il caro, il tenero, l’indistruttibile, personalmente suo, telefonino.

– Smack! Quanto ti amo!– Drin driiin! (onomatopea dello squillo del telefono)– Pronto! Mamma?! Sei tu?! Mammina sono io!– Figlio mio?! oh Gesù che spavento! quante volte

t’ho detto di non arrampicarti! dove sei bambino mio, spiegalo a mamma tua!?

– Sono... ehhh... qui è tutto bianco mammina... ehhh... c’è il cielo, sopra... e poi... Ah ecco! C’è una nuvola grigia grigia proprio sotto di me! Mi senti mamma! Mam-mina ti prego! Corri! Qui si fa buio!

(ALLUNGARE L’ELENCO DEGLI SPORT...)

Eh sì, lo sport, quante emozioni ci regala.Io è da un bel po’ che non lo pratico, lo sport.

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(Fanculopensiero)

Tuttavia, le sfide con la morte le faccio comunque. In questo momento, per esempio, ho davanti un pacchettino sul quale c’è scritto, da una parte: NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE! Dall’altra: IL FUMO UCCIDE!

E non sono per niente in pensiero su cosa farmene di questo oggetto.

– Lo butta via – diranno alcuni di voi.– Lo distruggerà – diranno secco gli altri.– Lo prenderà giusto giusto con le punta delle dita

per lasciarlo cadere in un buco che avrà appena scavato apposta – avranno già detto i terzi.

Ma nooo. Sciocchi! Io lo apro invece! Lo apro, tiro fuori un ventesimo del contenuto e me lo metto in bocca. (In questo momento, mentre lo descrivo pare incredibile pure a me). Non lo metto in tasca, o nelle mutande, un fatto già di per sé pericoloso in virtù della scritta. Lo metto direttamente in bocca e sfido la morte.

Bene. Propongo di lasciar perdere lo sport. E basta pure con gli animali. Non lo so proprio cosa

potrei fare di più per queste quattro bestie rimaste nel bosco. Gli ho dedicato il capitolo iniziale di que-sta mia “opera d’arte”, invece di avviarmi con qual-che irresistibile battuta per compiacere anche ai più viziati lettori. E poi, pensandoci bene, certe volte viene pure a me di sparare a queste bestiacce maledu-cate. Specialmente mentre attraverso il parco Sempione con addosso i pantaloni appena lavati da qualche mia lettrice sostenitrice e mi vedo arrivare un cane in piena corsa, che tra un istante appoggerà le sue zampe sporche di fango su di me. Dopodiché preme pure con il suo bavoso muso verso il mio panino imbottito di lardo

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Prologo,

ed erbe aromatiche, appena comprato al “Dì per Dì” nel reparto “Offerta speciale–Prezzo vincente”.

– Non ti fa nulla! non ti preoccupare! lui vuole solo giocare!

– Sì signora, l’avevo capito che non mi morderà il collo, ma mi ha appena sporcato i pantaloni. Adesso dovrò andare in giro per una settimana ridotto così. Credevo che l’area riservata ai cani fosse dall’altra parte del parco. Vede, carissima signora, per un equi-valente motivo io passavo da “questa” parte del parco.

Ben detto. Peccato che mi accorgo sempre troppo tardi della fatale mina antiuomo che, passi di qua o di là, comunque riesce inevitabilmente a piazzarsi sulla mia strada. Quindi la pesto in pieno. Una cacca color cam-mello (del cane, spero).

Oh, la signora non si lascia disorientare, lei prose-gue stridulando: – Sì, hai ragione, il posto per i cani è dall’altra parte, ma alla mia Bubù (o Jacki, o Fifi, o Bobi, o Juditha, o Schizzo, o Tempesta, o come cazzo non li chiamano questi poveri animali) non piace stare rinchiusa in quel posto! Lì ci stanno cani cattivi e sporcaccioni e la mia Bubù (o...) è timida! Non è vero Bubù (o...)? È vero che sei timida? Eh? Sei timida? Dillo a questo giovine che sei timida...

Continua tranquilla, la sciura, a giocar con la Bubù (o...). E qui spesso comincio ad avere dubbi su chi spostare la mira.

Be’, spero che non mi abbiate frainteso. Non voglio certo preferire gli animali agli esseri umani. Nooo, io aiuto anche gli umani.

Vedete, il principio è simile a quello che pratico con gli animali, i risultati sono un po’ più scarsi.

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(Fanculopensiero)

Quindi, faccio scappare gli esseri umani, gli corro dietro, gli tiro i sassi addosso. Li spavento a morte, e loro scappano. Fuggono, non appena scorgono la mia sagoma. In questo modo loro imparano che l’Uomo ravvicinato

potrebbe essere un imbecille per davvero. Uno che tente-rebbe di strappargli il voto a suon di cazzate, per poi guidarli come oche nella nebbia. Come se ogni Uomo non possieda già il proprio cervello pensante e ragionante, di cui si serve solo in piccola parte per procurarsi da mangiare, accoppiarsi e lavorare. In questo ci riesce anche un’ape senza cervello. Limitare l’uso del proprio cervello alle facoltà di un’ape, al massimo ti fa vin-cere il premio per miglior “tubo digerente” dell’anno. Ma trovare la propria strada da sé, senza l’aiuto dei signori che sorridono dai teleschermi, ipnotizzando con le loro tecniche manipolative, studiate nelle migliori scuole, anestetizzando i nostri istinti naturali, per poi facilmente ingozzarci come maiali, e prima che tu dica “salciccia” pendi già in forma d’un prosciutto nella loro locanda in campagna. Trovare la propria strada dico io, questo sì che vuol dire avere un cervello.

Qui a Milano, in zona Brera, nel quartiere degli ar-tisti (chissà perché lo chiamano ancora così), tutte le sere a partire dalle 21 fino a ora tarda, si svolge un mercatino composto da una cinquantina di cartomanti, maghi, principi e cognati della magia, completamente in regola con la legge (con i permessi delle autorità, intendo), più un’altra cinquantina di venditori intera-mente abusivi. Il mercatino occupa la via Fiori chiari, vicolo Fiori e via Madonnina. In mezzo a via Madonnina vi è un piccolo slargo. Una piazzetta. Una bella parte

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Prologo,

di essa viene occupata dal banchetto pieno di libri, proprietà del poeta Icaro Ravasi, e da una parete piena di quadri messi lì dal pittore Alfredo Brescia, nella speranza che il cliente di turno sia sceso a passeggio. Io mi metto a fianco a loro, con il mio banchettino, improvvisato da un cartone trovato dietro al supermer-cato, sul quale espongo i mie libricini “probabilmente inutili”. A volte veniamo rafforzati da Filippo Auti, pittore e padre di tutti gli artisti di strada di Mila-no, e dal poeta signor Aldo, il nonno.

Non si guadagna certo nemmeno il dieci per cento (tut-ti i libri e quadri messi insieme) di quello che guada-gna il più scarso cartomante in qualche vicolo laterale fuori mano, ma si fa festa lo stesso. E tutte le sere, non solo lunedì. (Una cosa nostra in favore di questo giorno, lunedì, così odiato da tutti i lavoratori).

E così, ogni tanto, nel fiume infinito di gente che scorre davanti al banchetto, vado a pescare i fortunati. Quelli cioè, per i quali provo più pietà, per farli scappare, etc.

(ALLUNGARE CON LE AZIONI IN OPERA)

Le verdure invece non spavento.La flora. È la prima volta che mi viene in mente una

stupidaggine del genere. L’avrei tolta dal libro se non piacesse così tanto al mio editore. Un piccolo compro-messo quindi, per qualche ingenua parolaccia che ogni tanto mi scappa.

Comunque, prometto su queste righe, a tutte le ver-dure in pericolo, che in futuro mi impegnerò seria-mente.

(ELIMINARE)

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(Fanculopensiero)

Bene.Il mio nome è Maksim Cristan e non da sempre faccio lo

scemo per le strade di Milano. Tuttavia, come tale figura oggi vengo stimato solo da un’ampia maggioranza di persone del mio passato, coloro cioè che mi conoscevano più da lontano. Per altri, quelli una volta a me intimi, sono semplicemente un drogato.

Eppure, sia gli uni che gli altri, soltanto sino a un paio di anni fa, mi consideravano una persona del tutto normale. Un paio d’anni che m’appaiono lontani, come un paio d’anni luce.

I conoscenti di oggi mi considerano innanzitutto uno scrittore di strada e almeno Una di loro mi crede pure intelligente, sobrio e ben educato (finalmente ce l’ho fatta).

Abito in piazza Madonnina, a Milano. “In” piazza, intendo.Debbo subito dire che non ho niente da lamentare della mia

abitazione attuale. È molto spaziosa. Il mio salotto è così spa-zioso che di sera ospita centinaia di persone. Nei miei corridoi, composti da cinque vie e un vicolo, ogni sera scorrono migliaia di passeggeri e per accomodarmi in un bagno libero, nei casi di particolare urgenza, a volte debbo farmi addirittura due fermate col tram. Malgrado ciò, ammetto che almeno due giorni all’an-no (non a caso i più freddi) avrei voglia di dare in cambio tutta quest’ampiezza per una micro–stanzetta, sia pure umida, in un qualsiasi condominio (accettasi pure un palazzo grigio-popolar in periferia).

Ho analizzato questo desiderio e credo provenga dalla pura fantasia che in quella stanza ci starebbe una vecchia stufa che puzzola d’aria tiepida e magari una scrivania con sopra una pallida lampada, ormai cinica d’esser piegata sopra il parto dei “soliti versi che cambieranno il mondo”. (Chiamatemi pure un

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Prologo

romantico se volete). Il letto? Il letto m’interessa poco in un pa-radiso simile. Un tetto, il caldo, un paio di quaderni e una pen-na, non starei certo lì a dormire. Sì, ma ogni qualvolta questo desiderio m’infuoca, non riesco mai a trovare qualcuno suffi-cientemente buffo disposto a uno scambio di tal vantaggio per me. La gente immediatamente sospetta qualche cosa. Non può essere vero! (E ci credo!)

Inoltre, il terzo giorno, non appena la temperatura aumenta di qualche grado, questa folle idea mi si spegne, poiché sono ben consapevole di essere già troppo fortunato per chiedere di più. C’è della gente in giro che indubbiamente necessita un aiu-to assai più di me. Gente che lavora sodo e pur guadagnando migliaia di euro al mese, non ha mai un soldo in tasca (sem-bra facile). Io, invece, non faccio un accidente dalla mattina alla sera, con l’unica fatica di vegliare più a lungo possibile e ho sempre almeno dieci-quindici euri a disposizione. In più, godo dell’area di un intero quartiere.

Anche se non abito del tutto da solo. Divido lo spazio notte con il mio coinquilino, il padrone virtuale della piazza. Il suo nome è Mirko e questo dato sarebbe altresì l’unico in mio pos-sesso a proposito di lui. Mirko non parla, mai e con nessuno.

(In due anni, una sola volta l’ho sentito parlare, ma fu un’emer-genza particolare che vi sarà interamente proposta più avanti, da qualche parte). Noi due, quando ce n’é bisogno, comunichia-mo con i soli sguardi. Voglio dire, solo qualora lui abbia bisogno di comunicare con me, poiché io a lui parlo a voce, a volte per ore, ma siccome senza alcun riscontro, non potrei considerarla una comunicazione bilaterale.

Se quindi Mirko vuole dirmi qualcosa, lo fa con lo sguardo. Ci ho messo un po’ per capire questo suo linguaggio insolito, ma oggi posso dire di non conoscere nessuno che condivide il pro-prio spazio notte capendosi al volo come ci capiamo noi due.

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Così un suo sguardo breve e apparentemente di sfuggita vuol comunicarmi: Ciao, ce l’hai una sigaretta?

Uno sguardo lungo, invece, che prosegue pure dopo che ha avuto la sigaretta, vuol dire: Oltre la sigaretta, avrei bisogno an-che di qualche spicciolo.

Due sguardi brevi valgono per: 1. La sigaretta; 2. Oggi sono di buon umore, se vuoi quindi leggere ad alta

voce qualcosa dal tuo quaderno, non me ne andrò via scocciato come al solito.

Uno sguardo breve e uno lungo, significano poi: 1. La sigaretta; 2. Se non hai sonno, vai a suonare la tua chitarra fuori dai

coglioni! E così via. Come vedete, ogni comunicazione di Mirko inevita-

bilmente inizia con il primo sguardo, quello cioè della sigaret-ta, giacché egli nemmeno ti guarda se non ne vuole una.

Ho affermato che Mirko sarebbe il mio padrone di casa. Questo perché egli è venuto qui ad abitarvi molto prima di me. La leggenda dice che egli apparve qui circa 25 anni fa, si sdraiò sul muretto che accompagna la parete del condominio laterale e ci è rimasto sino a oggi. Questo va rispettato.

Ma quando prima ho scritto tra parentesi “finalmente ce l’ho fatta”, non esattamente mi riferivo al fatto che all’età di tren-tasei anni, forte e sano, abito in mezzo alla strada. Inoltre, per potersi definire uno scrittore di strada non necessariamente devesi abitare in mezzo alla strada. Per niente, si può tranquil-lamente abitare anche in una bella casa. Basta fornirsi di un blocco di carta e una penna e bazzicare in giro senza una pre-cisa destinazione. Ogni tanto poi, conviene effettuare delle brevi soste sulle panchine pubbliche e vari muretti casuali, per poter

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Prologo

così ascoltare i propri pensieri, i quali, mentre si è in cammino, compongono i versi dalle sostanze raccolte mediante i nostri cinque sensi. Il resto lo fanno i versi stessi da sé. Cioè: qualora essi desiderino esser tradotti in parole, non vi è forza di svolon-tà umana tale da poter ostacolare che s’impugni la penna.

In seguito ci vuole una scatola di cartone (che facilmente si può trovare dietro qualsiasi supermercato), più una tovaglia per coprire lo scatolone (se colorata è meglio) e, naturalmente, ci vogliono i libri autoprodotti, ovvero un insieme di quegli stessi versi nominati sopra, raccolti e sistemati in un libro in copie (cosa facilissima da fare, lo capirete in avanti).

Questo è più che sufficiente per la prima parte della defini-zione di “scrittore di strada”. Per completarla, necessita ancora avere a disposizione una strada (meglio se affollata di passanti), per esporre i libri sullo scatolone coperto dalla tovaglia (leggi: bancarella).

E come ultimissima cosa (ma non per questo meno importan-te, anzi, spesso determinante) serve munirsi della forte volontà di spirito, per tentare cioè di vendere i propri libri (abusiva-mente se possibile, la burocrazia non ci è mai piaciuta) ai pochi interessati di passaggio. Allora sì, ci si può finalmente definire uno scrittore di strada a pieno titolo.

(Poi, se pure abiti in una villa sulla collina residenziale di San Siro, meglio per te, ma nel caso in questione ciò non ha influen-za alcuna.)

Ma nemmeno questo intendevo quando prima ho scritto final-mente ce l’ho fatta. Il mio finalmente ce l’ho fatta si riferisce alla consapevolezza che dopo un decennio di sbandamenti e confu-sioni mentali, finalmente credo d’aver trovato il mio “proprio posto nell’universo”. (E una volta lì, un mestiere vale l’altro.)

Ho un banale sospetto di non esser stato brillantemente chia-

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ro sino a ora. Cercherò di migliorarmi in seguito, anche se la bravura e il virtuosismo artistico non sono caratteristiche ne-cessarie per diventare uno scrittore di strada. La strada accetta tutto e tutti. Può essere una discarica umana o a tratti addirittura il paese delle meraviglie, il che dipende molto dall’angolazione sotto la quale c’illumina la nostra stella protettrice. Ma soprat-tutto, la strada è principalmente un luogo ove si cammina. Cam-minare, quindi. Un verbo con il quale ogni altro fa rima, anche se ce n’è uno su tutti che, e non certo per ragioni fonetiche, lo fa meglio degli altri, ed è Ricominciare (per questo libro la parola chiave). Poiché si sa: chi sa ricominciare, vivrà. (1)

(A parte la strada, personalmente non saprei indicare un luo-go maggiormente adatto a chiunque capiti di dover ricominciare. Un’affermazione piuttosto scomoda lo so, non ditelo a me.)

Poche ore fa, camminando lungo via Torino qui a Milano, nonostante sia una giornata grigia e comunque fredda, ad un tratto mi sono sentito felice. Più del solito intendo. Felice come quell’uomo che si svegliò in mezzo al deserto, senza ricordarsi come vi era arrivato, né la strada di ritorno, e dopo anni di cammino oltre sette monti e sette mari finalmente giunse a casa.

Ho sentito dentro di me che il mio esperimento umano (non certo progettato a tavolino) può finalmente essere messo al ban-do. Nonché convinto, mi sono sentito convinto di ciò che sono diventato e ancor in maggior misura convinto di non esser più quel che ero.

Ho pensato: Sopravvissi. Rincorrendo la mia anima dovetti compiere un’acrobatica

capriola sospeso nell’aria, mentre il mondo sotto continuava a girare e malgrado l’impatto violento, benché ricadendo presi in pieno pure una pianta di cactus, non mi feci alcunché. Bensì

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Prologo

mi trovai faccia a faccia con colei che rincorrevo, la medesi-ma anima (bastarda), piegata in due dalle risate. Per di più, il cactus si verificò di una rara specie, ovvero ”cactus ignudus” senza spine, morbido come un cuscino, così, per quanto per-plesso, risi anch’io. E non solo, vissi pure a lungo per poterlo raccontare.

Ho pensato così tra me e me, tutto in passato remoto, poiché adoro farne uso, anche se dubito sia grammaticalmente corretto. (Visto che in privato i miei pensieri nessuno li deve leggere, non bado molto alla grammatica. Grammatica?! Che schifo! A volte darei il pezzo più pregiato del mio corpo in cambio della totale abolizione della grammatica!)

Così, non appena concluso il mio pensiero rivelato sopra, mi sono affrettato a comprarmi un nuovo quaderno e una nuova penna e, sempre sull’onda di questo particolare entusiasmo, son corso a rifugiarmi in un luogo per me del tutto speciale. Un luogo ove nessun rumore riesce mai a scomporre la mia ispira-zione, per subito iniziare a narrare la mia storia vissuta in volo. A raccontarla, minuto per minuto, tutto d’un fiato in una lunga maratona senza dormire, senza mangiare, senza fermarmi mai, dall’inizio fino alla fine. Una storia realmente accaduta in questi due anni e passa.

Ma vi era qualcosa in più nei miei pensieri che m’impediva di iniziare come avrei voluto. Vi erano delle briciole d’una idea creativa, la quale, in parallelo con i pensieri sulla storia della mia vita vissuta, prese a comporsi nella mia testa. Allora, una volta aperto il mio blocco, ha voluto proporsi nella mia mente quella mezza storiella che avrete già letto nell’avvio. Ovvero, ha voluto imporsi, senza badare troppo che queste energie e il tem-po li avevo previsti per la narrazione assai più importante (per me). Ma le idee son così. Hanno una vita propria e viaggiano da una testa all’altra come gli pare. Inoltre, uno scrittore senza sto-

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rielle da catturare cosa ci sta a fare? Non potevo certo lasciarla volar via. Personalmente non sono superstizioso, ma l’offendere una narrazione, cacciandola via dai pensieri poiché ne ho già in mente un’altra, m’era già successo in passato e vi assicuro che dopo sono dolori. Dolori sputasanguigni sotto forma di vuoti mentali e di totale assenza d’ispirazione a tempo indeterminato. A volte, addirittura per mesi. Ho ringraziato, quindi, come sem-pre, lo spirito della parola che anche oggi ha voluto essermi accanto. E per dirla tutta, la storiella mi è subito parsa sufficien-temente ridicola (uno stile di cui faccio vanto personale), così l’ho accomodata ancor prima dell’introduzione “ufficiale”, per poi proseguire in santa pace.

(Ehi! Spero proprio che quando mi rivedrete la prossima vol-ta non avrete paura che per qualche “malinteso” tiri un sasso addosso al vostro cane. Niente paura. L’ho già detto che la sto-riella iniziale è pura invenzione. Nella realtà non sgancio i sassi a nessuno. Anche se a volte...)

Nei giorni seguenti la svilupperò meglio, quell’idea, la allun-gherò nei punti sottolineati e ne farò un nuovo libricino. Non ho ancora in mente un inizio valido (per questo la virgola) e quan-tomeno la fine (ci vuole tempo). Il titolo invece l’avevo in mente ancor prima di comporre un verso: “L’imbecille”.

Nessuno dei miei libri contiene più di 30 pagine (sinora). Sta di fatto che mi manca l’invenzione romanzesca. Non reggo la fantasia a lunghe distanze. È per questo motivo che i miei libri io li chiamo “libricini”. Quindi, di sicuro non oserò un’elabora-zione troppo profonda a proposito dello sport, di cani, di cavalli, di politici, degli imbecilli, della morte, e tanto meno delle insa-late paralizzate.

Il mio padre mi diceva: – La peggior verità è comunque me-glio della più straordinaria bugia!

(Per bugia intendeva l’invenzione, ma non poteva esprimersi

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Prologo

in tal modo letterario poiché non era un intellettuale.) Poi però, quando gli raccontavo la verità a proposito di qualche guaio in cui di tanto in tanto mi cacciavo, lui non ci credeva.

– Tu mi racconti le favole! – mi diceva – Sono romanzi, questi! Io voglio la verità!

Così un giorno, quando ero già grandicello, mi venne in men-te di proporgli delle giganti cazzate (già da adolescente mi pia-ceva sperimentare) e, sorprendentemente, ad un tratto diventai credibile, normale, oserei dire.

– Niente di che, cose che ai ragazzi della tua età capitano. Fu allora che mi resi conto che le mie invenzioni non sono un

granché se a un uomo intelligente, come fu il mio padre, esse appaiono normali come se fossero vere. Lo stesso, ogni tanto m’azzardo con dei racconti brevi, convinto però che per mettere su un libro serio, non vi sia altra possibilità per me che scrivere della vita realmente accaduta. Certo, per scrivere un libro serio ci vuole anche maggior preparazione e decisamente una bella valigia di vita vissuta. Infatti, sono quasi 37 anni che mi preparo. Poi, ci vuole la trama, nonché incredibili vicende e altrettanti personaggi insoliti, colpi di scena, le immagini cioè nascoste a un occhio solamente di passaggio. Appunto. La vita reale, quella intorno a noi, che la gente normale fatica a vedere, poiché, come fu anche per mio padre, si deve lavorare e non bazzicare in giro apposta per osservare gli altri (da fuori), e sé stesso (da dentro) in mezzo a loro. Be’, almeno per mio padre, se fosse ancora in vita, quello che segue sarebbe un romanzo incredibile.

La mia povera madre invece, crede a tutto e di più. Vi è una sola e unica cosa in tutta la mia vita per la quale mia madre non riesce ancora a prestarmi fede. Quando le dico cioè, che non mi drogo. Ma, a parte questa piccola diffidenza, la mia parola per Lei vale come un “Amen” sacrosanto. Mia madre confida nella

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mia parola a tal punto che per evitare che soffra, dovrò prepa-rare una copia di questo libro a parte, esclusivamente per lei (Possibilmente tutta rose e fiori, così anche lei finalmente avrà da vantarsi del suo primogenito). La verità va bene, ma per fa-vore, lasciamone fuori la mia povera madre.

Quindi adesso che vi ho presentato il principale personaggio (me, non la mamma), credo sia necessario per la trama infor-marvi del luogo ove mi trovo.

Sono seduto ai piedi dell’imperatore Costantino (il monumento), alle Colonne di San Lorenzo. Su un cubo di cemento, per esattez-za, di una temperatura circa 3-4 gradi sotto zero, che si trasmet-tono direttamente al mio sedere. Fino a poco fa li sentivo tutti i 3-4, malgrado mi sia ben protetto con una tuta da alta montagna, un paio di calze a maglia, più un paio di mutande a tre quarti, il tutto sotto pantaloni di velluto color beige. (Come colore origi-nario intendo, poiché attualmente i miei pantaloni si presentano color marrone chiaro, e a fine settimana saranno pressappoco di color marrone scuro. Colpa dello smog metropolitano.)

È un luogo, questo, a me familiare da parecchio tempo. Io alle Colonne ci vengo a “lavorare”. Qui ho “corso” tutte le mie “ma-ratone”. È una mia invenzione, “la maratona”.

In sintesi: una “maratona” si inizia (consciamente e non) con lo sforzo di vegliare più a lungo possibile, almeno per cir-ca 30-40 ore, necessarie per raggiungere il primo traguardo, cioè superare la crisi del sonno. Poi tutto diventa facile e, se si mantiene l’immobilità, presto si entra in una specie di trance cosciente. A me ormai riesce senza fatica. Succede poi che al-l’improvviso vengo accerchiato da un sipario color nebbia e la terza dimensione sparisce, si accendono le luci inesistenti e i colori cambiano colore, e tutto ha un senso e tutto sembra chia-ro e possibile, e niente mi fa paura né mi stupisce. (Una pazzia

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Prologo

per chi mi conosce malamente, una stupidaggine invece per chi mi vuole bene.)

Vedete, io non riesco a scrivere, o almeno non ci riesco seria-mente, se non sono immerso in questo stato. (Chiamatela con-centrazione.) Potete immaginare, quindi, che per un’operazione del genere necessito di un posto adatto, un posto isolato dagli intrusi e solo gli spiriti sanno quanto io sia grato a questo luogo generoso. In piazza Madonnina c’è troppa gente che mi conosce ormai. Troppa gente che m’invade con le domande quando ad un certo punto dopo circa 30-40 ore, i miei occhi vanno a ingrandir-si, il mio naso inizia a curvarsi in su, le mie orecchie si allungano e la mia bocca si deforma in un sorrisaccio, tipico di quelli che in mezzo agli altri sono gli unici a sostenere di vedere ciò che vedono.

Qui, alle Colonne, sviluppo le mie mezze idee raccolte in cam-mino per la città, per poi farne dei racconti. E qui, canto i miei pensieri nelle poesie.

Pure adesso scrivo immerso in uno stato che ho appena cerca-to di spiegare e questo spiega il fatto che i 3-4 gradi del generoso cubo cementato non li sento affatto. Non ricordo più nemmeno per quanto tempo sono rimasto sveglio. Sono stato in giro alme-no per due giorni e due notti. Superata la crisi, perdo un po’ la cognizione del tempo. Entro in questa specie di trance e scrivo, anche se, debbo dire, non lo faccio di continuo. A parte che di-pende dalla ispirazione, non lo faccio di continuo anche perché dopo una seria maratona mi ci vogliono almeno tre settimane per rimettermi in piedi. Per recuperare le forze fisiche, nonché quelle mentali. Suppongo che il corpo e il cervello vengano spinti al massimo delle energie sino al crollo. Difficilmente riesco a fer-marmi prima. Quando poi arriva il crollo, succede che rimango lì, semplicemente dove mi trovo, mentre la mia mente continua a macinare ancora nel mondo dei sogni. A volte, rimango stupito

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rileggendo le mie bozze, poiché spesso sembra manchi un bel pezzo dello scritto. In effetti, io vado avanti via sognando, mentre il mio corpo si è già steso sotto i piedi di Costantino, a dormire.

In una profonda maratona è assai difficile capire cosa ap-partiene alla realtà e che cosa è frutto delle allucinazioni. Le chiamo allucinazioni, i sogni realistici provocati dal forte stordi-mento che mi coglie all’improvviso. Perciò la regola che seguo è: «Quello che risvegliandomi trovo scritto sul mio quaderno, deve esser successo per davvero, mentre ero ancora sveglio». Descri-vo sempre in tempo reale quando in questo luogo succedono eventi curiosi e insoliti, interrompendo per un istante le poesie o i racconti in corso, per poi proseguire dove mi ero interrotto. Ovvero, dal punto dove mi avevano interrotto.

L’ultimo “evento insolito” è accaduto circa un’oretta fa (giusto per farvi un’idea). L’ho annotato, quindi reale. Si era presentato un nano con i baffi lunghissimi, a circa venti passi. Ho applicato immediatamente la regola numero uno: Non dimostrare stupore in alcun modo. Ho imparato che stupirsi manda in bestia questi esseri che a volte qui m’appaiono all’improvviso. (Anche se a me tutto appare un po’ all’improvviso, poiché sono sempre con gli occhi tra i fogli.)

Dopo un po’, il nano s’era incamminato verso di me, fissan-domi con una certa severità. Non mi spavento facilmente ormai, ero quasi certo che si trattasse di qualche folle senzatetto che spesso qui mi si affianca con i suoi altrettanto folli comporta-menti. In tal caso io continuo l’affar mio, metto bene in vista le sigarette (la loro principale esigenza) e costoro non mi danno mai alcun fastidio, almeno sino all’esaurimento del pacchetto. Anzi, è una buona tecnica per ingannare il freddo, stare spalla a spalla con qualcuno. Costui invece, aveva addosso una specie di uniforme per lo meno d’un grado generalesco e in più alcune decorazioni e varie spille colorate attaccate sul petto. Ho pen-

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sato che i senzatetto che conosco io (e ne conosco tanti), non sono per niente curati in tal modo. Questo fatto m’aveva subito incuriosito, perciò ho continuato anch’io a guardare lui. Il “ge-nerale” mi si era infine avvicinato a distanza d’un braccio teso, mantenendomi sempre quello sguardo severo addosso, quando ad un tratto ha puntato il suo indice dritto in mezzo ai miei occhi. Stavo quasi per sbilanciarmi pensando: Un indice così grosso per un uomo così piccolo, roba da...

Al che costui ha iniziato a urlare: – Sei tu quello che rompe i coglioni alle vecchie stregacce?! Rispondi!

– Guardi... non ho la minima idea di cosa sta parlando... si-gnore... ma sono più che certo che... sono io... signore... – gli risposi, deciso come si vede dai puntini-puntini.

– Zitto! Non parlare senza permesso! Anni fa in Brasile ho fatto fucilare uno che si credeva furbo come te per molto meno! Zitto! Qui ci sono gli ordini!

A quel punto ha lanciato un foglio di carta ai miei piedi, men-tre proseguiva – Sei già in grosso ritardo! Ringrazia le maledette streghe se ti do quest’ultima opportunità! Hai capito?!

– Sì... Grazi...– Zitto! Bada che voglio il rapporto, qui, il... – (qui aveva man-

giato alcune lettere per cui non ho capito bene per quando avreb-be voluto ‘sto rapporto) – Non tardare, ti avverto in tempo! E adesso, fuori dai piedi! Marsh!

– Signorsì! Subito signore! – Era meglio non discutere.Subito poi, il nano generale m’ha fatto un saluto a colpo di

tacchi ed è corso ai Portici da dove era sbucato fuori, chiamando all’ordine su tutte le furie il nome di un certo Felipe. Sparito lui, ero troppo curioso di dare un’occhiata ai presunti ordini.

ORDINI 1. Seguire il vecchio con le pantofole gialle;2. Tenere la boccaccia chiusa.

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Ho pensato: Cavoli, più preciso di così...Sono rimasto seduto dopo questa invadente interruzione e

come al solito ho proseguito a scrivere. Ero giusto in mezzo alla storiella iniziale. Ho pensato, se il vecchio con le pantofole gialle avrà bisogno di me, saprà sicuramente dove trovarmi. Ancora, comunque, non si è visto nessuno.

(Ho controllato nuovamente e il foglio con gli ORDINI ce l’ho tuttora in tasca. Mah!)

Ritornando alla nostra storia, occorre ancora che vi fornisca dati un po’ più precisi a proposito del periodo interessato. La storia si svolge nel tempo dal maggio del 2001 ad oggi, quindi dicembre del 2003. Un periodo per me lungo e faticoso, nonché spesso vissuto in condizioni disumane.

Furono ore su ore di letture e studio di lingua italiana, che non è la mia lingua madre. (Grazie alla mia di madre, io sin da piccolo l’italiano un po’ lo leggevo e, benché questo fatto mi avesse dato la base sufficiente per poter studiare la grammatica italiana da autodidatta, lo stesso inizialmente è apparsa come un’impresa impossibile).

Furono libricini auto prodotti, 4 in tutto, più una raccolta de-gli stessi, tutti scritti a velocità d’una lumaca in vacanza, aspet-tando a volte intere settimane un luminoso sinonimo giusto al posto giusto.

Fu freddo, molto freddo. Certe notti fu talmente freddo che l’unica parte del mio corpo a non esser congelata fu la mia mano destra, ovvero, l’indice e il pollice della medesima con i quali impugnavo la penna.

E fu follia. Almeno inizialmente, fu follia seria.

Ebbene. Sebbene io sia un assoluto autodidatta, intuisco che questa “affascinante” storia dovrebbe d’ora in poi finalmente

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assumere una forma cronologica. Alcuni insegnano che le lun-ghe introduzioni provocano spesso gravi danni alla trama che le segue. Io penso che alcuni insegnino un sacco di cazzate.

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