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Francesco Dalessandro [Quaderni] Domani è la parola. [Francesco Dalessandro]

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Francesco Dalessandro

[Quaderni]

Domani è la parola.

[Francesco Dalessandro]

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Titolo: Francesco Dalessandro – [Quaderni]

Poesie di: Francesco Dalessandro

Fonti: I giorni dei santi di ghiaccio (1983); La salvezza (2006), L’osservatorio, (1998); Aprile degli anni (2010); Lezioni di respiro (2003); Gli anni di cenere (2010); Ore dorate (2008).

A cura di Luigi Bosco

Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

Poesia2.0

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Da

I giorni dei santi di ghiaccio

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I giorni dei santi di ghiaccio, I L’alba. Nevica. Ecco: la coscienza riduole. Un rimorso blandissimo ti punge. Despierto en esta luz, en tu sombra. Espejo del ocio. Fa freddo. La ragazza, la bruna che il caso e la festa ti scelsero, dorme. Ne invidi il riposo. L’inquieta lussuria della notte (Non abbrevi le carezze, per noia, come fai sempre. La mano preme la sua bruna gemma. La lingua si scalda nel suo solco. E lei, guado fra i sensi, affina un tempo avido…) è già ricordo. E in te disagio. Non stupirne. Sai bene, niente permane o dura oltre un tempo brevissimo, così, finché sia l’ora di dirne, con parole. Ma le parole, come foglie cadono senza dire, accartocciate. È vero. Anche le cose sfuggono al nostro agire. Nevica. C’è silenzio. Tutto è chiaro. Altra luce non filtra, altro rumore. Il fruscio della veste sui suoi fianchi. Il dolore che invade la mattina..

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La salvezza

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Domenica d’acqua Infuria sui ramagli dell’abete, sui rami degli allori, sulle foglie della magnolia; batte i rampicanti, l’acquivento notturno. Sul Pineto fulmina. La domenica inclemente d’acqua e noia è finita senza gloria. Io nelle trame d’un film giallo ho spento sordi abbagli di lussuria per tutto il pomeriggio. Poi la sera l’incuria, gli alti e bassi dell’angoscia. Gli uccelli Tre, sappilo, perfetti uccelli a quest’amore che ci contiene, nuovo, ad ali tese, vennero: l’upupa calunniata e bellissima che ci sorprese a una curva in un tardo pomeriggio di sole; prim’ancora le tortore brune: sui tetti grigi, le sentivamo tubare a ogni risveglio; infine la coppia di gabbiani che rase l’onda bassa e svanì all’orizzonte dietro Punta Marina, il venti marzo, domenica mattina.

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Coppie Cartagena, ultimo dell’anno 1987 Una giovane coppia dal crocchio a concilio sull’estrema punta dell’Arsenale spicca un volo radente sulla tremula baia – poi si separa: il maschio si tuffa argenteo dardo sui verdi flutti pilucca l’acqua riascende chiama la compagna; lei vira in rapido slalom tra sartie di barche dolcemente ondeggianti al riflusso della marea, gli giunge sul fianco destro l’incalza lo invita a un gioco amoroso di tuffi sul filo d’estri leggeri, in punta d’ali planando su una cala della rada; qui nel primo cerchio dell’ombra si dànno di becco – poi con pigro slancio tornano in seno alla famiglia. Anche la coppia che il fuori tempo dei giorni festivi avvicina e divide ecco, spenta la sera nel paseo solitario e leggero, torna al colloquio fervido per la Calle

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Mayor – spinta a una notte di pura lussuria all’ansiosa lena dei sensi al colpo risolutore. I gabbiani a Luigi Amendola Non ne avevo mai visti tanti così volare a bassa quota come ieri verso l’una da Ponte Umberto I radendo il filo della corrente sul Tevere sull’acqua terrosa che l’ingrossa posarsi – non ne avevo mai visti tanti insieme rapaci dardi temerari mai così vicini le penne luccicanti argento e blu nell’aria fredda nel sole tenue tra nembi e cirri fuggenti – mai visti a stormo tanti su quell’acqua che più s’intorbida per fame dar di stocco e insaziati su Tor di Nona e le sue gronde oltre i terrazzi pensili con strepiti e fischi sparire disperdersi insieme all’azzurro mite che la schiarita ci aveva apparecchiato mentre incombenti nubi gonfie s’addensavano pesava

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il temporale – di tanti non ne era rimasto nessuno io non ne avevo visti mai così tanti. 2.2.1986 I cormorani a Gino Scartaghiande Né fresco né molle è più il fiume antico dei padri ma solo un’immonda cloaca – l’incerta schiarita radure azzurre ci aveva donate ma s’erano presto richiuse: con la scia di un jet militare con l’ultimo gabbiano anche il giorno svaniva verso il mare – sull’acqua torbida e scura alcuni cormorani pescavano – io non ne avevo mai visti: mi sono fermato a osservarli ammirandone il nero piumaggio brillare nell’aria fredda all’ultima luce e l’eleganza naturale nel nuoto: si tuffavano rapidi giù sparivano contro- corrente nei gorghi sott’acqua per un tempo interminabile

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poi tornavano a galla risalivano a riprendere fiato riaffioravano per rituffarsi ancora non sazi – osservandoli (altri passanti curiosi s’erano fermati a guardare sporgendosi sulla corrente) ho pensato a uccelli di terra e di mare forti e belli come loro che i poeti hanno cantato, all’upupa calunniata da Foscolo al passero solitario di Leopardi all’usignolo di Keats all’allodola di Shelley all’albatro di Baudelaire al canarino di Saba e a tutti gli altri celebrati nei versi – poi mi sono ricordato del cormorano del Golfo, le penne ingrommate di petrolio… 2.2.1996 La salvezza Fosse qui la salvezza, nella composta quiete della notte e d’ogni cosa nel sereno raggio che avvolge la magnolia nella bocca e il suo miele nell’insonnia tranquilla. Non è qui la salvezza,

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in questa notte arsa d’afa mentre ardo io pure, non qui dove perdurano il dolore e l’affanno e la cicala s’ostina nel suo canto fino a morirne. Fosse in noi la salvezza, in questo bene che per sortilegio antico ancora dura in quella voce incerta debolissima ma viva (tu ascoltala!) anche fosse nel male che ci unisce. Questa non è salvezza e io non so pensarlo: la formula che incanta bene o male ci lega non ci salva non crederlo ogni gesto ha l’esatto contrario ha in sé l’inganno. Fosse nella stanchezza appagata dei sensi dopo l’amore nella confidenza prima di prender sonno, se il sonno tarda, nelle nostre mani… Non c’è salvezza qui, non è quest’ansia importuna e mai paga che può salvarti né colmare il tuo vuoto poi che sai come si muoia e nel- l’aria immobile poco abbia scampo.

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da

L’osservatorio

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I – L’osservatorio 5 Perché l’ora mattutina tra le sette e le otto regala discendendo Monte Mario corrusco nel freddo nell’aria di fine novembre pungente un pensiero di morte, chiaro ma così vago e trasognato da somigliare alla foschia fluttuante sui profili dei templi delle chiese su San Pietro e l’intera torbida mortale città, da sembrare irreale? 7 È il giorno appena nato che non sai se ascende o si distende stanco prima che l’usuale fatica lo prostri giunta la sera; è dopo l’alba umida di brume che sul parco consistono e insistono vaste aeree, dai contorni radenti dove l’alzo mattutino già le dirada e le assola sul cantiere Icori e sotto il Gemelli sul ponte ferroviario; è l’ora adolescente quando sulla città che pure splende indugia una foschia lattiginosa, da Ponte Milvio ai piedi del Gianicolo fosco l’oltrefiume si perde nella luce agghiacciata latitante

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sui rami ulcerati dal freddo sulla rampa di Monte Mario e dove all’occhio miope è concesso lo sguardo il viola che preannuncia neve ai Castelli e qui alle spalle l’ombra cupa di mezzacosta dove Villa Miani coi portici giallini si acquatta in mezzo al verde perenne (che il gelo brucerà) mentre il sole si scalda rischiara l’aria fa dolce l’ora allevia l’ansia; è il primo mattino di umano calore per chi alle sette e mezzo con animo sereno disceso dal monte a mente fresca nel marasma feriale del mercato dei fiori s’inoltra e con affanno e pena nuovi dalle strade intricate di macchine in sosta vietata di aperti Transit in doppia fila verrà fuori, come se la trama d’ombra che là il sole sembra incapace di spezzare e il cono di luce morente a poco a poco nel- l’addensarsi di nuvole – preparano forse altra pioggia dopo quella dei giorni trascorsi, altra acqua inclemente che rinnovi i disagi riversando lo scroscio freddo – siano forma del suo rovello, del vizio che l’accorta pazienza cui l’amore vincendo a sera fatica e angoscia dona fuoco fila con le parole – “testura infelice” che catturi la vita.

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9 un fuoco di rifiuti di cascami che non può dare calore ma solo una bluastra smorta fiamma che brucia bassa e nero fumo contro il cielo coperto (una nube ci minaccia) leva acre di quanto mal si degrada e consuma nel fuoco, rossa spiga cresciuta tra vapori e tronfie tenebre; gonfie nuvole presto, aria e terra adiuvanti, s’apriranno: acqua finché altro nuovo giorno si levi acqua benefica o letale cada stanotte sul parco vuoto, al cui fuoco nessuno si riscalda; la correntìa di luci lentamente esaurita s’allontana, solo ogni tanto un rombo cupo rantola ancora giù nella strada piana piano muore. II – Stagioni del basso mondo anniversario del mattutino dolo stella, maligna e sola ancora brilli quando il primo raggio invade la penombra e nella stanza alligna come la vite che nell’imo suolo alla nemica sua cugina edera viva acqua d’amore e luce di speranza contende o rade tardive rose nell’aiuola e nel giardino al sole appena tiepido aperte proclive

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alla passione dei sereni ultimi giorni di maggio: nel maggiore anniversario chiara la beltà ne godranno le tue assorte pupille e arse lo sguardo l’interna pena che prepara la loro vespertina pudica morte avvertirà nel raggio che le avvolge e dora, vita che si arrende all’amore e alla realtà della sua santa consumazione aprile quella lucente mattutina prima stella il nascente giorno annuncia mentre discendo e tralucente da vapori lattescenti di smog Santa Maria Maggiore sotto il cielo delle sette e mezzo si mostra, però dietro muri d’edera baluardi di siepi incolte come pensieri una diffusa bruma l’immagine occulta della città la sua grazia il pallore luminescente; dai belvedere – nell’aria celeste o ancora livida come in tempo di neve come aprile s’arrendesse a un tardivo ritorno d’inverno – dai belvedere ai Prati scendo mentre il giorno ascende insieme al volo che dall’oro di cupole e chiese spazia con volute eleganti sopra Monte Mario e le ville a mezza costa il fiume lentissimo dei padri e l’ocra (assorto

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dono di meraviglia, è un vascello fantasma la città un errante clipper spettrale nel biancore della bruma del sogno – anche noi morsi dal nostro desiderio siamo spettri destinati a un errare da ripetersi per sempre) sul mercato che colori e profumi elargisce al mattutino inganno, benessere e vita all’offuscato quartiere borghese alle sue vie squadrate ai vigorosi platani svettanti verde e foglie novelle ai miei otto lustri appena trascorsi all’avvenente tentazione di un amore ai suoi festini forse all’ansia controllata riconosciuta a ogni passo per queste vie chiare e dolenti dove la miope rima raccoglie luce, concorde l’ora l’andare tra questi nomi antichi di nemici del papa-re, nemico io di me IV – Mare delle passioni 3 (L’ansia) Poi che l’ansia m’istilla il suo sottile veleno non potrò parlarti d’amore, dirti: «amore, un poeta innamorato che ridicola cosa se non muore

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o non ne scrive, ma anche scriverne è un vizio anche descrivere le proprie pene è un peccato da scontare» – penso a Catullo al carme ottavo di così patetica bellezza in cui rimpiange i giorni consumati correndo dove amore pretendeva e poi più non vuole – quello è il senso di quest’ansia invadente ogni vena cresciuta d’ora in ora appena sveglio e dopo anche dopo aver fatto l’amore nella luce venata del primo pomeriggio se il furore dolce non ne ha spento il fuoco non ne ha saziato il crudo morso; «ancora alza la testa minaccioso e impudente eros bambino»: un conforto le tue parole, ma non curano il mio strano male ansia e noia: mentre l’aria castamente imbruna anche il tuo umore cambia diventi inquieta poi ch’è prossima l’ora di cena: io penso a ieri un ieri lontano di cui portiamo il fardello con incosciente leggerezza, giorni uguali a se stessi stagioni e ore ad altre ore e stagioni uguali noi a noi, e non so se il miele stillante dal paziente quieto scorrere del tempo del sangue nelle vene indurentisi è maggior felicità o minor duolo aspettando la sera e il ritrovarci nella casa e nel letto, perfetto rifugio della nostra età.

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7 (Una musa) La mia solita febbricola, una musa casalinga e privata così poco mondana ma non priva di civiltà trastulla la noia con le fragili forme di un’ansiosa felicità, e con la tenera rosa ottobrina ritorna la smania di vivere l’amore giovanile la grazia perduta di un’età passata, il tardivo pentimento la pudica speranza, illusione nevrotica di un cuore già stanco e incubo quieto d’ogni nata mattutina dilezione, ma la sorte solitudine adduce mentre calco claudicante le scene di un mondo di nuovo avviato all’autunnale sperpero di vita al desiderio di morte, malinconica attesa che è carne di futura mestizia carità che non consola, nel giorno nato uguale e diverso diversa- mente amato, l’inverno mio teatro e osservatorio quando a sera anche l’inganno mattutino si svela rivelandosi volgare avanspettacolo giostra corteo funerario, la verità rivelata e corrotta una profana ascesa ai più infimi abissi del divino amore, tempesta preparata a redimere il deserto, una mano due tese a toccarsi a tentare fortuna: cosa resta da volere e da scrivere?

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8 (Il mattino) Strane voci nell’aria del mattino festivo destano all’ansia alla pietosa luce che scalda l’erba e i verdi lauri del giardino dirada le notturne brume scioglie la brina uccide i sogni avviando cuore e mente dal torpore della bassa pressione uscenti come il sole dai nembi a fatica l’albanella dal fitto dei rami – è il tempo incerto dell’autunno romano quando nei viali maculati di ruggine strepiti d’ali e richiami chiassosi di storni dalle chiome ramate dei platani levandosi a chi sosta o transita oscurano la vista l’azzurro mattutino mitissima procella sopra Monte Mario vaniente oltre le antenne e l’ocra sporco e vecchio dei Prati – mentre prende vita la strada e a poco a poco cresce il frastuono del traffico si anima la casa si scaldano voci e finestre, ma il rumore ferisce e risveglia il dolore sopito di una passata età che si credeva sepolto nel costato insieme a morte passioni acerbi inganni giovanili e quel dolore l’angoscia magra smania di perdersi nutre come i tiepidi raggi novembrini l’opulenta magnolia le sue grasse foglie ondeggianti alla fredda tramontana, così me tra desiderio e abbandono oppresso dall’inquieta sedizione del cuore nella nemica aria fragrante nell’amorosa luce di un sereno sguardo poi che ignaro di quanta tenebra offuschi il mio e i miei pensieri incapaci d’amore e vita ormai

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fuori da ogni partita che ancora gioventù nei lunghi giorni gioca mentre a me gli anni sono corti e difficili, incerti come questo mattino maturato con passaggi di nuvole e paure nel cuore nel cielo turchino.

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da

Aprile degli anni

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Aspettando la poesia, in una stazione della metro Tu d’inverno te ne stai dietro fredde finestre ben chiuse la mente confusa coccolato da sogni (attraverso vetri sporchi fissi il distante indaffararsi della gente la smorta espressione di volti brutali in questa stagione come morti ambulanti fantasmi andare in fretta qua e là alacremente portando la loro incredibile intensa spontanea bruttezza per futili ragioni); solitario dietro vetri trasparenti come un facile trucco (separano la mente dai volti infreddoliti e frettolosi: moriranno, pensi, come nei viali le foglie e la vite americana che insanguina la siepe) siedi e aspetti. Poi vestita di un fresco sorriso ecco lei arriva. In forma di nuvola di pioggia 2. Lascia che da questo rumoroso mondo indolente un canto (finché il canto dice il vero) di pioggia entri al mattino (miracolo più grande del respiro) e ferisca il risveglio apra germogli nuovi nel cuore. No non chiederti per quale merito per quale buona

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azione ti è donato ma lascia la notte svanire e disperdersi in un nuovo giorno e mentre milioni di persone chiedono vita riconoscente tu accetta la benedizione di una tale bellezza e innocenza, abbastanza per gli anni avvenire. 9. Oh mattini fragranti di dicembre (che aprite il cuore ravvivando la brace del segreto e i due segni della sua gloria oh passeri) perché il mondo è una triste palude e fango dove sguazzano lieti solo miseri vizi e perdute speranze? (verrà primavera torneranno i teneri passeri sui prati fioriti del mio desiderio?) perché nere acque sempre trascorrono in crudeli gorghi di affanno oh bei mattini fragranti e freschi di metà dicembre?

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Ore leggere 4. I tuoi piccoli favi di bionde api offrivano miele alla mia poesia. Al tuo seno di sogni colmo la pioggia recitava il breve poema del possesso. Oh, l’inverno infuriava nei vicoli sordidi del porto, città verticale, e noi rientrammo fradici. Amore, avevi i blue- jeans inzuppati ma l’erba sul tuo ventre era di un prato a primavera. 8. Lasciami entrare respirare amore. Accoglimi dove sogno è casa di beate cose dove il cuore la tua piccola luna bruna s’alza e guarda e il canterino solitario tra i forti ma giovani rami del tuo corpo si riposa. Desiderami nel curvo umido scialo dove la lingua tenace- mente vaga arsa di sete cantando la sura del tuo sangue quando ri- bolle e trema. Lasciami stare amore morire.

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12. Così passano eventi, la gloria duratura del cielo e dell’amore. Così l’ultima foglia e la stagione cadono morte sulla terra con reciso spasimo ed ogni cosa poco prima brillante… Con blande con discordi mosse nel precipite buio abisso (quando l’estate prima- vera avrà ucciso e dormiremo l’uno dell’altra ignari oh con turbata diffidenza) anche noi discenderemo. Che la morte sia del tutto naturale mi sgomenta che dal suo sonno neanche l’amore si possa risvegliare… Aprile e gli anni 2. Domani è la parola. Libera senza peso vaga nell’aria: è il tuo fiato, io lo respiro. Quando dici «domani» si risvegliano le promesse e vestite di niente, d’invisibile niente, fuggono svelte dalle tue mani. Le speranze, le loro più povere sorelle, le seguono insieme svolazzano intorno alla mia testa al mio cuore come eteree farfalle. Ah perché poi pentita le vorresti

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catturare e infilzare con gli spilli racchiudere nella triste bacheca dell’attesa? Lasciale volare, che mi accechino che senta il vibrare delle ali, che in quei voli leggeri s’incarni la parola. La parola domani. 8. Ti guardo e vivo dentro mondi lievi fragili. Il tempo misura la vita in anni giorni ore minuti ma un minuto può essere un secolo una vita un amore. Mi riparano tetti. No, nubi cieli. Ancora meno, aria nulla. E non cammino in terra non calpesto più il suolo ma volo. La vita è breve e leggera scivola via senza scie né impronte e se vuoi condividerla non devi cercare orme o ricordi ma lievi ombre le labbra gli occhi il palmo della tua mano, perché là io vivo. ** Com’è egoista l’amore! Ah come inabissa il mondo in un vuoto di cieli in un vuoto di spazi siderali! Tra rovine di stagioni tra crolli

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di muri di colonne di templi di dottrine e idee esso muove i suoi passi. Qui la trama di secoli si spezza qui la storia guarda indietro ripensando il futuro. Nell’occulta segreta ansia dell’ieri e del domani nel sangue del presente nel crollo dell’ordine dei fiori delle nuvole dell’ombra nel silenzio del perdono e della pietra nel computo sterile del fato scivolando in abissi trionfanti di sconfitte verso il nulla del caos del non ritorno noi potremo amarci – come prima del mondo della sua mondanità. Canti più incerti del canto 10. La tua fronte è una mezzaluna lucente una pallida falce sulla tenera neve, la positura del tuo corpo rischiara il buio universo. Mendìco io triste cosa con la mia cecità solco il mondo discendendo nell’imo abisso dove, amore, salgemma è il tuo rosso tesoro che soave si esala nell’anima ottusa da clamore quando l’onda spumeggiando si strugge sulla sabbia (da possente oh piccina debole blanda fragile) in un breve ansimo in te è funesta bianca quiete.

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12. Non sarà sempre così; così mi dissi quando le tue labbra che amo si unirono a quelle di un altro e le tue care dita strinsero salde il suo cuore, come il mio poco prima, quando i neri capelli su un altro viso posasti in silenzio, quel silenzio che conosco, e con le parole di quando troppo dici feristi lo spirito indifeso; quando questo tutto questo, dico, accadde – tu non pronunciasti parola; io sceso da lui senza guardarlo negli occhi dissi: Accetta da me ogni mia felicità. Poi mi volsi e udii una voce cantare piangere in me i perduti giorni d’amore

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da

Lezioni di respiro

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Cronache della luce 8 Traslucente al mattutino primo lucore l’aria è lo specchio in cui misuro e peso le offerte del nuovo mese: l’oro vecchio della memoria e il metallo brunito di un verso a lungo scarnito dalla punta secca della matita l’ottusa lena e la boria del mare i sassi levigati, contrappeso a un futuro diverso e disadorno, un altro anello nel cuore del pino la promessa di nuove fioriture di rinascite… illusioni elusive e vane regole invano seguite, incapace d’ironia ti sei messa su una cattiva strada mia poesia – comunque vada la verità e il suo rovescio hanno un destino già scritto segnato dal ritorno a casa dove ancora il muro di verde d’anno in anno più alto e fitto impedirà l’evasione il salto eliso domestico o nostra caienna volontaria deriva o secca “ma l’amore coltiva e cura i suoi confini: il giardino la rosa canina la siepe di lauro la sua mondanità” – fiore proteso sull’infimo abisso del mondo spolpato fino all’osso e arso il verso come stella alpina sopravvive alla mia siccità.

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* “Berryman scrisse innamorato una centuria e più di sonetti audaci appassionati – suo modello Petrarca, un caso dubbio secondo Pound – e li tenne per vent’anni nell’incuria dei cassetti clandestini come l’amore che vi era raccontato…” anch’io (m’ero ripromesso di non scriverne più) più per caso che per amore ne ho fatti alcuni (doppi come ha due facce ogni umana realtà: cuore e ragione corpo e anima acqua e fuoco, così si dice) un colloquio “o un conflitto?” con me stesso l’aspetto estivo e fervido d’una cosa maturata durante l’inverno l’aprirsi d’una porta… “una scorta devota ai recessi della tua mente (il poeta lui stesso stupisce del suo ardire), come un’ospite inattesa si siede e fa colazione insieme a noi sarà questo la poesia? capire se il divario fra idea e forma è dovuto a fortuite coincidenze a fortunate interferenze a un disturbo del pensiero o della visione; la tua prima estate di vena dopo il Miles e un inverno reticente, hai infilato i tuoi versi come i grani di un rosario: a quale scopo?” non l’avevo premeditato: furono il mio trastullo e riposo dopo le calde mattine sulla spiaggia le nostre soste per la spesa come comuni villeggianti all’Ossostore.

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Lezioni di respiro 8. La rondine morta Tornando a casa ogni sera prometto di scrivere un verso uno solo che salvi la giornata (è più facile darsi un dovere) ma stasera non posso perché ho visto una rondine morta: era in mezzo alla strada e m’ha dato un cupo tremito trovarla, piccolissimo grumo di povere piume schiacciate profilo del becco - era solo una misera macchia di materia opaca senz’ossa né sangue - e ali stese, le stesse così preste in un filo di vento a virate temerarie a picchiate impensabili da punte di gronda ora inerte graffito invisibile traccia nel cielo vuoto del volo violato quale verso tanto perfetto nell’ardente tramonto di luglio potrebbe riscattare anche non trasgredendo al dovere quel minimo palpito perso fra l’ombra immatura del crepuscolo e una luce corrotta, sporca di polvere e di fumo? può la poesia rendere al cielo e alla fervida sera il volo spezzato? può qualcuno risvegliare nell’aria quell’ansimo spento? e qualcosa può guarire potrà mai alleviare l’ansia viva e l’orrore di chi passa e nelle ali seccate ravvisa la propria sorte futura lo schianto e ne prova dolore perché peggio della morte,

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dice Seneca, è (il nostro spavento) la sua dimora? 9. Pomeriggio e sera Saranno queste cicale insaziabili di luce e di sole – così esperte nell’uso del loro strumento – sarà la stridente melodia sempre uguale ma variata nell’effetto – solo canto o richiamo d’amore? – sarà il caldo pomeriggio a destare il rimpianto sarà l’afa della casa provocante una strana prostrazione, sarà l’arte naturale del dolore – insinuante anche in ore serene il ricordo e il rimorso – sarà il suo peso lieve e insopportabile questo studio d’insanabili incertezze a darmi forza a permettermi nell’ora in cui il giorno morirà di non morire ma scrivere? mentre rosea oltre gli ultimi quartieri oltre l’arsa campagna la luce declina sul mare – sul litorale dove bruciano vele e bagnanti – mentre l’aria rinfresca e imbruna mentre l’ombra pietosa prolungandosi avvolge la casa e il Pineto mentre tace anche l’ultima cicala, per chi scende in giardino – se l’ansia appagata ora si placa e s’addormenta nel cuore e con essa ricordi importuni trovano pace i rimorsi ricevono l’atteso perdono – a innaffiare le piante a cercarvi

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refrigerio a divinare dal volo di saltuari uccelli presagi di pioggia sia meno pungente il rimpianto più leggero sia il peso dell’amore. I vantaggi della maturità? con ironia e patema Questo che vedete seduto di fronte a voi pronto a mettersi a nudo è un giovane poeta di cinquantadue anni che si guadagna la vita spendendo tutto il giorno dietro gli affari altrui e se questo fa bene al portafoglio -- ha famiglia una moglie una figlia (anche nove tartarughe) l’affitto da pagare altri impegni mondani -- non fa bene ai suoi versi, ma che serve lamentarsi? la sera scende a patti con la musa cambia pelle si siede allo scrittoio davanti alla finestra prova a scrivere a capire a ritrovarsi ma ritrovarsi è difficile è stanco non c’è mai pace quiete c’è sempre qualcosa -- una sirena la TV dei due vecchi un po’ sordi su al primo piano il telefono i clacson i merli in giardino -- a distrarlo dai versi (la vita ha un altro ritmo, la poesia non consola nessuno) ma quando

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è meno depresso quando riesce a decifrare i morse dell’ansia certe sere genera pochi versi non indegni di ricordo e per mesi li alleva accudisce pulisce educa e cura con pazienza e umiltà francescana. La sirena-infanzia 7. Latte e sonno Nevicava. Cadeva anche la notte su case e strade e al lume delle prime lampade i fiocchi sembravano gocce di miele trasparenti. Nella buia cucina ardeva un fuoco sazio. Latte caldo e sonno bevevo a una schiumosa tazza mentre mia madre che cuciva e raccontava storie era ai miei occhi torbidi perché da stanchezza chiusi rosa e blu nel riverbero del fuoco e nelle tenebre fredde oltre la scala che ora avrei salita per andare a letto e per sognare anni futuri fiorire presto di bellezza e d’ansia. Nasceva da innocenza o impudicizia puerili il turbamento che bambini cugini scoprivamo in quei mattini di neve e gelo quando appena usciti dal sonno infreddolita mi stringeva

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e toccava aspettando che le tazze schiumose e calde della colazione fossero pronte? Se in quelle carezze non c’erano intenzioni né malizia perché scaldando il latte sulla stufa nuova dalla cucina “non toccatevi!” nonna intimava? Se era solo il primo ingenuo incanto perché quel piacere intenso e breve mi tremava dentro come paura? 9. Attesa della neve Ma il pianto come potrà redimere l’ansia semplice che tutti ci prende – se ogni cosa svanisce nelle tenebre bianche ammassate ai vetri illuminati e contro i muri soffocanti porte e finestre finché tutto avrà perduto aspetto e consistenza – per primi noi bambini che sazi di parole pronti al sonno traditi da paure nuove e inconfessabili aspettiamo madri e zie per dormire paghi appena della loro presenza e del sorriso pietoso che regalano spegnendo lumi e lampade prima di lasciarci? Era attesa la neve: quando scese prima timida lenta poi nel vortice di tramontana – i fiocchi gonfi spinti

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contro i vetri scoppiavano con lampi cristallini – quietò attese, speranze; per natale era attesa, per il fuoco che ardendo legna umida e fascine avrebbe rischiarato notte e piazza le tenebre oltre croce e campanile – e mentre il fumo acre brucia gli occhi quale avvenire io tutti avremmo visto figurarsi nella fiamma o alla bianca luce fredda e nel cuore farsi brace viva per altri fuochi, altri affanni? Altra neve I Notturna e silenziosa scese spense passi e motori soffocando il buio, inattesa coprì quartieri e viali alberati: al mattino quanta luce mentre da solo per le vie ghiacciate semideserte scivolavo lieto e leggero poi che un lungo giorno fruttuoso di scoperte era iniziato: pochi compagni aspettavano pronti a salire al Gianicolo e osservare la città intera dai Castelli al colle Vaticano dal Centro alle sue estreme periferie avvolta nel pregiato ermellino di quella coltre bianca.

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Io mi tenevo al fianco della grossa Oddo che mi stringeva e si lasciava toccare mentre gli altri già lontani ci chiamavano e noi rimasti indietro tacevamo: stringevo per la prima volta un seno opulento di ragazza. Ma più tardi raggiunto il belvedere mi sporsi anch’io a segnare con la mano altre bellezze che meravigliandosi l’ignara adolescenza ora scopriva: la città bianca e il suo fiume azzurro sembravano fluttuare o pattinare nell’aria tersa del mattino argento e oro consegnando al nostro sguardo. II Neve di maggio: nel silenzio ottuso dei sentimenti colse di sorpresa e intirizzì cuori e ragioni, avvolse il paese adagiato sulla bianca costa del monte e che sopra la mobile apparenza sembrava somigliare a quell’esile nudo di ragazza fiorito dal risveglio – l’uno a specchio dell’altra (che con occhi ancora pieni di sonno sorrideva) – o era miraggio quel languore sfinito e abbagliante il gelido mattino presto invaso da un dolore più acuto del silenzio e incessante, paziente, acuminato?

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No, non era né inganno né morgana invernale la mossa positura che la luce dell’alba ghiaccia tenera- mente baciava e faceva sua – o se lo era nel fresco silenzio della stanza era solo per il caldo affanno della notte che il ricordo riaccendeva – era il docile abbandono del bianco sopra il bianco contro il muro di luce oltre il suo fianco più reale di un rimorso pudico e appena vero se all’esultante aria del mattino potrà svanire – simile al silenzio diventato alla luce già frastuono. Figure e ombre 1. Ombre per A. B. “Io dove vado poi che m’allontano da voi nell’ora temperata e quieta della sera? Con passo svelto elastico (di voi chi m’accompagna ombre perdute?) dove sono diretto mentre il silenzio nella mia mente aggroviglia un nodo di pensieri dolenti e irragionevoli che invece di frenarmi mi sospinge più avanti verso il buio della notte quindi dove la notte si schiarisce nel chiasso cittadino che ingombra le piazzette notturne e le feconda

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poi che nessuno più m’attende o cerca o domanda notizie o le dispera?” Per quale porta o suburbano varco il tuo cuore spaurito fuggirà dalla crescente onda che l’incalza e ne minaccia al polso il sordo battito costante anche se l’ansia lo sfida e ne accelera il ritmo se avrai attraversato in tempo la palude limacciosa del sonno e dei suoi incubi e sarai sceso a ristorarti all’acqua Marcia dietro le mura alte e sovrane della santa città che è silenziosa e solitaria come te, eremita che vai ora per vie nuove ma antiche già prima d’intraprendere il cammino? 5. Amore in giardino Affacciato in giardino con gli occhi appesi alla luce matura del tardo mattino festivo assisto allo scontro d’amore di due tartarughe. E’ il maschio a insidiare a inseguire la femmina a metterla alle strette; la tormenta mordendole il muso e le zampe l’assale senza darle tregua ostinato le sale sul guscio le dà colpi sofferti ma a vuoto perché lei si ritrae si sottrae paziente agli assalti ai suoi morsi amorosi

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cerca riparo sotto i rami bassi degli allori e poi prova a liberarsi. Finché stanca di resistere e negarsi eccola vinta cedere all’ardore del compagno e concedersi… E lui giovane maschio finalmente con il piccolo guscio eretto contro il gran guscio di lei le dà colpi elastici e decisi - che lei prona e ferma ora accoglie e riceve – ma accompagnati con un forte grido anzi forse uno spasimo… Piacere e pena forse prova per la prima volta. Io noi stessi riconosco in quel muto cercarsi, il tuo fuggire in quella fuga la tua resa in quella resa. 7. Diarietto familiare 1984-85 I L’ora offuscata di un gelido giorno d’aprile andato senza soprassalti: la tramontana non si dava pace, la sentivamo nel cortile interno battere le persiane e nell’aiuola sferzare i lauri le ortensie i gerani e il pino nano sotto la finestra, né le piantine fiorite in ritardo

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sembravano poterla sopportare, dalla mia ansia era nata una fallace propaggine di calma tra fatica e riposo, Laura bambina di otto o nove anni sedeva alla sua panca davanti a me disegnando tranquilla: un prato di montagna due figure donna e bambina erano ferme e assorte guardavano lontano forse a chi le chiamava dall’ombra poi che il sole era già basso e nascosto alla vista dava riflessi ai vetri di una casa rossa al pozzo a uno scivolo a una pazza altalena o alla pioggia che rapida s’avvicinava scendendo dai monti dietro stormi di rondini alle gronde dei tetti dove intanto la luna sorgeva pallidissima… Io ero nuovo e rinato dentro la mia ansia che si esauriva in muta esortazione. II Creatura mia leggera, ecco tornata la stagione che tanto sospirammo nei lunghi giorni gelidi d’inverno; volubile e cangiante, primavera è come il tuo sorriso di bambina o l’umore che oggi ne disegni in pioggia gronde rondini fratello sole e sorella luna, tu e tua madre.

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(Se siete voi le due figure ferme sul prato perché io non sono al vostro fianco? E chi guardate così assorte avventurarsi o perdersi lontano uscito dalla vista dietro il filo del tetto? A cosa, a cosa stai pensando?) E che pensi di chi ti siede – intento a pensieri segreti tanto poco adulti tanto più sentimentali per un poeta che oggi dal dolore i suoi succhi distilla come l’ape il nettare dai fiori – di chi intento più di te al tuo disegno ti siede dietro quando ti volgi e lo guardi seria senza sorridergli? E perché ora alle tue figure aggiungi il male umano di quell’ombra che s’allunga sui giochi e sulla casa e li minaccia? Di chi è la figura fuori vista a cui l’ombra appartiene che vi volge le spalle e s’allontana? E dove va? 11. Imitazione per A. B., ancora Se un giorno mi lascerò, fuggendo da questi viali di platani malati e lungotevere invasi di traffico, alle spalle la città nella tua Parma

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verrò e salendo ai monti Casarola raggiunta mi vedrai seduto sulle sue pietre a piangere il fiore della tua poesia per sempre caduto, ma oggi nel caldo di un mattino di giugno cercando invano parole che curino il dolore esco in giardino a osservare la piccola famiglia di tartarughe – genitori e figli – sostare quieta in un cerchio di sole. Questo di tante speranze mi resta oggi: il calore di un pallido sole che illude tutti, i testardi animali corazzati contro le offese naturali e anche i poveri poeti indifesi e pieni di un’angoscia che rinnova il dolore premendo sullo sterno e soffocando il cuore ma lasciando la mente presa nella rete dei suoi ragionamenti… L’estate vicina già punge con questi primi raggi domenicali. Non serve e non vale oggi incidere versi se in giardino anche il merlo riposa sugli allori.

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da

Gli anni di cenere

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Gli anni di cenere

la cenere, epidermide del tempo I A quali giorni dagli anni di cenere risale la memoria con immagini accese sullo schermo della notte mentre insonne tu pesi rimorsi inseguendo nel fluire del sangue e delle tenebre verso la nuova luce ancora segreta oltre le chiuse tende un’altra chimera di vita che da tempo credevi smarrita o morta come il vizio innocente e solitario dell’adolescenza, vizio compensatorio che alla fine del giorno dava il succo ancora acerbo di pochi versi o pochi grati affanni? II Ai giorni, brace viva nella cenere degli anni, che sguardi e cuori al primo mondo aprirono a quei giorni dimenticati a quei distratti cori di perdizione e penitenza a quei pallidi ardori che coi mattutini primi raggi tra i fumi acri e le brume del Pineto una voce ora ravviva mentre fuori sibilante nel freddo

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di marzo il maestrale s’accanisce sul verde della siepe e sulle foglie tenerelle della vite verdeggianti nell’ombra in cui ti sforzi d’amare e scrivere d’amore per volerti al fuoco d’eros vivo consumare e sciogliere alla fiamma della sua cecità… III Cari giorni di grazia e di peccati giovanili solari consacrati nella carne, che non speravano perdono ma solo una breve consolante felicità (se smaniosi d’amore si svegliavano i sensi febbrili e non c’era mai pace ma fame e famelica furia o se immaturo nasceva il desiderio e trovava solo il sesso ossessivo che oscuri adolescenti un po’ ridicoli dietro sirene luminose per vicoli e piazze vi spingeva temprati al fuoco degli sguardi e a facili amori d’incantate apparenze apriva cuori giovani e leggeri) ritornano

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IV e dall’ombra assolutoria del passato, oh mortale primavera canterina dei sensi, la solare sorella gemella della castigata vanità, la segreta adolescenza quando il sesso impudico smanioso di martirio era fuoco vaniente presto in un’orda di rimorsi e in brevi ansimi fino all’onda d’una nuova ebbrezza di furore solitario e dalle ceneri spente eccessivo vessillo dell’amore si riaccende la dilezione di un ricordo audace. V Ma non era più giovane il cuore o leggero di torbidi pensieri nella sua gabbia d’ossa quando rese prossima innamorandosi la soglia di delusione e rancore: severo nel prezzo (troppo alto) da pagare di dolore per gli anni e le stagioni colpevoli nel carcere assolato dell’amore (e nel duro reclusorio che lei imponeva a sigillo del torto subìto tu pativi e ti dannavi – ma nessuno custodiva la porta che ti chiudeva e ti teneva dentro, inutili catene e chiavistelli).

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VI Divisa su due piani di fervore e penitenza libera tornava, albanella smarrita del mattino, con frullo lieve d’ali nel celeste avorio della sera, via da lacci e tagliole volando: oh vana, vana era l’attesa se sul ciglio luce nuova d’amore si mischiava al vivo ardore delle stanze e dei mesi estivi, al delirio impenitente, feriale del peccato o della notte. VII Quale abiezione ti piegava al miele delle labbra? per quale maleficio le apriva e offriva al fuoco della lingua e delle dita quando sospiravi il suo corpo che nella notte muta e cieca t’abbagliava? Anche l’amore tramortito riluce se a ferire è tenerezza, ma senza dolcezza lei cedeva al ricatto tormentoso del desiderio e chiusa in una pena segreta altra via forse altra vita s’immaginava, forza e volontà dalla morente luce e un innocente nuovo inizio (che dal male sperava il bene), ma la volontà di un amore imperituro più forte del bene a quel male la legava, a quel vizio…

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VIII Svanivano, occhi desti vetrine della notte, le luci dei lampioni e delle stelle nel sonno sazio che la spossatezza dolcemente posava sulle ciglia: anche l’ansia svaniva in qualche ansa lacustre del pensiero, anche la vostra pena e i rumori ottusi di quelle ore piccole dalla strada nella trama di qualche sogno dove ora il silenzio poteva farsi luce, farsi ascolto. IX Non resta che l’amore (ma non cura il patema dell’anima), l’ardente furia dei sensi nella notte che già un poco sbianca oltre i chiusi cancelli del cortile e del parco, mentre passa anche la smania che morde pensieri e cuore poi ch’è spento il buio schermo dell’adolescenza e l’inganno ha parole arse dal sale della mente che però le matura.

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X Apre gli occhi sul mondo l’innocente aurora dalla notte e ne fa d’oro il morente crepuscolo, ma il sonno non viene più e s’affollano a bere il sangue del sacrificio solo i morti ricordi e i pentimenti: ti prepari al nuovo giorno con astuzia, lasci che con lo stesso sangue si satolli anche il rimorso che poi allontani e scacci ma t’aspetti che ora tutto sigillino le labbra mentre il sole finalmente si mostra fra orli e nastri di nubi sfilacciate sulle punte dei pini che incorniciano l’azzurro del mattino e dei nuovi desideri nutriti dal silenzio e dall’insonnia.

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da

Ore dorate

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Triumphus cupidinis Più sussurro che voce erano i versi il trionfo di un eros che non conobbe mai resa appagandosi solo se gli occhi voraci si saziavano – complice la luce matura del primo pomeriggio penetrante dalle tende semichiuse nella camera guscio vuoto in cui l’amore si accuccia nei giorni estivi – del tuo corpo bruno di sole acre di sudore e di sale quando stremata «lasciami riposare» pregavi ma convinta e vinta dalle carezze che la lingua ai tuoi golfi umidi e colli prodigava ti piegavi e ti aprivi per accogliermi ardente brace languente cera… Il risveglio Il sonno si smarrisce sulla soglia trasparente dell’alba, si risveglia un altro giorno al rumore feriale del traffico arrembante sulla nera curva che falcia il parco dove i cani si rincorrono liberi, al frastuono dei clacson impazienti, delle voci invadenti che imprecano e disturbano dalla strada o dal parco, dei richiami delle cornacchie tra i rami dei pini, del chioccolio della badante slava che aiuta la padrona e l’accompagna in bagno o che si lava, col contorno dei soliti rumori: l’acqua aperta,

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il ticchettio dei suoi tacchi sonori, il trillo della sveglia, poi lo squillo del telefono, il «pronto!», quel vocio stridulo, mentre in alto gli operai salgono sui ponteggi, ecco ripreso il lavoro, ora penso. Ma non apro ancora gli occhi, m’avvicino sfioro il suo fianco col fianco la sua gamba con la mia: basta questo, trascolora la notte in un mattino d’esiliata solitudine ed ore tutte d’oro s’annunciano agli occhi assonnati se aprendosi a un sereno senza nubi e pioggia avrà il celeste sole e aria pungente per accoglierci se uscendo insieme andremo per le strade, lenti i suoi passi nel fulgore di vetrine e specchi (ma che cosa, dio del vento, sussurrerai all’orecchio della nube che come un bianco otre verserà lacrime di dolore o di dispetto sul parco sulla strada sul giardino quando nel pomeriggio cibo e amore avremo consumato e sarà presto e sarà tardi per il sonno?). Intanto il traffico si acquieta e dalla strada tace il rumore, l’eco delle voci degli operai dai ponti s’allontana, la donna slava è uscita, nel silenzio che piove in casa m’alzo: lei è sveglia ma chiusa come un pugno in mezzo al letto indugia nel tepore: ha freddo? ha ancora voglia di sonno. So quel che dirà appena alzata: «no, non ho dormito neanche un’ora stanotte, solo all’alba

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ho preso sonno… ma poi quei rumori feroci, assurdi!» L’ansa di silenzio s’è schiusa presto ed è ripreso cupo l’andare consueto e assonnato del traffico feriale: ah, ma se invece improduttive saliranno le ore di questo giorno di febbraio freddo ma chiaro e lasceranno ansia e salive arse nei tuoi pensieri, solo in lei spera per la salvezza, solo lei avrai che accenda il fuoco nel tuo petto e il suo respiro per tenerlo vivo ancora e ancora…, penso. Ora il mattino nasce con questa fede e questo coro profano di rumori che accerchia la casa e il risveglio mettendo ansia nell’aria azzurra che rischiara dolcemente la stanza e nei suoi occhi ancora chiusi al saluto del giorno.

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Francesco Dalessandro è nato il 30 marzo 1948 a

Cagnano Amiterno (AQ); dal 1958 vive a Roma. Dopo

gli esordi su rivista (in particolare, su “Le porte”, n. 2,

maggio 1982, con una nota di Francesco Tentori, e su

“Discorso diretto”, quaderno 5, 1983, con il poemetto

Divergenze), è stato uno dei fondatori e redattori della

rivista di letteratura “Arsenale”, diretta dal 1984 al

1988 da Gianfranco Palmery. Ha pubblicato i seguenti

libri di poesia: I giorni dei santi di ghiaccio (con una

nota di Elio Pecora – Barbablù, Siena, 1983);

L’osservatorio (Il Labirinto, Roma, 1989, e Caramanica,

Marina di Minturno, 1998), finalista “premio Dario

Bellezza”, V Edizione, 2000; Lezioni di respiro (Il

Labirinto, Roma, 2003), segnalato al “premio Attilio

Bertolucci”, I Edizione, 2004 e finalista “premio

Frascati”, 2004; La salvezza (Il Labirinto, Roma, 2006);

Ore dorate (Il Labirinto, Roma, 2008); Aprile degli anni

(Puntoacapo, Novi Ligure, 2010); Gli anni di cenere,

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(Associazione culturale ‛La Luna’, Sant’Elpidio a Mare,

2010). Ha inoltre curato e pubblicato cinque libri di

traduzioni: Wallace Stevens, Domenica mattina;

Elizabeth Barrett Browning, Sonetti dal portoghese;

Gerard Manley Hopkins, I sonetti terribili; George

Gordon Byron, Il sogno e altri pezzi domestici; John

Keats, Sull’indolenza e altre odi (tutti per Il Labirinto,

Roma, rispettivamente 1998, 2000, 2003, 2008, 2010).

Altre traduzioni: dal latino (Giovenale, Orazio, Ligdamo

e Sulpicia), dall’inglese (Shakespeare, Andrew Marvell

e Kenneth Rexroth: una scelta delle sue Poesie

d’amore di Marichiko è sul n. 19, luglio-settembre

2010, di “Fili d’aquilone”, rivista sul web) e dallo

spagnolo (José María Alvarez, Francisco Chica, Ana

Rossetti, David Pujante, Eloy Sanchez Rosillo, Pere

Gimferrer).

Cura il blog: www.poesiesenzapariblogspot.com.

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