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CLASSE V B LICEO SCIENTIFICO “A. EINSTEIN” (SEZIONE ASSOCIATA dell’I. S. I. S. “MALIGNANI”) “PAROLE E POTERE” FASCISMO E MITO DELLA LATINITÀ

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CLASSE V B

LICEO SCIENTIFICO “A. EINSTEIN”

(SEZIONE ASSOCIATA dell’I. S. I. S. “MALIGNANI”)

“PAROLE E POTERE”

FASCISMO E MITO DELLA

LATINITÀ

IL MITO DI ROMA

DAL RISORGIMENTO AL FASCISMO Durante il Risorgimento

Uno dei fattori propulsivi del patriottismo risorgimentale fu il sentimento della passate glorie nazionali, il recupero dei miti fondanti e universali della nazione italiana. Il Risorgimento italiano appariva così il ritorno alla grandezza storica della nazione: l’Italia era stata infatti la culla della romanità, del cattolicesimo, dell’umanesimo e del rinascimento. Un grande contributo alla costruzione del “mito del primato italiano” venne da Vincenzo Gioberti, il quale sosteneva che, federato il paese, l’Italia potesse tornare a svolgere la sua missione universale di maestra delle nazioni. Giuseppe Mazzini, profeta di una religione laica della patria, si era unito al filosofo cattolico nel glorificare la vocazione universale della nazione italiana, appellandosi anche lui alla volontà divina e alla storia nazionale. Egli affermava che era dovere dell’Italia unita restituire a una Terza Roma, dopo quella antica e quella cristiana, la sua missione universale, per fare della città la capitale e il luogo di culto di una nuova religione della libertà. Il mito del primato e della missione storica dell’Italia apparteneva dunque all’idea di nazione del Risorgimento. La romanità, in particolare, era evocata come modello per il ruolo storico della nuova Italia: tra i democratici, recuperando il filone giacobino delle glorie repubblicane e della tradizione antitirannica, rifiutando però disegni di dominazione sulle altre nazioni.

Giuseppe Mazzini

Nell’Italia liberale Il mito della “grande Italia”, dopo essere stato spinta propulsiva del patriottismo risorgimentale, continuò a esercitare il suo fascino anche dopo il raggiungimento dell’unità nazionale. Nel clima di sviluppo del nazionalismo e della nazionalizzazione delle masse l’Italia liberale rivendicò, malgrado la modestia delle sue forze reali, un ruolo di grande potenza nel concerto europeo, in specie nel Mediterraneo. Secoli di storia della penisola offrivano innumerevoli rimandi al mito nazionale della nuova Italia, per alimentare l’orgoglio nazionale e le sue ambizioni: soprattutto il mito di Roma. L’Italia unita dunque solidificava il nesso con la civiltà romana e latina, da cui emanava anche il fascino della potenza e dell’espansione coloniale. La celebrazione di Roma fu il motivo ricorrente nella produzione dei letterati in età liberale, ora che la cultura latina riscattava la sua originalità e non appariva più “provincia greca”; tra essi Giosuè Carducci. Egli tenne vivo il mito della “grande Italia” nella coscienza di una nazione che muoveva i primi passi. In realtà non tutti i governanti e gli intellettuali dell'Italia unita condividevano l’entusiasmo per il mito di Roma, specialmente quando il richiamo nasceva dall’ammirazione per le glorie dell’antichità. Si pensi a Ruggero Bonghi. In molti esponenti della classe dirigente dell’Italia unita traspariva infatti la volontà di non lasciarsi soggiogare dal mito della Roma di Cesare e dei Papi; piuttosto era manifesta l’ambizione di creare una grande “Terza Roma”, la Roma italiana che non fosse inferiore alle precedenti per la sua funzione civilizzatrice e imperialista. Fra gli statisti dell'Italia liberale Francesco Crispi, pure di suo non incline ai miti del passato, fu certamente la figura più intraprendente nei propositi di una politica estera di forza. Le sue aspirazioni pagarono tuttavia lo scotto della scarsità delle forze, delle incertezze politiche, di un clima nazionale diviso sulle imprese coloniali. La sconfitta in Abissinia ne fu l’esito.

Giosué Carducci

“Per la più grande Italia”: il mito romano di Gabriele D’Annunzio

Nel clima del nazionalismo crescente tra i due secoli, forse il più significativo apporto all’edificazione di una “religione della patria” fu offerto da Gabriele D’Annunzio, attraverso la retorica dei discorsi e con l’azione. Il poeta fu il formidabile creatore di un frasario ad effetto e di metafore prestate alla politica, attinte liberamente dalla mitologia classica come dalla tradizione cristiana. Dopo la Grande guerra vi unì il “culto della trincea” per elaborare una complessa retorica mistico-politica che impregnò il linguaggio del nazionalismo rivoluzionario prodotto dal conflitto. D’Annunzio recuperò i miti dei culti civili del Risorgimento e le parole del mondo classico (sua intuizione è la riproposta del grido di guerra greco Eja, Eja, Alalà, poi adottato dal fascismo), fondendoli insieme in un’efficace ed evocativa mistica di esaltazione della patria, corredata di simboli e liturgie. Richiami letterari del mondo classico e verbo politico si fusero soprattutto durante l’occupazione di Fiume (Quis contra nos?), unitamente ai rituali funerei di esaltazione del culto dei caduti in guerra e della bella morte. “Il culto dei caduti, già presente nelle tradizioni rituali dei diversi nazionalismi, fu la prima, universale manifestazione liturgica della sacralizzazione della politica del XX secolo e diede nuovo impulso alla santificazione della nazione” (Emilio Gentile). Gabriele D’Annunzio a Fiume

(1919)

Romanità e fascismo Il mito della romanità fu introdotto nella cultura fascista principalmente per legittimare le sue aspirazioni totalitarie, istituendo una “religione della nazione” in linea con la dottrina dello Stato fascista. Il mito di Roma fu - in unione con l’idealizzazione del duce, ad esso peraltro correlata - la credenza che più permeò l’universo simbolico fascista. Il culto fascista per la romanità non avrebbe voluto rifarsi tanto all’amore antiquario e archeologico per un’identità del passato da recuperare e da restaurare, quanto ad un modello di ispirazione collettiva per il presente, di azione politica rivolta alla creazione del futuro, nelle linee di un nazionalismo moderno e rivoluzionario. Eppure il fascismo praticò un recupero dei segni romani rivolto all’attualità, con il fine di creare uno scenario urbanistico e monumentale, più generalmente culturale, che rappresentasse l’unione tra romanità e fascismo: un misto di antico e moderno, conferma del fascismo quale erede e culmine della tradizione romana. Nella “religione” fascista, Roma assunse la funzione di un “momento di fondazione” della stirpe italiana, un modello pedagogico per la formazione dell’“italiano nuovo”. I resti monumentali, in particolare, rammentavano il luogo in cui per la prima volta si era manifestato il miracolo della grandezza dello “spirito latino”, in cui poi si era verificata con il cattolicesimo la prosecuzione e la conferma della romanità (era l’idea secondo cui il cristianesimo era diventato universale soltanto dopo il suo innesto a Roma), infine in cui con il fascismo si compiva la “rigenerazione” della razza.

“L’italiano nuovo” in un manifesto

IL CULTO DI ROMA I valori “romani”

La romanità fascista si ispirava ai concetti di autorità, gerarchia, disciplina e vigore fisico, virtù che si ritenevano proprie della Roma antica: valori “romani”, che il fascismo volle penetrassero in chiave ideologica - anche grazie al decisivo intervento dei mezzi di comunicazione - nei vari strati della società italiana. Così la ripresa della romanità divenne un fattore centrale nella nuova mitologia fascista e italiana, diventando un elemento cardine della “sacralizzazione della politica” voluta dal regime, della “religione politica” fascista. L’intento ideologico mirava a rendere gli italiani i “romani dell’era moderna” tramite la trasformazione culturale, morale e fisica del popolo. Fu un motivo degradato persino a livello comico dall’enfasi retorica del regime e dall’idolatria del duce. Al fine di identificare il romano antico con l’italiano nuovo l’iconografia volle prendere come punto di riferimento per l’uno e l’altro un modello che avesse impresso nel volto i lineamenti fisici di Mussolini: ciò nella statuaria come nella grafica. Il mito di Roma quindi operò come fattore unificante delle composite tendenze ideologiche del fascismo, in una prospettiva modernista (“Noi non siamo gli imbalsamatori di un passato, siamo gli anticipatori di un futuro …”). A interessante riscontro, il regime nazionalsocialista coltivò il culto germanico e antiromano di Arminio …

Mostra della rivoluzione fascista

Bassorilievo

Le Vestali del mito di Roma Il regime di Mussolini tentò di instaurare nella gioventù in età scolare la “consapevolezza

spirituale” dell’eredità di Roma e della grandezza del regime, con l’obiettivo di veicolare valori e virtù e di trasformare gli scolari in cittadini-soldato. Romanità e scuola dunque costituiscono un’equazione incontestabile dell’ideologia fascista, sotto diversi aspetti.

In un’accezione di cultura e corpo di pensiero rivolti alle componenti sociali dominanti: la lingua e la letteratura latina, così come la storia antica di Roma, erano materie per tradizione - e ben prima della riforma Gentile - ritenute fondamentali nella formazione del ceto colto e dirigente. La romanità e la latinità erano ribadite nelle più disparate occasioni dal corpo docente, professori e presidi, che si presentava come portatore della cultura italiana ispirata direttamente dalle glorie di Roma.

Nel significato di pedagogia rivolta alla formazione di un consenso generalizzato: in forme diverse per tutti gli anni Venti e poi con toni più accentuati nel decennio successivo il culto di Roma venne introdotto tra i banchi di scuola e divenne un’ossatura nella pratica d’insegnamento dei cicli scolastici inferiori. Il Natale di Roma, la leggenda di Romolo e Remo, Muzio Scevola, la conquista di Cartagine, i Gracchi, Cesare, Augusto; e poi: il saluto romano, le legioni invincibili, il mare nostrum e l’espansione nel Mediterraneo: tutto ciò era proposto nelle pagine di storia, geografia e grammatica del sussidiario unico per le scuole elementari. La cinematografia, arte popolare e didattica per eccellenza e formidabile mezzo di propaganda, fu piegata alla celebrazione della romanità: nel 1937 uscì nelle sale “Scipione l’Africano” di Carmine Garrone, il più grande sforzo produttivo del regime fascista nell’industria del cinema. Il film conteneva espliciti riferimenti a Mussolini e alla conquista dell’Impero.

Le celebrazioni

La propaganda trasformò la figura del princeps Augustus da oggetto di interesse storico-antiquario a mito che implicava la missione universalistica della civiltà latina e la prefigurazione dell’Italia fascista. Era manifesto anche il paragone tra l’imperatore e il moderno condottiero del popolo italiano, il duce. Il 1937 coincise con il bimillenario augusteo. Gli eventi che secondo la vulgata storica del fascismo avevano caratterizzato la storia romana erano stati la fondazione dell’impero da parte di Augusto e la scelta cristiana dell’imperatore Costantino. Il 1937 fu battezzato perciò “l’anno dell'Aquila e della croce”. Il bimillenario fu celebrato fastosamente tra convegni, celebrazioni e mostre e furono invitati a parteciparvi numerosi studiosi. Nelle celebrazioni un ruolo centrale fu sostenuto dalla Mostra augustea della romanità, organizzata e aperta tra il 1937 e il 1938. La mostra si poneva l'obiettivo di creare un legame tra la storia passata di Roma e il presente e di eternare il mito del duce. Manifestazioni vigorose di una sacralizzazione della figura di Mussolini si erano avute nel 1932 alla Mostra della rivoluzione fascista, in occasione delle celebrazioni del Decennale, con l’apporto di architetti, artisti e intellettuali tra i più importanti (Libera, Terragni, Maccari, Sironi …). La Mostra della rivoluzione non a caso fu riaperta nella circostanza del bimillenario augusteo.

Volume celebrativo

Istituzioni della memoria di Roma

Il culto della romanità venne ben interpretato dalla rivista “Roma”, che iniziò le pubblicazioni nel 1923 e aderì rapidamente alla linea culturale del fascismo. Tematica di ricerca della rivista non fu solo la Roma antica, ma anche la Roma medievale e moderna, nella continuità storica auspicata dal regime. Il culto della latinità osservato dalla rivista propugnava, con semplificazioni e falsanti schematismi, la continuità tra la Roma imperiale e la Roma fascista. Negli studi pubblicati si crearono artificiali analogie fra le corporazioni romane antiche e le corporazioni fasciste, fra la politica demografica dell’antichità e quella del regime. Il richiamo alle conquiste romane incoraggiava e giustificava il colonialismo imperiale di Mussolini: in tale ottica, l’occupazione dell’Etiopia fu vista come il ritorno dell’Impero romano e il duce glorificato come nuovo Cesare o nuovo Augusto. La rivista diede anche un robusto sostegno alla difesa della cultura classica nella scuola e all’incremento nello studio del latino in Italia e all’estero. Dal 1925 “Roma” fu organo ufficioso dell’Istituto di studi romani, importantissima istituzione culturale che svolse una vasta attività di organizzazione intellettuale e fu luogo d’incontro tra la cultura cattolica più tradizionalista, quella nazionalista e quella fascista. Dotato di cospicui finanziamenti statali, l’Istituto fu un influente centro di potere accademico e politico, con articolazioni prestigiose nell’editoria e nella società. Nel 1935 promosse la pubblicazione del volume collettivo “Africa romana”, che prefigurava un indirizzo di ricerca storica in linea con le aspirazioni imperiali del regime.

“Da Roma a Mussolini”

Bassorilievo, 1940

Ruralismo fascista e mondo agreste latino

L’interesse del fascismo nei confronti del mondo rurale si spiega innanzitutto con il fatto che agli inizi degli anni Venti l’Italia era essenzialmente un paese agricolo. Nella campagna il regime poté ricercare un vasto appoggio politico, prima dalla proprietà terriera, poi dal consenso delle masse contadine. Nel 1925 l’avvio della “battaglia del grano” segnò un’importante tappa nel rapporto tra fascismo e campagne, anche di tipo propagandistico. La semplicità della vita di campagna fece da contraltare ideologico e intellettuale alla vita “insidiosa” delle città, anche se nel fascismo vi furono linee di tendenza culturale di segno opposto. Il motivo della civiltà agreste e dei suoi valori cattolici e conservatori fu al centro dell’iniziativa culturale di movimenti come “Strapaese”, fondato da Mino Maccari attorno alla rivista “Il Selvaggio”, e più in generale di un’attività propagandistica condotta attraverso i consueti canali del regime. Il richiamo alla cultura classica, ai paterna rura virgiliani, all’attività colonizzatrice del legionario di Roma, contadino-soldato, ancora una volta rappresentò la spinta al modello ideologico ruralista. Le misure pratiche del regime contro l’urbanesimo parlano invece di misure legislative contro l’affollamento delle città e di disciplina della geografia amministrativa, ma soprattutto della costruzione delle “città nuove” nell’area della bonifica integrale a sud di Roma: Littoria, Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia. Città edificate con criteri architettonici razionalistici, luoghi ideali di celebrazione dei rituali di regime, di fatto centri amministrativi e politici staccati dalle campagne circostanti e privi di scambio sociale con il mondo dei coloni.

In ordine, da sinistra a destra: Vista di Sabaudia

“Battaglia del grano”

Élitismo fascista

Dal culto di Roma il fascismo sembrò poter recuperare anche il modello verticista, gerarchico,

piramidale, élitarista. L’élitismo è una teoria politica basata sul principio per il quale il potere

è, ed è sempre stato, in mano a una minoranza. L’élitismo critica la massa, quale insieme

confuso di persone incapace di un’organizzazione interna; su questa incapacità delle folle si

fonda quindi la forza dell’élite, la quale è bene organizzata, portatrice di precisi interessi e

perciò naturalmente capace di mantenere il potere all’interno della massa. La critica alla

democrazia è connaturata, perché identificata con una sovranità illusoria ed egualitaria.

Preceduto in Italia, tra i due secoli, dalle dottrine di Pareto e Mosca, che pure presentano

sfumature diverse, l’élitismo fascista mostra caratteri nuovi, novecenteschi, che in fondo, ad

una riduzione estrema, si configurano nel rapporto tra capo (guida, duce) e massa, indistinta od

organizzata. E si lega, a riscontro, all’idea per cui le masse inseguono il mito, attraverso il

quale possono essere governate (Le Bon, Sorel). Il rinvio culturale e ideologico, in questo

contesto più volte sollecitato, va nuovamente ad un modello romano interpretato e divulgato in

chiave moderna: la potestà dei Cesari, la Roma gerarchica dell’Impero; ma anche l’Urbe

repubblicana, la cui democrazia era stata palestra per l’affiorare di élites formate da gruppi

politici e familiari.

TRA MODERNITÀ E CLASSICITÀ

ARTE FASCISTA Fascismo di pietra

Il regime, nel tentativo di portare l’architettura, come tutte le forme dell’arte, all’interno di una visione fascista, coinvolse architetti di diverse generazioni nella costruzione di nuove città o per dare alle strutture urbane del presente un volto urbanistico innovativo e ideologicamente coerente. A Roma e altrove su indicazione del regime si demolirono gli antichi edifici di origine medievale, rinascimentale e barocca, per dare spazio a nuove costruzioni edificate negli stilemi consentiti o promossi dagli organismi governativi. Negli intenti della committenza di stato, la nuova Roma fascista, per il ruolo che aveva come capitale e città-simbolo del regime, doveva diventare la rappresentazione dell’unione di antico e moderno, di conservazione e celebrazione delle vestigia del passato e nel contempo di espressione dell’architettura razionalista e della organizzazione fascista del territorio urbano. Il tentativo fu di restituire alla nuova città lo splendore tipico dell’età augustea, ma in chiave di attualità imperiale. Ai progettisti il regime consentì differenze di gusto, non di discorso architettonico.

Università di Roma, Scuola

di Matematica (Giò Ponti)

Demolire per costruire

Il 9 maggio 1936 Benito Mussolini annunciò in un celebre discorso davanti a una folla tripudiante la “riapparizione dell' Impero sui colli fatali di Roma”. Il processo di costruzione dello Stato totalitario ed espansionista era arrivato al suo apice, in una rilettura del culto della romanità finalizzato a presentare il nuovo modello attivistico dell’italiano moderno, pronto alla mobilitazione civile e militare in nome dello stato. Questo ritorno al passato in chiave modernista imponeva una distinzione tra la “Roma reale” e la “Roma antica”. Mussolini infatti aveva sempre detestato la prima arrivando a definirla, prima della guerra: “città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e burocrati [...] una enorme città vampiro che succhia il miglior sangue della nazione”. La “Roma antica” invece diventò un vero e proprio mito fascista, espressione del volgersi al passato quale strumento di un intervento proiettato verso il futuro. La conquista politica della “Roma reale” avvenne attraverso i monumenti, prima ancora gli sventramenti e le demolizioni.

Demolizioni a Roma

Arte come mito Durante il Ventennio l’arte assunse una precisa funzione

sociale e politica. Il fascismo prospettava di utilizzare

l’arte come strumento di governo spirituale della nazione,

facendole assumere una funzione educatrice. “L’arte del

consenso” vide la partecipazione, per convinzione o

convenienza, di numerosi artisti. In essi convivono nuove

forme e arte classica. Il gruppo di artisti denominato

“Novecento” (Sironi, Depero, Bertelli…) propone una

rievocazione dell’antico in cui affiora la ricerca delle

origini arcane della civiltà italica, con richiami a temi

come la maternità, la famiglia, il senso del sacro, la

religione del lavoro. Voleva essere, programmaticamente,

un “ritorno all’ordine”, un riflusso, un recupero dell’arte

figurativa della tradizione. Mario Sironi, tra impegno e

propaganda, nelle sue imponenti opere murali e decorative

si propone di riprendere la lezione dell’arte del passato e

del suo patrimonio simbolico e cerca di restituire

un’anima popolare all’esperienza e alla fruizione artistica.

In genere, gli artisti più allineati al regime utilizzarono

nelle loro opere, spesso di commissione governativa,

molti richiami alla mitologia e alla mistica del fascismo.

Mario Sironi, Il Duce

Stile fascista Intento del governo fascista, sempre dichiarato, fu di

istituire un nuovo stile architettonico: lo stile

“fascista”. Esso doveva essere moderno, in linea con

le esperienze artistiche più innovative del

razionalismo europeo, e allo stesso tempo mantenere

il legame con l’architettura romana, in accordo con i

sostenitori del classicismo - ancora vitale - e con il

culto della civiltà latina. In realtà, l’unione di stili

differenti, nel nome di un’ideologia volta al passato

eppure modernista, sfocia talvolta nell’eclettismo

architettonico e in un dualismo non risolto tra

monumentalità classicheggiante e razionalismo

nemico dell’accademia. Il “Foro Mussolini” invece

costituisce una coerente rappresentazione dello stile

“fascista”. Questo complesso di edifici, ad uso

sportivo e celebrativo, non aveva solo lo scopo di

richiamare la tradizione romana ma voleva rendere

esplicito il proposito fascista di renderla viva nel

presente: “un monumento che, riallacciandosi alla

tradizione imperiale romana, vuole eternare nei secoli

il ricordo della nuova civiltà fascista, legandola al

nome del suo Condottiero”.

“Foro Mussolini”

EUR: Esposizione Universale Romana L’EUR è in Italia l’esempio più significativo di un complesso edilizio fondato sulle linee del

razionalismo architettonico. Nei propositi del regime il progetto monumentale era finalizzato

all’esaltazione della “civiltà del littorio” e della figura del suo capo, Mussolini: un’architettura

di stato, improntata ai concetti di grandiosità, ordine e gerarchia, di luce e solarità. “La città

nella città” aveva dunque il compito di celebrare la superiorità del “genio italiano”, raccordando

la storia architettonica dell’Urbe, a partire dall’epoca romana, con la nuova civiltà rigenerata dal

fascismo. Il complesso di edifici, superato l’evento per cui veniva edificato, l’Esposizione del

1942, avrebbe assunto un ruolo centrale e fondante nella “nuova” Roma mussoliniana.

Avrebbero qui esordito la direzione di espansione urbanistica verso sud-ovest e una innovata e

unitaria concezione urbanistica, architettonica e decorativa. Ideologicamente, la monumentalità

che caratterizzava l’EUR avrebbe voluto destare e consolidare il sentimento dell’unità d’intenti

tra fascismo e cattolicesimo, nel segno della continuità romana. Il complesso rimase

incompiuto.

EUR in costruzione

EUR, Palazzo della Civiltà

Manifesto per l’Esposizione

Plastico del progetto E42

Romanità fascista al confine orientale

Romanità e mito della civiltà latina sono elementi costitutivi del “fascismo di confine”, del fascismo della Venezia Giulia. Il ricordo della Decima Regio e della XV Legione Apollinare, le memorie della Gens Julia e di Aquileia, di là dall’essere riferimenti classici per i ceti colti italiani della regione, diventano testimonianza di una terra restituita alla sovranità italiana con il sangue versato dai combattenti della Grande guerra. Il fascismo, nei territori orientali, vuole stabilire un nesso tra potestà romana, dominio veneziano e regime. Sul Carso e sulla linea dell’Isonzo, dove pochi anni prima s’erano combattute sanguinose battaglie, compaiono segni monumentali che, nel ricordare i caduti italiani, marcano il territorio e ne definiscono l’italianità. L’iconografia cristiana si unisce a quello della romanità; il ricordo di Aquileia romana e cristiana si sposa con il culto dei caduti. Il campo di battaglia è disseminato di monumenti a forma di ara, di tempietto, di piramide nello stile di quell’eclettismo classicheggiante in auge nell’Italia umbertina, rappresentato anche dal tempietto e dalla lupa capitolina posizionati nei giardini pubblici di Gorizia “redenta”. Tale impostazione domina la monumentalistica, soprattutto minore, del primo periodo dopo la guerra. Motivo ricorrente nei gruppi scultorei è quello della giovinezza troncata, dell’amore filiale (l’“angelo della morte” che sorregge il caduto), della pietas, romana e cristiana. Dal fragile ellenismo degli anni Venti si passa poi a forme più robustamente romane del periodo maturo del fascismo-regime. L’aquila romana, la Via Sacra, i fasci littori, i gradoni e le tombe dei generali vittoriosi disposti come in un esercito schierato nel mausoleo-sacrario di Redipuglia, inaugurato nel 1938, lo testimoniano. A qualche chilometro di distanza, il cippo dedicato al sindacalista Filippo Corridoni, socialista rivoluzionario e interventista, compagno politico di Mussolini morto combattendo nel 1915, lo conferma, con l’aquila che guarda ad est, ancora il fascio e la mano aperta nel saluto romano. In un’altra realtà vicina, il sacrario di Oslavia sopra Gorizia, l’eredità latina è percepita come riproposta della monumentalità romana tardo-imperiale.

Da sinistra a destra: Sacrario di Redipuglia in costruzione

Monumento a Filippo Corridoni, particolari

Sacrario di Oslavia

La legione dei caduti

Il nuovo sacrario militare di Redipuglia, progettato dall’architetto Giovanni Greppi e inaugurato dal duce nel settembre 1938, sostituì il precedente sacrario, edificato nei primi anni Venti su un’altura posta di fronte. È un monumento emblematico della simbologia fascista nella Venezia Giulia. Non soltanto perché raccoglie ben 100 mila caduti, di cui 60 mila ignoti, morti nelle battaglie sul Carso e non soltanto perché si presenta come coerente espressione architettonica di uno stile moderno e funzionale che tuttavia vorrebbe far rinascere le glorie della romanità, presentando lo schieramento di una monumentale legione di morti. Ma anche perché i morti del Carso sepolti nel colossale cimitero sono presentate come le falangi mute del nuovo ordine fascista al confine orientale, “sentinelle della nuova Italia”, testimoni, in un territorio abitato da popolazioni slave, della irreversibile appartenenza di questa regione alla nazione italiana: sulla tomba del comandante della Terza armata, il Duca d’Aosta, che sembra guidare questo esercito di caduti, è scritto: “In mezzo agli Eroi della Terza Armata sarò con essi vigile e sicura scolta alle frontiere d’Italia”. Del resto in un discorso pronunciato a Trieste nel lontano 1920, Mussolini - non ancora duce - aveva annunciato: “Il tricolore sul Nevoso [ai confini estremi del territorio orientale d’Italia] è sacro […] il tricolore sarà protetto dai nostri eroici morti: ma giuriamo insieme che sarà difeso anche dai vivi!”; e D’Annunzio, uno degli ispiratori politici e letterari del duce, aveva dettato: “Tra i massi del Carso e del Nevoso sorge qui un cippo del nuovo confine in Venezia Giulia rivendicata […] Vi posa sicura l’aquila vigilante”. L’aquila di Roma.

SIMBOLI E PAROLE I simboli

Il culto della latinità divenne nel fascismo una sorta di religione civile volta a convalidare lo sforzo compiuto dall’Italia per recuperare la grandezza, la potenza e lo splendore a cui si riteneva votata. I “chierici” della cultura classicista di fatto furono rivestiti della direzione culturale del paese. Ad un livello popolare, invece, le immagini della romanità invasero la vita pubblica. Quale simbolo del regime fu scelto il fascio littorio, a rappresentare la forza e l’unione dello stato. Rinascita della romanità e inizio di una nuova erano invece rispecchiati dall’uso istituzionale di affiancare il computo degli anni a partire dal 1922, data della marcia su Roma, a quello dalla nascita di Cristo. La nuova “era fascista” si numerava con un calendario desunto dalla latinità e segnato da numeri romani. Dalla tradizione di Roma antica fu calata nell’attualità una complessa simbologia: dal latineggiante titolo di “duce” assunto da Mussolini (in realtà una vera categoria politica), al citato fascio littorio, al gladio, al saluto a braccio teso, al “passo romano” (propriamente, un falso storico: era il nazista “passo dell’oca” mutuato in un presunto passo delle legioni romane e ora della milizia fascista), all’aquila con le ali aperte, emblema di vittoria. I gradi della Milizia fascista (MVSN) erano desunti dalla gerarchia delle legioni. I bambini inquadrati nelle organizzazioni fasciste erano denominati “figli della lupa”, a ricordo della lupa che secondo la leggenda aveva allattato Romolo e Remo, i fondatori di Roma. La stessa fondazione della città fu ricordata nella festività del 21 aprile (Natale di Roma), che di fatto sostituì la internazionalista e “sovversiva” festa del 1° maggio.

Il fascio littorio

Il fascio littorio fu l’emblema (di più: la personificazione in

termini di oggetto) del movimento fascista, poi partito,

poi regime. I fasces erano, nell’antica Roma, il simbolo

del potere di una magistratura, l’imperium. Si trattava di

un fascio cilindrico di verghe di olmo o betulla - lunghe

un metro e mezzo e legate assieme da corregge di

cuoio rosso - nel quale talvolta era infissa

un’ascia di bronzo: rappresentava il potere di punire, ma

nel contempo era simbolo di sovranità e unione. Persa la

sua primitiva funzione di somministrare la punizione

corporale e la pena capitale, il fascio divenne simbolo di

potere coercitivo e di unità dello stato. Era portato dai

littori, appoggiato sulla spalla sinistra, e variava nel

numero a seconda dell’importanza della magistratura. I

fasci costituirono una diffusa simbologia ai tempi della

rivoluzione francese: furono il simbolo repubblicano per

eccellenza. Il fascio fu recuperato durante il risorgimento,

a fine Ottocento dalle leghe socialiste e poi adottato dal

fascismo sin dal 1919 come segno del movimento. Nel

regime fu riprodotto ovunque, dalle monete e francobolli

alle decorazioni dei palazzi pubblici.

Guglielmo Sansoni, Fascio littorio

Politica linguistica del regime

La dittatura fascista utilizzò mezzi potenti e capillari di pianificazione

linguistica, con l’intento di potenziare l’idioma nazionale. La politica

linguistica del regime agì nella lotta ai forestierismi e all’esotismo, al

regionalismo dei dialetti, facendo proprio un disegno di purezza della

lingua. L’idea centrale si fondava sul concetto di difesa dell’unità

linguistica nazionale contro la corruzione proveniente dalle lingue

straniere: la propaganda del regime ricordava come i popoli forti

imponessero il loro linguaggio, mentre fosse da schiavi l’accettazione

dell’inquinamento della lingua. Le istituzioni centrali imposero una vera

“autarchia linguistica”, in parallelo con quella economica. Disposizioni

legislative severe e campagne dei mezzi di comunicazione furono poste a

protezione della lingua nazionale: contro gli idiomi usati dalle minoranze

(altoatesina, sloveno-croata: è una faccia della repressione etnica), contro i

termini stranieri di uso ormai comune, contro lo spagnolismo del “lei” a

favore del “voi”, imposto per legge. Il recupero della latinità quale matrice

linguistica della lingua nazionale fu al centro di questa operazione. Il

bersaglio era rappresentato dal linguaggio decadente e retorico dei primi

del secolo; ma l’esito fu di confermare un linguaggio non molto diverso,

per quanto corroborato da terminologia e neologismi “fascisti”. Della

classicità si colse la parte più oratoria, convertendola in esibizionismo

verbale, magniloquenza, uso di stereotipi. Questa impronta toccò anche la

pedagogia del regime, se è vero che anche un libro in uso nelle scuole

elementari (Libro e moschetto. Letture fasciste, testo unico per la classe

terza) era imbottito di latinismi, voci dotte, abuso di formule retoriche.

Dominava, insomma, l’equazione lingua nazionale-lingua della letteratura.

La parola del duce

Il fascismo è stato definito il “regime della parola”. Nel disegno dello stato fascista un “linguaggio nuovo” doveva accordarsi con l’“uomo nuovo” che il regime voleva creare. Il fascismo fu il suo capo - per l’emblematicità ed esemplarità di questi - perciò “lo stile nuovo” di Mussolini diventò, almeno nei propositi, la lingua ripetuta dagli italiani, nella concezione di gregarietà che confermava la distanza incolmabile tra le masse e il duce. L’imitazione della lingua mussoliniana divenne un vezzo e, in una certa misura, un obbligo. I caratteri formali della prosa del duce sono stati messi a fuoco dalla linguistica e dalla storiografia. Le frasi sono brevi, lo stile conciso, secco e perentorio; la sintassi appare frammentata. Manca la coordinazione. Le formule interrogative ed esclamative, l’uso degli avverbi si sprecano. La paratassi insistita vorrebbe trasmettere colloquialità. In generale si tratta di allocuzioni, più che interventi politici. Il registro linguistico d’altra parte ricorre ampiamente a neologismi ironici e caricaturali, come pure al lessico militare e religioso. La cultura latina e il mito romano vengono attinti a piene mani. Si vogliono rappresentare gli epigoni di Roma in marcia verso il destino: “Salve Dea Roma! Salve per quei che furono, sono e saranno i tuoi figli pronti a soffrire e morire, per la tua potenza e la tua gloria!”. La retorica di Mussolini, tra verbosità e lapidarietà tacitiana, trasuda di autoritarismo e di totalitarismo e sembra essa stessa li voglia comunicare.

Classicità e classicismo

Nella “fabbrica del consenso” l’incidenza del linguaggio copre un ruolo essenziale. L’oratoria di

Mussolini non punta ad un accoglimento razionale delle parole, ma emozionale, per smuovere

negli uditori sentimenti forti ed ottenere un’adesione immediata. Nell’accumulo di figure

retoriche, nella variazione dell’intonazione sembra contare il richiamo fonico, il suono in sé:

ciò comporta uno svuotamento del contenuto semantico. Non è una un’innovazione

mussoliniana. La tecnica oratoria del duce, poi replicata da gerarchi e quadri intermedi, più di

quella della classicità latina mostra di avere vicina la tradizione classicista della retorica

letteraria ottocentesca e risorgimentale, di quella dell’Italia liberale e finanche del socialismo a

cavallo dei due secoli. In quest’ultimo significato, anche per i trascorsi politici di Mussolini, la

terminologia volta alla mobilitazione e all’attivismo, la prosa infuocata e retorica del duce

mostrano un’esplicita continuità tanto con il linguaggio emotivo del sindacalismo

rivoluzionario, quanto con lo stile magniloquente di molti oratori del socialismo umanitario. Vi

è diversità di contenuto, ma i fondamenti culturali, classicisti, sono quelli dei ceti colti tra i due

secoli. Peraltro un uso consimile del linguaggio può essere rintracciato negli scritti e discorsi

di Carlo Rosselli e di altri antifascisti, con una evidente nota d’epoca comune. Nell’oratoria di

Mussolini, specificamente, possono essere rintracciate diverse fonti letterarie di stampo

classicista. Tra le principali: Giosué Carducci, nell’eloquenza e impiego dell’invettiva; Alfredo

Oriani, nell’incedere della prosa politica; Gabriele D’Annunzio, soprattutto quello del periodo

fiumano, nella tecnica di accumulazione e nell’espressione dai toni mistici e arcaici.

Il capo e la massa Mussolini nella foga di un discorso

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