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venerdì 19 luglio 2013 santarcangelofestival.com | altrevelocita.it di LORENZO DONATI La complicata armonia della po- lifonia. Sembra questa la sfida culturale che ci sta lanciando Santarcangelo •13, dopo averci immerso in un primo weekend di spettacoli, performance, in- contri, concerti, film, dj set. Il verbo di oggi è apparire nelle ap- parizioni altrui, prendere parola su parole non proprie, aggregare gesti in contesti che altri predi- spongono per noi. Nei primi giorni di festival molte sono state le proposte relazionali, in spettacoli che senza il nostro intervento diretto non avrebbe- ro potuto proseguire: le alzate di mano di All Ears, le telefonate di Agoraphobia, le tracce da lascia- re in Art You Lost? Forme che ri- corrono per una scena in cerca di identità, al punto da mettere ra- dicalmente in discussione i fon- damenti della relazione teatrale: chi è lo spettatore? Si può anco- ra parlare di attore, oggi? Cosa accade in quel punto di mezzo che permette un loro incontro? Santarcangelo •13 sembra decli- nabile secondo le tante possibili identità di chi guarda: spettato- ri spensierati ballerini di musi- chette nella propria cameretta, ma quella cameretta è una piaz- za (Brian Lobel); trasfigurati nella percezione consueta, a cap- tare un concerto di passi creato da una maratona di ballo senza nessuna melodia udibile (I topi lasciano la nave di Zapruder, film in proiezione quotidiana presentato anche al Festival In- ternazionale del Film di Roma); desideroso di conoscere per an- dare oltre le superfici di quello che si vede e si ascolta, per far- si un’idea magari fallace ma fa- ticosa di quanto viene raccontato (i tanti incontri). Tenere il passo di una diversità apparentemen- te non conciliabile, sembra chie- derci il festival, anche nelle so- vrapposizioni di un programma immenso, in cui fare della per- dita un valore aggiunto. Un’arte teatrale spaesata produce spet- tatori spaesati, anche se qualche volta si sarebbe voluto un affon- do maggiore nei lati oscuri della partecipazione, nell’ossessione a esserci, a dire la propria, a com- mentare ogni cosa. In cerca di un’arte della scena siffatta, siamo pronti per il se- condo weekend, che vi racconte- remo in queste pagine al lavoro da un osservatorio critico che ha sede in Piazza Ganganelli. Il tea- tro che vedremo da oggi a dome- nica ci interroga sulla misterio- sa origine delle cose, guardando all’infanzia come luogo concre- to e metaforico in cui tornare a chiedersi “perché accade ciò che accade?”, con uno specifico per- corso dedicato alla radio. As- sisteremo all’esito di progetti espansi che incontrano il pubbli- co dopo settimane di camminate solitarie dal Tirreno all’Adriati- co (King di Strasse), a spettacoli di artisti internazionali e italia- ni fra teatro e danza, a film e a concerti, per terminare ogni sera nel ballo collettivo del dopofesti- val allo spazio Liviana Conti: la- sciate ogni certezza voi che en- trate! L’OBLÒ ****************** Renate Klett e la crisi del teatro europeo «Mi è sempre piaciuta l’atmosfera di Santarcangelo, il clima politico che riesce a creare col suo approccio al teatro. Di questa edizione mi stanno colpendo l’enor- me quantità di spettacoli e la forma breve in cui molti di essi sono stati presenta- ti; questi stessi elementi, però, hanno forse reso un po’ problematica la fruizione. Quello che cerco è un teatro che esprima un’urgenza forte e, devo dire, faccio sem- pre più fatica a trovarlo a livello europeo. Tenendo presente che è un discorso che non riguarda tutti gli artisti, ho l’impressione che si sia imposta una concezione noiosamente borghese della prassi scenica, proprio in un momento in cui abbiamo bisogno di una scossa. Credo che il regime del benessere nel quale vivono i pae- si europei conduca quasi inevitabilmente a una sorta di pigrizia della creatività. D’altronde, il teatro è uno specchio della società: se pensiamo al dinamismo che caratterizzava gli anni ‘70, notiamo come questo si riflettesse in una miriade di spettacoli stimolanti e pieni di furore, di rabbia. Ciò non vuol dire che non esista- no proposte interessanti e politicamente intelligenti: penso a Teatro Sotterraneo, presente qui, o, in un’ottica europea, ai Gob Squad e alle She She Pop. Avere un approccio politico non significa parlare necessariamente di determinate temati- che, ma ampliare le potenzialità del ragionamento in modo da renderlo urtante per lo spettatore. Occorre non lasciare scampo, far percepire, anche crudelmente, l’impellenza di un discorso che non può essere rimandato. Questa è partecipazio- ne, non la falsità buonista degli spettacoli che si prefiggono come unico scopo il coinvolgimento. Attorno a questo concetto si è creata una retorica veramente in- sopportabile, che non fa altro che applicare il meccanismo della pubblicità al te- atro. Tutti al giorno d’oggi, dalle radio private alla tv spazzatura, vogliono farti sentire importante. Ma si tratta di un finto interesse, che alimenta nel pubbli- co soltanto un narcisismo sterile e tremendamente pericoloso. Anche qui, però, ci sono delle eccezioni: dipende da come si usa la partecipazione e se questa ser- ve per raccogliere materiali da rielaborare in una forma, come faceva All Ears di Kate Mcintosh, che ho apprezzato ». a cura di Francesco Brusa *Renate Klett, critica tedesca, si occupa di teatro e danza nella scena internazionale. Le mille identità dello spettatore Perdersi per comprendere cosa accade quando si guarda Giornale del Festival Approfondimenti critici da Santarcangelo •13 **************************************************************************************************************************************************************** /////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////// ///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO //////////////////////////////////////////////////////////////////// PROGRAMMA Si segnalano, tra gli altri Kate McIntosh Worktable / Scuola Piazza Ganganelli / ore 17.00-23.00 Chiara Guidi/Er- manna Montanari Poco Lontano da Qui + Incontro / Superci- nema / ore 21.30 Valters Silis Legio- nari. Diskusija ar kaušanos / Liviana Conti 1 / ore 22.30 Alessandro Sciar- roni Untitled_ I Will Be There When You Die + Incontro / La- vatoio / ore 19.30 Pathosformel T.E.R.R.Y / Liviana Conti 2,5 / ore 21.30 *** per sfogliare il pro- gramma completo: santarcange- lofestival.com disegno di Marco Smacchia

Giornale del Festival part 2 | Santarcangelo · 13

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Giornale del Festival di Santarcangelo ·13, uscite del 19, 20, 21 luglio con interviste, approfondimenti, rubriche, recensioni dal Festival Internazionale del Teatro in Piazza

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venerdì 19 luglio 2013 santarcangelofestival.com | altrevelocita.it

di LORENZO DONATI

La complicata armonia della po-lifonia. Sembra questa la sfida culturale che ci sta lanciando Santarcangelo •13, dopo averci immerso in un primo weekend di spettacoli, performance, in-contri, concerti, film, dj set. Il verbo di oggi è apparire nelle ap-parizioni altrui, prendere parola su parole non proprie, aggregare gesti in contesti che altri predi-spongono per noi.Nei primi giorni di festival molte sono state le proposte relazionali, in spettacoli che senza il nostro intervento diretto non avrebbe-

ro potuto proseguire: le alzate di mano di All Ears, le telefonate di Agoraphobia, le tracce da lascia-re in Art You Lost? Forme che ri-corrono per una scena in cerca di identità, al punto da mettere ra-dicalmente in discussione i fon-damenti della relazione teatrale: chi è lo spettatore? Si può anco-ra parlare di attore, oggi? Cosa accade in quel punto di mezzo che permette un loro incontro? Santarcangelo •13 sembra decli-nabile secondo le tante possibili identità di chi guarda: spettato-ri spensierati ballerini di musi-chette nella propria cameretta, ma quella cameretta è una piaz-

za (Brian Lobel); trasfigurati nella percezione consueta, a cap-tare un concerto di passi creato da una maratona di ballo senza nessuna melodia udibile (I topi lasciano la nave di Zapruder, film in proiezione quotidiana presentato anche al Festival In-ternazionale del Film di Roma); desideroso di conoscere per an-dare oltre le superfici di quello che si vede e si ascolta, per far-si un’idea magari fallace ma fa-ticosa di quanto viene raccontato (i tanti incontri). Tenere il passo di una diversità apparentemen-te non conciliabile, sembra chie-derci il festival, anche nelle so-

vrapposizioni di un programma immenso, in cui fare della per-dita un valore aggiunto. Un’arte teatrale spaesata produce spet-tatori spaesati, anche se qualche volta si sarebbe voluto un affon-do maggiore nei lati oscuri della partecipazione, nell’ossessione a esserci, a dire la propria, a com-mentare ogni cosa.In cerca di un’arte della scena siffatta, siamo pronti per il se-condo weekend, che vi racconte-remo in queste pagine al lavoro da un osservatorio critico che ha sede in Piazza Ganganelli. Il tea-tro che vedremo da oggi a dome-nica ci interroga sulla misterio-

sa origine delle cose, guardando all’infanzia come luogo concre-to e metaforico in cui tornare a chiedersi “perché accade ciò che accade?”, con uno specifico per-corso dedicato alla radio. As-sisteremo all’esito di progetti espansi che incontrano il pubbli-co dopo settimane di camminate solitarie dal Tirreno all’Adriati-co (King di Strasse), a spettacoli di artisti internazionali e italia-ni fra teatro e danza, a film e a concerti, per terminare ogni sera nel ballo collettivo del dopofesti-val allo spazio Liviana Conti: la-sciate ogni certezza voi che en-trate!

L’ObLò

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Renate Klett e la crisi del teatro europeo«Mi è sempre piaciuta l’atmosfera di Santarcangelo, il clima politico che riesce a creare col suo approccio al teatro. Di questa edizione mi stanno colpendo l’enor-me quantità di spettacoli e la forma breve in cui molti di essi sono stati presenta-ti; questi stessi elementi, però, hanno forse reso un po’ problematica la fruizione. Quello che cerco è un teatro che esprima un’urgenza forte e, devo dire, faccio sem-pre più fatica a trovarlo a livello europeo. Tenendo presente che è un discorso che non riguarda tutti gli artisti, ho l’impressione che si sia imposta una concezione noiosamente borghese della prassi scenica, proprio in un momento in cui abbiamo bisogno di una scossa. Credo che il regime del benessere nel quale vivono i pae-si europei conduca quasi inevitabilmente a una sorta di pigrizia della creatività. D’altronde, il teatro è uno specchio della società: se pensiamo al dinamismo che caratterizzava gli anni ‘70, notiamo come questo si riflettesse in una miriade di spettacoli stimolanti e pieni di furore, di rabbia. Ciò non vuol dire che non esista-no proposte interessanti e politicamente intelligenti: penso a Teatro Sotterraneo, presente qui, o, in un’ottica europea, ai Gob Squad e alle She She Pop. Avere un approccio politico non significa parlare necessariamente di determinate temati-che, ma ampliare le potenzialità del ragionamento in modo da renderlo urtante per lo spettatore. Occorre non lasciare scampo, far percepire, anche crudelmente, l’impellenza di un discorso che non può essere rimandato. Questa è partecipazio-ne, non la falsità buonista degli spettacoli che si prefiggono come unico scopo il coinvolgimento. Attorno a questo concetto si è creata una retorica veramente in-sopportabile, che non fa altro che applicare il meccanismo della pubblicità al te-atro. Tutti al giorno d’oggi, dalle radio private alla tv spazzatura, vogliono farti sentire importante. Ma si tratta di un finto interesse, che alimenta nel pubbli-co soltanto un narcisismo sterile e tremendamente pericoloso. Anche qui, però, ci sono delle eccezioni: dipende da come si usa la partecipazione e se questa ser-ve per raccogliere materiali da rielaborare in una forma, come faceva All Ears di Kate Mcintosh, che ho apprezzato ».

a cura di Francesco Brusa*Renate Klett, critica tedesca, si occupa di teatro e danza nella scena internazionale.

Le mille identità dello spettatorePerdersi per comprendere cosa accade quando si guarda

Giornale del FestivalApprofondimenti critici da Santarcangelo •13

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PROGRAMMASi segnalano, tra gli altri

Kate McIntosh Worktable / Scuola Piazza Ganganelli / ore 17.00-23.00

Chiara Guidi/Er-manna Montanari Poco Lontano da Qui + Incontro / Superci-nema / ore 21.30

Valters Silis Legio-nari. Diskusija ar kaušanos / Liviana Conti 1 / ore 22.30

Alessandro Sciar-roni Untitled_ I Will Be There When You Die + Incontro / La-vatoio / ore 19.30

Pathosformel T.E.R.R.Y / Liviana Conti 2,5 / ore 21.30

***per sfogliare il pro-gramma completo:s a n t a r c a n g e -l o f e s t i v a l . c o m disegno di Marco Smacchia

Le paroLe deL TeaTro

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Teatro e realtàNel 1812, in un teatro di Baltimora, un soldato di guardia all’ingresso spara all’attore che in scena interpreta Otello urlando che in sua presenza «nessun ne-gro potrà mai impunemente uccidere una donna bianca». Negli anni ‘60 le au-torità italiane decidono di vietare la messa in scena del Vicario di Rolf Hoccuth, una pièce che mette sotto accusa i rapporti tra Pio XII e il nazismo. Nel 2011, gruppi di fondamentalisti cattolici cercano di boicottare, in Italia e in Francia, lo spettacolo di Romeo Castellucci Sul Concetto di Volto nel figlio di Dio. In tutti questi casi, pur molto diversi tra loro, il potere o i suoi rappresentanti interven-gono fisicamente sulla rappresentazione, come se si dovesse impedire un delit-to che sta per essere compiuto. Cosa c’è di così insopportabilmente flagrante che accade sulla scena? C’è, semplicemente, il fatto che il teatro accada nel presen-te, con un’azione reale, anche se non sempre realistica (o di un realismo appe-na significato: l’attore che a Baltimora fa Otello è un bianco con la faccia tinta di nero). Di questa tensione dialettica, agonica, drammatica con la realtà, la meno realistica delle arti mimetiche non può fare a meno.C’è una dualità tra il segno e la realtà e il teatro rappresenta il suo conflitto irri-solto. Anche nel momento in cui le simulazioni mediatiche sembrano fagocitare la realtà e risolverla in spettacolo, anche quando la realtà stessa viene presenta-ta come un grande spettacolo, la scena reagisce offrendo un’inaspettata riser-va di senso agli eccessi, alle rimozioni, agli scarti prodotti da questo processo di estetizzazione della vita. Dice che ci sono dei corpi dove il mondo non vede altro che immagini. Afferma che ci sono ancora dei segni dove la percezione corrente vede solo nude vite, corpi abietti. Ritrova l’espressività della parola, la sua carne, dove la società di massa afferma che nella parola c’è solo informazione. E si tra-sforma nel frugale tribunale della contemporaneità. Ma più che decretare giudizi finali, in questo tribunale si fanno risuonare contraddizioni altrimenti inudibili. Ci sono discorsi che soltanto la scena contemporanea sembra in grado di permet-tersi: quello, a un tempo brutale e poetico, sull’addomesticamento della morte in The End di Babilonia Teatri, ad esempio, o quello “grigio” con cui il gruppo Fan-ny & Alexander ha fatto affiorare l’agghiacciante rumore bianco della politica (non solo) italiana. Li ritroverete, forse domani, in qualche film. E pochi sapran-no da dove vengono. Ma non importa. Il teatro anticipa, la realtà che il realismo dei media si affanna a inseguire.

Attilio Scarpellini**Saggista, giornalista e critico. Direttore dei “Quaderni del Teatro di Roma”, fondatore di “Lettera 22”, collabora con Radio Rai Tre.

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Approfondimenti critici da Santarcangelo •13 - Festival Internazionale Del Teatro In Piazza///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO ////////////////////////////////////////////////////////////////////

risonanze

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L’importanza di nominare il mondoVisti retrospettivamente, mi sembra che i primi anni Duemila abbiano coinciso con un momento molto importante per il teatro di ricerca e che ci fosse una situa-zione di vitalità e di equilibrio complessivo. Proprio nel 2002, a Santarcangelo, ci fu un incontro con Luca Casarini, uno dei leader del movimento no-global in Ita-lia, e ricordo che scrissi un editoriale che focalizzava l’attenzione su ciò che sta-va accadendo in quegli anni, sul rapporto tra produzione artistica e realtà. Non mi riferisco esclusivamente a un reale ‘politicante’, ma a un reale più esteso. Al problema di come nominare il mondo attraverso la trasfigurazione artistica dello sguardo e di dove collocarsi. Professionalmente e moralmente. Io credo che l’uni-co modo per fare tutto questo oggi sia quello di elaborare delle forme non medie di racconto, essere radicalmente al passo con i tempi, guardare lo scenario so-ciale e geopolitico complessivo e confrontarsi con il rapido cambiamento di ‘stru-menti tradizionali’, come la critica e la scrittura. Per esempio, produrre un’opera in uno spazio occupato e non in uno stabile riconosciuto non la rende positiva a prescindere. Bisogna avere un’esigenza critica rispetto al proprio lavoro e a quel-lo di questi luoghi, presunti liberi o liberati. Perché aldilà della retorica del ‘bene comune’, c’è un problema di terminologia di cui dobbiamo preoccuparci senza che passino slogan: la cultura è come l’acqua? O è piuttosto il luogo del conflitto?

Alessandro Leograndescrittore e giornalista, ha diretto il “Quaderno del Festival” nel 2002

T.E.R.R.Y. di PathosformelStrategie di crescita e competizione

di serena TerranoVa

Distruzione creativa. Ov-vero: è possibile rifondare un sistema economico con uno slancio di immagina-zione? È possibile valer-si in questo percorso del-la capacità di astrazione dell’infanzia? Pathosfor-mel, formazione composta da Daniel Blanca Gubbay e Paola Villani, ha lavora-to fianco a fianco di bam-bini di età compresa fra gli 8 e i 10 anni: non solo un gruppo di attori, non esclusivamente un pubbli-co a cui rivolgersi, ma veri co-autori di un progetto che discute il sistema eco-nomico che attraversiamo nel nostro presente. Ma il progetto T.E.R.R.Y, che prevede questa sera il de-butto nazionale dell’omo-nimo spettacolo, è artico-lato in più “esperimenti” che proviamo ora a guar-dare da più vicino.La compagnia è infatti una delle presenze quo-tidiane di Santarcange-lo •13, con la proposta di due opere presenti dal pri-mo all’ultimo giorno di fe-stival. La prima è allestita presso la grotta municipa-le di Santarcangelo: un’in-stallazione luminosa vi-sitabile dalle 20 alle 24 alimentata da un genera-tore di elettricità che non

recensioni

La non-scuola a Santarcangelo / Dopo tre anni di non-scuola a San-tarcangelo, mercoledì sera i 39 adolescenti guidati da Alessandro Argnani e Anna Lisa Magnani hanno replicato il loro Pinocchio in una piazza Ganganelli stracolma di pub-blico. Opera del Teatro delle Albe di Ravenna, la non-scuola è un laboratorio per ra-gazzi fondato su una pratica teatral-pedagogica ormai consolidata, ma non per que-sto incapace di stringere saldi legami con ogni città in cui approda. Anzi, il Pinocchio di Santarcangelo •13 è riuscito a farlo con dei notevoli scardinamenti, dall’inedito ri-schio di replicare lo spettacolo sul palco principale del Festival, dopo il debutto di mar-zo al Lavatoio, alla presenza in scena della guida Argnani e dell’insegnante assistente Damiano Folli a impersonare, giocando coi loro significati, i rispettivi ruoli del mastro Geppetto che modella e dà vita al bambino-marionetta e del Mangiafuoco che terroriz-za i suoi allievi-alunni. Ma a saldare il legame tra la non-scuola e Santarcangelo è sta-ta soprattutto l’invasione a sorpresa della coreografia Clima di MK durante la scena di Francesco l’Immobile, un’interazione con un’altra opera del Festival e con la città che lo rende possibile, collocata tra l’altro intorno al già radicale gesto del bambino fer-mo a braccia conserte sul palco. Radicale quanto la scelta di un festival internazionale di teatro di far salire la fragilità di 39 bambini sullo stesso palco in cui il pubblico ha assistito, ad esempio, alla danza concettuale di Mårten Spångberg e alla straordinaria prova d’attore di Danio Manfredini: un atto d’amore, quello della direzione artistica, verso la città e verso ciò che il teatro le può regalare anche fuori dal palcoscenico.

Alex Giuzio

Yes Sir, I can Boogie / Arrampicandosi verso le Rocche malatestiane, si entra in un palazzo dove una giovane ragazza offre un aperitivo preparato dal padro-ne di casa e poi fa accomodare nelle sedie barocche ma comode di un ampio salotto. Il Festival è solito entrare nelle case di Santarcangelo: qualche volta per fare inchiesta e capire cosa pensano gli abitanti ogni anno attraversati, strictu sensu, dal teatro di ri-cerca; altre volte, ed è il nostro caso, per ospitare il lavoro degli artisti. Nel salotto di Mons Jovis c’è ad esempio il film di ZAPRUDERfilmakersgroup, che sin dalle pri-me immagini rievoca uno dei ricordi più vivi della scorsa edizione del Festival: sullo schermo – ripreso dall’alto con una rigorosissima e risolutiva camera fissa – c’è il palco dove l’anno scorso si sono sfidate 27 coppie di ballo liscio per I topi lasciano la nave. Il pubblico era privato della musica ma i ballerini erano tutti dotati di cuffie, e il suono di piazza Ganganelli sembrava quello di un film quando si sente solo il pavimento calpe-stato. La giuria progressivamente selezionava le coppie da far proseguire nella compe-tizione, ma lo spettacolo era costruito in modo che il rumore della pedana fosse costan-te. Il ritmo serrato dei tacchi sul palco, il ballo vorticoso dei vestiti da liscio, il pubblico incuriosito e stupito, e nessuna musica: un campionamento ambientale perfetto, ot-tenuto attraverso uno spiazzamento? I topi lasciano la nave, film di Zapruder (in pro-gramma in più repliche fino al 21 luglio) ricostruisce una verità, restituendo una qua-lità rarefatta e preziosa di quell’esperienza; cambia l’angolatura, forza lo sguardo del pubblico portato ad ascoltare il palco. Non ci sono distrazioni, rimane l’evocazione di quei topi che scappano dalla nave, e l’immagine muta di un potente boogie.

Nicola Ruganti

rilascia energia sufficien-te per tutte le lampade a esso collegate. Qui si so-sta su un modello basico, si indaga un contesto nel quale le necessità dei sin-goli sono superiori alle ri-sorse messe a disposizione naturalmente. Le lampa-de si contendono l’energia in circolo, creando un si-stema dinamico ma stabi-le di distribuzione dei watt disponibili. La seconda “opera” sperimenta il com-portamento di piante infe-stanti dotate di peculiari strategie di adattamento al clima e al terreno, ma anche di una propria ag-gressività. “Piantato” cir-ca quattro mesi fa, l’orto è ancora visitabile dalle 9 alle 24 ai piedi del paese, in Via del Coppo.Ma c’è anche un ter-zo esperimento, ulterio-re luogo di osservazione agìto completamente da bambini dopo un laborato-rio con i due artefici. Con loro, i Pathosformel ap-procciano il modello della “Creative distruction”, la riformulazione di un siste-ma possibile conseguente all’abbattimento del mo-dello presente. Avendo a disposizione alcune sedie pre-costruite con pannel-li smontabili, veniva pro-posta una situazione nel-la quale per dieci bambini

ne erano predisposte solo nove. Ciascuno di loro, ri-spondendo al fatidico “Che cosa vuoi fare da grande?”, è stato invitato a trascri-vere il nome della profes-sione sullo schienale delle sedie, ma siccome non era disponibile un posto per tutti entrava in in campo la competitività, con stra-tegie individuali per inse-rirsi nel “sistema”: come fare in modo, allora, che tutti riescano in ciò che desiderano, se non smon-tando le sedie per tentare di riformulare le regole? Dopo discussioni inter-ne tra i bambini, alle qua-li i due artisti assistevano senza intervenire diretta-mente, viene proposto ai partecipanti di farsi con-duttori di un’ultima parte di laboratorio, riproponen-do le medesime condizioni a bambini “ospiti” loro coe-tanei, facendosi ora giude consapevoli per un nuovo processo di riformulazione del sistema.Quello che vedremo in sce-na a partire da stasera alle 21.30 allo spazio Li-viana Conti (in replica fino a domenica), è la formula-zione performativa dei tre esperimenti: energia elet-trica, botanica e infine l’anarchia infantile entra-no a far parte di un’opera teatrale. disegno di Giorgia Cecchini

sabato 20 luglio 2013 santarcangelofestival.com | altrevelocita.it

Il teatro e il mistero dell’infanzia

Giornale del FestivalApprofondimenti critici da Santarcangelo •13

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Spettacoli, laboratori e progetti speciali: una scena in ascolto dei bambiniCosa chiede il teatro ai bambini? Cosa chiedono i bambini al teatro? Il festival di Santarcangelo cerca di smuovere al suo interno questi interrogativi, appoggiandosi a com-pagnie che da qualche tempo stanno sviluppando un percorso forte su e con l’infanzia. Pathosformel, Teatro Sotterraneo, Fanny e Alexander, Sacchi di Sabbia hanno fatto di questo elemento un vero e proprio cardine della loro produzione recente. Ora attraverso attività di laboratorio, ora affrontando la tematica nella rappresentazione, ora in spet-tacoli dove il palco è occupato da gruppi di giovanissimi, le esigenze dell’infanzia e le urgenze della scena si intrecciano in un legame che diventa fonte di crescita per l’una e occasione di rigenerazione per l’altra. Lo sguardo del bambino si è rivelato un alleato prezioso per il teatro, portatore di domande che incrinano le certezze a un tempo di attori e spettatori. I protagonisti di questa ricerca ci spiegano allora qual è il loro rapporto con un terreno tanto misterioso quanto fecondo. Alla loro si aggiunge la voce di Alessan-dra Belledi del Teatro delle Briciole, struttura che con il percorso “Nuovi sguardi per un pubblico giovane” ha prodotto le opere di alcuni di questi gruppi.

Pathosformel«All’interno del nostro percorso è stato piuttosto azzardato intraprendere una relazione creativa diretta con i bambini. Nella performance del progetto T.e.r.r.y. i bambini sono autori delle proprie azioni e delle forme proposte, elaborate da loro stessi nei laboratori che precedono il de-butto. Questo porta dentro l’opera una materia incontrollabile, un’indetermi-natezza con cui nei nostri lavori non ab-biamo avuto a che fare fino ad adesso. Il laboratorio è per noi un luogo sperimen-tale in senso stretto: creiamo un contesto e vi inseriamo un elemento che lo possa modificare. La domanda che poniamo ai bambini è “come immaginate il futuro”, e gli chiediamo così di costruire un nuo-vo mondo possibile, che abbia anche delle nuove regole, diverse da quelle del mon-do attuale, basato su un sistema econo-mico nel quale le richieste sono superiori alle risorse disponibili. Vogliamo sapere da loro qual è il sistema di relazioni nel quale gli piacerebbe vivere, se avessero la possibilità di distruggere il presente».

Alessandra Belledi / Teatro delle Bri-ciole di Parma«Il nostro lavoro è preliminare all’andare a teatro: agli spettatori bambini occorre insegnare come andarci. Dobbiamo inse-gnare loro a sospendere il rumore e a fare silenzio una volta entrati, fare loro capi-re che stanno per entrare in una dimen-sione di extraquotidianità. Questo va un po’ indotto, altrimenti pretenderanno di trovarsi come al cinema con la merenda e la coca-cola in mano. I bambini non sono gli spettatori del futuro ma del presente. Siamo abituati sempre più a consumare tutto, anche l’arte, per questo è necessa-rio educare chi guarda. L’esperienza che i bambini potranno vivere dentro al teatro li allontanerà dal frastuono, dal multita-sking, facendogli fare un’azione di vita vera. La relazione teatrale diventa in-somma sempre più vitale. E questo vale anche per gli adulti. Il teatro per l’infan-zia, semplicemente, esalta ciò che vale per tutti: per i bambini e per gli adulti la relazione va portata avanti in un modo più attento».

Chiara Lagani / Fanny&Alexander«Nel percorso di Fanny & Alexander la riflessione sull’infanzia come luogo specifico e di elezione c’è sem-pre stata, ne abbiamo fatto uno degli archetipi fon-damentali della nostra produzione artistica. Spesso il teatro guarda al bambino come organo propulsivo della creatività e della vitalità, alla sua capacità di stipulare il contratto ludico e di immedesimarsi con una versatilità priva di membrane protettive. Que-ste sono metafore generative per il teatro, chiunque di noi vorrebbe essere così poco protetto e così puro ri-spetto a una visione. Per gli spettacoli Discorso Gial-lo e Giallo - Radiodramma dal vivo, invece, l’infanzia non è solo un luogo simbolico, ma è uno spazio concre-to che abbiamo dovuto attraversare chiedendoci cosa significasse educare e cosa sia l’educazione. Doman-de che abbiamo voluto rivolgere direttamente ai bam-bini, soggetti privilegiati di questo processo misterio-so e complesso, che a loro volta ti pongono di fronte a quesiti sconvolgenti, dal punto di vista artistico e umano».

Teatro Sotterraneo«Dal momento che molte delle esperienze che faccia-mo sono mediate, si può dire che la nostra vita non sia più fisica, immersa come è in un sistema di codici. Anche il teatro è un codice ma prevede la presenza, per questo può essere una palestra che allena a rico-noscere altri codici, per capire quale manipolazione sia in atto, che tipo di realtà venga proposta.Al bambino che lavora con noi per Be Legend! abbia-mo esteso lo stesso lavoro di simulazione che prati-chiamo nel nostro teatro. Gli abbiamo raccontato la storia di Amleto, per poi chiedergli di dimenticarla o prenderne ciò che voleva e infine costruire una do-cufiction del bambino-Amleto. Lavorando con attori professionisti, spesso affiora la domanda sul perché si stia facendo una determinata azione. È la doman-da che a noi interessa meno, facendo teatro. Nessun bambino ce l’ha mai posta, perché quel tipo di scarto appartiene all’infanzia naturalmente. Così è il bam-bino che nutre noi, non viceversa, nel momento in cui gli facciamo richieste legate al gioco teatrale».

Giovanni Guerrieri / I Sacchi di Sabbia«Guardare all’infanzia è frutto di una lunga metabo-lizzazione. Come molti gruppi a noi coetanei (il nostro primo lavoro è del ‘95), ci siamo trovati dentro a un indagine feroce del quotidiano. Ci muoveva un sen-so di asfissia, l’urgenza di guardare le cose con fero-cia facendo i conti con i nostri pregiudizi sulla realtà. L’ansia di “urlare” diveniva pressante, e con 1939 (che ha debuttato nel 2007) per la prima volta è comparso Emilio Salgari: a un certo punto un personaggio dice-va «ci vorrebbe un Salgari che ci raccontasse...». San-dokan (2008) ha dunque indagato un materiale caro per la nostra formazione, verso una dimensione bio-grafica, e da quel momento si è aperta una falla che ci ha spalancato la via al mondo dell’infanzia. Con Pop up, portato qui al festival, cercavamo uno spet-tacolo per bambini in grado di funzionare anche per noi, che siamo adulti. La sfida consisteva nell’elimi-nare l’ingombro dei corpi per rendere il segno pulitis-simo, una pennellata essenziale che chiama il bambi-no a un movimento con la fantasia».

disegno di Giorgia Cecchini

Le paroLe deL teatro

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Lo spettatore del futuroNella sua accezione più stringente, l’infanzia definisce quell’età della vita in cui ancora non è subentrato il linguaggio. Sebbene sia dimostrato che gli infanti com-prendono già un repertorio di diverse parole assai prima di saperle pronunciare, l’infanzia è generalmente intesa come momento prelinguistico. In questo momento il bambino, rispetto al mondo, è dominato da appetiti e incan-ti liberi dal senso e dalle conseguenze. Prima dei “perché?” e degli “e poi?” la mi-sura del mondo è tutta fatta di stupori e ripetizioni. Lo stupore e la ripetizione: ovvero il desiderio del pubblico e il destino dell’attore. In questo dunque l’infante è virtualmente sia lo spettatore del futuro che l’attore del futuro: da un lato chie-de allo spettacolo del mondo uno stupore continuo, dall’altro il movimento della ripetizione gli appare come forza decisiva a scandire qualcosa come un ritmo (e non un tempo).Lo stupore ha, rispetto ad esempio alla complicità e al compiacimento intellet-tuale da una parte, e all’antagonismo e al rancore dall’altro, una pura gratui-tà com’è quella dell’amicizia. Lo stupore del bambino è totalmente libero e disin-teressato, non conosce, di fronte all’arte, che la sua meccanica semplicissima e perfetta cui il corpo immediatamente risponde con tutti i segni dell’entusiasmo. Categorie come tradizione e ricerca, avanguardia e passato non hanno alcun va-lore, e dunque prevedere cosa stupirà l’infante non è dato che a uno sguardo at-tento e preciso.Raggiungere questo stupore è cosa difficilissima ed elementare, com’è poi sem-pre raggiungere l’esattezza. Chissà se il Festival di quest’anno, col suo richiamo esplicito all’infanzia, ha raggiunto questa esattezza. Che l’abbia cercata lo proiet-ta già, in ogni caso, nel futuro che appartiene al bambino.

Annalisa Sacchi** Studiosa delle arti sceniche contemporanee, è docente presso Harvard University

Se è vero che quando parliamo di crisi del te-atro facciamo i conti con la storia del teatro, e che questa storia riflette una trasformazio-ne radicale della società (chiamatela la nuova tecnocrazia globale) fatta di un uomo/spetta-tore nuovo, ipermediato e mutato (chiamatelo post-uomo), allora una possibile strada di ri-cerca e impegno oggi può essere il teatro per l’infanzia.Un teatro per i “piccoli” pone da subito una do-manda politica e pedagogica, perché il prossi-mo dello spettacolo non è uno spettatore, nè un simile, nè un user iscritto alla stessa comuni-tà , ma è “l’uomo che verrà”. Non è un caso che non solo a teatro, ma anche nei buoni e utili li-bri e film dei contemporanei italiani e stranie-ri, il tema dell’infanzia e dell’adolescenza sia sempre più un comune denominatore, un’ur-

genza pressante. Artisti e opere sembrano in-terrogarsi sul futuro tentando di rispondere alla domanda ultima, in un mondo ormai ir-rimediabilmente guastato da merci e profitto, che si faceva il filosofo Baudrillard prima di morire: «Perché non è ancora scomparso tut-to?». Forse questa è la più grande opera d’ar-te dell’umanità: la compresenza dell’istinto di morte e di distruzione (dell’ambiente ad esem-pio) e dell’immaginazione di un futuro, in ogni nuova vita e nuova nascita. Il teatro salvato dai bambini è quello che propone una visio-ne verticale e non schiacciata sull’orizzontali-tà della relazione, quello che in sostanza e ve-rità non è nient’altro che un gioco. Un teatro che possa davvero proporre il cambiamento e la crescita di tutti, non solo dei bambini.

Nicola Villa

recensione

Pop Up dei Sacchi di Sabbia

Il buio si è diradato da poco. Appeso a testa in giù c’è un microfono che oscilla sul palco. Mentre tra un dondolio e l’altro, troppo prese dalle proprie parole per accorgersi del movimento, le voci di due attrici (le brave Beatrice Ba-ruffini e Serena Guardone) colgono a tratti la possibilità di amplificarsi. E il racconto singhiozza: «Un pallino / ha iniziato a correre / una capriola grandissima!».«Mamma, ma non era la storia di un burattino di carta?», sussurra una bambina dalla platea. Quasi. Questa è la storia di un fossile dell’animazione, di un viaggio raccontato con una carta dinamica e un po’ chiacchierona. Ma è anche il confronto tra un bambino e il suo “Io” a colori. Ci sono quaderni monocromatici a tre dimensioni, da cui partire per l’universo e iniziare a formarsi; dalle loro pagine per prima cosa sbucano due identiche palline. Ed eccoli poi, i corpi dei protagonisti: lui da una parte e la sua piccola sfera emotiva dall’altra. Così, di foglio in foglio, chi os-serva passa da uno stato emotivo all’altro fino a entrare nel bosco di carta di Cappuccetto Rosso dove il bambino sosta di fronte a un lupo bianco di cellulosa. E percepi-sce paura e tristezza, ultime tra le sensazioni tridimen-sionali. Pop up. Un fossile di cartone animato, realizzato a Santarcangelo •13 dalla compagnia I Sacchi di Sab-bia, è uno spettacolo di teatro ragazzi dalla delicatezza rara. La stratificazione cartacea e il dinamismo dei libri pop-up (realizzati da Giulia Gallo) hanno il compito di condurre la platea bambina all’interno della dimensio-ne rituale del teatro. Luogo in cui non si ripristina, ma si fonda un patto quando, come in questo caso, lo spetta-colo intavola il dialogo con una precisa fascia d’età: quel-la di bambini tra i 3 e i 6 anni. Coloro che sicuramente hanno già avuto modo di confrontarsi con percorsi lin-guistici che coniano finzioni d’altro tipo rispetto a quella teatrale: televisione, computer, videogiochi. Allora, spo-standosi dalla saturazione visiva e sonora odierna, sulla scena si afferma la scelta di un immaginario essenziale. Necessario non solo all’infanzia.

Francesca Bini

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Approfondimenti critici da Santarcangelo •13 - Festival Internazionale Del Teatro In Piazza///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO ////////////////////////////////////////////////////////////////////

PROGRAMMASi segnalano, tra gli altri

Artisti S•13 Incon-tro Il futuro ti pas-sa accanto. La furia dell’infanzia nel ven-tre dell’arte / collAA/Sferisterio / ore 15-19

lacasadargilla/Muta Imago/L. Brinchi e R. Za-nardo - Santasan-gre/Matteo Angius Art you lost? / Scuo-la Piazza Ganganelli / ore 16-24

Radio Gun Gun / Piazza Ganganelli /ore 19 / Live showcase di RYF - Francesca Morello

Teatro Sotterraneo Be Legend! / Livia-na Conti 2 / ore 19 /// Be Normal! / Liviana Conti 2 / ore 21

ZimmerFrei / pre-sentazione + pro-iezione Il Campo + Incontro / Piazza Ganganelli / ore 21.30

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per sfogliare il pro-gramma completo:s a n t a r c a n g e -l o f e s t i v a l . c o m

L’obLò

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Marino Sinibaldi e la radio per l’infanzia«I bambini di oggi sono esposti a qualsiasi tipo di messaggio. Compito della radio è lavorare sulla qualità dei contenuti, e se oggi risulta economicamente difficile produrne di nuovi, possiamo recuperare le grandi narrazioni nella tradizione ita-liana del racconto per l’infanzia, uno dei generi letterari più innovativi del nostro paese. Dal punto di vista della forma, inoltre, la radio è in grado di recuperare la dimensione del racconto che scatena l’immaginazione a partire da un solo senso. L’infanzia, al contrario dell’adolescenza, è ancora naturalmente predisposta alla pratica dell’ascolto, ma purtroppo oggi anche i bambini in età prescolare hanno a disposizione quelle forme di narrazione visiva che trascurano l’esperienza con-divisa dell’udire. La sfida del racconto orale nella contemporaneità ha dunque il compito di fare dell’ascolto una pratica resistente. In passato questo non accade-va, dato che l’udito era l’unica percezione su cui il narratore poteva lavorare. Se l’oralità post televisiva intende oggi ricreare quelle dimensioni di concentrazio-ne, oltre che sulla qualità dei contenuti deve però porre attenzione sulla voce, la lettura e il suono. Tuttavia rimane un aspetto problematico legato al palinsesto: oggi non possiamo più individuare un tempo preciso che il bambino può dedica-re all’ascolto, perché lo spazio della narrazione è rubato dalle tante altre attività che i giovanissimi sono chiamati o costretti a fare. Solo in passato la televisione e la radio erano certe che il pomeriggio dell’infanzia aveva lunghi spazi vuoti tra la scuola e i compiti. Per questo oggi è importante costruire dimensioni di ascolto libero, come fa il podcast e come può fare la creazione di una dimensione di ascol-to dal vivo. A questo proposito, la radio e il teatro sono intimamente in relazione: la radio è l’unico mezzo che ancora dedica attenzione al teatro, e viceversa, per-ché entrambe sono accomunate da una modalità di narrazione diversa, per tempi e modi, da quella dominante. Tale eccentricità genera un affine destino che non è di marginalità, bensì di innovazione continua: sia la radio che il teatro sono lin-guaggi che, se non continuano a innovarsi e a cercare il loro spazio, rischiano di essere cancellati dal disinteresse delle istituzioni».

a cura di Alex Giuzio(si ringrazia Debora Pietrobono)

* Marino Sinibaldi è direttore di Radio Rai 3

Il teatro salvato dai bambini

STANZA D’ASCOLTO //////// in collaborazione con Piccolaradio – Rai Radio 3Luogo d’ascolto di lavori radiofonici che si rivolgono direttamente ai bambini (ore 19-21) o che attraversano in maniere differenti il mondo dell’infanzia (ore 21-23).Musas, da venerdì 19 a domenica 21, dalle 19.00 alle 23.00

disegno di Marco Smacchia

Domenica 21 luglio 2013 santarcangelofestival.com | altrevelocita.it

Giornale del FestivalApprofondimenti critici da Santarcangelo •13

//////////////////////////////////////////////////////////// FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL TEATRO IN PIAZZA ///////////////////////////////////////////////////////////

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Santarcangelo •13 chiude oggi, proponendo agli spettatori un programma con oltre venti appuntamenti fra spettacoli, incontri, laboratori, concerti. Il festival si è aperto con il corpo e la voce di Nino Pedretti e Silvio Castiglioni e questa notte si chiude con il dj set di Strasse allo spazio Liviana Conti: una via della molteplicità punteggiata da questioni cruciali che la direzione artistica, ci sentiamo di dirlo, sembra aver centrato in pie-no, perché presentate come domande in atto: dove va la coreografia, cosa chiede il teatro allo spettatore, come gli occhi dell’infanzia mettono in discussione lo sguardo dell’arte. Dopo due anni, ora è chiaro come Santar-cangelo •12 •13 •14 si possa permettere la vitalità del molteplice grazie alla sua vocazione critica, perché os-serva il teatro e lo fotografa nelle sue difficoltà, senza celarle in rassegne “best of”. I primi due anni di semina sembrano avere contornato il festival attorno a un teatro che gli appartiene, per fare in modo che all’arte sce-nica che accende questioni corrisponda un festival in grado di contenerle. Ma si potrebbe immaginare il per-corso inverso? Si può pensare a Santarcangelo come pungolo contro la crisi del teatro? Possiamo supporre che sia l’idea stessa di festival a essere in grado di generare, sostenere e far crescere il teatro del futuro?

Osservatorio Critico S •13

Le recensioni

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Sciarroni / Strasse / Chai-gnaud / Rober-to Magnani / Teatro Sotter-raneo / Patho-sformel / Fanny & Alexander

Articoli a pagina 2

di NICOLA RUGANTI

Si intercettano e arri-vano con grande poten-za i segnali dell’assesta-mento post sovietico. Non è per niente un caso che un regista lettone, Val-ters Silis, metta in scena a Santarcangelo •13 la ri-elaborazione di una ferita dell’orgoglio nazionale, la decisione del parlamento svedese nel 1946 di estra-dare 168 legionari balti-ci su richiesta dell’Unione Sovietica.I soldati – con il ritor-no dell’Unione Sovietica in Lettonia, Estonia e Li-tuania, dopo l’invasione nazista dell’“Operazione Barbarossa” – furono rim-patriati: fino alla morte di Stalin le repressioni delle spinte indipendentiste e le deportazioni in Siberia fu-rono attuate con estrema durezza.Legionnaries viene defi-nito in scena dai due per-sonaggi Karlis e Calle un lavoro di teatro post-dram-matico: «Can you imagine that? Potete immagina-re che dietro alle bandiere della Germania nazista, dell’Unione Sovietica, del-la Svezia e della Lettonia – che occupano quasi tutto il fondale – ci sia la Secon-da guerra mondiale?»

Generare il teatro del futuro

PROGRAMMASi segnalano, tra gli altri

Radio Gun Gun / Piazza Ganganelli / ore 19.00

Alessandro Sciarronipresentazione + PARA-TA / Piazza Ganganelli / ore 21.30

Davide Tidoni / Sata-nassi e Meteor Con-certo e dj set /Parco Cappuccini / ore 21.30-23.30 [Parte del pro-getto King: la serata prosegue al Dopofe-stival / Liviana Con-ti / con una camminata verso le spiagge di Tor-re Pedrera]

***per sfogliare il programma completo:s a n t a r c a n g e -l o f e s t i v a l . c o m

Disegno di Marta Iorio / Progetto Stripsodiana - Santarcangelo •13

segue a pagina 2

Tra la scenae la politica

(segue dalla prima)

Mentre vediamo il lavoro di Silis (oggi a Liviana Conti, ore 21.30) e ci interroghia-mo sulle responsabilità e le ricadute del-la politica nazionale e internazionale sulle persone, quella italiana è scossa dal terre-moto kazako: un altro assestamento post sovietico, ma che ha preso una piega di-versa dall’orientamento repubblicano ed europeo dei paesi baltici. Il pasticcio della politica italiana è sottoposto esattamente alle stesse regole e soprattutto alle stes-se domande sull’interpretazione delle li-bertà e delle garanzie individuali in una società complessa. Alma Shalabayeva e la figlia Alua di 6 anni, moglie dell’ex mini-stro e banchiere kazako Mukhtar Ablya-zov è stata espulsa, e si è consumato un pasticcio di politica internazionale. Quan-ta connivenza tra oligarchie del denaro in questa tela? Che cos’è il Kazakistan, ol-tre che un’importante fonte di approvvi-gionamento per le sue risorse di gas e pe-trolio? Come si definisce uno stato libero dall’Unione Sovietica che non intraprende

Teatro e politicaBe normal. Can you imagine that?

Tra i progetti speciali di Radio e infanzia (che pro-segue fino a oggi nelle sale del Musas dalle 19), Peda-gogia scherzosa di Ro-berto Magnani del Tea-tro delle Albe è l’occasione unica – e prima assoluta – per un ascolto pubblico di alcuni testi, tradotti per la prima volta, che il grande pedagogo polacco Janusz Korczak realizzò per la ra-dio negli anni Trenta nella forma, oggi inconcepibile, di un programma esclusi-vo per bambini e ragazzi.La figura di Korczak (al-lievo di Pestalozzi, il pa-dre della moderna edu-cazione, e promulgatore delle nuove tecniche peda-gogiche negli stessi anni della Montessori) è legata all’esperienza della Casa degli Orfani del Ghetto di Varsavia e alla tragi-ca morte, insieme ai suoi bambini, nel campo di con-centramento di Treblinka. Le parole del Dottor Kor-czak, interpretate da Ma-gnani nel giusto spirito energico e assertivo, sono scandalose, ironiche e at-tuali: si spazia dal catalogo esilarante delle cure del-le ferite di gioco, ai severi ammonimenti per diven-tare bravi cittadini, fino ad arrivare ai messaggi agli adulti, perché “il bam-bino è come uno stranie-ro” di cui bisogna rispet-tare anche l’ignoranza.

Nicola Villa

Giallo è il colore di un in-trigo in cui le voci prove-nienti da un luogo impre-cisato (la radio) discorrono con la presenza di un’at-trice di fronte ai nostri oc-chi. Nell’audio si ribaltano i ruoli: «Buongiorno ragaz-zi, sono il vostro nuovo ma-estro», ma la voce appar-tiene a qualcuno che non avrà che dieci anni. Nel-la visione il racconto incri-na l’identità di chi guarda: - «Adesso facciamo l’appel-lo: Elena!» «Presente» - ma a rispondere inizialmente è il pubblico. La maestra ha un problema: una crea-tura è in difficoltà e forse i bambini possono aiutarla. Gli alunni vengono lascia-ti soli con la bestia: ridono, scherzano, piangono per la paura. S’intuisce che la creatura è un attore con la maschera da orango. Il ra-diodramma live di Fan-ny & Alexander (doppia replica stasera) c’invita a scalare una montagna cul-turale, quando la maestra chiede ai bambini: come spieghereste all’anima-le il significato di “nero”? Cosa fate quando non ca-pite una cosa? Cosa vuol dire per voi punire? E edu-care? Orologeria ad alto potenziale narrativo per chi ascolta (a che gioco sta giocando la maestra?), cor-tocircuito con un’educazio-ne come spazio di utopia per chi guarda.

Lorenzo Donati

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Approfondimenti critici da Santarcangelo •13 - Festival Internazionale Del Teatro In Piazza///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO ////////////////////////////////////////////////////////////////////

L’obLò

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Piergiorgio Giacchèe la committenza sociale«Il vero nodo gordiano che caratterizza la situazio-ne contemporanea è la commistione, costantemente in crescita, fra teatro e performance. Oltre ad aver dato frutti innegabili sul piano degli incastri del lin-guaggio, cosa che certamente continua a fare, tale commistione fornisce però anche un passaporto di li-quidità alla Bauman, che è stato assorbito da tutti, diventando un fenomeno endemico. La performance porta con sé caratteristiche di accessibilità e demo-craticità che schiudono nuovi orizzonti ma, allo stes-so tempo, degradano e confondono. Si è prodotta una concezione per la quale qualsiasi attività, anche la sagra del gnocco fritto, per fare un esempio estre-mo, è cultura. Io credo che questa situazione risponda a una nuo-va committenza sociale. È convinzione comune che, dopo la polis, la borghesia e la post-borghesia (cia-scuna delle quali ha imposto un certo tipo di tea-tro), sia venuto da tempo a mancare un committente sociale nell’arte. Si tratta di una sensazione anche di grande autonomia, di estrema libertà nella prati-ca estetica. Tuttavia, a mio modo di vedere, la glo-balizzazione, intesa come mercato, è il nuovo com-mittente sociale. Essa sta fornendo da anni materia prima e indicazioni seconde al teatro e, a meno che non cambino i suoi meccanismi interni, imporrà la dimensione performativa “liquida” come lo spettaco-lo vivente dell’oggi e del domani. Nessuno scandalo: l’arte ha sempre tratto linfa vitale da queste dina-miche, ma, se l’analisi è corretta, diviene necessa-rio acuire il senso critico e l’attenzione verso la qua-lità, anche nel senso di contributo professionale. Il laissez passer predominante oggi, che poi non è al-tro che un modo per fornire merce nuova al mercato, è troppo comprensivo, benedice tutto e tutti. Occor-re allora non dimenticarsi mai di interrogare le ope-re su una questione fondamentale: sei controtempo? Vale a dire: cosa mi hai dato criticamente ancor pri-ma che esteticamente?».

a cura di Francesco Brusa

* antropologo e critico teatrale

Cosa resta del segno quan-do lo si è svuotato di qual-siasi referenza? Cosa resta dell’uomo se viene ridot-to a pianta o macchina? T.E.R.R.Y. dei Patho-sformel (in replica questa sera alle 21.30 presso lo spazio Liviana Conti) è un algoritmo minuziosamen-te strutturato, in cui gli estremi si toccano fino a collimare l’uno nell’altro. L’atmosfera postatomica e fortemente fantascien-tifica in cui è immersa la scena è anche il rifles-so di un’alba primordiale, dove la completa distru-zione dei fatti convive con lo schiudersi delle loro po-tenzialità inedite.Pur nella glaciale preci-sione compositiva, non c’è disincanto, ma lo sguar-do lieve del bambino niet-zschiano che faticosamen-te prova a ricostruire sulle macerie. Si genera così un universo immaginifico au-tosufficiente, sorprenden-temente pieno di senso proprio nell’esatta misu-ra in cui totalmente privo di significato. La rischio-sa radicalità del linguag-gio, che conduce il con-tenuto del discorso sulla soglia del suo annienta-mento, diventa allora con-dizione necessaria per re-cuperarne la purezza, in cui risuona la potente eco di domande sempre più ineludibili.

Francesco Brusa

Dopo 17 giorni di cammi-no da Castiglioncello a Santarcangelo, la compa-gnia Strasse ha allesti-to al Parco Cappuccini un accampamento e lo spetta-colo King. Il lavoro, anco-ra in fase aperta, accende alcune questioni sull’arti-sta che mette in discussio-ne sia il concetto di opera conclusa che i confini del percorso per raggiunger-la, ma anche sulla scelta di un festival internazio-nale di ospitare un prodot-to dalle maglie così ampie. King ci fa prima ammira-re il paesaggio escludendo il teatro, poi ci reimmer-ge nella rappresentazio-ne con una serie non cora-le di performance, infine si conclude con un’altra fase di contemplazione. Qual è, allora, la materia in cam-po? Siamo davanti a una domanda artistica sul pro-cesso creativo? O stiamo assistendo a una tempo-ranea uscita dall’arte per fare ricerca in una dimen-sione più intima e natu-rale? E se è così, qual è il ruolo dello spettatore che entra in questa fase di me-ditazione, dal momento che siamo invitati a far-lo? Cosa si guadagna assi-stendo a ciò che è presen-tato come un processo, ma che appare in forma pre-costruita? Questioni che King pare non voglia risol-vere.

Alex Giuzio

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recensioni da santarcangelo •13

la via europea dei paesi baltici, ma che nel 2007 ha votato la possibilità del suo pre-sidente di ricandidarsi in eterno? E infi-ne, davvero Berlusconi a inizio luglio ha incontrato il presidente kazako Nursultan Nazarbayev in Sardegna? Di nuovo lui, possiamo fare finta di niente? No, e per un motivo su tutti: anche per noi si tratta di un problema di identità. Non è possibile procedere per rimozioni successive.Teatro Sotterraneo ha deciso «di im-mettersi in un quadro narrativo e di farlo saltare». Be normal! (oggi a Liviana Conti, ore 20) presenta due personaggi trenten-ni in scena che ci raccontano una storia, una giornata come un insieme denso, ini-zia alle otto di mattina e per ora – lo spet-tacolo che abbiamo visto è uno studio – si interrompe all’ora di pranzo. «Sotterraneo non fa teatro rappresentativo, ma svilup-pa il discorso del non io».Durante la giornata i due personaggi, mentre vengono licenziati, mentre torna-

no da lavoro, si imbattono in un rapina, azione simbolica del limite di sopportazio-ne raggiunto dalla società della crisi eco-nomica, quella contemporanea. I rapina-tori hanno la maschera di Berlusconi ed è naturale vederli così, sembra materia-lizzarsi quella teoria della mercificazione dell’età giovanile che Stefano Laffi teoriz-zava ne Il furto. Tutto scontato, in teoria, ma la rappresentazione ha il compito di mettere in crisi i meccanismi autoconsola-tori, e proprio su questo punto Be normal! apre con cattiveria un discorso sulle col-pe. Infatti, se da un lato quelle maschere ci ricordano il ventennio appena trascor-so, dall’altro il personaggio femminile spe-rimenta un limite poco frequentato: in al-cune foto proiettate sul fondale, mostra se stessa affiancata a immagini significa-tive della storia del mondo, dal big bang fino all’omicidio Kennedy. L’ombelico dei trentenni è solo la vittima del sistema o ha pure delle responsabilità? Le fotografie

brucianti e sovraesposte che Teatro Sot-terraneo ci ha consegnato negli spettacoli precedenti alludevano a un contesto letto con cattiveria e restituito come uno sfondo con cui fare i conti. Adesso in quel conte-sto si presenta un personaggio, un giova-ne uomo, che disadattato dalle regole d’in-gaggio della società vacilla ed esplode per sussulti intermittenti, nella coazione a ri-petere di un licenziamento, del tai chi, di un lavoro fatto indossando un costume da hot dog oppure uno sfogo con la masche-ra da wrestler. Possiamo parlare di colpe? Sembrerebbero egualmente ripartite tra quelle maschere e una giornata “archeti-pica”, così come le possibilità per uscirne imboccando la strada con intenzioni poli-tiche e intime speranze.A forza di essere ossessionati dall’immagi-nario che ci ha scazzottato per vent’anni, Teatro Sotterraneo ci getta in faccia la sto-ria di una giornata (a oggi, mezza) in cui l’abbraccio postatomico davanti all’eclisse non è da reduci, ma è anzi il simbolo di un teatro di crudele sopravvivenza.

Nicola Ruganti

Disegno di Marta Iorio / Progetto Stripsodiana - Santarcangelo •13

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Approfondimenti critici da Santarcangelo •13 - Festival Internazionale Del Teatro In Piazza///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO ////////////////////////////////////////////////////////////////////

Le paroLe deL TeaTro

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Seduzione e cultura di massaL’orizzonte culturale italiano è - purtroppo - cronicamente immobilizzato da con-trapposizioni frontali, quasi costantemente esito di pulsioni ideologiche mai del tut-to digerite. Per certi versi, siamo ancora dominati da una logica tardo dantesca, che ri-somatizza in eterno il conflitto tra guelfi e ghibellini, rendendoci così incapaci di riflettere in modo più lucido sulle oggettive evoluzioni della società di massa.Anche la cultura teatrale non è esente da questo automatismo. Se osserviamo gli ultimi 40 anni della nostra storia teatrale, quante battaglie si sono consumate sot-to l’altare di una presunta “identità” o “verità” del teatro: attore vs regista, testo vs corpo, teatro vs spettacolo, personaggio vs figura, ecc. Opposizioni che sicuramente possono anche alimentare un sano dibattito, ma occultano la natura imprevedibile, scistosa e magmatica dell’arte, se protratte oltre l’esercizio puramente retorico.All’interno di questa ostinata “scienza del dualismo”, anche la cultura massmedia-tica ha trovato un onorevolissimo posto, proprio in virtù della fascinazione sedutti-va da essa sempre esercitata sulle pratiche teatrali e performative (costantemente stigmatizzata come de-realizzante dalle frange più integraliste di artisti e intellet-tuali). Tale cultura sta rilanciando una nuova sfida alla rappresentazione. Siamo infatti di fronte al superamento della fase pionieristica in cui dispositivi e forme della cultura massmediatica popolavano fisicamente, con il loro “hardware”, spazi e modalità della scrittura scenica (la declinazione del video in scena, su tutti). Pa-rallelamente ai mutamenti antropologici in atto nella società reale, in cui i dispo-sitivi e i mezzi di comunicazione di massa abitano senza alcuna enfasi gli spazi e i tempi delle relazioni sociali, le forme della creazione scenica cominciano a indagare gli aspetti - come dire - “ergonomici” del linguaggio: nuove forme di relazione, nuo-ve forme di scrittura scenica e drammatica, nuove forme di rappresentazione, nuovi atteggiamenti di aggregazione dei saperi, nuovi sistemi di attenzione dello spetta-tore. Nuovi oggetti di seduzione, appunto. Ma soprattutto, mettono in discussione i concetti di verità scenica e liveness, che ormai hanno bisogno di una urgente ri-di-scussione, minando il resistentissimo senso di colpa di chi pensa ancora nostalgica-mente il teatro in termini di autenticità.

Fabio Acca*

*Critico e studioso di teatro, regista e dj. Svolge attività didattica e di ricerca presso il DAMS di Bologna

Su una scenografia bian-ca, ognuno dei quattro giocolieri lancia un biril-lo e lo riprende in mano. Non c’è virtuosismo nella semplicità di questo gesto: solo cura per l’oggetto che li accompagnerà per tutta la vita, quasi una condan-na per il loro amore, come suggerisce il sottotitolo di Untitled_I will be there when you die di Alessan-dro Sciarroni. Un lavoro coreografico che trasmet-te il concetto di pratica, ma senza rappresentare la fase di allenamento. I quattro giocolieri crescono dall’individualismo alla collettività, prima arri-vando a gestire quattro bi-rilli a testa, poi scambian-doseli tutti e sedici tra loro in un esplosivo movimento finale.In mezzo c’è un’accurata riflessione sull’errore: i giocolieri non tendono a mascherare le occasionali cadute dei birilli come ac-cade al circo, ma vi si sof-fermano con dispiacere e consapevolezza della loro inevitabilità.Ultima replica stasera alle 19 al Lavatoio; a segui-re Parata di Alessandro Sciarroni in piazza Gan-ganelli alle ore 21.30.

Alex Giuzio

Quale sarà stata l’infanzia di figure ormai leggenda-rie come Amleto, Giovan-na d’Arco o Adolf Hitler, è domanda a de-Struttura-re. E Hamlet, primo studio della serie BE LEGEND! di Teatro Sotterraneo, pone e si fa carico dell’in-terrogativo. Nel passaggio da una città all’altra, tra documento e finzione, ogni puntata doterà un ‘attore bambino’ di 10 anni del proprio kit da mito infanti-le. Così, il lavoro presenta-to a Santarcangelo sceglie di partire da Amleto (qui Jacopo Moroni), piccolo principe di Danimarca che va regolarmente a scuola e indossa, con umor nero da tensione preadolescenzia-le, una felpa scura con su scritto “Elsinore”. Ma qui Amleto/Jacopo è in costan-te disequilibrio tra il corpo reale e lo stare in scena. È il bambino iper - con-trollato e privo del gioco a cui porre una domanda che (restando nel mito) in-strada la risposta: « Cosa vuoi fare da grande? ». Sono solo 20 minuti, ma il cortocircuito tra le parti è costante e raggiunge il disequilibrio (cercato) nel monologo per eccellenza, fedele ascolto dell’età che lo dice.

Francesca Bini

Un bagliore, un sospiro, un movimento luminoso. La musica di una marcia ci accompagna dall’ingres-so, poi incalza, riempiendo l’antro. Le luci già posizio-nate dietro le nostre spalle poco a poco si aprono sul corpo in movimento, che danza su passi felini, ra-paci, selvatici.Il costume è un monumen-to, e il corpo che lo indossa un’anima attraversata da sentimenti che solo il canto può tenere a bada. Dumy Moyi di François Chai-gnaud (ultime repliche oggi alle ore 18.00 - 20.00 - 22.00 - 24.00, Grotta Mu-nicipale) ci porta dentro l’ombelico di un derviscio indemoniato, nelle pieghe romantiche di un Est Eu-ropa dove si intravedono solitudini femminili, in un nord inglese dall’allegro sguardo. La voce ci condu-ce altrove, e la musica mo-difica il nostro sguardo ad ogni nuovo brano, mentre quel corpo ci accompagna in questi e altri luoghi del mondo per poi riportarci, dopo un viaggio tra mi-lioni di immagini che ci piovono negli occhi a rit-mo serrato, addosso a un cuore pulsante che suscita commozione.

Serena Terranova