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Di fronte al fallimento generale dell’amministrazione Bush, va ricostrui- ta una politica estera fondata su un solido consenso bipartisan e su un nuovo internazionalismo. Perché di fronte alle grandi sfide cruciali – dal terrorismo alla non proliferazione, dall’energia all’ambiente – l’America non può fare da sola. Una politica estera, insomma, ispirata a quella mi- scela tutta americana di realismo e idealismo. Conosciamo il lungo elenco delle minacce e delle sfide: il pericolo posto dall’esten- dersi delle reti terroristiche, che reclutano militanti, organizzano campi di addestra- mento e accumulano armi; il regime della Corea del Nord, che sta effettuando test mis- silistici e nucleari sotto gli occhi del mondo; le mire espansionistiche di un Iran ormai vicino alla produ- zione di una propria bomba atomica; i talebani che rialzano la testa in Afghanistan; e la possibilità sem- pre più reale di una guerra civile in Iraq. La Russia e la Cina perseguono i propri interessi, che spesso sono in netto contrasto con gli imperativi globali, come la non proliferazione nucleare e la fine del genocidio nel Darfur. Il petrolio è sempre più la risorsa essenziale per mantenere in sella governi instabili e antiamericani; eppure, non siamo stati capaci di fare gli investimenti necessari per passare più rapidamente alle energie alternative. Oggi questa scelta è decisiva tanto per la nostra sicurezza nazionale e la nostra stra- tegia mediorientale, quanto per la nostra economia e la protezione dell’ambiente. LE OPPORTUNITÀ MANCATE. Al cuore di questa tragedia stanno le opportu- nità mancate negli anni successivi all’11 settembre. Ricordiamo tutti le manifesta- Fra idealismo e realismo Hillary Clinton Hillary Clinton è la prima first lady a essere eletta al Senato degli Stati Uniti ed è la pri- ma newyorchese a fare parte della Com- missione per le Forze armate del Senato.

Fra idealismo e realismo - Aspen Institute · terrorismo alla non proliferazione, dall’energia all’ambiente – l’America ... sono in netto contrasto con gli imperativi globali,

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Page 1: Fra idealismo e realismo - Aspen Institute · terrorismo alla non proliferazione, dall’energia all’ambiente – l’America ... sono in netto contrasto con gli imperativi globali,

Di fronte al fallimento generale dell’amministrazione Bush, va ricostrui-ta una politica estera fondata su un solido consenso bipartisan e su unnuovo internazionalismo. Perché di fronte alle grandi sfide cruciali – dalterrorismo alla non proliferazione, dall’energia all’ambiente – l’Americanon può fare da sola. Una politica estera, insomma, ispirata a quella mi-scela tutta americana di realismo e idealismo.

Conosciamo il lungo elenco delle minacce e delle sfide: il pericolo posto dall’esten-

dersi delle reti terroristiche, che reclutano militanti, organizzano campi di addestra-

mento e accumulano armi; il regime della Corea del Nord, che sta effettuando test mis-

silistici e nucleari sotto gli occhi del mondo; le mire

espansionistiche di un Iran ormai vicino alla produ-

zione di una propria bomba atomica; i talebani che

rialzano la testa in Afghanistan; e la possibilità sem-

pre più reale di una guerra civile in Iraq. La Russia

e la Cina perseguono i propri interessi, che spesso

sono in netto contrasto con gli imperativi globali, come la non proliferazione nucleare

e la fine del genocidio nel Darfur. Il petrolio è sempre più la risorsa essenziale per

mantenere in sella governi instabili e antiamericani; eppure, non siamo stati capaci di

fare gli investimenti necessari per passare più rapidamente alle energie alternative.

Oggi questa scelta è decisiva tanto per la nostra sicurezza nazionale e la nostra stra-

tegia mediorientale, quanto per la nostra economia e la protezione dell’ambiente.

LE OPPORTUNITÀ MANCATE. Al cuore di questa tragedia stanno le opportu-

nità mancate negli anni successivi all’11 settembre. Ricordiamo tutti le manifesta-

Fra idealismo erealismo

Hillary Clinton

Hillary Clinton è la prima first lady a essere

eletta al Senato degli Stati Uniti ed è la pri-

ma newyorchese a fare parte della Com-

missione per le Forze armate del Senato.

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zioni di solidarietà nei nostri confronti per le strade di Teheran, o il famoso titolo di

un quotidiano francese: “Ora siamo tutti americani”. Cinque anni dopo, buona parte

del mondo si domanda che cosa sia diventata l’America. Di fronte a questo quadro di

fallimento e caos, è assolutamente necessario cominciare a ricostruire un consenso

bipartisan per garantire i nostri interessi, aumentare la nostra sicurezza e promuove-

re i nostri valori. Si potrebbe iniziare tornando alle origini, ai nostri padri fondatori

che, nella Dichiarazione d’Indipendenza, si impegnarono a mantenere un giusto ri-

spetto per le opinioni dell’umanità. Penso che si possa ragionevolmente dire che og-

gi siamo tutti internazionalisti e allo stesso tempo tutti realisti.

Le scelte prospettate da quest’amministrazione erano false e fittizie. Internazionali-

smo contro unilateralismo; realismo contro idealismo: c’è forse qualcuno che non sia

d’accordo sul fatto che l’America debba mantenere un ruolo di leader in nome della

pace e della libertà, e ciò nonostante essere più pronta a lavorare in collaborazione

con altre nazioni e istituzioni internazionali al fine di realizzare gli obiettivi comuni?

Questa miscela di idealismo e realismo fa parte del carattere nazionale americano:

perché il nostro governo non può far propria questa combinazione?

Vorrei proporre tre principi che dovrebbero essere alla base del consenso bipartisan

sul tema della sicurezza nazionale, e riflettere sul modo in cui possono essere appli-

cati alle sfide più difficili che dobbiamo affrontare.

TRE PRINCIPI PER RICOSTRUIRE LA POLITICA ESTERA. Anzitutto,

com’è ovvio, dobbiamo ridare vita, con le parole e con i fatti, a un internazionalismo

adatto al nuovo secolo. Non abbiamo combattuto la seconda guerra mondiale da soli,

non abbiamo vinto la guerra fredda da soli e non possiamo affrontare la minaccia del

terrorismo globale e altre sfide cruciali da soli. Oggi una cellula terroristica può rac-

cogliere le proprie reclute in Asia sudorientale e addestrarle in Asia centrale, trova-

re finanziamenti in Medio Oriente e progettare un attentato da compiere negli Stati

Uniti o in Europa. Possiamo provare a fermare una malattia letale quando non è an-

cora diffusa a livello planetario, oppure possiamo aspettare che venga a bussare alla

nostra porta. Possiamo affrontare ora e insieme il problema dei cambiamenti clima-

tici, oppure subirne le disastrose conseguenze in un prossimo futuro. Possiamo vol-

tare le spalle alle istituzioni internazionali oppure cercare di modernizzarle e dare lo-

ro nuova vita, e, quando necessario, crearne di nuove.

In secondo luogo, dobbiamo assegnare alla diplomazia la stessa importanza che dia-

mo alla potenza militare. Non dobbiamo aver paura di cercare soluzioni diplomatiche

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ai più spinosi conflitti internazionali. Non possiamo lasciare che il Medio Oriente ri-

solva da solo i suoi problemi, o evitare colloqui diretti con la Corea del Nord. Quan-

do dovette affrontare una sfida all’esistenza stessa della nostra nazione, il presiden-

te Kennedy disse: “Non dovremo mai negoziare spinti dalla paura, ma nemmeno ave-

re mai paura di negoziare”. I negoziati diretti non sono un segno di debolezza, ma una

prova di leadership.

COMBINARE REALISMO E IDEALISMO. Terzo, la nostra politica estera de-

ve combinare idealismo e realismo al servizio degli interessi americani. Se c’è un’i-

dea che ha avuto ampia circolazione in questi ultimi sei anni e che io vorrei invece

vedere sfatata, è questa falsa scelta tra realismo e idealismo. Fermare la prolifera-

zione nucleare è da idealisti o da realisti? Unire le forze per affrontare il problema

del surriscaldamento globale è da idealisti o da realisti? Aiutare le nazioni del mon-

do in via di sviluppo a istruire i propri bambini, combattere le malattie e rafforzare

la propria economia, è da idealisti o da realisti? E credere che dobbiamo stroncare

l’ideologia che alimenta il terrorismo è da idealisti o da realisti?

Tutti i problemi che dobbiamo affrontare esigono strategie che combinino idealismo

e realismo, e ogni strategia richiede la costruzione, talvolta molto difficile, di un con-

senso più ampio possibile. Non possiamo realizzare nessuna soluzione concreta sen-

za la leadership americana; ma, da sola, nemmeno l’America può riuscirci.

Lo scopo della politica estera americana è la difesa della nostra sicurezza e la pro-

mozione dei nostri interessi nazionali. In un mondo sempre più interdipendente, è

nostro interesse primario difendere i diritti umani, promuovere la libertà religiosa, la

democrazia, i diritti delle donne, la giustizia sociale e lo sviluppo economico. Ma la

realtà ci insegna che non possiamo costringere altre nazioni o popolazioni ad accet-

tare questi valori. Dobbiamo appoggiare tutti coloro che li accolgono e dare noi stes-

si l’esempio.

Nei loro momenti migliori, gli americani hanno sempre vissuto in una tensione crea-

tiva tra l’idealismo e il realismo; tra la loro lucida testardaggine nel voler vedere il

mondo come realmente è e il loro profondo desiderio di ricostruirlo come dovrebbe

essere. L’amministrazione Bush ha rinunciato a questa tensione e l’ha sostituita con

una semplicistica divisione del mondo tra Bene e Male, rifiutandosi di parlare con

chiunque sia sospettato di stare dalla parte del male. Alcuni hanno definito idealista

questo atteggiamento; a mio giudizio, invece, è pericolosamente irrealistico. In defi-

nitiva, bisogna domandarsi se quest’amministrazione abbia agito nel rispetto dei no-

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stri valori o se invece li abbia sfruttati come pretesto per giustificare la propria ideo-

logia e il proprio unilateralismo. Ci deve essere qualcosa che non va se il nostro ten-

tativo di promuovere obiettivi idealistici ha fatto rivoltare il mondo contro di noi.

All’inizio di quest’anno, Anatol Lieven, un progressista, e John Hulsman, un conser-

vatore, hanno pubblicato un libro scritto a quattro mani dal titolo Ethical Realism.

Non c’è bisogno di condividere tutte le loro proposte politiche per imparare qualco-

sa dal terreno comune che i due autori hanno individuato. In ogni epoca abbiamo do-

vuto sforzarci di trovare un modo per conciliare gli elementi pragmatici e i principi

morali della nostra forza e per utilizzare entrambi. Durante la guerra fredda ci siamo

in larga misura riusciti: insieme, realisti e idealisti hanno costruito istituzioni ed ela-

borato strategie politiche capaci di promuovere i nostri interessi e i nostri valori. Ab-

biamo invece completamente fallito quando un piccolo gruppo di ideologi ha deciso

che non avevamo bisogno di quelle istituzioni, di alleanze, della diplomazia o anche

soltanto del rispetto delle altre nazioni.

Questi principi, se applicati, provocherebbero un totale cambiamento di rotta rispet-

to alle politiche di questa amministrazione. Se guardiamo alle pericolose situazioni

che dobbiamo oggi affrontare in Iraq, Afghanistan, Iran e Corea del Nord, la prolife-

razione di armi nucleari, la prosecuzione della guerra al terrorismo, vediamo gli stes-

si errori ripetuti in continuazione: la falsa convinzione che le alleanze e le istituzioni

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internazionali non abbiano alcuna importanza per gli interessi americani; la falsa

convinzione che la diplomazia, perfino quando sostenuta dalla forza, sia sinonimo di

debolezza; l’altrettanto falsa convinzione che l’esperienza dei nostri militari nella

pianificazione strategica, le analisi oggettive prodotte dai nostri servizi di intelligence

e le capacità negoziali dei nostri diplomatici possano essere accantonate e sostituite

da un ideologico velleitarismo. Era inevitabile che andasse a finire come in Iraq, do-

ve una guerra preventiva decisa sulla base di informazioni sbagliate, di scenari fan-

tasiosi e vere e proprie spacconate, si è rivelata un totale fallimento senza alcun ef-

fetto deterrente.

Dobbiamo, quindi, tornare a una diplomazia paziente, sostenuta dalla forza militare

e ispirata ai valori americani.

COME CAMBIARE ROTTA IN IRAQ. Voglio cominciare dall’Iraq perché, in

termini umani, questo è stato un periodo terribile, in cui piangiamo la morte di deci-

ne di americani e di numerose centinaia di iracheni. In termini politici, siamo arri-

vati all’assurdo più totale. L’amministrazione americana annuncia scadenze e il pri-

mo ministro iracheno le smentisce immediatamente. L’amministrazione dice all’Iran

e alla Siria che hanno il dovere di contribuire al mantenimento della pace, ma non è

disposta a trattare con loro per decidere in che modo debbano farlo. Continuiamo a

negare la realtà dell’evidenza, procedendo con pochi o addirittura nessun alleato, e

senza reti di comunicazione diretta con la gente che conta. Non c’è da stupirsi se il

popolo americano pensa che stiamo andando alla deriva.

Abbiamo bisogno di un drastico cambio di rotta, e io credo che questo cambiamento

comporti tre elementi fondamentali.

Primo, dobbiamo insistere costantemente, in privato e in pubblico, affinché gli irache-

ni si impegnino seriamente a realizzare una riconciliazione interna e a trovare una so-

luzione politica, mostrando chiaramente quali sarebbero le conseguenze di un loro fal-

limento. Soltanto il governo iracheno può prendere i provvedimenti necessari per crea-

re le condizioni che consentano un accordo politico. E invece, in questi ultimi tempi,

il governo sembra fare di tutto per vanificare i nostri sforzi in quella direzione. La cre-

dibilità americana è nelle mani di un governo iracheno che non ha alcuna intenzione

di rispettare i suoi impegni a cercare una soluzione politica rispettosa dei diritti e del

ruolo della minoranza sunnita e fondata sulla ripartizione delle entrate petrolifere.

È dall’estate del 2003 che sostengo che dovremmo istituire in Iraq un fondo fiducia-

rio per gestire i ricavi del petrolio, con il compito di garantire che ogni cittadino ira-

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cheno riceva ogni anno la propria parte della ricchezza del paese. Invece, la questio-

ne della ripartizione di questa ricchezza rimane irrisolta, cosicché i sunniti non han-

no alcun interesse a fermare i combattimenti, i curdi a restare all’interno dell’Iraq e

gli sciiti a sciogliere le milizie e a porre fine ai conflitti fratricidi. Garantire a ogni ira-

cheno una parte dei profitti petroliferi è un modo concreto per provare a superare l’im-

passe e dare agli iracheni qualche ragione per credere che non siamo in Iraq per il pe-

trolio, per fare gli interessi delle grandi compagnie petrolifere, per riempire le tasche

delle nuove élite irachene e ingrassare i loro conti bancari in Svizzera; e per dare ai

cittadini di quel paese qualche motivo per apprezzare il loro governo.

In secondo luogo, abbiamo bisogno di ciò che molti di noi invocano ormai da molti

mesi, per non dire anni: una conferenza internazionale di tutti gli Stati della regione,

Turchia, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi, Giordania, ma anche Siria e Iran. Bi-

sogna che tutti dichiarino apertamente se hanno intenzione di impegnarsi a rispetta-

re la sovranità dell’Iraq e a promuoverne la stabilità. Anziché temere il negoziato, do-

vremmo avere paura di ciò che accadrebbe se non facessimo il tentativo di negozia-

re un accordo regionale a garanzia di un Iraq stabile e unito. E anche i paesi vicini

dovrebbero avere lo stesso timore: sarebbero loro, infatti, a pagare il prezzo più alto

di una guerra civile totale, con milioni di profughi in fuga dall’Iraq e il moltiplicarsi

di nuove basi terroristiche.

Terzo, dobbiamo iniziare (e io avevo sperato che ci saremmo riusciti entro la fine del-

l’anno) un graduale ridispiegamento (phased redeployment) delle truppe. Assieme ai

senatori Levin e Reed e alla leadership democratica del Senato e della Camera, ab-

biamo proposto questo graduale ridispiegamento delle truppe statunitensi in Iraq, da

effettuarsi nel corso di quest’anno, che comporterebbe anche un cambiamento dei

compiti assegnati alle forze USA, che sarebbero impiegate per addestrare e appoggia-

re le truppe irachene e per combattere il terrorismo, nonché per proteggere il perso-

nale e le infrastrutture americane.

Richard Holbrooke ha ragione: abbiamo di fronte a noi tre scelte. Una è di tirare

avanti disordinatamente, senza fare progressi. Oppure avviamo un processo di razio-

nale e prudente disimpegno; o ancora, scegliamo l’escalation.

In ogni caso, quale che sia la strada che intendiamo seguire, è necessario fare in mo-

do che i dirigenti iracheni si assumano le loro responsabilità e facciano capire al pro-

prio popolo che gli Stati Uniti non rimarranno in Iraq a tempo indefinito e che non

lasceranno le loro truppe sotto il tiro incrociato di una guerra civile. La prospettiva

di un graduale ridispiegamento delle forze americane farà capire questo messaggio

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alla leadership irachena. Negli incontri che ho avuto con i suoi principali esponenti,

infatti, ho percepito, nel migliore dei casi, un messaggio contraddittorio: “Siamo una

nazione sovrana”, dicono. “Ora siamo noi a prendere le decisioni. A proposito, non

siamo ancora pronti per il vostro ritiro.”

È giunto il momento di costringere il governo iracheno ad affrontare questa contrad-

dizione, a impegnarsi più seriamente per dare una soluzione politica alla crisi, di-

cendo chiaramente che le forze americane non sono assolutamente disposte ad aval-

lare il suo rifiuto di affrontare i problemi.

TORNARE A OCCUPARCI DELL’AFGHANISTAN. In questo periodo parlia-

mo molto di Iraq, com’è giusto, ma non abbastanza dell’Afghanistan, dove i nostri in-

successi hanno mandato in fumo buona parte di quanto avevano realizzato le nostre

forze militari, e notevolmente ridimensionato i margini di manovra e l’influenza po-

sitiva che può essere esercitata dal governo moderato e democratico del presidente

Karzai. Oggi, infatti, parecchi alti ufficiali della NATO dicono apertamente che l’Af-

ghanistan potrebbe ricadere in mano ai talebani entro i prossimi sei mesi. Gli atten-

tati suicidi e le aggressioni terroristiche aumentano in continuazione. L’87% della

produzione mondiale di oppio è ormai concentrata in Afghanistan.

Una battuta che circola a Kabul dà un quadro perfetto della situazione. Un coman-

dante talebano si vanta davanti ai soldati che lo hanno catturato con queste parole:

“Voi avete gli orologi, ma noi abbiamo il tempo”. Per dimostrare che si sbaglia, dob-

biamo dare tempo ai nostri alleati afgani. Invece, sembra che non facciamo altro che

guardare continuamente l’orologio.

In un primo momento eravamo convinti di avere tutte le risposte pronte; poi abbiamo

pensato di poter subappaltare ai nostri alleati il compito di combattere l’insurrezio-

ne; insomma, sembriamo esserci lasciati guidare dal pilota automatico. Questa disat-

tenzione e il falso ottimismo non stanno soltanto mettendo in pericolo tutto quanto

siamo riusciti a realizzare, ma costano anche la perdita di molte vite. I nostri alleati

canadesi, inglesi, olandesi e di altri paesi NATO hanno dato prova di grande coraggio

inviando le proprie truppe in Afghanistan. Ma l’Afghanistan e la NATO hanno bisogno

della nostra leadership per garantire la sicurezza, sradicare la corruzione, trovare al-

ternative al traffico dell’oppio e assicurare un più efficace controllo lungo il confine

con il Pakistan.

Sappiamo grosso modo in quale area si nascondono i leader dei talebani e probabil-

mente anche quelli di al Qaeda. Il fatto che, cinque anni dopo il nostro intervento,

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costoro se ne stiano ancora al sicuro nei loro rifugi, e da lì possano inviare schiere di

combattenti in Afghanistan, è una prova lampante del fallimento delle nostre politi-

che. E la posta in gioco è altissima, sia per l’Afghanistan che per il Pakistan e i pae-

si vicini dell’Asia centrale, perché si tratta di arrestare la spinta di al Qaeda e dimo-

strare la nostra credibilità e la nostra leadership.

Dovremmo iniziare dando una risposta concreta ai nostri comandanti NATO che chie-

dono di aumentare il numero di soldati schierati in Afghanistan, dove, facendo un cal-

colo pro capite, abbiamo speso una cifra venticinque volte inferiore a quella che ab-

biamo speso in Bosnia e impiegato un quinto delle truppe utilizzate in questo paese.

NEGOZIATI DIRETTI CON GLI “STATI CANAGLIA”. Anche per quanto ri-

guarda l’Iran quest’amministrazione ha delegato la gestione politica agli inglesi, ai

francesi e ai tedeschi. Nel frattempo, gli estremisti hanno tranquillamente conqui-

stato il potere, estromettendo i cosiddetti iraniani moderati, da noi completamente

ignorati. Ora non ci resta che sperare che quegli stessi moderati con cui non abbia-

mo voluto dialogare tornino sulla scena; ma la speranza non è una politica. La poli-

tica degli Stati Uniti non deve lasciare spazio a equivoci. All’Iran non deve essere

permesso di costruire o procurarsi armi nucleari. Non dimentichiamo che il presi-

dente iraniano ha fatto una serie di dichiarazioni incendiarie e vergognose, mettendo

in dubbio l’Olocausto e proclamando che Israele deve essere cancellato dalle carte

geografiche. Sappiamo che un Iran dotato di armi nucleari rappresenterebbe una mi-

naccia diretta per tutti i paesi vicini, e Israele sarebbe il suo principale obiettivo. Ma

sarebbe una grave minaccia anche per gli Stati Uniti, perché Teheran appoggia una

serie di organizzazioni terroristiche il cui scopo dichiarato è attaccare e uccidere gli

americani, e aumenterebbe a dismisura il rischio che queste reti mettano le mani su

materiale e tecnologia nucleari.

Dobbiamo mantenere la porta aperta a tutte le opzioni, incluso un dialogo diretto con

gli iraniani, se si dovesse presentare un’occasione propizia. Parlarsi direttamente

consente, se non altro, di capire almeno chi è che prende le decisioni e quali sono i

suoi obiettivi dichiarati e nascosti. E la nostra disponibilità a intavolare trattative lan-

cerebbe due messaggi di estrema importanza: il primo al popolo iraniano, al quale

dobbiamo far comprendere che il nostro dissenso riguarda esclusivamente i leader

del paese, non i cittadini; il secondo alla comunità internazionale, alla quale dob-

biamo dimostrare che stiamo cercando di percorrere ogni possibile via pacifica per

impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare.

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Dobbiamo, inoltre, essere disposti a usare tutti i mezzi a nostra disposizione per col-

laborare con gli israeliani e i palestinesi. La situazione attuale è veramente scorag-

giante, in parte anche perché l’amministrazione Bush ha scelto di tirarsi indietro nei

momenti cruciali. Nello schieramento palestinese non è ancora emerso un partner af-

fidabile e non si vede alcuna disponibilità ad accettare formalmente l’esistenza del-

lo Stato israeliano. Anche dopo la vittoria di Hamas nelle scorse elezioni, dobbiamo

continuare a esigere che il governo palestinese riconosca il diritto all’esistenza di

Israele e faccia cessare il terrorismo.

Comunque, dalla regione giungono notizie di trattative tra il governo israeliano e il

presidente Abbas e di un possibile scioglimento del governo formato da Hamas. Dob-

biamo essere pronti ad affrontare lo sviluppo degli eventi, in stretta collaborazione

con i nostri alleati israeliani, per ridare all’America il suo indispensabile ruolo di

guida verso una soluzione giusta e duratura.

Per quanto riguarda la Corea del Nord, abbiamo appena ricevuto notizie potenzial-

mente buone. L’amministrazione Bush ha adottato, come sapete, una visione del mon-

do ristretta e autoreferenziale, che non tiene conto dei fatti e rinuncia a utilizzare al-

cuni dei più efficaci strumenti a nostra disposizione per neutralizzare le minacce pri-

ma che ci colpiscano. Abbiamo avuto sei anni di politica senza carota e senza basto-

ne che ha dato soltanto pessimi risultati, delegando in pratica i negoziati ai cinesi e

lasciando mano libera a Kim Jong Il, senza ombra di ispettori a controllare come im-

piegava il suo plutonio. Ora abbiamo meno opzioni di prima e un compito molto più

difficile. Ci sono le sanzioni delle Nazioni Unite e, sebbene non siano rigide come le

vorrei, è imperativo che siano fatte rispettare. C’è il negoziato a sei che, stando alle

ultime notizie, dopo intense trattative (compresi colloqui diretti fra i nordcoreani e

l’ambasciatore Chris Hill) sta per riprendere nuova vita.

Non possiamo rinunciare ad alcuna opzione. Abbiamo mantenuto un nostro contin-

gente per cinquant’anni in Corea del Sud per ottimi motivi. Ma sono convinta ormai

da molto tempo che abbiamo fatto un errore a non avviare colloqui diretti con la Co-

rea del Nord. I paesi confinanti hanno sempre appoggiato l’idea di negoziati diretti

tra Washington e Pyongyang sulle questioni della sicurezza. In passato, questo tipo

di contatti ha evitato lo sviluppo di bombe al plutonio e il collaudo di missili a lun-

ga gittata. A Kim Jong Il bisogna mandare un messaggio chiaro e univoco: deve sce-

gliere tra sviluppare le armi nucleari o ricevere aiuti dalla Corea del Sud, dalla Cina

e dalla comunità internazionale; non può avere tutte e due le cose. In questo mo-

mento, l’impressione è che, per contenere la minaccia nordcoreana, stiamo contando

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(troppo, per i miei gusti) sulla buona volontà della Cina. Ma prima o poi, Pyongyang

dovrà sentire questo messaggio direttamente da noi.

UNA SERIA POLITICA DI NON PROLIFERAZIONE NUCLEARE. Il co-

mune denominatore di tutte queste crisi è la minaccia che gruppi terroristici estre-

mamente sofisticati e organizzati, operanti da basi in Afghanistan, in Iraq o in qual-

che altro paese, riescano a procurarsi armi atomiche.

Per quarant’anni gli Stati Uniti, forti di un consenso bipartisan, hanno guidato la co-

munità internazionale nella paziente opera di costruzione di una serie di trattati e ac-

cordi che hanno contribuito a tenere sotto controllo le ambizioni nucleari di vari sta-

ti. Paesi come il Brasile, l’Argentina, il Sud Africa, il Kazakhstan, l’Ucraina e la Bie-

lorussia hanno deciso di non sviluppare un proprio arsenale nucleare o addirittura di

sbarazzarsi delle armi che già possedevano, riducendo così la possibilità che cades-

sero in mano ai terroristi. Oggi sappiamo che alcuni gruppi pericolosi stanno cer-

cando in tutti i modi di rubare una bomba atomica o il materiale con cui costruirla.

E non c’è bisogno che sia molto potente.

Ci sono anche molti Stati, però, legittimamente interessati a sviluppare l’energia nu-

cleare per uso pacifico. Per rispondere a quest’esigenza, dobbiamo aggiornare il re-

gime di non proliferazione. L’anno scorso, in occasione della Conferenza di revisione

del Trattato di non proliferazione, abbiamo avuto l’opportunità di avviare una rifles-

sione comune su come rendere più forte e sicuro quel regime. Ma mentre altri paesi

hanno inviato alla Conferenza il proprio ministro degli Esteri o autorevoli ambascia-

tori, la nostra amministrazione ha mandato un funzionario di medio livello, chiaro se-

gnale di scarso interesse. La nostra influenza in materia di non proliferazione è già

stata indebolita in virtù del nostro abbandono del Trattato per la messa al bando to-

tale dei test nucleari (il Comprehensive Test Ban Treaty) e della volontà dell’ammi-

nistrazione Bush di sviluppare due nuove armi nucleari tattiche (una delle quali è il

cosiddetto bunker-buster, un ordigno capace di penetrare nel terreno a grande pro-

fondità, sfondando le pareti corazzate dei bunker). La completa rinuncia a qualsiasi

tipo di impegno sul fronte della non proliferazione è un gravissimo errore: quanti più

paesi possiedono materiale fissile, tanto più aumentano le possibilità che questo ca-

da in mani pericolose.

Alcuni esperti americani hanno lanciato proposte innovative per adeguare il Trattato

di non proliferazione alle esigenze del XXI secolo. Quando il Senato si riunirà dopo le

elezioni, chiederò ai miei colleghi che presiederanno la Commissione per le Forze ar-

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mate e la Commissione per gli Affari esteri di organizzare audizioni congiunte sul fu-

turo della politica di non proliferazione, con l’obiettivo di elaborare un nuovo piano

per la sicurezza nostra e di tutti. E dobbiamo fare di più per impedire che gruppi ter-

roristici si procurino armi o materiali nucleari. Molte autorevoli voci sostengono da

anni che non stiamo facendo abbastanza per tenere sotto controllo sicuro ogni tipo di

materiale utilizzabile per la costruzione di ordigni nucleari. Proporrò presto un dise-

gno di legge, basato su queste idee, per istituire un consigliere della Casa Bianca con

il compito specifico di combattere il terrorismo nucleare e di redigere un rapporto an-

nuale con l’indicazione di ogni sito che ospita armi o materiali nucleari. E dovremo

lavorare in collaborazione con altre nazioni per fare in modo che questi materiali sia-

no tenuti sotto il più scrupoloso controllo.

Qui a New York non abbiamo certo bisogno di sentirci dire che siamo in guerra con-

tro gruppi terroristici che cercano di colpirci. Da un punto di vista strategico, è vero

anche che il mondo ci sta osservando. È improbabile che riusciremo ad affrontare con

successo le sfide di cui ho parlato, e molte altre ancora, se daremo l’impressione di

perdere terreno nella battaglia contro i terroristi.

Il 12 settembre 2001 l’amministrazione Bush poteva contare non soltanto sulla soli-

darietà di tutto il mondo, ma anche sul completo appoggio di entrambi i partiti e sul-

la determinazione del popolo americano a compiere sacrifici per la causa comune.

Ma questo appello al sacrificio non è stato mai fatto. Cinque anni dopo, l’ammini-

strazione non è ancora riuscita a riformare le istituzioni che hanno il compito di ga-

rantire la nostra sicurezza nazionale. Chi ci aveva promesso meno intervento dello

Stato, ci ha invece dato l’apparato governativo più vasto e più incompetente che ab-

biamo mai avuto. Di conseguenza, i soldati che combattono in prima linea nella guer-

ra contro il terrorismo sono spesso privi dei mezzi di cui hanno bisogno. L’ammini-

strazione ha ordinato alle nostre forze militari di svolgere missioni al di là delle loro

dimensioni, del loro equipaggiamento e dei fondi disponibili. Insieme ad altri politi-

ci democratici e repubblicani, ho proposto un aumento di 80.000 unità per il nostro

esercito, un potenziamento delle Forze speciali e un più efficace addestramento ed

equipaggiamento per la Guardia nazionale e la Riserva.

UNA NUOVA STRATEGIA PER LA SICUREZZA NAZIONALE. Anche sul

terreno della sicurezza interna (Homeland Security) l’amministrazione Bush ha subi-

to imbarazzanti insuccessi. Non ha saputo creare una cultura della prevenzione al-

l’interno dell’FBI.

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Page 12: Fra idealismo e realismo - Aspen Institute · terrorismo alla non proliferazione, dall’energia all’ambiente – l’America ... sono in netto contrasto con gli imperativi globali,

Un anno fa, la Commissione sull’11 settembre ha espresso un giudizio fortemente ne-

gativo sull’opera dell’amministrazione di riforma dell’FBI e ha dichiarato che, in as-

senza di un miglioramento entro breve tempo, il Congresso dovrà cercare delle alter-

native. L’FBI ha soltanto 33 agenti che parlano l’arabo, e nessuno di essi è assegnato

all’antiterrorismo. Il capo della sezione antiterrorismo è cambiato sei volte nel giro di

cinque anni. Non è stata ancora portata a termine la riforma dei servizi segreti, né è

stato fatto nulla di concreto per risollevare il morale dell’apparato.

La Commissione sull’11 settembre ha proposto la nomina di un direttore della Na-

tional Intelligence con il compito di dirigere l’intero apparato dei servizi segreti. Ma

non si è fatto nulla. I cosiddetti nuovi criteri per le tecniche di interrogatorio, con le

loro ambiguità circa la tortura, hanno lasciato il personale della CIA, e persino i mi-

litari, nell’incertezza su ciò che è legale, su ciò che sono autorizzati a fare e su ciò

che il paese stesso gli chiede di fare.

Durante la crisi dei missili a Cuba il presidente Kennedy chiamò accanto a sé Lle-

wellyn Thompson, ex ambasciatore a Mosca, un uomo che capiva a fondo la mentali-

tà sovietica e conosceva benissimo Krusciov. Oggi non abbiamo più, all’interno del

governo, uomini dotati di altrettanta competenza circa le minacce poste dall’estremi-

smo islamico. Quando è stato necessario cercare al di là dei nostri servizi segreti, co-

me nel caso della guerra fredda, abbiamo chiamato un’intera generazione di profes-

sori e studenti universitari a mettersi al servizio del proprio paese. Oggi dovremmo

fare la stessa cosa: imparare le lingue di cui abbiamo bisogno, comprendere le cul-

ture delle società dove nascono le minacce più gravi alla nostra sicurezza. I nostri co-

mandanti militari continuano a dirci che non possiamo vincere la guerra al terrori-

smo con i soli mezzi militari. Come si legge nel nuovo manuale dell’esercito e della

marina sulle strategie anti-insurrezionali, “le armi più efficaci per combattere le in-

surrezioni non sono quelle che sparano pallottole”.

Nel nostro lavoro in seno al Transformation Advisory Group ci scontriamo continua-

mente con il problema che non disponiamo di sufficienti competenze civili per ge-

stire le situazioni di pre e post crisi. Il mondo è cambiato, ma le nostre istituzioni ci-

vili e la qualità della preparazione per compiti di amministrazione civile non hanno

saputo mantenere il passo. Insieme al senatore Specter, ho recentemente proposto un

disegno di legge per la creazione di un’accademia dedicata specificamente a questo,

una sorta di West Point dell’amministrazione civile, che farebbe capire quanta im-

portanza attribuiamo ai temi dell’amministrazione e della ricostruzione civile, sia in

patria che all’estero. Potrebbe essere quella la sede per l’insegnamento delle lingue

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Page 13: Fra idealismo e realismo - Aspen Institute · terrorismo alla non proliferazione, dall’energia all’ambiente – l’America ... sono in netto contrasto con gli imperativi globali,

che hanno assunto cruciale importanza, e per lo studio di quelle culture che oggi

comprendiamo ancora pochissimo.

In ultima istanza, quello che conta è vincere la guerra contro il terrorismo, e non sem-

plicemente qualche battaglia. Ma per riuscirci dobbiamo prima affrontare e supera-

re un’altra sfida: quella di porre gli Stati Uniti dalla parte della dignità e del pro-

gresso e dimostrare inequivocabilmente che ci opponiamo alla tirannia e alla viola-

zione dei diritti umani. E in questa lotta, le sole armi che abbiamo sono i nostri va-

lori e i nostri ideali.

Dobbiamo cominciare ad affrontare le condizioni di disagio, sofferenza e povertà in

cui i terroristi vanno a pescare consensi. In particolare, va sostenuta l’istruzione glo-

bale, perché penso che offra un’alternativa concreta in luoghi dove le uniche scuole

sono anche incubatrici di estremismo religioso e che possa produrre immediati mi-

glioramenti sul piano sanitario e sociale.

Per questo ho proposto leggi affinché il nostro paese guidi la comunità internazionale

nello sforzo di garantire, entro il 2015, l’istruzione primaria a ogni bambino del mon-

do. Abbiamo parlato tanto di democrazia, ma abbiamo fatto ben poco per promuovere

quei processi di lungo periodo necessari per creare solide istituzioni democratiche do-

po che le elezioni si sono svolte e gli osservatori internazionali sono tornati a casa.

A ottobre ho votato contro il Military Commissions Act (la legge che consente al pre-

sidente di istituire apposite commissioni militari per giudicare gli atti contro la sicu-

rezza nazionale compiuti da “combattenti nemici stranieri”) proposto da Bush. Pen-

so, infatti, che l’America sia stata edificata sui pilastri della fede e di alcuni princi-

pi fondamentali; e sono convinta che, nell’interesse della nostra stessa esistenza, è

necessario che la nostra nazione sia la prima a rispettare questi principi per essere

d’esempio a tutto il mondo. Non può esserci nessuna pietà per i responsabili dell’11

settembre e di altri crimini contro l’umanità, ma dobbiamo ottenere giustizia in un

modo che esalti i nostri valori e i principi dello stato di diritto. Questa è una forma

di idealismo del tutto realistica, che ci ha accompagnato fin dall’inizio della nostra

storia. L’esperimento tentato da quest’amministrazione è fallito. Non possiamo torna-

re indietro; dobbiamo andare avanti e costruire un nuovo consenso bipartisan. Natu-

ralmente non posso parlare a nome dell’amministrazione; ma so che i miei colleghi

democratici sono pronti a lavorare in questa direzione.

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