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Galimberti Animal Schizo

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IL CONFINE FRA NOI E L´ANIMALE schizofrenia e normalità

Esce un libro sullo studio delle dinamiche interiori ed esteriori dello psichiatra americano Harold F. Searles Il tratto nichilista della nostra cultura contribuisce alla fragilità dell´Io Il consumo forzato nel quale viviamo si profila come una figura distruttiva I bambini non hanno ancora operato una radicale differenza fra l´umano e il non uman La mentalità primitiva non trovava difficoltà a derivare la propria stirp dal regno animale UMBERTO GALIMBERTI

Uno dei più gravi disastri psichici seguiti all´introduzione del concetto di «anima» è stata la netta separazione tra mondo umano e mondo non umano, dove, in quest´ultimo, siamo soliti collocare cose, piante, animali e non di rado persino i nostri simili. Come se la vita umana si svolgesse in un vuoto, come se la razza umana fosse sola nell´universo a perseguire destini individuali e collettivi in un´omogenea cornice di non essere, su uno sfondo privo di forma, di colore e di sostanza.La stessa psicologia, «scienza dell´anima», si è dedicata allo studio delle dinamiche interiori e delle dinamiche interpersonali senza prestare grande attenzione all´ambiente non umano, dove si raccolgono gran parte delle nostre proiezioni psichiche. A colmare questa lacuna fu nel 1960 lo psichiatra americano Harold F. Searles che scrisse un libro L´ambiente non umano nello sviluppo normale e nella schizofrenia, oggi disponibile per il pubblico italiano nella Biblioteca Einaudi (pagg. 386, euro 25,00), la cui lettura consiglio non solo agli addetti ai lavori (psicologici), ma a genitori e a educatori, per non parlare dei politici che detengono il potere decisionale, e spesso neppure sospettano l´importanza che l

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´ambiente non umano ha per lo sviluppo e l´equilibrio di ciascuno di noi.Se resta qualche dubbio è forse utile andarsi a rileggere quel che il buon Freud, che oggi tutti si affannano a superare, scriveva in proposito nel 1916: «L´uomo, nel corso della sua evoluzione civile, si eresse a signore delle altre creature del mondo animale. Non contento di un tale predominio, cominciò a porre un abisso fra il loro e il proprio essere. Disconobbe ad esse la ragione e si attribuì un´anima immortale, appellandosi a un´altra origine divina che gli consentiva di spezzare i suoi legami col mondo animale. E´ curioso come questa presunzione sia estranea tanto al bambino piccolo, quanto al selvaggio e all´uomo delle origini. Essa è il risultato di un ulteriore sviluppo delle pretese umane.Il primitivo, nello stadio del totemismo, non trovava difficoltà a far derivare la propria stirpe da un progenitore appartenente al regno animale. Il mito, in cui si trovano i residui di questa antica forma di pensiero, fa assumere agli dèi aspetti animali, e l´arte delle origini rappresenta gli dèi con teste di bestie.Il bambino non coglie alcuna differenza tra l´essere proprio e quello degli animali, e non si meraviglia che nelle favole le bestie pensino e parlino; sposta un affetto d´angoscia, che si riferisce al padre umano, su un cane o su un cavallo, e ciò senza il proposito di denigrare il padre. Soltanto quando sarà cresciuto si sentirà così estraniato dagli animali da poter usare i loro nomi per ingiuriare gli uomini.Sappiamo che le ricerche di Charles Darwin e dei suoi collaboratori e predecessori hanno posto fine, poco più di mezzo secolo fa, a questa presunzione dell´uomo. L´uomo nulla di più è, e nulla di meglio, dell´animale; proviene egli stesso dalla serie animale ed è imparentato a qualche specie animale di più e a qualche altra di meno. Le sue successive acquisizioni non consentono di cancellare le testimonianze di una parità che è data tanto nella sua struttura corporea, quanto nella sua disposizione psichica».

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Fin qui Freud. I suoi esempi, che fanno riferimento ai bambini, ai primitivi e ai folli che non distinguono tra mondo umano e mondo non umano con cui spesso si identificano, possono far supporre che lo sviluppo della civiltà consista proprio in questa distinzione che, se ha una sua valenza di verità, comporta però l´enorme rischio conseguente al fatto che tutto ciò che noi consideriamo non umano corrisponde a nostre parti interne che trattiamo come non umane. Per cui, ad esempio, non è fuori luogo pensare che le più profonde radici psicologiche del pregiudizio razziale o religioso, di cui la storia di oggi ci fa fare ampia esperienza, allignino nel carattere fragile e ristretto che l´individuo ha della propria umanità, al punto di dover proiettare sui rappresentanti di un´altra razza o di un´altra religione certi suoi tratti che egli concepisce come incompatibili con la sua qualità di essere umano. Tale proiezione gli permette di considerare l´altro come un sottouomo e nel contempo di confermarsi nella propria umanità.Per questo i bambini sono fiduciosi (anche se noi li chiamiamo «ingenui») e gli adulti sospettosi (anche se di fronte a se stessi si considerano «avveduti»). I bambini non hanno ancora operato una radicale differenza tra l´umano e il non umano, e quindi, a differenza degli adulti, non proiettano le loro parti non umane fuori di sé, sugli altri. Così vivendo, i bambini si esprimono come i poeti, il cui linguaggio, per esprimere le qualità umane, non conosce altre similitudini e altre metafore se non quelle tratte dall´ambiente non umano, come il cielo, il mare, la luna, il farsi luce del giorno e il suo declino. L´antropomorfismo, tanto deprecato dalla scienza e tanto amato dai poeti e da chiunque di noi cada in condizione d´amore o di dolore, non conosce la distinzione tra umano e non umano, perché umanizza tutto, accoglie tutto nel regno dell´uomo, che a questo punto si fa ospitale. Chiunque di noi ha fatto esperienza della proiezione dei propri contenuti psichici sul mondo non umano, quale può essere la casa nativa, la pianta che ogni giorno curiamo, l´animale che con noi condivide la nostra giornata, ma anche la proiezione affettiva sul vestito usato, sulla vecchia automobile, sul vetusto e ingombrante mobile della nonna.

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Sono elementi costitutivi della nostra identità, figure di radicamento, di autoriconoscimento, come già Rilke nel 1920 faceva notare in una sua lettera:«Per i nostri avi, una casa, una fontana, una torre loro familiare, un abito posseduto erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l´umano. Ora ci incalzano dall´America cose nuove e indifferenti, pseudo-cose, aggeggi per vivere. Una casa nel senso americano, una mela americana, o una vite americana non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo in cui erano riposte le speranze e la ponderazione dei nostri padri».E allora il discorso di Searles sull´ambiente non umano si allarga dall´ambito strettamente psicologico a quello più ampio della nostra cultura, la cultura di noi occidentali che, a sentir Heidegger, ha risolto la terra in semplice materia prima, e il suo uso in usura. Questo estraneamento psicologico dall´ambiente non umano ha trovato il suo motore nella macchina occidentale del consumismo, che non è un vizio da cui ci si può correggere, perché nella nostra cultura il consumo è la condizione della produzione, per cui non solo gli alimentari devono avere una data di scadenza, ma tutte le cose, dal frigorifero alla lavatrice, all´automobile devono essere regolati dal «principio della distruzione».Si tratta di una distruzione (ma se l´espressione pare troppo forte usiamo pure la parola «consumo») che non è «la fine» naturale di ogni prodotto, ma «il suo fine». E questo non solo perché altrimenti si interromperebbe la catena produttiva, ma perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni, rende obsoleti i prodotti, la cui fine non segna la conclusione di un´esistenza, ma fin dall´inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo la produzione economica usa i consumatori come suoi alleati per garantire la mortalità dei suoi prodotti, che è poi la garanzia della sua immortalità.Come condizione essenziale della produzione e del progresso tecnico, il consumo, costretto a diventare «consumo forzato»,

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comincia a profilarsi come figura della distruttività, e la distruttività come un imperativo funzionale dell´apparato economico. Il «rispetto», che Kant indicava come fondamento della legge morale, non è funzionale al mondo dell´economia che, creando un mondo di cose sostituibili con modelli più avanzati, produce di continuo un mondo da buttar via. E siccome è molto improbabile che un´umanità, educata alla più spietata mancanza di rispetto nei confronti delle cose, mantenga questa virtù nei confronti degli uomini, non possiamo non convenire con Günther Anders per il quale: «L´umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via tratta anche se stessa come un´umanità da buttar via».Si conferma così il tratto nichilista della nostra cultura economica che eleva il non essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza, il loro non permanere a condizione del suo avanzare e progredire. E se le cose del mondo agli occhi di Platone apparivano scadenti perché, a differenza delle idee, erano soggette al tempo e perciò transitorie, agli occhi della nostra economia la transitorietà di tutte le cose, il loro diventare obsolete ed essere superate, il loro non durare è la condizione del loro esistere.Quali sono le conseguenze psicologiche di questo strutturale nichilismo che investe il mondo non umano su cui fin da piccoli si radicano le nostre proiezioni affettive, che costituiscono il nucleo caldo della nostra identità, del nostro radicamento, del nostro riconoscimento? Le conseguenze sono indicate dalle ultime statistiche fornite dall´Organizzazione Mondiale della Sanità, la quale ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, che nel 2020 i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50 per cento divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità infantile e di morte, che il suicidio è la terza causa di morte nei giovani tra i 15 e i 24 anni e la quarta tra i 10 e i 14.A questo punto è difficile non essere d´accordo con Searles là dove dice: «A mio avviso la crisi ecologica è la più grande minaccia che l´umanità abbia mai affrontato collettivamente, più grande persino

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della minaccia nucleare. La mia ipotesi è che l´uomo sia frenato, nel far fronte alla crisi ecologica, da una grave e diffusa apatia che si basa su sentimenti e atteggiamenti di cui egli è in larga misura inconsapevole. Proiettiamo su questo mondo, che si sta ecologicamente deteriorando, la violenza più profonda di tutti i nostri potenziali conflitti emozionali interiori, compreso il conflitto tra le componenti umane e quelle non umane della nostra soggettività».Qui occorre una riflessione collettiva, soprattutto dopo il rapporto sulla condizione catastrofica della terra compilato dal Pentagono e apparso in questi giorni, nonostante fosse tenuto secretato dalla Presidenza americana, la stessa che ha rifiutato di apporre la sua firma al trattato di Kyoto, dove ci si proponeva di limitare le emissioni dei gas-serra. E allora: meno americanismo nell´incremento incondizionato dei consumi e più sensibilità al mondo non umano, il cui degrado non riguarda solo le sorti della terra, ma, a sentire Searles, anche le sorti della nostra anima.