7
po dei Mutoid solleva una domanda importante sul- la capacità di una città di fare i conti con l’eccezione. A questo concetto va ag- giunto quello di “ignoto”. Mi interessa quel teatro che non è consapevole im- mediatamente di cosa sta facendo, ma che costrui- sce il suo pensiero proprio mentre fa. Ci tengo a dire che la visione che ricerco non è onnicomprensiva e pacificata, sa avere spigo- li vivi, fa i conti con l’im- possibilità di “chiudere il cerchio”. Deve creare pro- blemi allo spettatore, fare paura, ma anche fornirgli una pluralità di porte d’in- gresso». Rodolfo Sacchettini: «Non è un periodo di estetiche forti. Nel Festival si in- trecciano differenti tra- dizioni: c’è una direzione artistica che firma il pro- gramma, ma il suo vero autore è la sua storia, il magnetismo dei suoi qua- rantatré anni. Il nostro la- voro è stato quello di in- seguire i desideri più che le idee, perché i desideri hanno a che fare con l’in- tuizione. Essendo in tre, abbiamo coltivato un ter- reno fertile per la diver- sità dei desideri, tenendo in mano una bussola teo- rica. Ci interessano i pro- cessi di conoscenza ibridi, spesso legati alla doman- da che il teatro pone all’in- fanzia, cioè all’origine, e viceversa. Molti artisti in questo momento abbando- nano un’idea forte di tea- tro per vivere la questione dell’origine in maniera ur- gente». Matthieu Goeury: «La par- ticolarità di questo festival è il pubblico. Vedere tut- te quelle persone diverse che nelle strade studiano il programma – che unisce cose più classiche e for- me nuove – è molto raro in Europa. Io credo che la ragione del teatro sia nella venerdì 12 luglio 2012 santarcangelofestival.com | altrevelocita.it L’EDITORIALE ******************* Un giornale per Santar- cangelo Raccontare un festi- val da dentro, vicino a chi crea gli spetta- coli, a chi li organiz- za e li “cura”. Scri- vere pensando a chi sta fuori, ad addetti ai lavori e spettatori. Le pagine che state leggendo sono prodot- te da un osservato- rio critico che dopo anni di pausa torna sul Corriere Roma- gna. Santarcangelo •13 ci invita a parte- cipare ad esperimen- ti di possibili comu- nità, a seguire artisti che indagano i mec- casmi delle relazioni umane, a osservare il rapporto di origi- ne che lega lo sguar- do dell’arte a quel- lo dell’infanzia. Ma anche ad abitare al- tri territori dentro a un festival che ci do- manda di rinunciare all’ansia di tutto ve- dere e comprendere, in cui sarà inevitabi- le costruire personali tragitti. Questo gior- nale uscirà tre vol- te nei due weekend (da oggi al 14, poi dal 19 al 21, con pez- zi più estesi on line) e proverà a traccia- re alcuni percorsi con interviste, disegni, recensioni, risonan- ze cercate nella me- moria del festival più longevo della ricerca teatrale italiana, in ascolto delle voci de- gli artisti, degli spet- tatori, delle piazze. Lorenzo Donati Difendere l’eccezione Intervista ai direttori di Santarcangelo •13 Giornale del Festival Approfondimenti critici da Santarcangelo •13 **************************************************************************************************************************************************************** /////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////// ///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO //////////////////////////////////////////////////////////////////// PROGRAMMA Si segnala, tra gli altri Kate McIntosh / All Ears / Lavatoio / ore 20.00 Cristina Rizzo / Sa- gra della primavera / Liviana Conti 2 / ore 21.00 Danio Manfredini / Vocazione. Lettura / P.zza Ganganelli / ore 21.30 Zoë Poluch / Exam- ple / Liviana Conti 2,5 / ore 22.00 Fanny&Alexander / Discorso Giallo / Livia- na Conti 1 / ore 23.00 programma completo: santarcangelofestival.com necessità di costruire un contesto sociale. Fare un festival è un gesto davvero politico, fondamentale nel nostro mondo. Abbiamo raggiunto un punto molto pericoloso nel sistema ca- pitalistico, siamo diventa- ti sempre più individua- listi. Che alcuni decidano di andare a teatro insie- me, pagare il biglietto, è confortante. È necessario chiedersi come coinvolge- re la città, cosa darle, che è come dire: come salvia- mo il mondo oggi? Non è necessario lavorare con espliciti contenuti politici; la domanda fondamentale è: quale comunità stiamo costruendo oggi?». Come può un festival co- struire un luogo in cui difendersi dal presente e allo stesso tempo dia- logare con esso per tra- sformarlo e guardare avanti? S.B.: «Esistono due piani. In primo luogo esiste una relazione con i singoli ar- tisti. Ci interessa trova- re una vitalità, anche fra- gile, che abbia un potere trasformativo. Il secondo piano riguarda il rappor- to complessivo con il fe- stival, l’accostamento dei progetti l’uno con l’altro. Una buona strategia sta nel non avere tutto sot- to controllo. È un antido- to al senso di perfezione di cui si ha la tentazione. La questione della perdita del controllo è anche una lot- ta con il suo opposto, con la cura estrema del detta- glio a cui tendiamo. Que- sto festival ha una capaci- a cura di Osservatorio Critico Silvia Bottiroli, Rodol- fo Sacchettini e Matthieu Goeury raccontano la na- scita dell’edizione 2013 at- traverso le loro personali visioni. A partire dal forte legame con la città di San- tarcangelo e i suoi spazi, la storia del Festival si tra- sforma ogni anno in nuo- va ricerca, forte della sua vocazione utopica e rigene- rativa, attenta al mondo e alle sue trasformazioni. Nell’editoriale del Festi- val si parla di “costrui- re e difendere un’idea di teatro e di mondo”. È possibile raccontarla a parole? Silvia Bottiroli: «“Costrui- re” e “difendere” sono per me le parole più importan- ti di questa frase. Costru- ire un festival vuol dire scegliere certe idee di tea- tro e di mondo, ma anche difenderle contro delle al- tre. Non si tratta di stare dalla parte di un linguag- gio o di una forma, ma di difendere un’idea di teatro che sta alla base delle ope- re e della modalità di lavo- ro. Mi interessa l’eccezio- ne, l’irriducibilità. Questo festival non vuole essere illustrativo, ma vivo e im- prevedibile: accosta sin- golarità molto diverse, fa tensione, si lancia verso l’ignoto. L’idea di teatro che c’è dietro si può rac- contare in modi molto di- versi, ma sempre attraver- so la complessità. Anche la situazione che Santarcan- gelo sta vivendo in relazio- ne allo sgombero del cam- tà di trasformazione molto forte, contiene una densità di risorse umane e svilup- pa in chi partecipa la sen- sazione, molto sana, di non poter afferrare tutto». R.S.: «Il teatro ha una tra- dizione corporativa, c’è una coincidenza storica tra la pratica del teatro e vita quotidiana. Questo a volte porta a dare le spalle a ciò che c’è fuori e, nei momen- ti di difficoltà, a chiudersi. Il festival di Santarcangelo •13 va contro questa ten- denza maggioritaria. È un festival che ha un impatto amoroso con la città, a vol- te conflittuale. Si è a con- tatto costantemente con il pubblico e con gli spazi ur- bani. La città è piccola, la si può abbracciare col pen- siero, come fosse una città ideale, un mondo miniatu- rizzato in grado di ripensa- re la funzione dei suoi luo- ghi. Tutto questo spinge a guardare fuori, ad aprirsi al mondo esterno». disegno di Mara Cerri

Giornale del Festival - Santarcangelo · 13 | Part 1

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Tre uscite sul Corriere Romagna che raccontano il primo weekend di Santarcangelo · 13, Festival Internazionale del Teatro in Piazza

Citation preview

Page 1: Giornale del Festival - Santarcangelo · 13 | Part 1

po dei Mutoid solleva una domanda importante sul-la capacità di una città di fare i conti con l’eccezione. A questo concetto va ag-giunto quello di “ignoto”. Mi interessa quel teatro che non è consapevole im-mediatamente di cosa sta facendo, ma che costrui-sce il suo pensiero proprio mentre fa. Ci tengo a dire che la visione che ricerco non è onnicomprensiva e pacificata, sa avere spigo-li vivi, fa i conti con l’im-possibilità di “chiudere il cerchio”. Deve creare pro-blemi allo spettatore, fare paura, ma anche fornirgli una pluralità di porte d’in-gresso».

Rodolfo Sacchettini: «Non è un periodo di estetiche forti. Nel Festival si in-trecciano differenti tra-dizioni: c’è una direzione artistica che firma il pro-gramma, ma il suo vero autore è la sua storia, il magnetismo dei suoi qua-

rantatré anni. Il nostro la-voro è stato quello di in-seguire i desideri più che le idee, perché i desideri hanno a che fare con l’in-tuizione. Essendo in tre, abbiamo coltivato un ter-reno fertile per la diver-sità dei desideri, tenendo in mano una bussola teo-rica. Ci interessano i pro-cessi di conoscenza ibridi, spesso legati alla doman-da che il teatro pone all’in-fanzia, cioè all’origine, e viceversa. Molti artisti in questo momento abbando-nano un’idea forte di tea-tro per vivere la questione dell’origine in maniera ur-gente».

Matthieu Goeury: «La par-ticolarità di questo festival è il pubblico. Vedere tut-te quelle persone diverse che nelle strade studiano il programma – che unisce cose più classiche e for-me nuove – è molto raro in Europa. Io credo che la ragione del teatro sia nella

venerdì 12 luglio 2012 santarcangelofestival.com | altrevelocita.it

L’EditoriaLE

*******************

Un giornale per Santar-cangeloRaccontare un festi-val da dentro, vicino a chi crea gli spetta-coli, a chi li organiz-za e li “cura”. Scri-vere pensando a chi sta fuori, ad addetti ai lavori e spettatori. Le pagine che state leggendo sono prodot-te da un osservato-rio critico che dopo anni di pausa torna sul Corriere Roma-gna. Santarcangelo •13 ci invita a parte-cipare ad esperimen-ti di possibili comu-nità, a seguire artisti che indagano i mec-casmi delle relazioni umane, a osservare il rapporto di origi-ne che lega lo sguar-do dell’arte a quel-lo dell’infanzia. Ma anche ad abitare al-tri territori dentro a un festival che ci do-manda di rinunciare all’ansia di tutto ve-dere e comprendere, in cui sarà inevitabi-le costruire personali tragitti. Questo gior-nale uscirà tre vol-te nei due weekend (da oggi al 14, poi dal 19 al 21, con pez-zi più estesi on line) e proverà a traccia-re alcuni percorsi con interviste, disegni, recensioni, risonan-ze cercate nella me-moria del festival più longevo della ricerca teatrale italiana, in ascolto delle voci de-gli artisti, degli spet-tatori, delle piazze.

Lorenzo Donati

Difendere l’eccezioneIntervista ai direttori di Santarcangelo •13

Giornale del FestivalApprofondimenti critici da Santarcangelo •13

****************************************************************************************************************************************************************

///////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO ////////////////////////////////////////////////////////////////////

PROGRAMMASi segnala, tra gli altri

Kate McIntosh / All Ears / Lavatoio / ore 20.00Cristina Rizzo / Sa-gra della primavera / Liviana Conti 2 / ore 21.00Danio Manfredini / Vocazione. Lettura / P.zza Ganganelli / ore 21.30Zoë Poluch / Exam-ple / Liviana Conti 2,5 / ore 22.00Fanny&Alexander / Discorso Giallo / Livia-na Conti 1 / ore 23.00

programma completo: santarcangelofestival.com

necessità di costruire un contesto sociale. Fare un festival è un gesto davvero politico, fondamentale nel nostro mondo. Abbiamo raggiunto un punto molto pericoloso nel sistema ca-pitalistico, siamo diventa-ti sempre più individua-listi. Che alcuni decidano di andare a teatro insie-me, pagare il biglietto, è confortante. È necessario chiedersi come coinvolge-re la città, cosa darle, che è come dire: come salvia-mo il mondo oggi? Non è necessario lavorare con espliciti contenuti politici; la domanda fondamentale è: quale comunità stiamo costruendo oggi?».

Come può un festival co-struire un luogo in cui difendersi dal presente e allo stesso tempo dia-logare con esso per tra-sformarlo e guardare avanti?

S.B.: «Esistono due piani. In primo luogo esiste una relazione con i singoli ar-tisti. Ci interessa trova-re una vitalità, anche fra-gile, che abbia un potere trasformativo. Il secondo piano riguarda il rappor-to complessivo con il fe-stival, l’accostamento dei progetti l’uno con l’altro. Una buona strategia sta nel non avere tutto sot-to controllo. È un antido-to al senso di perfezione di cui si ha la tentazione. La questione della perdita del controllo è anche una lot-ta con il suo opposto, con la cura estrema del detta-glio a cui tendiamo. Que-sto festival ha una capaci-

a cura diOsservatorio Critico

Silvia Bottiroli, Rodol-fo Sacchettini e Matthieu Goeury raccontano la na-scita dell’edizione 2013 at-traverso le loro personali visioni. A partire dal forte legame con la città di San-tarcangelo e i suoi spazi, la storia del Festival si tra-sforma ogni anno in nuo-va ricerca, forte della sua vocazione utopica e rigene-rativa, attenta al mondo e alle sue trasformazioni.

Nell’editoriale del Festi-val si parla di “costrui-re e difendere un’idea di teatro e di mondo”. È possibile raccontarla a parole?

Silvia Bottiroli: «“Costrui-re” e “difendere” sono per me le parole più importan-ti di questa frase. Costru-ire un festival vuol dire scegliere certe idee di tea-tro e di mondo, ma anche difenderle contro delle al-tre. Non si tratta di stare dalla parte di un linguag-gio o di una forma, ma di difendere un’idea di teatro che sta alla base delle ope-re e della modalità di lavo-ro. Mi interessa l’eccezio-ne, l’irriducibilità. Questo festival non vuole essere illustrativo, ma vivo e im-prevedibile: accosta sin-golarità molto diverse, fa tensione, si lancia verso l’ignoto. L’idea di teatro che c’è dietro si può rac-contare in modi molto di-versi, ma sempre attraver-so la complessità. Anche la situazione che Santarcan-gelo sta vivendo in relazio-ne allo sgombero del cam-

tà di trasformazione molto forte, contiene una densità di risorse umane e svilup-pa in chi partecipa la sen-sazione, molto sana, di non poter afferrare tutto».

R.S.: «Il teatro ha una tra-dizione corporativa, c’è una coincidenza storica tra la pratica del teatro e vita quotidiana. Questo a volte porta a dare le spalle a ciò che c’è fuori e, nei momen-ti di difficoltà, a chiudersi. Il festival di Santarcangelo •13 va contro questa ten-denza maggioritaria. È un festival che ha un impatto amoroso con la città, a vol-te conflittuale. Si è a con-tatto costantemente con il pubblico e con gli spazi ur-bani. La città è piccola, la si può abbracciare col pen-siero, come fosse una città ideale, un mondo miniatu-rizzato in grado di ripensa-re la funzione dei suoi luo-ghi. Tutto questo spinge a guardare fuori, ad aprirsi al mondo esterno».

disegno di Mara Cerri

Page 2: Giornale del Festival - Santarcangelo · 13 | Part 1

di LUCIA OLIVA

C’è uno smarginamento, un perdersi, nel teatro di oggi, così come in quello di ieri. C’è una tensione ver-so i confini della disciplina che prima ne ha aperto gli spazi e poi ne ha rimesso in discussione i corpi e le relazioni in un dialogo con quell’altrove imprendibi-le, indomabile che spinge ed erode i margini traccia-ti tra ciò che arte e ciò che è vita. A Santarcangelo •13 al-cuni progetti speciali sem-brano ricalcare questa vo-cazione innata del teatro, e solcano territori altri con il passo gentile del vian-dante e insieme con l’im-maginazione furiosa del rabdomante, tutti i sen-

si all’erta per captare una bellezza spostata, una ra-gione ancora buia, un per-ché irrivelato. Il tempo è ciò che avvici-na questi progetti: il tem-po ampio dell’esperienza, dell’incontro, del caso e della trasformazione. Art you lost? 1000 persone per un’opera d’arte, progetto installativo a cura di La-casadargilla, Muta Ima-go, Luca Brinchi - Rober-ta Zanardo (Santasangre) e Matteo Angius, abiterà per tutto il Festival negli spazi della scuola elemen-tare Pascucci, creando una mappa della memo-ria, un arazzo sentimen-tale ed esperienziale tes-suto con i contributi di chi deciderà di attraversarlo. Ogni giorno, dalle 16 alle

24, sarà possibile varcare le porte dell’installazione e contribuire a questa ri-flessione sulle tracce, an-che minute, anche prosai-che, che ognuno lascia di sé, osservando man mano come quell’opera in dive-nire che è il racconto della propria vita possa diven-tare collettivamente arte. Clima, pensato da MK, è un oggetto coreografico autorganizzato, randagio, imprevedibile e inciden-tale che agisce sul territo-rio della danza e della co-reografia ma ne ricombina regole e prodotti.Chiunque può partecipa-re, da oggi a domenica 21 luglio, allo Sferisterio dal-le 18.30 alle 19.30, e rice-vere le istruzioni per un movimento da eseguire

in questo spazio mobile, continuamente modificato dall’agire degli altri par-tecipanti.È la comprensione di que-sta relazione tra i presen-ti insieme con l’apertura a un cambiamento costan-te che permette a tutti di danzare, perché per MK la danza non è tanto nel corpo stesso, ma nello spa-zio che c’è attorno al cor-po.King, condotto da Leonar-do Delogu insieme a Stras-se, è un’esperienza perfor-mativa ampia, che dilaga in diversi appuntamenti e formati, con un blog online fatto di immagini e pensie-ri a ricucirne la complessi-tà. Si tratta di un viaggio, di un cammino, e insieme di uno stare, uno sprofon-

dare nel rapporto tra cor-po e paesaggio. Nato da una serie di laboratori in cui si è definita una co-munità nomade orientata alla pratica performativa, King si è poi raggrumato nell’esperienza residen-ziale di Spiagge bianche a Rosignano Solvay da cui è partito qualche giorno fa per Cammino, attraver-sando l’Italia dal Tirreno all’Adriatico.Di questo viaggio Echi, in-stallazione visitabile ogni giorno dalle 18 alle 21 in Piazzetta Nicoletti, ne cu-stodirà le tracce, fino ad accogliere il gruppo all’ar-rivo a Santarcangelo in Accampamento, nel Par-co dei Cappuccini da mer-coledì 17 a sabato 20 alle 19.30, invitando il pubbli-

co a condividere il tempo semplice e insieme incon-sueto dell’incontro.Si tratta quindi di espe-rienze in cui il teatro ri-nuncia alle sue specifici-tà per aprirsi a un esterno che è spesso un altrove sconosciuto, o un magma al di fuori di un possibile controllo.L’esito, se qualcosa di si-mile potrà mai essere mi-surabile, si avrà solo alla fine di un percorso: per ora quello di prezioso che vie-ne consegnato agli spet-tatori è una domanda che ancora una volta scompa-gina le aspettative e con-fonde arte e vita, e che cercando di capire il per-ché dell’agire teatrale ci si augura tocchi quante più esistenze possibili.

Rabdomanti dell’altroveUn attraversamento dei progetti speciali del festival

L’obLò

**********************************************

Antonio Attisani e i Mutoid«Nel 1989 ho assunto la direzione del Festival di Santarcangelo, una delle decisioni che ha caratte-rizzato quell’edizione è stata la collaborazione con un gruppo cyberpunk di Milano che faceva capo al centro sociale Conchetta e alla rivista Decoder. Co-noscevano i Mutoid e li abbiamo invitati. Si è posta subito la questione di collocarli in uno spazio adatto, perché loro non erano artisti di finzione, chiamar-li artisti è riduttivo. I Mutoid portavano un’etica co-munitaria - nel senso di un accampamento in una ex cava sulle rive del Marecchia - e un’etica del lavo-ro con il riciclo del superfluo; sono artigiani, nel sen-so più alto. Abbiamo trovato questo posto che dove-va essere una sistemazione provvisoria, poi la cosa ha funzionato e sono rimasti. È stato possibile per-ché allora il presidente del festival era il Sindaco di Santarcangelo Cristina Garattoni. Una persona con la capacità di battersi per difendere i progetti che ri-teneva giusti per la città e per il festival. I Mutoid hanno realizzato per primi quello che era il nostro sogno di allora: la stabilizzazione, un’attività che du-rasse tutto l’anno. Noi coltivavamo invece l’illusione di una costruzione di un teatro con la posa simbolica della prima pietra, poi ci hanno fatto un supermer-cato. L’orizzonte immaginato non si è realizzato fino in fondo a Santarcangelo, ma ha costituito una tap-pa significativa nella cultura teatrale italiana inte-sa non in senso stretto».

a cura di Nicola Ruganti

///////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

Approfondimenti critici da Santarcangelo •13 - Festival Internazionale Del Teatro In Piazza///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO ////////////////////////////////////////////////////////////////////

Risonanze

******************Mutoid Waste Company Le nostre attività principali sono le performance dove uniamo musica, arte, teatro e circo. Ad esem-pio siamo stati fra i primi a organizzare i “garage party” in Inghilterra, poi vendiamo le nostre scul-ture, costruiamo allestimenti per filmati, arreda-menti e scenografie. La nostra filosofia è mutare e sopravvivere, adattarsi a sempre nuove circostan-ze. Mutare e muoversi è il nostro credo anche nel caso di guerra o di una catastrofe, noi non abbiamo paura, allenati come siamo a trasformare, a tra-sformarci. Durante le nostre tournée molti ragaz-zi chiedono di poterci seguire. Forse sono attrat-ti dalla nostra vita nomade, oppure pensano che vagabondiamo come gli Hippies degli anni Sessan-ta. Invece la nostra vita è molto dura. Siamo qua-si tutti vegetariani, contrari a ogni tipo di droga, pacifici e in un certo senso sani, anche se il no-stro aspetto potrebbe far pensare al contrario. Noi crediamo che se il mondo non ha abbastanza risor-se per tutti, bisogna imparare a trasformare quel-lo che già c’è.

dal programma di Santarcangelo 91

Cartoline da Santarcangelo

disegno di Maria Giulia Magli

Le paRoLe deL teatRo

******************

Comunità

o community?

Il teatro, da quan-do è stato rifondato sul mito della tragedia gre-ca come proiezione di un’agorà tutta inscritta nell’immaginario e nelle necessità di fare società, in quel periodo della na-scita della modernità tra Hölderlin, Goethe, Wa-gner e Nietzsche, ha so-gnato di ricostituire una comunità irrimediabil-mente perduta. Nel ’68 e dintorni si è riscoper-to che quell’arte pove-

ra che è il teatro, fatta essenzialmente di cor-po, voce, volontà di in-contrare un altro e tutto il resto è orpello, pote-va essere un formidabile strumento per reinven-tare quell’eden perdu-to nell’individualismo della vita industriale e post-industriale. Sap-piamo come quella co-munità (quelle comunità che allora si formarono) esplosero a contatto con la realtà, o si chiusero nel progetto di resistere in piccoli gruppi solidali, praticando la strada del-le minoranze consapevo-li. Poi il termine comu-nità è slittato nel mondo digitale, diffondendo-si in modo pulviscolare,

con corpo, voce e contat-to che contano meno (o in forma più mediata) dei comuni interessi, del confronto o più spesso dello scontro su un’idea, su una propensione. La community è diventata terreno di caccia degli uffici promozione, chia-ve di volta per i rappor-ti spesso non troppo lim-pidi tra teatri, festival e pubbliche amministra-zioni. Una specie di mi-suratore di consenso, piuttosto che invenzione di nuovi modi per vivere condividendo. Dall’os-servatorio degli anni Duemila ormai maturi, non resta che prendere atto di una vecchia veri-tà: la comunità oggi non

esiste e forse non è mai esistita, neppure ai tem-pi dei greci. Una società è un campo di tensioni contrastanti, di gruppi o individui in concorren-za. La comunità può es-sere censoria, il luogo del senso comune trasforma-to in legge, molto spesso al ribasso (come nel caso dell’ingiunzione di sfrat-to ai Mutoid da Santar-cangelo). La comunità è, deve essere, un progetto, una costruzione, una ri-cerca. Un compito del te-atro, che ha unicamen-te nell’umano la propria materia prima.

Massimo Marino*twitter @minimoterrestre

*studioso e critico teatrale

Page 3: Giornale del Festival - Santarcangelo · 13 | Part 1

sabato 13 luglio 2012 santarcangelofestival.com | altrevelocita.it

Michele Di Stefano - MK Il sistema culturale, per funzionare, deve possedere dei bordi, un perimetro. Lavoro dunque per creare una porosità dei margini della rappresentazione, per fare in modo che il contenitore generi una tensione specifica. Dal punto di vista dalla danza il tempo è tutto, si può consi-derare lo spettacolo come il semplice di-panarsi di un tempo condiviso fra spetta-tore e danzatore e c’è sempre una crepa nel momento in cui ci si mette nella pre-senza, l’unico luogo per me avventuroso. Il rapporto con la scena è da considerar-si in forma elementare: performer e spet-tatore si accorgono di essere nello stes-so luogo. Che cosa succede? Mi interessa quando la danza sposta la sua attenzio-ne dal design coreografico all’ambiente, a ciò che sta fuori. Per me la danza è fuori dal corpo, la danza si svolge accanto. In-fatti lo spazio “non esiste”: è chi agisce sulla scena che lo genera nel momento stesso in cui decide di attraversarlo.

In questo senso la danza è un corpo che si pone in una estrema valutazione ba-listica di quello che c’è intorno. È come attraversare una tangenziale all’ora di punta: mettere a rischio il proprio corpo assecondando un ritmo, prestando atten-zione a uno spazio. Mk lavora con dan-zatori che possiedono una preparazio-ne tecnica alta, ma allo stesso tempo la mia idea di danza, almeno nei punti di partenza, non può escludere nessun cor-po, nemmeno quelli non alfabetizzati, dal momento che tutti attraversano una strada. Alcune informazioni sono conte-nute nel corpo di tutti e per farle emer-gere non serve un “disegno”, ma una ten-sione potenzialmente in grado di servirci anche sul tram all’ora di punta.

Cerco sempre di mettere lo spettatore e il performer in condizione di distrarsi dalla cronologia dell’evento, per fare af-

Danza e coreografia per conoscere il mondoConversazione con Michele Di Stefano e Cristina Rizzo

Giornale del FestivalApprofondimenti critici da Santarcangelo •13

****************************************************************************************************************************************************************

///////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO ////////////////////////////////////////////////////////////////////

capacità di evadere dalla rappresentazio-ne, perché la danza è sempre astratta an-che quando è narrativa: si tratta di ener-gie corporee che si mettono in circolo, punti di partenza che in un certo senso non appartengono alla rappresentazio-ne. Come artista oggi sento la necessità di abitare la dimensione della scena, per-ché quello è il territorio in cui si gioca la partita adesso. Credo che ci sia il bisogno di fare delle proposizioni forti e assumer-sene anche il rischio, ma da dentro, ed essere in questo molto verticali.

Penso a un corpo fragile, alla fragili-tà dello stare nel momento. La danza è fatta di transizioni, è come se fosse sem-pre in deficit: non produce mai qualco-sa di stabile, il suo oggetto è sempre a venire. Il corpo “super performativo” tende a fermarsi in una posa o un’al-tra, a rendersi disponibile al consumo; al contrario il corpo fragile viene usa-to ma non consumato, e in questo modo si mette completamente a disposizione dell’altro.

Sento che lo spettatore avrebbe biso-gno di prendersi il tempo di guardare veramente, perché quando ci si conce-de di guardare si vedono molte cose, an-che se non si conoscono. Il problema non è la cultura o la familiarità con la storia della danza: è come se mancasse il tem-po e la voglia di guardare, eppure è tut-to lì. In teatro chi sta sulla scena e chi guarda condividono la stessa azione. Tu spettatore mi guardi, ma anche io ti sto guardando: tutto accade nello spazio tra i due sguardi. Ultimamente spero che gli spettatori escano dai miei spettacoli felici, anche senza saper dire cosa è suc-cesso: significa che qualcosa si è esteso, che un’intensità è stata creata.

di LORENZO DONATI e LUCIA OLIVA

Perché molti spettacoli mettono in discussione la rappresentazione, pur restando dentro ai confini della danza? Di quale idea di corpo stiamo parlando, oggi? E in quale modo la danza presuppone uno spettatore? Cosa gli chiede? Ne abbiamo parlato con due dei maggiori coreografi italiani di questi anni, Michele Di Stefano di Mk e Cristina Rizzo, entrambi presenti al festival.

fiorare un altrove che non fa riferimen-to a un immaginario drammaturgico. Andrebbe eliminata una predominanza visiva dello sguardo, per entrare in una dimensione non incorniciata. Chiedo allo spettatore di ipotizzare che il luogo in cui si trova sia più grande delle mura del te-atro: sta guardando un danzatore che agisce in una città, in una nazione, in un continente. Io sono qui, non ho niente da dire e ora comincio a muovermi, con l’am-bizione di trasmettere tutto quello che c’è fuori.

Cristina Rizzo / Con il lavoro fat-to insieme a Kinkaleri credevo che il tema del superamento della rappresentazio-ne fosse già assunto, ma ultimamente mi sono resa conto che la situazione socia-le, politica e culturale italiana ha mina-to gravemente la qualità dello sguardo, trascinandola verso il basso, quindi una domanda da porre alla rappresentazio-ne torna urgente. Mi interrogo sul come farlo, su quali paradigmi si possano spo-stare preservando una dimensione comu-nicativa. La danza ha per sua natura la

disegno di Mara Cerri

PROGRAMMASi segnalano, tra gli altri

Brian Lobel / PurgeCaffè Commercio / ore 10.00-24.00

Premio Lo Straniero Supercinema / ore 11.00

Alina Marazzi FilmTutto parla di te / Supercinema / Sala Wenders / ore 19.00

Gertjan van GennippThe Honey QueenGrotta Municipale / ore 19.00+19.30+22.00+22.30

Compagnia Lombardi-Tiezzi / TEATRO LABORATORIO DEL-LA TOSCANA / Scene di Woyzeck / Piazza Ganganelli / ore 21.30

***a cura dell’Osservatorio CriticoRadio Gun GunPiazza Ganganelli / ore 19.00live showcase di Al Doum

***per sfogliare il programma completo:s a n t a r c a n g e l o f e s t i v a l . c o m

Page 4: Giornale del Festival - Santarcangelo · 13 | Part 1

di ALESSANDRA CAVANICOLA RUGANTI

Abbiamo incontrato Danio Manfredini, che ieri sera ha abitato piazza Ganga-nelli con le letture di Vo-cazione, atteso in scena il prossimo weekend con il progetto musicale Incisio-ni, che lo vede interprete di canzoni tratte dal reperto-rio cantautorale italiano.

Questo festival rifiu-ta un’unica idea forte di teatro per metterne

in tensione molteplici, creare un discorso. Per un artista è oggi impor-tante avere un’idea di teatro che guidi il suo lavoro?

«Io non ho idee forti, non mi interessa averne. Non ho mai scritto manifesti, né dichiarato la mia po-etica. Sono interessato a scoprire le diverse sor-prendenti forme che si possono assumere nel cor-so del tempo. Il mio tenta-tivo è quello di approccia-

Le paroLe deLLa danza

******************Quando si par-la di danza biso-gnerebbe sempre decli-narla al plurale, tante sono le sue forme e le sue proposizioni. E così bisognerebbe fare quando ci si domanda che tipo di spettatore la danza presuppon-ga, visto che ogni suo darsi è sempre un con-segnarsi a uno sguar-do altrui. Alcune pro-poste sono facili, si tratta di sedurre un pubblico e di lasciar-si consumare dallo sguardo. Altre inve-ce attivano un’empa-tia che niente ha a che fare con il consumo, ma più con il raccon-to e il riconoscimento di sé. I progetti realiz-zati da Sieni con i non professionisti mostra-no come alcune sto-rie, alcune identità, se guidati dalla visione dell’artista, possono diventare significanti e intercettare la pro-pria esperienza, quasi a sussurrare che quel-la bellezza che si vede in scena parla a noi, ma anche di noi, per-ché va così potente-mente a toccare la ra-dice dell’umano.E questa trasfigura-zione poetica della vita e della memoria è quanto di più lontano dal protagonismo nar-cisista di questo tem-po. Altre esperienze sgretolano la griglia dei ruoli e insistono sulla ridefinizione del potere dello spettato-re. Può essere mes-so nella condizione di produrre il significato dell’opera e non sem-plicemente riconoscer-lo secondo paradig-mi già percorsi, come si prefigge Spångberg che pensa all’arte non come a una relazione che confermi le identi-tà ma che forzi a cre-arne di nuove. Se un corpo in movimen-to è un corpo rapace, prensile, che afferra e trasforma, che crea lo spazio e centrifuga i punti di vista, come quello degli MK, che corpo è il corpo di chi guarda? Sta in que-sto la scommessa che la danza lancia allo spettatore: gli chiede di “lasciarsi sposta-re” e assumere il pun-to di vista dell’altro, e poi di cambiarlo nuo-vamente, di tornare in un posto diverso da quello da cui è partito semplicemente perché si è lasciato attraver-sare. La danza è espe-rienza del mondo, e ciò significa che è espe-rienza dell’altro. Oggi le proposte del Festi-val invitano gli spet-tatori a diventare que-sto altro, e a lasciarsi danzare.

Lucia Oliva

risonanze

**********************************************

L’attore perLeo de BerardinisSe il teatro non è traduzione scenica di un testo, sia pure interpretato criticamente; se non è meta-fora della vita, ma la vita stessa, vissuta con arte a livelli più profondi, con la partecipazione di tutti all’evento, attori e spettatori; se il teatro alla fine non è l’attore stesso, che, magnetizzando l’assem-blea, è a sua volta sostenuto da essa nel suo atto magico; se dopo l’evento tutti dovrebbero in qual-che modo essere trasformati, anche minimamente; allora, chi è mai l’attore? Con quale presunzione o umiltà si presenta in uno spazio scenico? Altro che professionalità! E che significato hanno le parole consenso, carriera, successo? Evidentemente nes-suno. In un mondo di false immagini e di profitto, di memorie elettroniche e smemoratezze storiche, un’arte primordiale può ristabilire o stabilire un giusto dialogo, proprio perché basata sullo svela-mento – e non sulla finzione, come molti erronea-mente credono. Questo il compito non facile del te-atro, dell’attore: la sua responsabilità.

da una conversazione conGianni Manzella - Quaderni di Santarcangelo, 1994

Danio Manfredini: «Inseguo le diverse sorprendenti forme»

///////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

Approfondimenti critici da Santarcangelo •13 - Festival Internazionale Del Teatro In Piazza///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO ////////////////////////////////////////////////////////////////////

L’obLò

******************

Mårten Spångberg e la coreografia«Nella danza mi interessa un corpo che sia concettualizzato nei termini del cor-po e che rimanga autonomo rispetto al linguaggio; un corpo che non significa, che non è persona, che va al di là di me stesso. Si possono produrre esperienze attra-verso il corpo che non parlano direttamente di noi stessi, ma che sono corpo puro e parlano a un altro corpo. I coreografi più tradizionali solitamente dicono ai dan-zatori come danzare e, quando questi eseguono, suggeriscono loro le correzioni scatenando un meccanismo di ping pong tra il linguaggio e il corpo. La relazione è dialettica e il corpo rimane subordinato al linguaggio. Invece si dovrebbe pro-durre danza pensando a lasciare il corpo libero da questa griglia, un movimento che si liberi dalle categorie e semplicemente danzi. Solo in questo modo la danza può diventare oggi un’arte importante.Purtroppo la maggior parte dei coreografi pensa solo a presentare un significa-to in scena. La danza narrativa mi risulta idiosincratica al pari del cinema: pura fantasia, magari straordinaria ed emozionante ma distaccata dalla realtà. La co-reografia non coincide con la danza: è un insieme di strumenti di organizzazio-ne di spazio e tempo, un dispositivo ritmico che non si applica solo alle arti per-formative. Certo, si può utilizzare per addomesticare il corpo o, al contrario, per liberarlo dal desiderio di localizzazione e di riconoscimento di un’identità. Anche quando si lavora sull’improvvisazione intesa come liberazione dall’ordine e dalle convenzioni sociali, anziché liberare noi dall’ordine, dovremmo liberare la dan-za da noi. Solo disordinando l’ordine possiamo davvero uscire dalla rappresenta-zione. Città, società, potere, aziende: tutto è ordinato, organizzato e sorvegliato. Possiamo invece pensare a qualcosa, non solo di politico e sociale ma anche di fi-sico, che non ha organizzazione. Non si tratta di anarchia, ma di una confusio-ne dinamica».

a cura di Alex Giuzio

re la materia sempre come se non ne sapessi niente, come se fossi un idiota, in un certo senso. Certo, es-sere artisti vuole dire an-che avere delle qualità che si coltivano attraver-so l’esercizio e le pratiche, attraverso il lavoro con il pubblico e gli spettacoli. So che ho messo molto im-pegno in questa professio-ne ma non posso dire cosa sia per me il teatro, come si deve fare. Le cose appa-iono come la punta di un iceberg, che vado ad inse-guire per vedere cosa na-sconde di sommerso. In genere quello che trovo è un gioco più grande di quello che posso prevede-re all’inizio. Tutte le opere che ho fatto sono sempre molto più grandi di qual-siasi concezione che avessi potuto avere con la testa. E le ho scoperte con pa-zienza, piano piano. Cer-tamente stando molto sve-glio con la sapienza, ma non con un’imposizione alla materia. Siamo piccoli noi in confronto alle gran-di forze, ma possiamo te-nere insieme un gioco più grande. Se invece pensia-mo di dominarlo abbiamo perduto in partenza. La questione che ho in mano la capisco sempre alla fine del lavoro.Così è accaduto per Il Principe Amleto: ci ab-biamo lavorato tre anni, e alla fine ho capito che si trattava del passaggio dalla luce all’ombra, dal bene al male, una trasfor-mazione che può accadere in ognuno di noi, per rab-bia, per ribellione, a cau-sa delle ingiustizie subite. Da tutta la complessità te-matica del testo di Shake-

speare puoi estrarre infi-nite altre complessità, ma quale scegliere? La scelta è frutto di un lunghissimo processo di lavoro».

C’è uno spettacolo che ti ha aperto più di altri lo sguardo sul teatro?

«Ho visto La classe mor-ta di Kantor che avevo ini-ziato a studiare teatro da poco. Fui folgorato, non pensavo che il teatro fos-se così, e in seguito ho vi-sto rare volte spettacoli di quella potenza. Allora co-struivo dei pupazzi, dei piccoli manichini, alti qua-ranta centimetri, e ripro-dussi tutte le figure dello spettacolo. Anche se non avevo capivo nulla del te-sto, che era in polacco, era per me talmente eviden-te l’accadimento scenico che la parola la percepivo come un ulteriore colo-re drammatico, come una pennellata sopra la visio-ne. Col tempo mi sono reso conto che il lavoro di Kan-tor è stato quello che più ha segnato il mio percor-so, anche se non diretta-mente, insieme a quello di Pina Bausch. Kantor per me rappresenta la “stella” degli ultimi cinquant’anni del teatro novecentesco, la sua “complessità povera” è la sua forza».

In quali condizioni si trova a lavorare oggi un artista?

«È un momento molto dif-ficile. Nel teatro, in cima alla piramide dovrebbe-ro esserci gli artisti, per-ché non accadrebbe nien-te nell’arte teatrale se essi non ci mettessero le loro

ossa, il loro corpo. Per cosa lavora l’artista? Per soste-nere le strutture che sono nate per sostenere l’artista stesso? Mi pare che que-sta piramide sia in questo momento ribaltata, a fa-vore dei sistemi produtti-vi. E quando si sottostà a questi sistemi gli artisti si ritrovano schiacciati in un meccanismo che li costrin-ge ad autoriprodursi sem-pre uguali. Fino a pochi anni fa c’era-no luoghi che creavano un sottobosco completamen-te nascosto per coltivare un’arte che è sempre stata un’arte per ricchi: il teatro fino agli anni 70 era così. Di conseguenza, centri so-ciali a Milano come Iso-la, Santa Marta, Leonca-vallo sono stati dei luoghi dove la gente ha comincia-to a pensare che si poteva fare arte fuori dal mondo accademico. Nel 1990 oc-cupai uno spazio a Milano insieme a degli anarchici, l’Unione sindacale italia-na (Usi), lì ho lavorato per venti anni.Le tappe più importanti del mio lavoro e le ho cre-ate lì dentro. Ho sempre creato in luoghi simili, ma nel 2009 hanno sgombera-to l’Usi e proprio tre mesi fa con la dinamite hanno fatto crollare tutto l’edi-ficio. Ci restano solo dei “buchi” in questo momen-to, vengono privilegiate solo le attività che otten-gono immediatamente un risultato economico. Que-sto ha creato disorienta-mento nei giovani. Le ac-cademie di recitazione non risolvono il problema attoriale, ma restano or-mai l’unico spazio di lavo-ro comune».

disegno di Marco Smacchia

Page 5: Giornale del Festival - Santarcangelo · 13 | Part 1

Domenica 14 luglio 2013 santarcangelofestival.com | altrevelocita.it

Giornale del FestivalApprofondimenti critici da Santarcangelo •13

//////////////////////////////////////////////////////////// FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL TEATRO IN PIAZZA ///////////////////////////////////////////////////////////

****************************************************************************************************************************************************************

///////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

Dopo l’anteprima di giovedì sera, durante la quale la direttrice Silvia Bottiroli e il presidente Roberto Naccari hanno aperto il 43° Festival Internazionale del Teatro in Piazza ringraziando santarcangiolesi, artisti e tutti quanti collaboreranno alla realizzazione di queste due settimane di teatro - ma anche danza, musica, cinema, laboratori, incontri - il festival è ufficialmente cominciato venerdì 12 luglio. Sua specificità è quella di essere dedicato al “teatro di piazza”: ricerca, sperimentazione, tradizione, incontro tra le arti convergono nel tenta-tivo di indagare la dimensione della partecipazione e tenere vivo lo spirito di comunità. E così nel primo gior-no la città è stata attraversata da spettacoli diversi, ma in fondo non del tutto lontani tra loro, per il comune interrogarsi sulle relazioni che un individuo vive nel confronto con la collettività. All’appello alla pubblica so-lidarietà partito tra le stradine del centro con Agoraphobia, ha fatto eco in Piazza Ganganelli il video che gli Zimmerfrei hanno dedicato alla comunità, oggi in pericolo, dei Mutoidi; e ancora in piazza, l’esuberante ballo di Brian Lobel ci ha invitato per quattro ore a identificarci con lui nello spazio della sua cameretta: qualcuno è entrato a fargli compagnia; molti altri hanno continuato a passargli accanto, semplici spettatori di quella intimità. Infine Danio Manfredini, col suo Vocazione, muovendosi tra Shakespeare e Bernhard, ci ha raccon-tato la sua poetica visione della condizione dell’artista di teatro, svelandoci, con forza e delicatezza, la solitu-dine del perdente in una società che esalta i vincenti.

Simone Caputo

Le recensioni

******************

Virgilio Sieni / Lotte Van Den Berg / Gertjan Van Gennip /Kate McIntosh / Brian Lobel / Zoë Poluch

Articoli a pagina 2

L’editoriaLe

*******************

Lo spazio comu-ne del discorsoSperimentare il senso del-le cose nel loro farsi, gettar-si a occhi chiusi nell’azione. Molte delle opere viste fino-ra hanno indagato in vari modi lo slancio della par-tecipazione, della presa di contatto con chi ci sta di fronte in mezzo a una piaz-za o su un palcoscenico. Il coinvolgimento diretto del-lo spettatore non è più una novità, ma quando è lon-tano dai facili intratteni-menti, può interrogarci sul ruolo concreto del pubbli-co nella relazione teatra-le, ma anche dell’indivi-duo nel mondo. Cerchiamo opere che creino uno spazio comune del discorso, che non siano voci monologan-ti ma visioni costruite un po’ per volta, che sappia-no mettersi in discussio-ne perché in ascolto quelle dell’altro. Così proveremo a fare anche noi. Oggi tro-verete, insieme alle rubri-che di approfondimento, una selezione di recensioni che restituiscono un rapi-do sguardo sugli spettaco-li di questo primo weekend. Noi continuiamo a lavora-re, con la finestra aperta su Piazza Ganganelli, e torne-remo ospiti del Corriere da venerdì prossimo. A presto!

Alessandra Cava

La piazza, il centro del teatro

Le paroLe deL teatro

*****************

Teatro riflessivo di LAURA GEMINI

Secondo la teoria elabora-ta dall’antropologo ingle-se Victor Turner e dal te-atrante-teorico americano Richard Schechner, le per-formance sociali e cultura-li sono specchi riflessivi. Esse sono cioè luoghi pri-vilegiati per la costruzio-ne di meta-commenti sul mondo, sono opere d’arte artificiali e volontarie che permettono a una colletti-vità e ai suoi individui di riflettersi, appunto, sen-tendosi di volta in volta più o meno vicini a quello che vedono.

Segue a pagina 3

Danio Manfredini / ph Ilaria Scarpa

Page 6: Giornale del Festival - Santarcangelo · 13 | Part 1

Discorso Giallo è la se-conda declinazione di un progetto sui discor-si pubblici, che analiz-za ogni volta diversi e complessi aspetti della società. Da cosa nasce la necessità di affron-tare la questione della retorica pubblica attra-verso più monologhi?

«La necessità di declinare il discorso in più direzio-ni nasce dalla sensazione di tossicità del mondo che ci circonda, e in particola-re dell’Italia in cui operia-mo. La nostra peculiarità è quella di lavorare sulla spirale, mi interessa come figura perché è un cer-chio che ritorna sui pro-pri passi, ma a ogni ritor-no va più in profondità. Il progetto sui Discorsi non parte da un archetipo let-terario, come altri nostri lavori, ma indaga le con-taminazioni primarie del nostro vivere quotidiano. Politica, religione, sport, giustizia... ogni volta che ci connettiamo col mondo e con i media abbiamo a che fare con queste paro-le. Sono questioni che abi-tano ormai dentro di noi come un morbo; come pos-siamo farcene carico?L’artista è come un mol-lusco che trasforma le tos-sine in perle, in opere di bellezza. I Discorsi parto-no direttamente da queste tossine, sono stati compo-sti andando a indagare tutte le forme di vocifera-zione della parola pubbli-ca, che si diffonde come un gas velenoso nell’aria. Per farlo ci rivolgiamo princi-palmente all’universo te-levisivo, che dal suo av-vento ha scardinato e intaccato qualcosa defini-tivamente. Ad esempio Di-scorso Giallo giunge al pa-radosso in cui l’educazione nazionale diventa bipola-re, schiacciato tra scuola e TV. Il tentativo educa-tivo televisivo si realizza in trasmissioni per bambi-ni e adolescenti, masche-rate da scuole per talenti. In realtà si tratta di puro commercio e il loro succes-so richiede un legame qua-si religioso: è una sorta di

simonia della formazione, che viene venduta a chi ci crede ferventemente».

Cosa è avvenuto poi nel passaggio da questo materiale alla composi-zione dello spettacolo?

«Il materiale viene con-densato nell’opera in un tempo che non è realistico, che è compresso. L’opera è un imbuto in cui si pigia la materia tossica, e questo provoca un’effervescen-za, un bollore, un continuo movimento interno che af-fiora nella parola e nel ge-sto. C’è qualcosa di sopito che emerge all’esterno. In Discorso Giallo è la que-stione della figura psichi-ca della bambina nascosta nel corpo dell’attrice adul-ta (qui interpretata da Chiara Lagani), una bam-bina che non vuole cre-scere, chiusa dentro una matrioska. L’educazione mascherata di cui parlavo non vuole che il bambino cresca, che diventi adul-to. Ho parlato della televi-sione, ma anche l’universo scolastico non è certo con-fortante». Rispetto a Discorso Gri-gio, discorso “politi-co” attraversato in sce-na da Marco Cavalcoli, questo lavoro appare più mimetico e defini-to rispetto alle figure di riferimento.

«Si tratta di due tensioni differenti: in natura esi-ste un mimetismo faneri-co, ad esempio quello del-le farfalle che imitano finti occhi giganti sulle loro ali per spaventare il nemi-co, e un mimetismo cripti-co, che è quello del cama-leonte. In Discorso Grigio c’è una coincidenza tra la figura dell’attore e quel-la del politico. Le voci dei personaggi politici sono come brandelli, macchie di leopardo che contami-nano tutto lo spettacolo nella sua unità. In Discor-so Giallo invece le figure vengono attraversate una ad una, ognuna nel loro mondo, di cui esse sono le impronte».

La parola pubblica tra scuola e TV

Incontro con Luigi De Angelis

Esposizione di sé e cultura pop, vergogna e pulsione narcisista, entusiasmo e solitudine, colonizzazione dell’immaginario e indivi-dualismo: tutto questo vie-ne letteralmente tirato in ballo in Hold My Hand and We’re Halfway The-re. In una cameretta sen-za pareti Brian Lobel re-plica guardando i monitor televisivi, le coreografie e le canzoni di film cele-bri, invitando i passanti a unirsi a lui. Sembra di as-sistere a quello che ognu-no fa nella propria stanza quando si balla da soli e si imparano le mosse dei vi-deo che esaltano. Ma qui succede davanti a tutti, nella differenza degli ap-procci, tra la timidezza re-stia e l’euforia di una per-formance che, una volta indossate le cuffie, torna a essere misteriosamente

privata. Eppure non lo è, e si cavalca il crinale tra il piacere ludico, il bisogno d’attenzione e la massifi-cazione dell’esibizionismo. Ma anche l’esperienza del rischiare il ridicolo in una pubblica piazza. Un rischio da niente, da in-ghiottire d’un fiato, perché quello che resta è l’esse-re vivi.

Lucia Oliva

********Nella grotta municipa-le ci attende un uomo di-steso su un divano, il cor-po nudo ricoperto di miele. Indossa una corona e par-la flebile e intimidito. I suoi movimenti sono inde-cisi e la sua voce recita un cut up di filastrocche, ti-toli di film, luoghi comuni intervallati da frasi pun-genti e dirette a noi dieci spettatori. I suoi sguardi

///////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

Approfondimenti critici da Santarcangelo •13 - Festival Internazionale Del Teatro In Piazza///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO ////////////////////////////////////////////////////////////////////

L’obLò

******************

Leonardo Di Costanzo e “L’intervallo”«Ho fatto documentari, la maggior parte sono ambientati a Napoli, e ho sempre cercato di guardare questa città usando le sue particolarità e le sue bizzarrie per rappresentare le contraddizioni della modernità cercando di pre-scindere dal luogo dove queste si manifestano. A Napoli i ragazzi parlano, gesticolano, usano il corpo in un cer-to modo, ma interpretano disagi e contraddizioni che appartengono a tutti. Quando abbiamo scritto L’interval-lo con Maurizio Braucci e Mariangela Barbanente ci siamo sforzati di raccontare i ragazzi e la loro adolescenza. Fin dall’inizio il progetto escludeva il “fuori”, infatti è tutto girato nell’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi, senza però eliminare il dialetto e un modo di pensare e stare al mondo che è dei due protagonisti. Quello che sa-pevo lavorando al film è che volevo un ragazzo e una ragazza chiusi in uno spazio abbandonato che fosse lontano dalle connotazioni sociologiche della città, della periferia, del quartiere, del vicolo; che la scenografia non facesse da schermo, da filtro per i ragazzi: il centro del film dovevano essere loro con il proprio modo di immaginare futu-ro e paure. Ho deciso di tagliare la testa al toro e mettere la realtà fuori: nell’immaginario collettivo Napoli è pre-sente e non c’è bisogno di mostrarla, ma si possono usare gli stereotipi, governandoli senza diventarne schiavi e usandoli per far trovare allo spettatore dei riferimenti. Del resto, il cinema da sempre dialoga e gioca con i cliché. La sfida è riuscire a non fermarsi al compiacimento. La camorra è usata come un espediente narrativo: in fase di scrittura è venuta dopo perché volevamo giustificare come mai i ragazzi stessero lì dentro. Ma dal momento in cui la criminalità organizzata è nella storia, bisogna capirne gli atteggiamenti e le imposizioni, che cosa significa il contatto stretto con quella mentalità. E soprattutto che cosa provoca: i due protagonisti sono sballottati tra la ti-tubanza di Salvatore, che non sai se reagisca per maturità o per viltà, e il desiderio di rivolta di Veronica».

a cura di Nicola RugantiLeonardo Di Costanzo è regista de L’intervallo - Piazza Ganganelli - lunedì 15 luglio - ore 21.30

ci incollano alla sua stessa irrequietezza finché, stac-candosi dalla sostanza che lo lega alla seduta, il re nudo non si alza per eva-cuare un uovo dorato che raccoglie in mano e mo-stra al pubblico. «Se le api scomparissero dalla Ter-ra, all’uomo resterebbero quattro anni di vita», af-ferma la frase di Einstein che è fulcro di The Honey Queen di Gertjan Van Gennip. L’angoscia ver-so la morte non permet-te di alzarsi e agire, ma lascia incollati alle pro-prie intime riflessioni, a salvaguardare la vita che è quel divano di miele. E così, quando al termine il re ci congeda, non possia-mo andarcene senza sen-tirci egoisti per essere fug-giti dal suo disagio.

Alex Giuzio

********Arrivato al luogo dell’ap-puntamento, ho chiamato il numero che campeggia-va sui cartelli: una voce di donna canta per poi escla-mare “la cosa peggiore sa-rebbe che mi ascoltasse-ro”. Il suo è un soliloquio che si fa rito quando la voce si trasforma in gri-da e la donna si palesa. Ci attraversa con le sue urla quasi fosse un pro-feta: un appello alla soli-darietà, un interrogarsi su io/tu, noi/loro, riceve-re/perdere. Noi ascolta-tori, seguendo la perfor-mer nel suo aggirarsi tra le vie di Santarcangelo in-terpretiamo diversi atteg-giamenti possibili: la fo-bia del contatto, il trionfo della vacua curiosità, la banalità della derisione. La relazione col pubblico è occasionale: è spaesante quando la donna che con-duce la performance, qui interpretata da Daria De-florian, si rivolge ai pas-santi che malcelatamente infastiditi provano a scap-par via; inquisitoria quan-do i suoi occhi incrociano quelli di chi ha scelto di telefonare. Perché restia-mo ad ascoltare una voce

che si (ci) interroga sul-le sue (nostre) paure, de-sideri, sensazioni? Que-sta la domanda che resta una volta spento il telefo-no. Agoraphobia di Lot-te Van Den Berg ci in-terroga sulle zone d’ombra della relazione tra indivi-duo e collettività, ma la sua carica sembra non de-flagrare del tutto: perché è un’opera che pur non essendo site-specific è in parte disinnescata dal suo essere nel programma di un festival. Cosa signifi-cherebbe portare questo grido in un’altra piazza? Quale il vero rischio?

Simone Caputo

********Zoë Poluch e Valenti-na Desideri sono sedute ai lati della sala, si rivol-gono a noi e c’invitano ad immaginare un paesag-gio nordico. Dal buio in-timo si passa a luce pie-na, loro si alzano e con gesti lenti si appiattisco-no sul pavimento. Attra-verso un incedere voca-le che si vorrebbe neutro ma che scivola in enfasi antinarrativa (un neutro equivocato?), ora descrivo-no il suono delle piastrel-le e un bosco fuori dal Li-viana Conti, virando verso il fantastico: «Sto attra-versando laghi e frontie-re, poi divento la mia col-lanina». Montano ritmi elettronici, e Example prosegue in un’ossessio-ne danzata, fra iperbo-li solipsistiche e liberazio-ne della foga. Frammento di un avventuroso percor-so che sfuma la coreogra-fia in lente per studiare rapporti non gerarchici, il gesto delle performer non riesce però a sopravan-zare un qui ed ora trop-po quotidiano: inseguen-do un’ idea (di danza), si perde di vista la “presen-za”. Dunque ancora dob-biamo rimarcare come la naturalezza non possa che sgorgare da una raffina-tissima finzione? Ultima replica stasera alle 23.

Lorenzo Donati

/////////////////////////////////////////////////////////////////

Prime recensioni da santarcangelo •13

Kate McIntosh, All Ears / foto di Ilaria Scarpa

di AlessAndrA CAvA e luCiA OlivA

********Abbiamo incontrato Luigi De Angelis, che con Fanny & Alexander è presente al Festival con una serie di pro-getti legati all’infanzia e all’educazione, appartenenti a una riflessione più ampia sul rapporto tra individuo e comunità. Questa sera alle 21.30 presso lo Spazio Li-viana Conti la compagnia presenta l’ultima replica del monologo Discorso Giallo, martedì e mercoledì il labo-ratorio per bambini Pianeta Giallo condotto da Chiara Lagani, e il prossimo weekend Giallo - Radiodramma dal vivo, dal 18 al 21 luglio, all’interno del progetto Ra-dio e Infanzia.

Page 7: Giornale del Festival - Santarcangelo · 13 | Part 1

Le paroLe deL teatro

*******************

Riflessività [segue daLLa prima]

Dal rituale al teatro fino alle contemporanee performance ibride – per contenu-ti, linguaggi, funzioni – la questione della riflessività si è posta nei termini di un rapporto sempre problematico fra l’efficacia simbolica, che originariamen-te apparteneva ai rituali, e l’intrattenimento, che nasce con la forma teatrale. Il teatro come “luogo dello sguardo” intrattiene grazie alla capacità di distin-guere tra la rappresentazione e la vita vissuta, perché permette agli spettatori di osservare, giudicare, identificarsi, distaccarsi da quello che vedono. In que-sto senso possiamo allora comprendere perché l’intrattenimento si leghi alla ri-flessività, al di là del significato negativo che gli è stato attribuito dalla critica alla società dello spettacolo che lo ha spesso definito come svago e divertimen-to vuoto.Dal punto di vista teatrale, inoltre, la riflessività si è strutturata come un di-spositivo dello sguardo che però nel tempo ha ridisegnato la sua funzione at-traverso i linguaggi del corpo, verso “modi di vedere” capaci di riattingere ad un “sentire” sia fisico sia interiore e condiviso con gli altri, in maniera più vi-cina all’efficacia del rituale. Ed è infine nella dialettica fra efficacia e intratte-nimento che possiamo forse comprendere meglio l’emergenza di quello che oggi potremmo chiamare “teatro riflessivo”. Un teatro che usando con grande consapevolezza i temi della contemporaneità, sia a livello estetico sia di contenuti, si rivela molto interessante dal punto di vista sociologico. Il teatro riflessivo infatti è in grado di fornire dei parametri di osservazione non tanto “realistici” ma adatti a costruire dei meta-commenti sul mondo che sono indispensabili, lo si diceva all’inizio, alla qualità riflessiva della performance.

Laura Gemini*twitter @Lulla

*sociologa e docente di teatro all’Università di Urbino

PROGRAMMASi segnalano, tra gli altri

Valentina Desideri Fake Therapy / collAA/Sferisterio / ore. 12.00Marten Spangberg / in-contro - Potete Ascoltarmi Tutti / collAA/Sferisterio / ore 15.00-19.00 + perfor-mance Powered by Emo-tion / Piazza Ganganelli / ore 21.30Kate McIntosh All Ears + Incontro / Lavatoio / ore 21.00OMSK / Lotte van den Berg Agoraphobia + In-contro / Piazza Ganganel-li / ore 22.30Zoë Poluch Example / Liviana Conti 2,5 / ore 23.00

***a cura dell’Osservatorio Critico / Radio Gun GunPiazza Ganganelli / ore 19.00 / live showcase di Giuseppe Righini

***per sfogliare il pro-gramma completo:santarcangelofestival.com

///////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////

Approfondimenti critici da Santarcangelo •13 - Festival Internazionale Del Teatro In Piazza///////////////////////////////////////////////////////////////////// A CURA DELL’OSSERVATORIO CRITICO ////////////////////////////////////////////////////////////////////

Non di rado, negli ultimi anni, la comunità degli spettatori è stata spinta all’interazione e a riflet-tere sul suo momentaneo statuto di microcosmo sociale. Nel caso di All Ears, lavoro della neoze-landese Kate McIntosh, in replica questa sera a Santarcangelo (Lavatoio, ore 20), una serie di quesi-ti strutturano la fase ini-ziale: hai mai preso parte a una rissa? Se qualcuno lo proponesse, abbandone-resti la sala?E la risposta, appunto, è partecipata: il pubblico alza le mani o sosta in un silenzio pensato. Ma comunque indotto. Come quando l’artista, non pri-ma di aver dato istruzioni, concede la pausa del gioco: sedie scagliate contro il muro, lanci di biglie e caos da “spettatore infantile”.A posteriori: se resta lo sfasamento indotto dalla lettura del testo in italia-no, che lascia emergere le costanti del compor-tamento e mina il senso di un dialogo reale, ci si domanda anche quanto la pratica ludica - leggera ma non di superficie - si faccia

deflagrante contraltare di una richiesta etica.

Francesca Bini *******Questa è una mano, e questa è l’altra mano. E questa è la danza che modella e imbriglia la com-patta vivacità di Giordano Signorile, trasformando un evidente istinto scenico in un ricamo di movimento nitido e raffinato. Il dan-zatore gioca col violoncello che suona al suo fianco: ora lo asseconda immergendosi nelle sue note, ora lo indi-spettisce muovendosi su un’altra invisibile melodia. Il bambino è pugliese, avrà forse dieci anni, e si vede che ama questa danza. Ha incontrato Virgilio Sieni, e il suo immagina-rio coreografico comincia col salto da un trampolino molto alto. Miniatura di un respiro poetico complesso, in Racconto traspare lo sguardo adulto di chi ha guidato il corpo inesperto. E l’interprete è giovane, è spavaldo, imbattibile nel suo affrontare un pubbli-co a cui sembra ripetere, dall’inizio alla fine: «Ora tocca a me».

Serena Terranova