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NUMERO MARZO 2012 7 Finalmente sud, per crescere insieme contributi di Giovanni Bazoli • Luca Bianchi • Carlo Borgomeo • Daniela Carmosino • Franco Cassano • Sergio D'Antoni Paola De Viro • Nerina Dirindin • Guido Formigoni • Don Antonio Lattuada • Eugenio Mazzarella • Guido Melis Annamaria Parente • Gianni Pittella • Giuseppe Provenzano • Umberto Ranieri • Giuseppe Vacca • Gianfranco Viesti

Finalmente sud, per crescere insieme

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contributi di Giovanni Bazoli • Luca Bianchi • Carlo Borgomeo • Daniela Carmosino • Franco Cassano • Sergio D'Antoni Paola De Viro • Nerina Dirindin • Guido Formigoni • Don Antonio Lattuada • Eugenio Mazzarella • Guido Melis Annamaria Parente • Gianni Pittella • Giuseppe Provenzano • Umberto Ranieri • Giuseppe Vacca • Gianfranco Viesti

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NUMERO MARZO 20127

Finalmente sud, per crescere insieme

contributi di Giovanni Bazoli • Luca Bianchi • Carlo Borgomeo • Daniela Carmosino • Franco Cassano • Sergio D'Antoni

Paola De Viro • Nerina Dirindin • Guido Formigoni • Don Antonio Lattuada • Eugenio Mazzarella • Guido Melis

Annamaria Parente • Gianni Pittella • Giuseppe Provenzano • Umberto Ranieri • Giuseppe Vacca • Gianfranco Viesti

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Stefano Di TragliaDirettore responsabile

Franco MonacoDirettore editoriale

Alfredo D’AttorreCoordinatore del Comitato editoriale

Valentina SantarelliSegretaria di redazione

COMITATO EDITORIALE

Massimo AdinolfiMauro CerutiPaolo CorsiniStefano FassinaChiara GeloniClaudio GiuntaMiguel GotorRoberto GualtieriMarcella MarcelliEugenio MazzarellaAnna Maria ParenteFrancesco RussoWalter TocciGiorgio Tonini

SITO INTERNETwww.tamtamdemocratico.it

[email protected]

Tam Tam Democraticospazio di approfondimentodel Partito Democratico

Proprietario ed editore Partito DemocraticoSede Legale - Direzione e RedazioneVIa Sant’Andrea delle Fratte n. 16, 00187 RomaTel. 06/695321Direttore Responsabile Stefano Di TragliaRegistrazione Tribunale di Roma n.270del 20/09/2011I testi e i contenuti sono tutelati da una licenza CreativeCommons 2.5 CC BY-NC-ND 2.5 Attribuzione - Noncommerciale - Non opere derivate

COMUNICAZIONEprogetto grafico/sito internetdol - www.dol.it

SOMMARIO

5 Giovani protagonisti di unanuova politicaAnnamaria Parente

9 Le radici della coesioneFranco Cassano

16 Ripensare l'Italia partendodal sudGianfranco Viesti

21 Un patto nazionaleper la crescitaLuca Bianchi

27 Scommettere sulla frontierameridionale della UeGiuseppe Provenzano

32 Ri-cominciare da una nuovacultura dello sviluppoCarlo Borgomeo

39 Per sconfiggere il fatalismoPaola De Vivo

44 La natura duale del welfarenazionaleNerina Dirindin

48 Il potere della cultura e lacultura del potereDaniela Carmosino

52 Il problema italiano e il PDGiuseppe Vacca

FOCUS

58 Dentro un disegno riformatorenazionaleUmberto Ranieri

65 Il circuito disuguaglianza-sottosviluppoSergio D’Antoni

69 Il sud crocevia del mondoche cambiaGianni Pittella

74 Le insidie del "benecomunismo"Eugenio Mazzarella

79 La Sardegna da depositoa croceviaGuido Melis

85 Andreatta, un cristianocon il senso dello Stato.Presentazione dei discorsiparlamentari di BeniaminoAndreattaGiovanni Bazoli

92 Principio di sussidiarietàe dottrina sociale cristianaDon Antonio Lattuada

96 De Gasperi, Dossettie il falso dilemmastatalismo-sussidiarietàGuido Formigoni

ALTRI CONTENUTI

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i-cominciamo a parlare di Mezzogiorno: unnumero "speciale" di TamTam che darà vitaa dibattiti e confronti con 2000 giovanicollegati nella grande piattaforma di Rete delprogetto di formazione politica del Partito

Democratico "Finalmente Sud". Percorso che, iniziato a Napoli con il segretario Pier Luigi

Bersani il 29 e il 30 ottobre scorsi, prosegue con modalità "adistanza" e prevede nei prossimi mesi incontri formativi alivello provinciale, regionale, nazionale. È un'azione del tuttoinnovativa nel panorama politico italiano ed europeo.

Riteniamo, infatti, che perché il Sud del nostro paese

RAnnamaria Parenteè Responsabile Formazione Politica Partito Democratico

Giovaniprotagonistidi una nuova politica

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FOCUS

possa diventare protagonista dello sviluppo dell'Italia e dinuovi equilibri geopolitici in Europa e nel Mediterraneo,bisogna costruire per i giovani del Mezzogiorno spazi reali dipartecipazione e crescita democratica. Il Partito Democraticoè al servizio di questa idea, carica di speranza e futuro.

Sperimentiamo qui l’avvio di una straordinaria"contaminazione" di pensiero ed elaborazione critica trastudiosi ed esperti, e le nostre ragazze e i nostri ragazzi,impegnati a rafforzare conoscenze e competenze, a partiredalla propria vita vissuta ed esperienza concreta.

Siamo convinti che l'apporto qualificato e appassionatodegli intellettuali coinvolti, e di altri o altre, che sono vicini alnostro percorso, possa far crescere nei partecipanti alprogetto di formazione la consapevolezza della necessità diprendersi cura del proprio e dell'altrui destino, spintaautentica all'impegno civico e politico.

E nello stesso tempo i giovani di Finalmente Sud hannol’occasione di alimentare un incubatore fecondo di idee,suggestioni, proposte, indispensabili ad un cambiamento dipasso e di prospettiva per affrontare il difficile momentostorico che viviamo e i cambiamenti epocali che ci attraversano.Come molto spesso accade, i periodi di crisi portano con séanche i semi della riscossa e di un futuro migliore.

Prendendo a prestito da Max Weber la descrizione dellequalità del politico: passione, senso di responsabilità elungimiranza, queste doti oggi vanno recuperate in sensogenerazionale.

Intendo dire che va superata la concezione dellaformazione di una classe dirigente come élite illuminata, perlasciar spazio ad un'azione capillare e "popolare" in grado distimolare un'intelligenza collettiva, votata al bene comune,fine ultimo della politica.

Insomma, si tratta di lavorare alla creazione di un nuovohumus da dove prenda forma una vera e propria “cittadinanzacompetente” da cui, se saremo capaci di centrare l’obiettivo,uscirà la futura forza politica del nostro Paese. Unpatrimonio “diffuso” capace di muovere azioni propulsive dimiglioramento sociale e collettivo.

E proprio al Sud, la crescita di un'intera "generazionepolitica" sarà tanto più efficace se contribuirà a fare uscire laconcezione del Mezzogiorno dalle secche di un dibattito, cheha spesso imputato alla classe dirigente meridionale laresponsabilità del mancato sviluppo.

È un tema questo che ha attraversato come un leit-motiv il

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Si tratta di lavorarealla creazione di un

nuovo humus dadove prenda formauna vera e propria

“cittadinanzacompetente” da cui,se saremo capaci dicentrare l’obiettivo,

uscirà la futuraforza politica del

nostro Paese

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giudizio di molti storici e osservatori, a partire da GiustinoFortunato, sostenitore dello Stato unitario in quanto capacedi supplire all’inefficienza delle classi dirigenti locali nel Sudd'Italia. Anche ai giorni nostri viene messa in evidenza lamancanza strutturale dell’amministrazione pubblica epolitica meridionale.

In occasione del 150° anniversario dell’unità d’Italia, lostesso Ivan Lobello, presidente degli industriali della Sicilia,ha dichiarato che “è inutile dare la colpa ai governi nazionalidella spaccatura economica e sociale del paese, ma laresponsabilità è della classe dirigente meridionale". Ecco cheil giudizio negativo attraversa la storia e ci vienericonsegnato oggi proprio dalla “gente” del Sud.

È ora di dire basta. Il reclutamento della classe dirigentepolitica e amministrativa deve passare attraverso un esamedi coscienza collettivo, un ethos pubblico, capace disuperare i meccanismi clientelari e i favoritismi personali edi fare il “salto di qualità” che vuole le competenze reali aservizio del bene comune.

Ri-cominciamo con una "rivoluzione delle coscienze",secondo un'espressione di Guido Dorso. Una rivoluzionedelle coscienze e del pensare in cui una "generazionepolitica" nel 2012 deve necessariamente recuperare unospirito nazionale, ma nello stesso tempo costruire un'identitàaperta che si forma, tiene conto ed agisce, in un quadrogeopolitico più vasto che vede il Mezzogiorno incastonato,come una pietra preziosa, nella saldatura dell’Italia,dell’Europa e del Mediterraneo, da cui non si può piùprescindere. Pensare quindi allo sviluppo del Sud non indimensione “localistica”, ma in una prospettiva più ampia.

Chiediamo proprio ai nostri giovani di adottare lo“sguardo lungo” per andare oltre.

È fondamentale seguire il filo di Arianna per chi oggi ha20, 25 anni e ciò significa ripercorrere con spirito critico lastoria di questi 60 anni che hanno visto il Mezzogiorno alleprese con interventi ordinari, straordinari, di nuovaprogrammazione, di sviluppo dall’alto, dal basso,centralizzato, decentralizzato.

Ma, sia chiaro, non si tratta di mere esigenze didattico-pedagogiche, ma di una vera e propria scelta politica estrategica.

È una visione profonda delle cose che si deve acquisire ecoltivare quotidianamente. Va promosso quel processo diconoscenza e di ascolto che potrà compiersi anche

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Anche ai giorninostri viene messain evidenzala mancanzastrutturaledell’amministrazione pubblica e politicameridionale

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Lo sviluppo delMezzogiorno vuol

dire sviluppo ditutto il nostro Paese

e questo noi loadottiamo come

paradigma dipartenza

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attraverso la realizzazione di dossier territoriali fruttodell’impegno sul campo dei giovani di Finalmente Sud.

Un’indagine su temi cruciali come lo stato dei trasporti, lamobilità urbana, la scuola, i servizi sociali e sanitari, el’occupazione, approfondimenti specifici da realizzare indimensioni dialoganti tra loro, come quella geopolitica,economica, territoriale, sociale, culturale, antropologica,letteraria, storica, deontologica e politica.

Solo così è possibile “chiudere il cerchio” per individuarela piattaforma di lancio del pensiero costruttivo, pragmaticoe programmatico del Mezzogiorno, capace cioè di mettereinsieme le riflessioni macro di esperti ed intellettuali, gliinterventi dei governi e la dimensione micro della nuova“mappatura civica” delle questioni e dei problemi chepulsano dal territorio.

È ora di guardare le condizioni reali, è ora di immergersinella verità delle cose. Insomma, tutti noi dobbiamo adottarelo “sguardo lungo” e salire fino alla cima della montagna pergodere dell’intero panorama, per capire dove ci sono lestrade, dove ci sono le piazze e i mercati e dove mancano,per guardare meglio il nostro orizzonte.

Dunque “Ri-cominciamo a parlarne"! Lo sviluppo delMezzogiorno vuol dire sviluppo di tutto il nostro Paese equesto noi lo adottiamo come paradigma di partenza, scintillanecessaria per dare di nuovo il via al dibattito per il Sud.

FOCUS

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n un articolo comparso circa due anni fa su “IlMulino”1 Michele Salvati ha formulato ungiudizio del tutto condivisibile: la storiarepubblicana ha conosciuto due stagioni politicheorientate ad affrontare con serietà la cosiddetta

questione meridionale. La prima è stata la stagione dell’intervento straordinario,

nella quale campeggia la figura di Pasquale Saraceno; laseconda è quella che inizia alla fine degli anni Novanta,allorché venne istituito presso il Ministero del Tesoro, alloradiretto da Carlo Azeglio Ciampi, del “Dipartimento per lePolitiche di Sviluppo e di Coesione” affidato alla direzione diFabrizio Barca.

Si è trattato, affermava Salvati, di due strategie diverse,“ma entrambe sorrette da una visione coerente e attuate,almeno nella fase iniziale, da politici tecnici e amministratoridi grande qualità”.

Noi aggiungeremo solo che, al di là della comune serietà espessore culturale, la differente filosofia che ha ispiratoquelle due stagioni era anche il riflesso di due diversi periodidello sviluppo capitalistico di questo dopoguerra, la primacontrassegnata dalla centralità del compromesso tracapitalismo e democrazia e dal ruolo attivo e propositivodell’intervento statale e la seconda, nata quando quelcompromesso era saltato, caratterizzata invece daun’ispirazione antistatalista e tutta orientata allamobilitazione degli attori dal basso e su scala locale e allosviluppo del “capitale sociale”.

1. M. Salvati, Una modesta proposta per una grande questione, Il Mulino, 448, n. 2, 2010, pp. 215-225.

IFranco Cassanoinsegna Sociologia della Conoscenza all’Università di Bari

Le radicidella coesione

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Abbiamo ricordato il giudizio di Salvati perché, all’iniziodel 2010, quando il suo articolo comparve sulle pagine dellarivista bolognese, la stagione del Dipartimento sembrava unavicenda conclusa e destinata solo ad una riconsiderazioneretrospettiva, mentre oggi essa sembra essere tornata alcentro dell’attenzione con il governo Monti, nel qualeproprio a Barca è stato affidato l’incarico di ministro dellacoesione territoriale.

Si tratta sicuramente di una discontinuità rispetto algoverno precedente e di un segnale positivo perché Barca,come abbiamo appena ricordato, ha le carte in regola peressere un ottimo ministro ed alcune delle sue prime mossenon solo non sono improvvisate, ma costituiscono unaripresa del filo del suo lavoro, fortificato non solo da unalunga esperienza, ma anche da una fase di riflessione criticaed autocritica.

La filosofia che lo sottende è la stessa, quella che mira adinnescare dal basso e su scala locale la creazione e losviluppo di “capitale sociale”, che si propone di suscitare unamobilitazione capillare e di diffondere spirali virtuose,rinnovando il tessuto sociale del sud e sottraendolo allapassività, al particolarismo e al clientelismo.

Si tratta di scavalcare gli evidenti effetti perversi di unatradizione dell’intervento fondata sul primato dello statocentralizzato, abituato a governare dall’alto, senza laconoscenza concreta delle situazioni e spesso prigioniero di“filiere” consolidate di interessi (economici e politici) che,invece di orientare il flusso delle risorse pubbliche verso laproduzione di utilità collettive, lo deviavano a proprio favore.

La nuova filosofia, la cui gestazione peraltro risale ad unperiodo di elaborazione collettiva maturata tra gli anniOttanta e Novanta intorno alla rivista “Meridiana” e alla casaeditrice Donzelli, mira a ridefinire il ruolo del ministero: nonpiù erogatore di spesa, ma soprattutto strumento perottimizzare la redditività delle risorse destinate al sud, inprimis quelle dei fondi strutturali europei.

Uno strumento flessibile a disposizione del protagonismodelle regioni meridionali, ma orientato a contrastare quellepatologie che anche in tempi recenti hanno favorito ladispersione delle risorse pubbliche per fini elettorali,allontanandole dall’obiettivo principale, quello dellaproduzione di utilità collettive di lungo periodo: se, cometroppo spesso è accaduto, si dispensano soldi per unamiriade di eventi e interventi, li si sottrae a qualsiasi

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Si tratta sicuramentedi una discontinuità

rispetto al governoprecedente e di un

segnale positivoperché Barca, come

abbiamo appenaricordato, ha le carte

in regola per essereun ottimo ministro

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coordinamento e a ogni miglioramento qualitativo delleinfrastrutture collettive. In altre parole si crea un consenso abreve termine, ma danni incalcolabili all’utilità di lungoperiodo, si vive nell’oggi, ma si rinuncia al domani.

Da questa visione non economicistica dello sviluppodiscende la necessità di monitorare continuamente lagestione del flusso delle risorse pubbliche, di ottimizzare itempi e i modi del loro utilizzo, premiando i comportamentivirtuosi e fissando obiettivi d’interesse generale:infrastrutture, scuola, comunicazioni, ecc. Di questa nuovaforma di presenza del soggetto pubblico al sud sono dasottolineare almeno due novità rilevanti.

La prima è soprattutto sul piano della forma: a dirigerenon è più la scelta autoritativa dell’ente erogatore, ma unastruttura impegnata a produrre partecipazione ecollaborazione, ad aumentare la trasparenza dei processi e lapossibilità di auto-correzione per ottimizzare l’uso dellerisorse. Si tratta di innescare il protagonismo degli attori enon la loro passività.

La seconda novità discende invece dalla fissazionerigorosa di una gerarchia temporale: si deve privilegiarenon più il presente, il consenso a breve, ma il futuro. I costisopportati nel presente non sono fini a se stessi, ma uninvestimento, la premessa necessaria per la produzione diutilità collettive e di lungo periodo.

Ma, una volta riconosciuti i meriti e le novità dellapolitica messa in campo da Fabrizio Barca, per capire qualedestino verrà riservato al Mezzogiorno nei prossimi anni ènecessario fare spazio anche a qualche riflessione critica dinon lieve entità.

In modo sintetico ci sembra che la filosofia che guidal’azione del Ministro, i cui pregi abbiamo ricordato, sia peròlargamente insufficiente in ragione di due limiti tra lorostrettamente connessi: il primo è un limite cognitivo einterno a quella stessa filosofia; l’altro, pur essendostrettamente connesso al primo, deriva invece dallacontraddizione tra l’ethos positivo e costruttivo chesottende tale filosofia e l’ispirazione dei governi italiani degliultimi anni, compreso il governo Monti.

Tali governi, pur essendo tra loro molto diversi, hannoavuto, e continuano ad avere, una logica di movimento cheva nella direzione esattamente opposta a quella di unrilancio del Mezzogiorno.

Del primo limite abbiamo parlato più analiticamente in

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è necessariocontrastare patologieche anche in tempirecenti hannofavorito ladispersione dellerisorse pubbliche perfini elettorali,allontanandoledall’obiettivoprincipale, quellodella produzione diutilità collettive dilungo periodo: se,come troppo spesso èaccaduto, sidispensano soldi peruna miriade dieventi e interventi

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2. F. Cassano, Tre modi di vedere il sud, Il Mulino, Bologna 2009.

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Per evitareinteressati

fraintendimentioccorre essere molti

chiari: leresponsabilità delle

classi dirigentimeridionali sono

molto gravi e senzaun profondo

cambiamento deiloro comportamenti e

dei loro costumi èimpossibile sperare

in un futuro diverso

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altra sede, mettendo in evidenza il suo “rimosso”, le zoned’ombra di quello che abbiamo chiamato il “localismovirtuoso”2.

Cercando di ridurre al loro nucleo essenziale le criticheallora formulate, noi riteniamo che il limite del localismovirtuoso stia nel fatto che esso sembra imputare il “ritardo”del mezzogiorno italiano esclusivamente alla “cultura” deimeridionali, operando una pesante rimozione dell’incidenzadi altri fattori politici e strutturali.

Su questo punto per evitare interessati fraintendimentioccorre essere molti chiari: le responsabilità delle classidirigenti meridionali sono molto gravi e senza un profondocambiamento dei loro comportamenti e dei loro costumi èimpossibile sperare in un futuro diverso. E proprio perquesta ragione la fine dell’intervento straordinario potevaessere l’occasione per aprire una strada nuova.

L’imperativo “non ci sono più risorse, smettiamo dilamentarci e mobilitiamoci usando al meglio quelledisponibili”, permetteva infatti di colpire antiche e perverseabitudini e di spingere all’azione, condannando ogni alibi,inerzia o complicità.

Ma questo volontarismo, per quanto nobile edencomiabile, non può non imbattersi, prima o poi, in quellaparte della realtà che non prende in considerazione, cioènell’incidenza sulla vicenda del sud di fattori dipendenti dalsuo rapporto “ineguale” con la cornice nazionale einternazionale.

La complessità rimossa, come ci insegna Freud, è destinataa ritornare: una volta condannate come ideologiche econsolatorie le prospettive che sottolineano le componentiesterne delle difficoltà attuali, queste ultime continuerannoad essere imputate sempre e soltanto ad un insuperabiledeficit morale e culturale del Mezzogiorno.

Del resto questa è l’immagine, tutt’altro che disinteressata,che oggi domina largamente i media e il dibattito pubblico. Eallora vale la pena di ripeterlo: l’incidenza dei fattori culturalie soggettivi interni al Mezzogiorno è innegabile, ma farscomparire dal quadro l’incidenza degli altri fattori significacondannarsi all’insuccesso. Tra una cornice teorica mutilata ela scarsa produttività dell’azione politica s’istituisceun’evidente circolarità negativa.

Il secondo limite ci sembra invece quello che deriva dal

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Per ripartire bisognagettar via i pesimorti e rendere piùagili le aree giàpresenti sul mercatoglobale. L’ideadi politicheperequative èdel tutto fuoritempo e apparepateticamenteobsoleta opericolosamenteestremista

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conflitto esistente tra i passi che sarebbero necessari per unapolitica di rilancio del Mezzogiorno e la filosofia complessivache ispira questo governo. Per far ripartire il motoreingrippato della crescita l’idea-guida è quella di interveniresul sistema-paese in funzione di una precisa priorità:rilanciare le aree forti al fine di renderle più competitive nelquadro dell’economia globale.

Del resto è questa oggi la logica prevalente: per ripartirebisogna gettar via i pesi morti e rendere più agili le aree giàpresenti sul mercato globale. L’idea di politiche perequative èdel tutto fuori tempo e appare pateticamente obsoleta opericolosamente estremista.

Ma questa logica vuol dire, anche se non è elegante dirlo,accentuazione del divario tra centro e periferia, con l’unicaeccezione della cooptazione, faticosa e intermittente, diqualche area di confine, utile anche per esibire un’apertura piùdi facciata che reale. In altre parole la questione settentrionalenon è rappresentata solo dalle guasconate della Lega.

Alle sue spalle non da adesso esiste una versione più alta esofisticata, dove al posto del separatismo e dei miti difondazione, si propone come criterio-guida quellodell’efficienza e della competitività del sistema. Non più l’altagradazione etilica delle feste padane né il populismo arci-italiano di qualche cavaliere, ma la sobrietà dei conticertificata con la carta intestata della Bocconi.

In altre parole accanto al settentrionalismo rustico ecaricaturale del leghismo ne esiste un altro, sobrio ed urbano,che cammina dietro il vessillo di principi generali, presentaticome virtuosi e benefici per tutto il sistema.

Non è un caso che in occasione della conferenza di fined’anno il premier, di fronte a ben due domande sulMediterraneo, abbia risposto con un esplicito rinvio allanecessità di un approfondimento su questi temi, rinvio chenon può non far temere l‘assenza di idee significativesull’argomento.

Rispetto all’angustia territoriale della Lega questo nuovosettentrionalismo ha un respiro universalistico, che insistemolto sui valori dell’efficienza e della ricostruzione di criteriminimi di meritocrazia. Tale universalismo rappresenta uninnegabile passo in avanti, purché non si dimentichi che ununiversalismo dimezzato non è vero universalismo.

In altre parole in un quadro come quello italiano lafamosa uguaglianza delle opportunità, se non viene costruitaattraverso una forte e coraggiosa azione di riequilibrio

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3. D. C. North, Understanding the Process of Economic Change, Princeton University Press, Princeton N.J. 2005; trad. it.: Capire il processo dicambiamento economico, Il Mulino, Bologna 2006, p. 213.

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Per rilanciare ilruolo dell’Italiafacendo leva sul

Mezzogiorno, percostruire una

coesione forte, uncampo da gioco realee non simulato, per

innescare una grandecrescita del “capitalesociale”, è necessariointaccare seriamente

i rapporti di forzaesistenti

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territoriale, corre il rischio di produrre soprattutto ilpotenziamento e la razionalizzazione delle tendenze esistenti,che già da tempo calamitano le risorse nelle zone più ricche esviluppate del paese: dal risparmio ai laureati e agli studentimigliori attratti dalle università “virtuose”, dai finanziamentialla ricerca agli investimenti in infrastrutture.

Per non parlare della lunga e desolante assenza di unapolitica estera degna di questo nome e capace di cogliere alvolo le occasioni offerte, nel ventennio seguito alla cadutadel muro, dallo spazio mediterraneo. L’attuale governo nonha questa parola nel suo vocabolario, ma anche quei governiche ogni tanto la pronunziavano non hanno fatto nulla.

Non è inutile concludere queste brevi riflessioniricordando un brano di Douglass North, insospettabilepremio Nobel per l’economia nel 1993: “l’”economiaglobale” non è un campo da gioco in cui tutti partono dazero: i paesi sviluppati godono di maggiori vantaggi, inquanto possiedono un contesto istituzionale/organizzativoche (..) riesce a catturare la produttività potenziale derivantedall’integrazione della conoscenza dispersa”3.

In altre parole: il campo da gioco è inclinato e si corre ilrischio che a vincere siano sempre gli stessi. Il che tradotto initaliano vuol dire: per rilanciare il ruolo dell’Italia facendoleva sul Mezzogiorno, per costruire una coesione forte, uncampo da gioco reale e non simulato, per innescare unagrande crescita del “capitale sociale”, è necessario intaccareseriamente i rapporti di forza esistenti. Ipotesi che,nonostante l’alta qualità dell’attuale ministro per la coesioneterritoriale, non sembra essere all’orizzonte.

Sappiamo bene come la via che indichiamo sia moltodifficile, ma essa è l’unica che può salvare il Mezzogiornodallo scivolamento, peraltro già in corso, verso un leghismomimetico e perdente. E quindi anche l’unica per salvarel’unità del paese.

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n questo momento in Italia abbiamo grandiopportunità ma per trasformarle in realtà occorreancora un grande sforzo. La mia personale opinioneè che il cambiamento di governo è stata unacondizione assolutamente necessaria, ma

assolutamente non sufficiente. Con il nuovo governo lepolitiche di sviluppo per il Mezzogiorno sono ripartite.

Questa è una buona notizia. Ci speravo, perché nel DNAdi Mario Monti vedo un’Europa antica, un’Europa che mipiace. Un’Europa nella quale liberalizzazioni e coesione sonodue facce della stessa medaglia. Quello che Monti scrivevacome consulente della Commissione europea nel 2010 eraesattamente questo: tanto più ci vuole mercato interno, tantopiù ci vuole coesione sociale e territoriale. Lo ha dimostrato,non solo scegliendo opportunamente il ministro, ma dandoun ruolo di un certo peso alle politiche di coesionenell’azione del governo.

Ripensare l'Italiapartendo dal sudGianfranco Viestiinsegna Politica Economica all’Università di Bari

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Qui non parliamo di dettagli, qui parliamo di un pezzo dipolitica che è fondamentale per l’intera Europa. Lasituazione europea è preoccupante. Noi corriamo il rischiodi avere un’opinione pubblica e una politica europea cheabbandonano un paese dell’Europa, un paese civile, unpaese fratello, la Grecia, perché l’Unione è incapace didisegnare insieme alle indispensabili politiche di coerenzafinanziaria anche delle politiche di sviluppo e per lacrescita.

Le politiche di coesione sono il pezzo più importantedelle politiche di sviluppo che già oggi ci sono in Europa. Ilfatto che oggi a Bruxelles non ci va Tremonti ma ci vaMonti, che con Barca stiamo discutendo dellaprogrammazione 2014/2020 sta facendo giocare al nostropaese un ruolo importante nel rilancio delle politicheeuropee per la crescita.

A questo sta corrispondendo in Italia un’azione digoverno per la coesione territoriale con interventi moltoveloci e molto opportuni. Non ho nessun problema adesprimere una tesi del tutto favorevole a quello che si stafacendo. Alla riprogrammazione degli interventi, che comeabbiamo visto ha suscitato delle reazioni fisiologiche nelleregioni del Sud, alla concentrazione su alcuni assi di cuiquello della scuola è assolutamente fondamentale.

Vi è complessivamente il tentativo di rilanciare questepolitiche. Non si sta provando solo a salvare la spesa, macontemporaneamente a migliorare la spesa dell’oggi e alavorare su regole per il domani. Queste regole sono moltoimportanti. Queste politiche non possono produrresoltanto numeri, ma devono produrre realizzazioni che icittadini vedono, che i cittadini sentono, che i cittadinivivono nella loro vita.

Queste realizzazioni devono concretizzarsi in tempiragionevoli. Ad esempio il Ministro Barca raccontava dicome una delibera Cipe abbia oggi bisogno di 14 passaggisuccessivi per diventare efficace. Questo è intollerabilenormalmente; oggi, con la crisi, è devastante.

Il punto più delicato e più importante dell’operazione cheBarca sta facendo è quello di far uscire queste politiche dallestanze chiuse della tecnica e di riportarle nel dibattito politico.

Qui vorrei esprimere un’opinione molto chiara: abbiamoun deficit di discussione su questi temi; dobbiamo discuternedi più nel merito anche al Sud, anche criticando di più gliamici: perché così si costruisce contemporaneamente

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Quello che Montiscriveva comeconsulente dellaCommissioneeuropea nel 2010era esattamentequesto: tanto più civuole mercatointerno, tanto più civuole coesione socialee territoriale

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democrazia e politica economica. Questa politica è indispensabile. Ma non basta: perché

non siamo in un paese normale, in un momento normale.Faccio degli esempi molto facili per far capire come lapolitica di coesione territoriale sia un elementoindispensabile ma assolutamente non sufficiente per ilrilancio della crescita soprattutto al Sud. Il temaMezzogiorno, nell’agenda politica, non si può esaurire conquesta azione pur importantissima sulle politiche di sviluppo.

Parliamo di treni. È molto opportuno che laprogrammazione si indirizzi su nuove reti. Ma qui abbiamoun problema di fondo: le Ferrovie dello stato sono totalmenteindipendenti dalla politica; non rispondono più a nessuno.

Non è un problema solo di treni notte tra il Nord e il Sudma di visione del paese; di che cosa è la vita dei pendolaririspetto al business dell’alta velocità. Al Sud, noi rischiamodi avere nuove reti su cui non circolano i treni per i tagliall’operatività delle ferrovie. Abbiamo un interessanteproblema di regole, e di rapporti fra il gestore della rete euno dei gestori del servizio, che coincidono e che rallentanolo sviluppo dei collegamenti. Possiamo progettare tutti icantieri che vogliamo, ma se non risolviamo questoproblema politico di organizzazione del paese a monte nonandiamo molto lontano.

Parliamo di Università. I fondi Fas stanziano molterisorse per nuove strutture. Ma le università del Sud, comemolte altre dell’intero paese, sono istituzioni quasi morenti.Stanno uscendo un numero enorme di docenti e non entrapiù nessuno, perché ci sono regole nazionali difunzionamento che sono sbagliate.

Non tutto ciò che fanno le università del Sud è giusto,assolutamente; hanno fatto anche tantissimi errori; e che cisiano regole di premialità e di punizione è moltoopportuno. Ma le regole della Gelmini sono semplicementeassurde, e rischiano di dare il colpo finale all’universitàpubblica in Italia. Possiamo costruire nuovi palazzi e nuovefacoltà, ma se non facciamo vivere le università questipalazzi, finanziati con i FAS, rimarranno vuoti.

Una battaglia fondamentale è quella che ci porta a lavoraresui servizi sugli anziani e sui bambini, per creare lecondizioni anche al Sud perché possa crescere l’occupazionefemminile. Anche qui si realizzano nuove strutture; ma tutti ifondi nazionali per le politiche sociali sono stati azzerati. Gliasili nido rischiano di rimanere vuoti.

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Le università delSud, come moltealtre dell’intero

paese, sonoistituzioni quasimorenti. Stanno

uscendo un numeroenorme di docenti e

non entra piùnessuno, perché ci

sono regole nazionalidi funzionamentoche sono sbagliate

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Parliamo del federalismo fiscale; i fondi perequativi delfederalismo fiscale a livello comunale non sono definiti edunque il finanziamento ordinario degli enti locali delMezzogiorno è totalmente a rischio. Noi possiamo discuteree proporre tutto quel che vogliamo sulle città ma nonsappiamo ancora se i comuni saranno in grado di funzionare.

Ultimo esempio. Siamo in un paese nel quale da tempo nonesiste più una politica industriale e il dibattito è polarizzato tradue estremi, che io personalmente non apprezzo: da un lato“diamo tanti soldi alle imprese, perché così le salviamo”, edall’altro l’idea un po’ infantile ma molto diffusa che “meno sifa meglio è perché il mercato aggiusta tutto”.

La presenza dell’industria al Sud è fondamentale. Ma per avere una presenza dell’industria bisogna costruire

un ambiente favorevole, servizi pubblici collettivi e efficienti.Ma bisogna anche accompagnarla con una politicaindustriale. Quale politica, fatta come, con quali risorse: untema che è uscito dal dibattito politico.

Insomma io credo che siamo in una vera e propria fasecostituente, nella quale la nostra agenda è talmente piena dafare paura. Perché amministrare bene una Regione ol’Università è fondamentale ma non basta; fare buonepolitiche di sviluppo, usare bene i fondi per lo sviluppo èfondamentale, ma non basta. Siamo in una fase costituentedel Paese nella quale soprattutto noi Sud ci giochiamo tutto.

La politica, i partiti, in questa fase sono molto preoccupanti.Io vedo tanti volti, ma pochissime idee; tanta tattica, manessuna strategia. L’economista non fa politica, mal’economista sa che le politiche economiche si fanno se intornoad esse si crea consenso. I meccanismi di formazione delconsenso della politica sulle politiche sono molto importanti.

Da questo punto di vista sono molto spaventato: i governitecnici non possono che essere un’eccezione, ma sembraquasi che il governo tecnico sia l’unico che fa politica inquesto paese. Questo mi terrorizza perché lo sviluppo delMezzogiorno non avviene con direttive amministrative, maavviene se è dentro ad una visione politica del paese. Tra unanno votiamo, su che votiamo? Dov’è il dibattito su questepolitiche? Questo mi pare un punto fondamentale.

Abbiamo bisogno di un’offensiva straordinaria, culturale epolitica, in questi mesi. Abbiamo bisogno di un raccontonormale del Mezzogiorno, che faccia piazza pulita delledeformazioni tremontiane, ma anche del racconto sciattoche ci viene continuamente dai mezzi di informazione. Barca

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Abbiamo bisognodi un raccontonormale delMezzogiorno, chefaccia piazza pulitadelle deformazionitremontiane, maanche del raccontosciatto che ci vienecontinuamente daimezzi diinformazione

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sarà bravissimo, Monti andrà bene, ma se non sfondiamo ilmuro di comunicazione con l’opinione pubblica nazionalequello che raccontiamo di noi stessi non sarà sufficiente.

Abbiamo bisogno di un racconto, di una fase in cuil’Italia torni a conoscersi con tutte le sue debolezze (legrandissime debolezze che abbiamo nel Mezzogiorno di cuici dobbiamo fare carico noi), ma anche tutte le forze che ha(e che abbiamo nel Mezzogiorno). Forze, del Sud, che sonoa disposizione del paese.

Ci serve una diagnosi attenta, senza infingimenti: l’unicomodo per arrivare ad un progetto. Non ha molto sensodiscutere di questioni tecniche se queste questioni tecnichenon sono in una cornice politica opportuna. Di una politicache voglia ricostruire diversamente questo paese a partiredai giovani, a partire dalle donne, a partire dalMezzogiorno.

Questo è l’ambizioso programma che abbiamo davanti inquesti mesi. Questa è la nostra agenda (da alzarsi eandarsene tanto è complessa, tanto è ambiziosa). Ma èun’agenda logica, nella quale tutto si tiene: le politiche conla politica, in primo luogo.

Non siamo in un paese normale, non siamo in un momentonormale: di questo ci dobbiamo rendere conto. Rilanciare ladiscussione e l’azione sul Mezzogiorno è un obiettivo talmenteambizioso da far tremare i polsi, ma è l’unica strada cheabbiamo. Ricominciare a pensare l’Italia partendo dal Sud.

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Rilanciare ladiscussione e l’azione

sul Mezzogiorno èun obiettivo talmente

ambizioso da fartremare i polsi, ma è

l’unica strada cheabbiamo.

Ricominciare apensare l’Italia

partendo dal Sud

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l Mezzogiorno è ancora fortemente condizionatoda vincoli strutturali, dal ritardo sul versante delreticolo istituzionale, da patologie socialiaccentuate, ma è anche una realtà profondamentediversa rispetto al passato; al suo interno ci sono

infatti aree produttive dinamiche, a volte di eccellenza, chenon riescono però a fare sistema.

La considerazione di una realtà cosìcomplessa, in cui convivono situazioni diarretratezza economica con esperienze dimodernità ed efficienza richiede unripensamento delle logiche e degli strumentidelle politiche necessarie ad accelerare unordinato sviluppo dell’intero Paese; politiche icui frutti saranno ancora maggiori nelleregioni meridionali.

La costruzione di una politica dicoesione territoriale più incisiva passanecessariamente per un impegno diversoper il Mezzogiorno nell’ambito dellepolitiche ordinarie nazionali e per unarevisione critica delle funzioni e dellemodalità di applicazione degli interventispecifici (nazionali e comunitari, centrali eregionali) per il Sud. Si tratta di unobiettivo complesso cui sono chiamati adare un contributo tutti gli attori economicie politici. Ma per fare questo occorre inprimo luogo ricostruire un nuovo pattosociale per la crescita tra i territori del Norde del Sud del Paese.

L’ultimo quindicennio si è trascinato inuna continua contrapposizione tra questionesettentrionale e questione meridionale,

Un patto nazionaleper la crescitaLuca Bianchiè Vice Direttore della Svimez

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finendo per acuire le distanze e per deprimere la capacitàproduttiva dell’intero sistema nazionale.

Con la conseguenza particolarmente dannosa dialimentare, al Sud come al Nord, particolarismo erivendicazionismi e i conseguenti ricatti politici delle “leghe”territoriali che hanno portato ad avere Ministri (e addiritturaMinisteri) del territorio e sempre meno sviluppo.

Ne è risultata, com’è ormai noto, una situazione diparallelo declino, che pur mantenendo sostanzialmenteinvariato le distanze tra Sud e Nord ha visto l’intero Paesescendere nelle graduatorie mondiali.

È dunque assolutamente da rigettare, perché errato anchenei fondamenti economici, un approccio che contrappone leesigenze del sistema produttivo delle aree più sviluppate delNord con le necessità di sviluppo delle regioni meridionali.

E l’approccio che troppe volte ha guidato il GovernoBerlusconi, con il supporto ideologico del prof. Tremonti,che, nel Piano Nazionale delle Riforme 2020 e ancora nellalettera alla BCE, ipotizza l’esistenza di due sistemi economicidistinti: quello del Nord, che funziona e ha bisogno solo diaggiustamenti e quello del Sud, completamente da ridefinire.

In realtà gli andamenti dell’ultimo decennio hannodimostrato come la dipendenza dalle scelte nazionali e leinterrelazioni economiche tra le due aree sono così profondeda condizionare i risultati di ciascun territorio.

Nel Sud pesano ancora più che altrove i costi “indiretti” diuna Pubblica amministrazione inefficiente, di un carico fiscalepiù alto di quello dei competitors, delle carenze nel sistemainfrastrutturale e logistico, di un inefficiente sistema del credito.

Il sistema produttivo meridionale soffre, così come quellodel Nord, la perdita di competitività dei settori tradizionali e iritardi nella penetrazione sui mercati innovativi.

Le diverse condizioni del contesto territoriale nelle dueripartizioni del Paese richiederanno dunque tipologie edintensità di interventi diversi ma con il comune obiettivo dimigliorare – attraverso una maggiore funzionalità deimercati, una più alta qualità dei servizi collettivi e unrilancio della produttività – le condizioni competitive delsistema produttivo italiano.

Il Governo Monti proprio sulla capacità di superare undecennio di stantia dialettica Nord-Sud si gioca le possibilitàdi ricostruire, facendo leva sullo straordinario contributo allacoesione nazionale svolto dal Presidente Napolitano, una viad’uscita dalla crisi economica e politica.

Le diversecondizioni del

contesto territorialenelle due ripartizioni

del Paeserichiederanno

dunque tipologie edintensità di

interventi diversi

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Le priorità indicatedall’esecutivo sonotre: sistemascolastico, agendadigitale,infrastruttureferroviarie.Interventiampiamentecondivisibili e sceltisoprattutto per laloro capacità diincidere sullaqualità della vitadel cittadino

Il cambio di prospettiva rispetto al precedente Governoappare chiaro. La differenza con il Governo Berlusconi sta giànella indicazione, emersa dalla stessa scelta di istituire unMinistero con questa missione, che gli interventi di politica dicoesione, contrariamente a quanto avvenuto sino ad oggi,entrano a pieno titolo nella strategia complessiva dell’esecutivo.

Appare d’altronde chiaro dal lavoro di questi mesi delMinistro Barca l’obiettivo di porsi a supporto di strategienazionali ordinarie di azione sui diversi campi dall’istruzionealle infrastrutture, dalla pubblica amministrazione al welfare,cercando di rafforzare, e ove possibile orientare, gliinterventi attraverso la disponibilità dei fondi europei.

Si tratta di un tentativo difficile, soprattutto in una fasecome questa, ma che rappresenta un profondo cambiamentorispetto ad una politica meridionalista che molto spesso hafallito, anche nell’esperienza della cosiddetta NuovaProgrammazione, proprio per il suo isolamento e la suaincapacità di essere parte di un progetto nazionale condiviso.

L’esperienza ci ha insegnato che l’assenza dicoordinamento tra politiche ordinarie e speciali ha finito persvantaggiare in termini di quantità di risorse le aree debolima soprattutto a “imbastardire” gli stessi interventiaggiuntivi, deviandoli dai suoi obiettivi e facendogli perdereefficacia e di conseguenza la stessa legittimità.

Detto questo, se passiamo alla lettura delle aree di prioritàindicate dal nuovo Governo emerge un quadro ancoraincompleto. Le priorità indicate dall’esecutivo sono tre:sistema scolastico, agenda digitale, infrastrutture ferroviarie.Interventi ampiamente condivisibili e scelti soprattutto per laloro capacità di incidere sulla qualità della vita del cittadino.

Il rischio tangibile è però che tali interventi, seppur megliogestiti anche grazie ad un maggiore coordinamento nazionale(cosa ben diversa dal tentativo di centralizzazione del MinistroTremonti), abbiano effetti sulle realtà territoriali piuttostoritardati nel tempo, mentre una parte consistente del tessutoproduttivo meridionale rischia di scomparire. Appare ancorainsufficiente, almeno sino ad oggi, la strategia volta a riattivareil processo di accumulazione di capitale produttivo.

Ciò che gioca un ruolo di primo piano per riavviare nel brevemeccanismi di sviluppo nelle aree in ritardo è il rimuovere, oattenuare, i binding constraints1 alla crescita economica,storicamente e geograficamente differenti, piuttosto cheapplicare indicazioni generiche e spazialmente uniformi.

Ed è a partire dalla identificazione di questi vincoli che

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riguardano ancora oggi infrastrutture, scala di attività delleimprese relativamente minore, insufficiente presenza diproduzioni innovative, che occorre costruire la secondagamba delle politiche di sviluppo.

Bisogna prendere atto come l’esperienza di questo ultimoquindicennio abbia sostanzialmente smentito la prospettiva diuno sviluppo endogeno del Mezzogiorno, basato sulla sempliceriattivazione delle risorse inutilizzate già disponibili sul territorio.

Sul piano della politica economica, se si concorda sullanecessità di superare tale ipotesi, di conseguenza occorreriassegnare centralità all’obiettivo, non sufficientementeperseguito dall’impianto strategico della NuovaProgrammazione, di ampliare l’accumulazione di capitaleproduttivo attraverso l’attrazione di investimenti esterniall’area e la creazione di attività in nuovi mercati a maggiortasso di innovazione. Per fare ciò serve anche un rilanciodelle politiche industriali nel nostro Paese, imparando daglierrori del passato e collocandole nell’azione più ampia diinterventi per il rilancio del settore industriale volti amigliorare il contesto in cui le imprese operano (infrastrutture,mercati più efficienti, sicurezza, capitale umano).

È necessario in particolare per il Mezzogiorno che si tornia parlare di politica industriale perché l’industria è la viamaestra per formare risorse manageriali, tecnologiche edorganizzative, oggi carenti, in grado di trasmettersi nellasocietà circostante, alimentando processi innovativi.

È lecito attendersi risultati concreti da interventi piùselettivi e “verticali” (e non solo misure generalizzate), chenon necessariamente si traducano in intermediazione ediscrezionalità nell’erogazione, come avviene per le principalieconomie del mondo.

In paesi importanti quali Francia, Germania, Regno Unito eStati Uniti è presente una “cabina di regia” che coordina idiversi interventi e si individuano tecnologie chiave nei settorimedium e high-tech su cui concentrare gli investimenti.

Al contrario che in Italia, non si nasconde l’intento dimodificare la struttura produttiva esistente cercando disviluppare vantaggi competitivi nei settori che hanno unforte potenziale di sviluppo. Soprattutto, si adotta una chiaralogica di medio-lungo termine, da cui deriva l’assegnazione dirisorse finanziarie stabili e certe.

Per una volta, la presenza nel Sud di risorse europee, sia dei

è necessario inparticolare per il

Mezzogiorno che sitorni a parlare di

politica industrialeperché l’industria èla via maestra per

formare risorsemanageriali,

tecnologiche edorganizzative, oggicarenti, in grado di

trasmettersi nellasocietà circostante,

alimentando processiinnovativi

1. Rodrik D., 2006, “Goodbye Washington Consensus, Hello Washington Confusion ? A Review of the World Bank’s Economic Growth in the1990s: Learning from a Decade of Reform”, Journal of Economic Literature, vol. XLIV

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Programmi regionali sia, ad esempio, del Programma Ricerca ecompetitività (in particolare ritardo nella spesa), potrebbe aquesto punto consentire di “anticipare” in quest’area icontenuti di un piano nazionale di politica industriale in gradodi favorire innovazioni organizzative e di prodotto e lapenetrazione in settori ad alto contenuto innovativo.

Occorre ad esempio rafforzare le agevolazioni per le retidi impresa, peraltro già previsti dal piano Industria 2015. Mapiù in generale proprio il modello Industria 2015abbandonato dal Governo Berlusconi potrebbe ripartireproprio nelle regioni meridionali, concentrando le risorse sulfinanziamento dei “Progetti di Innovazione Industriale” cheerano provenuti da queste regioni.

Tali “Progetti”, infatti, rimangono tra gli strumenti piùinteressanti istituiti negli ultimi anni: consentono diconcentrare le risorse finanziarie disponibili su un numeroridotto di progetti, ritenuti strategici, senza però scontrarsicon le rigidità del “vecchio” approccio settoriale (avendocioè come riferimento particolari classi o filiere di prodotti,invece che le usuali categorie merceologiche).

Un approccio di questa natura, per il rilancio dell’industriameridionale, può essere “politicamente” ed“economicamente” sostenibile solo se il Mezzogiorno siaintegrato a pieno titolo in una strategia di sviluppo nazionale,abbandonando definitivamente la retorica delle “due Italie”.

Ciò implica, ad esempio, che siano considerati prioritari perlo sviluppo nazionale temi quali la centralità del Mediterraneo(come zona di interscambio commerciale tra l’Europa el’estremo oriente), l’offerta energetica (sia tradizionale chealternativa), la logistica (strade, linee ferroviarie, struttureportuali), campi nei quali il Mezzogiorno presenta importantivantaggi competitivi e può giocare un ruolo importante per lacrescita e la modernizzazione di tutto il Paese.

In conclusione, una maggiore efficienza dei servizi per icittadini, a partire da scuola e infrastrutture, dovrebbedunque coniugarsi nella strategia per il Sud con unamaggiore capacità di attivare investimenti locali e di attrarrecapitali esterni. Anche su questo, superando un pregiudizioconsolidatosi nell’ultimo decennio, occorre agire al piùpresto per salvare l’Italia. E, per una volta, partendo da Sud.

La presenza nelSud di risorseeuropee, sia deiProgrammi regionalisia, ad esempio, delProgramma Ricercae competitività (inparticolare ritardonella spesa),potrebbe a questopunto consentire di“anticipare” inquest’area icontenuti di unpiano nazionale dipolitica industrialein grado di favorireinnovazioniorganizzative e diprodotto e lapenetrazione insettori ad altocontenuto innovativo

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Scommettere sulla frontierameridionale della UeGiuseppe Provenzanoè Collaboratore della Svimez e dell’Unità

a persistenza del divario di sviluppo, a un certopunto, dovette apparire il sintomo diimmutabilità, il segno di un vizio interno alMezzogiorno talmente grave da offuscarne il“contesto”: come fosse un luogo a sé, avulso

dalla storia e dalla geografia, non inserito nelletrasformazioni dell’economia mondiale e dei rapporti diforza. La qualità del dibattito meridionalistico era destinataper questa via a scadere, fino all’abbandono, alladimenticanza.

Quando abbiamo sentito ripetere, in queste settimane,“noi non siamo la Grecia” – formula che nelle diverse lingueeuromediterranee suona poco più che un esorcismo – da noioperava l’ormai consueta rimozione di quella Greciadomestica che si chiama Mezzogiorno (Campania, Calabria eSicilia, specialmente).

Eppure, sono come due meravigliosi crateri antichi crepatinegli stessi punti: debolezze strutturali e di competitività delsistema produttivo, bassissimi livelli di occupazione e attività,massiccia emigrazione di giovani qualificati, squilibri edeformazioni del modello di welfare, elefantiasi di un apparatopubblico tuttavia incapace di fornire servizi adeguati, strettacreditizia, elevato grado di evasione ed elusione fiscale, illegalitàdiffusa – fattori che concorrono a determinare profondisquilibri nella distribuzione degli effetti della crisi e nei beneficidi un’auspicata ripresa.

Secondo tutte le previsioni, dalla Banca mondialeall’Oecd, la prospettiva economica che in Grecia ha preso giàforme drammatiche sul piano sociale e democratico, riguardacon diversa intensità non solo il Mezzogiorno (e l’Italia) matutta l’Europa meridionale. È lì che la crisi ha scaricato piùche altrove i suoi effetti sociali di inoccupazione di massa enuove povertà; è lì che avranno ricadute più gravi, con ilcrollo della domanda, le drastiche politiche restrittive che “cichiede l’Europa”.

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Di fronte al rischio di avvitamento in una lunga spiralerecessiva, i sud d’Europa pongono in maniera più stringente eurgente i nessi generali tra equità e crescita. Non è fallita nel2008 l’idea diffusa nel pensiero economico dominante secondocui le disuguaglianze sarebbero “irrilevanti” allo sviluppo?

Oggi, lo specchio della vicenda greca – al di là dellescelte scellerate e fraudolente di politica economica –riflette cause ben più profonde dei debiti sovrani per la crisiche ha investito l’intero continente: i divari regionali disviluppo e competitività, che diventano “insostenibili” inmancanza di interventi di politica europea generale capacidi riattivare lo sviluppo innescando dinamiche diconvergenza socio-economica tra le aree.

Lo sapevano già bene i “padri fondatori” che avviarono –per garantire la tenuta e il consolidamento di a more perfectUnion (si diceva così non molto tempo fa: l’afflatoeuropeistico costava meno), a partire dalla stabilità dell’Unioneeconomica e monetaria – lo strumento complesso eprogressivamente perfezionato della politica di coesione: la“più influente” politica europea, l’avrebbe definita Tony Judtin Postwar, che tuttavia si rivela insufficiente di fronte alla crisiin cui versano o hanno rischiato di precipitare paesi non a casostoricamente destinatari di “fondi strutturali” (Grecia,Portogallo, Spagna e Italia).

Le attuali istituzioni europee, segnate dalla difficilecomposizione di interessi nazionali – dopo inedie, distrazionio troppo interessate attenzioni – nell’imporre ad Atene lagrave austerità arrivano nei fatti a negare la natura stessadell’Europa al suo levante, determinando non la radicaleriforma necessaria ma lo smantellamento del “modellosociale” e la sospensione della democrazia: le due belle faccedi un’identità smarrita.

È inutile nascondersi che questo può generare, per ragioniopposte nell’Europa continentale e in quella mediterranea,una esiziale crisi di “fiducia” nel cammino comune.

La riflessione sulle prospettive di sviluppo delMezzogiorno si inserisce in questo “tornante” drammaticodella storia d’Europa. Le timidezze e il silenzio un po’meschino delle forze socialiste e democratiche europee difronte al dramma democratico e socialista di GiorgioPapandreu sono ferite da sanare.

Nella benvenuta e preziosa iniziativa intrapresa dal PD, inoccasione delle presidenziali di Francia coi socialisti e isocialdemocratici tedeschi, di stringere un patto di azione

Di fronte al rischiodi avvitamento inuna lunga spirale

recessiva, i sudd’Europa pongono

in maniera piùstringente e urgente i

nessi generali traequità e crescita

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comune per un nuovo impianto comunitario che consentauna politica economica sovranazionale di sviluppo, l’Europamediterranea è il nostro tema.

Tocca a noi, di fronte alla deriva greca e all’approdoconservatore di Spagna e Portogallo, rilanciare la “frontierameridionale” a cui l’Unione (che pure ha avuto lungimiranzaverso est) per troppo tempo ha voltato le spalle,avvertendola come “ostile” e foriera di immigrazioneclandestina e fondamentalismo religioso, o le ha offerto ilvolto feroce e infame di Lampedusa.

L’assenza dell’Europa unita nella stagione di eventistraordinari e drammatici che hanno interessato nel 2011 (eancora interessano) la sponda Sud del Mediterraneo – quella“primavera araba” che ha smentito consolidati pregiudizisulla possibilità e “utilità” della democrazia nell’area – è latestimonianza più inquietante di quell’assenza di “visione”per l’area che ha relegato i Sud d’Europa a quella condizionedi marginalità strategica in cui è maturata la loro crisi.

La ritrovata centralità del Mediterraneo nello scenarioglobale ed europeo non si pone solo per il “radicalerovesciamento” delle convenienze logistiche, dovute aitraffici, agli investimenti, e alle strategie di sviluppo dei nuovigrandi attori globali del lontano oriente.

La “bancarotta” del capitalismo finanziario ci porta afare i conti con nuove questioni di fondo: una piùequilibrata distribuzione della ricchezza, un nuovo ruolodella cosa pubblica nell’economia, un’attenzione alle nuovegeografie dello sviluppo, un rinnovato compromesso trademocrazia e capitalismo. Sono i temi che si pongono, condiversa drammaticità, proprio oggi intorno alle sponde delMediterraneo.

Dalle nostre rive, la tanto auspicata nuova stagione diinvestimenti pubblici europei non può che partire da unrinnovato interesse di prossimità e di integrazioneeconomica (non solo commerciale) con il Mediterraneo“allargato” (alla Turchia e ai Balcani, non solo ai paesi delsud e dell’est).

È qui che l’Europa del Sud da emergenza si faopportunità: l’area può uscire da una crisi economica esociale che rischia di compromettere gli assetti e le conquistedel processo di costruzione europea, solo se, pur nell’ambitodella strategia Europa 2020, si fissa nella “transizionemediterranea” l’orizzonte strategico sovranazionale, in cuicollocare l’investimento nelle aree meridionali e in

La “bancarotta”del capitalismofinanziario ci portaa fare i conti connuove questionidi fondo: una piùequilibratadistribuzione dellaricchezza, un nuovoruolo della cosapubblicanell’economia,un’attenzionealle nuove geografiedello sviluppo,un rinnovatocompromesso trademocraziae capitalismo

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particolare nel Mezzogiorno d’Italia. Questa grande, forse ultima, opportunità può agire anche

in chiave di “rilegittimazione” dell’investimento regionale peril post 2013. Agli occhi dell’Europa, infatti, si pone unproblema serio di “credibilità” del Paese per proseguire conun’incisiva politica di coesione.

Già prima delle crisi, il prolungato ristagno dell’economianazionale unitamente ai gravi limiti nella prassi delle politiche“speciali” per il Sud hanno contribuito a determinare unasituazione allarmante: il Mezzogiorno è l’unica area rimastaesclusa dai processi di convergenza che hanno riguardatonon solo i paesi nuovi entranti, come quelli dell’Est europeo,ma anche i tradizionali “paesi della coesione”.

Prendendo un indicatore assai sintomatico, la quota dipopolazione che vivrà in regioni obiettivo Convergenza nelprossimo ciclo di programmazione, a fronte di una riduzionein Europa complessiva del 22%, l’Italia è l’unico paese cheaumenta la sua percentuale (da 11,1% a 14,2%, la Germaniainvece passa da 5,4% a 0 e la Spagna da 9,1% a 0,9%): il Sudrappresenterebbe circa la metà della popolazione in “regionimeno sviluppate” di tutta la “vecchia” Europa.

Il potenziale strategico del Paese, agli occhi dell’Europa,dipende dunque dalla performance che farà registrare nelriequilibrio territoriale pur in questa fase di crisi e diemergenza. L’attuazione del Piano di Azione Coesione delMinistro Barca deve coinvolgere e richiamare maggioriresponsabilità del Governo nel suo complesso e di tutti gliattori istituzionali per un impegno generale di riequilibrio chefaccia segnare una marcata discontinuità nel sensodell’efficacia e dell’efficienza.

Le politiche “speciali” e “aggiuntive” non possono cherappresentare un “tassello” di un più ampio spettro dipolitiche pubbliche che dovrebbero garantire coordinamentoe strategicità per la coesione. Se questo vale per l’Italia neiconfronti del suo Mezzogiorno, vale ancor più per l’ambitosovranazionale verso l’Europa meridionale: l’investimentostrategico nella prospettiva mediterranea non può esserecerto perseguito solo con il “limitato”, per quanto“influente”, strumento della politica regionale.

C’è una evidente penuria di leve d’azione: la stessa UnioneEuromediterranea mai partita, è già superata. Occorronoiniziative che promuovano e qualifichino un processo dicoinvolgimento sempre maggiore di nuovi attori perdistribuire in modo più esteso le opportunità economiche di

Il Mezzogiorno èl’unica area rimastaesclusa dai processidi convergenza chehanno riguardato

non solo i paesinuovi entranti, come

quelli dell’Esteuropeo, ma anche itradizionali “paesi

della coesione”

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un’area che, malgrado crisi e incertezze politiche, e persinoconflitti armati, prevede ritmi di crescita elevati (ancoralontani da quelli cinesi o indiani, ma paragonabili al Brasile enettamente superiori a quelli di tutte le economie europee).

Con il Sud Europa, in particolare, servono strumenti diconcertazione per coordinare attività e linee di sviluppo chepermettano di convertire una competizione sregolata edegenerativa in rafforzamento reciproco.

Gli ambiti di partecipazione e protagonismo nelle relazionieconomiche euromediterranee sono molti e fecondi (dallalogistica, all’energia, alle filiere agro-alimentari, all’industriaturistica e culturale) sia per gli attori pubblici che per quelliprivati, sono “ponti” per condividere capacità e mercati.

Tuttavia, non esauriscono certo il campo d’azione e ilruolo che potrebbe giocare l’Unione. Intorno alle sponde delMare nostrum, dove s’è affacciato Dio e l’uomo ha coltivatoi suoi giardini, è in gioco una questione di democrazia,sviluppo e giustizia sociale per milioni di uomini e donne.Tra il sangue e i gelsomini, l’Europa ha ancora l’ambizione diconcorrere al futuro e alla stabilità del pianeta?

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Occorrono iniziativeche promuovano equalifichino unprocesso dicoinvolgimentosempre maggiore dinuovi attori perdistribuire in modopiù esteso leopportunitàeconomiche diun’area che,malgrado crisi eincertezze politiche, epersino conflittiarmati, prevederitmi di crescitaelevati

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a mia riflessione è di taglio socio-politico: provo,cioè, ad immaginare che cosa bisognerebbe fareper superare questa antica questione, questoproblema che negli anni, in 60 anni, è apparso avolte attenuato, ma poi si è ripresentato

sostanzialmente come irrisolvibile, quindi fonte difrustrazione e di senso di impotenza.

D’altra parte, spesso, chi parla di Sud, chi ripropone lanecessità di affrontare il problema, lo fa dando quasil’impressione di non credere possibile ottenere risultatiapprezzabili: nei discorsi dei politici, dei sindacalisti, deirappresentanti datoriali, il tema sembra essere evocato comeun atto dovuto, senza convinzione e, soprattutto, senza lanecessaria passione.

Se è possibile in questa fase individuare una novità, dopoun periodo lunghissimo di rimozione del problemadell’agenda politica, quella vera, quella delle grandi scelte,essa può essere individuata in una fortissima, ineditaradicalizzazione delle posizioni: mai ho percepito unacontrapposizione NORD-SUD così forte, così diffusa, cosìpervasiva.

Non mi riferisco alle manifestazioni più sgradevoli di talecontrapposizione; alle polarizzazioni estreme e, in certi casi,grottesche. Esse sono destinate a rafforzarsi in vista degliappuntamenti elettorali quando alcune forze, in modospeculare, quotano al mercato della politica il disprezzo per iterroni o forme di meridionalismo sostanzialmente straccione.

Mi riferisco invece al fatto che mai come in questi ultimianni si è radicata la convinzione, in gran parte del Paese, chetrasferire risorse al Sud è sostanzialmente inutile, perché non

Ri-cominciareda una nuova culturadello sviluppoCarlo Borgomeoè Presidente Fondazione per il Sud

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produce nulla di significativo, anzi determina spesso sprechi;e che molti meridionali pensano invece che le risorsetrasferite sono insufficienti e che viene perpetrata la solitaingiustizia ai danni del Sud.

Questa contrapposizione, ripeto, molto più diffusa cheper il passato, non porta evidentemente da nessuna parte.Per chi si occupa di Mezzogiorno oggi, il problema non èprevalentemente quello di dimostrare al Paese che gli aiuti alSud sono stati insufficienti; che gli sprechi sono stati minoridi quello che si sostiene. Sono obiettivi sacrosanti,encomiabili, ma non sono in grado di assicurare la necessariadiscontinuità alla politica per il Mezzogiorno.

Come pure il ricordare che lo sviluppo del Sud è interessedell’intero Paese non è sufficiente a ridare forza e senso adun progetto politico che deve invece, dichiaratamente,modificare l’approccio alla questione facendo nuovagerarchia nelle politiche, negli interventi, nei criteri diselezione della classe dirigente.

Intanto nell’analisi dovremo mostrare fastidio eopposizione per chi tenta di attribuire a responsabilitàlontane, altrui, la situazione di ritardo del Sud. Vi è unagrande responsabilità complessiva delle classi dirigenti delPaese, della quale le classi dirigenti meridionali non sonostate – e non sono – vittime, ma partecipi.

Non penso che la spiegazione sia da ricercare in strategiedi sviluppo che freddamente disegnavano uno sviluppoduale del Paese; non credo che i fenomeni clientelari, dicattiva gestione delle risorse, le ruberie, siano la causadell’insuccesso delle politiche.

Credo invece che dovremmo interrogarci sulla strategia difondo che è stata alla base dell’intervento straordinario per60 anni. È una riflessione difficile, complessa; ma dopo 60anni è giusto farla con serenità e senza pregiudizi.

La grande stagione dell’intervento straordinario parte nelsecondo dopoguerra: le profonde differenze nelle condizionidi vita nel Paese suggeriscono la necessità di un poderososforzo di solidarietà nazionale e di trasferimento di risorseper superare l’enorme divario.

Come è noto quegli anni anni hanno prodotto risultatiimportanti in termini di dotazione infrastrutturale e,soprattutto, in materia di risorse idriche.

Ma la percezione di un così forte divario tra Nord e Sud,mentre ha positivamente suggerito e determinatol’assunzione di politiche straordinarie in quella fase, ha

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Nei discorsi deipolitici, deisindacalisti, deirappresentantidatoriali, il temasembra essereevocato come un attodovuto, senzaconvinzione e,soprattutto, senza lanecessaria passione

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avuto conseguenze negative quando il superamento deldivario è diventato l’obiettivo delle politiche. È un obiettivoapparentemente di buon senso e obbligato; ma a benvedere non è così.

Intanto non è detto che lo sviluppo di un territorio sia daritenersi soddisfacente, in relazione a quello di un altroterritorio; intanto non si capisce a quale territorio bisogna fareriferimento in questa logica di “inseguimento” dello sviluppo.

Ma soprattutto è del tutto evidente che aver fissato unobiettivo molto ambizioso, una asticella troppo alta, hadeterminato un senso di impotenza rispetto all’obiettivostesso, e quindi pericolosi processi di deresponsabilizzazione.

Anno dopo anno i dati della SVIMEZ sul divario del PILhanno ricordato, di fatto, che l’obiettivo era irraggiungibile;anche quando la distanza sembrava ridursi, l’obiettivo eratroppo lontano.

Se l’obiettivo è così difficile, è evidente che devo essereaiutato e, quindi, inevitabilmente si consolida una cultura,una prassi, una politica che parte dal presupposto che laresponsabilità, le decisioni, gli strumenti, sono “altrove”.

Si delinea uno schema per cui lo sviluppo è eterodiretto:uno schema mai dichiarato ma nei fatti consolidato.

Basti pensare alle tante riflessioni che dalla metà deglianni Settanta sono state prodotte sulla necessità di unosviluppo “autocentrato”, proprio in contrapposizione aimeccanismi vigenti.

E quando lo sviluppo è “altrove”, l’altrove può essere laCassa del Mezzogiorno, l’Agenzia, il Ministero, ilDipartimento, la Regione, Bruxelles. Il dibattito politicolocale spesso è concentrato nell’individuazione esatta delleistituzioni “responsabili” e sulla migliore modalità perlegittimarsi nei confronti di quelle istituzioni.

Poca rilevanza è stata data alle spinte locali allo sviluppo;scarsa attenzione ai soggetti emergenti; tutto si è giocato suigrandi interventi, sulle “spallate” decisive, su eventi cheavrebbero portato lo sviluppo.

Naturalmente sempre in una logica quantitativa, e semprenella disattenzione alla qualità dello sviluppo che come ènoto è un percorso lungo, complesso, costruito con ilcoinvolgimento di tanti soggetti che non possono essereconsiderati “beneficiari” ma protagonisti.

Queste riflessioni possono apparire astratte, lontane daiproblemi, dalla “dura” realtà: e invece è esclusivamente lamia personale esperienza al Sud che mi convince del fatto

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è del tutto evidenteche aver fissato un

obiettivo moltoambizioso, una

asticella troppo alta,ha determinato unsenso di impotenzarispetto all’obiettivo

stesso

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che è in questa cultura dello sviluppo, spesso sbagliata, chedobbiamo cercare le cause dell’arretratezza del Sud.

Qualche esempio: indubbiamente questa cultura dellosviluppo ha determinato, nel tempo, un meccanismopatologico nella selezione della classe dirigente. Non solo diquella politica, ma anche di quella politica! Al di la deitradizionali – e collaudati – meccanismi di cooptazione, leclassi dirigenti sono legittimate nella capacità di denunciare lealtrui responsabilità, di rappresentare sempre e solo gliaspetti negativi e problematici.

Per vincere occorreva aggregare il disagio, rappresentarloe negoziare interventi dal centro. Non a caso le fasipolitiche sono state segnate spesso dalla rappresentazionedrammatica di emergenze.

È chiaro che i problemi erano – e sono – molti; è chiaroche vi sono aree di disagio sociale molto accentuate. Ma larappresentanza si è occupata solo di questo: scarsissimaattenzione ad aggregare la domanda (non la protesta);sottovalutazione delle potenzialità di sviluppo locale; scarsaattenzione alle risorse del territorio: questarappresentazione non aveva “presa” nel meccanismoprevalente del gioco politico.

D’altra parte è sintomatico che, essendo i meccanismi didistribuzione delle risorse tarati sullo stato di bisogno,questa circostanza ha reso sostanzialmente “temuta” ogninotizia positiva, ogni dato che segnalasse un qualchemiglioramento di aree e territori, in una sorta diimpazzimento della rappresentanza.

Un’altra conseguenza di questa cultura dellosviluppo, tutta quantitativa e tutta immaginataattorno ad eventi “decisivi”, è stata lasostanziale irrilevanza della attività diprogettazione. Il progetto è stato svilitoad una attività tesa a dimostrarerequisiti formali e dipredisporreordinate

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FOCUS

documentazioni.In ossequio alla presunta maggiore moralità degli incentivi

automatici (poi clamorosamente smentita dai fatti) si èabbandonata l’attività di valutazione di merito delle propostedi investimenti delle imprese e dei territori; e la mancanza diuna seria attività di valutazione ha mortificato il valore delprogetto e progressivamente il suolegame con la domandaeffettiva di sviluppo.

Si dice che nel Mezzogiorno non si sanno fare i progetti:bisognerebbe dire, più onestamente, che nessuno ha maichiesto e preteso una vera attività di progettazione. In questogioco impazzito, in cui la politica e gli interventi sonodefiniti in modo autoreferenziale dalla offerta, si finanzianoiniziative inutili, si pubblicano bandi spesso addiritturaincomprensibili: l’importante è spendere, l’importante èottenere qualche finanziamento.

Quante volte abbiamo sentito sindaci che in assolutabuona fede si vantavano con i cittadini di aver presentatoprogetti alla Regione, con la indicazione esatta deifinanziamenti in questione e la conoscenza approssimativadei contenuti del progetto.

La politica, quella vera, non è una competizione perconquistare pezzi di “offerta” decisa altrove; è la faticosalettura della domanda, la sua promozione, la sua selezione, lasua aggregazione. Questa cultura dello sviluppo ha, tral’altro, sviluppato reti prevalentemente verticali: importante èparlare con il centro; è avere il filo diretto con l’ “altrove” incui si prendono le decisioni che contano.

Da qui la grande difficoltà di fare rete orizzontale al Sud:nelle industrie, come nella ricerca; nella cultura come nelsociale, non si cerca l’aggregazione orizzontale, ma si lottaper il miglior posizionamento nelle filiere verticali.

E così le grandi e non rare eccellenze dei nostri territori,si nascondono; non contaminano il territorio, anzi temonodi esserne contaminati.

Questa cultura dello sviluppo ci ha condannati a una sortadi presbiopia: guardiamo lontano, ci aspettiamo soluzioni dalontano e, come i presbiti, non vediamo sotto il nostro naso.

Non ci interessano i piccoli percorsi, gli artigiani, lemicroimprese; non ci pare utile “perdere tempo” nellemanutenzioni e così dilapidiamo le nostre ricchezze collettive.

Basterebbe un dato: in alcune aree del Mezzogiorno sicalcola che la ricchezza per un terzo è prodottadall’economia informale. Un terzo, con conseguenze

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Nella cultura comenel sociale, non si

cerca l’aggregazioneorizzontale, ma silotta per il miglior

posizionamentonelle filiere verticali.

E così le grandi enon rare eccellenzedei nostri territori,si nascondono; non

contaminano ilterritorio, anzi

temono di essernecontaminati

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gravissime sullo sviluppo e sulla legalità. Oltre a benemerite,ancorchè cicliche, politiche di repressione non vedo in girograndi politiche; non si sperimentano interventi capaci diselezionare, ed accompagnare verso la emersione, “pezzi” dieconomia sommersa.

So bene che questa impostazione è da tanti ritenutapericolosamente minimalista: molti pensano e dicono che iproblemi sono “ben altri”. Peccato che lo dicano da decennie da decenni autorizzino atteggiamenti di attesa e dideresponsabilizzazione.

Credo che una battaglia politica seria per il Sud debbapartire proprio da una revisione della strategia complessiva.Tale strategia si basa su due assunti fondamentali:

il vero divario tra Nord e Sud non è solo nelreddito disponibile pro-capite, ma nellecondizioni di vita dei cittadini. Al primo postoci deve essere l’obiettivo di superare questosecondo tipo di divario;

per fare sviluppo al Sud bisogna cambiarela gerarchia degli interventi, delle priorità,nella convinzione che la coesione sociale,l’affermarsi di una corretta logica comunitaria,non sono conseguenze, ma indispensabili

premesse dello sviluppo.

In occasione della conferenza sui diritti dell’infanzia edell’adolescenza nel Mezzogiorno, promossa lo scorsodicembre a Napoli da Fondazione CON IL SUD e Savethe Children, sono stati comunicati dei dati a dir pocoagghiaccianti.

In Campania e in Calabria, ad esempio, su 100 bambinisoltanto 2 hanno la possibilità di usufruire dei servizi perla prima infanzia, mentre per l’Unione Europeadovrebbero essere uno su tre.

Nelle aree urbane del Mezzogiorno i livelli didispersione scolastica raggiungono percentuali dell’8 – 9%.Un po’ imbarazzante per un paese civile.

La lista dei divari potrebbe proseguire, allo stesso modo,con i dati relativi al trattamento degli anziani, alla capacitàdi attrarre cervelli e in generale allo stato sociale. E’ questoil vero divario.

Ma la cultura dominante ritiene che la coesione sociale,

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La culturadominante ritieneche la coesionesociale, la scuola, ilwelfare, venganodopo la crescita.Bisogna ribaltare lalogica che li vedecome un surplusdello sviluppo, chepuò permettersi soloun Paese ricco

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la scuola, il welfare, vengano dopo la crescita. Bisognaribaltare la logica che li vede come un surplus dellosviluppo, che può permettersi solo un Paese ricco. Non ècosì. Solo una comunità positiva è una comunità cherispetta e ama le regole. Solo una comunità che rispetta leregole può indurre processi di sviluppo.

Che senso ha mettere a punto ricchissimi incentivi perattrarre investitori in territori dai quali noi stessi vorremmoche i nostri figli andassero via?

Bisogna dire basta a questa logica quantitativa, spessodeludente e mistificante, e avere il coraggio di investire di piùsulle nostre responsabilità.

Non mi interessa molto il dibattito sulle colpe deimeridionali: ne abbiamo certamente, ed anche importanti.

Ma la vera questione è ripartire da una cultura dellosviluppo che metta al centro il recupero del senso dellacittadinanza, della comunità, della coesione sociale. Non èuna fuga in avanti, né il tentativo di chiudere le questioni.È la lezione della esperienza, di tante promesse mancate, ditanti falsi obiettivi.

Ri-Cominciare. Con alcuni criteri di fondo. Il primo, chepuò apparire banale o enfatico, è quello di amare la propriaterra. Amarla di più, concretamente; conoscendola erispettandola, considerandola un bene comune.Il secondo èriprendere a fare politica, premiando l’esercizio delleresponsabilità, piuttosto che le dichiarazioni di fedeltà; esviluppando una permanente cultura della rete, delconfronto, del dibattito, dell’ascolto.

Naturalmente vi sono anche conseguenti comportamentie priorità nelle politiche da costruire e anche da rivendicare.Mettiamo al primo posto la scuola, a partire da quelladell’obbligo; poi i servizi sociali; poi il buon funzionamentodella giustizia e delle strutture periferiche della PubblicaAmministrazione; in fondo il sostegno alle attivitàproduttive , ma con interventi puntuali e selettivi. Soldiconcessi in modo indiscriminato hanno fatto già troppidanni, ispessendo clientele, rendite parassitarie e, tra igiovani, cultura della dipendenza.

Se abbiamo in testa un modello che non insegue aqualunque costo improbabili livelli di ricchezza, ma losviluppo ordinato e duraturo dei nostri territori, potremocostruire un Mezzogiorno migliore. E il Sud, come diceErri De Luca, si accorgerà di essere seduto su un tesoro esmetterà di cercarlo altrove.

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Se abbiamo in testaun modello che non

insegue a qualunquecosto improbabili

livelli di ricchezza,ma lo sviluppo

ordinato e duraturodei nostri territori,potremo costruireun Mezzogiorno

migliore. E il Sud,come dice Erri DeLuca, si accorgeràdi essere seduto su

un tesoro e smetteràdi cercarlo altrove

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alla chiusura dell’intervento straordinario adoggi l’interesse politico per il temadell’arretratezza economica e sociale delMezzogiorno è andato scemando. Ladiscontinuità nella politica di intervento è

costata molto alle regioni del Mezzogiorno sotto il profiloeconomico e finanziario ed è stata altrettanto dannosa sulpiano sociale, con la legittimazione di un modelloscarsamente solidale, fortemente improntato ad una logicaquasi darwiniana, di scontro tra le popolazioni del Nord equelle del Sud del paese.

La riflessione sui problemidell’arretratezza meridionale èinserita molto debolmente neldibattito che s’interroga sui modiper fronteggiare i deludentirisultati economici conseguitidall’Unione Europea, e ancor piùdall’Italia.

Se è però vero che il rilanciodella crescita economica deveessere ai primi posti dell’agendapolitica nazionale e comunitaria,allo stesso modo va posto alcentro dell’attenzione il complessotema del mantenimento dellacoesione sociale.

In un’Europa che viaggia a duedistinte velocità, cometestimoniato dalla persistenza diampi divari regionali al suo interno,si ripropone così la problematicadel dualismo, dell’incompiutosviluppo capitalistico italiano, dellamancata convergenza tra le duearee del paese.

Per sconfiggere il fatalismo

Paola De Vivoinsegna Sociologia Economica all’Università Federico II di Napoli

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Senza creare falsi allarmismi, la storica peculiarità del casoitaliano trova una nuova conferma nella persistenza di unaforbice, di una frattura tra il Nord e il Sud dell’Italia, dovutaall’inarrestabile crescita delle disuguaglianze, al sistematicoacuirsi dei processi di esclusione e di marginalità sociale.

Alla percezione della serietà e della profondità deiproblemi di arretratezza che aveva – e ha – quest’area delPaese si è sostituito il fastidio che si avverte ad ogni tentativodi riproposizione della questione, sino a giungere ad una suacompleta rimozione, che ha finito per determinare unafalsificazione della realtà: è come se i problemi delMezzogiorno appartengano soltanto a quest’ultimo.

Essi, al più, destano un tiepido interesse nell’altra parte delpaese, alle prese essa stessa con un declino economico chene minaccia la prosperità raggiunta e perciò ancor menodisposta a comprendere e a condividere fino in fondo ledifficoltà delle popolazioni del Sud.

Così, mentre la classe politica nazionale abdicava al suocompito di governo dell’intero territorio nazionale, si ègenerato un confine invisibile ma percepibile nel reciprocodisconoscimento delle ragioni dell’una e dell’altra parte,giungendo alla fine ad una loro incomunicabilità,incomprensione e diffidenza.

Il Nord ed il Sud, ormai in perenne contrapposizione,sono l’espressione di una miopia politica e della convinzione,errata, che l’Italia può competere senza essere, al suo interno,coesa economicamente e socialmente.

Il Mezzogiorno, così, sembra progressivamente destinatoa soccombere; a veder persa, in altre parole, la battaglia, inparte compiuta, verso il progresso e la modernizzazione dellasua vita politica, economica, sociale.

Esso arretra nuovamente e sembra aver persoquell’energia, anche morale, che lo aveva caratterizzato alprincipio degli anni Novanta. La storia più recente delmeridione è addirittura riassumibile in un’idea di fallimentototale dell’azione pubblica, ormai sedimentata nell’opinionepubblica e nella stessa classe politica nazionale.

La rappresentazione che attualmente prevale è chequalsiasi siano le modalità di intervento adottate – dall’alto odal basso – nel Sud nulla cambia. Né dall’alto né dall’basso,in definitiva, si è capaci di smuovere, di rivitalizzare, forseaddirittura, al punto in cui siamo, di rifondare una societàche sembra inamovibile nei suoi caratteri di arretratezzasociale ed economica.

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Il Nord ed il Sud,ormai in perennecontrapposizione,

sono l’espressione diuna miopia politica e

della convinzione,errata, che l’Italia

può competere senzaessere, al suointerno, coesa

economicamente esocialmente

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Una società che sconta, peraltro, un enorme deficit sulpiano dell’azione politica, misurabile peraltro nella difficoltàdi individuare un reale ricambio nei partiti di governo e diopposizione di livello regionale e locale (su questo punto, siosservi, per inciso, la numerosità di amministrazionicomunali commissariate per infiltrazioni criminali).

Quali che siano state le cause del progressivo distacco chesi è consumato tra il Nord ed il Sud dell’Italia, c’è dachiedersi se resta qualcosa da fare per ridare una dignitàscientifica ed una capacità di rappresentanza politica aiproblemi dello sviluppo meridionale, per contrastare, cioè, laposizione di marginalità a cui siamo ormai relegati.

Esaurita con essa l’esperienza di costruire una rete tra leregioni del Mezzogiorno per ritrovare una visione unitariadella questione meridionale, pur nella consapevolezza dellediversità territoriali, nella ricerca di nuovi equilibri dacostruire all’interno e all’esterno di quest’area, si è posti,ormai, di fronte a scenari che prospettano un futuro politicoper il Mezzogiorno piuttosto fosco.

Perché è chiaro a tutti che è, in parte, fallito anche iltentativo avviato attraverso le politiche di sostegnoterritoriale di puntare sulla responsabilizzazione e sullosviluppo di forme di autonomia degli attori e delle istituzionilocali. Di cambiare, cioè, il Mezzogiorno dal suo stessointerno, forzando tramite le politiche territoriali quellecondizioni vincolanti che hanno storicamente ostacolato –ed ostacolano – il suo cammino verso lo sviluppo.

Cosa fare, dunque, per evitare la nefasta possibilità che gliscenari immaginati si realizzino? Da dove ripartire perriprendere le fila di un discorso politico in grado diricongiungere i destini dello sviluppo meridionale con quellidell’Italia del Nord?

Uno degli sforzi che va compiuto è primariamenteculturale, perché la riduzione che si è fatta in questi annidella questione meridionale ad un mero problema di finanzapubblica, ha finito per generare la convinzione che ilMezzogiorno sia unicamente un peso nella complicatasituazione di crisi che attraversa l’Italia.

C’è bisogno, invece, di dimostrare, mediante unarinnovata lettura dei principali temi – federalismo, crescita,welfare – che attraversano lo scenario del cambiamentoitaliano che essi sono strettamente interconnessi con leprospettive dello sviluppo meridionale.

Occorre, perciò, coinvolgere i rappresentanti delle

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La scelta dirafforzare negliindirizziprogrammaticigli interventiper l’inclusionesociale, per lasicurezza, la qualitàdella vita, perl’ambiente, sembraandare nelladirezione di provarea costruire una baseper l’eserciziodi un più fortediritto (e dovere)di cittadinanzaal Sud

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maggiori istituzioni – università, sindacati, scuole, imprese –esterne al Meridione, ma presenti nei gangli vitali del sistemadecisionale italiano, in una mobilitazione che promuova unadiversa immagine del Sud.

Va detto che la scelta di rafforzare negli indirizziprogrammatici gli interventi per l’inclusione sociale, per lasicurezza, la qualità della vita, per l’ambiente, sembra andarenella direzione di provare a costruire una base per l’eserciziodi un più forte diritto (e dovere) di cittadinanza al Sud.

C’è sempre, però, il problema della “traduzione concreta”di queste opzioni strategiche sul piano dell’attuazione e dellerealizzazioni delle opere e dei servizi pubblici. Per questobisogna adoperarsi affinché qualsiasi sia, se ci sarà, lastrategia disegnata per il Mezzogiorno, essa perda i caratteridi un’operazione meramente di facciata, quasi di altaingegneria istituzionale, che mette a punto nel dettaglio il“che cosa fare”, mentre tralascia il “chi” ed il “come” farlo(come puntualmente è accaduto in questi anni).

La debolezza nelle forme di regolazione della vitaassociata di cui si è discusso, implica, tra le altre cose, chesi agisca sui meccanismi di funzionamento degli enti locali,in primis sulla burocrazia regionale, tuttora contraddistintida un approccio organizzativo tradizionale, incentrato cioèsu settori di intervento rigidamente stabiliti nelle lorofunzioni e competenze.

Va rafforzata la spinta al cambiamento amministrativoinnescata dal progetto riformistico dei primi anni Novanta,che pur non essendo del tutto riuscita a consolidarsi, halasciato comunque una traccia sotto il profilo culturale,aprendo alla possibilità di strutturare un percorso alternativonelle pubbliche amministrazioni, che oltre a diffondere unorientamento ed una logica manageriale nell’azionepubblica, ha puntato allo sviluppo di una razionalitàcomplessa nella risoluzione dei problemi collettivi daaffrontare, la sola capace di trasformare mere politicheredistributive in politiche integrate.

Per tutte queste ragioni è prioritario disporre di adeguateforme di controllo, formali e sostanziali, della spesa e dellaqualità degli investimenti pubblici. Perché se è vero che c’è lanecessità, quando non l’urgenza, di riavviare un ciclo diinvestimenti pubblici che faccia da volano per l’economiameridionale, sempre più provata e condizionata dallatendenza negativa che colpisce anche il Nord del paese, èaltrettanto vero che la qualità della spesa non va più

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C’è la necessità,quando non

l’urgenza, diriavviare un ciclo diinvestimenti pubbliciche faccia da volano

per l’economiameridionale, sempre

più provata econdizionata dallatendenza negativa

che colpisce anche ilNord del paese

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considerata come un aspetto marginale per il recupero dellacompetitività del Mezzogiorno.

In pratica, agire sul fronte amministrativo ed organizzativoper dotare la pubblica amministrazione di risorse umane cheabbiano competenze, capacità e comportamenti eticamentecompatibili rispetto ai ruoli e alle funzioni ricoperte è uno deipassi da compiere se si intende veramente rilanciare losviluppo economico delle regioni del Sud.

È un passo che serve anche a recidere i legami perversi chesi sono instaurati in questi anni tra politica e amministrazione.Quando cade l’argine tra di esse, la commistione che sigenera produce scambi impropri, clientelismo, corruzione.Soltanto recidendo tali legami si può contenere quelfenomeno molto radicato nelle pubbliche amministrazioni,specialmente del Mezzogiorno, della ricerca di un facileconsenso politico impostato su una gestione delle risorsepubbliche esercitata in maniera poco selettiva (quando nondispersiva), scongiurando il rischio di ottenere un effettocontrario al principio di riaffermazione di un diritto dicittadinanza reale, tanto stressato nella retorica sul Sud.

Una rivisitazione critica dei problemi del capitalismoitaliano, in chiave meridionalista, serve a modificare unarappresentazione della realtà in parte distorta e a sostenerelo sforzo di quella parte della popolazione del Sud che siimpegna e produce allo stesso modo di quella del Nord,nonostante le difficoltà.

Con insistenza, pazienza e determinazione c’è daimpegnarsi in una battaglia finalizzata a spiegare anche ai piùscettici che il Mezzogiorno è veramente una risorsa perl’intero paese, che può portare un vantaggio per tuttal’economia ed anzi ridare un senso ed un’identità al nostroessere nazione.

Il limite di una simile dimostrazione può soltantoconsistere nella mancata chiarezza e nella debolezza del ruoloche occupa il Mezzogiorno nel disegno politico costruito peril rilancio dell’Italia. Un limite che, in verità, si cogliefacilmente anche in questa fase di governo tecnico del paese.

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a grave crisi economica che il nostro Paese stavivendo, e che impone un rafforzamento dellepolitiche di risanamento della finanza pubblica,apre scenari preoccupanti per il sistema di welfare. In tutti i momenti di crisi, il settore socio-

sanitario è sempre stato oggetto di pesanti interventi dirazionalizzazione.

Chi non ricorda gli anni novanta, quando l’obiettivo dientrare in Europa impose, all’interno del processo dirisanamento della finanza pubblica, rilevanti sacrifici allasanità, impedendo il rilancio delle politiche sociali di cui datempo si sentiva bisogno?

E la storia di questi ultimi anni è ancora più preoccupante.Le recenti manovre hanno previsto tagli ai fondi per il ServizioSanitario Nazionale che arriveranno a raggiungere nel 2014 unvalore complessivo pari a poco meno di 8 miliardi di euro,circa mezzo punto di Pil. A ciò si aggiunge il quasi totaleazzeramento dei fondi statali per le politiche sociali che nel 2012sono meno di un decimo di quelli stanziati nel 2008.L’effetto complessivo di tali tagli non potrà che gravare sullepersone più fragili e sulle condizioni di lavoro degli operatori.

Particolarmente difficile la situazione nel Mezzogiorno,dove le pesanti restrizioni rischiano di impedire la ripresadi una realtà troppo a lungo ferma al punto di partenza(salvo qualche lodevole eccezione). Per questo è necessarioche la crisi si trasformi in un’occasione per far emergere ilcoraggio e le energie sicuramente presenti nelle regioni delSud: la riduzione dei divari nell’offerta di tutela fra il Nord eil Sud del Paese è il principale problema da affrontare inquesto particolare periodo storico. Vale la pena quindiriflettere sullo stato dell’assistenza sociale e sanitaria del

La natura duale del welfare nazionaleNerina Dirindininsegna Economia Pubblica e Scienza delle Finanze all'Università di Torino

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nostro Paese.Per quanto riguarda il settore sanitario, nonostante i

frequenti annunci allarmistici, in Italia la spesa sanitariatotale (pubblica e privata) è ancora nettamente inferiore aquella dei paesi con livello di sviluppo simile al nostro: 9,5%del Pil nel 2009 (11,8% in Francia, 11,6% in Germania, 10%in Svezia, 9,8% nel Regno Unito).

Anche la spesa sanitaria pubblica si assesta su livelliinferiori rispetto sia a quelli dei paesi con sistemi di sicurezzasociale (per lo più di tipo categoriale, come Francia,Germania, Austria) sia a quelli dei paesi scandinavi consistemi universalistici.

Pure la dinamica degli anni più recenti non è di per sémotivo di preoccupazione. L’insieme degli strumenti digovernance adottati con gli Accordi tra Stato e Regioni haconsentito un significativo rallentamento della crescita dellaspesa sanitaria pubblica, ma ha altresì acuito la spaccatura franord e sud del Paese.

Nelle regioni meridionali, con l’eccezione della Basilicata,si osserva un eccesso di ricoveri ospedalieri per acuti,generalmente caratterizzati da una complessità delleprestazioni inferiore a quella del centro-nord e indice dellamancata attivazione di percorsi alternativi sul territorio; gliscreening per la prevenzione dei tumori femminiliraggiungono ancora meno della metà della popolazione diriferimento; la speranza di vita è più bassa e il tasso dimortalità infantile è il più alto del Paese. E questo solo percitare alcuni indicatori.

Per quanto riguarda il settore sociale, l’Italia soffre dellamancanza di una vera e propria politica nei confronti deibisogni delle persone. Le cause sono numerose, alcune storichealtre più recenti; non è un caso che fino al 2000 il sistemaassistenziale italiano sia stato disciplinato da una legge del 1890(la legge Crispi), come se le politiche sociali non meritasserocontinui adeguamenti rispetto alle esigenze delle comunità.

Le carenze vanno dalle dimensioni dei finanziamenti (digran lunga inferiori rispetto al resto dell’Europa), al mix diinterventi offerti (in gran parte di tipo monetario, a discapitodei servizi in natura), all’arretratezza culturale dei decisori edei beneficiari (ancora per lo più centrata sull’assistenza,anziché sul riconoscimento dei diritti), alla difficileintegrazione fra sociale e sanità (si pensi, ad esempio, al temadella non autosufficienza), alla rassegnazione della maggiorparte dei professionisti del settore (da troppo tempo abituati

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L’insieme deglistrumenti digovernance adottaticon gli Accordi traStato e Regioni haconsentito unsignificativorallentamento dellacrescita della spesasanitaria pubblica,ma ha altresì acuitola spaccatura franord e sud del Paese

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a veder deluse le proprie ambizioni). Gli effetti della carenza di adeguate politiche sociali risulta

evidente quando si analizzano i dati internazionali sullediseguaglianze sociali. L’Italia mostra – ad esempio – untasso di povertà fra i minori che è doppio di quello dellaFrancia e circa tre volte quello dei paesi scandinavi.

Più in generale, il rischio di povertà fra le famigliemonoparentali con figli è in assoluto il più alto dei 26 paesiOcse: la totale assenza di un sistema generalizzato diprotezione sociale a favore delle persone prive di redditoaccomuna l’Italia ai paesi più arretrati.

All’interno del Paese la spesa sociale è fortementedifferenziata fra regioni. La rilevazione dell’Istat sulla spesa deicomuni (singoli e associati) per interventi e servizi socialimostra una enorme variabilità a livello locale: le regioni astatuto speciale del nord (tradizionalmente al primo postoquanto a spesa pro capite) spendono anche 10 volte alcuneregioni del sud.

La rilevazione evidenzia divari interregionali ben più ampidi quelli osservati per la spesa sanitaria, anche se in partecontrobilanciati da una maggiore spesa per trasferimentimonetari di tipo previdenziale.

Le differenze territoriali nella spesa locale socio-assistenzialesono ancora più marcate se si entra nel merito delle aree di

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intervento. Ad esempio, per l’assistenza domiciliare aglianziani, si spendono circa 4 euro pro-capite nel sud, contro 29euro in alcune regioni del nord. Sul piano dell’assistenzaresidenziale agli anziani, i 2 euro procapite del Mezzogiorno siscontrano contro gli 89 e i 37 euro del nord (rispettivamentenelle regioni a statuto speciale e in quelle ordinarie).

Al Sud si spende poco, i Comuni non si associano, gliassegni di cura e i buoni servizio a sostegno del lavoro di curasono praticamente assenti, le strutture residenziali sonoinsufficienti e spesso non tutto il territorio è coperto dai servizi.

In questo contesto, l’aggravarsi delle disuguaglianze chericadono sui cittadini del meridione, a dispetto di diritti civilie sociali costituzionalmente tutelati, chiama in causa lacapacità delle realtà meno efficienti di imparare dalleesperienze migliori o la capacità delle regioni più avanzate acontaminare quelle considerate meno sviluppate.

L’esperienza insegna che le regioni imparanorelativamente poco dai propri errori, così come imparanopoco le une dalle altre. Difatti, nonostante i numerositentativi di affiancamento (gemellaggio o tutoraggio), iltrasferimento delle buone pratiche da una regione ad un’altraha prodotto effetti ancora piuttosto limitati.

Non sempre le varie forme di sostegno interregionale sonodisinteressate o esenti da condizionamenti. Una questione nonsufficientemente esplicitata riguarda ad esempio come fare inmodo che le regioni più efficienti, che beneficiano ampiamentedella mobilità sanitaria attiva, siano realmente interessate arendere meno dipendente il Sud dal Nord, quando questoimporrebbe loro una riduzione dell’offerta ospedaliera.

Un ulteriore quesito riguarda le ragioni che spingono glielettori a non sanzionare i politici che si sono dimostratiinadeguati. Il problema interessa l’intero Paese, ma appareparticolarmente importante nelle regioni del Mezzogiorno,dove spesso l’assenza di buona amministrazione ha contribuitoa sprecare parte delle risorse disponibili, a danno dei più deboli.

In conclusione, le differenze fra nord e sud del Paese nellepolitiche sanitarie e sociali confermano la natura duale delwelfare nazionale, che deve interrogarsi sulle responsabilitànazionali e locali della «questione meridionale» e sulle strategieper il superamento delle carenze di servizi, in larga parteproprie del Mezzogiorno. Sotto questo profilo, regolazione etrasparenza non sono che due dei presupposti essenziali perla convergenza del Mezzogiorno e per il recupero delrispetto dei diritti delle persone.

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L’aggravarsidelle disuguaglianzeche ricadonosui cittadinidel meridione,a dispetto di diritticivili e socialicostituzionalmentetutelati, chiamain causa la capacitàdelle realtà menoefficienti di impararedalle esperienzemigliori o la capacitàdelle regioni piùavanzate acontaminare quelleconsiderate menosviluppate

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ono in molti, oggi, ad affermare la vocazionefallimentare di ogni progetto di sviluppo per ilSud, ineluttabilmente destinato a impantanarsinelle sabbie mobili della ‘cultura meridionale':una cultura del clientelismo, dell’abuso di

potere, dell'omertà, della marginalità, dell'illegalità,dell'assistenzialismo etc.

Ribaltando il discorso: tale prospettiva, pregiudizialequanto 'sfiduciante', supporta, in fondo, la richiesta ches’avvii al Sud un processo endogeno di rigetto della cultura delpotere (che sia quello criminale o d’una politica utilizzata inmodo criminale) la quale venga progressivamente inibitadagli anticorpi di una cultura alternativa: quella della legalità,della partecipazione critica, dell’impegno politico,dell’autonomia.

Certo, identità e cultura sono due parole che suonanovelleitarie a chi è convinto che “con Dante non ti ci fai unpanino”. L’idea di produrre coscienza e identità attraverso lacultura, però, non dev’esser così peregrina se da sempre trovavoci autorevoli a sostenerla: da Guido Dorso che nel 1925sostenne la necessità di «dare coscienza agli umili e trasformarlida oggetto inconsapevole del vecchio baratto trasformista in soggettodella nuova politica autonomista» a Luigi Sturzo che nel ’23 siappellava al «dovere di rifare in noi una coscienza elevata erigida dei compiti del cittadino nella vita pubblica».

Fino il più recente progetto Nuova Programmazione, cheribaltava una vecchia logica sostenendo invece come «losviluppo economico è effetto del miglioramento dellecondizioni civili, sociali, culturali di un’area». Ampio spazio,infine, viene dato dal recentissimo programma di formazione

Il potere della cultura

e la cultura del potereDaniela Carmosinoè critico letterario

S

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politica del Partito Democratico rivolto ai giovani delMeridione, Finalmente Sud, alle ‘condizioni non economiche’e al ‘capitale umano’ rispetto alle richieste della ‘società dellaconoscenza’ (knowledge management).

Una felice convergenza tra progetto politico e progettoculturale, a dire il vero, s’era già realizzata al Sud durantequella breve stagione di risveglio artistico e civile avviatasinella metà degli anni Novanta e che venne detta ‘stagione deisindaci’ e – parallelamente, o forse conseguentemente –‘nuovo rinascimento’.

In anni di crisi, ma anche di produttive trasformazioni perl’Italia tutta, giovani artisti e intellettuali di varia formazionepresero coscienza del danno che arrecava al Sud la suastereotipizzazione, diffusa proprio da certi settori dellacultura. Anticipati negli anni Ottanta dalla preziosariflessione della rivista Meridiana, cinema, musica, teatro,letteratura, fotografia presero a raccontare il vero volto delSud: un Sud in cui convivevano global e local, tradizione einnovazione, un Sud inevitabilmente seppur ‘diversamente’partecipe del processo di globalizzazione con tuttol’inevitabile portato di human consequences.

La riconfigurazione dall’interno e il racconto schiettodell’identità e della cultura del Sud vennero così a costituire ilfocus di appassionati dibattiti: se c’era chi, anticipando unaprospettiva ‘localistica’ poi sempre più consolidatasi evariamente interpretata, denunciava le tante e diverse realtàd’una terra troppo spesso colta con sguardo unificante, altri,come Franco Cassano, ricordavano la vocazione mediterraneadel Mezzogiorno, mentre altri ancora ampliavano la categoriadel Sud in quella di “Sud del mondo” o di “periferia delmondo” (meglio, MacMondo): nozioni, entrambe, nongeografiche ma economico-sociali, peraltro anticipate neglianni Cinquanta da Silone e che comprendevano tutte lesocietà economicamente arretrate rispetto al proprio Nord oal proprio centro.

Anche la stampa si accorse, per un po’, che il Sud stavacambiando. Cambiando rispetto a quelle immaginisemplificate (pizza e mandolino, mafia e magia) che negliultimi due secoli avevano nutrito tanto l’immaginariocollettivo quanto quel repertorio tematico d’obbligo per chivolesse rappresentare il Sud.

Un Sud in cui stavano fiorendo – certo, ancora secondouna diffusione ‘a macchia di leopardo’ – piccole case editrici,riviste culturali, e poi festival e fiere; in cui il cinema (Piva,

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Una feliceconvergenza traprogetto politico eprogetto culturale, adire il vero, s’era giàrealizzata al Suddurante quella brevestagione di risveglioartistico e civileavviatasi nella metàdegli anni Novantae che venne detta‘stagione dei sindaci’

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Rubino, Winspeare etc.) e la musica (Sud sound system)sperimentavano nuovi modi di raccontare nuove realtà.

E la letteratura? Anche la letteratura s’adoperò perrisvegliare le coscienze. Prediligendo forme come ilréportage, il romanzo a sfondo sociale e i racconti a tema, lanarrativa disegnò e interpretò criticamente e rendendogiustizia a quella complessità che ne scongiuraval’appiattimento su banali stereotipi, la mappa di nuove realtàsociali in via di configurazione.

Qualche esempio, per capirci. Roberto Saviano in Gomorra(2006) demistifica la realtà mediatica rivelando le vere logichee configurazioni del Sistema; Antonella Cilento in Non è ilParadiso (2003) sciorina e demistifica tutto il peggio dellasupposta napoletaneria; Romano, Cappelli, Argentina, Atzeni,Dezio ritraggono un Nord inedito, filtrato dagli occhi delSud; De Silva, Cilento, Pascale, Romano, Parrella, Alajmo,Montesano, Argentina, Lagioia scelgono di portare in scenadue dimensioni fino agli anni Ottanta generalmente messe aimargini, sia della produzione narrativa quanto dagli studistorici, economici e sociali: la città e il ceto medio urbano delSud, formato da professionisti e impiegati, costretti adassistere all’insinuarsi, nella quotidiana normalità, dicomportamenti che, pur costeggiando appena l’illegale (ilfavore comprato, la raccomandazione) si fanno viatico a unadiffusione trasversale della ‘cultura dell’illegalità’.

Tra i nuovi scenari predominano poi i non-luoghi privi diidentità, quali ipermercati, autostrade, call-center o fast-food.Testimoniano delle nuove forme di lavoro flessibile i tantiprecari, di Parrella ad esempio, mentre Pascale e Brauccirappresentano con sguardo solidale gli immigrati e «lapossibilità di un’integrazione pleno jure, di un paritarioprocesso di cross-fertilization culturale». Da non trascurare,poi, i bamboccioni (ante litteram) e i teledipendenti diRoberto Alajmo.

La narrativa diviene spesso sede di riflessione critica delrapporto tra media e immaginario collettivo da questicolonizzato, sorta di koiné, questa, sì, davvero nazionale(Pasolini docet) e trasversale rispetto a ceto o generazioned’appartenenza.

E la criminalità? Resta nel repertorio, ché ancora gioca unruolo fondamentale nell’identità del Sud, ma rappresentata inchiave comico-grottesca o patetica: così ce la racconta, unoper tutti, Montesano in Di questa vita menzognera (2003)segnalando semmai, quale vero pericolo, la frequente

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Roberto Saviano inGomorra (2006)

demistifica la realtàmediatica rivelando

le vere logiche econfigurazioni del

Sistema; AntonellaCilento in Non è il

Paradiso (2003)sciorina e demistifica

tutto il peggio dellasupposta

napoletaneria;Romano, Cappelli,

Argentina, Atzeni,Dezio ritraggono un

Nord inedito,filtrato dagli occhi

del Sud

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strumentalizzazione della cultura da parte dei criminali. Quei criminali che, nel romanzo quanto nella realtà,

chiamano Bibbia e Vangelo a legittimare il proprio operato;quei criminali come il boss Sandokan, che si fa costruire unavilla sul modello di quella in cui vive Scarface negli omonimiromanzo e film, o come quei giovani malavitosi che a Scarfaceispirano abbigliamento e logiche comportamentali.

Ecco perché, posta l'insopprimibilità nell’Uomo delbisogno di condividere valori, modelli e comportamenti conun gruppo d’appartenenza che gli conferisca identità, divieneurgente, per il Sud, elaborare una valida cultura identitariaalternativa, fondata su valori etico-civili condivisi con l’interanazione.

E farla penetrare nell’immaginario collettivo attraversol’immissione di nuove quote di realtà, nuove logiche, nuoviparametri di giudizio, stimolando dubbi e spirito critico rispettoa valori e modelli proposti dal potere: che è, poi, il modo in cuida sempre operano la letteratura e la cultura in genere.

Non resta che augurarci che il progetto diventi politico.

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a decisione di dedicare un particolare impegnoalla formazione politica dei giovani «quadri» delMezzogiorno – il progetto Finalmente Sud – puòcontribuire in misura significativa allacostruzione del Pd. Non solo del Pd

meridionale, ma di tutto il Pd poiché può essere l’occasioneper porre a fondamento della visione politica dei dirigenti edei militanti il problema storico della nazione italiana.

Il 3 ottobre del 2009 il Presidente Napolitano scelse lafigura di Giustino Fortunato per tracciare l’indirizzo da darealle celebrazioni del centocinquantesimo dell’unità d’Italia ein un memorabile discorso tenuto nel Palazzo Fortunato diRionero in Vulture (provincia di Potenza), ripropose ilproblema del dualismo Nord-Sud come il principale dei nostri

Il problema italiano e il Pd

Giuseppe Vaccaè Presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma

L

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problemi e il banco di prova delle classi dirigenti. Non era un discorso di circostanza, anzi, era fin troppo

ruvido nella critica dell’indirizzo nordista dei governi delladestra e nella condanna della «bestemmia separatista» dellaLega Nord.

Conoscendo la lucidità politica di Giorgio Napolitano,suppongo che fosse del tutto consapevole del fatto che duedecenni di governi “nordisti” e soprattutto l’ultimo,esasperatamente dominato dal cosiddetto «asse del Nord»,stavano portando l’Italia sull’«orlo del baratro»; ma il suodiscorso mi parve anche consapevole del fatto che,riattivando il sentimento nazionale e l’afflato unitario degliitaliani, si sarebbe accelerata la fine di quel ciclo politico,come di fatto è poi avvenuto.

Penso che su quel solco debba procedere Finalmente Sud epuò essere utile approfondire brevemente il tema.

Governo e Paese, scriveva Fortunato, «non ignorino diavere, nella questione meridionale, il maggiore dei lorodoveri di politica interna». Don Giustino parlava alle élitesliberali di cui faceva parte, e il suo discorso aveva ungrande afflato esortativo.

Ma già le “plebi” rurali e cittadine, risvegliate e organizzatedalla propaganda socialista, stavano rimodulando il profilo dellanazione, insidiando l’oligarchia di notabili che costituiva allorala classe di governo e gli equilibri di potere su cui si reggeva.

Dopo i Fasci Siciliani e la crisi di fine secolo, AntonioLabriola poteva quindi proporre una visione di più ampiorespiro del problema italiano.

Nel suo ultimo scritto, Da un secolo all’altro (1901), tracciatoun bilancio del Risorgimento e del primo quarantennio divita unitaria, individuava nei termini più esatti i problemi cheavrebbero ereditato le generazioni successive.

L’Italia, scriveva, «uscendo da secoli di effettiva decadenzae passando poi per la tensione cospiratoria e per l’ardoredelle rivolte, non ha portato nel nuovo assetto unaproporzionata esperienza di politica moderna»; onde sidomandava: «quante garanzie di Stato moderno offre oral’Italia in quanto a mantenere un posto di utile ed efficaceconcorrente nella gara internazionale? […] La vecchianazione italiana, componendosi a Stato moderno, di quantos’è trovata adattabile e di quanto difettiva di fronte allecondizioni della politica mondiale in genere» ?

In prospettiva storica, quindi, il dualismo Nord-Sud sitraduceva in due problemi permanenti della nazione italiana,

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Due decenni digoverni “nordisti” esoprattutto l’ultimo,esasperatamentedominato dalcosiddetto «asse delNord», stavanoportando l’Italiasull’«orlo delbaratro»

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fra loro strettamente intrecciati: la fragile unità interna e ladebole capacità di affermarsi nell’agone internazionale.

Non era un problema che si potesse risolvere senza unlungo processo d’integrazione delle classi popolari nella vitadello Stato e che perciò passava nelle mani del socialismo edel cattolicesimo politico.

E in effetti solo quando queste forze avrebbero raggiungola capacità di dare un’ossatura democratica alla nazioneitaliana, dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia avrebbecompiuto il suo più celere balzo nella divisione internazionaledel lavoro e nella partecipazione alla produzione dellaricchezza mondiale.

Né fu casuale che in quel trentennio la questionemeridionale, pur declinata in modi diversi e persinocontrastanti, assurgesse al rango di paradigma della propostapolitica dei principali partiti della Repubblica, di governo e diopposizione.

L’esaurimento di quel ciclo politico coincise con l’iniziodella crisi della democrazia repubblicana e sarebbe bene chenel percorso di Finalmente Sud si sviluppasse una ricercasulle origini e le ragioni di quella crisi.

Anche a questo fine, avrebbe un grande valoreformativo, io credo, rileggere alcuni classici delmeridionalismo. Una prima questione riguarda la scelta disistemi elettorali che favoriscano l’unificazione maidefinitivamente compiuta del popolo-nazione.

Sarebbe utile ritornare, in proposito, sul discorso diGaetano Salvemini al Congresso del Partito Socialista diFirenze del 1908, nel quale spronava il partito ad assumereun impegno risoluto per la conquista del suffragio universalecome principale risorsa per immettere i contadini meridionalinella vita dello Stato e superare il corporativismo operaio sucui il partito stesso era attestato.

Certo, oggi nessuno metterebbe in dubbio il suffragiouniversale, ma esso può esercitarsi con leggi elettorali moltodiverse (è il caso di ricordare che il suo esordio si ebbe conl’istituzione del plebiscito da parte di Napoleone Terzo?) equindi un partito nazionale e popolare quale vuol essere il Pddovrebbe battersi per leggi elettorali che valorizzino ledifferenze (sociali, territoriali, di genere) per unificarle nelconfronto con le diverse visioni di cui sono interpreti i partiti.

Subito dopo la disfatta di Caporetto, quando si aprì lacaccia ai socialisti accusati di sabotaggio, Gramsci rivendicavaal socialismo il merito d’essere stato l’unica forza unificatrice

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Avrebbe un grandevalore formativo, io

credo, rileggerealcuni classici delmeridionalismo.

Una primaquestione riguardala scelta di sistemi

elettorali chefavoriscano

l’unificazione maidefinitivamente

compiuta delpopolo-nazione

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del popolo–nazione per aver «fatto sì che un contadino diPuglia e un operaio del Biellese parlassero la stessa lingua, sitrovassero, così lontani, a esprimersi in confronto di unostesso fatto, a dare un giudizio uguale di un avvenimento, diun uomo» (Il socialismo e l’Italia, 22 settembre 1917).

Nei Quaderni del carcere, riflettendo sulle elezioni del 1919,le prime con suffragio universale maschile e con leggeproporzionale, ne sottolineava il valore costituente poiché perla prima volta, «in tutto il territorio nazionale, in uno stessogiorno, tutta la parte più attiva del popolo italiano si [eraposta] le stesse questioni [cercando] di risolverle nella suacoscienza storico-politica».

Se è vero, come affermava Ernest Renan, che «la nazione èun plebiscito che si rinnova ogni giorno», il giorno delleelezioni è quello più solenne, in cui se ne certifica la densità e lacoesione.

Gli italiani sono oggi molto simili fra loro, sonogeneralmente istruiti, abbondano d’informazione e quindile loro differenze originano dai processi della modernità,non dalla sua mancanza.

Ma il compito di ricomporle non è meno arduo. Permolti aspetti Nord e Sud non sono oggi meno distanti diieri anche per il modo in cui i flussi della mondializzazionesi riverberano sui diversi aggregati territoriali e gruppisociali di cui è composta la nazione.

Far emergere tutto questo, farne il centro del discorsopolitico e della lotta per l’unità della nazione è possibile, ma leleggi elettorali attuali non lo consentirebbero poiché sonoispirate dalla volontà di neutralizzare e rendere insignificanti ledifferenze, e soprattutto le culture politiche in cui si esprimono.

Solo il proporzionale consente alla nazione di rinnovare,almeno ogni cinque anni, il suo «plebiscito». E Gramsci nonguardava solo alla propria parte. Quando, nel dicembre del1918, fu dato l’annuncio della costituzione del PartitoPopolare, ne colse subito l’importanza perché colmava l’altragrande frattura dello Stato sorto dal Risorgimento, la fratturacon la “nazione cattolica”.

«Il costituirsi dei cattolici in partito politico, scriveva, è ilfatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento. Iquadri della classe borghese si scompaginano: il dominiodello Stato verrà aspramente conteso, e non è da escludereche il partito cattolico, per la sua potente organizzazionenazionale accentrata in poche mani abili, riesca vittoriosonella concorrenza dei ceti liberali e conservatori laici della

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Nord e Sud nonsono oggi menodistanti di ieri ancheper il modo in cui iflussi dellamondializzazione siriverberano suidiversi aggregatiterritoriali e gruppisociali di cui ècomposta la nazione

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borghesia, corrotti, senza vincoli di disciplina ideale, senzaunità nazionale, rumoroso vespaio di basse congreghe econsorterie» (I cattolici italiani, 22 dicembre 1918).

Forse un «partito cattolico» non è più pensabile in Italia.Ma un partito nazionale come il Pd – fondato fra l’altro suuna conclamata visione condivisa da credenti e noncredenti – non può sottrarsi alla lotta per leggi elettoraliche valorizzino le culture politiche che mettono in formale moltitudini dell’odierna «folla solitaria».

Il contributo più significativo del cattolicesimo politicoal pensiero dell’unità della nazione è venuto, credo, da donLuigi Sturzo che arricchì il meridionalismo di una visionegeopolitica lucida e attuale.

Si rilegga il suo grande discorso per il quarto anniversariodella fondazione del Partito Popolare (Il Mezzogiorno e lapolitica italiana, 18 gennaio 1923) in cui, superandonettamente la visione di Giustino Fortunato della questionemeridionale come «dovere della politica interna», ne indicavale coordinate più ampie nella proiezione mediterranea dellapolitica economica e della politica estera dell’Italia.

Fra le lezioni del meridionalismo, questa mi pare la piùattuale. Dopo Maastricht la «questione mediterranea» èdivenuta una questione europea e non sarebbe difficiledimostrare, se ne avessi lo spazio, che mentre subito dopo lanascita dell’euro il Mezzogiorno aveva ricominciato acrescere mediamente poco più dell’intero Paese anche grazieal fatto che il Mediterraneo stava riguadagnando un ruolocentrale nel commercio internazionale, quella prospettiva fufermata dalla guerra all’Irak e con essa l’Europa si divise e fubloccata anche la sua proiezione mediterranea.

Credo che questi avvenimenti abbiano avuto un effettodecisivo nel favorire una visione del governo del Paesesempre più centrata sull’«asse del Nord» e su unaesasperazione del dualismo spinta fino all’«orlo delbaratro» di tutta la nazione.

Ma la riflessione dovrebbe abbracciare anche le ragioni percui – sottolineava energicamente Napolitano a Rionero –l’ispirazione e la responsabilità nazionale delle classi dirigentisi era oscurata «da troppi anni per effetto dello spengersi deldibattito culturale e politico meridionalista e dell’esaurirsi diuna strategia nazionale per il Mezzogiorno».

Si potrebbe aggiungere la necessità di una verifica dellestrategie con cui, smantellata l’economia mista e l’interventostraordinario, anche la «questione meridionale» venne

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Dopo la nascitadell’euro il

Mezzogiorno avevaricominciato a

crescere mediamentepoco più dell’interoPaese anche grazie

al fatto che ilMediterraneo stavariguadagnando unruolo centrale nel

commerciointernazionale,

quella prospettiva fufermata dalla guerra

all’Irak

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affidata alle sole risorse del mercato. Un fallimento totale, da cui oggi riparte la riflessione

più avvertita che non a caso coniuga questione meridionale equestione mediterranea. Ad esse dedicano nuove ricerche efresche riflessioni i nuovi meridionalisti – uno per tutti,Franco Cassano, Tre modi di vedere il Sud – ed è benelasciare a loro la parola.

Ma sarebbe ancora meglio se il Pd, in vista d’unarinnovata iniziativa europea dell’Italia che vada oltre l’azioneprestigiosa e meritoria del governo Monti, raccogliessequeste energie per cercare insieme prospettive concrete allaproiezione mediterranea dell’UE.

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Sarebbe ancorameglio se il Pd, invista d’unarinnovata iniziativaeuropea dell’Italiache vada oltrel’azione prestigiosa emeritoria del governoMonti, raccogliessequeste energie percercare insiemeprospettive concretealla proiezionemediterraneadell’UE

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Italia sta affrontando con determinazione lapiù seria crisi economica e sociale daldopoguerra. Il Governo Monti ha adottatomisure gravose ma indispensabili per porre insicurezza il Paese. Occorre ora lavorare alla

crescita, dopo lunghi anni di stagnazione che hanno vistol’Italia perdere posizioni tra i grandi Paesi avanzati.

Non avremo uno sviluppo solido e un’Italia più civile senon ci sarà una svolta nel Mezzogiorno.

È un momento difficile per il Sud. La crisi morde nelprofondo l’economia meridionale, si contrae l’occupazione,si delinea un declino demografico con un forte calo dellanatalità e un flusso di uscite di oltre 100mila personeall’anno, la maggior parte giovani che lasciano le regionimeridionali per realizzare altrove le loro speranze divalorizzazione professionale e di lavoro. Il Sud ne èdoppiamente penalizzato: segna il fallimentodell’investimento formativo; priva le regioni meridionali dicompetenze e di energie vitali.

Oggi il Mezzogiorno è un’area che cresce poco ancherispetto alle aree europee in ritardo di sviluppo. Le difficoltà delSud tuttavia sono per vari aspetti quelle dell’intero Paese. Negli ultimi15 anni il Paese nel suo insieme ha perso terreno rispetto allealtre economie europee.

Se l’Italia stenta a tenere il passo di alcuni altri paesidell’Unione europea la responsabilità non va imputata al Sudbensì alle conseguenze delle riforme mancate in cui si dibatteil sistema Italia nel suo complesso.

Altro che Mezzogiorno “capro espiatorio” di ogni ritardonazionale. Il ristagno in cui versa l’economia italiana è

Dentro un disegnoriformatore nazionale

Umberto Ranieriè Presidente Forum Mezzogiorno del Partito Democratico

L’

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originato da cause comuni: dallo stato della pubblicaamministrazione alle carenze nella qualità dei servizi, dallacaduta degli investimenti pubblici nella ricerca alla mancanzadi concorrenza, alla illegalità. Problemi che si presentano nelMezzogiorno in misura molto più accentuata. Quale viaseguire? Quale strategia adottare?Quale equilibrio costruiretra Nord e Sud del Paese?

Se si arrocca sopra il Po il Nord non ha futuro. Le regionimeridionali costituiscono un mercato di 20 milioni dipersone in cui giungono flussi di prodotti provenienti percirca il 40% dal Nord/Ovest e per circa il 30% dalNord/Est: c’è una forte interdipendenza tra le due aree. Si ècalcolato che i 45 miliardi di euro annualmente trasferiti dalNord al Sud finanziano importazioni nette pari a 62 miliardidi euro dall’interno e 13 miliardi dall’estero.

Questo significa che non hanno fondamento suggestionidi separazione o secessione. Non c’è alternativa al crescereinsieme di Nord e Sud “non essendo storicamenteimmaginabili, nell’Europa e nel mondo di oggi, prospettiveseparatiste o….più semplicemente ipotesi di sviluppoautosufficienti di una parte soltanto dell’Italia”.

È il momento di mettere in campo una proposta generaleper l’Italia che ruoti intorno alle riforme di cui ha bisogno ilPaese. Nessuna politica per il Sud può essere credibile ed efficace senon viene concepita come parte di un disegno riformatore nazionale, ingrado di affrontare i nodi della crisi economica, sociale edemocratica. Il problema è duplice: dare vita ad una strategiadi rilancio del sistema Italia nel suo complesso e insiemeavviare un meccanismo di integrazione tra le due macroareedel Paese.

I due obiettivi sono strettamente interrelati. La sfida insostanza è portare a coerenza l’interesse specifico del Sudcon quello complessivo dell’Italia. In questo quadroemergono tre priorità.

Politica verso il MediterraneoI giganteschi avvenimenti che si vanno producendo al di là

del mare, sulla sponda Sud del Mediterraneo, impongonouna svolta nella politica dell’Europa e dell’Italia verso questaparte del mondo. Se non ora quando impegnarsi per fare delMezzogiorno la piattaforma dell’Europa verso paesi in cuipossono consolidarsi vasti processi di democratizzazione inun Mediterraneo che ha ritrovato nuova centralità nelloscenario globale dell’economia e degli scambi internazionali ?

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Le regionimeridionalicostituiscono unmercato di 20milioni di personein cui giungonoflussi di prodottiprovenienti per circail 40% dalNord/Ovest e percirca il 30% dalNord/Est:c’è una forteinterdipendenzatra le due aree

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Il recupero allo sviluppo del Sud diventa allora funzionale adun disegno sovranazionale. Per questa via il mezzogiornopuò diventare la più rilevante opportunità di rilancio perl’intera economia italiana.

Energie rinnovabiliIl settore delle energie rinnovabili costituisce una

opportunità per il Mezzogiorno. Considerando solo le"nuove" fonti pulite (eolico, solare, biomasse e biogas), ilpeso delle regioni del Sud è già oggi rilevante; basti pensareche in questi territori è stato prodotto il 70% di tuttal'energia generata da queste fonti nel nostro Paese.L’impegno nella geotermia può costituire una grande risorsain questo quadro. È una direzione verso cui vanno orientaterisorse per sostenere il sorgere di una vera filiera produttiva.

Qualità dei servizi pubblici e condizioni per attrarreinvestimenti

Va superata una lettura eccessivamente economicisticadello sviluppo del Mezzogiorno. Guardare alla cultura,allasocietà,alle istituzioni può aiutare per riportare al centrol’idea che fu dei classici del meridionalismo: lo sviluppo hacause non solamente economiche. E’ l’offerta inadeguata dibeni pubblici di base come sicurezza, sanità, giustizia,istruzione, ambiente, all’origine della debolezza che hasoffocato l’economia del Mezzogiorno, ha reso più bassa lapropensione all’imprenditorialità, più alto il costo del credito.

Si tratta di problemi che si riflettono sulla vita dei cittadinima che condizionano decisamente anche le prospettive dicrescita economica in quanto fattori non secondari neldeterminare l’attrazione di nuove iniziative imprenditoriali.

Una nuova politica di sviluppo deve certamente riguardareobiettivi di infrastrutturazione materiale e immateriale; unanuova politica industriale fondata su incentivi automatici chescongiuri il rischio di una scomparsa dell’industriameridionale stretta tra sfide competitive e crisi del credito;una riforma degli ammortizzatori sociali che consenta lacopertura di lavoratori meridionali esclusi da ciclo produttivoma non può trascurare la necessità di intervenire pereliminare i divari nell’istruzione, nella formazione, perdiffondere valori civici, migliorare i servizi pubblici,combattere l’illegalità.

In questa ottica i servizi pubblici vanno consideratielementi fondanti delle condizioni di competitività nel medio

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e lungo periodo. Questa la strada obbligata per promuoverelo sviluppo del Mezzogiorno; per attirare nel Sud nuoverisorse private e nuovi protagonisti dell’economia: menodell’1% degli investimenti diretti esteri giunti in Italia negliultimi due anni si è indirizzato nel Mezzogiorno.

Senza la capacità di attrarre investimenti dal Nord e dal restodel mondo, senza una convenienza per gli investimenti privati ilSud non conoscerà un processo autonomo di sviluppo.

Nel quadro di questo ragionamento va ripresa, su basinuove, la prospettiva della riforma federalista. IlMezzogiorno non si è tirato indietro rispetto alla sfida delfederalismo. Nella migliore tradizione del meridionalismo sirintraccia il riferimento all’autogoverno responsabile dellepopolazioni, il richiamo d’obbligo è a Salvemini e a Sturzo.

Il federalismo tuttavia è un processo complicato cherichiede attenzione alle procedure, alle regole, ai costi. Ilproblema con cui fare i conti oggi è che le disposizioniattuative della legge 42 del 2009 non vanno allo stato versouna equilibrata riforma federale. Questo il punto dolente.Non ci sono certezze e permane invece forte ambiguità suaspetti cruciali della riforma: dal livello dei costi standard aifabbisogni per soddisfare diritti di cittadinanza, dalle formedella perequazione, al rapporto tra ordinamento federale el’intervento per lo sviluppo del Mezzogiorno.

Stando così le cose è indispensabile una correzione delprogetto federalista. È questa la condizione che può

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Senza la capacitàdi attrarreinvestimenti dalNord e dal restodel mondo, senzauna convenienzaper gli investimentiprivati il Sudnon conoscerà unprocesso autonomodi sviluppo

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consentire di riprendere la strategia federalista. C’è infine una questione di fondo che costituisce la

premessa di una nuova politica per il Sud: solo una classedirigente meridionale con le carte in regola può condurreuna battaglia culturale per reagire a una campagna didemonizzazione di tutto ciò che accade nel Sud.

Una campagna che ha fatto delle regioni meridionali laterra dello spreco e della corruttela, la terra in cui “nullacambia e nulla potrà mai cambiare”. La via non è quella delSudismo che si risolve in una richiesta di soldi per mantenere in piediun sistema di potere da cambiare radicalmente. La battaglia per ilSud può essere condotta unicamente da una classe dirigentemeridionale che dimostri di saper usare produttivamente finoall’ultimo centesimo le risorse disponibili, che affermiprincipi di legalità e trasparenza nell’amministrazione dellacosa pubblica.

Ecco perché si impone nel Sud una profonda riforma dell’agirepolitico: occorre nel Mezzogiorno una politica più orientataall’interesse generale; liberata da chi tenta di farne un luogodi privilegi.

Vanno introdotti antidoti alla intermediazione impropriadei politici;sanzioni che innalzino i costi di comportamentitrasformistici; vanno definite misure volte a rafforzare lapossibilità di partecipazione di controllo dei cittadini suipropri eletti; va favorita la cittadinanza attiva privilegiando leassociazioni civiche, definendo una carta di diritti deicittadini per tutelarli dagli arbitri della burocrazia.

Per muovere in questa direzione va costruita nella societàmeridionale un’alleanza per le riforme che si faccia carico delcambiamento in alternativa a quella che è stata chiamata lacoalizione della rendita, quella in cui sono cementateconvergenze di interessi tra un mondo imprenditoriale legatoai trasferimenti pubblici e un ceto politico burocraticointeressato al mantenimento di privilegi e ad uno scambioeconomico o elettorale.

È stato questo blocco conservatore la causadell’immobilismo del Sud.

Meno tutele più innovazioneIn conclusione il punto da sottolineare è che il mezzogiorno ha

bisogno meno di tutele e più di investimenti mirati al sostegnodell’istruzione, del lavoro, della ricerca e dell’innovazione. Ibeneficiari di queste politiche innovative devono essere lenuove generazioni meridionali. Occorrono riforme che

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Stando così le cose èindispensabile una

correzione delprogetto federalista.

è questa lacondizione che può

consentire diriprendere la

strategia federalista

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rendano più vantaggioso per i giovani meridionali rimanereal Sud o ritornarvi piuttosto che fuggire. La premessa difondo al nostro ragionamento è la legalità. La difesa el’affermazione dello Stato di diritto.

Poi, l’istruzione. Il mondo della scuola e della formazionenel mezzogiorno ha bisogno di maggiore equità e maggiorequalità. È dalla scuola che occorre partire per creare lecondizioni di un nuovo e virtuoso circuito istruzione-merito-lavoro alternativo al dramma secolare delclientelismo e del favoritismo

Per essere parte protagonista di una battaglia che sipropone tali obiettivi, il Pd nel Mezzogiorno deve avviareun profondo rinnovamento nel suo modo di essere e difunzionare. In diverse realtà del Mezzogiorno si tratta dirifondare o ricostruire su nuove basi il Pd per scongiurare ilrischio che esso si riduca ad un assemblaggio informe digruppi e gruppetti. A partire dal tesseramento.

La tessera, in molti casi (qualcuno sostiene la maggioranzadei casi), non è pagata dal cittadino che va nel circolo e laritira. Le tessere sono pagate dai capi corrente che, aggirandosapientemente regole e procedure, ne controllano interiblocchi. Insomma, c’è chi investe sulle iscrizioni al partitoaccumulando in questo modo “munizioni” in vista di disputesu prebende, candidature, preferenze.

Avviene così la trasformazione di parte degli iscritti in“anime morte” trasferibili ad un cenno del notabile di turno.Manovrare un numero elevato di iscritti decide delle sorti edello status di un capo corrente. Chi non dispone di unpacchetto di tessere non ha difese. Se così stanno le cose,occorre rendersi conto che è in discussione l’esistenza stessadel Pd nel mezzogiorno.

Occorre scongiurare il pericolo che l’incontro tra Ds eMargherita nel Sud conduca non alla forza nuova ecombattiva di cui c’era bisogno ma ad un organismo malatoe segnato dai vizi tipici della cattiva politica meridionale. Perquanto sia difficile, occorre lavorare ad una svolta. Rilanciarel’idea di un partito che si dia forme organizzative capaci diconsentire la partecipazione dei propri elettori, che funzionisulla base di procedure democratiche, che si liberi di notabiliodiosi e prepotenti.

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Occorre lavorare aduna svolta.Rilanciare l’idea diun partito che si diaforme organizzativecapaci di consentirela partecipazione deipropri elettori, chefunzioni sulla basedi proceduredemocratiche, che siliberi di notabiliodiosi e prepotenti

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FOCUSPer una ricostruzione civile

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Il circuitodisuguaglianza-sottosviluppoSergio D’Antoniè Responsabile Politiche sul territorio e deputato del Partito Democratico

siste una forte relazione, nel nostro paese, tramancato sviluppo delle zone deboli del Sud edeficit democratico. Un nesso profondo ebiunivoco, che rende l'uno causa ed effettodell'altro. La questione democratica è infatti

implicita in una nazione che esclude di fatto un terzo dellapropria popolazione dal circuito produttivo e dai processidecisionali partecipativi.

Questo deficit si traduce, materialmente, in una drammaticaasimmetria nelle condizioni di partenza dei cittadini.

E produce esattamente ciò di cui si nutre: disuguaglianza esottosviluppo. In una Repubblica che fonda il proprio statusdemocratico sul protagonismo di tutti al lavoro produttivo,

la questione della partecipazione democratica non può chefondersi con questione economica.

O meglio, con la capacità delle istituzioni nazionali diesprimere una politica inclusiva, incentrata sulla coesionedelle realtà più svantaggiate. Priorità resa ancora più urgenteda una crisi che ha allontanato ulteriormente i fortidai deboli e che affonda le proprie radiciproprio nella cattiva distribuzione dellerisorse

e delle opportunità.La recessione degli ultimi tre

anni si è abbattuta sul nostropaese con più forza chesull’Europa e sul Mezzogiornocon più intensità che sul restodel paese. I tre elementi chehanno fatto scontare all'Italiatassi di sofferenza maggioririspetto agli altri grandi paesisono l'alto indebitamentopubblico, l'assenza di crescita e– soprattutto – la forte dualità

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economica e sociale tra il Nord e Sud. Fattori in realtàintimamente interdipendenti.

La stagnazione economica è infatti il risultato della incapacitàdi mettere in moto processi di sviluppo nelle zonesottoutilizzate del Mezzogiorno. In altri termini, per tornare afar crescere il paese a livelli sostenuti non c'è altra via se nonquella di abbattere il gap strutturale che allontana il Sud dalresto d'Italia. L'azione pubblica nazionale è chiamata arispondere a questa esigenza, che è una esigenza prettamenteredistributiva.

Combattere le disuguaglianze non deve essere consideratosolo un imperativo etico, ma una questione di bilanciamentodemocratico e l'elemento centrale di una strategia di rilancioeconomico nazionale.

Analizzare la distribuzione del reddito e della ricchezza inItalia, significa descrivere gli effetti di un motore acceso soloa metà, tracciare il perimetro di una debolezza sistemica cheimpedisce al sistema-nazione di tornare a crescere al livellodegli altri paesi europei.

Non è un caso che il periodo del miracolo economico siastato caratterizzato da indici di sperequazione tra i più bassimai raggiunti nel nostro paese. D’altro canto, seguire leevoluzioni degli indicatori di disuguaglianza negli ultimi diecianni equivale ad osservare un implacabile aumento delledisparità e dei divari tra gruppi sociali e zone geografiche.

Secondo dati Ocse, intorno alla metà degli anni duemilal’Italia risultava caratterizzata da un livello di iniquitàinferiore solo a Usa, Grecia, Lituania e Portogallo.

Tra le nazioni contraddistinte dai più bassi indici didisparità sociale e territoriale vi era invece la Germania. Chenon a caso oggi vola a tassi di crescita, di redditi e dioccupazione che non hanno pari in Europa.

Guardare all'esempio di Berlino, vuol dire far propria lalezione di un paese che ha saputo integrare in pochissimotempo venti milioni di cittadini delle proprie aree debolidell'Est. Appena venti anni fa un baratro divideva lecondizioni dell'evoluto Ovest da quelle dell'ex Ddr.

All'esigenza di colmare i vertiginosi divari esistenti nellaquantità e nella qualità dei fattori produttivi, delleinfrastrutture, delle condizioni sociali dei cittadini, siaggiungeva l'urgenza di integrare due sistemi politico-istituzionali completamente diversi.

Un lavoro immenso, che coinvolgeva simultaneamente ildominio della politica, dell'economia, del sociale e della

La recessione degliultimi tre anni si è

abbattuta sul nostropaese con più forzache sull’Europa e

sul Mezzogiorno conpiù intensità che sul

resto del paese

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cultura. E che ha reso necessaria la messa in campo di un“formidabile arsenale di politiche coesive”, come lo definiscela Banca d'Italia in uno studio del 2009.

La Germania ha investito nel proprio “Sud” dal 1990 molto,ma molto di più di quanto l’Italia abbia speso per il proprioMezzogiorno dal secondo dopoguerra. Tabelle alla mano, ilgoverno federale tedesco ha stanziato in due decenni qualcosacome 1.500 miliardi mirati alla convergenza delle areesottoutilizzate dell’Est, pari a una media di 75 miliardi di eurol'anno. Una quantità di denaro enormemente superiore rispettoai 360 miliardi investiti (male) dall'Italia dal 1945 ad oggi.

Comune a entrambe le esperienze è l’elevata dipendenzadall’intervento pubblico, perpetuata da una evidentedifficoltà di avvio di un processo di sviluppo autosufficiente.Tuttavia, se in 60 anni l'Italia ha speso mediamente nelproprio Sud non più dello 0,7 per cento del suo Pil - spesaperaltro mai del tutto aggiuntiva rispetto a quella ordinaria -,nella Germania Est, fin dai primi anni della riunificazionepolitica, i trasferimenti medi annuali hanno raggiunto il 5 percento del prodotto interno lordo.

Bisognerà pure sfatare quel luogo comune che identifica ilSud come una voragine di denaro, un buco nero che haassorbito fiumi di risorse dallo Stato e che continua a batterecassa come un bambino viziato. È la teoria del“mezzogiorno irresponsabile e piagnone”.

Un teorema che andrebbe rivisto alla luce dei dati reali,secondo cui il settore pubblico non riesce ad esprimere unaspesa adeguata nel Mezzogiorno. I valori della spesaordinaria in conto capitale destinata alle aree sottoutilizzatedel Sud sono infatti dal 2008 in costante diminuzione,arrivando nel 2010 addirittura al 23,1 per cento del totale.Siamo ben lontani anche dal solo peso naturale delMezzogiorno, la cui estensione territoriale è pari al 38 percento della superficie nazionale.

Questi numeri non devono essere un alibi per nessuno.Entra qui, e prepotentemente, la questione delleresponsabilizzazione delle classi dirigenti nazionali e localinella gestione degli strumenti destinati alla convergenza. Sulpiano nazionale significa sostenere lo sviluppo delle areedepresse garantendo investimenti reali e leve di fiscalità disviluppo, imponendo trasparenza e vigilando sul lorocorretto utilizzo.

Su quello locale vuol dire potenziare gli strumenti difeedback tra amministratori e cittadini, sfrondare ed

Bisognerà puresfatare quel luogocomune che identificail Sud come unavoragine di denaro,un buco nero che haassorbito fiumi dirisorse dallo Stato eche continua abattere cassa comeun bambino viziato.è la teoria del“mezzogiornoirresponsabile epiagnone”

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economizzare il sistema della pubblica amministrazione,dichiarare guerra agli sprechi e alle intermediazioniparassitarie, delegare poteri e risorse solo a dirigenti capaci eresponsabili.

Il Mezzogiorno e l'Italia tutta deve far propria la politicadelle “carte in regola” che trenta anni fa ha ispirato l'azioneconcreta e la riflessione teorica di un grande meridionalistacome Piersanti Mattarella.

Le carte in regola rappresentano un punto di partenzafondamentale per avere credibilità nelle sedi decisionalinazionali e comunitarie. E quindi per poter invocare, a Romacome a Bruxelles, le necessarie politiche di convergenza conautorevolezza e senza dare alibi ai tanti che lavorano controle ragioni della coesione.

Abbiamo bisogno di una politica di sviluppo nazionaleche, come in Germania, liberi risorse vere indirizzandole suinfrastrutture, investimenti e lavoro produttivo nelle areedepresse. Deve essere chiaro che investire sulla crescitaeconomica e sociale delle zone e delle fasce deboli non vuoldire promuovere politiche parassitarie.

È vero esattamente il contrario. Gli sprechi, le inefficienzee le politiche clientelari si nutrono proprio della incapacità diun territorio di esprimere una rete produttiva e socialeadeguatamente sviluppata. Il paese ha bisogno di pervenire aun patto per la crescita e per la coesione nazionale.

Affinché questo possa verificarsi, è necessario che leistituzioni, le forze politiche e lo organizzazioni socialitornino a cooperare responsabilmente nell'ambito di una piùsalda riaffermazione del patto di unità e solidarietà nazionale.È la più grande occasione data a tutti per riscattare la propriamissione al servizio della democrazia e del bene comune.

Gli sprechi,le inefficienze e le

politiche clientelari sinutrono proprio

della incapacità diun territorio di

esprimere una reteproduttiva e sociale

adeguatamentesviluppata

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on la firma posta sotto il documento del‘’fiscal compact’’ da 25 paesi sui 27aderenti all’Unione europea, il tormentatoprocesso di messa a punto di misure dicontenimento della crisi finanziaria guidato

dalla cancelliera Merkel e dalla maggioranza dicentrodestra che prevale largamente nel Consiglio, sembraaver raggiunto il suo compimento.

Tutto a posto dunque sotto il cielo d’Europa? Nonproprio. La crisi non è alle nostre spalle ma finora le scelteondivaghe e inadeguate imposte dalla Francia e dallaGermania all’Europa hanno prodotto solo una rigorosadisciplina fiscale che costringe i paesi del Club Med a

Il sud croceviadel mondo che cambiaGianni Pittellaè Vice Presidente del Parlamento Europeo

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rimettere a posto i loro conti con le maniere forti, mentresollevano una grande questione di democratizzazione deiprocessi decisionali a livello sovrannazionale.

Il rientro forzato dal debito per garantire la sostenibilitàdel sistema al cospetto dei mercati e l’aumento dei costi delservizio dei titoli sovrani pompato dalla speculazione, hannomesso il quadro economico e sociale dei paesi più esposti inuna prospettiva drammatica. La disoccupazione dilaga.

Lo stesso modello del welfare europeo, che qualifica la civiltàdel diritto dell’Unione davanti al mondo e ne costituisce unpilastro fondativo, rischia di subire profondi stravolgimenti. Iltermometro del disagio e della tensione sociale è destinatodrammaticamente a salire, anche nel nostro paese.

L’unica possibilità per uscire dal tunnel dettatadall’economia di mercato e dalla matematica, è imboccarerapidamente la strada di uno sviluppo sostenuto e sostenibilecome non se ne vede traccia in Eurolandia da due decenni.

Ma questo richiede politiche e investimenti adeguati alivello continentale che i singoli Stati non hanno la capacitàdi produrre davanti alla dimensione degli interventi, anche aquei paesi che oggi cantano vittoria e che possono vantarebilanci sani e surplus significativi della bilancia commerciale.

Si va delineando in pratica una necessità grande come unacasa, realizzare la casa comune europea: una governanceeconomica, fiscale e di bilancio unitaria, per ridurre tutti glisquilibri esistenti e per ottimizzare i fondamentali dell'areaeuro che sono migliori di Usa e Giappone.

Se avessimo già un governo federale la crisi in Europa nonci sarebbe stata. La gestione centralizzata del debitopubblico e un sistema fiscale integrato avrebbero chiusodefinitivamente il cerchio intorno all’euro, fornendolo diquella seconda gamba mancante che costituisce la suadebolezza congenita di moneta senza Stato.

Un’unica politica monetaria nell’Eurozona presuppone unadeguato livello di convergenza economica tra i vari paesi,che non è affatto un meccanismo automatico insito nellamoneta unica al pari del bilanciamento dei tassi, comel’atteggiamento dei mercati nei confronti dei debiti sovranidei paesi Pics sta dimostrando.

Ma l’Unione europea non può contare su meccanismi diriequilibrio tra Stati in crescita e Stati in crisi basati sultrasferimento di fondi federali, sul governo coordinato esolidale delle leve fiscali e attraverso un mercato del lavoroomogeneo e flessibile come negli Stati Uniti.

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L’unica possibilitàper uscire dal tunnel

dettatadall’economia

di mercato e dallamatematica,è imboccare

rapidamentela strada di uno

sviluppo sostenutoe sostenibile come

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Eurolandiada due decenni

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Se guardiamo oltreoceano ci rendiamo conto che la crisieconomica che ha caratterizzato lo Stato della California, benpiù grave in termini assoluti di quella della Grecia, é stataaffrontata ed ammortizzata grazie al bilancio federale.

Di fatto a 10 anni dall’introduzione dell’euro unasufficiente convergenza economica verso l’assettocompetitivo globale si è verificata in parte e solo se siprende l’intera Ue come punto di riferimento. Il rigore peril rigore innesca una spirale aggiustamento-recessione-aggiustamento se non si agisce anche sul denominatore deirapporti debito-pil e deficit-pil.

Quel che sta accadendo alla Grecia ne è la drammaticaconferma. La vera garanzia sulla solvibilità dei debiti chepuò stroncare sul nascere la speculazione è un’unionepolitica e economica dell'Europa che con una forzamaggiore della semplice solidarietà tra i paesi aderentiopponga ai mercati la ragione di un bilancio, di un sistemafiscale, di una gestione del debito comune e soprattuttoabbia la capacità di rilanciare la crescita.

Ma dove guardare? In ogni periodo della nostra storia cisono stati luoghi dove l’economia e le attività umanecrescono trainandoci verso il futuro: oggi sono Shangai,Brasilia, Bombay. Il luogo dove può crescere l’Europa è ilMezzogiorno d’Italia.

La primavera araba ha consolidato, con il suo processodi sia pur contradditoria e incerta democratizzazione, unaopportunità straordinaria. I Paesi balcanici rinnovano,nonostante persistenti criticità e ostilità intestine, la loroscommessa europea.

Tutto ci dice che dobbiamo cercare la nuova frontieraeuropea guardando verso il Mediterraneo e i Balcani. Qualeterritorio se non il Mezzogiorno può affrontare questa sfida,per la sua posizione geografica unica, certo, ma anche per lesue risorse umane e imprenditoriali che attendono solo diessere “messe in rete” e efficientemente collegate con ilsistema produttivo e i traffici mondiali per decollare?

Si tratta di reti fisiche, come il completamento delleinfrastrutture e di reti immateriali, che devono esserepotenziate portando la connessione Internet in banda largain tutto il territorio. In questo scenario cambiare gli assettidella logistica nel nostro paese è determinante.

Oggi le navi che attraversano il Mediterraneo sifermano in Spagna, in Portogallo, Marsiglia, o proseguonoper il mare del Nord, dando vita nel territorio circostante a

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Tutto ci diceche dobbiamo cercarela nuova frontieraeuropea guardandoverso ilMediterraneoe i Balcani. Qualeterritorio se nonil Mezzogiornopuò affrontarequesta sfida?

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un indotto industriale e commerciale sui semilavoratiimponente, preferendo fare un giro più lungo pur ditrovare le infrastrutture e l’assistenza necessarie che nelnostro paese mancano.

Dunque, occorre che il Mezzogiorno diventi unapiattaforma logistica, e non solo, del Mediterraneo. Quantoprima andranno perciò realizzati quegli interventiinfrastrutturali indispensabili nell’alta velocità, nei porti diNapoli, Salerno, Gioia Tauro, Brindisi, Taranto e Bari, lungoi grandi corridoi tracciati dall’Unione europea e per i quali cisiamo battuti fino a poche settimane fa per mantenere glisbocchi fino alla Sicilia.

La connessione veloce al web di tutte le imprese e lefamiglie del Meridione, sul quale ormai “navigano” lamaggior parte dei traffici commerciali, e la trasformazionedei centri urbani in smart cities gestiti dall’informatica èl’altra scommessa epocale ma non impossibile da vincere,perché legata soprattutto a un salto culturale e poi ainvestimenti che sono già disponibili, come stannodimostrando con i loro progetti di agenda digitale iministri Profumo e Barca.

Altri settori produttivi da sviluppare in stretta attinenza conle caratteristiche dell’area meridionale sono a portata di mano.La struttura produttiva europea deve essere sempre piùorientata verso processi a bassa intensità energetica ed elevatovalore aggiunto attraverso un alto contenuto tecnologico.

Il ricorso alle fonti rinnovabili, ci dicono ricerche avanzatecome un recente studio dell’Università di Berkeley, inCalifornia, produce effetti significativi in paesi che hannoconsolidato una loro presenza industriale in questi settori,con un aumento significativo del fatturato e dell’occupazionee con un ruolo crescente del fattore ricerca e innovazione.

Per il Mezzogiorno la produzione di energie rinnovabiliaffiancata da campagne per la riconversione edilizia eindustriale di edifici e processi produttivi verso modalità abasso consumo energetico, può essere una grande opportunitàdi sviluppo, al pari della razionalizzazione e la valorizzazione,secondo le linee guida di un piano nazionale e europeo, deisettori tradizionali dell’agroalimentare e del turismo.

La nuova geografia del mondo passa dal Mediterraneo epone nuovi interrogativi sul governo dei flussi migratori, suldialogo interreligioso, sugli equilibri geoeconomici e politici.Più ad ampio raggio, andrà creato un ponte culturale, politicoed economico tra l’Unione europea e l’area del Mediterraneo,

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La strutturaproduttiva europeadeve essere semprepiù orientata verso

processi a bassaintensità energetica

ed elevato valoreaggiunto attraverso

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tra l’Unione europea e i Balcani e l’Oriente. Il Mezzogiornodeve puntare ad essere protagonista di questa nuova frontiera.

La realizzazione di questo sogno, dal quale dipende ingran parte il nostro futuro nello scenario mondiale, richiedepolitiche di crescita e di investimento decise e adeguate, chel’attuale leadership europea non riesce a elaborare.

L’adozione di Eurobond e project bond, nuove strategiedi finanziamento dalla Bce e dalla Bei, fonti autonome dientrate come la tassazione delle rendite finanziarie e, sulpiano nazionale, una spesa mirata su grandi progetti e menodispersiva dei fondi strutturali destinati alle politiche dicoesione - attraverso la creazione per esempio di una cabinadi regia composta da Regioni e governo - sono gli strumentipossibili, che una svolta politica a favore delle forzeprogressiste impegnate nella prossima tornata elettorale acominciare da Germania, Francia e Italia, potrebbe renderepresto attuabili.

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Per il Mezzogiornola produzionedi energierinnovabiliaffiancata dacampagne perla riconversioneedilizia e industrialedi edifici e processiproduttivi versomodalità a bassoconsumo energetico,può essere unagrande opportunitàdi sviluppo,al pari dellarazionalizzazionee la valorizzazione,secondo le lineeguida di un pianonazionale e europeo,dei settoritradizionalidell’agroalimentaree del turismo

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FOCUS Finalmente Sud, per crescere insieme

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n Italia la discussione, in ambito di teoriaeconomica allargata, sui beni comuni è cresciutaormai nel dibattito pubblico – è un dato di fatto– a proposta politica; a manifesto per uscire, pervia di una democrazia partecipata dal basso, dalla

crisi certo profonda delle democrazie liberali e dei loroistituti rappresentativi; lasciandosi finalmente alle spalle ilmodello “mercatista” cui esse – dai reaganomics in poi –hanno fin troppo guardato senza molti sensi di colpa, e senzaprudenza; almeno fino alla crisi finanziaria mondialeinnestata dai subprime americani.

Le esigenze, non poche condivisibili, che questadiscussione ha messo in campo (e che per altro incrocianoun’autocritica della teoria economica dominante che almenodal Nobel ad Amartya Sen ha conquistato cittadinanzapubblica e plausibilità scientifica), patiscono però unapesante enfasi ideologica. Un’enfasi ideologica più funzionalead un’immediata spendibilità sul mercato politico della teoriadei beni comuni da parte di forze impegnate ad ampliare unbacino di consenso potenziale per i loro obiettivi di“rappresentanza” a sinistra del Pd, a soddisfare la richiestache vi circola di soluzioni semplici (con il rischio alla fine diridursi a ingrediente di ricette populistiche), che a fare deibeni comuni istituzione discorsiva e politica, dandopossibilità concrete ai bisogni sociali che vi prendono parola,come sarebbe necessario. Una richiesta di soluzioni sempliciche fa breccia soprattutto al Sud, dove il corto circuito tra unceto politico spesso senza soluzioni e sempre senza cassa ebisogni sociali sempre più pressanti trova nella teoria deibeni comuni materiali ideologici di sostegno a forme, o

Le insidiedel "benecomunismo"

Eugenio Mazzarella insegna Filosofia Teoretica all’Università Federico II di Napoli, deputato del Partito Democratico

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quanto a meno a prodromi, di leghismo meridionale che ha isuoi Miglio nei teorici dei beni comuni.

La recente giornata dedicata ai “beni comuni” lo scorso28 gennaio a Napoli, affollata di “movimenti” e di esponentidel variegato panorama politico nazionale a sinistra del Pd,da Sel a Italia dei valori, organizzata dal sindaco di Napoli deMagistris, non a caso ha avuto il patrocinio del sindaco diBari, Emiliano, e del presidente della regione Puglia,Vendola; ma ha dovuto anche registrare la sintomaticadefaillance all’ultimo momento dell’annunciato sindaco diMilano, Pisapia, probabilmente poco incline a schierarsisotto bandiere ideologiche troppo esposte ai venti del“rivendicazionismo” territoriale meridionale, nonostante lacaratura nazionale, su cui era stato costruito l’evento.

Sarebbe un errore sottostimare, a sinistra, la capacità dimobilitazione ideologica e politica di quello che qualcunoormai già chiama il “benecomunismo”. L’alone comunitario emoralizzante la crisi dell’individualismo sociale – che vi circola– come risposta ai bisogni delle “persone”, di troppe persone,gli “individui concreti” al di qua delle policies economiche esociali che possano riguardarli e segnano il passo un po’dappertutto, non fa fatica a trovare ascolto sociale e seguitopolitico, in assenza di risposte apprezzabili a breve alla crisi delwelfare che larghi strati di popolazione vivono sulla propriapelle, aggravata dal concomitante crollo occupazionale.

Questo perché il “benecomunismo” propone una risposta“semplice”, di immediata presa emotiva – direi nel quadro diquell’ “emotivismo” che la Caritas in veritate indica comerischio inquinante la necessità di risposte vere e ponderatealla gravità della crisi in atto nelle relazioni sociali edeconomiche – alla crisi del modello di welfare dei paesioccidentali, i già paesi “avanzati” che oggi arretrano negliindicatori economici mondiali sotto l’incalzare delle nuovepotenze economiche. Una crisi che ha messo a nudo “lapolitica” nell’area di crisi delle democrazie liberali, in un modoche ha pochi precedenti, dove classi politiche selezionate perdecenni da una politica come amministrazione,fondamentalmente ancorata alla spesa pubblica, dove la ricercadel consenso si è sostanzialmente misurata sulla capacità dirispondere ad esigenze di protezione sociale date dai loroelettori per acquisite una volta per tutte, fosse governataquesta spesa da “destra” o da “sinistra”, mostrano di nonavere grandi risorse né politiche né di analisi di scenario pergestire una transizione epocale degli assetti economici

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Sarebbe un erroresottostimare, asinistra, la capacitàdi mobilitazioneideologica e politicadi quello chequalcuno ormaigià chiama il“benecomunismo”

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mondiali, che ha devastanti riflessi “locali”.I riflessi, in Italia, di questa crisi del welfare sono sotto gli

occhi di tutti. La destra l’ha gestita, o ha provato a gestirla,con la denuncia dell’insostenibilità del modello, per il qualenon ci sarebbero più i mezzi; e questo imporrebbe diabbandonarne anche i fini generali di protezione sociale avasto raggio, magari con politiche sostitutive che spingano lasocietà ad un obbligato “fai da te”.

Non adeguarsi a questa diagnosi e a questa ricetta, che hadalla sua difficoltà di cassa importanti delle finanzepubbliche, se si vuole “congiunturali” (anche se magari peruscirne ci vorrà un decennio), ma soprattutto riassetti degliequilibri economici mondiali che sono strutturali, imponealla sinistra una rigorosa manutenzione dei mezzi - risorseeconomiche, strategie sociali, visioni culturali - per difenderele finalità del modello; per far sì che quelle finalità nondivengano inesigibili dagli strati sociali più interessati.

Un lavoro di “riforma” del welfare non di poco conto, perstare sugli eufemismi, che tra le altre difficoltà patisce laspina nel fianco di (pseudo) soluzioni “populistiche”, che,giusto il caso del “benecomunismo”, provano ad attrezzarsisul piano di un collante ideologico generale da offrire adistanze variegate e dissimili, da una puntuale battagliaecologista a un largo disagio territoriale e sociale.

Proprio per questo è importante confrontarsi nel meritodelle istanze dei “beni comuni”, mostrando come non ilriduzionismo ideologico del tema a fini di marketing politicocongiunturale all’attuale fibrillazione del quadro dellarappresentanza politica, è ciò che meglio può rispondere alleistanze positive, ed in alcuni casi irrefutabili, che vi sonoimplicate. Così l’esigenza di una tutela costituzionale che lidifenda meglio dal loro esito di mercato nella sfera dellaproprietà privata, favorito dalla debolezza degli Statiterritoriali nei confronti delle corporations multinazionali, piùche proporsi come alternativa di sistema alla proprietàprivata, e in definitiva anche come luogo di resistenza allaproprietà pubblica dello Stato, può trovare un esito politicoconcreto piuttosto nella capacità del discorso pubblico edell’iniziativa politica di costruzione di una nuova statualità,anche sopranazionale, capace di tener fronte ai nuovi robberbarons delle corporations multinazionali, a sostegno dellaresistenza endogena delle comunità locali e delle reti socialianche transnazionali alle asimmetrie del mercato.

L’idea che possa bastare una tutela partecipativa dal basso

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è importanteconfrontarsi nel

merito delle istanzedei “beni comuni”,

mostrando come nonil riduzionismo

ideologico del tema afini di marketing

politico congiunturaleall’attuale

fibrillazione delquadro della

rappresentanzapolitica, è ciò che

meglio puòrispondere alle

istanze positive, edin alcuni casi

irrefutabili, che visono implicate

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dei beni comuni, ventilando in essa la possibilità di trovarvifunzioni surrogate della crisi del welfare, tramite il liberoaccesso ad essi per ogni membro della comunità, pensandoche sia possibile insieme “meno mercato” e “meno Stato”, enon si tratti piuttosto di una nuova “regolazione” di Stato emercato, cui possa concorrere anche il ruolo dei benicomuni, sconta l’ingenuità di pensare ad un’autoconsistenzaistituzionale dei commons, restituiti che siano ad unapartecipazione indivisa di tutti alle risorse; l’ingenuità dipensare ad una capacità autosufficiente diautoregolamentazione “comunitaria” nell’accesso al“comune” di aggregazioni sociali che non sono più comunitàorganiche, con rigidi codici comportamentali introiettati, macomunità indotte da bisogni sociali comuni taloracontingenti; se questo mondo c’è stato, e c’è stato, questo è ilmondo prima dell’esplosione moderna dei diritti soggettivi edell’aspirazione ai diritti cresciuti sulla libertà individualemoderna. Questo mondo non tornerà, non può tornare, enon è neanche bene che torni. L’utopia che oggi ci serve èun’utopia riflessiva. Questo va ribadito ai teorici dei “benicomuni”. Il “neomedievalismo” dei processi dellaglobalizzazione e del policentrismo giuridico in essere nelmondo contemporaneo, cui la teoria dei beni comuni guardacome ad un’opportunità di resistenza ad unamodernizzazione a scala planetaria dai “caratteri aberranti” –per ricorrere all’aggettivazione di un suo stesso teorico tra imaggiori, Jürgen Habermas – esprime certo un’esigenzasociale diffusa, per l’individuo della globalizzazione, che lacomunità torni ad essere per lui un’opportunità per le suesperanze, i suoi timori, le sue aspettative, e la si smetta conuna narrazione pubblica e politica che la veda come unimpedimento alla sua autorealizzazione “privata”, sotto ilsegno dell’individualismo proprietario, come troppo a lungoè stato; un’infezione certo passata dall’Occidente al“mondo” globale, ma anche con tanti elementi di “salute”nella sfera della libertà e delle libertà.

Ma questo comunitarismo per non essere velleitariodeve fare i conti con l’individuo concreto dellaglobalizzazione, che non è l’individuo “resistente” allamodernizzazione delle comunità residuali che non vihanno avuto ancora accesso da proteggere in “riserve”equo-solidali e delle comunità di quartiere, ma l’individuointimorito e deluso dalla modernizzazione, che peròdifficilmente è disponibile a rinunciare alle sue promesse

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Per l’individuodella globalizzazione,la comunità torniad essereun’opportunitàper le sue speranze,i suoi timori,le sue aspettative,e la si smettacon una narrazionepubblica e politicache la veda comeun impedimentoalla suaautorealizzazione“privata”

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di emancipazione, e di emancipazione da società“affluente”, si sarebbe detto una volta.

Non sarà una politica che si risolva in sindacato territoriale“leghista” o in antagonismo sociale di sistema, per quantoappeal ideologico possa procurarsi invocando i “benicomuni”, che potrà difendere, nelle sue finalità, il modello diwelfare che abbiamo conosciuto per decenni - decisivo per latenuta soprattutto degli strati sociali e dei territori più“deboli” nell’attuale temperie di crisi sociale ed economica.

L’abbandono della difesa di questo modello all’emotivismodi soluzioni “sostitutive” troppo semplici, o peggio alla suastrumentalizzazione da parte di una politica a improntapopulistica, renderebbe più facile, di questo modello, losmantellamento in nome della necessità dei “conti”. Conbuona pace di stringenti aspettative sociali, soprattutto al Sud.

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FOCUSFinalmente Sud, per crescere insieme

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stato lo storico francese Lucien Febre a scriveredella Sicilia e della Sardegna che l’una è stata unîle-carrefour (un’isola “crocevia”), l’altra – laSardegna – un’île conservatoire, un’isola“deposito”. La distinzione coglie bene i

caratteri storici dell’insularità sarda e consente di chiarire ladistanza tra la specifica questione sarda e il contesto piùgenerale della questione meridionale.

Île-conservatoire la Sardegna lo è stata per molti secoli,probabilmente sin dall’indomani della dominazione romanasul Mediterraneo, quando cioè ha cessato d’essere “il granaiodi Roma”. Hanno concorso all’isolamento molteplici fattori:il primo è stato la geografia: la Sardegna, il suo prolungatoapartheid. Poi la conformazione fisica del suo territorio,l’esiguità demografica, l’imperversare perenne (sino al 1943)della malaria, il vero architetto delle società rurali; enaturalmente la conformazione produttiva, nella quale èstoricamente prevalso l’agro-pastorale e sono state assenti, oquasi, sia le grandi estensioni del latifondo agrariomeridionale che la piccola proprietà produttrice. Ciò almenosino ad oggi, quando la questione sarda si presenta in terminidrammaticamente irrisolti, ma al tempo stesso, forse, inediti.Si sta chiudendo, intanto, la lunga fase storica iniziata neldopoguerra e maturata nell’industrializzazione per poli enell’avvento dell’industria avanzata. Tramonta, pur nelladisperata resistenza degli ultimi nuclei operai, un interosistema economico, un modello di sviluppo, persino unacultura basata sulla strategica centralità della fabbrica. Ilblocco sociale che negli ultimi anni ’60 e nei ‘70 avevaimpresso una radicale accelerazione al processo sardo di

La Sardegnada deposito a crocevia

Guido Melis insegna Storia delle Istituzioni Politiche e dell’amministrazione pubblica presso la Scuola speciale per ar-chivisti e bibliotecari dell’ Università di Roma “La Sapienza”, deputato del Partito Democratico

è

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FOCUS

modernizzazione (tute blu, piccola borghesia urbana ourbanizzata, studenti) tende a disgregarsi. Quel blocco avevaconsentito il rovesciamento di antichi equilibri e per la primavolta la piena leadership delle città sulla campagna,nazionalizzando fortemente la vita quotidiana dei sardi.Aveva anche suscitato contraddizioni interne profonde(riflesse al massimo grado dal banditismo degli anni ’60 e‘70), ma alla fine, consolidandosi, aveva creato un equilibriosociale e persino culturale diverso. Oggi però, spazzato vial’asse industriale dalla crisi capitalistica, quell’assetto va infrantumi. Con episodi di resistenza anche eroici, ma isolati.E lasciando dietro di sé un malessere profondo, che stentaperò a tradursi in forme organizzate e consapevoli dialternativa politica.Sullo sfondo si intravvede latrasformazione avvenuta, anche in Sardegna, nel tessutosociale stesso, e l’avvento di una egemonia culturale esternasul complesso della società locale ad opera di grandiemittenti esterne di potere mediatico. Al vecchio bloccoprogressista succede dunque una disgregazione sociale maanche culturale nella quale ritornano le tradizionali difese deigruppi forti (a cominciare dalla rete familistica, maitramontata) e, nelle classi dirigenti sarde, l’adesione allapolitica come mezzo per realizzare interessi personali e digruppo (magari anche con episodi di corruzione allarmanti).Inutile dire che, in un contesto simile, chi è debole, chi èfuori dalla rete di protezione degli amici e sodali, restaesposto a processi di impoverimento economico e diemarginazione sociale radicali. Sul terreno istituzionale, quelche sta accadendo all’ente Regione, tradizionale punto diriferimento della politica locale, è emblematico. Dopo la fase“eroica” rappresentata dalla giunta di Renato Soru, laSardegna è scivolata, come dicono tutti gli indici economici,nel gruppo di coda delle regioni italiane. Di più: ha perdutola capacità di interloquire sia con il governo di Roma, sia coni grandi interessi multinazionali dominanti. Chi ha seguito ilcaso Euroallumina, o quello Alcoa, ma ancor di più il casoVinyls, sa di cosa parlo. Ma anche nella vertenza dei pastori,nelle loro endemiche esplosioni di rabbia, si può leggere ladomanda fondamentale che rimane senza risposta: come sipuò, se si è deboli economicamente e perifericigeograficamente, se si è insomma île-conservatoire, contrastarela deriva imposta da centri decisionali metropolitani potenti,lontani, estranei, inaccessibili? Come si fa a determinare lapropria storia partendo dal basso e dalla periferia, quando i

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Dopo la fase“eroica”

rappresentatadalla giunta

di Renato Soru,la Sardegna è

scivolata, comedicono tutti

gli indici economici,nel gruppo

di codadelle regioni

italiane

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FOCUS

grandi flussi decisionali si svolgono in alto e in una rete dicentri dalla quale, a quanto pare, si resta esclusi? Guardiamoai dati del problema, innanzitutto: una forte dinamicanegativa sul piano demografico, con conseguenteaccelerazione dei processi di spopolamento; unapolarizzazione nei centri urbani maggiori e nei relativihinterland con l’effetto “ciambella” (tendenza dellapopolazione e delle attività a disporsi lungo le coste, conspopolamento e degrado delle zone interne); una crisiirreversibile dell’economia industriale; una sofferenzastrutturale e probabilmente non contingente del modo diproduzione agro-pastorale, con conseguente ulteriore crisidelle campagne; lo spostamento ancora più accentuato diquanto già non accadesse dei centri decisionali fuori dellaportata dei poteri politico-amministrativi della Regione;l’accentuarsi dell’economia assistita, in tempi nei quali lerisorse dei bilanci pubblici tendono a diminuireverticalmente; infine la tendenza a crescere (e non adiminuire) dei vincoli dell’insularità. L’insularità. Appunto daqui conviene ripartire. E da tre domande, che esigono unarisposta politica. La prima riguarda l’Europa. È plausibile (lo

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FOCUS

dico semplicemente, e forse anche semplicisticamente) che laSardegna, data la sua posizione geografica quale avampostod’Europa nel cuore del Mediterraneo, possa giocare un suoruolo specifico nell’interscambio infraeuropeo (tra Europadel Nord e del Sud) e in quello infracontinentale (tra Europae Africa)? Che, cioè, spostandosi l’asse della storia di nuovoverso il Sud del mondo come tutto lascia prevedere accada,l’insularità possa trasformarsi da un handicap quale è statasinora in un atout da giocare sul terreno dell’interconnessionetra paesi e culture diverse? La seconda domanda,conseguente alla prima: l’Africa. Possibile che la rivoluzioneche ha preso l’avvio in Nord Africa, a pochi chilometri dallecoste sarde, non profili nuovi scenari anche per la Sardegna?Una politica presbite, non miope, dovrebbe poter intravederele opportunità che si aprono: flussi migratori più intensi,scambi economici, contaminazioni culturali e persinoetniche. Forse persino l’inversione della deriva alla decrescitademografica attraverso processi di incrocio con altrecomponenti e diverse etnie. Certo: tutto ciò presuppone una“politica mediterranea” della Sardegna: intendo unaproiezione dell’economia sarda verso il Nord Africa,un’intensificazione degli scambi economici e culturali versoquei Paesi oggi giunti forse al bivio di un diverso sviluppo,una capacità di ragionare nel quadrante vasto del Sudd’Europa, tenendo d’occhio le istituzioni dell’Unioneeuropea più di quanto oggi non si sia stati capaci di fare. Enaturalmente una politica dell’accoglienza verso i flussimigratori futuri, che deve articolarsi in una iniziativa politicaverso quelli già insediatisi intanto in Sardegna. La terzadomanda, infine: la rivoluzione tecnologica, il rovesciamentodelle tradizionali gerarchie tra centri e periferie del mondoinsito nell’era dell’informatica, nell’imporsi stesso della retecome tessuto connettivo del mondo contemporaneo, resteràdavvero senza effetti? Perché escludere, in quel riassettoglobale, anche il rovesciarsi dell’antica condizione diisolamento e la trasformazione dell’île conservatoire in un tipodiverso di île-carrefour, nei cui “porti” protetti (porti digitali,anche) approdino quelle merci immateriali il cui scambiocostituisce la trama portante dell’economia di domani? Treipotesi di lavoro, insomma. Tre uscite di sicurezza.Praticabili, ma ad una condizione precisa: che nei prossimianni si affermi in Sardegna una classe dirigente consapevoledel suo ruolo, capace di assumere la guida di quei processi. Ilche ha molto a che fare coi compiti futuri del Pd.

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La rivoluzionetecnologica, il

rovesciamento delletradizionali

gerarchie tra centri eperiferie del mondo

insito nell’eradell’informatica,

nell’imporsi stessodella rete come

tessuto connettivo delmondo

contemporaneo,resterà davvero

senza effetti?

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Altri contributi

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Io credo quindi che si debba esseremolto grati a chi ha curato la raccolta e lapubblicazione di questi Discorsi, perché sitratta di una documentazione di altissimovalore, che onora il Parlamento dellaRepubblica.

Abbiamo ascoltato intense edilluminanti riflessioni e testimonianzesuggerite dalla lettura di questi Atti. Nonposso fare a meno di osservare, all’iniziodi questo mio intervento, che coloro chemi hanno preceduto sono tutti esponentipolitici – autorevolissimi esponenti politici

discorsi parlamentari cirestituiscono il magisterodi Andreatta, come se lasua voce fosse riapparsa.Ed è un magistero cheancora una volta riesce ademozionare e sorprendere

per l’attualità delle valutazioni espresse edelle posizioni da lui assunte, constraordinaria lungimiranza, su tantequestioni che ancor oggi si propongono,irrisolte, di fronte al mondo e inparticolare al nostro Paese.

Andreatta,uncristiano con ilsenso dello Stato.

Giovanni Bazoliè Presidente del Consiglio di Sorveglianza di Intesa Sanpaolo

I

Presentazione dei discorsi parlamentari di Beniamino Andreatta

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allora non c’è più stata decisione importantedi lavoro che io abbia preso senzaconsultarmi con lui. Negli ultimi anni, poi,dopo la scomparsa del mio unico fratello, lavicinanza si era fatta ancora più stretta: ilrapporto era diventato davvero fraterno.

Grande è l’ampiezza e la varietà dei temiche sono affrontati nei due volumi di questiDiscorsi e che riflettono l’attività svolta daAndreatta lungo il quarto di secolo del suoimpegno politico. La documentazione diquesti interventi, espressi nella forma enello stile solenne dei discorsi parlamentari,rappresenta un’occasione unica per coglieree studiare una summa del suo pensiero. Iomi limiterò qui ad indicare un trattopeculiare della sua figura politica, cheemerge nitidamente da questi Discorsi: ilsuo senso dello Stato.

Ma, in via preliminare, voglio accennaread un profilo di ordine formale checontraddistingue questa documentazione(un profilo formale, ma in questo caso mipare che davvero si possa affermare che laforma è sostanza). Merita cioè di essererimarcato l’elevatissimo stile degli interventiin Parlamento di Andreatta. Nonostanteche la maggior parte di essi sia stata svolta

“a braccio” con invidiabile padronanzalinguistica e letteraria, ciascuno di essi risultapreparato metodicamente, sulla base di studiapprofonditi e con la ricerca dei miglioriespedienti per una comunicazione efficace.

Il controllo dei dettagli e il lampo dellavisione creativa si fondono in uno stileretorico impeccabile, che si fa sempre più

– che hanno conosciuto e frequentatoNino Andreatta come colleghi, inParlamento e al Governo.

Diversa è invece la posizione e quindi lachiave di lettura da parte di chi, come me,ha seguito l’attività politica di Andreattacon l’interesse, la vicinanza e talvolta anchela trepidazione di un amico, ma dall’esternodelle Istituzioni, ossia come spettatore.Con una sola eccezione: il caso del BancoAmbrosiano, in cui l’ attività del Ministro siincrociò con il ruolo che io ebbi di parteattiva (o forse, più precisamente, dicontroparte) nella vicenda.

Ricordo e sottolineo questo caso perchéla relazione che Andreatta fece inargomento alla Camera dei Deputati,appunto nella sua qualità di Ministro delTesoro, nelle due sedute del 2 luglio e dell’8ottobre del 1982, non rappresenta soltanto,come tanti hanno riconosciuto, uno deidocumenti parlamentari più coraggiosi e dipiù alto significato, ma anche perché èproprio dalla vicenda dell’Ambrosiano cheè originata l’assiduità dei miei rapporti conAndreatta nei successivi trent’anni.

La nostra conoscenza e amicizia risalivainfatti agli anni giovanili e precisamente al

periodo in cui ci incontrammo comeassistenti all’Università Cattolica di Milano– io di qualche anno più giovane – primadel suo matrimonio e della sua partenza perl’India, ma la svolta decisiva nella nostrafrequentazione avvenne proprio nel 1982 aseguito del mio coinvolgimento nel caso delBanco Ambrosiano. E posso dire che da

Grande è l’ampiezza e la varietà dei temi che sono affrontati nei due

volumi di questi Discorsi e che riflettono l’attività svolta da Andreatta

lungo il quarto di secolo del suo impegno politico

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disinvolto nel corso degli anni. E se neirapporti privati, anche per proteggere la suanaturale timidezza, Andreatta cedevatalvolta alla tentazione di esasperare labattuta tagliente e la provocazione, nelcontesto parlamentare egli è sempremisurato, disposto al dialogo e orientato apresentare proposte costruttive.

Le sue affermazioni, anche le piùradicali, sono sempre fondate sucomparazioni con altri Paesi e con datiquantitativi, la cui affidabilità vienecertificata con cura attraverso un confrontotra più fonti. E con la stessa fiducia cheegli pone nella propria disciplina,l’economia, spesso fa ricorso a pareritecnici su materie complesse, quali lecalamità naturali, gli scenari energetici, lepratiche burocratiche, le tecnichespeculative sui mercati. E più volte invitaanche le istituzioni, sulla falsariga dei Paesianglosassoni, a dotarsi di pareri e consigliprovenienti da strutture tecniche, essendoconvinto che i politici abbiano il doveremorale di preparare e conosceredettagliatamente i dossier dei quali si

occupano in nome della comunità. Nel 1994 osserva con preoccupazione

che “i dilettanti sono sempre pericolosi, elo sono soprattutto laddove le decisionisono difficili, come in politica”. È ancheinteressante osservare come Andreattaabbia introdotto nel dibattito parlamentareil meglio – e anche il linguaggio – dellacultura occidentale e degli studi accademici.

È curioso, ad esempio, che nei primidiscorsi vi sia un ironico accenno al fatto diesser stato rimproverato per aver utilizzatodei termini in inglese nel ParlamentoItaliano. Da quel momento in poi,praticamente ad ogni discorso, egli utilizzatermini in inglese, che poi diventeranno diuso corrente. Non si trattava di snobberia,ma del fondato proposito di portareall’interno del massimo organo decisionalenazionale i temi e la stessa terminologiadelle scienze sociali che lo avevanosegnalato originariamente alla vita pubblica.

Anche le citazioni fatte da Andreatta neiDiscorsi rappresentano un piccolo e maibanale genere letterario a sé stante, che nelcomplesso rivela la sua avida e variegata

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pensare che anche in questi due volumi igiovani troveranno pagine atte a suscitare inloro grande rispetto e stima per le nostreIstituzioni parlamentari.

Lo stile comunicativo di Andreatta etaluni suoi atteggiamenti eccentricipotevano farlo apparire istrionico agli occhi

di chi non lo conosceva e gli hanno valso diessere considerato da alcuni come “unimpolitico di razza”. Nulla è più lontanodalla realtà. Nei decenni trascorsi in questeaule, spicca proprio per il suo alto sensodella politica, come uno dei veri statisti chele hanno attraversate. Non è esagerato direche nella sua figura può ravvisarsi un veromodello di uomo di Stato, tra i pochi dellatradizione politica cattolica dall’Unità adoggi, e tra i pochissimi che conservino unarilevanza attuale.

E vengo così a parlare dell’alto sensodello Stato che ha ispirato l’azione politica diAndreatta, come risulta da questi Discorsi.

Tutti sappiamo che egli era naturalmentedotato di una intelligenza brillantissima.Ma ciò che rendeva assolutamente uniche lesue risorse intellettuali era la capacità diconiugare tra loro qualità che è raro trovarecompresenti nella stessa persona: creativitàe fantasia, da una parte, e attitudine allaverifica analitica e rigorosa dei dati,dall’altra. Capacità di analisi e di sintesi;

formazione intellettuale. E non èinfrequente imbattersi in passaggi cheaprono squarci di vera suggestioneletteraria nel ben mezzo di argomentazionitecniche: come quando, nel commentare ildecreto-legge che nel 1992 avvia leprivatizzazioni, evoca con un fuggevole e

toccante tratto la grande figura di LuigiSturzo: “uomo che ha vissuto in questibanchi trenta o quarant’anni fa, fragile,bianco, con i suoi grandi occhi” e che -aggiunge - “qui ha condotto battagliesolitarie nella incomprensione anche degliuomini che erano stati nel suo partito”; ocome quando, nel 1990, per mettere inguardia i colleghi del Governo dagli “assaltialla diligenza” di emendamenti che possonostravolgere il senso di una manovraeconomica, dice: “Temo le notti e le sere dimezza estate” perché – osserva – “ci sono itempi della riflessione e i tempi delle follia”ed è prima delle ferie estive che la follia“tende a precipitare l’approvazione didecine di emendamenti”. “A mezz’estate -conclude beffardo - girano spiriti malevoli equindi i risultati possono essere mezziuomini e mezze bestie, come inShakespeare”.

Se ricordo l’interesse e la passione concui i miei studenti si avvicinarono ai testi -che proposi loro in alcuni corsi - degli Attidell’Assemblea Costituente, mi pare bello

Queste doti gli hanno consentito di essere libero dalle camicie di forza

ideologiche di quegli anni, e nello stesso tempo lo portavano

a conformarsi alle dottrine e alle ortodossie prevalenti. Ma la sua

totale libertà ed indipendenza intellettuale era disciplinata da due

vincoli e criteri rigorosi: la razionalità e la moralità

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già citato del Banco Ambrosiano, che videil Ministro Andreatta rivolgersi alla SantaSede per chiedere di intervenire esanzionare la condotta illegale dello I.O.R.

Leggendo oggi, a distanza di trent’anni,quel famoso discorso dell’8 ottobre 1982,si rimane peraltro stupiti dello scandaloche suscitò e che colpì pesantementeAndreatta, trattandosi in verità di unarelazione (“una cronistoria”)rigorosamente oggettiva, tecnica ecircostanziata, perché l’”intimoatteggiamento del Ministro”, come egliprecisa in risposta a una interrogazione, eraquello di affrontare la materia “comemagistratura tecnica e non come soggettoin qualche modo partecipe di un sistema dipotere. Questo - dice - “è ciò che dovevoal mio Paese e al mio Parlamento”.

Andreatta dimostra dunque che per uncredente il seguire la propria coscienza el’osservare fino in fondo, con totaledisinteresse personale, i valori in cui sicrede è il modo corretto di vivere lapolitica da credente e da cittadino.Nell’avvertire in profondità il senso delladignità delle istituzioni pubbliche edemocratiche e della responsabilità dellapolitica mi pare indubbio che Andreattapossa essere accomunato a De Gasperi(anche lui trentino) e a Vanoni (nontrentino, ma anche lui valligiano).

Tra l’altro, va notato che Andreattamanteneva normalmente un gelosopudore nei confronti della sua ispirazionereligiosa. Non è un caso che egli lasci lasua profonda e combattuta fede al di fuoridel dibattito politico, senza mai citare neiDiscorsi le Scritture o il magistero dellaChiesa, così spesso e impropriamenterichiamato invece dai politici.

Ma c’è una solenne eccezione: quandoviene offerto un accordo politico al PartitoPopolare Italiano sulla base di specifiche

competenza e genialità.Queste doti gli hanno consentito di

essere libero dalle camicie di forzaideologiche di quegli anni, e nello stessotempo lo portavano a conformarsi alledottrine e alle ortodossie prevalenti. Ma lasua totale libertà ed indipendenzaintellettuale era disciplinata da due vincoli ecriteri rigorosi: la razionalità e la moralità.Una razionalità non portata all’astrattezza,bensì guidata da una visione etica esigente eindirizzata alla ricerca di soluzioni concrete.Spesso Andreatta risultava difficile dainterpretare e invece era proprio questacomplessità che rendeva incomparabilmenteprezioso e ricco il suo contributo di idee.

Dalla capacità di coniugare elementimorali e razionali – capacità sicuramenteesaltata dalle radici trentine e mitteleuropee– derivava un’altra qualità peculiare diAndreatta: quella di porsi, nell’esaminareogni questione, nella prospettivadell’interesse generale, anziché in quellarispondente ad interessi personali ocomunque di parte (che invece, più o menoavvertitamente, è quasi sempre la nostraprospettiva). Spiazzava sempre gliinterlocutori, mettendo in campo unavisione più ampia delle cose. Questo siverificava nelle relazioni private, negliinterminabili e indimenticabili colloqui adue, ma era vero, come risulta da questiAtti, anche e soprattutto per l’Andreattapubblico, che si sentiva sempre impegnato acercare la soluzione corrispondente ad unavisione disinteressata e di lungo periodo.La sua lungimiranza era fondatasull’ostinato perseguimento del “benecomune”. E il “bene comune” (di coniocattolico) si identificava per lui nello Stato.

Da qui il senso della laicità, cioè la lealtàdel politico cattolico nel servizio allo Stato,che in questi Discorsi si manifesta ininnumerevoli casi, a cominciare da quello

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promesse sulla scuola privata e sullafamiglia, Andreatta critica il pulpitoambiguo dal quale proveniva l’offerta,campione di “secolarizzazione”, e spiega lacomplessità della posizione dei cattolici:“Siamo laici anche perché siamo credenti:sentiamo la tensione dei due termini e ladrammaticità del loro incontro. Per questonon banalizziamo – dice – il problema nella

misura di qualche contributo finanziario”.De Gasperi non avrebbe saputo essere piùchiaro nel descrivere “un libro scritto a piùmani, che racconta del servizio e delladedizione del cattolicesimo democraticoalla storia di questo Paese”.

Oggi, nel tempo di grave crisi perl’Italia e per l’Europa che stiamo vivendo,il senso dello Stato e la lungimiranza diAndreatta – che a suo tempo, peraltro,rimase per lo più isolato e inascoltato,anche dalla sua parte politica – sarebberoquanto mai utili. Se tante volte, quandoera malato, abbiamo pensato che al Paesemancasse la sua visione, siamo ancor dipiù indotti a pensarlo oggi, dovendodargli ragione, ancora una volta,drammaticamente in ritardo.

Questi Discorsi parlamentari,amorevolmente raccolti e introdotti dauno dei suoi allievi, ci permettono, comedicevo in principio, di ascoltarenuovamente la sua voce e i suoi moniti. Esoprattutto di riflettere sulla profonda

moralità – di ispirazione laica e cristiana –di un uomo politico che non temeva diperdere consensi pur di perseguire concoerenza le cause che riteneva giuste.

E allora mi sia consentito concluderericordando con quale interesse e passione imiei studenti seguirono alcuni corsi in cuifeci loro conoscere e studiare gli Attidell’Assemblea Costituente. Mi pare bello

pensare che anche in questi due volumiche raccolgono i Discorsi parlamentari diAndreatta i giovani troveranno pagine attea suscitare in loro rispetto e stima per lenostre Istituzioni parlamentari.

Perché l’Italia torni a credere nelproprio futuro un esempio come quelloche ci ha lasciato Nino Andreatta non vadimenticato. E proprio in tal senso voglioritenere valido e profetico un auspicio dalui espresso trentadue anni fa: “Èpiuttosto difficile fare oggi previsioni suimutamenti che avverranno nei prossimianni. Dobbiamo quindi imparare a vincerele sfide internazionali anche in questecondizioni di incertezza, di precarietà, dirischio. Il nostro Paese ha già dimostratopiù volte nel passato di possedere grandicapacità di adattamento e di fantasia perreinventare nuovi spazi sui mercatiinternazionali. E sono certo che anche neiprossimi difficili anni sapremo risponderecon successo a queste nuove sfide”.

Oggi, nel tempo di grave crisi per l’Italia e per l’Europa che stiamo

vivendo, il senso dello Stato e la lungimiranza di Andreatta - che a suo

tempo, peraltro, rimase per lo più isolato e inascoltato, anche dalla sua

parte politica - sarebbero quanto mai utili

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Poiché è comune il riconoscimento delcontributo fornito dalla “dottrina socialedella chiesa” alla elaborazione di taleprincipio, qualche chiarimento circa il suouso corretto può essere acquisito se essoviene interpretato mantenendone lacollocazione nel contesto originario. Allaluce della complessiva dottrina sociale dellachiesa è possibile calibrare meglio la suaportata, ma anche i suoi limiti. Al riguardovalgono almeno due considerazioni.

Primo, il principio di sussidiarietà è soloun elemento di una più ampia ed articolatacostellazione di “principi di riflessione,criteri di giudizio e direttive di azione”

e ragioni per cui il“principio disussidiarietà” è diventatoin tempi recenti oggettodi generale consensosono molteplici. Mamolteplici – e spesso

divergenti, se non opposti – sono anche imodi di intenderlo e di declinarlo nellaprassi sociale e politica. Si sa che ogniprincipio o criterio normativo è sempreesposto al rischio dell’abuso ideologico,come il proverbiale “naso di cera” che divolta in volta può essere piegato secondo icorrispondenti interessi.

Principio di sussidiarietà

e dottrina sociale cristiana

Don Antonio Lattuada insegna Teologia Morale alla Facoltà teologica di Milano

L

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(Paolo VI, Octogesima adveniens n. 4).Esso non può quindi essere correttamenteinteso se viene considerato a prescinderedalle altre istanze normative proposte dalladottrina sociale della chiesa.

Peraltro il consueto elenco di tali istanze,per sua natura, non né esaustivo nédefinitivo. Esso dipende anche dallespecifiche problematiche imposte dalle

concrete vicende storiche e sociali. La “questione ambientale”, per esempio,

ha indotto la predicazione sociale dellachiesa ad aggiungere ai più antichi principidi “personalità”, “sussidiarietà”,“solidarietà”, “bene comune” e “giustizia”,anche quello di “sostenibilità”. Inoltre similiprincipi sono tra loro logicamente connessimediante reciproci rimandi e parzialisovrapposizioni. Il senso di ciascuno puòquindi essere determinato solo tenendoconto della connessione con gli altri.

Secondo, e più precisamente, il principiodi sussidiarietà è inteso dalla dottrina socialedella chiesa come funzione del “principio dipersonalità”. Esso cioè formula alcunecondizioni necessarie all’esercizio dellaresponsabilità personale quale espressionedella dignità di ogni essere umano.

In tale funzione il principio disussidiarietà assume i tratti di una spada adue tagli: implica infatti un divieto, maanche un obbligo. Il divieto concerne ilsuperamento delle proprie competenze daparte delle diverse istanze o istituzionisociali: la società superiore o maggiore nondeve intervenire se quella inferiore o minore

è in grado di svolgere il proprio compito. L’obbligo consiste nel dovere di

intervenire – in modo sussidiario (e in nomedel “principio di solidarietà”!) – se l’istanzaminore non è in grado di esercitareattivamente la propria responsabilità e al finedi produrre le condizioni necessarie perchésia resa capace di farlo. Che il principio disussidiarietà si determini in concreto come

divieto oppure – al contrario – comeobbligo non può ovviamente essere dedottodall’esame del principio stesso. Occorreràconsiderare altri aspetti della realtà.

Il quadro è reso ulteriormentecomplesso se si riconosce al principio disussidiarietà non solo una valenza“deontologica”, in nome del diritto dellapersona all’esercizio della responsabilità,ma anche una valenza “teleologica” innome dell’efficienza dell’agire sociale.L’esperienza insegna infatti che quanto piùuna società è estesa, tanto più pesante edinvadente è il ruolo dei sistemi burocratici,e tanto più rilevanti sono gli effetticollaterali negativi prodotti dallaburocratizzazione (spesso una“eterogenesi dei fini”).

Tuttavia la medesima esperienza insegnaanche che l’esercizio della responsabilitàpersonale e l’efficienza dell’agire sociale nonsono necessariamente convergenti. Non èescluso che di fatto l’affidamento all’iniziativapersonale risulti più inefficiente, e viceversache l’esigenza di efficienza richieda di ridurrelo spazio della responsabilità personale. Nelcaso di concorrenza fra le due valenze –

Il principio di sussidiarietà è solo un elemento di una più ampia

ed articolata costellazione di “principi di riflessione, criteri di giudizio

e direttive di azione”

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deontologica e teleologica – il giudizio circal’alternativa da preferire, ancora una volta,non può essere immediatamente dedotto dalprincipio di sussidiarietà. Determinantisaranno altri generi di considerazione.

A conclusioni analoghe – e alle quali nonè qui possibile accennare – conduce l’esameanche degli altri principi: di solidarietà, digiustizia e soprattutto del bene comune.

A proposito di quest’ultimo però,merita di essere ricordata la distinzione,faticosamente acquisita dal dibattitoecclesiale circa il diritto di libertà religiosa,tra il concetto di “bene comune” e quellodi “ordine pubblico”, quest’ultimo intesocome complesso delle condizioninecessarie alla realizzazione del benecomune (tra esse la “giustizia”).

Tale distinzione contribuisce allamigliore comprensione del principio disussidiarietà in quanto sostiene ladistinzione fra Stato e “società civile” edispone a definire più precisamente il lororapporto reciproco e “sussidiario” (cf.Concilio Vaticano II, DichiarazioneDignitatis humanae, n. 7).

Quanto fin qui detto nell’ottica delladottrina sociale della chiesa permette diintendere meglio la pertinenza del ricorso ai“principi di riflessione” e in particolare aquello di sussidiarietà. La loro “applicazione”alle concrete situazioni sociali sollevaproblemi ancora maggiori di quelli che già sipongono per l’applicazione delle leggi adopera di pubblici amministratori e giudici.

Insostenibile è la concezione “meccanica”di applicazione (quasi si trattasse di unsillogismo pratico), così come quella

ideologica o discrezionale (determinatadall’interesse dominante). Occorre invecericonoscere ai “principi di riflessione” unafunzione propriamente ermeneutica.

Assieme agli altri principi, quello disussidiarietà concorre a definire lapertinente precomprensione antropologica,o – parlando con metafore – la prospettiva,o le coordinate, o l’orizzonte di senso entro

cui interpretare e valutare la concretasituazione storica e sociale.

Già nell’ambito della pratica medica, la“diagnosi” quale condizione necessaria per lascelta di una adeguata “terapia” non èriducibile alla descrizione più o menoesaustiva dei sintomi. Essa implica un’operadi interpretazione valutante, o di“immaginazione produttiva” (P. Ricoeur)della realtà. Senza un orizzonte non èpossibile orientarsi, specialmente in unterritorio così complesso ed accidentatocome la società contemporanea.L’orientamento è necessario anzitutto perindividuare i luoghi critici e ponderare i difettidella situazione. E tuttavia non è sufficiente.

Non è dall’orizzonte che si puòimmediatamente dedurre la diagnosiadeguata della condizione storica, e tantomeno le strategie efficaci di intervento perrimediare ai mali diagnosticati. È necessariainvece una intelligenza “ermeneutica” dacui non si può certo pretendere l’univocitàe quindi la certezza del sapere “scientifico”,ma che neppure può essere ridotta alladiscrezione arbitraria del pregiudizioideologico. Dal principio di sussidiarietànon si deve pretendere di più né attendersidi meno di quanto può dare.

L’orientamento è necessario anzitutto per individuare i luoghi critici

e ponderare i difetti della situazione. E tuttavia non è sufficiente

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tornare semplicemente al liberalismo pre-fascista o pre-crisi del 1929. Il liberismo erastato spazzato via dalla storia, esattamentecome il totalitarismo. Tanto che in tuttaEuropa i liberali discutevano diprogrammazione senza problemi.

Che fare in queste contingenze? Lasoluzione fu trovata in un disegno di Statodemocratico e sociale, le cui premessefurono incoativamente disegnate inCostituzione (nella prima parte, difesacome «programmatica» rispetto ai giuristiliberali, che semplicemente non lacomprendevano).

Il modello costituzionale, cui Dossettidiede come è noto un contributosostanziale, era piuttosto limpido: il «cuoreideologico» della costituzione, nel rapportostrettissimo tra articolo 2 e 3, configuravauno Stato diverso da quello etico del regimefascista e da ogni totalitarismo (dato che«riconosce e garantisce» i diritti dellapersona «sia come singolo sia nelleformazioni sociali ove si svolge la suapersonalità»), ma uno Stato che assumecompiti finalistici propriamente etici(dovendo «rimuovere gli ostacoli di ordineeconomico e sociale» che impediscono «ilpieno sviluppo della persona»,nell’eguaglianza e nella libertà).

Né Stato minimo, né statalismo, quindi.La questione divenne ovviamente più

l confronto che si èsviluppato sugli ultiminumeri di «Tamtam» sulrapporto tra sussidiarietàe stato, con interventi diArmillei, Balboni eCeccanti, è piuttosto

interessante. Vorrei qui inserirmi neldibattito per esprimere qualche criticaall’amico Stefano Ceccanti, da modestocultore di cose storiche.

Il punto è questo: mi pare insostenibile,al limite della caricatura, lacontrapposizione tra l’eredità positiva deldegasperismo liberale e quella negativa deldossettismo statalista. Beninteso, non sitratta di negare il contrasto tra i duecattolici che facevano politica, ma dirappresentarlo correttamente. Da lì poiscaturiranno conseguenze sull’attualità.

Storicizzare quel conflitto impone dicogliere il problema generale dell’epocacostituente e poi centrista: come perseguiree realizzare un nuovo modello di stato. Neldopoguerra infatti la nuova classe dirigenteaveva di fronte due scogli: l’eredità delladittatura e la crisi drammatica delcapitalismo degli anni Trenta.

È chiaro quindi che nessun democratico(tantomeno cristiano) in quegli annipotesse rimpiangere uno Stato-moloch,come anche che nessuno potesse pensare di

De Gasperi, Dossettie il falso dilemmastatalismo-sussidiarietàGuido Formigoniinsegna Storia Contemporanea all'Università Iulm di Milano

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delicata dopo il 1948, quando l’elettoratodiede alla Dc il compito di guidare ilgoverno in posizione del tutto preminente.Alla luce dell’esigente modellocostituzionale, come muoversi?

Il confronto acceso tra Dossetti e DeGasperi aveva avuto qualche premessaprecedente, sul tema della rottura ocontinuità rispetto alla vecchia classedirigente, sintomaticamente espressosoprattutto sulla questione della sceltarepubblicana. Ma solo su questo nuovoterreno diede luogo a due prospettivepolitiche propriamente divaricate.

De Gasperi si orientò pragmaticamente aun mix di scelte liberiste e interventiste,sostenne la linea anti-inflazionista diEinaudi controllandone peraltro alcuneistanze, salvò l’Iri e appoggiò le iniziative diMattei, avviò la riforma agraria, aprì ilcommercio internazionale piuttosto

prudentemente, diede spazio dopo il 1950ai tecnici di formazione nittiana.

Soprattutto, però, scelse l’einaudianoPella per il Tesoro, con una posizione cherappresentava una visione di rigore neiconti pubblici, collegata all’ipotesi di unaprosecuzione dell’equilibrio agricolo-commerciale-industriale tradizionale delpaese, senza nessuna idea di rapida crescita.

La critica dei dossettiani si addensò suquesto punto: occorreva una politicaeconomica più decisa ed espansionista, chesi ponesse l’obiettivo della pienaoccupazione. Non a caso «Cronachesociali» ospitava gli articoli keynesiani diFederico Caffè. Il che si collegava all’ipotesidi una politica estera dell’Italia piùautonoma rispetto agli Stati Uniti, in chiaveeuropea (e su questo punto il pungolodossettiano divenne convergente con lescelte di De Gasperi dopo il 1950).

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non si usava la parola, tanto che citandol’articolo 2 si affermava «la necessità chelo Stato riconosca la realtà e la consistenzadelle persone e di alcune formazionisociali intermedie specificamenteindividuate», chiedendo peraltro «unriconoscimento di queste realtà essenzialigraduato e gerarchico».

Ecco perché Dossetti parlava di«reformatio del corpo sociale» ad opera delloStato: quest’ultimo doveva assumere «unafunzione non solo di mediazione statica trale forze sociali esistenti, ma di sintesidinamica». Evitare «l’immunità» tradizionale(liberale) dell’ordinamento economico erasolo un aspetto del discorso.

L’altro era evitare un interventismostatale spezzettato, episodico e quindi«controperante», perché non ispirato a unalettura della situazione e a unaprogettazione coerente da parte dellapolitica. La politica democratica dei partiti,si badi bene, anima della democrazia,nell’aspirazione di Dossetti. Statalismo?Anticapitalismo? Mah…

E qui arriviamo all’eredità di questastoria per noi. Il quadro generale è

L’immobilismo della difesa della lira eraritenuto fondamentalmente miope.

E tralasciamo «l’incontro tra ildossettismo e il comunismo», che non eraproprio in agenda; come tralasciamol’equivoco di un’opposizione successiva diDossetti alla Dignitatis Humanae, che non cifu: la sua era una critica all’argomentazioneempirista e individualista, anziché basata sullaRivelazione, e quindi alle incoerenze di alcunipassaggi del decreto. Ma torniamo al punto.

Il tanto evocato e poco studiato discorsodi Dossetti ai giuristi cattolici del 1951 valetto su quello sfondo: era la testimonianzaconclusiva di una posizione che si sentivapoliticamente sconfitta.

Affermare un finalismo dello Stato per ilbene comune si collegava al chiaro monitoper cui «non è in potere dello Statodeterminare il fine». Il fine era infatti nellecose, in una visione del bene comune,peraltro democraticamente sanzionata: «loStato non può essere agnostico e limitarsi agarantire il meccanismo delle libertàindividuali e assumere gli infiniti finiindividuali come proprio fine».

La sussidiarietà era prevista, anche se

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esattamente rovesciato rispetto al dibattitoDe Gasperi – Dossetti. Oggi soffriamol’eredità di una delegittimazione delcompito sociale dello Stato, a fronte dellacosiddetta rivoluzione neoliberista(etichetta ambigua, peraltro).

Per dirla meglio, scontiamo quell’insiemedi trasformazioni che ha introdotto daglianni ’70-’80 in tutto l’Occidente un nuovociclo politico-economico. In cui la rispostaalla crisi del modello fordista si è tradottanella riduzione voluta del ruolo economicodello stato (sia diretto che regolatore!),collegata alla finanziarizzazionedell’economia e all’esternalizzazione delleproduzioni di beni di massa, nellaliberalizzazione inedita dei movimenti dicapitali che si aggiungeva a quella dellemerci (già matura).

Da quella rivoluzione ha preso le mosseun ciclo ormai trentennale che haredistribuito il lavoro e il reddito tra regionigeografiche e settori sociali in modoaltamente squilibrato e soprattuttoaltamente instabile. La crisi finanziariaesplosa nel 2007 e la conseguente Grandestagnazione, con collegata crisi del debito,sono lì a indicare il punto.

A fronte della radicalità di questiproblemi, come non rendersi conto che ildilemma statalismo-sussidiarietà è

assolutamente inadatto a indicare un via perrisolverli? Se vogliamo affrontare i nodistrutturali della crisi del sistema, non cipossiamo più baloccare in divisioni trasocialdemocratici e blairiani, quasi che il

problema sia come lenire alcune delleconseguenze negative del nuovo ciclostorico-economico.

È del tutto evidente che non si puòimmaginare di tornare al dibattito del 1945sulla programmazione economica. Macome non porsi il problema politico diintervenire alla base degli squilibristrutturali dell’attuale sistema? Si tratta nondi meno che porsi la finalità di ridurre iltriplice squilibrio tra i percettori di redditidi diversa provenienza; tra settoriproduttivi e settori finanziari; tra aree geo-economiche del capitalismo mondiale, oltreche tra paesi ricchi e poveri.

E come farlo, se non con un mix diincentivazioni a comportamenti socialivirtuosi, valorizzazione selettiva delleformazioni sociali e della loro vitalità escelte democratiche della politica checorreggano squilibri, affermando conchiarezza priorità e obiettivi?

La sintesi dell’articolo 2 e 3 dellacostituzione ci può ancora guidare. Ilmetodo era chiaro nel citato discorso del1951: «affermare, costruire e diffondereuna analisi sociologica che veda tutta laverità del presente, che determini lacoscienza dei compiti prossimi, nonrinviandoli a decenni: che quindi consentadi fondare una ideologia politica e infine un

programma di strumentazione giuridica». Amio sommesso avviso, un procedimentoche sarebbe tutt’altro che superato. Se cifossero forze culturali e politiche in gradodi applicarlo creativamente all’attualità.

A fronte della radicalità di questi problemi, come non rendersi conto

che il dilemma statalismo-sussidiarietà è assolutamente inadatto

a indicare un via per risolverli?

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