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AIDP Associazione Italiana per la Direzione del Personale Gruppo Lazio LA GIURISPRUDENZA DEL LAVORO 2011 ROMA, 16 APRILE 2012 A CURA DI AVV. MAURIZIO MANICASTRI PROF. AVV. MARCO MARAZZA VICE PRESIDENTE AIDP/LAZIO ORDINARIO DI DIRITTO DEL LAVORO UNIVERSITÀ DI TERAMO STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI CON IL CONTRIBUTO SULLA GIURISPRUDENZA RELATIVA AL “COLLEGATO LAVORO” DI AVV. DOMENICO DE FEO SOCIO STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI * * * * * HANNO COLLABORATO ALLA REDAZIONE DELLA RASSEGNA AVV. ISIDE DE GIULIO E AVV. FRANCESCA GUERRINI STUDIO LEGALE MARAZZA &ASSOCIATI __________________________________________________________________________________ STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI ROMA - MILANO - FIRENZE WWW.STUDIOMARAZZA.IT VIA DELLE TRE MADONNE, 8 00197 - ROMA 06/8073201 r.a. - 06/8088208 fax

Giurisprudenza lavoro 2004-2005 - aidp.it · I licenziamenti collettivi - Procedure di mobilità e cassa integrazione ... App. Bari, 23/04/2007). Cass. civ. Sez ... Nelle cause soggette

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AIDP Associazione Italiana per la Direzione del Personale

Gruppo Lazio

LA GIURISPRUDENZA DEL LAVORO 2011

ROMA, 16 APRILE 2012

A CURA DI

AVV. MAURIZIO MANICASTRI PROF. AVV. MARCO MARAZZA

VICE PRESIDENTE AIDP/LAZIO ORDINARIO DI DIRITTO DEL LAVORO

UNIVERSITÀ DI TERAMO

STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI

CON IL CONTRIBUTO SULLA GIURISPRUDENZA RELATIVA AL “COLLEGATO LAVORO”

DI

AVV. DOMENICO DE FEO

SOCIO

STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI

* * * * *

HANNO COLLABORATO ALLA REDAZIONE DELLA RASSEGNA

AVV. ISIDE DE GIULIO E AVV. FRANCESCA GUERRINI

STUDIO LEGALE MARAZZA &ASSOCIATI

__________________________________________________________________________________

STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI

ROMA - MILANO - FIRENZE WWW.STUDIOMARAZZA.IT

VIA DELLE TRE MADONNE, 8

00197 - ROMA

06/8073201 r.a. - 06/8088208 fax

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SOMMARIO

A. Il contratto collettivo di lavoro

- Interpretazione

- Efficacia

B. Lavoro subordinato e lavoro autonomo

C. Costituzione del rapporto

- Collocamento obbligatorio

- Patto di prova

D. I contratti a contenuto formativo

E. Il contratto di lavoro a tempo determinato

F. Il contratto di lavoro part-time

G. Il contratto di lavoro a progetto

H. Il contratto di associazione in partecipazione

I. La somministrazione di lavoro

J. Orario di lavoro

K. La retribuzione

- Obblighi retributivi

- T.F.R.

- Il Fondo di garanzia INPS

- Prescrizione crediti retributivi

L. Inquadramento e mansioni del lavoratore

-Inquadramento

- Lo ius variandi

- Le mansioni equivalenti, superiori e promiscue

- Il danno da demansionamento

M. Potere direttivo e modificazione del luogo di lavoro

- Il trasferimento

- La trasferta

- Il distacco

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N. Salute e sicurezza sul lavoro

- L’art. 2087 c.c. e le prestazioni di sicurezza

- Infortunio in itinere

- Il mobbing

O. La malattia

P. L’appalto

Q. Cessione d'azienda e diritti del lavoratore

R. Il potere disciplinare del datore di lavoro

- Contestazione e vincoli procedurali

- Proporzionalità della sanzione

S. I licenziamenti individuali

- Varie

- Giusta causa e giustificato motivo

- Superamento del periodo di comporto

- Licenziamento del dirigente

- Profili risarcitori

T. I licenziamenti collettivi

- Procedure di mobilità e cassa integrazione

U. Le dimissioni del lavoratore

V. L’attività sindacale

W. Rapporto previdenziale

X. Rinunce e transazioni

Z. Aspetti processuali

GIURISPRUDENZA SUL “COLLEGATO LAVORO”

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A. Il contratto collettivo di lavoro

- Interpretazione

Cass. civ. Sez. lavoro, 3 ottobre 2011, n. 20192

Nell'interpretazione del contratto collettivo di diritto comune, la volontà delle parti

dev'essere ricostruita in primo luogo attraverso il senso letterale delle parole utilizzate

e la loro comune intenzione quale emerga dal comportamento anche successivo alla

conclusione del contratto, nonché attraverso la lettura complessiva dell'accordo. Ne

consegue che l'art. 4 del c.c.n.l. 2 agosto 1995 dei dipendenti di imprese appaltatrici

nel settore dello smaltimento dei rifiuti, nello stabilire che, in caso di risoluzione del

rapporto di appalto, "il subentrante e le organizzazioni sindacali territoriali e aziendali

si incontreranno in tempo utile per avviare la procedura relativa al passaggio diretto

ed immediato del personale dell'impresa cessante", non si limita a prevedere un mero

obbligo a trattare, ma introduce un compiuto obbligo di assunzione in quanto attesta

la concorde volontà di apprestare lo strumento contrattuale idoneo a garantire la

continuità occupazionale. (Rigetta, App. Bari, 23/04/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 settembre 2011, n. 19227

In tema di giudizio per cassazione, la possibilità di valutare la conformità alla legge e

al contratto collettivo nazionale di lavoro del settore pubblico di un contratto

integrativo - che non può, come tale, essere direttamente interpretato in sede di

legittimità - è condizionata alla specifica produzione e indicazione di quest'ultimo

quale contratto su cui si fonda il ricorso, atteso che lo stesso, diversamente dal

contratto collettivo nazionale, non è pubblicato nella Gazzetta ufficiale della

Repubblica italiana ai sensi dell'art. 47, comma 8, del d.lgs. n. 165 del 2001. (Rigetta,

App. Roma, 22/03/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 febbraio 2011, n. 4170

Il regolamento per il personale del Banco di Sicilia ha natura negoziale ed è atto

equiparabile a un contratto collettivo di diritto comune, ma non può annoverarsi tra i

contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro; ne consegue che la violazione di esso

non è denunciabile direttamente in Cassazione e che non si applica l'obbligo di

deposito integrale del testo ex art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., restando

inolre l'interpretazione delle sue clausole riservata al giudice di merito, quale

accertamento di fatto censurabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della

violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale e dei vizi di omessa,

insufficiente o contraddittoria motivazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la

sentenza impugnata che aveva interpretato l'art. 94, settimo comma, del suddetto

regolamento riguardante l'ipotesi di estinzione del rapporto per impossibilità

sopravvenuta, determinata dalla totale inidoneità al servizio del dipendente). (Rigetta,

App. Messina, 27/04/2006).

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Cass. civ. Sez. lavoro, 17 gennaio 2011, n. 919

In sede di interpretazione delle clausole di un contratto collettivo relative alla

classificazione del personale in livelli o categorie occorre considerare la capacità

connotativa e discriminatoria in concreto dei profili professioni contenuti nell'accordo

e, ove gli stessi siano generici in quanto suscettibili di assumere svariate

concretizzazioni, è necessario integrare le indicazioni con le declaratorie di carattere

generale della categoria, che assumono valore determinante circa l'effettiva portata

degli specifici profili. Ne consegue che, con riguardo ai profili di assistente

amministrativo e di collaboratore amministrativo professionale, collocati nelle

categorie C e D del c.c.n.l. comparto sanità 1998-2001, preposti, rispettivamente, a

"mansioni amministrativo-contabili complesse quali, ad esempio, la ricezione e

l'istruttoria di documenti, compiti di segreteria, attività di informazione ai cittadini,

collaborazione ad attività di programmazione, studio e ricerca" e ad "attività

amministrative che comportano un'autonoma elaborazione di atti preliminari ed

istruttori dei provvedimenti di competenza dell'unità operativa in cui è inserito"

nonché di collaborazione con la dirigenza, è arbitraria una distinzione fondata

sull'assenza di autonomia del primo rispetto al secondo, trattandosi di elemento che

caratterizza anche lo svolgimento dei compiti di segreteria e di attività di

informazione ai cittadini, dovendosi, invece, fare riferimento alle ripartizione di

fondo tra le due categorie, basata sulla previsione, quanto alla categoria D, di un

adeguato patrimonio di conoscenze teoriche specialistiche e gestionali, con

attribuzione di una correlata autonomia e responsabilità proprie, in contrapposizione

alle competenze professionali meno elevate richieste per i lavoratori della categoria

C, cui sono assegnati ambiti operativi precisi e metodologie definite. (Rigetta, App.

Firenze, 03/03/2006).

- Efficacia

Cass. civ. Sez. lavoro, 22 aprile 2011, n. 9288

A seguito della trasformazione dell'Azienda autonoma di assistenza al volo per il

traffico aereo generale (AAAVTAG) in ente pubblico economico, denominato Ente

nazionale di assistenza al volo (ENAV), a decorrere dal 1° gennaio 1996 (legge 21

dicembre 1996, n. 665), con previsione di successiva trasformazione in S.p.a., i

rapporti di lavoro hanno assunto natura privatistica, alle dipendenze di soggetto

estraneo al complesso organizzatorio della P.A. e, ai sensi dell'art. 8, terzo comma,

della legge n. 665 del 1996, sono disciplinati - con efficacia immediatamente

operativa in assenza di una specifica norma transitoria dalle norme di diritto privato e

dalla contrattazione collettiva di lavoro, dovendosi ritenere, ai fini dell'ultrattività

della precedente regolamentazione pubblicistica, privo di ogni rilievo il disposto di

cui all'art. 14, secondo comma, della medesima legge, che riguarda esclusivamente i

profili organizzativi e gestionali del servizio pubblico affidato all'ENAV e non la

disciplina dei rapporti di lavoro. Ne consegue che, a partire dal momento della sua

trasformazione in ente pubblico, l'ENAV non ha più alcun obbligo di ricorrere alla

procedura selettiva prevista dall'art. 107 del regolamento del personale approvato con

d.P.R. 7 aprile 1983 n. 279. (Rigetta, App. Roma, 28/03/2006).

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Cass. civ. Sez. lavoro, 6 aprile 2011, n. 7892

Il rispetto dei minimi collettivi, quale condizione del diritto alla fiscalizzazione degli

oneri sociali, costituisce non già un obbligo per l'imprenditore di vincolarsi alle

previsioni di un contratto collettivo rispetto al quale intende restare estraneo, ma

piuttosto un onere per sua natura funzionale al conseguimento di vantaggi, la cui

utilità va ben oltre lo stretto ambito del singolo contesto aziendale, ferma restando, in

ogni caso, l'alternativa dell'inosservanza dei contratti stessi e della conseguente

esclusione dal beneficio, applicabile nello specifico settore.

Cass. civ. Sez. lavoro, 1 febbraio 2011, n. 2354

In tema di assicurazioni stipulate dal datore di lavoro in favore dei dipendenti, l'art.

128 del CCNL 2004/2008 per i dipendenti di istituti di vigilanza privata va

interpretato nel senso che la franchigia prevista per l'indennizzabilità delle invalidità

permanenti, in base al contratto di assicurazione stipulato dal datore di lavoro, è

operativa dal 1° gennaio 2007, essendo ancorata a tale data l'efficacia delle nuove

disposizioni dettate dal contratto, quali quelle che riguardano la nuova definizione di

infortunio professionale e l'introduzione della franchigia, e restando irrilevante la

previsione di diversa decorrenza per i nuovi massimali. (Principio affermato in sede

di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e

accordi collettivi ex art. 420 bis cod. proc. civ.). (Rigetta, Trib. Torino, 04/05/2009).

Cass. civ. Sez. lavoro, 20 gennaio 2011, n. 1246

Nelle cause soggette al rito del lavoro, l'acquisizione del testo dei contratti o accordi

collettivi può aver luogo anche in appello, sia attraverso la richiesta di informazioni

alle associazioni sindacali, la quale non è soggetta al divieto di cui all'art. 437,

secondo comma, cod. proc. civ., non costituendo un mezzo di prova, sia attraverso

l'esercizio da parte del giudice del potere officioso, riconosciuto dal medesimo art.

437, secondo comma, di invitare le parti a produrre il contratto collettivo, ove non ne

risulti contestata l'applicabilità al rapporto; in ogni caso, pur non essendo automatico

l'accoglimento di tali istanze, spetta al giudice, ove formulate, valutarne

l'ammissibilità, sulla base di tutti gli elementi versati in atti, esplicitando le ragioni

che ne fondino il rigetto. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio

la sentenza impugnata resa in giudizio nel corso del quale non erano state acquisite

d'ufficio le tabelle allegate al contratto collettivo aziendale ed il giudice non aveva

motivato sull'espressa istanza in tal senso formulata dal lavoratore, desumendo però,

dalla mancanza di tali documenti agli atti di causa, l'impossibilità di verifica dei

conteggi allegati al ricorso). (Cassa con rinvio, App. Bologna, 22/08/2006).

* * *

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B. Lavoro subordinato e lavoro autonomo

Cass. civ. Sez. lavoro, 26 luglio 2011, n. 16254

L'elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto

di lavoro autonomo, assumendo la funzione di parametro normativo di

individuazione, è l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del

datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia, mentre altri

elementi, quali l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un

orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non

decisiva.

Cass. civ. Sez. Unite, 28 aprile 2011, n. 9441

L'azione di arricchimento ex art. 2041 cod. civ. può essere esercitata anche nei

confronti della P.A. che abbia tratto profitto dall'attività lavorativa di un privato non

formalmente legato da un rapporto di lavoro subordinato o autonomo, ma che tuttavia

abbia colmato, con la sua opera, una lacuna organizzativa, fermo restando, da un lato,

che l'indennizzo che da tale azione può derivare deve corrispondere all'effettivo

arricchimento, provato o almeno probabile, e, dall'altro, che tale azione, stante il suo

carattere sussidiario, deve ritenersi esclusa in ogni caso in cui il danneggiato, secondo

una valutazione da compiersi in astratto, possa esercitare un'altra azione per farsi

indennizzare il pregiudizio subito; tale azione è devoluta alla giurisdizione del giudice

ordinario, né rileva, per escludere l'anzidetta qualificazione, il fatto che il privato, allo

scopo di quantificare la portata dell'arricchimento, abbia fatto riferimento ad importi

in qualche modo correlati alla retribuzione spettante ai dipendenti pubblici. (Cassa

con rinvio, App. Lecce, 14/09/2009).

Cass. civ. Sez. lavoro, 14 febbraio 2011, n. 3594

In relazione alla qualificazione come autonome o subordinate delle prestazioni rese

da un professionista in uno studio professionale (nella specie, consulente fiscale in

uno studio legale tributarista), la sussistenza o meno della subordinazione deve essere

verificata in relazione alla intensità della etero - organizzazione della prestazione, al

fine di stabilire se l'organizzazione sia limitata al coordinamento dell'attività del

professionista con quella dello studio, oppure ecceda le esigenze di coordinamento

per dipendere direttamente e continuativamente dall'interesse dello stesso studio,

responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della

sola assicurazione di prestazioni altrui. (Nella specie la S.C. ha confermato la

sentenza di merito che aveva negato il carattere subordinato del rapporto avendo

accertato che l'organizzazione della prestazione non eccedeva le esigenze di

coordinamento dell'attività del professionista con quella dello studio e che i controlli -

esercitati sui tempi dell'incarico e sul risultato conclusivo dell'attività svolta dal

collaboratore - non riguardavano le modalità di espletamento dell'incarico e non si

traducevano in una espressione del potere conformativo sul contenuto della

prestazione). (Rigetta, App. Roma, 21/06/2007).

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Cass. civ. Sez. lavoro, 20 gennaio 2011, n. 1238

Spetta al giudice del merito accertare il comportamento tenuto dalle parti

nell'attuazione del rapporto di lavoro al fine della conseguente qualificazione dello

stesso come lavoro autonomo ovvero come lavoro subordinato e la relativa

valutazione non è censurabile in cassazione ove correttamente ed adeguatamente

motivata. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva

inquadrato le prestazioni rese dal c.d. "pony express" nell'ambito del rapporto di

lavoro autonomo per l'utilizzo di un mezzo di locomozione di proprietà del

lavoratore, con oneri economici e di gestione a suo carico, per l'autonomia

decisionale nel "quomodo" e nel "quando" dell'itinerario da percorrere e delle

consegne e per il rischio d'impresa a carico del lavoratore, comprovato dall'assenza di

compenso per l'impossibilità della prestazione in caso di malfunzionamento del

mezzo di trasporto). (Rigetta, App. Roma, 14/04/2005).

* * *

C. Costituzione del rapporto

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 novembre 2011, n. 25270

In presenza di un gruppo di società, la concreta ingerenza della società capogruppo

nella gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle società del gruppo, che

ecceda il ruolo di direzione e coordinamento generale spettante alla stessa sul

complesso delle attività delle società controllate, determina l'assunzione in capo alla

società capogruppo della qualità di datore di lavoro, in quanto soggetto effettivamente

utilizzatore della prestazione e titolare dell'organizzazione produttiva nel quale

l'attività lavorativa è inserita con carattere di subordinazione. (Rigetta, App. Torino,

11/07/2007).

- Collocamento obbligatorio

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 agosto 2011, n. 17720

Il datore di lavoro che instauri un rapporto di lavoro con un disabile, assunto

obbligatoriamente secondo quanto disposto dalla legge n. 482 del 1968, stante

l'obbligo di adottare tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica dei

lavoratori a norma dell'art. 2087 c.c., deve, in siffatta ipotesi, a maggior ragione, fare

in modo che le mansioni alle quali il lavoratore invalido venga adibito siano

compatibili con la sua condizione. Tanto ciò è vero che le eventuali assenze del

lavoratore disabile derivanti da malattie, aventi un collegamento causale diretto con le

mansioni svolte dal medesimo, sia le assenze causate da malattie rispetto alle quali le

mansioni espletate abbiano solo un ruolo di concausa, devono essere escluse da quelle

utili per la determinazione del periodo di comporto. Ciò è giustificato dal fatto che il

lavoratore, tanto più se invalido, ha il diritto di ottenere una collocazione lavorativa

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idonea a salvaguardare la propria salute nel rispetto dell'organizzazione aziendale in

concreto realizzata dal datore di lavoro.

Cass. civ. Sez. lavoro, 3 giugno 2011, n. 12131

In tema di collocamento obbligatorio di centralinisti telefonici non vedenti della

Regione Sicilia e con riferimento al rifiuto di assunzione da parte del datore di lavoro,

il rapporto tra l'art. 10 legge della Regione Sicilia 30 aprile 1991, n. 12 e la legge 12

marzo 1999, n. 68, in ragione dei limiti alla potestà legislativa regionale stabiliti

dall'art. 17 dello statuto di autonomia, deve essere risolto alla luce del principio di

cedevolezza delle disposizioni regionali che non siano compatibili con i principi ed

interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato contenuti nella legislazione

statale sopravvenuta, improntata ad una serie di controlli, pienamente compatibili con

l'art. 41, secondo comma, della Costituzione, posto che si coniugano con l'utilità

sociale, come rettamente intesa dal legislatore costituzionale, attento ai valori della

libertà, anche dal bisogno, e della dignità umana dei concittadini, nella specie, non

vedenti. Ne consegue che, per il centralinista non vedente al quale sia stata rifiutata

l'assunzione, in presenza delle condizioni di legge, è ammessa la tutela ex art. 2932

cod. civ., perché il sistema legale assicura allo stesso un inquadramento contrattuale

in cui sono prestabilite le mansioni, la qualifica e il trattamento economico, ivi

compresa l'indennità (legale) di mansione. (Rigetta, App. Palermo, 16/03/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 16 maggio 2011, n. 10731

In tema di collocamento obbligatorio dei disabili, in caso di avvio presso l'impresa di

destinazione della procedura di mobilità disciplinata dagli articoli 4 e 24 della legge

n. 223 del 1991, l'obbligo del datore di lavoro di procedere all'assunzione del

personale invalido è sospeso per l'intera durata della procedura, nonché, ove la stessa

si concluda con almeno cinque licenziamenti, per l'intero periodo - pari ad un anno

dall'ultimo licenziamento nel regime anteriore alle modifiche introdotte con l'art. 6

del d.lgs. n. 297 del 2002 - in cui permane il diritto di precedenza all'assunzione

previsto dall'art. 8, primo comma, legge n. 223 del 1991, senza che ostino limitazioni

territoriali. Ne consegue che il provvedimento di avviamento obbligatorio al lavoro

può essere legittimamente adottato dal datore di lavoro solo a seguito della cessazione

della sospensione dell'obbligo, potendo la relativa istanza di assunzione essere

effettuata, entro il termine di sessanta giorni ai sensi dell'art. 9, primo comma, legge

n. 68 del 1999, solo da tale momento. (Cassa e decide nel merito, App. Roma,

05/11/2007).

- Patto di prova

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 gennaio 2011, n. 1957

Il patto di prova apposto al contratto di lavoro, oltre a dover risultare da atto scritto,

deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l'oggetto,

che, tuttavia, specie quando trattasi di lavoro intellettuale e non meramente esecutivo,

non debbono necessariamente essere indicate in dettaglio, essendo sufficiente che, in

base alla formula adoperata nel documento contrattuale, siano determinabili. (Nella

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specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto valido il patto

di prova in relazione alle mansioni di direttore amministrativo, con qualifica di

quadro, specificata nella declaratoria ex art. 4 del c.c.n.l. commercio). (Rigetta, App.

Venezia, 31/08/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 11 gennaio 2011, n. 458

In tema di licenziamento illegittimo (nella specie, per mancato superamento del

periodo di prova), la determinazione, tra un minimo ed un massimo, della misura

dell'indennità risarcitoria, previste dall'art. 19 del c.c.n.l. per i dirigenti industriali,

spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione

assente, illogica o contraddittoria. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza

impugnata che aveva determinato la predetta indennità nella misura di quindici

mensilità - in riferimento ad un minimo calcolabile di dodici ed un massimo di

ventidue mensilità - dando rilievo preminente, da un lato, al breve periodo di rapporto

di lavoro e, dall'altro, alle circostanze relative al recesso, motivato sulla base di un

patto di prova nullo per difetto della forma scritta contestuale o anteriore

all'instaurazione del rapporto lavorativo). (Rigetta, App. Torino, 01/06/2007).

* * *

D. I contratti a contenuto formativo

Cass. civ. Sez. lavoro, 2 agosto 2011, n. 16888

Il principio contenuto nell'art. 3 del d.l. n. 726 del 1984, convertito dall'art. 1 della

legge n. 863 del 1984, secondo il quale in caso di trasformazione del rapporto di

formazione e lavoro in rapporto a tempo indeterminato, ovvero nel caso di assunzione

a tempo indeterminato, con chiamata nominativa, entro dodici mesi dalla cessazione

del rapporto di formazione e lavoro, il periodo di formazione e lavoro deve essere

computato nell'anzianità di servizio anche quando l'anzianità sia presa in

considerazione da discipline contrattuali ai fini dell'attribuzione di emolumenti che

hanno fondamento nella sola contrattazione collettiva, non integra una immotivata e

irrazionale interferenza del legislatore rispetto alle prerogative delle parti collettive in

materia di trattamento retributivo di lavoratori, ma assolve, per ragioni di interesse

generale alle funzioni di consentire un coordinamento con la disciplina ordinaria di

quella propria del contratto di formazione lavoro al fine di riequilibrare, attraverso

previsioni di favore, la debole condizione del lavoratore assunto con questo tipo di

contratto. (Rigetta, App. Salerno, 14/04/2009).

Cass. civ. Sez. lavoro, 22 aprile 2011, n. 9294

Nel contratto di formazione e lavoro la divergenza fra obblighi contrattuali ed il

concreto svolgimento del rapporto non realizza un inadempimento del datore di

lavoro sanzionabile con la conversione del rapporto medesimo in rapporto di lavoro a

tempo indeterminato, ove detto svolgimento - secondo la valutazione del giudice del

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merito, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata - avvenga con

modalità tali da non compromettere la funzione del contratto, che, diversamente

dall'apprendistato, non tende a consentire il mero conseguimento delle nozioni base

per l'esecuzione della prestazione professionale, ma a favorire, attraverso

l'acquisizione di specifiche conoscenze, l'inserimento del lavoratore

nell'organizzazione aziendale in funzione dell'accesso nel mondo del lavoro. In difetto

di predeterminazione legislativa di specifici modelli di formazione, il giudice, per

accertare che non vi sia stato inadempimento degli obblighi formativi, può e deve fare

riferimento al progetto formativo approvato, indipendentemente dal fatto che il

lavoratore abbia o meno tempestivamente dedotto la mancanza di formazione anche

in relazione al progetto. (Rigetta, App. Roma, 25/09/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 23 marzo 2011, n. 6639

Nel rapporto di lavoro subordinato privato non opera, di regola, il principio di parità

di trattamento retributivo; ne consegue la validità dell'art. 7 del CCNL del 1995 del

settore autoferrotranvieri laddove prevede la riduzione salariale per i primi 15 mesi di

rapporto a tempo indeterminato, a seguito della trasformazione di contratto di

formazione e lavoro, per i motivi espressi dalle parti stipulanti e, cioè, per l'incentivo

premiante per il datore di lavoro che trasformi in rapporti a tempo indeterminato

l'80% dei contratti di formazione e lavoro in scadenza e per la considerazione che i

lavoratori "neoassunti" si trovino in possesso di una professionalità non comparabile

con quella degli altri. (Cassa con rinvio, App. Milano, 01/07/2005).

Trib. Perugia Sez. lavoro, 22 novembre 2011

Il rapporto di lavoro svolto dai medici iscritti alle scuole di specializzazione

universitarie non è inquadrabile nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato né del

lavoro autonomo. Trattasi infatti di una particolare ipotesi di contratto di formazione

lavoro oggetto di specifica disciplina e rispetto alla quale non può ravvisarsi una

relazione sinallagmatica di scambio tra la suddetta attività e la remunerazione prevista

dalla legge in favore degli specializzandi trattandosi di emolumenti destinati a

sopperire alle esigenze materiali per l'impegno a tempo pieno degli interessati e non

costituiscono il corrispettivo delle prestazioni svolte.

* * *

E. Il contratto di lavoro a tempo determinato

Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 26-01-2012, n. 586

La clausola 5, punto 1, lettera a), dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato,

concluso il 18 marzo 1999, che compare in allegato alla Direttiva n. 1999/70/CE del

Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul

lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che l'esigenza

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temporanea di personale sostitutivo, prevista da una normativa nazionale come quella

controversa nella causa principale, può, in linea di principio, costituire una ragione

obiettiva ai sensi di detta clausola. Il solo fatto che un datore di lavoro sia obbligato a

ricorrere a sostituzioni temporanee in modo ricorrente, se non addirittura permanente,

e che si possa provvedere a tali sostituzioni anche attraverso l'assunzione di

dipendenti in forza di contratti di lavoro a tempo indeterminato non comporta

l'assenza di una ragione obiettiva in base alla clausola 5, punto 1, lettera a), di detto

accordo quadro, né l'esistenza di un abuso ai sensi di tale clausola. Tuttavia, nella

valutazione della questione se il rinnovo dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo

determinato sia giustificato da una ragione obiettiva siffatta, le autorità degli Stati

membri, nell'ambito delle loro rispettive competenze, devono prendere in

considerazione tutte le circostanze del caso concreto, compresi il numero e la durata

complessiva dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi in

passato con il medesimo datore di lavoro.

Cass. civ. Sez. lavoro, 15 dicembre 2011, n. 27058

Con riferimento specifico alle ragioni di carattere sostitutivo, pertanto, il contratto a

termine se in una situazione aziendale elementare è configurabile come strumento

idoneo a consentire la sostituzione di un singolo lavoratore addetto a specifica e ben

determinata mansione, allo stesso modo in una situazione aziendale complessa è

configurabile come strumento di inserimento del lavoratore assunto in un processo in

cui la sostituzione sia riferita non ad una singola persona, ma ad una funzione

produttiva specifica che sia occasionalmente scoperta. In quest'ultimo caso, il

requisito della specificità può ritenersi soddisfatto non tanto con l'indicazione

nominativa del lavoratore o dei lavoratori sostituiti, quanto con la verifica della

corrispondenza quantitativa tra il numero dei lavoratori assunti con contratto a

termine per lo svolgimento di una data funzione aziendale e le scoperture che per

quella stessa funzione si sono realizzate per il periodo dell'assunzione.

Cass. civ. Sez. lavoro, 12 dicembre 2011, n. 26590

La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sé

insufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo

consenso in quanto, affinché possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che

sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo

contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali

circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di

porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicché la valutazione del

significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di

merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono

vizi logici o errori di diritto.

Cass. civ. Sez. Unite, 3 novembre 2011, n. 22733

In tema di riparto di giurisdizione nelle controversie relative a rapporti di lavoro

pubblico privatizzato, spetta alla giurisdizione generale di legittimità del giudice

amministrativo la controversia nella quale la contestazione - pur richiedendosi, in

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concreto, la rimozione del provvedimento di conferimento di un incarico dirigenziale

(e del relativo contratto di lavoro), previa disapplicazione degli atti presupposti -

investa direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo mediante la

deduzione della non conformità a legge degli atti organizzativi, attraverso i quali le

amministrazioni pubbliche definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli

uffici e i modi di conferimento della titolarità degli stessi, mentre appartiene alla

giurisdizione del giudice ordinario la contestazione che investa esclusivamente i

singoli atti di conferimento degli incarichi, che - pur evidenziando nel loro insieme

l'intenzione dell'amministrazione di adottare una decisione di ordine generale - non

rinvengano in un atto autonomo la concreta scelta dell'amministrazione di esercizio

del potere generale di indirizzo e organizzazione degli uffici. (Nella specie, la P.A. si

era limitata a conferire, a soggetti esterni, dei nuovi incarichi dirigenziali e a

deliberare la cessazione di quelli interni in atto, senza, tuttavia, che tali provvedimenti

trovassero la loro fonte in una scelta organizzativa di esternalizzazione; le S.U.,

pertanto, in applicazione del principio di cui alla massima, hanno dichiarato la

giurisdizione del giudice ordinario). (Regola giurisdizione).

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 novembre 2011, n. 24479

Il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato costituendo

l'apposizione di un termine una deroga. Nell'assenza delle ragioni giustificative

consentite dall'ordinamento per la determinazione di un termine finale, il contratto è

viziato da nullità parziale e deve essere ricondotto alla disciplina del tempo

indeterminato.

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 giugno 2011, n. 14283 Le assunzioni disposte ai sensi dell'art. 23, l. n. 56/1987, che demanda alla

contrattazione collettiva nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del

rapporto di lavoro, configura una "delega in bianco" a favore dei sindacati i quali,

senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine omologhe a

quelle previste per legge, possono legittimare il ricorso al contratto di lavoro a

termine per causali di carattere oggettivo ed anche per ragioni di tipo meramente

"soggettivo", costituendo l'esame congiunto delle parti sociali, sulle necessità del

mercato, idonea garanzia per i lavoratori e per un'efficace salvaguardia dei loro diritti.

Cass. civ. Sez. lavoro, 26 maggio 2011, n. 11573

In tema di assunzioni a termine di lavoratori dello spettacolo (art. 1, secondo comma,

lett. E), della legge 18 aprile 1962, n. 230, come modificato dalla legge 23 maggio

1977, n. 266), non solo è necessario che ricorrano contestualmente i requisiti della

temporaneità e della specificità, ma è indispensabile, altresì, che l'assunzione riguardi

soggetti il cui apporto lavorativo si inserisca, con vincolo di necessità diretta, anche

se complementare e strumentale, nello specifico spettacolo o programma, sicché non

può considerarsi sufficiente ad integrare l'ipotesi di legittimo ricorso al contratto a

tempo determinato la mera qualifica tecnica od artistica del personale correlata alla

produzione di spettacoli o programmi radiofonici o televisivi, occorrendo che

l'apporto del peculiare contributo professionale, tecnico o artistico del soggetto

esterno sia necessario per il buon funzionamento dello spettacolo, in quanto non

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sostituibile con le prestazioni del personale di ruolo dell'azienda. (Nella specie, la

S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva dichiarato la nullità dei contratti

a termine e la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con

congrua e logica motivazione in ordine allo svolgimento da parte del ricorrente di una

attività lavorativa ordinaria, continuativa e riferita indifferentemente alle molteplici, e

non omogenee, produzioni artistiche allestite dalla Fondazione Teatro dell'Opera di

Roma). (Rigetta, App. Roma, 18/12/2008)

Cass. civ. Sez. lavoro, 17 febbraio 2011, n. 3871

In base ad un'interpretazione coerente con il principio di non discriminazione dei

lavoratori a tempo determinato, sancito dall'art. 6 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368,

in attuazione della direttiva comunitaria 70/1999 relativa all'accordo quadro sul

lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES, deve ritenersi

che l'art. 13 del c.c.n.l. del 16 maggio 2001, relativo al comparto Ministeri e

integrativo del precedente c.c.n.l. del 16 febbraio 1999, nel prevedere la fruibilità di

permessi retribuiti per motivi di studio, nella misura di 150 ore, da parte dei

dipendenti con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non esclude che i medesimi

permessi debbano essere concessi a dipendenti assunti a tempo determinato, sempre

che non vi sia un'obiettiva incompatibilità in relazione alla natura del singolo

contratto a termine; né l'esclusione del beneficio potrebbe giustificarsi, in ragione

della mera apposizione del termine di durata contrattuale, per l'assenza di uno

specifico interesse della P.A. alla elevazione culturale dei dipendenti, giacché la

fruizione dei permessi di studio prescinde dalla sussistenza di un tale interesse in capo

al datore di lavoro, pubblico o privato, essendo riconducibile a diritti fondamentali

della persona, garantiti dalla Costituzione (art. 2 e 34 Cost.) e dalla Convenzione dei

diritti dell'uomo (art. 2 Protocollo addizionale CEDU), e tutelati dalla legge in

relazione ai diritti dei lavoratori studenti (art. 10 della legge n. 300 del 1970).

(Rigetta, App. Trento, 18/10/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 7 febbraio 2011, n. 2990

L’apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato per ragioni sostitutive è

legittima se l’enunciazione dell’esigenza di sostituire lavoratori assenti – da sola

insufficiente ad assolvere l’onere di specificazione delle ragioni stesse – risulti

integrata dall’indicazione di elementi ulteriori che consentano di determinare il

numero dei lavoratori da sostituire, ancorché non identificati nominativamente, ferma

restando in ogni caso la verifica circa l’effettività del presupposto di legittimità

prospettato.

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 gennaio 2011, n. 1931

In tema di apposizione del termine al contratto di lavoro, il legislatore ha imposto,

con l'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001, un onere di specificazione delle

ragioni giustificatrici "di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo" del

termine finale, che debbono essere sufficientemente particolareggiate così da rendere

possibile la conoscenza della loro effettiva portata e il relativo controllo di effettività,

dovendosi ritenere tale scelta in linea con la direttiva comunitaria 1999/70/CE e

dell'accordo quadro in essa trasfuso, come interpretata dalla Corte di Giustizia

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(sentenza del 23 aprile 2009, in causa C-378/07 ed altre; sentenza del 22 novembre

2005, in causa C-144/04), la cui disciplina non è limitata al solo fenomeno della

reiterazione dei contratti a termine (ossia ai lavoratori con contratti di lavoro a tempo

determinato successivi) ma si estende a tutti i lavoratori subordinati con rapporto a

termine indipendentemente dal numero di contratti stipulati dagli stessi, rispetto ai

quali la clausola 8, n. 3 (cosiddetta clausola "di non regresso") dell'accordo quadro

prevede - allo scopo di impedire ingiustificati arretramenti di tutela nella ricerca di un

difficile equilibrio tra esigenze di armonizzazione dei sistemi sociali nazionali,

flessibilità del rapporto per i datori di lavoro e sicurezza per i lavoratori - che

l'applicazione della direttiva "non costituisce un motivo valido per ridurre il livello

generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo". (Rigetta,

App. Firenze, 29/12/2005).

* * *

F. Il contratto di lavoro part-time

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 novembre 2011, n. 24476

La nullità della clausola sul tempo parziale, per difetto di forma scritta, non comporta,

ai sensi dell'art. 1419, comma 1, c.c., l'invalidità dell'intero contratto. Ne consegue

che, fatta salva l'ipotesi in cui risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza

quella parte colpita da nullità, per il principio generale di conservazione del negozio

giuridico colpito da nullità parziale, il rapporto di lavoro deve considerarsi a tempo

pieno.

Cass. civ. Sez. lavoro, 19 luglio 2011, n. 15774

In tema di lavoro a tempo parziale, l'osservanza di un orario lavorativo pari a quello

previsto per il tempo pieno è idonea a comportare, nonostante la difforme iniziale

volontà delle parti, l'automatica trasformazione del rapporto part-time in altro a tempo

pieno, non occorrendo, a tal fine, l'osservanza di alcun requisito formale. (Rigetta,

App. Milano, 22/02/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 4 maggio 2011, n. 9769

In tema di prestazioni di lavoro subordinato (nella specie, presso aziende di credito),

la mancata concessione della trasformazione a "part time" del rapporto a tempo pieno,

ove nel caso concreto quest'ultima risulti giuridicamente doverosa, ai sensi e per gli

effetti della contrattazione collettiva, costituisce violazione dei criteri di buona fede e

correttezza che debbono ispirare l'esecuzione del contratto e, quindi, inadempimento

contrattuale, di cui si può chiedere l'accertamento in relazione alla domanda di

risarcimento dei danni conseguenti alla mancata trasformazione del rapporto di

lavoro. (Cassa senza rinvio, App. Ancona, 21/03/2006).

* * *

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G. Il contratto di lavoro a progetto

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 marzo 2012, n. 4476

La natura di lavoro "a contratto" o "a progetto" non può essere considerata se

sostenuta da un controllo "particolarmente accentuato ed invasivo" da parte

dell'azienda. Inoltre, qualora il lavoratore è pienamente inserito nell'organizzazione

della società, utilizzando strumenti e mezzi di quest'ultima senza alcun rischio di

impresa e qualora riceva dall'azienda "puntuali ordini di servizio", il rapporto va

ricondotto allo schema della subordinazione e non in quello della collaborazione.

Cons. Stato Sez. V, 21 ottobre 2011, n. 5640

In tema di appalti pubblici, è da ritenersi congrua l'offerta che preveda l'utilizzo di

personale con contratto a progetto per l'espletamento di un servizio di "front office".

Infatti, in presenza di tale tipologia contrattuale non è precluso alle parti di

predeterminare un orario di lavoro in funzione del risultato da conseguire, ferma

restando la condizione di autonomia dei lavoratori, purché la misura temporale della

prestazione non costituisca l'elemento caratterizzante del rapporto.

Trib. Bologna Sez. lavoro, 19 ottobre 2011

Il datore di lavoro che abbia impedito al lavoratore di portare a termine l'incarico

conferito con lo stipulato contratto a progetto, determinando in esso patologie,

pacificamente accertate, delle quali non aveva mai sofferto in precedenza, deve

ritenersi responsabile delle stesse e, conseguentemente, condannato al risarcimento

del danno provocato.

Trib. Milano Sez. lavoro, 16 settembre 2011

Configura un rapporto di lavoro subordinato e non invece un contratto a progetto, il

contratto sottoscritto dai convenuti nel quale sia individuata la fase di lavoro da

svolgere, siano messi a disposizione dei lavoratori i mezzi e gli strumenti necessari

per il conseguimento degli obiettivi, sia prevista un'organizzazione ed un

coordinamento aziendale e sia richiesta la presenza giornaliera presso la ditta.

Trib. Milano Sez. lavoro, 24 gennaio 2011

Nel contratto a progetto, il progetto (o il programma) deve essere del collaboratore,

non dell'azienda: spetta al collaboratore realizzarlo, non all'imprenditore. Il

committente determina il progetto (un obiettivo imprenditoriale) sulla base della

propria strategia, ma dovrebbe essere il collaboratore, con la propria attività, a

determinare in concreto la propria attività.

* * *

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H. Il contratto di associazione in partecipazione

Cass. civ. Sez. I, 24 giugno 2011, n. 13968

Il contratto di associazione in partecipazione, che si qualifica per il carattere

sinallagmatico fra l'attribuzione da parte di un contraente (associante) di una quota di

utili derivanti dalla gestione di una sua impresa e di un suo affare all'altro (associato)

e l'apporto da quest'ultimo conferito, non determina la formazione di un soggetto

nuovo e la costituzione di un patrimonio autonomo, nè la comunanza dell'affare o

dell'impresa, i quali restano di esclusiva pertinenza dell'associante. Ne deriva che

soltanto l'associante fa propri gli utili e subisce le perdite, senza alcuna partecipazione

diretta ed immediata dell'associato, il quale può pretendere unicamente che gli sia

liquidata e pagata una somma di denaro corrispondente alla quota spettante degli utili

e all'apporto, ma non che gli sia attribuita una quota degli eventuali incrementi

patrimoniali, compreso l'avviamento, neppure se ciò le parti abbiano previsto nel

contratto, in quanto una clausola di tal fatta costituisce previsione tipica dello schema

societario, come tale incompatibile con la figura disciplinata dagli art. 2549 e segg.

cod. civ., con la conseguenza che al contratto complesso, in tal modo configurabile,

deve applicarsi soltanto la disciplina propria del contratto di associazione in

partecipazione, ove sia accertato che la funzione del medesimo sia quella in concreto

prevalente. (Rigetta, App. Salerno, 01/02/2006).

Cass. civ. Sez. I, 24 giugno 2011, n. 13968

L'associazione in partecipazione crea un rapporto interno tra associante ed associato,

e la partecipazione di quest'ultimo ai risultati dell'impresa o dell'affare si esplica nelle

forme dell'obbligazione e del diritto di credito nei confronti dell'associante:

precisamente, secondo che i risultati siano passivi o positivi, l'associato diventa

obbligato a non ripetere dall'associante l'apporto conferito o creditore dell'associante

quanto alla restituzione di detto apporto e alla liquidazione della quota convenuta

degli utili. L'associato, tuttavia, non può pretendere che gli sia attribuita una parte dei

beni eventualmente prodotti con l'attività associata (e che inoltre l'apporto gli sia

restituito in natura), bensì soltanto che gli sia liquidata e pagata una somma di denaro

corrispondente alla quota spettantegli di utili e all'apporto.

Cass. civ. Sez. lavoro, 24 febbraio 2011, n. 4524

In tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di

prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato, pur

avendo indubbio rilievo il "nomen iuris" usato dalle parti, occorre accertare se lo

schema negoziale pattuito abbia davvero caratterizzato la prestazione lavorativa o se

questa si sia svolta con lo schema della subordinazione. (Nella specie, la S.C. ha

confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la sussistenza di elementi

caratterizzanti la associazione in partecipazione, ossia la partecipazione agli utili e la

sottoposizione di rendiconti, ed aveva invece ravvisato la subordinazione nelle

concrete modalità di svolgimento del rapporto, caratterizzate dal pagamento di

retribuzione a cadenze fisse, da direttive tecniche e continui controlli della

prestazione). (Rigetta, App. L'Aquila, 21/12/2006).

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Cass. civ. Sez. lavoro, 27 gennaio 2011, n. 1954

Non sussiste associazione in partecipazione qualora manchi la possibilità di effettivo

controllo dell'associato sulla gestione dell'impresa, atteso che l'art. 2552, comma 3,

c.c., prevede il diritto dell'associato al controllo e al rendiconto annuale della

gestione, ma non ne determina le modalità. La causa del contratto di associazione in

partecipazione non è esclusa dalla partecipazione ai ricavi anziché agli utili, o dalla

mancata partecipazione alle perdite, che in base all'art. 2554 c.c. non è elemento

essenziale del contratto.

* * *

I. La Somministrazione di lavoro

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 dicembre 2011, n. 28061

In tema d'intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro, è fatta salva

l'incidenza satisfattiva di pagamenti eseguiti da terzi, ai sensi dell'art. 1180, primo

comma, cod. civ., e quindi anche di quelli effettuati dal datore di lavoro apparente, la

cui conseguente responsabilità per il pagamento dei contributi previdenziali, che si

aggiunge in via autonoma a quella del datore di lavoro effettivo in dipendenza

dell'apparenza del diritto e dell'affidamento dei terzi di buona fede, non può tuttavia

derogare al principio che l'unico rapporto di lavoro rilevante verso l'ente

previdenziale è quello intercorrente con il datore di lavoro effettivo. (Cassa con

rinvio, App. Brescia, 20/09/2008).

Cass. civ. Sez. lavoro, 15 novembre 2011, n. 23844

In merito all'interposizione nelle prestazioni di lavoro, non è configurabile una

concorrente obbligazione del datore di lavoro apparente in relazione ai contributi

dovuti agli enti previdenziali, rimanendo, tuttavia, salva l'incidenza satisfattiva di

pagamenti eventualmente eseguiti da terzi, ai sensi dell'art. 1180, comma 1, c.c.,

nonché dallo stesso datore di lavoro fittizio. È, infatti, irrilevante la consapevolezza

dell'altruità del debito, dato che, nell'ipotesi di pagamento indebito dal punto di vista

soggettivo, il coordinamento tra gli artt. 1180 e 2036 c.c., porta a considerare che sia

qualificabile come pagamento di debito altrui, ai fini della relativa efficacia estintiva

dell'obbligazione, anche il pagamento posto in essere per errore.

Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2011, n. 15610

In tema di somministrazione di manodopera, il controllo giudiziario sulle ragioni che

la consentono è limitato all'accertamento della loro esistenza, non potendosi esso

estendersi, ai sensi dell'art. 27, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, al sindacato sulle

valutazioni tecniche ed organizzative dell'utilizzatore, il quale è tenuto a dimostrare in

giudizio l'esigenza alla quale si ricollega l'assunzione del lavoratore, instaurandosi,

ove tale onere non sia soddisfatto, un rapporto a tempo indeterminato con

l'utilizzatore della prestazione. (Rigetta, App. Milano, 12/07/2007).

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Cass. civ. Sez. lavoro, 15 luglio 2011, n. 15615

In tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro, anche nel regime di cui al d.lgs.

10 settembre 2003, n. 276, così come già in quello di cui alla legge n. 1369 del 1960,

per quanto la circostanza che il personale dell'appaltante impartisca disposizioni agli

ausiliari dell'appaltatore sia un indice dell'accordo fraudolento, ai fini della

dimostrazione della sussistenza di quest'ultimo è necessario che dette disposizioni

siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro anche in relazione alle

effettive modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative. (Nella specie la S.C. ha

ritenuto corretta la motivazione della Corte di merito in relazione al riconoscimento di

un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nel profilo professionale dei

servizi bancari con effetto dall'inizio della somministrazione). (Rigetta, App. Torino,

30/04/2009).

Cass. civ. Sez. lavoro, 6 giugno 2011, n. 12201

In tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro non è sufficiente, ai fini della

configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale

dell'appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell'appaltatore, occorrendo

verificare se le disposizioni impartite siano riconducibili al potere direttivo del datore

di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni

lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di

un genuino contratto di appalto. (Cassa con rinvio, App. Venezia, 04/04/2007)

* * *

J. Orario di lavoro

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 novembre 2011, n. 24476

Il datore di lavoro non può unilateralmente disporre la riduzione dell'orario di lavoro,

e della relativa retribuzione, di un singolo lavoratore, anche se ciò è imputabile ad una

crisi aziendale.

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 giugno 2011, n. 14288

La reperibilità, prevista dalla disciplina collettiva, si configura come una prestazione

strumentale ed accessoria qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro,

consistendo nell'obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente

rintracciato, fuori del proprio orario di lavoro, in vista di un'eventuale prestazione

lavorativa. Pertanto, il servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo

settimanale, limita soltanto, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso

e comporta il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo stabilito

dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, determinato dal giudice, nonché - ove

previsto dalla contrattazione collettiva (nella specie, dall'art. 18, quinto comma, del

d.P.R. n. 270 del 1987 e, da ultimo, dall'art. 7, sesto comma, del c.c.n.l. 20 settembre

2001, integrativo del c.c.n.l. per il personale del comparto sanità del 7 aprile 1999) - il

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diritto ad un giorno di riposo compensativo, che non è riconducibile, attesa la diversa

incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo svolgimento

della prestazione rispetto al lavoro effettivo, all'art. 36 Cost., ma la cui mancata

concessione è idonea ad integrare un'ipotesi di danno non patrimoniale (per usura

psico-fisica) da fatto illecito o da inadempimento contrattuale che è risarcibile in caso

di pregiudizio concreto patito dal titolare dell'interesse leso, sul quale grava l'onere

della specifica deduzione e della prova. (Rigetta, App. Salerno, 22/02/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 6 maggio 2011, n. 10020

In applicazione dell'art. 17, lett. c), R.D.L. n. 2328/1923, si computa per metà

nell'orario di lavoro (con diritto alla corrispondente retribuzione) il tempo impiegato

dall'autista nel "viaggio comandato" da una località ad un'altra, imposto dall'oggettiva

separazione fra il luogo di inizio e il luogo di conclusione dell'attività lavorativa.

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2011, n. 8063

Le clausole dei c.c.n.l. metalmeccanici, interpretate nel senso di escludere la

computabilità del tempo di vestizione della divisa aziendale nell'orario di lavoro, non

possono essere dichiarate nulle dal giudice di merito, laddove, come nel caso di

specie, esse siano suscettibili di una diversa lettura interpretativa, in conformità a

consolidati orientamenti giurisprudenziali che ricomprendono nell'orario di lavoro

operazioni preparatorie anteriori o posteriori alla timbratura dell'orologio marcatempo

laddove queste siano eterodirette dal datore di lavoro (nella specie, la Suprema corte

ha cassato con rinvio la sentenza del tribunale, impugnata ai sensi dell'art. 420-bis

c.p.c., nella parte in cui ha erroneamente dichiarato la nullità delle clausole

contrattuali secondo cui "sono considerate ore di lavoro quelle di effettiva

prestazione" e "le ore di lavoro sono contate con l'orologio dello stabilimento o

reparto").

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 febbraio 2011, n. 4868

In tema di lavoro subordinato il diritto alla percezione del buono pasto è previsto (ex

art. 2, comma 11, legge 28 dicembre 1995, n. 550, art. 3, primo comma, legge 2

ottobre 1997, n. 334 e art. 3, lett. b) della Circolare 10 febbraio 1998 del Ministero

della giustizia) solo per quei dipendenti che abbiano attivato l'orario di servizio e di

lavoro - continuato e senza intervalli o pause - su almeno cinque giornate lavorative e

che non dispongano di servizi di mensa o sostitutivi. Ne consegue che tale diritto non

spetta agli ufficiali giudiziari, in assenza di previsione normativa o contrattual

collettiva, né può ravvisarsi alcun profilo di illegittimità costituzionale in relazione

all'art. 3 Cost., dovendo ritenersi diversa la posizione del dipendente tenuto

all'osservanza di un orario di lavoro continuativo, rispetto a quella del dipendente che

possa procedere ad una autonoma organizzazione del proprio orario lavorativo.

(Rigetta, App. Torino, 20/04/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2011, n. 3038

I funzionari direttivi, esclusi dalla disciplina legale delle limitazioni dell'orario di

lavoro, hanno diritto al compenso per lavoro straordinario se la prestazione, per la sua

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durata, superi - secondo un accertamento riservato al giudice del merito ed

incensurabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivato - il limite della

ragionevolezza e sia particolarmente gravosa ed usurante. (Nella specie, due

dipendenti con funzioni direttive di una società di costruzioni avevano dedotto di aver

protratto la loro attività lavorativa fino alle ore serali, con spostamenti frequenti su

tutto il territorio nazionale e anche all'estero; la S.C., nel rigettare il ricorso, ha

ritenuto adeguata la motivazione della corte territoriale, che aveva escluso che tali

attività superassero il limite della ragionevolezza in relazione alla tutela della salute e

dell'integrità fisiopsichica). (Rigetta, App. Palermo, 21/06/2006).

* * *

K. La retribuzione

- Obblighi retributivi

Cass. civ. Sez. lavoro, 9 settembre 2011, n. 18528

Lo stato di carcerazione preventiva (o di custodia cautelare) del lavoratore

subordinato - che, non rientrando tra le ipotesi, tutelate dalla legge, di impossibilità

temporanea della prestazione, quale la malattia e le altre situazioni contemplate

dall'art. 2110 cod. civ., comporta la perdita del diritto alla retribuzione per tutto il

tempo in cui si protrae la carcerazione medesima - analogamente determina la

cessazione del trattamento di integrazione salariale a carico della Cassa integrazione

guadagni cui sia stato ammesso il lavoratore medesimo, trattamento che, per il fatto di

sostituirsi alla retribuzione altrimenti dovuta dal datore di lavoro, presuppone la

spettanza di questa e l'obbligo di pronta disponibilità del lavoratore sia a riprendere

servizio alla chiamata dell'azienda, sia a svolgere lavori socialmente utili o a

partecipare a corsi di formazione, che resta inibita dallo stato di carcerazione. Nè può

essere invocato il principio della cosiddetta priorità della causa sospensiva della

prestazione lavorativa, secondo il quale si considera prevalente ai fini del trattamento

retributivo la causa verificatasi prima, atteso che esso si riferisce unicamente alle

suddette cause legali di sospensione con diritto alla retribuzione. (Rigetta, App.

Palermo, 03/03/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 26 aprile 2011, n. 9344

Il riconoscimento, da parte della società Poste italiane (già ente Poste italiane), di un

trattamento retributivo di maggior favore ai dipendenti già appartenenti al ruolo

transitorio ad esaurimento soppresso dall'art. 25, D.Lgs. n. 29/1993 (ruolo relativo

agli impiegati delle carriere direttive non inquadrati nelle nuove carriere dirigenziali)

non introduce un'illegittima discriminazione in danno dei lavoratori svolgenti le

stesse mansioni, in quanto rappresenta un'applicazione dell'art. 55, Ccnl 26 novembre

1994, contenente una norma transitoria diretta al mantenimento, nei confronti del

personale delle varie aree, delle voci stipendiali fisse d'origine, con lo scopo di

salvaguardare diritti quesiti di natura economica, oltre ad essere coerente con il

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medesimo art. 25, D.Lgs. n. 29/1993, che, nel sopprimere il ruolo transitorio, ha

previsto la conservazione ad personam delle qualifiche.

Cass. civ. Sez. lavoro, 23 marzo 2011, n. 6639

Nel rapporto di lavoro subordinato privato non opera, di regola, il principio di parità

di trattamento retributivo; ne consegue la validità dell'art. 7 del CCNL del 1995 del

settore autoferrotranvieri laddove prevede la riduzione salariale per i primi 15 mesi di

rapporto a tempo indeterminato, a seguito della trasformazione di contratto di

formazione e lavoro, per i motivi espressi dalle parti stipulanti e, cioè, per l'incentivo

premiante per il datore di lavoro che trasformi in rapporti a tempo indeterminato

l'80% dei contratti di formazione e lavoro in scadenza e per la considerazione che i

lavoratori "neoassunti" si trovino in possesso di una professionalità non comparabile

con quella degli altri. (Cassa con rinvio, App. Milano, 01/07/2005).

Cass. civ. Sez. lavoro, 9 marzo 2011, n. 5552

In tema di determinazione del trattamento retributivo spettante al lavoratore

subordinato, una volta accertata in giudizio l'esistenza di un rapporto di lavoro

subordinato in contrasto con la qualificazione del rapporto come autonoma operata

dalle parti, trova applicazione - salvo che per le indennità di fine rapporto che

maturano al momento della cessazione del rapporto medesimo - il principio

dell'assorbimento, per cui ove il trattamento economico complessivamente erogato in

concreto dal datore di lavoro risulti superiore a quello minimo dipendente dalla

qualificazione del rapporto, non debbono essere liquidate mensilità aggiuntive

commisurate ai compensi periodicamente corrisposti, dovendosi, peraltro, escludere

che il lavoratore sia tenuto, sulla mera richiesta del datore di lavoro, a restituire tale

eccedenza, atteso che i contratti collettivi stabiliscono le retribuzioni minime spettanti

ai lavoratori di una determinata categoria, senza che ciò impedisca al datore di lavoro

di erogare ai propri dipendenti paghe superiori, siano esse semplicemente offerte al

lavoratore o determinate da una contrattazione ovvero conseguenti alla diversa e

inesatta qualificazione del rapporto tra le parti, la quale può essere frutto di un errore

delle parti ma anche della volontà di usufruire di una normativa specifica ovvero di

eluderla. Ne consegue che il datore di lavoro, ove chieda la restituzione delle somme

erogate in eccesso rispetto ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva, ha l'onere

di dimostrare che la maggior retribuzione è stata determinata da un errore essenziale

avente i requisiti di cui agli artt. 1429 e 1431 cod. civ. (Cassa e decide nel merito,

App. Perugia, 03/03/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 3 gennaio 2011, n. 30

In tema di compenso per le festività infrasettimanali, il compenso aggiuntivo, previsto

dall'art. 5, terzo comma (ultima parte), della legge 27 maggio 1949, n. 260, come

modificato dalla legge 31 marzo 1954, n. 90 (corrispondente all'aliquota giornaliera),

spetta al lavoratore retribuito in misura fissa senza distinzione nell'ambito delle

categorie previste dall'art. 2095 cod. civ. e si riferisce alle giornate di festività

nazionali cadenti di domenica non lavorate e anche alle altre festività indicate dalla

legge, in ragione del fatto che l'art. 3 della legge 31 marzo 1954, n. 90 prevede la

suddetta estensione unicamente in favore dei lavoratori, dipendenti da privati,

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retribuiti in misura non fissa. Ne consegue che, per il trattamento retributivo

riguardante le festività diverse da quelle nazionali, in assenza di una disciplina legale,

occorre riferirsi a quella della contrattazione collettiva, la quale - per i dipendenti

dell'AMA - prevede (artt. 12 e 30, quinto comma, del CCNL Federambiente del 1°

ottobre 1991) una nozione (retribuzione globale), il cui significato viene nel

medesimo contratto individuato nella somma della retribuzione individuale e delle

indennità aventi carattere fisso e continuativo, che non comprende i ratei delle

mensilità aggiuntive, gli EDR e la c.d. indennità di anzianità pregressa. (Cassa con

rinvio, App. Roma, 12/07/2006).

- T.F.R.

Cass. civ. Sez. II, 30 novembre 2011, n. 25607

In tema di contratto di agenzia, l'indennità suppletiva di clientela ha origine e

disciplina esclusivamente collettiva, essendo stata introdotta dalla contrattazione

collettiva (AEC 18 dicembre 1974) e conservata negli accordi successivi, tutti con

natura ed efficacia meramente negoziale. Essa, pertanto, è dovuta solo agli agenti il

cui rapporto sia regolato, direttamente o "per relationem", da detti accordi e per la

sola ipotesi che il contratto si sciolga per iniziativa del mandante, oppure nell'ipotesi

di dimissioni dell'agente dovute a sopravvenuta inabilità permanente o totale o

successiva al conseguimento della pensione di vecchiaia; tale indennità, quindi, non

può ritenersi inclusa nella generica voce "importi di fine rapporto". (Cassa con rinvio,

App. Torino, 13/09/2005).

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 settembre 2011, n. 19917

In tema di trattamento di fine rapporto, gli accordi aziendali possono derogare al

principio di onnicomprensività della retribuzione di cui all'art. 2120, secondo comma,

cod. civ. (anche nel testo novellato dalla legge n. 297 del 1982) solo in modo chiaro

ed univoco. Ne consegue l'inidoneità della clausola contrattuale di cui all'art. 4

dell'accordo aziendale del 24 maggio 1986 per il personale delle ferrovie ad escludere

l'indennità di presenza ai fini del computo del TFR, limitandosi la disposizione a

prevedere che l'erogazione degli importi di cui all'accordo "non possono comportare

oneri riflessi sugli istituti contrattuali e di legge vigenti". (Rigetta, App. Bari,

24/11/2008).

Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2011, n. 19291

In caso di cessione d'azienda assoggettata al regime di cui all'art. 2112 cod. civ., posto

il carattere retributivo e sinallagmatico del trattamento di fine rapporto che costituisce

istituto di retribuzione differita, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei

confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto sia proseguito con il datore di

lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il

periodo di lavoro svolto fino al trasferimento aziendale, mentre il datore cessionario è

obbligato per la stessa quota solo in ragione del vincolo di solidarietà, e resta l'unico

obbligato quanto alla quota maturata nel periodo successivo alla cessione. (Rigetta,

App. Brescia, 22/09/2006).

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Cass. civ. Sez. V, 11 aprile 2011, n. 8134

I debiti del Tfr dell'azienda acquisita non configurano un avviamento ammortizzabile

e quindi non possono essere fiscalmente dedotti. Infatti i debiti del Tfr del personale

dipendente, così come il preavviso e l'indennità suppletiva discendenti da contratti di

agenzia, sono indennità di fine rapporto entrambe deducibili dal reddito d'impresa ai

sensi dell'art. 105 del D.P.R. n. 917/1986 (art. 70 del vecchio Tuir), nei limiti del loro

accantonamento annuale al relativo fondo. Per il comma 1 dell'articolo 2112 c.c., in

caso di trasferimento d'azienda il rapporto di lavoro continua con l'acquirente, e, per il

comma 2, venditore e acquirente sono obbligati in solido per i crediti che i lavoratori

avevano al tempo del trasferimento. Nel caso di acquisto di ramo d'azienda con

assunzione ex lege delle passività tali debiti rappresentano una componente negativa

del valore di scambio dei singoli beni che compongono il ramo d'azienda, ma non

costituiscono affatto un avviamento dello stesso.

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 maggio 2011, n. 11767

Non è ravvisabile una volontà negoziale nella dichiarazione, sottoscritta dal

lavoratore, ma predisposta dal datore di lavoro in occasione della corresponsione del

trattamento di fine rapporto, di rinuncia a diritti, quando essa sia accompagnata

dall'espressione "con riserva", in quanto l'indeterminatezza del contenuto rende nulla

la complessiva dichiarazione, ai sensi degli artt. 1346 e 1418, secondo comma, cod.

civ. (Cassa con rinvio, App. Taranto, 31/03/2006).

Cass. civ. Sez. V, 11 aprile 2011, n. 8134

I debiti del Tfr dell'azienda acquisita non configurano un avviamento ammortizzabile

e quindi non possono essere fiscalmente dedotti. Infatti i debiti del Tfr del personale

dipendente, così come il preavviso e l'indennità suppletiva discendenti da contratti di

agenzia, sono indennità di fine rapporto entrambe deducibili dal reddito d'impresa ai

sensi dell'art. 105 del D.P.R. n. 917/1986 (art. 70 del vecchio Tuir), nei limiti del loro

accantonamento annuale al relativo fondo. Per il comma 1 dell'articolo 2112 c.c., in

caso di trasferimento d'azienda il rapporto di lavoro continua con l'acquirente, e, per il

comma 2, venditore e acquirente sono obbligati in solido per i crediti che i lavoratori

avevano al tempo del trasferimento. Nel caso di acquisto di ramo d'azienda con

assunzione ex lege delle passività tali debiti rappresentano una componente negativa

del valore di scambio dei singoli beni che compongono il ramo d'azienda, ma non

costituiscono affatto un avviamento dello stesso.

- Il Fondo di garanzia INPS

Cass. civ. Sez. lavoro, 15 novembre 2011, n. 23840

A norma dell'art. 2, commi 1-7, della legge n. 297/1982, qualora il datore di lavoro

sia un imprenditore commerciale soggetto alla legge fallimentare, il lavoratore, per

poter ottenere l'immediato pagamento (nel rispetto del termine di sessanta giorni dalla

domanda) del trattamento di fine rapporto da parte del Fondo di garanzia istituito

presso l'Inps, deve provare, oltre alla cessazione del rapporto di lavoro e

all'inadempimento, in tutto o in parte, posto in essere dal debitore, anche lo stato di

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insolvenza in cui versa quest'ultimo, utilizzando, a tal fine, la presunzione legale

prevista dalla legge (l'apertura del fallimento o della liquidazione coatta

amministrativa o del concordato preventivo nei confronti del medesimo debitore);

viceversa, ove non sia possibile l'applicazione della legge fallimentare perché non

ricorre la condizione soggettiva di cui all'art. 1 del R.D. n. 267/1942 (Legge

fallimentare), il lavoratore, allo scopo sopra indicato, oltre alla prova dell'avvenuta

conclusione del rapporto di lavoro e all'inadempimento, in tutto o in parte, posto in

essere dal datore di lavoro, deve fornire anche l'ulteriore prova che quest'ultimo non è

soggetto alle procedure esecutive concorsuali e deve, inoltre, dimostrare, in base alla

diversa presunzione legale pure prevista dalla legge (l'esperimento di una procedura

esecutiva individuale, senza che ne sia necessario il compimento), che mancano o

sono insufficienti le garanzie patrimoniali del debitore.

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 luglio 2011, n. 16617

Il diritto del lavoratore di ottenere dall'INPS, in caso di insolvenza del datore di

lavoro, la corresponsione del trattamento di fine rapporto a carico dello speciale

fondo di cui all'art. 2 della legge n. 297 del 1982 ha natura di diritto di credito ad una

prestazione previdenziale ed è perciò distinto ed autonomo rispetto al credito vantato

nei confronti del datore di lavoro, senza che possa configurarsi un'ipotesi di

obbligazione solidale (restando esclusa, pertanto, la fattispecie di obbligazione

solidale). Esso si perfeziona non con la cessazione del rapporto di lavoro ma al

verificarsi dei presupposti previsti da detta legge (quali l'insolvenza del datore di

lavoro, la verifica dell'esistenza e della misura del credito in sede di ammissione al

passivo ovvero all'esito di procedura esecutiva), con la conseguenza che, prima che si

siano verificati tali presupposti, nessuna domanda di pagamento può essere rivolta

all'INPS e, pertanto, non può decorrere la prescrizione del diritto del lavoratore nei

confronti del Fondo di garanzia. (Fattispecie relativa ad insinuazione del Fondo al

passivo del fallimento datoriale ai fini di far valere in surrogazione il credito del

lavoratore). (Rigetta, App. Torino, 20/12/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 luglio 2011, n. 16447

La surroga del Fondo di garanzia gestito dall'Inps, ai sensi dell'art. 2, settimo comma,

della legge n. 297 del 1982, nel privilegio spettante al lavoratore, ai sensi degli artt.

2751 bis e 2776 cod. civ., consente al medesimo Fondo di essere ammesso nella

procedura fallimentare nella stessa posizione che avrebbe assunto il lavoratore e,

quindi, non in maniera integrale, ma comprendendo nel credito privilegiato solo gli

interessi maturati fino alla vendita nonché la rivalutazione monetaria maturata fino al

momento in cui lo stato passivo diventa definitivo, con esclusione degli interessi e

della rivalutazione maturati successivamente. (Rigetta, App. Torino, 13/02/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 16 giugno 2011, n. 13158

Con riferimento all'obbligo del Fondo di garanzia costituito presso l'INPS, ai sensi del

d.lgs. n. 80 del 1992, di pagare ai lavoratori la retribuzione delle ultime tre mensilità

rientranti nei dodici mesi che precedono la data del provvedimento di apertura della

procedura concorsuale a carico del datore di lavoro, la prescrizione annuale dei crediti

di lavoro decorre dal giorno di definizione dell'opposizione proposta dall'INPS contro

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lo stato passivo dell'imprenditore datore di lavoro. Ne consegue che, restando

riservata al giudice adito per il soddisfacimento delle somme dovute ai sensi del d.lgs.

n. 80 del 1992 l'interpretazione dell'atto di opposizione e l'individuazione dei crediti

oggetto di contestazione, non è deducibile in cassazione da parte del Fondo di

garanzia che il giudice di merito non abbia distinto tra crediti contestati con

l'opposizione e crediti non contestati e, conseguentemente, non abbia fatto decorrere

la prescrizione per questi ultimi fin dal deposito dello stato passivo. (Rigetta, App.

Venezia, 08/09/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 1 aprile 2011, n. 7585

Ai fini dell'accesso al fondo di garanzia previsto dalla legge n. 297/1982 (Disciplina

del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), per il pagamento

del t.f.r. in caso d'insolvenza del datore di lavoro, è sufficiente che il lavoratore abbia

esperito la procedura di esecuzione, risultando irrilevante che l'istanza di

dichiarazione di fallimento sia stata rigettata a causa dell'esiguità del credito azionato.

Cass. civ. Sez. lavoro, 1 aprile 2011, n. 7585

Qualora l'istanza di fallimento avviata nei confronti del datore di lavoro insolvente,

per il pagamento del trattamento di fine rapporto, sia respinta a causa della esiguità

del credito azionato e l'esecuzione forzata si sia rilevata infruttuosa e non risultano

altri beni aggredibili, il lavoratore può ottenere il pagamento del tfr ricorrendo al

Fondo di Garanzia istituito presso l'Inps.

Cass. civ. Sez. lavoro, 1 aprile 2011, n. 7585

Ai fini dell'accesso al fondo di garanzia previsto dalla legge n. 297/1982 (Disciplina

del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), per il pagamento

del t.f.r. in caso d'insolvenza del datore di lavoro, è sufficiente che il lavoratore abbia

esperito la procedura di esecuzione, risultando irrilevante che l'istanza di

dichiarazione di fallimento sia stata rigettata a causa dell'esiguità del credito azionato.

Cass. civ. Sez. I, 3 marzo 2011, n. 5141

In tema di amministrazione straordinaria di grande impresa in crisi (per la disciplina

regolata dalla legge n. 95 del 1979), l'ammissione al passivo in prededuzione del

credito per trattamento di fine rapporto del lavoratore dipendente, ai sensi

dell'equiparazione ai debiti d'impresa così disposta dall'art .4 del d.l. n. 414 del 1981

(conv. nella legge 544 del 1981), non costituisce titolo preferenziale, in favore di tale

creditore, rispetto al credito del Fondo di Garanzia, gestito dall'INPS, e derivante

dalla surroga dell'ente previdenziale nel credito pagato ad altri dipendenti - secondo la

previsione e con decorrenza dall'entrata in vigore dell'art. 2 della legge n. 297 del

1982 - in quanto la norma istitutiva della surroga in questione, benché disponga

testualmente l'attribuzione al predetto Fondo del "privilegio" ex artt. 2751-bis e 2776

cod. civ. spettante al lavoratore surrogato sul patrimonio del datore di lavoro, non può

che riferirsi all'intera posizione sostanziale e processuale di detto lavoratore, non

necessitando l'automatismo di tale surrogazione legale, alla stregua dell'art. 1203 n. 5

cod. civ., di alcuna diversa ed ulteriore disposizione normativa; con la conseguenza

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che il Fondo di Garanzia che abbia anticipato il T.F.R. ad altri dipendenti ha diritto ad

essere pagato in prededuzione se (come nel caso di specie) tale è la collocazione che,

nell'ambito della procedura, spetta al credito dei lavoratori soddisfatti. (Rigetta, App.

Ancona, 24/03/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 10 febbraio 2011, n. 3241

La tutela del Fondo di garanzia gestito dall'INPS per il pagamento delle ultime tre

mensilità di retribuzione non corrisposte dal datore di lavoro insolvente opera solo nei

casi in cui sia stata proposta azione esecutiva successivamente alla data di entrata in

vigore del d.lgs. n. 80 del 1992; pertanto, essa è inapplicabile ove prima di tale data

sia avvenuta la conversione del sequestro conservativo in pignoramento. (Cassa e

decide nel merito, App. L'Aquila, 03/03/2009

- Prescrizione crediti retributivi

Cass. civ. Sez. III, 29 settembre 2011, n. 19872

Le trattative per ottenere il risarcimento del danno comportano l'interruzione della

prescrizione ai sensi dell'art. 2944 cod. civ. quando dal comportamento di una delle

parti risulti il riconoscimento del contrapposto diritto di credito, in quanto tale

condotta configura una rinuncia tacita alla prescrizione analogamente all'interruzione

della stessa per effetto del riconoscimento. (Rigetta, App. Campobasso, 06/05/2008).

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 giugno 2011, n. 14163

L'impossibilità di far valere il diritto, alla quale l'art. 2935 cod. civ. attribuisce

rilevanza di fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione, è solo quella che

deriva da cause giuridiche che ne ostacolino l'esercizio e non comprende anche gli

impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, per i quali il successivo art. 2941

prevede solo specifiche e tassative ipotesi di sospensione tra le quali, salvo l'ipotesi di

dolo prevista dal n. 8 del citato articolo, non rientra l'ignoranza, da parte del titolare,

del fatto generatore del suo diritto, né il dubbio soggettivo sulla esistenza di tale

diritto ed il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento. (Nella specie, relativa

alla domanda diretta ad ottenere le differenze sulla pensione aziendale, la S.C., nel

rigettare il ricorso, ha ritenuto privo di rilievo, ai fini dell'interruzione della

prescrizione, il ricorso già presentato per il conseguimento della superiore qualifica,

atteso che all'epoca non era stato chiesto l'incremento del trattamento pensionistico,

restando escluso che assumesse valore impeditivo il ritardo indotto dalla necessità di

procedere all'accertamento del diritto alla maggiore retribuzione). (Rigetta, App.

Napoli, 07/05/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2011, n. 8057

L'azione promossa dal lavoratore subordinato ed avente ad oggetto il riconoscimento

della qualifica superiore si prescrive nell'ordinario termine decennale di cui all'art.

2946 cod. civ., mentre le azioni dirette ad ottenere le differenze retributive derivanti

dal suddetto riconoscimento si prescrivono nel termine quinquennale previsto dall'art.

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2948 cod. civ., il quale decorre anche quando il diritto a tali differenze venga fatto

valere contemporaneamente al diritto all'attribuzione alla qualifica superiore, soggetto

alla prescrizione decennale. (Cassa con rinvio, App. Bari, 18/07/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 30 marzo 2011, n. 7272

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute patito dal lavoratore in

conseguenza della mancata adozione da parte del datore di adeguate misure di

sicurezza delle condizioni di lavoro, ai sensi dall'art. 2087 cod. civ., decorre dal

momento in cui il danno si è manifestato, divenendo oggettivamente percepibile e

riconoscibile solo ove l'illecito sia istantaneo, ossia si esaurisca in un tempo definito,

ancorchè abbia effetti permanenti, mentre ove, l'illecito sia permanente e si sia perciò

protratto nel tempo, il termine prescrizionale inizia a decorrere al momento della

definitiva cessazione della condotta inadempiente. (Cassa con rinvio, App. Ancona,

11/10/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 19 gennaio 2011, n. 1147

La decorrenza o meno della prescrizione in corso di rapporto va verificata con

riguardo al concreto atteggiarsi del medesimo, ben diversa essendo la situazione

psicologica in cui versa il lavoratore per il timore della risoluzione del rapporto,

allorché si tratti di lavoro formalmente autonomo, da quella in cui il rapporto di

lavoro sia garantita sin dall'inizio della stabilità reale, e a nulla rilevando, in relazione

alla situazione di soggezione in cui versa il lavoratore nel primo caso, il successivo

riconoscimento giudiziale della diversa normativa garantistica che avrebbe dovuto

astrattamente regolare il rapporto. (Fattispecie relativa ai lavori affidati in

convenzione dalle Ferrovie dello Stato ex art. 26 legge n. 1236 del 1959, in un caso in

cui il giudice di merito aveva accertato la natura subordinata del rapporto). (Rigetta,

App. Roma, 25/02/2004.

* * *

L. Inquadramento e mansioni del lavoratore

-Inquadramento

Cass. civ. Sez. lavoro, 20 giugno 2011, n. 13495

Anche nel caso in cui oggetto di rivendicazione sia la qualifica dirigenziale, nel

procedimento logico-giuridico volto alla determinazione dell'inquadramento spettante

a un lavoratore subordinato non è possibile prescindere da tre fasi successive

consistenti nell'accertamento di fatto delle attività lavorative concretamente svolte,

nell'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di

categoria e, infine, nel confronto tra le risultanze della prima indagine e i testi

contrattuali individuati nella seconda.

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Cass. civ. Sez. VI, 20 maggio 2011, n. 11149

Nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato, la materia degli inquadramenti del

personale contrattualizzato è stata affidata dalla legge allo speciale sistema di

contrattazione collettiva del settore pubblico che può intervenire senza incontrare il

limite della inderogabilità delle norme in materia di mansioni concernenti il lavoro

subordinato privato. Ne consegue che le scelte della contrattazione collettiva in

materia di inquadramento del personale e di corrispondenza tra le vecchie qualifiche e

le nuove aree sono sottratte al sindacato giurisdizionale, ed il principio di non

discriminazione di cui all'art. 45 del d.lgs. n. 165 del 2001 non costituisce parametro

per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in sede di contratto collettivo.

(Principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis, primo comma, cod. proc. civ.). (Rigetta,

App. Roma, 14/10/2009)

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2011, n. 8068

In materia di classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, quanto al

periodo anteriore all'entrata in vigore della legge n. 88/1989, opera il principio

secondo cui è la natura dell'attività di impresa, ai sensi dell'art. 2195 c.c., a

determinare l'inquadramento, non potendosi attribuire rilevanza agli atti di

inquadramento dell'Inps, aventi carattere meramente ricognitivo; con riguardo,

invece, al periodo successivo, soggetto alla disciplina di cui alla predetta legge n.

88/1989 e a quella di cui alla legge n. 335/1995, è ben vero che l'atto di variazione

dell'Istituto acquista rilievo costitutivo, con efficacia solo dalla notificazione del

provvedimento di nuova classificazione dell'impresa, ma siffatta irretroattività non

opera allorché l'iniziale inquadramento sia stato determinato da inesatte dichiarazioni

del datore di lavoro (art. 3, comma 8, legge n. 335/1995).

Cass. civ. Sez. lavoro, 24 marzo 2011, n. 6756

In tema di inquadramento e qualifiche e con riferimento al personale della Cassa

depositi e prestiti, l'addetto ad un videoterminale (che costituisce un'unità periferica

del sistema informatico), autorizzato anche ad effettuare immissioni di dati nel

sistema, svolge le funzioni operative relative all'unità periferica richieste dall'art. 11

del d.P.R. 4 agosto 1984 (decreto al quale l'art. 11, quarto comma, della legge 13

maggio 1983, n. 197 ha demandato la determinazione dei livelli funzionali) e,

pertanto, ha diritto all'inquadramento nel secondo livello funzionale ove sia accertato

l'effettivo espletamento delle predette mansioni. (Cassa con rinvio, App. Roma,

24/07/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 1 marzo 2011, n. 4991

In tema di rapporti di lavoro dei dipendenti dell'Azienda di Stato per i servizi

telefonici, nel passaggio dei servizi di telefonia dal settore pubblico a quello privato,

in forza della normativa di riferimento (art. 4 legge n. 58 del 1992) le indicazioni

contenute nelle tabelle di equiparazione adottate con accordo sindacale costituiscono

elemento decisivo di riferimento per operare l'inquadramento presso la nuova

gestione solo ed in quanto l'equivalenza delle posizioni di lavoro - messe a confronto

- sussista realmente. Ne consegue la non applicabilità di tali tabelle, ove non si

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riscontri corrispondenza in concreto tra le mansioni svolte nella fase precedente

(connesse all'inquadramento e al livello prima attribuito) e le mansioni riferite a

qualifica e livello ottenuti in sede di passaggio all'impiego privato. (Rigetta, App.

Napoli, 21/03/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 febbraio 2011, n. 4149

Nel rapporto di lavoro subordinato, il carattere vicario delle mansioni svolte preclude

il diritto del sostituto all'inquadramento nella qualifica superiore del sostituito, e lo

stesso diritto alla maggiore retribuzione per il periodo della sostituzione, sia quando

la sostituzione non abbia riguardato mansioni proprie della qualifica rivendicata nè

comportato l'assunzione dell'autonomia e della responsabilità tipiche della qualifica

stessa, sia quando le mansioni proprie della qualifica del sostituto comprendano

compiti di sostituzione di dipendenti di grado più elevato. (Nella specie, la S.C. ha

confermato la sentenza impugnata che aveva rigettato la richiesta di riconoscimento

della superiore qualifica, proposta da dipendente del San Paolo IMI avente la

qualifica di capo ufficio del ruolo "A", il quale aveva svolto attività in mera

sostituzione di altro dipendente rivestente qualifica superiore). (Rigetta, App. Bari,

28/11/2005).

Cass. civ. Sez. lavoro, 18 gennaio 2011, n. 1075

In tema di concorsi interni per attribuzione di qualifica superiore (previsti a norma di

contratto collettivo o per disciplina unilaterale del datore di lavoro), che debbono

essere espletati mediante l'attribuzione di punteggi legati a determinate caratteristiche

professionali dei concorrenti, incombe al datore di lavoro l'obbligo di osservare,

nell'espletamento della procedura concorsuale, criteri di correttezza e buona fede,

rispettando altresì il principio di obiettività e trasparenza e la "par condicio" fra tutti

gli aspiranti. (Nella specie, la S.C.,in applicazione del principio in esteso, ha

confermato la sentenza impugnata che, in relazione ad un concorso per la promozione

al grado di funzionario di terza categoria di un istituto bancario, aveva riconosciuto

all'istante la qualifica richiesta e accolto la domanda risarcitoria proposta, desumendo

decisivi indizi di arbitrarietà e, comunque, di non conformità ai canoni di correttezza

e buona fede nell'attribuzione ad un candidato di punteggi attitudinali, dalla

circostanza che il legale rappresentante della società datrice di lavoro non aveva

saputo dar conto, in udienza, delle ragioni della diversa attribuzione dei punteggi

discrezionali e dal confronto tra la posizione del candidato pretermesso e quella di

altri concorrenti risultati vincitori del concorso in situazioni valutate omogenee,

concludendo nel senso che, se fossero stati attribuiti al candidato pretermesso i

punteggi assegnati agli altri quattro, il primo avrebbe acquisito il punteggio

sufficiente a superare quello dell'ultimo dipendente collocato nella graduatoria dei

vincitori). (Rigetta, App. Caltanissetta, 12/10/2006).

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- Lo ius variandi

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 agosto 2011, n. 17095

In tema di mansioni del lavoratore, le limitazioni dello "ius variandi" introdotte

dall'art. 2103 cod. civ., nel testo di cui all'art. 13 della legge n. 300 del 1970, sono

dirette ad incidere su quei provvedimenti unilaterali del datore di lavoro o su quelle

clausole contrattuali che prevedono il mutamento di mansioni o il trasferimento non

sorretti da ragioni tecniche, organizzative e produttive e mirano ad impedire che il

cambiamento di mansioni od il trasferimento siano disposti contro la volontà del

lavoratore ed in suo danno; dette limitazioni, pertanto, non operano nel caso in cui -

secondo un accertamento di fatto riservato al giudice del merito ed incensurabile in

sede di legittimità se adeguatamente motivato - il mutamento di mansioni od il

trasferimento siano stati disposti a richiesta dello stesso lavoratore, ossia in base ad

un'esclusiva scelta dello stesso, pervenuto a tale unilaterale decisione senza alcuna

sollecitazione, neppure indiretta, del datore di lavoro, che l'abbia invece subita.

(Rigetta, App. Torino, 05/08/2008).

Cass. civ. Sez. lavoro, 13 giugno 2011, n. 12919

In caso di vacanza di posti di lavoro che devono essere coperti (in forza di obbligo

assunto dal datore di lavoro con il contratto collettivo), all'esito di procedure di

selezione, l'assegnazione reiterata di un lavoratore alle mansioni superiori inerenti ai

detti posti, ciascuna per un periodo inferiore a quello richiesto dall'art. 2103 c.c. o dal

contratto collettivo per l'effetto di c.d. promozione automatica, si presume

determinata da una esigenza organizzativa reale, preordinata a mantenere l'effetto

interruttivo della revoca dell'assegnazione alle mansioni superiori per adempiere

all'obbligo negozialmente assunto. Presunzione che esclude la causa utilitaristica e la

sanzione del computo utile dei periodi per sommatoria, salvo che non sia accertata

l'eccessiva e artificiosa protrazione dei tempi di adempimento nelle diverse fasi

richieste dal contenuto dell'obbligazione (determinazione dei criteri di selezione e

delle modalità del procedimento; indizione del concorso, espletamento della

procedura di selezione e approvazione della graduatoria).

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 giugno 2011, n. 12460

Nel processo del lavoro, grava sul datore di lavoro, in presenza di assegnazione del

lavoratore a mansioni superiori per periodi singolarmente considerati non superiori al

termine previsto dall'art. 2103 cod. civ., in relazione all'art. 38 del CCNL di settore, la

prova di aver fatto ricorso a tali modalità nella gestione delle assegnazioni provvisorie

per assicurare la vacanza del posto da coprire obbligatoriamente per il tramite di

procedura concorsuale o selettiva e per il periodo necessario alla definizione di essa,

al fine di dimostrare la mancanza di un intento elusivo della disciplina della c.d.

promozione automatica. (Rigetta, App. Napoli, 29/05/2006).

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Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2011, n. 8057

L'azione promossa dal lavoratore subordinato ed avente ad oggetto il riconoscimento

della qualifica superiore si prescrive nell'ordinario termine decennale di cui all'art.

2946 cod. civ., mentre le azioni dirette ad ottenere le differenze retributive derivanti

dal suddetto riconoscimento si prescrivono nel termine quinquennale previsto dall'art.

2948 cod. civ., il quale decorre anche quando il diritto a tali differenze venga fatto

valere contemporaneamente al diritto all'attribuzione alla qualifica superiore, soggetto

alla prescrizione decennale. (Cassa con rinvio, App. Bari, 18/07/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 10 febbraio 2011, n. 3249

Nel rito del lavoro la domanda per il conseguimento di una qualifica superiore e per il

pagamento delle differenze retributive conseguenti include anche le somme dovute

per il periodo successivo al ricorso, per le quali non occorre una espressa e specifica

domanda. (Nella specie, la S.C. ha escluso, in applicazione del principio su esteso, la

ricorrenza del vizio di extra petizione nella sentenza di merito che, in presenza di

domanda di pagamento anche "della diversa somma di giustizia" dovuta per il

conseguimento della qualifica superiore, aveva fatto discendere il diritto alla

corresponsione delle differenze retributive anche per il periodo successivo al

riconoscimento delle mansioni superiori che avevano dato luogo al diritto al superiore

inquadramento). (Rigetta, App. L'Aquila, 18/05/2006).

- Le mansioni equivalenti, superiori e promiscue

Cass. civ. Sez. lavoro, 6 dicembre 2011, n. 26150

Al divieto di patti contrari all'adibizione del lavoratore a mansioni di livello inferiore

a quelle svolte, previsto dall'art. 2103, secondo comma, cod. civ., si sottrae il c.d.

riclassamento, in quanto esso implica un riassetto delle qualifiche e dei rapporti di

equivalenza tra le mansioni stesse, richiedendosi solo che non operi un'indiscriminata

fungibilità di compiti tale da mortificare ingiustificatamente il livello professionale

degli interessati la cui protezione è insita nella suddetta norma. (Nella specie la S.C.

ha confermato la decisione con cui il giudice territoriale, nell'ipotesi di riclassamento

a seguito di fusione per incorporazione di società di trasporto aereo, avuto riguardo

alla maggiore complessità della nuova struttura organizzativa, aveva ritenuto

legittimo, ai fini del reinquadramento, l'utilizzo, fatto proprio dal contratto collettivo,

del criterio, valorizzante il maggior numero di ore di volo, fondato sulla preminente

esigenza di sicurezza dei voli, escludendo potesse derivare un demansionamento, per

gli assistenti di volo che nelle tratte internazionali prima del riassetto non avevano

alcuno sopra di sé, dalla mera subordinazione a un collega con maggiore esperienza).

(Rigetta, App. Milano, 05/04/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 3 giugno 2011, n. 12140

In tema di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle di assunzione,

l'equivalenza o meno delle stesse deve essere valutata dal giudice anche nel caso in

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cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente ma si siano

esaurite. Ne consegue che in tale evenienza può aversi demansionamento in

violazione dell'art. 2103 c.c., ove le nuove mansioni affidate al lavoratore siano

inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore.

Cass. civ. Sez. lavoro, 14 aprile 2011, n. 8527

Posto che il divieto di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori stabilito dall'art.

2103 c.c. non è derogabile neppure su accordo tra le parti, spetta al lavoratore che

abbia richiesto l'assegnazione ad un ufficio presso il quale abbia espletato mansioni

inferiori a quelle in precedenza svolte, il danno subìto, da determinare anche in via

equitativa, in base agli elementi desumibili dalla quantità e dalla qualità

dell'esperienza lavorativa pregressa, dal tipo di professionalità colpita, dalla durata

del demansionamento, dall'esito finale della dequalificazione e dalle altre circostanze

del caso concreto.

Trib. Cassino, 15 giugno 2011

Qualsiasi indagine eseguita nell'ottica della comparazione soggettiva del

riconoscimento di mansioni superiori non deve prescindere dall'analisi del concreto

grado di autonomia, responsabilità, gravosità ed intensità dei compiti di fatto svolti

dal dipendente, oggettivamente comparato con le altre mansioni proprie della

qualifica inferiore.

Trib. Cassino Sez. lavoro, 4 maggio 2011

Incombe sul lavoratore che vanti il diritto ad un superiore inquadramento, in relazione

allo svolgimento di mansioni superiori, l'onere della prova in ordine all'attività

effettivamente svolta, al periodo di svolgimento nonché alla riconducibilità delle

prestazioni disimpegnate a quelle qualificabili come superiori rispetto alla norma di

riferimento, sia essa individuale, collettiva o legale.

Trib. Perugia Sez. lavoro, 14 aprile 2011

E' ius receptum che il riconoscimento delle mansioni superiori, ex art. 2103 c.c.,

richiede l'accertamento delle mansioni effettivamente espletate, l'individuazione delle

declaratorie contrattuali corrispondenti alle mansioni assegnate per contratto e a

quelle effettuate nonché il raffronto tra i risultati ottenuti dall'espletamento delle due

indagini. Di talché, è onere del lavoratore che agisca in giudizio per ottenere

l'accertamento del suo diritto ad essere inquadrato in una qualifica superiore, indicare

espressamente quali siano i profili caratterizzanti le mansioni di detta qualifica,

comparandoli con quelli inerenti le mansioni che egli asserisce di aver concretamente

svolto.

Trib. L'Aquila Sez. lavoro, 9 marzo 2011

Al fine di individuare la categoria in cui il lavoratore deve essere inquadrato (e anche

per l'eventuale riconoscimento dei diritti conseguenti lo svolgimento di mansioni

superiori), occorre seguire un iter logico articolato in quattro fasi successive. La

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prima è diretta ad accertare le mansioni concretamente svolte dal lavoratore. La

seconda consiste nell'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto

collettivo di categoria. La terza implica il raffronto tra i risultati delle due indagini

precedenti e nell'individuazione della categoria in cui deve essere inquadrato il

lavoratore in base alle mansioni svolte. La quarta, infine, è volta ad accertare se

l'assegnazione del lavoratore a mansioni superiori abbia comportato anche

l'assimilazione della relativa responsabilità e l'autonomia propria della qualifica

rivendicata.

Trib. Milano Sez. lavoro, 24 gennaio 2011

Il divieto di variazioni "in peius" opera anche quando al lavoratore, nella formale

equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto

mansioni sostanzialmente inferiori. Nell'effettuare tale comparazione non è

sufficiente ancorarsi in astratto al livello di categoria ma occorrerà accertare che le

nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente,

salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e

l'accrescimento delle sue capacità professionali ed a condizione che risulti tutelato il

patrimonio professionale del lavoratore nel senso che la nuova collocazione gli

consenta di utilizzare ed anzi di arricchire il patrimonio professionale acquisito in una

prospettiva dinamica di valorizzazione del proprio bagaglio di conoscenze ed

esperienze.

Trib. Cassino Sez. lavoro, 10 gennaio 2011

Non ogni modifica quantitativa delle mansioni, si traduce automaticamente in una

dequalificazione professionale, incombendo, invece, sul giudice il compito di

accertare, di volta in volta, se l'effettuata sottrazione di mansioni sia tale da

comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore o una

sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite ed un conseguenziale

impoverimento della sua professionalità.

- Il danno da demansionamento

Cass. civ. Sez. lavoro, 23 novembre 2011, n. 24718

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e

dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno

professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di

inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel

ricorso introduttivo del giudizio - dall'esistenza di un pregiudizio (di natura non

meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare

reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri,

inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua

personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza

automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria,

cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta

datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma

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anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di

causalità con l'inadempimento datoriale.

Cass. civ. Sez. lavoro, 7 ottobre 2011, n. 20663

In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del

lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che

asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di

inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel

ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio

medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di

una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale

va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento.

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 maggio 2011, n. 11763

Nell'ipotesi di prosecuzione del rapporto di lavoro con l'impresa subentrante nella

gestione di un appalto, la domanda del lavoratore diretta ad ottenere il risarcimento

del danno per demansionamento e al pagamento di differenze retributive è idonea ad

introdurre la richiesta di applicazione dell'art. 2112 cod. civ. (e la relativa "causa

petendi") solamente se la parte, nel formulare la domanda, abbia allegato, a

prescindere dall'esattezza giuridica delle espressioni utilizzate, gli elementi del

trasferimento d'azienda in senso proprio (o, comunque, vicende che comportino una

continuità aziendale alla stregua della giurisprudenza comunitaria) e la continuità del

rapporto di lavoro, che costituisce la base della garanzia della salvaguardia della

posizione del lavoratore. (Nella specie, la società che era subentrata nella gestione del

servizio di nettezza urbana del Comune di Gallipoli aveva proceduto all'assunzione di

lavoratori già dipendenti del precedente gestore, i quali avevano lamentato la loro

dequalificazione e la mancata conservazione di pregresse indennità, senza, tuttavia,

dedurre in alcun modo la continuità giuridica del rapporto di lavoro; la S.C., in

applicazione dell'anzidetto principio, ha rigettato il ricorso, ritenendo corretta la

decisione del giudice di merito che aveva escluso l'applicabilità dell'art. 2112 cod.

civ.). (Rigetta, App. Lecce, 14/04/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 14 aprile 2011, n. 8527

Posto che il divieto di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori stabilito dall'art.

2103 c.c. non è derogabile neppure su accordo tra le parti, spetta al lavoratore che

abbia richiesto l'assegnazione ad un ufficio presso il quale abbia espletato mansioni

inferiori a quelle in precedenza svolte, il danno subìto, da determinare anche in via

equitativa, in base agli elementi desumibili dalla quantità e dalla qualità

dell'esperienza lavorativa pregressa, dal tipo di professionalità colpita, dalla durata

del demansionamento, dall'esito finale della dequalificazione e dalle altre circostanze

del caso concreto.

Cass. civ. Sez. lavoro, 4 marzo 2011, n. 5237

In caso di accertato demansionamento professionale, la risarcibilità del danno

all'immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro

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presuppone che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una

soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia futile, vale a dire che non

consista in meri disagi o fastidi. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha

rilevato la correttezza della decisione della corte territoriale che non solo ha escluso

che la retrocessione da capo turno ad addetto alla sorveglianza comportasse

l'esistenza di un danno "in re ipsa" rispetto alla dedotta lesione dell'immagine

professionale, ma ha ritenuto di poter trarre una presunzione di segno contrario in

relazione all'"estrema modestia della limitata supremazia esercita in precedenza" dal

lavoratore). (Rigetta, App. Genova, 11/07/2006)

* * *

M. Potere direttivo e modificazione del luogo di lavoro

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2011, n. 19710

Le valutazioni del datore di lavoro in ordine al rendimento ed alla capacità

professionale del lavoratore, espresse con le note di qualifica, sono sindacabili dal

giudice in riferimento ai parametri oggettivi previsti dal contratto collettivo ed agli

obblighi contrattuali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., e

quindi, sul datore di lavoro grava l'onere di motivare queste note, allo scopo di

permettere il controllo da parte del giudice dell'osservanza di siffatti parametri.

Peraltro detto controllo non e' limitato alla mera verifica della coerenza estrinseca del

giudizio riassuntivo della valutazione, ma ha ad oggetto la verifica della correttezza

del procedimento di formazione del medesimo, che richiede di prendere in esame i

dati sia positivi sia negativi rilevanti al fine della valutazione, non potendo invece

tenersi conto di quelli estranei alla prestazione lavorativa.

- Il trasferimento

Cass. civ. Sez. VI, 22 dicembre 2011, n. 28515

In relazione alla proposizione di domanda formalmente volta ad accertare

l'impossibilità di eseguire l'ordine di reintegrazione del dipendente illegittimamente

trasferito ed invece qualificata come azione volta a determinare le modalità di

esecuzione della sentenza, ai fini della competenza territoriale deve trovare

applicazione, anche nel caso di obbligo attinente ad un rapporto di lavoro, l'art. 26,

ultimo comma, cod. proc. civ., a norma del quale, per l'esecuzione forzata di obbligo

di fare e di non fare, la competenza per territorio va determinata con riferimento alla

"sede materiale" dell'esecuzione, ossia al luogo in cui risulta ubicato il posto di lavoro

dal quale il lavoratore è stato trasferito o, comunque, nel quale debbono porsi in

essere gli adempimenti necessari a realizzare l'effetto utile della sentenza, essendo

irrilevante lo scopo di accertare l'impossibilità di eseguire la sentenza e non già di

darvi attuazione, dal momento che rileva la finalità dell'azione, volta a determinare

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l'ambito di precettività del "dictum" del giudice e la sua concreta esigibilità. (Regola

competenza, Ancona, 27/09/2010).

Cass. civ. Sez. lavoro, 2 novembre 2011, n. 22695

Va riconosciuto al lavoratore trasferito un minimo di provvidenze anche nel caso in

cui al trasferimento stesso, pur comportando disagi per il lavoratore e la sua famiglia,

non si accompagni il mutamento della residenza.

Cass. civ. Sez. lavoro, 5 settembre 2011, n. 18223

L'art. 33, comma 5, legge n. 104 del 1992, stabilendo che il genitore o il familiare

lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un

parente o un affine entro il terzo grado handicappato, con lui convivente, ha diritto di

scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può

essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, attribuisce un diritto che, in virtù

dell'inciso secondo il quale esso può essere esercitato "ove possibile", ed in

applicazione del principio del bilanciamento degli interessi, non può essere fatto

valere qualora il suo esercizio leda in misura consistente le esigenze economiche ed

organizzative dell'azienda ed implica che l'handicap sia grave o, comunque, richieda

un'assistenza continuativa; inoltre, poiché le agevolazioni previste dalla succitata

norma costituiscono forme di intervento assistenziale riconosciute ai portatori di

handicap 'sub speciè di agevolazioni concesse a favore di coloro che si occupano dei

predetti, la sussistenza dell'handicap deve essere accertata dalle unità sanitarie locali,

mediante le commissioni mediche di cui all'art. 4, legge n. 104 del 1992, non essendo

consentita la sua dimostrazione mediante documentazione medica di diversa

provenienza, ferma restando l'ammissibilità della contestazione nelle sedi competenti,

delle conclusioni rese da dette commissioni. (Rigetta, App. Genova, 24/02/2009)

Cass. civ. Sez. lavoro, 6 luglio 2011, n. 14875

Il trasferimento del lavoratore ad una sede di lavoro diversa da quella dove prestava

precedentemente servizio, ove non si ricolleghi all'esercizio, atipico, della potestà

disciplinare del datore di lavoro ma a ragioni tecniche ed organizzative, prescinde

dalla colpa del dipendente e dall'osservanza delle garanzie proprie del procedimento

disciplinare. Ne consegue che la legittimità del provvedimento datoriale va valutata

alla luce dei limiti posti dall'art. 2103 cod. civ. e, dunque, della necessaria

corrispondenza tra la misura e le finalità tipiche dell'impresa. (Nella specie, relativa al

trasferimento del direttore di una filiale di un istituto di credito in ragione della sua

non collaborazione per lo svolgimento di una ispezione presso la sede da lui diretta, la

corte territoriale ha escluso la natura disciplinare del provvedimento attesa l'assenza

di ogni preventiva contestazione e la mancata previsione di una simile sanzione nella

disciplina collettiva applicabile; la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio, ha

rigettato il ricorso). (Rigetta, App. Roma, 09/03/2009).

Cass. civ. Sez. lavoro, 6 luglio 2011, n. 14875

È legittimo, anche se non preceduto da procedimento disciplinare, il trasferimento di

sede volto a prevenire disfunzioni connesse alla permanenza del dipendente in

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38

quell'ambiente di lavoro, giacché esso non riveste natura disciplinare, ma si riconnette

a ragioni, nella fattispecie obiettivamente riscontrate, correlate al regolare

funzionamento dell'attività aziendale.

Cass. civ. Sez. lavoro, 26 aprile 2011, n. 9345

Qualora la disciplina collettiva (nella specie, art. 31 del c.c.n.l. del 2001 dei

dipendenti dell'ente Poste Italiane) preveda che il trasferimento del dipendente ad

altra sede debba essere preceduto da un preavviso di determinata durata, è illegittimo

il provvedimento con cui il datore di lavoro, prima della scadenza del termine,

incarichi il medesimo dipendente di una trasferta presso la stessa sede di destinazione

finale, venendo in tal modo compromessa la finalità della disposizione, intesa a

ridurre al minimo i disagi del trasferimento ed a consentire al lavoratore di

provvedere tempestivamente ad ogni bisogno individuale e familiare, anche abitativo,

derivante dal mutamento di sede. Ne consegue che il lavoratore, il quale ometta di

adempiere all'ordine di recarsi in trasferta, non può essere considerato assente

ingiustificato, relativamente al periodo di durata del preavviso predetto. (Rigetta,

App. Lecce, 30/10/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 2 marzo 2011, n. 5099

Il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e

produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato deve essere

diretto ad accertare che vi sia corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore

di lavoro e le finalità tipiche dell'impresa, non può essere dilatato fino a comprendere

il merito della scelta operata dall'imprenditore; quest'ultima, inoltre, non deve

presentare necessariamente i caratteri dell'inevitabilità, essendo sufficiente che il

trasferimento concreti una delle possibili scelte, tutte ragionevoli, che il datore di

lavoro può adottare sul piano tecnico, organizzativo e produttivo. (Nella specie, la

S.C. ha annullato la sentenza impugnata che, ritenendo insussistenti le esigenze

organizzative e produttive poste a base del trasferimento di un dipendente bancario,

aveva sottolineato l'assenza di esperienza del lavoratore nelle nuove mansioni e la

ripartizione dei suoi originari compiti tra più dipendenti e, quindi, aveva valutato il

merito delle scelte organizzative). (Cassa e decide nel merito, Trib. Bologna,

03/03/2006).

- La trasferta

Cass. civ. Sez. lavoro, 26 aprile 2011, n. 9345

Qualora la disciplina collettiva (nella specie, art. 31 del c.c.n.l. del 2001 dei

dipendenti dell'ente Poste Italiane) preveda che il trasferimento del dipendente ad

altra sede debba essere preceduto da un preavviso di determinata durata, è illegittimo

il provvedimento con cui il datore di lavoro, prima della scadenza del termine,

incarichi il medesimo dipendente di una trasferta presso la stessa sede di destinazione

finale, venendo in tal modo compromessa la finalità della disposizione, intesa a

ridurre al minimo i disagi del trasferimento ed a consentire al lavoratore di

provvedere tempestivamente ad ogni bisogno individuale e familiare, anche abitativo,

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39

derivante dal mutamento di sede. Ne consegue che il lavoratore, il quale ometta di

adempiere all'ordine di recarsi in trasferta, non può essere considerato assente

ingiustificato, relativamente al periodo di durata del preavviso predetto. (Rigetta,

App. Lecce, 30/10/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 marzo 2011, n. 7041

Ai sensi del D.L. 31 luglio 1987, n. 317, convertito nella legge 3 ottobre 1987, n. 398,

l'indennità di trasferta, che va a compensare il disagio che comporta lo svolgimento

all'estero della prestazione lavorativa, non consente all'interprete di derogare alla

prescrizione di legge che ne impone l'erogazione e, neppure, alla volontà delle parti.

Spetta al Giudice del merito considerare se l'indennità in questione abbia natura di

superminimo o meno, valutando il corrispondente trattamento contributivo. La

corresponsione di una "pocket money" è assoggettata a contribuzione e

legittimamente detratta, erogata anticipatamente in moneta straniera.

- Il distacco

Cass. civ. Sez. Unite, 7 novembre 2011, n. 23021

Il distacco o il prestito di personale sono operazioni irrilevanti ai fini della detrazione

I.v.a. solo qualora l'ammontare del rimborso erogato dal distaccatario sia esattamente

pari al costo delle retribuzioni e degli altri oneri accessori e previdenziali sostenuti dal

distaccante per il personale. Diversamente, nel caso in cui il rimborso sia di

ammontare superiore o inferiore rispetto al costo delle retribuzioni e degli oneri,

l'azienda distaccataria ha diritto alla detrazione dell'I.v.a. che si calcola sull'intero

ammontare della prestazione.

Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 10 febbraio 2011, n. 307

Il distacco di lavoratori ai sensi dell'art. 1, n. 3, lettera c), della Direttiva n. 96/71/CE

è una prestazione di servizi fornita dietro retribuzione per la quale il lavoratore

distaccato rimane alle dipendenze dell'impresa prestatrice, senza che alcun contratto

di lavoro sia stipulato con l'impresa utilizzatrice. Esso è caratterizzato dal fatto che il

trasferimento del lavoratore nello Stato membro ospitante costituisce l'oggetto stesso

della prestazione di servizi effettuata dall'impresa prestatrice e che detto lavoratore

svolge i suoi compiti sotto il controllo e la direzione dell'impresa utilizzatrice.

Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 10 febbraio 2011, n. 309

Gli artt. 56 e 57, Trattato 25 marzo 1957, non ostano a che uno Stato membro

subordini, durante il periodo transitorio di cui al capitolo 2, punto 2, dell'allegato XII

dell'Atto relativo alle condizioni di adesione all'Unione europea della Repubblica

ceca, della Repubblica di Estonia, della Repubblica di Cipro, della Repubblica di

Lettonia, della Repubblica di Lituania, della Repubblica di Ungheria, della

Repubblica di Malta, della Repubblica di Polonia, della Repubblica di Slovenia e

della Repubblica slovacca e agli adattamenti dei trattati sui quali si fonda l'Unione

europea, il distacco, ai sensi dell'art. 1, n. 3, lettera c), della direttiva del Parlamento

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europeo e del Consiglio 16 dicembre 1996, Direttiva n. 96/71/CE, relativa al distacco

dei lavoratori nell'ambito di una prestazione di servizi, di lavoratori cittadini polacchi

sul suo territorio al rilascio di un permesso di lavoro.

Trib. Larino Sez. lavoro, 5 agosto 2011

Il distacco determina sempre una temporanea dissociazione tra il titolare del diritto

alla prestazione lavorativa ed il suo utilizzatore effettivo. Tale dissociazione, sempre

eccezionale, è ammessa in due casi: in via ordinaria, quando deve soddisfare

un'esigenza del datore di lavoro (D.Lgs. n. 276 del 2003) ed in via straordinaria,

quando deve soddisfare un'esigenza del lavoratore (art. 8 del D.L. n. 148 del 1993).

Trib. Perugia Sez. lavoro, 27 luglio 2011

In merito alla domanda giudiziale avente ad oggetto la richiesta di corresponsione

dell'indennità di trasferta, a nulla rileva la circostanza in forza della quale la ricorrente

rivendichi il diritto all'indennità relativamente al periodo per il quale la stessa abbia

continuato a svolgere le mansioni in regime di distacco senza alcun accordo scritto.

Nessuna norma impone, difatti, che il distacco sia disposto con provvedimento scritto

per cui è irrilevante che la ricorrente sia stata utilizzata in altra sede senza

formalizzazione del rapporto.

Trib. Nocera Inferiore Sez. lavoro, 28 gennaio 2011

L'istituto giuridico del comando, al pari del distacco del lavoratore privato, non

comporta una novazione soggettiva del rapporto e l'insorgenza di un nuovo rapporto

con il destinatario della prestazione (Cass. Sez.. Un., Ordinanza n. 25839 del

11/12/2007). II rapporto di lavoro prosegue con l'originario datore di lavoro ancorché

la prestazione sia resa in favore di un ente terzo. Il comando o il distacco del

lavoratore non comportano una novazione soggettiva e l'insorgenza di un nuovo

rapporto con il beneficiario della prestazione lavorativa, ma solo una modificazione

nell'esecuzione delle stesso rapporto, nel senso che l'obbligazione del lavoratore di

prestare la propria opera viene (temporaneamente) adempiuta non in favore del datore

di lavoro ma in favore del soggetto - cui sono attribuiti i connessi poteri direttivi e

disciplinari - presso il quale il datore medesimo ha disposto il distacco o il comando

del dipendente.

* * *

N. Salute e sicurezza sul lavoro

- L’art. 2087 c.c. e le prestazioni di sicurezza

Cass. civ. Sez. V, 3 novembre 2011, n. 22860

Nessuno sgravio fiscale se nei luoghi di lavoro non sono rispettate le norme di igiene

e sicurezza. Il rispetto delle norme in materia di tutela del lavoratore rappresenta,

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quindi, un elemento necessario e fondamentale per le imprese che richiedano sgravi

fiscali e/o contributivi quando assumono nuovi dipendenti.

Cass. civ. Sez. III, 20 ottobre 2011, n. 21694

In tema di infortuni sul lavoro, l'art. 2087 cod. civ., espressione del principio del

"neminem laedere" per l'imprenditore e l'art. 7 del d.lgs 19 settembre 1994 n. 626, che

disciplina l'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda, prevedono

l'obbligo per il committente, nella cui disponibilità permane l'ambiente di lavoro, di

adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori,

ancorché dipendenti dall'impresa appaltatrice, consistenti nell'informazione adeguata

dei singoli lavoratori e non solo dell'appaltatrice, nella predisposizione di tutte le

misure necessarie al raggiungimento dello scopo, nella cooperazione con

l'appaltatrice per l'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi

connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata, tanto più se caratterizzata

dall'uso di macchinari pericolosi. Pertanto l'omissione di cautele da parte dei

lavoratori non è idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del

committente che non abbia provveduto all'adozione di tutte le misure di prevenzione

rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro, non essendo né

imprevedibile né anomala una dimenticanza dei lavoratori nell'adozione di tutte le

cautele necessarie, con conseguente esclusione, in tale ipotesi, del cd. rischio elettivo,

idoneo ad interrompere il nesso causale ma ravvisabile solo quando l'attività non sia

in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso. (Rigetta,

App. Torino, 17/09/2008).

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 agosto 2011, n. 17720

Il datore di lavoro che instauri un rapporto di lavoro con un disabile, assunto

obbligatoriamente secondo quanto disposto dalla legge n. 482 del 1968, stante

l'obbligo di adottare tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica dei

lavoratori a norma dell'art. 2087 c.c., deve, in siffatta ipotesi, a maggior ragione, fare

in modo che le mansioni alle quali il lavoratore invalido venga adibito siano

compatibili con la sua condizione. Tanto ciò è vero che le eventuali assenze del

lavoratore disabile derivanti da malattie, aventi un collegamento causale diretto con le

mansioni svolte dal medesimo, sia le assenze causate da malattie rispetto alle quali le

mansioni espletate abbiano solo un ruolo di concausa, devono essere escluse da quelle

utili per la determinazione del periodo di comporto. Ciò è giustificato dal fatto che il

lavoratore, tanto più se invalido, ha il diritto di ottenere una collocazione lavorativa

idonea a salvaguardare la propria salute nel rispetto dell'organizzazione aziendale in

concreto realizzata dal datore di lavoro.

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 luglio 2011, n. 16444

La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. ha natura contrattuale, con la

conseguenza che al lavoratore che lamenti una patologia è sufficiente allegare

l'adibizione a mansioni dannose, provare il danno ed il nesso causale, mentre grava

sul datore di lavoro la prova di aver adempiuto interamente all'obbligo di sicurezza,

apprestando tutte le misure per evitare il danno. Sicché, nel caso in cui il giudice

accerti che la patologia dedotta non rientri tra quelle tabellate dal D.P.R. n.

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1124/1965, non vale la presunzione del nesso causale tra il danno e l'attività

lavorativa svolta.

Cass. civ. Sez. lavoro, 1 luglio 2011, n. 14507

La domanda proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro volta a conseguire il

risarcimento del danno sofferto per la mancata adozione, da parte dello stesso datore,

delle misure previste dall'art. 2087 cod. civ., non ha natura previdenziale perché non

si fonda sul rapporto assicurativo configurato dalla normativa in materia, ma si

ricollega direttamente al rapporto di lavoro, dando luogo ad una controversia di

lavoro disciplinata quanto agli accessori del credito dal secondo comma dell'art. 429

cod. proc. civ.. Ne consegue che non opera il divieto di cumulo di interessi e

rivalutazione stabilito per i crediti previdenziali dall'art. 16, sesto comma, della legge

n. 412 del 1991. (Rigetta, App. Trieste, 02/09/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 17 giugno 2011, n. 13356

In materia di risarcimento del danno non patrimoniale causato dalla violazione degli

obblighi previsti dall'art. 2087 c.c., il c.d. danno alla vita di relazione ed i pregiudizi

di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni

dell'integrità psicofisica, possono costituire solo voci del danno biologico, con

l'effetto che deve ritenersi vietata la loro distinta liquidazione, pena la duplicazione di

voci identiche.

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 maggio 2011, n. 11757

In tema di appalto, una responsabilità del committente nei riguardi dei terzi risulta

configurabile quando si versi nell'ipotesi di "culpa in eligendo", che ricorre qualora il

compimento dell'opera o del servizio siano stati affidati ad un'impresa appaltatrice

priva della capacità e dei mezzi tecnici indispensabili per eseguire la prestazione

oggetto del contratto senza che si determinino situazioni di pericolo per i terzi, ovvero

risulti provato che il fatto lesivo è stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di un

ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente

stesso, il quale, esorbitando dalla mera sorveglianza sull'opera oggetto del contratto,

abbia in tal modo esercitato una concreta ingerenza sull'attività dell'appaltatore, al

punto da ridurlo al ruolo di mero esecutore. (Nella specie, la S.C. ha cassato la

decisione della corte territoriale che aveva ritenuto solidalmente responsabile il

direttore dei lavori incaricato dal committente per la sorveglianza in relazione ad un

infortunio sul lavoro conseguente all'omesso allestimento di protezioni lungo la

parete di uno scavo, nonostante che questi non avesse alcuna ingerenza

nell'approntamento delle opere cautelari di prevenzione e fosse stato assolto in sede

penale per non aver commesso il fatto). (Cassa con rinvio, App. Napoli, 10/04/2009)

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 aprile 2011, n. 9238

Al cospetto della lesione di un diritto fondamentale della persona, l'integrità del

risarcimento impone di considerare ogni conseguenza del fatto lesivo, compresi i

pregiudizi esistenziali che siano riflesso della gravità della lesione e della sua capacità

di compromettere bisogni ed esigenze fondamentali della persona, in base ad un

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criterio di personalizzazione del danno, che tenga altresì conto delle condizioni

soggettive del lavoratore.

Cass. civ. Sez. lavoro, 30 marzo 2011, n. 7272

La prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute patito dal lavoratore in

conseguenza della mancata adozione da parte del datore di adeguate misure di

sicurezza delle condizioni di lavoro, ai sensi dall'art. 2087 cod. civ., decorre dal

momento in cui il danno si è manifestato, divenendo oggettivamente percepibile e

riconoscibile solo ove l'illecito sia istantaneo, ossia si esaurisca in un tempo definito,

ancorchè abbia effetti permanenti, mentre ove, l'illecito sia permanente e si sia perciò

protratto nel tempo, il termine prescrizionale inizia a decorrere al momento della

definitiva cessazione della condotta inadempiente. (Cassa con rinvio, App. Ancona,

11/10/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 2 febbraio 2011, n. 2451

In tema di responsabilità per infortunio sul lavoro, ed al fine di accertare la

responsabilità dell'impresa committente per aver richiesto al dipendente

dell'appaltatrice un lavoro, non rientrante nell'appalto, in relazione al quale si sia

verificato l'infortunio, la valutazione sulla riconducibilità all'appalto dell'operazione

che stava svolgendo il dipendente e l'accertamento del fatto che tale operazione gli

fosse richiesta dall'impresa committente, non rientrano nell'ambito del giudizio di

legittimità, ove non vengano segnalati specifici vizi motivazionali e non venga

precisato se, quando, come e - in questo caso - con che esito, la questione di fatto sia

stata proposta nel giudizio di merito. (Rigetta, App. Firenze, 03/11/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 10 gennaio 2011, n. 306

La responsabilità del datore di lavoro di cui all'art. 2087 c.c. è di natura contrattuale.

Ne consegue che, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che

lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute,

l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di

lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro

l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver

adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.

- Infortunio in itinere

Cass. civ. Sez. lavoro, 20 dicembre 2011, n. 27679

In caso di infortunio in itinere, il lavoratore non può rinunciare alla rendita Inail

perché intenzionato a richiedere direttamente al terzo responsabile il risarcimento dei

danni conseguenti alle lesioni sofferte, in quanto, laddove il danno risultasse di

ammontare maggiore rispetto all'indennizzo erogato dall'Istituto, lo stesso lavoratore

potrebbe agire nei confronti del danneggiante per il danno differenziale, senza alcuna

previa rinuncia alla prestazione previdenziale.

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Cass. civ. Sez. lavoro, 21 novembre 2011, n. 24485

Una volta individuato il campo dei soggetti compresi nell'assicurazione, ed appurato

che tra questi rientrano anche gli allievi che attendano alle attività indicate dall'art. 4,

n. 5, T.U. n. 1124/1965, non vi è ragione per escludere questi ultimi dalla tutela

apprestata dalla normativa antinfortunistica in tema di infortunio in itinere, posto che

l'art. 2 del T.U., al comma 3 (aggiunto dal D.Lgs. n. 38/2000, art. 12), ha stabilito

espressamente che "l'assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone

assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a

quello di lavoro", precisando che "l'assicurazione opera anche nel caso di utilizzo del

mezzo di trasporto privato, purché necessitato", senza operare, dunque, alcuna

distinzione tra le varie categorie di "persone assicurate", ed in particolare tra

insegnanti e allievi quando costoro attendano ad esperienze tecnico - scientifiche, ad

esercitazioni pratiche o ad esercitazioni di lavoro.

Cass. civ. Sez. VI, 3 novembre 2011, n. 22759

In materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, l'infortunio "in itinere" non

può essere ravvisato in caso di incidente stradale subito dal lavoratore che si sia

spostato con il proprio automezzo al luogo di prestazione dell'attività lavorativa fuori

sede, dal luogo della propria dimora, ove l'uso del veicolo privato non rappresenti una

necessità, in assenza di soluzioni alternative, ma una libera scelta del lavoratore,

tenuto conto che il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per

la mobilità delle persone e comporta il grado minimo di esposizione al rischio della

strada. (Rigetta, App. Reggio Calabria, 01/06/2010).

- Il mobbing

Cass. pen. Sez. VI, 10 ottobre 2011, n. 43100

Nell’ambito del rapporto di lavoro, affinché il mobbing possa configurare la

fattispecie punita ai sensi dell’art 572 c.p., occorre che il rapporto tra datore di lavoro,

autore dei maltrattamenti, e dipendente che subisce la condotta, abbia natura para-

familiare. Per tale motivo, i maltrattamenti perpetrati da un Sindaco a danno di un

dipendente dell’ente, mancando tra i soggetti un nesso di supremazia-soggezione, non

possono essere puniti ai sensi dell’art 572 c.p.

Cass. civ. Sez. lavoro, 17 giugno 2011, n. 13356

In materia di risarcimento del danno non patrimoniale causato dalla violazione degli

obblighi previsti dall’art. 2087 c.c. il c.d. danno alla vita di relazione ed i pregiudizi di

tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni

dell'integrità psicofisica, possono costituire solo voci del danno biologico, con

l'effetto che deve ritenersi vietata la loro distinta liquidazione, pena la duplicazione di

voci identiche.

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Cons. Stato Sez. VI, 15 giugno 2011, n. 3648

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro (qualificabile

come mobbing) sono rilevanti la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere

persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente

sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l'evento

lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del

datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;

la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Conferma della

sentenza del T.a.r. Lazio - Roma, sez. I, n. 1963/2010).

Cass. civ. Sez. lavoro, 31 maggio 2011, n. 12048

Posto che la condotta di mobbing postula la molteplicità di comportamenti di

carattere persecutorio, illeciti, o anche leciti se singolarmente considerati, che siano

stati compiuti in maniera miratamente sistematica e prolungata contro il dipendente

con intento vessatorio, è correttamente motivata la sentenza del giudice di merito che

abbia escluso ogni intento persecutorio o emulativo in episodi marginali ed isolati,

consistiti nel lancio della retribuzione sul tavolo e nella consegna di questa in un

sacco di monetine, verificatisi in tempi successivi all'inizio della manifestazione delle

patologie asseritamente collegate al mobbing, quando la lavoratrice non andava più a

lavorare e si recava in azienda soltanto allo scopo di ritirare la retribuzione.

Cass. pen. Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 16164

Il reato di maltrattamenti può integrarsi solo quando sussista un affidamento della

parte lesa al potere disciplinare dell'autore dei fatti, circostanza che può verificarsi

anche in ambienti di lavoro, che siano però caratterizzati da una consuetudine di vita

costante di natura parafamiliare, che crei nella parte offesa un rapporto di dipendenza

ed affidamento simile a quello che si realizza nell'ambito indicato, con

riconoscimento da parte di questa della soggezione al potere del dirigente, e

realizzazione, per l'effetto, di una situazione di debolezza che impone una più

pregnante tutela (nella fattispecie, si è ritenuto insussistente il reato di maltrattamenti

nel rapporto gerarchico intercorrente tra dirigenti medici).

* * *

O. La Malattia

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 settembre 2011, n. 19234

Non esiste alcun obbligo del datore di lavoro di avvertire il lavoratore, assente per

lungo tempo per malattia, che il periodo di conservazione del posto sta per scadere;

una volta esauritosi il suddetto periodo per non aver il lavoratore richiesto nei modi e

tempi prescritti di fruire di un periodo di aspettativa, ai fini della valutazione circa la

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tempestività del recesso, al datore di lavoro va riconosciuto un ragionevole "spatium

deliberandi" perché egli possa valutare convenientemente nel complesso la sequenza

di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della sua

presenza in rapporto agli interessi aziendali.

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 agosto 2011, n. 17720

Non rientrano nel periodo di comporto i periodi di malattia collegati alla disabilità

dell'invalido assunto ai sensi del collocamento obbligatorio se lo stesso viene adibito

a mansioni incompatibili con le sue condizioni di salute.

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 marzo 2011, n. 6375

In tema di licenziamento per giusta causa, la condotta del lavoratore, che, in

ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria

abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata - la cui gravosità non è

comparabile a quella di una attività lavorativa piena - senza svolgere una ulteriore

attività lavorativa, non è idonea a configurare un inadempimento ai danni

dell'interesse del datore di lavoro, dovendosi escludere che il lavoratore sia onerato a

provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità

temporanea rispetto all'attività lavorativa, laddove è a carico del datore di lavoro la

dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al

dipendente, il suddetto comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e

correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro. (Rigetta, App. Torino, 05/05/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 10 febbraio 2011, n. 3227

Nel caso di malattia professionale non tabellata, come per la malattia ad eziologia

multifattoriale, la prova della causa di lavoro, gravante sul lavoratore, deve essere

valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della

mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in

presenza di un rilevante grado di probabilità. La natura professionale della malattia

può essere desunta, con elevato grado di probabilità, dalla tipologia delle lavorazioni

svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell'ambiente di lavoro, dalla durata della

prestazione lavorativa e dall'assenza di altri fattori extralavorativi, alternativi o

concorrenti, che possano costituire causa della malattia.

* * *

P. L’appalto

Cass. civ. Sez. lavoro, 4 novembre 2011, n. 22894

Nel caso di lavoratore assunto da un'impresa appaltatrice di mano d'opera, posto poi a

disposizione del committente, è configurabile un negozio indiretto attraverso utilizzo

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di un negozio tipico (l'appalto) per il perseguimento di uno scopo ulteriore vietato

dall'ordinamento giuridico (cioè l'appalto di mano d'opera, considerato negozio in

frode alla legge e come tale nullo per illiceità della causa). In tale ipotesi il

collegamento funzionale tra i due negozi (quello fra il lavoratore e l'appaltatore e

quello fra questo ultimo e il soggetto datoriale beneficiario delle prestazioni

lavorative) estende l'effetto di nullità all'intero rapporto fra i tre distinti soggetti e nei

suoi distinti momenti, restando valido ed efficace solo il rapporto che nella realtà

concreta si è attuato tra il lavoratore e il beneficiario delle relative prestazioni.

Cass. pen. Sez. IV, 17 agosto 2011, n. 32119

Se è vero che per i lavori svolti in esecuzione di un contratto d'appalto incombe

sull'appaltatore quale datore di lavoro (per aver assunto l'onere dell'organizzazione

del lavoro con propri mezzi e con maestranze da lui stesso assunte) l'obbligo primario

dell'osservanza delle disposizioni antinfortunistiche, non è peraltro men vero che sia

configurabile, in talune circostanze, una responsabilità concorrente anche del

committente in caso di verificazione di incidenti sul lavoro. A costui risalirà invero la

corresponsabilità dell'evento ove questo si colleghi causalmente anche alle sua

condotta colposa commissiva od omissiva, qualora, ad esempio, abbia consentito lo

svolgimento del lavoro in presenza di situazioni o con l'impiego di mezzi dai quali

potevano generarsi rischi per l'incolumità dei lavoratori ovvero si sia ingerito

nell'esecuzione delle stesse operazioni, contrattualmente demandata all'appaltatore.

Cass. civ. Sez. lavoro, 6 giugno 2011, n. 12201

In tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro non è sufficiente, ai fini della

configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale

dell'appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell'appaltatore, occorrendo

verificare se le disposizioni impartite siano riconducibili al potere direttivo del datore

di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni

lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di

un genuino contratto di appalto. (Cassa con rinvio, App. Venezia, 04/04/2007)

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 maggio 2011, n. 11757

In tema di appalto, una responsabilità del committente nei riguardi dei terzi risulta

configurabile quando si versi nell'ipotesi di "culpa in eligendo", che ricorre qualora il

compimento dell'opera o del servizio siano stati affidati ad un'impresa appaltatrice

priva della capacità e dei mezzi tecnici indispensabili per eseguire la prestazione

oggetto del contratto senza che si determinino situazioni di pericolo per i terzi, ovvero

risulti provato che il fatto lesivo è stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di un

ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente

stesso, il quale, esorbitando dalla mera sorveglianza sull'opera oggetto del contratto,

abbia in tal modo esercitato una concreta ingerenza sull'attività dell'appaltatore, al

punto da ridurlo al ruolo di mero esecutore. (Nella specie, la S.C. ha cassato la

decisione della corte territoriale che aveva ritenuto solidalmente responsabile il

direttore dei lavori incaricato dal committente per la sorveglianza in relazione ad un

infortunio sul lavoro conseguente all'omesso allestimento di protezioni lungo la

parete di uno scavo, nonostante che questi non avesse alcuna ingerenza

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nell'approntamento delle opere cautelari di prevenzione e fosse stato assolto in sede

penale per non aver commesso il fatto). (Cassa con rinvio, App. Napoli, 10/04/2009)

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 marzo 2011, n. 7034

In tema di divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro in

riferimento agli appalti endoaziendali, ex art. 1 della legge n. 1369 del 1960

(applicabile "ratione temporis" alla specie), non è sufficiente verificare che l'appalto

venga concluso con un soggetto dotato di una propria ed effettiva organizzazione,

occorrendo accertare, in primo luogo, se, a termini di contratto, la prestazione

lavorativa debba essere resa nell'ambito di un'organizzazione e gestione propria

dell'appaltatore, in quanto finalizzata ad un autonomo risultato produttivo e, all'esito

positivo di tale indagine, la concreta esecuzione del contratto e, quindi, l'esistenza,

anche in fatto, dell'autonomia gestionale dell'appaltatore esplicata nella conduzione

aziendale, nella direzione del personale, nella scelta delle modalità e dei tempi di

lavoro. Ne consegue che non è violato il divieto di cui all’art. 1 delle legge n. 1369

del 1960 ove sia accertata dal giudice di merito, con congrua e logica motivazione,

l'effettiva autonoma struttura organizzativa in capo all'appaltatore, né incide sulla

dissociazione tra titolarità formale ed effettiva destinazione del rapporto

l'applicazione concreta da parte dell'appaltatore medesimo di lavoratori a servizi non

previsti dal contratto di appalto. (Rigetta, App. Roma, 28/09/2006)

* * *

Q. Cessione d’azienda e diritti del lavoratore

Cass. civ. Sez. lavoro, 14 novembre 2011, n. 23808

Nella nozione di cessione di ramo di azienda rientra ogni ipotesi di trasferimento

anche di una singola attività di impresa, sempre che sia riscontrabile un complesso di

beni o di rapporti interessati al fenomeno traslativo. In tale accezione, il trasferimento

di azienda può avere ad oggetto anche i soli lavoratori, i quali per essere stati addetti

ad un medesimo ramo dell'impresa ed in virtù delle nozioni e delle esperienze

acquisite siano capaci di svolgere le proprie funzioni presso il nuovo datore di lavoro

anche prescindendo dall'ulteriore supporto dei beni immobili, dei macchinari, degli

attrezzi da lavoro e/o di altri beni, di talché è indubbio che tale schema negoziale con

riferimento alla posizione del lavoratore si risolve in una ipotesi di successione legale

del contratto di lavoro subordinato non abbisognevole del consenso del contraente

ceduto ex art. 1406 c.c.

Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2011, n. 19282

L'art. 47, quinto comma, della legge n. 428 del 1990, consente modificazioni

peggiorative del trattamento dei lavoratori, in deroga all'art. 2112 cod. civ., allo scopo

di conservare i livelli occupazionali, quando venga trasferita l'azienda di un'impresa

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insolvente, purché l'accordo collettivo idoneo a costituire norma derogatoria della

fattispecie risulti essere stato concluso, altrimenti restando applicabile la disciplina

legale non derogata.(Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che

aveva evidenziato come nessun accordo collettivo derogatorio era stato perfezionato,

trattandosi, al contrario, di un'intesa generica che faceva riferimento a una futura

consultazione sindacale e a un futuro accordo da stipulare). (Rigetta, App. Napoli,

06/06/2009).

Cass. civ. Sez. lavoro, 22 settembre 2011, n. 19291

In caso di cessione d'azienda assoggettata al regime di cui all'art. 2112 cod. civ., posto

il carattere retributivo e sinallagmatico del trattamento di fine rapporto che costituisce

istituto di retribuzione differita, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei

confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto sia proseguito con il datore di

lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il

periodo di lavoro svolto fino al trasferimento aziendale, mentre il datore cessionario è

obbligato per la stessa quota solo in ragione del vincolo di solidarietà, e resta l'unico

obbligato quanto alla quota maturata nel periodo successivo alla cessione. (Rigetta,

App. Brescia, 22/09/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 26 luglio 2011, n. 16255

L’art. 2112 cod. civ., nel regolare i rapporti di lavoro in caso di trasferimento

d'azienda, trova applicazione in tutte le ipotesi in cui il cedente sostituisca a sé il

cessionario senza soluzione di continuità, anche nel caso di affitto d'azienda; ne

deriva che l'obbligazione dell'azienda affittuaria, come avviene per gli altri casi di

cessione, si risolve in un impegno "sine die" di mantenimento dell'occupazione dei

dipendenti trasferiti, che, una volta assunto, non può essere eluso semplicemente con

la formale restituzione dell'azienda, per cessazione del rapporto di affitto, quando

risulti che invece l'attività della impresa cedente era definitivamente cessata, mentre

quella dell'azienda affittuaria era continuata. (Cassa con rinvio, App. Firenze,

04/03/2009).

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 maggio 2011, n. 11763

Nell'ipotesi di prosecuzione del rapporto di lavoro con l'impresa subentrante nella

gestione di un appalto, la domanda del lavoratore diretta ad ottenere il risarcimento

del danno per demansionamento e al pagamento di differenze retributive è idonea ad

introdurre la richiesta di applicazione dell’art. 2112 cod. civ. (e la relativa "causa

petendi") solamente se la parte, nel formulare la domanda, abbia allegato, a

prescindere dall'esattezza giuridica delle espressioni utilizzate, gli elementi del

trasferimento d'azienda in senso proprio (o, comunque, vicende che comportino una

continuità aziendale alla stregua della giurisprudenza comunitaria) e la continuità del

rapporto di lavoro, che costituisce la base della garanzia della salvaguardia della

posizione del lavoratore. (Nella specie, la società che era subentrata nella gestione del

servizio di nettezza urbana del Comune di Gallipoli aveva proceduto all'assunzione di

lavoratori già dipendenti del precedente gestore, i quali avevano lamentato la loro

dequalificazione e la mancata conservazione di pregresse indennità, senza, tuttavia,

dedurre in alcun modo la continuità giuridica del rapporto di lavoro; la S.C., in

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applicazione dell'anzidetto principio, ha rigettato il ricorso, ritenendo corretta la

decisione del giudice di merito che aveva escluso l'applicabilità dell'art. 2112 cod.

civ.). (Rigetta, App. Lecce, 14/04/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 13 maggio 2011, n. 10614

L'incorporazione di una società in un'altra è assimilabile al trasferimento d'azienda di

cui all’art. 2112 cod. civ., con la conseguente applicazione del principio statuito dalla

citata norma secondo il quale ai lavoratori che passano alle dipendenze dell'impresa

incorporante si applica il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso

l'azienda cedente solamente nel caso in cui l'impresa cessionaria non applichi alcun

contratto collettivo, mentre, in caso contrario, la contrattazione collettiva dell'impresa

cedente è sostituita immediatamente ed in tutto da quella applicata nell'impresa

cessionaria anche se più sfavorevole, la cui incidenza non è preclusa rispetto a coloro

che non abbiano ancora maturato i requisiti per l'attribuzione di un diritto previsti

dalle precedenti disposizioni collettive. (Rigetta, App. Potenza, 17/02/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 11 maggio 2011, n. 10340

L'applicabilità della disciplina dettata dall'art. 2112 cod. civ. prescinde dall'esistenza

di un rapporto contrattuale tra l'imprenditore uscente e quello che subentra nella

gestione dell'azienda, assumendo rilievo, invece, la circostanza che vi sia continuità

nell'esercizio dell'attività imprenditoriale, restando adeguatamente conservato il

complesso organizzato dei beni dell'impresa e l'oggetto di quest'ultima.

Cass. civ. Sez. lavoro, 13 aprile 2011, n. 8465

In tema di trasferimento d'azienda, l’art. 2112 cod. civ., nel testo (applicabile "ratione

temporis") modificato dall'art. 47 della legge n. 428 del 1990 e antecedente alla

novella introdotta con il d.lgs. n. 18 del 2001, comprendeva espressamente - in linea

con la direttiva 77/187/CEE del 14 febbraio 1977, come ripetutamente interpretata

dalla Corte di giustizia CE e poi trasfusa nella direttiva 98/50/CE e, infine,

razionalizzata, senza innovazioni sostanziali, nella direttiva 2001/23/CE - la

possibilità che il trasferimento riguardasse unità produttive. Ne consegue che, in caso

di licenziamento disposto dalla società cedente, i successivi atti (nella specie, l'atto di

precetto e il pignoramento) sono legittimamente notificati alla società cessionaria del

ramo d'azienda, al quale era addetto il lavoratore al momento, anteriore alla cessione,

della risoluzione del rapporto. (Rigetta, Trib. Crotone, 26/03/2007)

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2011, n. 3047

L'effetto estintivo del licenziamento illegittimo intimato in epoca anteriore al

trasferimento d'azienda, in quanto meramente precario e destinato ad essere travolto

dalla sentenza di annullamento, comporta che il rapporto di lavoro ripristinato tra le

parti originarie si trasferisce, ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., in capo al cessionario.

* * *

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R. Il potere disciplinare del datore di lavoro

- Contestazione e vincoli procedurali

Cass. civ. Sez. VI, Ord., 22 dicembre 2011, n. 28335

In tema di licenziamento disciplinare del lavoratore, il requisito della immediatezza

deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un

intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti

richiede uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura

organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando

comunque riservata al giudice di merito la valutazione delle circostanze di fatto che in

concreto giustificano o meno il ritardo (nella specie, la Corte ha ritenuto che i circa

due anni trascorsi dall'asserita condotta del lavoratore al momento della contestazione

formale degli addebiti e il conseguente licenziamento non erano tali da garantire la

completezza e l'esaustività dell'esercizio di difesa del lavoratore, che rimaneva quindi

esposto ad un licenziamento disciplinare adottato senza la giusta osservanza del c.d.

principio di immediatezza della contestazione e, quindi, lesivo del diritto di difesa

costituzionalmente garantito).

Cass. civ. Sez. VI, Ord., 22 novembre 2011, n. 24567

Non si determina alcuna lesione del diritto alla difesa ed al contraddittorio qualora il

datore di lavoro corregga con una successiva comunicazione alcune imprecisioni di

portata non essenziale contenute nell'originaria contestazione, dovendosi guardare

piuttosto alla "complessiva sufficienza" di quest'ultima.

Cass. civ. Sez. lavoro, 18 ottobre 2011, n. 21485

L'art. 7 della L. n. 300/1970 subordina la legittimità del procedimento di irrogazione

della sanzione disciplinare alla previa contestazione degli addebiti, al fine di

consentire al lavoratore di esporre le proprie difese in relazione al comportamento

ascrittogli, pur non comportando, per il datore di lavoro, un dovere autonomo di

convocazione del dipendente per l'audizione orale, ma solo l'obbligo correlato alla

manifestazione tempestiva (entro il quinto giorno) del lavoratore di voler essere

sentito di persona. La stessa norma, tuttavia, presuppone che il datore di lavoro

gestisca il potere disciplinare "secondo i principi di correttezza e buona fede e, quindi,

con modalità tali da non ingenerare equivoci nel dipendente cui si riferisce la

contestazione".

Cass. civ. Sez. lavoro, 16 settembre 2011, n. 18955

Il principio di tassatività degli illeciti disciplinari non può essere inteso in senso

rigoroso, dovendosi distinguere tra gli illeciti relativi alla violazione di prescrizioni

strettamente attinenti all'organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e

quindi conoscibili solo se espressamente previste ed inserite, perciò, nel c.d. "codice

disciplinare" da affiggere ai sensi dell'art. 7 della L. n. 300 del 1970, e quelli costituiti

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da comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell'impresa o dei lavoratori,

per i quali non è necessaria la specifica inclusione nello stesso codice disciplinare,

poiché, in questi ultimi casi che possono legittimare il recesso del datore di lavoro per

giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il potere sanzionatorio deriva

direttamente dalla legge.

Cass. civ. Sez. lavoro, 14 settembre 2011, n. 18722

Il licenziamento disciplinare che segue ad una contestazione tardiva degli addebiti è

annullabile perché il "principio della immediatezza" tende a garantire il diritto di

difesa dell'incolpato, il quale, ad immediato ridosso dei fatti contestati, può mettere a

punto il materiale difensivo (documentazione, testimonianze, ecc.) per contrastare nel

modo più efficace il contenuto delle accuse rivoltegli dal datore di lavoro.

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 agosto 2011, n. 17743

La contestazione dell'addebito nel procedimento disciplinare, ai sensi dell'art. 7,

primo comma, legge n. 300 del 1970, è corretta se ha ad oggetto i dati e gli aspetti

essenziali del fatto materiale posto a fondamento del provvedimento sanzionatorio,

così da garantire un'adeguata difesa dell'incolpato, con la conseguenza che

l'immodificabilità della causa di licenziamento riguarda solo gli elementi di fatto e

non già la qualificazione dei medesimi.

Cass. civ. Sez. lavoro, 6 maggio 2011, n. 10015

La previa contestazione dell'addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti

qualificabili come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l'immediata

difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato

quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua

materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni

disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di diligenza e fedeltà

di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c..

Cass. civ. Sez. lavoro, 22 marzo 2011, n. 6499

In tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad

una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si verifica una modifica

della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto), ma

l’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a

sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove rispetto a quelle

contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell'infrazione anche

diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione

collettiva, dovendosi garantire l'effettivo diritto di difesa che la normativa sul

procedimento disciplinare di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970 assicura al

lavoratore incolpato. La possibilità di introdurre modificazioni dei fatti contestati può

essere riconosciuta solo con riguardo a modificazioni concernenti circostanze non

significative rispetto alla fattispecie contestata e così quando tali modificazioni non

configurino elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare e non

comportino dunque un pregiudizio alla difesa del lavoratore.

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Cass. civ. Sez. lavoro, 22 marzo 2011, n. 6499

Il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del

dipendente non può omettere l'audizione del lavoratore incolpato che ne abbia fatto

espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione nel termine

di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 5, - di giustificazioni scritte,

anche se queste appaiano già di per sé ampie ed esaustive.

Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2011, n. 7948

In tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, il

giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si

sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore e

dell'adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di

appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione

esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità. (Nella specie,

la S.C. ha ritenuto adeguatamente motivata la sentenza del giudice di merito che

aveva ritenuto illegittimo e sproporzionato il licenziamento di un dipendente bancario

che aveva negato alla società datrice di lavoro di aver comunicato ai propri colleghi di

essere in procinto di presentare le dimissioni, dovendosi ritenere che la ricerca di un

diverso posto di lavoro costituisca un fatto attinente alla sfera privata del lavoratore,

suscettibile di assumere rilevanza disciplinare solo se accompagnato ad una effettiva

violazione dell'obbligo di fedeltà). (Rigetta, App. Bologna, 29/01/2007)

Cass. civ. Sez. lavoro, 19 gennaio 2011, n. 1145

Il principio dell'immutabilità della contestazione dell'addebito disciplinare mosso al

lavoratore ai sensi dell'art. 7 dello statuto lavoratori preclude al datore di lavoro di

licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare

fatti non contestati e situati a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali

circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del

licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo

psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del

correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha

confermato la sentenza impugnata che, con logica e congrua motivazione, aveva

ritenuto proporzionato il licenziamento irrogato ad un dipendente - addebitando allo

stesso l'emissione di uno scontrino dietro versamento di una somma di importo

superiore, l'esistenza di eccedenze di cassa e la violazione della regola aziendale che

imponeva l'immediata digitazione dello scontrino e il successivo incasso del denaro,

valutando a tal fine anche il fatto che l'azienda avesse in passato avviato procedimenti

disciplinari nei confronti del dipendente per comportamenti similari a quelli contestati

e conclusisi con il mero rimprovero, trattandosi di circostanze sintomatiche della

inaffidabilità del dipendente e della incompatibilità del suo comportamento con le

mansioni svolte). (Rigetta, App. Napoli, 20/04/2006)

* * *

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- Proporzionalità della sanzione

Cass. civ. Sez. lavoro, 2 novembre 2011, n. 22692

Nel caso di licenziamento per giusta causa in conseguenza dell'abusivo

impossessamento di beni aziendali da parte del dipendente, ai fini della valutazione

della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non

l'assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto

di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento

in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi

assunti.

Cass. civ. Sez. lavoro, 25 ottobre 2011, n. 22129

Il licenziamento per giusta causa deve sempre essere corroborato da un ragionamento

sulla proporzionalità della sanzione che giustifichi la graduazione della pena. Non è

sufficiente, dunque, il mero richiamo da parte del giudice alla sussistenza di una

infrazione al codice disciplinare. Per la Suprema corte, infatti, “giusta causa di

licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge,

allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel

tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole

generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere

specificato in sede interpretativa”. Simili specificazioni “hanno natura giuridica e la

loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità”.

Cass. civ. Sez. VI, 26 luglio 2011, n. 16283

In tema di licenziamento disciplinare o per giusta causa, la valutazione della gravità

del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le

parti non va operata in astratto ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla

natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di

affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata

soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all'intensità

dell'elemento intenzionale o di quello colposo. (Principio affermato ai sensi dell'art.

360 bis, comma 1, cod. proc. civ.). (Rigetta, App. L'Aquila, 06/11/2009)

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 giugno 2011, n. 13754

Nella valutazione della gravità dell'inadempimento ascritto al lavoratore, e della

conseguente proporzionalità tra inadempimento e irrogazione della sanzione

disciplinare del licenziamento, correttamente il giudice di merito ritiene adeguata tale

misura nel caso in cui il lavoratore abbia fatto uso di documenti falsificati per ottenere

rimborsi non dovutigli, trattandosi di condotta di per sé grave e che mina il rapporto

fiduciario tra le parti del contratto di lavoro. (Rigetta, App. Firenze, 15/05/2007)

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Cass. civ. Sez. lavoro, 7 giugno – 29 agosto 2011, n. 17739

In tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il

giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso si

sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in

relazione al concreto rapporto, e l’inadempimento deve essere valutato in senso

accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della ''non scarsa

importanza" di cui all'art. 1455 c.c. L'irrogazione della massima sanzione disciplinare

risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli

obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione

neppure provvisoria del rapporto. (Nella fattispecie, secondo l'apprezzamento unitario

e coordinato di tutti questi dati, il lavoratore è stato giudicato meritevole di una

sanzione conservativa, anche sospensiva, ma di minore gravità rispetto al

licenziamento in quanto gli era stato contestato di aver prelevato, nell'effettuare le

operazioni di chiusura cassa a termine turno, la somma di 5 euro dall'incasso).

Cass. civ. Sez. lavoro, 1° marzo 2011, n. 5019

In tema di licenziamento disciplinare, è punibile con la sanzione disciplinare della

sospensione, ma non con il licenziamento, il dipendente che lascia il posto di lavoro

pochi minuti prima della fine del turno, alterando il foglio delle presenze. La gravità

della condotta contestata al lavoratore deve infatti essere valutata in base alla

considerazione complessiva sia del contenuto obiettivo, che della sua portata

soggettiva in relazione alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi che hanno

determinato il comportamento e all'intensità dell'elemento volitivo. Nel caso in

esame, visto il tipo di mancanza e l'assenza di un intento elusivo del controllo del

datore di lavoro, appare adeguata la sanzione della sospensione, anziché quella più

grave del licenziamento.

Cass. civ. Sez. lavoro, 14 febbraio 2011, n. 3596

In tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il

giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso -

istituzionalmente rimesso al giudice del merito (sull'ambito del controllo di logicità

del giudizio di fatto si rinvia a quanto sopra affermato) - si sostanzia nella valutazione

della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto

rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in

considerazione la circostanza che l'inadempimento, ove provato dal datore di lavoro

in assolvimento dell'onere su di lui incombente, L. n. 604 del 1966, ex art. 5, deve

essere valutato tenendo conto della specificazione in senso accentuativo a tutela del

lavoratore rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art.

1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata

solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali

ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria -

durante il periodo di preavviso - del rapporto. La L. n. 604 del 1966, art. 1 - con

l'indicazione della nozione di "giusta causa" del licenziamento e del presupposto del

carattere di "proporzionalità" tra il fatto addebitato e la sanzione inflitta - rientra

nell'ambito delle "nonne elastiche", cioè delle norme il cui contenuto, appunto,

elastico richiede giudizi di valore in sede applicativa, in quanto la gran parte delle

espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono dotate di una certa genericità

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la quale necessita, inevitabilmente, di un'opera di specificazione da parte del giudice

che è chiamato a darvi applicazione.

Cass. civ. Sez. lavoro, 26 gennaio 2011, n. 1788

In tema di licenziamento disciplinare, la valutazione della gravità del comportamento

e della sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone

nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del

rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l'entità

della violazione commessa e l'intensità dell'elemento soggettivo), è compito del

giudice di merito che, adeguatamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità.

In particolare, se all'integrazione dei fatti giuridicamente legittimanti il licenziamento

è necessario il dolo, la prova della sussistenza dei fatti addebitati nella loro materialità

è insufficiente e l'onere datoriale di provare la sussistenza dei detti fatti si estende alla

prova del dolo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, con

logica e congrua motivazione, aveva ritenuto che non sussistevano elementi idonei a

dedurre il dolo del casellante autostradale al quale era stata addebitata la mancata

restituzione agli utenti delle differenze di somme dovute per il pagamento dei

pedaggi, essendo il fatto compatibile anche con una condotta colposa).

* * *

S. I licenziamenti individuali

- Varie

Cass. civ. Sez. lavoro, 20 dicembre 2011, n. 27689

La dichiarazione di invalidità del licenziamento a norma dell'art. 18 della legge n. 300

del 1970 non comporta automaticamente la condanna del datore di lavoro al

risarcimento del danno nella misura stabilita dal quarto comma, con esclusione di

ogni rilevanza dei profili del dolo o della colpa nel comportamento del recedente, e

cioè per una forma di responsabilità oggettiva. L'irrilevanza degli elementi soggettivi

è configurabile, per effetto della rigidità al riguardo della formulazione normativa,

limitatamente alla misura minima delle cinque mensilità, la quale è assimilabile ad

una sorta di penale avente la sua radice nel rischio di impresa e può assumere la

funzione di un assegno, in senso lato, assistenziale nel caso di assenza di una

responsabilità di tipo soggettivo in capo al datore di lavoro; la disposizione in esame,

invece, - commisurando l'indennità risarcitoria alla retribuzione globale di fatto

maturata dal giorno del licenziamento - contiene solo una presunzione legale iuris

tantum circa l'entità del danno subito dal lavoratore, mentre la questione relativa alla

sussistenza della responsabilità risarcitoria deve ritenersi regolata dalle norme del

codice civile in tema di risarcimento del danno conseguente ad inadempimento delle

obbligazioni, non introducendo l'art. 18 dello statuto dei lavoratori elementi distintivi.

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Ne consegue l'applicabilità dell'art. 1218 cod. civ., secondo cui il debitore non è

tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui fornisca la prova che l'inadempimento

consegue ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile.

Cass. civ. Sez. lavoro, 10 novembre 2011, n. 23417

In caso di licenziamento disciplinare motivato da condotta colposa o manchevole del

lavoratore, rispetto alla contestazione dell’addebito e il diritto alla difesa, esso deve

ritenersi assoggettato alle garanzie dettate in favore del lavoratore, cosi’ come

disciplinato dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori. Tale orientamento trova

applicazione anche quando si fa riferimento a situazioni giustificative del recesso

previste direttamente dalla legge come la violazione di doveri accessori,

complementari e strumentali, tra i quali quelli nascenti dall’obbligo di fedeltà e

diligenza.

Cass. civ. Sez. lavoro, 13 ottobre 2011, n. 21044

Nel caso di scelta, da parte del lavoratore illegittimamente licenziato, dell'indennità

sostitutiva della reintegrazione ai sensi dell'art. 18, comma 5, legge 20 maggio 1970

(Statuto dei Lavoratori), il datore di lavoro che non ottempera è obbligato a pagare le

retribuzioni globali di fatto fino all'effettivo pagamento dell'indennità stessa.

Cass. civ. Sez. lavoro, 15 giugno 2011, n. 13090

In tema di recesso, affinché il licenziamento disciplinare, intimato senza il rispetto

delle garanzie procedimentali di cui all'art. 7 dello statuto dei lavoratori, possa

ritenersi revocato ed il rapporto di lavoro ricostituito, non è sufficiente il mero invito

a riprendere servizio rivolto dal datore di lavoro, ma è necessario un accordo, che

presuppone corrispondenza tra proposta ed accettazione. (Nella specie, la S.C. ha

confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto il successivo licenziamento una

mera tardiva comunicazione dei motivi del primo recesso attesa la mancanza, dopo

tale evento, di una effettiva ripresa del rapporto di lavoro). (Rigetta, App. Napoli,

10/07/2008)

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 maggio 2011, n. 11777

L'applicazione, in tema di licenziamento, dell'art. 4 della legge n. 108 del 1990, con

conseguente esclusione della tutela reale, implica l'accertamento in concreto, da parte

del Giudice di merito, della sussistenza dei requisiti tipici dell'organizzazione di

tendenza, definita come datore di lavoro non imprenditore che svolge, senza fini di

lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione

e di culto, sempre che non vi sia una struttura imprenditoriale, o per meglio dire, non

si ravvisino modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale. Ne deriva

che, a fronte di un'indagine che abbia evidenziato l'assenza di elementi tipici di una

struttura imprenditoriale, come accaduto nel caso concreto, è legittimo escludere

l'applicabilità della tutela reale in caso di licenziamenti.

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Cass. civ. Sez. lavoro, 5 maggio 2011, n. 9925

Muovendo dal dato letterale di cui all’art. 2 della legge n. 604 del 1966 (che prescrive

che il datore di lavoro deve comunicare per iscritto i motivi che hanno determinato il

recesso nel caso in cui il prestatore di lavoro lo richieda), la comunicazione dei motivi

da parte del datore di lavoro deve essere reale ed effettiva, in modo tale da permettere

al lavoratore di conoscere le concrete ragioni che sottendono al recesso. Solo in tal

modo egli può essere messo nella condizione di individuare con chiarezza e

precisione la causa del proprio licenziamento e, conseguentemente, di difendersi

adeguatamente. Diversamente, nell’ipotesi in cui la comunicazione sia meramente

formale ed i motivi siano indicati con una generica clausola di stile, al lavoratore non

sarebbe permesso di difendersi effettivamente e di contestare l’intimato

licenziamento. Ecco che, in tale ottica, deve allora ritenersi equivalente alla materiale

omissione della comunicazione dei motivi la comunicazione che, per la sua assoluta

genericità, sia totalmente inidonea ad assolvere il fine cui tende l’art. 2 della legge n.

604 del 1966.

Cass. civ. Sez. lavoro, 13 aprile 2011, n. 8459

Qualora il datore di lavoro sia soggetto munito di personalità giuridica di diritto

privato, la volontà di recedere dal rapporto di lavoro, mediante il licenziamento (atto

unilaterale recettizio), deve essere manifestata dalla persona o dall'organo abilitato a

compiere atti dispositivi del relativo diritto, senza però che il procedimento interno di

formazione di tale volontà possa essere sindacato da terzi estranei, come il lavoratore

dipendente, nei confronti della struttura deliberativa dell'ente. Pertanto, il

licenziamento intimato da soggetto privo del potere di rappresentanza dell'ente o che

abbia agito con eccesso di potere non è inficiato da nullità assoluta, ma è annullabile

unicamente ad istanza della società datrice di lavoro, che può peraltro ratificarlo a

norma dell'art. 1399 c.c..

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 febbraio 2011, n. 4146

In tema di conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, il datore di lavoro

per poter essere ammesso a dedurre e provare tardivamente circostanze idonee a

dimostrare “l’aliunde perceptum” da parte del lavoratore deve provare altresì di non

avuto tale conoscenza delle stesse e di avere, una volta conseguita tale conoscenza,

formulato le relative deduzioni nell’osservanza del principio, ricavabile dagli artt.

414, 416 e 420 c.p.c., di tempestività di allegazione dei fatti sopravvenuti, all’uopo

utilizzando il primo atto utile successivo alla conoscenza dei medesimi.

Cass. civ. Sez. lavoro, 3 gennaio 2011, n. 36

In tema di licenziamento del lavoratore, la revoca del recesso datoriale non può, di

per sé, avere l'effetto di ricostituire il rapporto di lavoro, occorrendo a tal fine una

manifestazione di volontà, anche tacita, del lavoratore, restando, tuttavia, escluso che

il consenso al ripristino del rapporto possa derivare dalla prestazione di lavoro nel

periodo di preavviso, che ha efficacia solo obbligatoria. Ne consegue che la revoca

non può sottrarre al lavoratore il diritto all'indennità sostitutiva, prevista dall'art. 18,

quinto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo introdotto dall'art. 1

della legge 11 maggio 1990, n. 108, il cui esercizio verrebbe altrimenti ad essere di

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fatto rimesso al datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha annullato la sentenza

impugnata, osservando che non poteva ravvisarsi nella condotta del lavoratore che

aveva continuato a prestare la sua attività lavorativa nel periodo di preavviso, nessuna

adesione, seppur implicita, alla suindicata revoca e ravvisando, anzi, nella

comunicazione di volersi avvalere della facoltà di ottenere, in luogo della reintegra,

l'indennità sostitutiva, la volontà di non accettazione della revoca). (Cassa con rinvio,

App. Roma, 11/09/2006)

- Giusta causa e giustificato motivo

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 settembre 2011, n. 19912

Il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è reso inoperante, ai sensi dell'art.

3 lettera a) del d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, quando ricorra la colpa grave della

lavoratrice, che non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo

soggettivo, ovvero di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale

giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario - in

conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 -

verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e

diversa, per l'indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia

per i generici casi d'inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del

rapporto. L'accertamento e la valutazione in concreto della prospettata colpa grave si

risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile

in sede di legittimità se sorretto da motivazione logicamente congrua e

giuridicamente immune da vizi. (Rigetta, App. Milano, 07/11/2008).

Cass. civ. Sez. lavoro, 26 settembre 2011, n. 19616

Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ex art. 3 della legge 15

luglio 1996, n. 604, è determinato non da un generico ridimensionamento dell'attività

imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del

reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere

meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a

fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto

che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta

riferibilità del licenziamento individuale ad iniziative collegate ad effettive ragioni di

carattere produttivo-organizzativo, e non ad un mero incremento di profitti, e che

dimostri, inoltre, l'impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni

equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale. (Nella specie, la

corte territoriale aveva ritenuto non raggiunta la prova della soppressione del posto di

responsabile di laboratorio, emergendo solo una diversa distribuzione delle mansioni

in forza di una revisione del pregresso assetto organizzativo; la S.C., in applicazione

dell'anzidetto principio, ha rigettato il ricorso). (Rigetta, App. Bologna, 29/09/2008).

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 agosto 2011, n. 17093

In tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo - nell'esprimere il giudizio

di valore necessario ad integrare la norma elastica da cui si desume la suddetta

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nozione - il giudice di merito compie un'attività di interpretazione giuridica e non

meramente fattuale della norma stessa, per cui dà concretezza a quella parte mobile di

essa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico -

sociale. Pertanto, detto giudizio di valore deve essere effettuato dando conto del

procedimento logico su cui si basa, nel rispetto delle nozioni di comune esperienza

evincibili dall'osservazione dei fenomeni socio-economici e con l'osservanza dei

principi generali dell'ordinamento. Ne consegue che il giudizio sulla futura

affidabilità del lavoratore licenziato non può essere espresso dal giudice violando i

principi costituzionali da cui si desume che l'assetto organizzativo dell'impresa è, di

regola, insindacabilmente stabilito dal datore di lavoro e che il giudice medesimo non

può imporre all'imprenditore modifiche delle proprie scelte organizzative. (Cassa con

rinvio, App. Genova, 22/07/2008)

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 giugno 2011, n. 13575

E’ legittimo il licenziamento per giusta causa motivato dall’azienda dalla rottura del

rapporto fiduciario tra il dipendente e l’azienda stessa, a seguito delle frasi ingiuriose

del collaboratore verso i suoi superiori. Le critiche rivolte dal dipendente ai dirigenti,

volte a screditarne l’onestà intellettuale e risultanti anche offensive, possono infatti,

costituire giusta causa per un licenziamento per la sopraggiunta frattura del rapporto

fiduciario tra l’azienda e il dipendente stesso, anche qualora queste offese non

costituiscano reato di diffamazione.

Cass. civ. Sez. lavoro, 15 aprile 2011, n. 8774

In tema di licenziamento per giusta causa, il Giudice può accertare l'esistenza della

giusta causa sulla base anche di uno solo dei comportamenti ascritti, ove in esso

riscontri il carattere di gravità richiesto dall'art. 2119 c.c. Quindi, se è vero che

nell'ipotesi di contestazione di una pluralità di comportamenti, gli stessi, ove in fatto

accertati, debbono essere esaminati non solo atomisticamente ma anche nella loro

concatenazione ai fini della valutazione della loro gravità non è, invece, vero che la

«causa» che consente la cessazione del rapporto debba essere ravvisata

necessariamente nel complesso dei fatti ascritti, potendo il Giudice individuare anche

in alcuni o in uno solo di essi il comportamento che giustifica il licenziamento. In

caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto

addebitato e recesso, viene preso in considerazione ogni comportamento che, per la

sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere

che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali,

essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l'influenza che sul

rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per

le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in

dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad

attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai

canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità

della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto

addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che,

alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico,

risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di

lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla

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configurazione che della mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma

pure all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle

mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto

(ed alla sua durata ed all'assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e

tipologia.

Cass. civ. Sez. lavoro, 12 aprile 2011, n. 8351

La violenta aggressione nei confronti di un superiore gerarchico per ragioni lavorative

è idonea a comportare ripercussioni nell'ambiente lavorativo ed a minare

radicalmente la fiducia del datore di lavoro nel proprio dipendente, il quale abbia

dimostrato di essere persona violenta, priva di autocontrollo e irrispettosa degli

elementari valori di convivenza civile. In tal caso ricorre la giusta causa di

licenziamento per essere stati violati i doveri di fedeltà e obbedienza del lavoratore.

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 marzo 2011, n. 7046

Spetta al Giudice verificare l'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di

lavoro ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo

intimato ad un proprio dipendente. Il datore di lavoro, dunque, deve in tal senso

fornirne la prova, come pure deve dimostrare l'impossibilità di una differente

utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte,

fermo restando l'onere gravante sul lavoratore di deduzione ed allegazione di tale

possibilità di reimpiego.

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 marzo 2011, n. 6375

In tema di licenziamento per giusta causa, la condotta del lavoratore, che, in

ottemperanza delle prescrizioni del medico curante, si sia allontanato dalla propria

abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata - la cui gravosità non è

comparabile a quella di una attività lavorativa piena - senza svolgere una ulteriore

attività lavorativa, non è idonea a configurare un inadempimento ai danni

dell'interesse del datore di lavoro, dovendosi escludere che il lavoratore sia onerato a

provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità

temporanea rispetto all'attività lavorativa, laddove è a carico del datore di lavoro la

dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al

dipendente, il suddetto comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e

correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro. (Rigetta, App. Torino, 05/05/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 2 marzo 2011, n. 5095

La giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione,

anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge - allo scopo di un

adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo -

configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole

generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere

specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni

relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente

richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro

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disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge,

mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli

elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro

concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso

piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione

a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente

contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto

agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

(Nella specie, il lavoratore, durante un periodo di assenza dal servizio per malattia,

aveva sottoscritto certificati di sanità veterinaria - rilasciabili solo dal veterinario in

servizio presso il distretto di appartenenza - per la spedizione internazionale di

prodotti caseari con apposizione di falsi protocolli alle certificazioni medesime, così

realizzando una grave violazione del vincolo fiduciario alla base del rapporto di

lavoro; la S.C., in applicazione del principio su esteso, ha confermato la sentenza di

merito che aveva ritenuto legittimo il recesso). (Rigetta, App. Napoli, 26/02/2007)

Cass. civ. Sez. lavoro, 1° marzo 2011, n. 5019

In tema di licenziamento disciplinare, l'espresso divieto di svolgere qualsivoglia

attività lavorativa da parte del dipendente fruitore di congedo familiare ai sensi

dell'art. 4, secondo comma, della legge n. 53 del 2000, non importa che lo

svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente in congedo sia in ogni

caso tale da giustificare la sanzione espulsiva, per il solo fatto di aver contravvenuto il

suindicato principio, dovendo verificarsi se la diversa attività abbia in concreto

compromesso il soddisfacimento degli interessi alla base del congedo e inciso sulla

fiducia dal datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza

impugnata che aveva ritenuto gli episodi contestati tali da non ledere il vincolo

fiduciario o da concretare un grave inadempimento contrattuale, tenuto conto

dell'elemento psicologico della condotta del lavoratore, causata dalla necessità di

percepire una retribuzione, e della sporadicità dell'attività lavorativa, limitata a

quattro giorni in relazione ad un periodo di aspettativa di due mesi, con impegno di

poche ore in tre giorni). (Rigetta, App. Napoli, 30/12/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 22 febbraio 2011, n. 4276

La diminuzione del fatturato può giustificare sotto l’aspetto oggettivo il licenziamento

di un dipendente, soprattutto allorquando non sia possibile ricollocare lo stesso

all’interno dell’azienda per lo svolgimento di mansioni adeguate al suo livello. Il

giudice non può sindacare la scelta datoriale sotto il profilo dell’opportunità

economica, non essendo possibile distinguere, ai fini della legittimità del

licenziamento, tra carattere provvisorio o definitivo della diminuzione del fatturato.

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2011, n. 3040

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni

tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice - che non può, invece,

sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di

iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. - il controllo in ordine all'effettiva

sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di

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lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari,

l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da

quelle precedentemente svolte; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo

rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una

collaborazione nell'accertamento di un possibile "repechage", mediante l'allegazione

dell'esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato,

e conseguendo a tale allegazione l'onere del datore di lavoro di provare la non

utilizzabilità nei posti predetti. (Cassa con rinvio, App. Venezia, 10/07/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 25 gennaio 2011, n. 1699

In tema di licenziamento per giusta causa, la mancata prestazione lavorativa in

conseguenza dello stato di malattia del dipendente trova tutela nelle disposizioni

contrattuali e codicistiche - in ispecie, nell'art. 2110 cod. civ. - in quanto questo non

sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore medesimo, il quale scientemente

assuma un rischio elettivo particolarmente elevato che supera il livello della "mera

eventualità" per raggiungere quello della "altissima probabilità", tenendo un

comportamento non improntato ai principi di correttezza e buona fede di cui agli

articoli 1175 e 1375 cod. civ. che debbono presiedere all'esecuzione del contratto e

che, nel rapporto di lavoro, fondano l'obbligo in capo al lavoratore subordinato di

tenere, in ogni caso, una condotta che non si riveli lesiva dell'interesse del datore di

lavoro all'effettiva esecuzione della prestazione lavorativa. (Nella specie, il

lavoratore, dirigente di un istituto di credito, si era recato ripetutamente in vacanza in

Madagascar, dove era stato soggetto a reiterati attacchi acuti di malaria, con

conseguente assenze dal posto di lavoro per lunghi periodi; la S.C., nel rigettare il

ricorso, ha sottolineato che non veniva in discussione la libertà del lavoratore di

utilizzare il periodo di ferie nella maniera ritenuta più opportuna, ma solo che il

lavoratore non aveva tenuto una condotta prudente ed oculata essendo

"prevedibilissima" l'insorgenza di attacchi della malattia, in quel luogo endemica, e

che di ciò egli aveva piena consapevolezza, tant'è che, in una occasione, aveva

motivato la richiesta di fruizione di ferie, poi trascorse nel paese straniero, con le

esigenze di cure della madre ammalata). (Rigetta, App. L'Aquila, 03/01/2007)

Cass. civ. Sez. lavoro, 20 gennaio 2011, n. 1244

Il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una

determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento,

fondato su una diversa causa o motivo, restando quest'ultimo del tutto autonomo e

distinto rispetto al primo, con la conseguenza che entrambi gli atti di recesso sono in

sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto,

dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui

venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente.

Cass. civ. Sez. lavoro, 3 gennaio 2011, n. 35

Per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve

rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di

lavoro ed in particolare di quello fiduciario e la cui prova incombe sul datore di

lavoro, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in

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relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali

sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la

proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione

dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in

concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione

della gravità dell'infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di

licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed

incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato. (Nella specie, la S.C.,

in applicazione dell'anzidetto principio, ha ritenuto che correttamente la corte di

merito avesse escluso la legittimità del licenziamento del lavoratore a cui era stato

contestato di essere entrato nei locali dell'azienda fuori dall'orario di lavoro nonché di

non aver comunicato all'azienda fatti ad essa pregiudizievoli, in quanto l'accesso gli

era stato consentito dall'addetto alla "reception", dal che era desumibile la non

necessità di una apposita esplicita autorizzazione datoriale, e considerato che, in

realtà, i predetti fatti erano già a conoscenza della società). (Rigetta, App. Milano,

22/09/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 3 gennaio 2011, n. 37

Ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto

astrattamente costituente reato, non rileva la valutazione penalistica del fatto né la sua

punibilità in sede penale, né la mancata attivazione del processo penale per il

medesimo fatto addebitato, dovendosi effettuare una valutazione autonoma in ordine

alla idoneità del fatto a integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo

del recesso. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, con la quale

era stata ritenuta la legittimità della sanzione disciplinare espulsiva irrogata a

dipendente che aveva fatto indebito uso della propria abilitazione - password - per

inserire nel sistema informatico della società dati relativi alla propria posizione

retributiva, onde ottenere l'accreditamento di spettanze non dovute). (Rigetta, App.

Roma, 08/03/2006)

- Superamento del periodo di comporto

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 dicembre 2011, n. 29693

La computabilità nel periodo di comporto delle assenze del lavoratore dovute ad

infortunio sul lavoro non si verifica nelle ipotesi in cui l’infortunio sia imputabile a

responsabilità del datore di lavoro.

Cass. civ. Sez. lavoro, 25 novembre 2011, n. 24899

In tema di licenziamento a per superamento del periodo di comporto per malattia del

lavoratore, fermo restando il potere datoriale di recedere non appena terminato il

periodo suddetto, e quindi anche prima del rientro del prestatore, nondimeno il datore

di lavoro ha altresì la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se

residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all'interno dell'assetto

organizzativo, se del caso mutato, dell'azienda. Ne deriva che solo a decorrere dal

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rientro in servizio del lavoratore, l'eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere

dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia del

potere di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, ingenerare un

corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente. (Nella specie, la S.C.

ha confermato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto legittima

l'intimazione del licenziamento 19 giorni dopo il rientro in azienda del lavoratore,

arco di tempo motivatamente valutato compatibile con le accertate dimensioni

dell'impresa, ma anche con uno "spatium deliberandi" inteso alla concreta verifica di

una possibile conservazione del rapporto). (Rigetta, App. Roma, 05/06/2008)

Cass. civ. Sez. lavoro, 12 luglio 2011, n. 15282

Il superamento del periodo di comporto deve essere fatto valere subito ai fini del

licenziamento. Anzi, ogni comportamento contrario - quale, come nel caso di specie,

l'invio del lavoratore a sostenere una vista medica al fine di accertarne lo stato di

salute - va interpretato come precisa volontà del datore di lavoro di abdicare alla

facoltà di licenziamento.

Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2011, n. 7946

In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del

lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l'infermità

dipenda dalla nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che lo stesso datore di

lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza

(art. 2087 cod. civ.) o di specifiche norme. Peraltro, incombe sul lavoratore l'onere di

provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l'assenza e le

mansioni espletate, in mancanza del quale deve ritenersi legittimo il licenziamento.

(Rigetta, App. Venezia, 14/07/2008).

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 marzo 2011, n. 7037

Nel rapporto di lavoro i principi di correttezza e buona fede rilevano, come norme di

relazione con funzione di fonte integrative del contratto (art. 1374 cod. civ.), ove

ineriscano a comportamenti dovuti in relazione ad obblighi di prestazione imposti al

datore di lavoro dal contratto collettivo o da altro atto di autonomia privata; ne

consegue che, in assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva,

il datore di lavoro non ha l'onere di avvertire preventivamente il lavoratore della

imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al fine di permettere al

lavoratore di esercitare eventualmente la facoltà di chiedere tempestivamente un

periodo di aspettativa, come previsto dal contratto collettivo stesso.

- Licenziamento del dirigente

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2011, n. 19709

L’atto di dimissioni di un dipendente da un determinato incarico, nel caso specifico

quello di direttore generale, non può essere interpretato come volontà di rescindere

completamente il rapporto di lavoro subordinato. E ciò anche se vi siano degli

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elementi di contesto che possano lasciar pensare una cosa simile.

Per la Suprema Corte però “nell’interpretazione dei negozi unilaterali il canone

ermeneutico di cui all’articolo 1362, primo comma, c.c., impone di accertare

esclusivamente l’intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio, anche

servendosi dei nessi grammaticali e sintattici di cui all’articolo 1363 del Cc,

dovendosi escludere, di contro, per l’unilateralità che connota il negozio, che possa

fasi ricorsi al canone ermeneutico della comune intenzione delle parti”. “Né può

indagarsi, per ricostruire la volontà negoziale unilaterale, oltre il senso letterale delle

parole adoperate, dando rilievo ad atti esterni al negozio, non spiegando rilevanza, a

tal fine, il contesto in cui si sia progressivamente formata la volontà negoziale, ove

non incorporato nel documento scritto, o la valutazione del comportamento dei

destinatari dell’atto”.

Cass. civ. Sez. lavoro, 19 settembre 2011, n. 19074

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che solo la presenza

della giusta causa nel licenziamento di un dirigente “salva” l’azienda dall’obbligo di

versare l’indennità di preavviso dovuta invece se c’è la sola “giustificatezza”. La

Corte fa chiarezza sulle nozioni di “giustificatezza”, prevista dal contratto dei

dirigenti, e di “giusta causa” e “giustificato motivo” che riguardano invece i

lavoratori subordinati. La giusta causa scatta in presenza di un fatto che, valutato in

concreto, è tale da ledere in maniera grave il rapporto fiduciario, mentre per la

giustificatezza che interessa i dirigenti, ruolo ancor più vincolato al rapporto di

fiducia, è sufficiente che il licenziamento non sia pretestuoso e discriminatorio ma sia

stato disposto in buona fede per valide ragioni. In quest’ultimo caso il dirigente può

perdere il diritto all’indennità supplementare, prevista dal suo contratto, ma, in

assenza di giusta causa, mantenere quello all’indennità di preavviso.

Cass. civ. Sez. lavoro, 5 luglio 2011, n. 14713

Al dirigente meramente convenzionale (o pseudo-dirigente), illegittimamente

licenziato, spetta la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro ai termini dell'art.

18 dello Statuto dei Lavoratori - legge n. 300/1970.

Cass. civ. Sez. lavoro, 16 febbraio 2011, n. 3821

Non costituisce violazione del divieto di trattamenti discriminatori il licenziamento

disciplinare per "culpa in vigilando" disposto dal datore di lavoro nei confronti del

dirigente, appartenente ad un'associazione religiosa, che abbia incautamente

autorizzato quest'ultima a somministrare ai dipendenti un test attitudinale invasivo nei

riguardi della loro vita privata, non essendovi alla base del recesso l'orientamento

etico religioso dell'associazione di appartenenza, ma solo i riflessi negativi della

vicenda sul contesto aziendale e sulla serenità dei dipendenti. (Rigetta, App. Firenze,

16/01/2007)

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 gennaio 2011, n. 1937

Il dirigente di azienda industriale, che, ai sensi degli artt. 19 e 22 del contratto

collettivo di categoria 16 maggio 1985, integranti una clausola compromissoria per

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arbitrato irrituale, abbia adito il collegio arbitrale, senza che a ciò si sia opposta la

controparte, per la determinazione dell'indennità supplementare dovuta in ragione

della mancanza di giustificazione del proprio licenziamento, non può (salvo che il

collegio predetto si sia dichiarato privo di legittimazione a decidere la controversia o

che il procedimento non sia pervenuto alla sua conclusione con il lodo o che il

relativo patto sia divenuto per qualsiasi ragione inoperante) proporre la medesima

azione in sede giudiziaria, non essendo abilitato a trasferire unilateralmente la

questione davanti al giudice dopo il compimento di atti incompatibili con la volontà

di avvalersi di tale tutela ed in mancanza di una volontà del datore di lavoro contraria

all'utilizzazione del procedimento arbitrale messo in moto dal dirigente medesimo;

ove questi, invece, non abbia attivato, la procedura arbitrale, ben può proporre

l'azione giudiziaria, in conformità al principio di alternatività delle tutele consentite in

relazione alla specificità delle ipotesi delle controversie di lavoro, ai sensi dell'art. 5,

primo comma, legge n. 533 del 1973. (Nella specie, la S.C. - in applicazione del

suindicato principio di diritto - ha confermato l'impugnata sentenza che aveva

accertato che il Collegio arbitrale non doveva essere preventivamente adito ai sensi

dell'art. 19 del suindicato CCNL e che legittimamente la cognizione della vertenza

relativa alla legittimità del licenziamento ai fini della corresponsione della indennità

supplementare nella misura massima era stata devoluta alla giustizia ordinaria).

(Rigetta, App. Napoli, 05/11/2008).

- Profili risarcitori

Cass. civ. Sez. lavoro, 16 dicembre 2011, n. 27205 La richiesta del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della

reintegrazione nel posto di lavoro, l'indennità prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18,

comma 5 costituisce esercizio di un diritto derivante dall'illegittimità del licenziamento,

riconosciuto al lavoratore secondo lo schema dell'obbligazione con facoltà alternativa ex

parte creditoris, nel senso che, in luogo della reintegrazione del lavoratore nel posto di

lavoro, che è l'unica prestazione a cui è tenuto il datore di lavoro in conseguenza

dell'illegittimità del licenziamento irrogato, il lavoratore può optare per la corresponsione

della indennità di cui alla citata norma.

Cass. civ. Sez. lav., 13 gennaio 2012, n. 402

In conseguenza degli effetti retroattivi delle pronunce di annullamento del

licenziamento illegittimamente intimato, il datore di lavoro è tenuto al versamento dei

contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento a quello

dell’effettiva reintegrazione, posto che la declaratoria di illegittimità del

licenziamento comporta la non interruzione de iure anche del rapporto assicurativo

previdenziale, collegato a quello lavorativo. Poiché l’obbligazione contributiva sorge

contestualmente all’obbligazione retributiva, i contributi previdenziali sono, dunque,

da ritenersi dovuti, ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 1, comma

217 della L. n. 662/1996, fin dal momento in cui, in conseguenza degli effetti

retroattivi delle pronunce di annullamento del licenziamento illegittimamente

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intimato, devono essere riconosciute al lavoratore le spettanze economiche in

relazione all’insorgere dell’obbligazione contributiva.

Cass. civ. Sez. lavoro, 3 gennaio 2011, n. 77

Il lavoratore licenziato senza l'osservanza dell'onere della forma scritta, imposto

dall'art. 2, legge 15 luglio 1966, n. 604, non fruisce della tutela dell'art. 18, legge n.

300/1970 ma può far valere la nullità del licenziamento, che non interrompe la

continuità del rapporto di lavoro. La mancata esecuzione della prestazione lavorativa,

imputabile al datore di lavoro, genera il diritto al risarcimento del danno,

normalmente pari alle retribuzioni perse.

* * *

T. I licenziamenti collettivi

- Procedure di mobilità e cassa integrazione

Cass. civ. Sez. lavoro, 30 novembre 2011, n. 25385

In materia di licenziamenti regolati dalla legge n.223/1991, l’obbligo di indicare le

modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare,

per permettere ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi

amministrativi di controllare la correttezza delle operazioni e impiego degli accordi

sottoscritti. Pertanto, non è sufficiente la trasmissione dell’elenco dei lavoratori

licenziati, è necessario rendere note le modalità attraverso le quali deve attuarsi la

riorganizzazione aziendale e la specifica area della struttura imprenditoriale

interessata da detta ristrutturazione, comprese le categorie di dipendenti destinatarie

della messa in mobilità o della riduzione del personale.

Cass. civ. Sez. lavoro, 24 novembre 2011, n. 24828

L'indennità di mobilità ai lavoratori licenziati, di cui all'art. 7, legge n. 223 del 1991,

configura una prestazione previdenziale che trova inderogabile regolamentazione

nella normativa legale. Ne consegue che è nullo per frode alla legge - in quanto

modificativo della disciplina legale che regola i tempi, le modalità e i requisiti

oggettivi che presiedono all'erogazione della suddetta indennità - l'accordo transattivo

tra il datore di lavoro e il lavoratore, con il quale, a seguito del licenziamento di

quest'ultimo, le parti avevano concordato l'impegno del datore di lavoro di attivare la

procedura di mobilità con reintegra del lavoratore, ma con sospensione della

prestazione lavorativa fino alla data di stipula dell'accordo sindacale sulla messa in

mobilità, nel cui ambito doveva essere indicato il nominativo del lavoratore. (Rigetta,

App. Firenze, 10/06/2008).

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Cass. civ. Sez. lavoro, 22 novembre 2011, n. 24566

Dopo l'entrata in vigore della legge n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo

costituisce un istituto autonomo che si distingue dal licenziamento individuale per

giustificato motivo oggettivo, essendo specificatamente caratterizzato in base alle

dimensioni occupazionali dell'impresa, al numero dei licenziamenti, all'arco

temporale entro cui gli stessi sono effettuati, ed essendo inderogabilmente collegato al

controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell'operazione imprenditoriale di

ridimensionamento dell'azienda. Ne deriva che, qualora il datore di lavoro che occupi

più di 15 dipendenti intenda effettuare, in conseguenza di una riduzione o

trasformazione dell'attività di lavoro, almeno 5 licenziamenti nell'arco di 120 giorni, è

tenuto all'osservanza delle procedure previste dalla legge stessa, mentre resta

irrilevante che il numero dei licenziamenti attuati a conclusione delle procedure

medesime sia eventualmente inferiore, così com'è inammissibile la "conversione" del

licenziamento collettivo in licenziamento individuale. (Rigetta, App. Milano,

07/11/2008)

Cass. civ. Sez. lavoro, 11 novembre 2011, n. 23665

In tema di licenziamenti collettivi, la disciplina prevista dalla legge 23 luglio 1991, n.

223, ha portata generale ed è obbligatoria anche nell'ipotesi in cui, nell'ambito di una

procedura concorsuale, risulti impossibile la continuazione dell'attività aziendale e,

nelle condizioni normativamente previste, si intenda procedere ai licenziamenti.

Cass. civ. Sez. lavoro, 20 ottobre 2011, n. 21820

In materia di integrazione salariale, il lavoratore che si avvale della corresponsione

anticipata dell'indennità di mobilità ai sensi dell'art. 7, comma 5, della legge 23 luglio

1991, n. 223, e viene conseguentemente cancellato dalle liste di mobilità ai sensi

dell'art. 9, comma 9, lett. b), della stessa legge, non ha diritto al contributo a fondo

perduto di cui all'art. 12, comma 5, lett. b), del d.lgs. 1 dicembre 1997, n. 468, poiché

l'attribuzione di questo incentivo implica la costanza del trattamento di mobilità.

(Cassa e decide nel merito, App. Genova, 29/11/2007)

Cass. civ. Sez. VI, 26 luglio 2011, n. 16288

Il riconoscimento dei benefici contributivi, previsti dall'art. 8 della legge n. 223 del

1991 in favore dell'impresa che assume lavoratori collocati in mobilità, è escluso ove

ricorrano "assetti proprietari sostanzialmente coincidenti" tra l'impresa che effettua le

nuove assunzioni e quella che ha proceduto ai licenziamenti, dovendosi intendere tale

locuzione riferita a tutte le situazioni che facciano presumere la presenza di un

comune nucleo proprietario, in grado di ideare e fare attuare un'operazione coordinata

di ristrutturazione, comportante il licenziamento di taluni dipendenti da un'azienda e

la loro assunzione da parte dell'altra, senza che, in tale evenienza, il rapporto di lavoro

possa essere considerato nuovo ai fini contributivi. (Principio affermato ai sensi

dell'art. 360 bis, comma 1, cod. proc. civ.). (Rigetta, App. Firenze, 04/03/2010)

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Cass. civ. Sez. lavoro, 6 luglio – 23 settembre 2011, n. 19416

Le anomalie procedurali, nell'ambito di una procedura per la cassa integrazione, non

possono considerarsi sanate dagli accordi sindacali. "La discussione dei criteri in sede

sindacale non può considerarsi equivalente alla loro previa comunicazione da parte

del datore di lavoro, la quale soltanto è idonea a consentire ai lavoratori interessati di

adottare le iniziative che ritengono necessarie a tutelare le loro posizioni individuali".

L'omessa comunicazione ha indotto la Cassazione ad annullare la cassa integrazione

imposta alla lavoratrice.

Cass. civ. Sez. lavoro, 31 maggio 2011, n. 12056

In caso di intervento straordinario di integrazione salariale per l'attuazione di un

programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale che implichi

una temporanea eccedenza di personale, il provvedimento di sospensione dall'attività

lavorativa è illegittimo qualora il datore di lavoro ometta di comunicare alle OO.SS.,

ai fini dell'esame congiunto, gli specifici criteri, eventualmente diversi dalla

rotazione, di individuazione dei lavoratori che debbono essere sospesi, e tale

illegittimità può essere fatta valere dai lavoratori interessati davanti al giudice

ordinario, in via incidentale, per ottenere il pagamento della retribuzione piena e non

integrata

Cass. civ. Sez. lavoro, 17 maggio - 21 giugno 2011, n. 13577

La mancata comunicazione preventiva all’Inps dello svolgimento di lavori saltuari e

temporanei, è sanzionata con la decadenza dal diritto al trattamento di integrazione

salariale, senza alcuna possibilità di graduazioni secondo criteri di proporzione, da

collegare alle singole fattispecie, incompatibili con la natura della sanzione e del fatto

sanzionato.

Cass. civ. Sez. lavoro, 16 maggio 2011, n. 10731

In tema di collocamento obbligatorio dei disabili, in caso di avvio presso l'impresa di

destinazione della procedura di mobilità disciplinata dagli articoli 4 e 24 della legge

n. 223 del 1991, l'obbligo del datore di lavoro di procedere all'assunzione del

personale invalido è sospeso per l'intera durata della procedura, nonché, ove la stessa

si concluda con almeno cinque licenziamenti, per l'intero periodo - pari ad un anno

dall'ultimo licenziamento nel regime anteriore alle modifiche introdotte con l'art. 6

del d.lgs. n. 297 del 2002 - in cui permane il diritto di precedenza all'assunzione

previsto dall'art. 8, primo comma, legge n. 223 del 1991, senza che ostino limitazioni

territoriali. Ne consegue che il provvedimento di avviamento obbligatorio al lavoro

può essere legittimamente adottato dal datore di lavoro solo a seguito della cessazione

della sospensione dell'obbligo, potendo la relativa istanza di assunzione essere

effettuata, entro il termine di sessanta giorni ai sensi dell'art. 9, primo comma, legge

n. 68 del 1999, solo da tale momento. (Cassa e decide nel merito, App. Roma,

05/11/2007).

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Cass. civ. Sez. lavoro, 26 aprile 2011, n. 9348

In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali dettate per i licenziamenti

collettivi per riduzione del personale dalla legge n. 223/1991, la sufficienza dei

contenuti della comunicazione preventiva di cui all'art. 4, comma 3, deve essere

valutata in relazione ai motivi della riduzione del personale, sottratti al controllo

giurisdizionale, cosicché, nel caso del progetto imprenditoriale diretto a

ridimensionare l'organico dell'intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo

del lavoro, l'imprenditore può limitarsi all'indicazione del numero complessivo dei

lavoratori eccedenti suddiviso tra i diversi profili professionali contemplati dalla

classificazione del personale occupato nell'azienda, tanto più se si esclude qualsiasi

limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i

sindacati all'esito della procedura che, nell'ambito delle misure idonee a ridurre

l'impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio di scelta del possesso dei requisiti

per l'accesso alla pensione.

Cass. civ. Sez. lavoro, 7 aprile 2011, n. 7958

In tema di trattamento di disoccupazione, nell'ipotesi di licenziamento collettivo,

intimato prima dell'entrata in vigore della legge n. 223 del 1991, i cui effetti siano

rimasti sospesi a norma dell'art. 2 della l. 27 luglio 1979 n. 301 fino a data successiva

all'entrata in vigore della citata legge n. 223, i lavoratori rimasti disoccupati per

effetto del licenziamento hanno diritto, nel concorso degli altri presupposti di legge,

all'indennità di mobilità a norma degli artt. 7 e 16 della legge n. 223 del 1991, atteso

che, essendo il rapporto di lavoro in vita, ancorché sospeso, i licenziamenti devono

intendersi verificati solo al momento in cui sono divenuti definitivamente efficaci,

con la conseguente equiparazione della posizione dei lavoratori interessati a quella

dei lavoratori assoggettati a collocamento in mobilità o a licenziamento collettivo

dopo l'entrata in vigore della legge n. 223 del 1991. (Rigetta, App. Napoli,

10/09/2007)

Cass. civ. Sez. lavoro, 5 aprile 2011, n. 7744

I licenziamenti collettivi di cui alla L. n. 223/1991 sono inefficaci qualora la

comunicazione di avvio della procedura di mobilità è priva di uno degli elementi

previsti dall'art. 4, comma 3 della citata legge - e così della collocazione aziendale e

dei profili professionali del personale eccedente e di quello abitualmente impiegato

nell'impresa -, anche se tale carenza viene sanata dalla successiva stipulazione

dell'accordo sindacale di riduzione del personale e dalla indicazione in esso di un

criterio di scelta dei dipendenti da licenziare.

Cass. civ. Sez. lavoro, 18 marzo 2011, n. 6283

Il criterio di scelta adottato nell'accordo sindacale, per l'individuazione dei destinatari

il licenziamento collettivo e la messa in mobilità dei lavoratori, può essere anche

unico (es. prossimità al pensionamento); ciò, sempreché, permetta il formarsi di una

graduatoria rigida che non deve avere alcun margine di discrezionalità da parte del

datore di lavoro.

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Cass. civ. Sez. lavoro, 11 marzo 2011, n. 5884

In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali dettate per i licenziamenti

collettivi per riduzione di personale dalla legge n. 223 del 1991, la sufficienza dei

contenuti della comunicazione preventiva di cui all'art. 4, comma 3, deve essere

valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, sottratti al controllo

giurisdizionale; ne consegue che, nel caso di progetto imprenditoriale diretto a

ridimensionare l'organico dell'intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo

del lavoro, l'imprenditore può limitarsi all'indicazione del numero complessivo dei

lavoratori eccedenti, suddiviso alla stregua della classificazione per aree funzionali -

ciascuna caratterizzata dall'idoneità professionale allo svolgimento di una pluralità di

mansioni -, tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in

presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all'esito della procedura, che,

nell'ambito delle misure idonee ridurre l'impatto sociale dei licenziamenti, adotti il

criterio di scelta del possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione.

Cass. civ. Sez. lavoro, 11 marzo 2011, n. 5884

In materia di licenziamenti collettivi per riduzione del personale la legge n. 223/1991,

nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata

procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha

introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal

controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad

un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento

dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi

poteri di informazione e consultazione. I residui spazi di controllo devoluti al giudice

in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del

personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato

motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la conseguenza

che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali,

senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e

senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni

sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i

lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza

di «effettive» esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva. Ne

deriva che, a differenza di quanto accadeva prima dell’entrata in vigore della legge n.

223/1991, condotte datoriali, quali la richiesta di svolgimento di lavoro straordinario,

l’assunzione di nuovi lavoratori o la devoluzione all’esterno dell’impresa di parte del-

la produzione, successive al licenziamento collettivo; non sono suscettibili di incidere

sulla validità del licenziamento stesso una volta che la procedura per mobilità si sia

svolta nel rispetto dei vari adempimenti previsti.

Cass. civ. Sez. lavoro, 14 febbraio 2011, n. 3597

In materia di risarcimento del danno a favore del lavoratore illegittimamente

licenziato, il datore di lavoro non può detrarre quanto percepito da quest’ultimo a

titolo di indennità di mobilità, atteso che le stesse vanno intese come non acquisite

essendo ripetibili dagli Istituti previdenziali.

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Cass. civ. Sez. lavoro, 27 gennaio 2011, n. 1938

In tema di licenziamento collettivo, il doppio richiamo operato dall'art. 5, comma 1,

legge n. 223 del 1991 alle esigenze tecnico produttive ed organizzative del complesso

aziendale, assolve alla funzione, quanto alla previsione contenuta nella prima parte

della norma, di delimitare, in ragione dei motivi posti a fondamento della riduzione di

personale, l'ambito entro il quale dovrà essere operata la scelta dei lavoratori e,

quindi, in riferimento ai posti soppressi, mentre il secondo - contenuto nei concreti

criteri di scelta - opera, una volta determinato il suddetto ambito, con riguardo alla

individuazione dei singoli posti di lavoro rimasti dopo la soppressione. Ne consegue

che, ove, in sede di accordo sindacale, le parti sociali abbiano concordato la

sostituzione dei criteri legali con quelli della prossimità alla pensione tenendo conto

delle esigenze tecnico produttive ed organizzative dell'azienda, i nuovi criteri

debbono ritenersi alternativi e di integrale applicazione, dovendosi ritenere arbitraria

la qualificazione delle esigenze tecnico produttive ed organizzative solo come mera

riconduzione alla previsione di cui alla prima parte dell'art. 5, comma 1, legge n. 223

del 1991. (Rigetta, App. Roma, 10/04/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 25 gennaio 2011, n. 1722

Nel caso di progetto imprenditoriale diretto a ridimensionare l'organico dell'intero

complesso aziendale, al fine di ridurre il costo del lavoro, l'imprenditore può limitarsi

all'indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti suddiviso tra i diversi

profili professionali contemplati dalla classificazione del personale occupato; tanto

più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della

conclusione di un accordo con i sindacati all'esito della procedura.

* * *

U. Le dimissioni del lavoratore

Cass. civ. Sez. lavoro, 21 novembre 2011, n. 24477

La configurabilità delle dimissioni per giusta causa, pur potendo sussistere anche

quando il recesso non segua immediatamente i fatti che lo giustificano e la giusta

causa sia addotta solo successivamente al recesso, è tuttavia da escludere nel caso in

cui il lavoratore, manifestando la volontà di dimettersi, abbia dichiarato al datore di

lavoro di essere pronto a continuare l'attività per tutto o per parte del periodo di

preavviso, atteso che, in tale ipotesi, è lo stesso lavoratore ad escludere, con il suo

comportamento, la ravvisabilità di circostanze tali da impedire la prosecuzione anche

soltanto temporanea del rapporto. (Cassa con rinvio, App. L'Aquila, 05/04/2007).

Cons. Stato Sez. V, 27 settembre 2011, n. 5384

Nel pubblico impiego le dimissioni volontarie del dipendente si perfezionano con

l'accettazione delle stesse da parte dell'amministrazione e non possono essere

revocate quando tale provvedimento sia stato assunto, anche se il dipendente non ne

abbia ancora avuto formale comunicazione, attesa la natura non ricettizia

dell'accettazione medesima. Infatti, il provvedimento di accettazione delle dimissioni

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(rispetto al quale la volontà del dipendente rappresenta soltanto il presupposto) ha

carattere costitutivo, con conseguente effetto estintivo del rapporto di pubblico

impiego al momento della sua adozione (Conferma della sentenza del T.a.r. Emilia-

Romagna - Bologna, sez. I, n. 270/2001).

Cass. civ. Sez. lavoro, 13 settembre 2011, n. 18705

Con riguardo alle dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento

per giusta causa, può aversi l'annullamento delle medesime per violenza morale solo

qualora venga accertata l'inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al

licenziamento, per insussistenza dell'inadempimento addebitato al dipendente, in

quanto, in questo caso, con la minaccia del licenziamento il datore di lavoro persegue

un effetto non raggiungibile con il legittimo esercizio del proprio diritto di recesso.

Cass. civ. Sez. lavoro, 1 settembre 2011, n. 17977

Ai fini della sussistenza della incapacità di intendere e di volere, costituente causa di

annullamento del negozio (nella specie, dimissioni), non occorre la totale privazione

delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, tale

comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire

meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine

all'atto che sta per compiere. La valutazione in ordine alla gravità della diminuzione

di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in cassazione se

adeguatamente motivata, dovendo l'eventuale vizio della motivazione emergere, in

ogni caso, direttamente dalla sentenza e non dal riesame degli atti di causa,

inammissibile in sede di legittimità. (Rigetta, App. Milano, 04/09/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 30 maggio 2011, n. 11900

Non sono annullabili le dimissioni presentate dalla lavoratrice laddove non risulti

provato che la stessa si trovasse, al momento della loro presentazione, in stato di

effettiva incapacità di intendere e di volere (nella specie, la corte ha ritenuto che

l'allegazione di certificati medici comprovanti disturbi depressivi non sia riscontrabile

mediante consulenza tecnica d'ufficio, potendo questa fornire la prova probabilistica

circa lo stato psichico della dimissionaria, senza tuttavia dimostrare l'esistenza di uno

stato di privazione delle facoltà intellettive e volitive tale da impedire, in quel

momento, il formarsi di una volontà cosciente).

* * *

V. L’attività sindacale

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2011, n. 16787

In tema di repressione della condotta antisindacale, ai fini della legittimazione a

promuovere l'azione prevista dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, per "associazioni

sindacali nazionali" devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura

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organizzativa articolata a livello nazionale e che svolgano attività sindacale su tutto o

su ampia parte del territorio nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei

contratti collettivi nazionali. (Cassa con rinvio, App. Milano, 10/12/2008).

Cass. civ. Sez. lavoro, 19 luglio 2011, n. 15782

In materia di servizi pubblici essenziali, costituisce comportamento antisindacale la

mancata comunicazione da parte del datore di lavoro (nella specie, l'Azienda

ospedaliera Santa Croce e Carle di Cuneo) alle organizzazioni sindacali dei

nominativi dei lavoratori che, in caso di sciopero, debbono garantire le prestazioni

indispensabili, dovendosi ritenere i sindacati titolari di un diritto autonomo e distinto

rispetto a quello attribuito ai singoli lavoratori a ricevere detta comunicazione, la

quale risponde ad un interesse sindacale (riconosciuto e tutelato dall'art. 3

dell'accordo sui servizi pubblici essenziali del 20 settembre 2001 per il comparto del

Sistema Sanitario Nazionale) a sapere come saranno assicurate le prestazioni

indispensabili e a conoscere i nominativi dei lavoratori tenuti a garantirle ed esonerati

dalla partecipazione allo sciopero, e che non può essere surrogata da un'eventuale

informazione fornita direttamente dai lavoratori. (Rigetta, App. Torino, 18/09/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 19 luglio 2011, n. 15782

La condotta antisindacale del datore di lavoro, in relazione ad uno sciopero indetto

dai lavoratori, è configurabile soltanto qualora l'affidamento al personale rimasto in

servizio delle mansioni svolte dai lavoratori in sciopero, al fine di limitare le

conseguenze dannose di questo, avvenga in violazione di una norma di legge o del

contratto collettivo, di guisa che il giudice del merito deve accertare, allorché la

sostituzione avvenga con lavoratori di qualifica superiore, se l'adibizione di costoro a

mansioni inferiori sia eccezionale, marginale e rispondente a specifiche ed obiettive

esigenze aziendali.

Cass. civ. Sez. lavoro, 19 aprile 2011, n. 8938

Ai fini della determinazione della competenza per territorio in tema di repressione di

condotta antisindacale ai sensi dell'art. 28 della legge n. 300 del 1970 è rilevante il

luogo di commissione del comportamento denunciato, ovvero il luogo in cui venga di

fatto impedito al lavoratore di svolgere la sua attività di rilevanza sindacale, non già il

luogo in cui tale comportamento è stato deliberato. (Principio affermato ai sensi

dell'art. 360 bis, primo comma, cod. proc. civ.) (Regola competenza)

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2011, n. 8075

Costituisce comportamento antisindacale la condotta di Trenitalia s.p.a., tenuta in

occasione di uno sciopero regionale proclamato da una organizzazione sindacale, e

consistita nel qualificare come prestazioni indispensabili tutti i treni non aventi

origine o destinazione in impianti situati nella regione interessata, in quanto non

conforme a quanto convenuto nell'accordo sindacale del 23 novembre 1999,

dichiarato idoneo dalla Commissione di garanzia, atteso che, in particolare, la relativa

disposizione del predetto accordo (par. 4.2.2.) qualifica come indispensabili solo i

treni dei pendolari nei giorni feriali, i treni di media e lunga percorrenza nella misura

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minima di tre coppie di treni al giorno sulle principali direttrici Nord-Sud ed Est-

Ovest fino alla destinazione e i treni che, con orario di partenza anteriore all'inizio

dello sciopero, giungano a destinazione entro la prima ora dello sciopero stesso,

restando salva la possibilità per la società di far circolare gli Eurostar e gli ulteriori

treni concordati a livello regionale della categoria Intercity nonché quelli non

garantiti con personale non scioperante. (Rigetta, App. Firenze, 26/05/2009)

Cass. civ. Sez. lavoro, 12 gennaio 2011, n. 548

Un sindacato ha legittimazione ad agire ex art. 28 St. lav. - legge 20 maggio 1970, n.

300 - a condizione che possa essere ritenuto "nazionale". La dimensione nazionale del

sindacato va valutata sul piano della sua "struttura, organizzazione ed azione" ed il

giudizio circa il possesso da parte dell'organismo sindacale agente di detto requisito si

basa sull'applicazione di un criterio che tiene conto non solo dell'articolazione

strutturale, ma anche dell'attività del sindacato stesso, nella misura in cui la diffusione

nazionale deve sussistere sia sul piano dell'organizzazione quanto sul quello dinamico

dell'attività.

* * *

W. Rapporto previdenziale

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 novembre 2011, n. 23186

L'onere della prova dei fatti costitutivi del diritto grava su colui che si afferma titolare

del diritto stesso, ossia sull'ente previdenziale opposto ancorché sia convenuto in

giudizio di accertamento negativo, e tuttavia, una volta dimostrata, da parte di

quest'ultimo, la sussistenza di tali fatti costitutivi, resta onere dell'opponente, che

eccepisca l'esonero dal versamento contributivo, di dimostrare che per taluni o tutti i

dipendenti in questione l'obbligo contributivo, in tutto od in parte, non sussiste.

Quanto ai contributi per il periodo di sospensione dei lavori l’art. 29 del d. l. n. 244

del 1995 espressamente prevede la possibilità e le modalità di un ampliamento dei

previsti casi d'esonero da contribuzione, che può essere effettuato esclusivamente

mediante decreti interministeriali, e la natura eccezionale della disposizione esclude

la possibilità di una sua interpretazione analogica. Pertanto qualora la sospensione del

rapporto lavorativo derivi da una libera scelta del datore di lavoro e costituisca il

risultato di un accordo tra le parti, il relativo obbligo contributivo permane. Perché

possa applicarsi la disposizione di cui all'art. 116, comma 18 della l. n. 388 del 2000 a

violazioni commesse antecedentemente alla sua entrata in vigore, è necessario che

alla data del 30 settembre 2000 sussista un credito dell'INPS che sia stato soddisfatto.

Cass. pen. Sez. III, 4 ottobre 2011, n. 35895

Il reato di omesso versamento contributi previdenziali - art. 2 della legge n. 638 del

1983 - è reato omissivo istantaneo che si consuma nel momento in cui scade il

termine per il versamento da parte del datore di lavoro.

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Cass. civ. Sez. III, 28 settembre 2011, n. 19790

L'accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze

retributive devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte

delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore. Ed infatti, quanto a queste ultime,

al datore di lavoro è consentito procedere alle ritenute previdenziali a carico del

lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo (ai sensi

dell'art. 19 della legge 4 aprile 1952, n. 218); per quanto concerne, invece, le ritenute

fiscali, esse non possono essere detratte dal debito per differenze retributive, giacché

la determinazione di esse attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma

a quello tributario tra contribuente ed erario, e dovranno essere pagate dal lavoratore

soltanto dopo che il lavoratore abbia effettivamente percepito il pagamento delle

differenze retributive dovutegli. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato

la decisione con la quale, in accoglimento dell'opposizione all'esecuzione proposta dal

datore di lavoro condannato al pagamento di differenze retributive, il giudice di

merito aveva escluso dal credito precettato l'importo delle ritenute fiscali e

previdenziali). c (Cassa e decide nel merito, Trib. Teramo, 29/10/2008).

Cass. civ. Sez. lavoro, 7 settembre 2011, n. 18308

In tema di sgravi contributivi e fiscalizzazione degli oneri sociali a favore delle

imprese operanti nel Mezzogiorno, di cui agli articoli 18 della legge n. 1089 del 1968,

22 della legge n. 33 del 1980 ed 1 della legge n. 20 del 1979, ove l'impresa (nella

specie, esercente l'attività di registrazione dati su supporti magnetici e di elaborazione

dei dati) sia stata inquadrata, alla stregua dei criteri desumibili dall'art. 2195, n.1, cod.

civ., sin dall'origine nel settore industriale, non assume rilievo - ai fini della spettanza

delle agevolazioni contributive e fiscali - che le aziende preposte al medesimo ambito

fossero state inquadrate, con il d.m. 4 luglio 1983 del Ministero del Lavoro, nel

settore commercio, né che, con successivo provvedimento di variazione, adottato

dall'INPS ai sensi dell'art. 3, comma 8, della legge n. 335 del 1995, l'intera categoria

di datori di lavoro sia stata ricondotta al settore industriale, assumendo rilievo

quest'ultima misura (con efficacia non retroattiva) solamente per le imprese che non

godevano di tale classificazione (Cassa e decide nel merito, App. Bari, 27/07/2009).

Cass. civ. Sez. lavoro, 20 luglio, n. 15938

In tema di classificazione delle imprese a fini previdenziali ed assistenziali, l'art. 49,

comma 3, della legge n. 88 del 1989, nello stabilire che restano validi gli

inquadramenti in atto al momento dell'entrata in vigore di detta normativa, ha

introdotto una disciplina transitoria, che consente all'INPS di adottare - in base alla

disciplina classificatoria di cui all'art. 49 medesimo - provvedimenti di modifica

dell'inquadramento già preesistente, ma non anche di variare i provvedimenti

classificatori che siano stati adottati secondo il nuovo regime, atteso che solo con l'art.

3 della legge n. 335 del 1995, avente valenza generale, è stata consentita la rettifica di

precedenti inquadramenti indipendentemente dai parametri adottati. Ne consegue che,

ove il provvedimento di classificazione (nella specie, nel settore terziario) sia stato

reso dall'Istituto nel regime di cui alla legge n. 88 del 1989, è illegittimo l'atto di

variazione (al settore industria), adottato ai sensi dell'art. 49, ultimo comma, legge n.

88 del 1989. (Nella specie, la S.C., nel cassare la sentenza impugnata, ha pure

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evidenziato che la correttezza dell'originario inquadramento aveva trovato conferma

anche in un successivo provvedimento dell'Istituto, adottato ai sensi dell'art. 2,

comma 215, della legge n. 662 del 1996). (Cassa e decide nel merito, App. Bologna,

30/03/2009).

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 luglio 2011, n. 15098

In tema di pubblico impiego, l'art. 53, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, in cui è

confluito l'art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993 come modificato dall'art. 26 del d.lgs. n. 80

del 1998, vieta ai dipendenti delle P.A. con rapporto di lavoro a tempo pieno

l'espletamento di incarichi retribuiti, anche occasionali, non compresi nei compiti e

nei doveri d'ufficio, per i quali sia corrisposto, sotto qualunque forma, un compenso,

salvo che lo svolgimento dell'incarico sia stato preventivamente autorizzato, ai sensi

dell'art. 1, comma 60, della legge n. 662 del 1996, dall'amministrazione di appartenza

per le specifiche attività consentite dalla legge. Ne consegue la legittimità del

licenziamento disciplinare irrogato ad un dipendente dell'Agenzia delle Entrate che

abbia svolto, in assenza di autorizzazione, attività di revisore contabile a favore di un

Consorzio di enti locali, senza che rilevi la circostanza che l'incarico sia stato

espletato anteriormente all'adozione della circolare del 11 luglio 2001 da parte

dell'amministrazione finanziaria con la quale era stata individuata l'incompatibilità tra

detta attività e lo "status" di dipendente. (Rigetta, App. Venezia, 04/09/2007)

Cass. civ. Sez. lavoro, 6 luglio 2011, n. 14864

In tema di contributi previdenziali, le sanzioni civili conseguenti all'omesso o

ritardato pagamento dell'obbligazione contributiva, pur se accessorie, hanno la

funzione di rafforzare l'obbligazione principale, con la quale non condividono la

natura giuridica. Ne consegue che esse, in assenza di specifica disposizione, non sono

assoggettate al regime prescrizionale dell'obbligazione contributiva cui si riferiscono.

(Nella specie la S.C. ha affermato che le sanzioni civili da omesso versamento di

contributi dovuti all'Inarcassa sono assoggettate al termine di prescrizione decennale

di cui all'art. 18 della legge n. 6 del 1981, ancorché tale disposizione debba

considerarsi abrogata a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 335 del 1995).

(Cassa con rinvio, App. Roma, 06/03/2009)

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 giugno 2011, n. 14307

È rilevante e non manifestamente infondata, per contrasto con l'art. 3 della

Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, primo comma,

ultimo inciso, del d.l. n. 112 del 2008, convertito nella legge n. 133 del 2008, di

interpretazione autentica dell'art. 6, secondo comma, della legge n. 138 del 1943 che,

nel sopprimere, in via di interpretazione autentica, l'obbligo in capo ai datori di lavoro

del versamento della contribuzione INPS per il trattamento economico di malattia

(primo inciso della norma), prevede l'irripetibilità delle contribuzioni anteriormente

versate che restano acquisite alla gestione, atteso che la disposizione,

irragionevolmente, pone i soggetti che hanno correttamente adempiuto al pregresso

obbligo previdenziale in una condizione deteriore rispetto a coloro che,

contravvenendo al dettato normativo, hanno omesso il medesimo versamento, che

restano premiati per la condotta inadempiente, dovendosi ritenere tale effetto "de

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iure" in quanto direttamente discendente dal portato della norma interpretativa, senza

che possano valere a giustificare la palese diseguaglianza introdotta le considerazioni

sul contenzioso derivante dall'eventuale declaratoria di illegittimità della norma, nè il

connesso onere finanziario che graverebbe sull'INPS.

Cass. pen. Sez. III, 14 giugno 2011, n. 29616

In tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali sulle

retribuzioni dei lavoratori dipendenti (art. 2 d.l. n. 463/83 conv. in l. n. 638/83), la

S.C. conferma l'orientamento, secondo il quale per il perfezionamento del reato, è

necessaria l'effettiva corresponsione della retribuzione ai dipendenti, essendo

l'esborso delle somme dovute ai lavoratori un presupposto indefettibile della

fattispecie criminosa, che deve essere provato dalla pubblica accusa con documenti,

testimoni ovvero gravi, precisi e concordanti indizi.

Cass. pen. Sez. III, 28 aprile 2011, n. 20845

Lo stato di dissesto dell'imprenditore - il quale prosegua ciononostante nell'attività

d'impresa senza adempiere all'obbligo previdenziale e neppure a quello retributivo -

non elimina il carattere di illiceità penale dell'omesso versamento dei contributi.

Cass. civ. Sez. V, 11 aprile 2011, n. 8208

In tema di IRPEF, i contributi corrisposti nel 1999 all'INPDAI, a titolo di

prosecuzione volontaria per il conseguimento della pensione, non rientrano tra gli

oneri deducibili dal reddito complessivo imponibile, all'epoca previsti all'art. 10,

comma primo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in quanto non versati in

ottemperanza ad un obbligo previsto dalla legge e sono, invece, detraibili dall'imposta

lorda nella misura percentuale del 27 per cento, entro l'importo di £ 2.500.000, in

applicazione dell'art. 13-bis, primo comma, lettera f), dello stesso d.P.R. n. 917 del

1986, inserito dal d.l. 31 maggio 1994, n. 330 (convertito in legge 27 luglio 1994, n.

473). (Cassa e decide nel merito, Comm. Trib. Reg. Venezia, 02/05/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 aprile 2011, n. 8068

In tema di classificazione delle imprese a fini previdenziali ed assistenziali, nel

quadro normativo anteriore all'entrata in vigore della legge 9 marzo 1989, n. 88, è la

natura della attività di impresa, ai sensi dell'art. 2195 cod. civ., a determinarne

l'inquadramento, non potendosi attribuire rilevanza agli "atti" di inquadramento

emanati dall'INPS, aventi carattere meramente ricognitivo. Con riguardo al periodo

successivo - soggetto alla disciplina della predetta legge n. 88 del 1989 ed a quella di

cui alla legge 8 agosto 1995, n. 335 - l'atto di variazione dell'Istituto acquista rilievo

costitutivo, con efficacia solo dalla notificazione del provvedimento di nuova

classificazione dell'impresa, ma siffatta irretroattività non opera allorché l'iniziale

inquadramento sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro.

(Rigetta, App. Cagliari, 27/10/2006)

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Cass. civ. Sez. lavoro, 1 aprile 2011, n. 7590

In tema di contribuzione dovuta dai datori di lavoro esercenti attività edile, è

manifestamente infondata la questione di legittimità in relazione agli articoli 3 e 53

Cost. dell'art. 29 della legge n. 341 del 1995 - che disciplina la misura dell'obbligo

contributivo ed assistenziale in riferimento a quanto stabilito dalla contrattazione

collettiva, escludendo le sole assenze per le quali il rapporto di lavoro è sospeso "ex

lege" e non anche quelle per le quali la sospensione è concordata tra le parti - in

quanto costituisce norma di carattere generale nell'ambito dell'ordinamento

pensionistico ed infortunistico che il principio di corrispondenza tra retribuzione e

contribuzione include l'esistenza di un limite inferiore, onde la relativa previsione non

crea alcun "vulnus" al principio di capacità contributiva, né irragionevoli disparità di

trattamento tra datori di lavoro. (Rigetta, App. Napoli, 07/04/2010)

Cass. civ. Sez. lavoro, 20 gennaio 2011, n. 1230

In tema di obbligazioni contributive nei confronti delle gestioni previdenziali, nel

vigore della legge 23 dicembre 2000, n. 388, la mera mancata presentazione del

modello DM/10 (recante la dettagliata indicazione dei contributi previdenziali da

versare) configura la fattispecie della omissione - e non già della evasione -

contributiva, ricadente nella previsione della lettera a) dell'art. 116, comma 8, della

medesima legge, qualora il credito dell'istituto previdenziale sia comunque evincibile

dalla documentazione di provenienza del soggetto obbligato (nella specie libri

contabili e denunce riepilogative annuali), dovendo in tal caso escludersi

l'occultamento del rapporto di lavoro e delle retribuzioni erogate. (Rigetta, App.

L'Aquila, 17/04/2007).

* * *

X. Rinunce e Transazioni

Cass. civ. Sez. lavoro, 6 giugno 2011, n. 12211

In tema di transazione stipulata dal datore di lavoro e dal lavoratore occorre indagare

se le parti, mediante l'accordo, abbiano perseguito la finalità di porre fine all’incertus

litis eventus" - anche solo per una parte del contenzioso - senza che, tuttavia, sia

necessaria l'esteriorizzazione delle contrapposte pretese, né che siano state usate

espressioni direttamente rivelatrici del negozio transattivo, la cui esistenza può essere

desunta anche dalla corresponsione di denaro da parte del debitore, accettata dal

creditore dichiarando di essere stato pienamente soddisfatto e di non avere null'altro a

pretendere, se possa ritenersi che essa esprima la volontà di porre fine ad ogni

ulteriore contesa, ferma restando l'inammissibilità della prova testimoniale diretta a

provare un diverso contenuto del rapporto transattivo. Quanto poi ai requisiti

dell’aliquid datum e dell’aliquid retentum, essi non sono da rapportare agli effettivi

diritti delle parti, bensì alle rispettive pretese e contestazioni, e pertanto non è

necessaria l'esistenza di un equilibrio economico tra le reciproche concessioni. (Nella

specie, relativa ad un accordo transattivo con cui era stato riconosciuto un incentivo

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per le dimissioni rassegnate dal lavoratore, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto

la correttezza della decisione del giudice di merito, che aveva valutato le prove orali

assunte solo nella misura in cui erano dirette a convalidare e chiarire il contenuto del

negozio transattivo, ritenuto funzionale a reintegrare il lavoratore dei mancati redditi

provenienti dalla sua attività all'interno della società a causa della cessazione

anticipata del rapporto). (Rigetta, App. Torino, 09/01/2007).

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 maggio 2011, n. 11767

Non è ravvisabile una volontà negoziale nella dichiarazione, sottoscritta dal

lavoratore, ma predisposta dal datore di lavoro in occasione della corresponsione del

trattamento di fine rapporto, di rinuncia a diritti, quando essa sia accompagnata

dall'espressione "con riserva", in quanto l'indeterminatezza del contenuto rende nulla

la complessiva dichiarazione, ai sensi degli artt. 1346 e 1418, secondo comma, cod.

civ. (Cassa con rinvio, App. Taranto, 31/03/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 10 febbraio 2011, n. 3237

Il verbale di conciliazione non può ritenersi qualificabile agli effetti di cui all’art. 411

c.p.c. nelle ipotesi in cui non risulti sottoscritto in sede sindacale, né dal

rappresentante sindacale alla presenza ed in contestualità del lavoratore. In ipotesi

siffatte, invero, non può attribuirsi al menzionato documento quella funzione di

supporto che la legge riconosce al sindacato nella fattispecie conciliativa.

Cass. civ. Sez. lavoro, 31 gennaio 2011, n. 2146

Ai fini della qualificazione di una dichiarazione liberatoria sottoscritta dalla parte

come quietanza o piuttosto come transazione, occorre considerare che la quietanza

liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa costituisce, di regola, una semplice

manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere soddisfatto di

tutti i suoi diritti, e pertanto concreta una dichiarazione di scienza priva di alcuna

efficacia negoziale, laddove nella dichiarazione liberatoria sono ravvisabili gli estremi

di un negozio di rinunzia o transazione in senso stretto soltanto quando , per il

concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa

dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l'abbia resa con la chiara e

piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti. (Nella specie, la S.C.,

nel rigettare il ricorso, ha ritenuto esente da vizi di motivazione la sentenza che aveva

qualificato come transazione la rinuncia, contenuta in un verbale di conciliazione, a

"diritti rivendicati e contestati, come individuati in sede aziendale" a cui

corrispondeva il versamento di una ulteriore specifica somma rispetto a quelle dovute

per la cessazione del rapporto, tanto più che il verbale di conciliazione, redatto con

l'assistenza sindacale, era stato accettato "in totale novazione del cessato rapporto di

lavoro"). (Rigetta, Trib. Napoli, 10/05/2006)

* * *

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Z. Aspetti processuali

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 novembre 2011, n. 23186

Nel rito del lavoro l’onere della prova dei fatti costitutivi del diritto grava su colui che

si afferma titolare del diritto stesso, ossia sull'ente previdenziale opposto ancorché sia

convenuto in giudizio di accertamento negativo, e tuttavia, una volta dimostrata, da

parte di quest'ultimo, la sussistenza di tali fatti costitutivi, resta onere dell'opponente,

che eccepisca l'esonero dal versamento contributivo, di dimostrare che per taluni o

tutti i dipendenti in questione l'obbligo contributivo, in tutto od in parte, non sussiste.

Quanto ai contributi per il periodo di sospensione dei lavori .l’art. 29 del d. l. n. 244

del 1995 espressamente prevede la possibilità e le modalità di un ampliamento dei

previsti casi d'esonero da contribuzione, che può essere effettuato esclusivamente

mediante decreti interministeriali, e la natura eccezionale della disposizione esclude

la possibilità di una sua interpretazione analogica. Pertanto qualora la sospensione del

rapporto lavorativo derivi da una libera scelta del datore di lavoro e costituisca il

risultato di un accordo tra le parti, il relativo obbligo contributivo permane. -Perché

possa applicarsi la disposizione di cui all'art. 116, comma 18 della l.. n. 388 del 2000

a violazioni commesse antecedentemente alla sua entrata in vigore, è necessario che

alla data del 30 settembre 2000 sussista un credito dell'INPS che sia stato soddisfatto.

Cass. civ. Sez. lavoro, 25 ottobre 2011, n. 22122

Non è possibile procedere ad un ricorso per violazione o falsa applicazione dei

contratti collettivi, se non è stato allegato in veste integrale l’accordo collettivo e non

solo la parte oggetto del contraddittorio, ciò al fine di garantirsi la

possibilità di visualizzare tutte le clausole, comprese quelle non oggetto di

esame delle parti, ma che comunque possono essere utili all’interpretazione.

Cass. civ. Sez. lavoro, 7 ottobre 2011, n. 20663

In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del

lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che

asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di

inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel

ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio

medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di

una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale

va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento.

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 settembre 2011, n. 19710

Le valutazioni del datore di lavoro in ordine al rendimento ed alla capacità

professionale del lavoratore, espresse con le note di qualifica, sono sindacabili dal

giudice in riferimento ai parametri oggettivi previsti dal contratto collettivo ed agli

obblighi contrattuali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., e

quindi, sul datore di lavoro grava l'onere di motivare queste note, allo scopo di

permettere il controllo da parte del giudice dell'osservanza di siffatti parametri.

Peraltro detto controllo non è limitato alla mera verifica della coerenza estrinseca del

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giudizio riassuntivo della valutazione, ma ha ad oggetto la verifica della correttezza

del procedimento di formazione del medesimo, che richiede di prendere in esame i

dati sia positivi sia negativi rilevanti al fine della valutazione, non potendo invece

tenersi conto di quelli estranei alla prestazione lavorativa.

Cass. civ. Sez. lavoro, 29 luglio 2011, n. 16781

Nel rito del lavoro, l'omessa indicazione dei documenti probatori nell'atto di

costituzione in giudizio, imposta dall'art. 416, terzo comma, cod. proc. civ., e

l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto determinano la decadenza

dal diritto di produrli, salvo che i documenti si siano formati successivamente ovvero

la loro produzione sia giustificata dallo sviluppo del processo (art. 420, quinto

comma, cod. proc. civ.). Ne consegue che, ove i documenti siano stati prodotti in

udienza, il giudice potrà dichiarare la decadenza della parte ovvero, in alternativa,

disporre l'ammissione d'ufficio dei documenti medesimi ai sensi dell'art. 421, secondo

comma, cod. proc. civ., dovendosi ritenere, in tale ultima ipotesi, che il silenzio della

controparte - a cui spetta la facoltà, entro il termine perentorio assegnato dal giudice,

di dedurre proprie istanze istruttorie - comporti l'accettazione del provvedimento

giudiziale di ammissione e dovendosi escludere che l'ordine di esibizione, a norma

dell'art. 210 cod. proc. civ., possa supplire al mancato assolvimento dell'onere della

prova a carico della parte istante. (Cassa con rinvio, Trib. Vasto, 12/06/2009)

Cass. civ. Sez. lavoro, 27 luglio 2011, n. 16470

In tema di licenziamento collettivo, qualora il lavoratore che lo impugni limiti nel

ricorso introduttivo la deduzione della violazione dei criteri di scelta con riferimento

precipuo ad un determinato dipendente rispetto al quale, invocando la relativa

comparazione, fondi il diritto azionato, il successivo e tardivo riferimento alla

comparazione con altri e diversi dipendenti, in relazione ai quali prospetti il

fondamento del diritto azionato, si traduce in un tardivo e, come tale, inammissibile

ampliamento del tema d'indagine e quindi dell'oggetto del giudizio. (Rigetta, App.

Taranto, 16/07/2009).

Cass. civile Sez. III, 25 luglio 2011, n. 16199

La legge n. 533 del 1973 non ha fatto venir meno l'ammissibilità del procedimento

d'ingiunzione per i crediti di lavoro e previdenziali, ma si è limitata a prevedere

l'applicabilità del rito del lavoro nel giudizio di opposizione. Ne consegue che mentre

nella prima fase, a cognizione sommaria, la prova scritta è costituita da qualsiasi

documento proveniente dal debitore o un terzo idoneo ad evidenziare l'esistenza del

diritto fatto valere, nel successivo eventuale giudizio di cognizione la memoria

difensiva dell'opposto, attesa la sua posizione sostanziale di attore, deve osservare la

forma della domanda di cui all'art. 414 cod. proc. civ. e deve recare "l'esposizione dei

fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda". Resta pertanto

irrilevante la circostanza che i conteggi, operati dal ricorrente per la determinazione

della somma richiesta e depositati nella fase monitoria, non siano stati notificati alla

controparte, atteso che nel procedimento per ingiunzione il contraddittorio è

posticipato ed eventuale e, una volta introdotto con l'opposizione al decreto

ingiuntivo il giudizio di cognizione, l'opposto ha, in tale ambito, l'onere di fornire la

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prova del proprio credito indipendentemente dalla legittimità, validità ed efficacia del

decreto. (Rigetta, App. Campobasso, 17/03/2010).

Cass. civ. Sez. lavoro, 19 luglio 2011, n. 15774

Nel rito del lavoro, la valutazione della sufficienza dell'esposizione degli elementi di

fatto e della ragioni di diritto su cui la domanda si fonda, ex art. 414 c.p.c., implica

una interpretazione dell'atto introduttivo, e così della domanda e della sua ampiezza,

oltre che del suo contenuto, che costituisce, anche nel giudizio di appello, ai fini della

individuazione del devolutum, un tipico apprezzamento di fatto riservato al giudice

del merito e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo

dell'esistenza, sufficienza e logicità della motivazione.

Cass. civile Sez. III, 30 giugno 2011, n. 14406

Ove una controversia sia stata erroneamente trattata in primo grado con il rito

ordinario, anziché con quello speciale del lavoro, le forme del rito ordinario debbono

essere seguite anche per la proposizione dell'appello, che, dunque, va proposto con

citazione ad udienza fissa. Se, invece, la controversia sia stata trattata con il rito del

lavoro anziché con quello ordinario, la proposizione dell'appello segue le forme della

cognizione speciale. Ciò, in ossequio al principio della ultrattività del rito, che - quale

specificazione del più generale principio per cui l'individuazione del mezzo di

impugnazione esperibile deve avvenire in base al principio dell'apparenza, cioè con

riguardo esclusivo alla qualificazione, anche implicita, dell'azione e del

provvedimento compiuta dal giudice - trova specifico fondamento nel fatto che il

mutamento del rito con cui il processo è erroneamente iniziato compete

esclusivamente al giudice.

Cass. civile Sez. lavoro, 17 giugno 2011, n. 13367

In tema di esenzione dal pagamento di spese, competenze e onorari nei giudizi per

prestazioni previdenziali ed in base all'art. 152 disp. att. cod. proc. civ. (nel testo

risultante dopo la modifica apportata dal d.l. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42,

comma 11, convertito nella L. 24 novembre 2003, n. 326) - secondo il quale

"L'interessato che, con riferimento all'anno precedente a quello di instaurazione del

giudizio, si trova nelle condizioni indicate nel presente articolo formula apposita

dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell'atto introduttivo e si

impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti

dei limiti di reddito verificatesi nell'anno precedente" - l'onere autocertificativo

imposto alla parte ricorrente deve essere assolto con il ricorso introduttivo del

giudizio di primo grado, e l'adempimento di tale onere esplica efficacia anche nelle

fasi successive, valendo, fino all'esito definitivo del processo, l'impegno di

comunicare le variazioni reddituali eventualmente rilevanti. (Cassa e decide nel

merito, App. Roma, 26/01/2009)

Cass. civile Sez. lavoro, 20 aprile 2011, n. 9043

Per superare la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese in ambito

familiare (che trova la sua fonte nella circostanza che tali prestazioni vengono

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normalmente rese "affectionis vel benevolentiae causae") è necessario che la parte

che faccia valere in giudizio diritti derivanti da tali rapporti offra una prova rigorosa

degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato e, in particolar modo, dei

requisiti indefettibili della subordinazione e della onerosità. In particolare, con

riferimento all'attività lavorativa prestata in agricoltura in favore di parenti o affini

(nel quadro di colture tradizionali e di piccole proprietà) la mera prestazione di

attività lavorativa non è sufficiente a far configurare un rapporto di lavoro

subordinato, essendo invece necessaria una specifica prova della subordinazione e

della onerosità delle prestazioni, che può essere fornita anche al di fuori degli

elementi sintomatici più tipici della subordinazione, purché risulti un nesso di

corrispettività tra la prestazione lavorative e quella retribuiva, entrambe caratterizzate

dall'obbligatorietà, e la prestazione lavorativa sia soggetta a direttive e controlli, pur

se in un eventuale quadro caratterizzato da maggiore elasticità di orari.

Cass. civile Sez. lavoro, 5 aprile 2011, n. 7744

Nelle controversie in materia di lavoro, in virtù dell'effetto sostitutivo della pronuncia

della sentenza d'appello e del principio secondo cui le nullità della sentenza soggetta

ad appello si convertono in motivi di impugnazione, ove il giudice del gravame rilevi

un vizio nella sentenza impugnata (nella specie, uno scostamento tra dispositivo e

motivazione, con inserimento del nominativo di uno dei ricorrenti, rimasto

pretermesso, e precisazione del limite temporale della quantificazione delle somme)

non può rimettere la causa al primo giudice ma deve trattenerla per l'ulteriore

decisione nel merito. Ne consegue che è inammissibile il ricorso per cassazione per

carenza d'interesse qualora detto giudice, pur non avendo dichiarato la nullità della

sentenza di primo grado prospettata in sede di gravame, abbia pronunciato nel merito.

(Nella specie, la Corte d'appello, pur ritenendo che il dedotto vizio non incidesse sul

contenuto sostanziale della decisione e, quindi, non determinasse la nullità della

sentenza, ha ugualmente proceduto all'esame delle richieste dei ricorrenti, proposte in

via incidentale condizionata, confermando nel merito la statuizione del primo giudice;

la S.C., in applicazione dell'anzidetto principio, ha ritenuto inammissibile il ricorso

avverso i dedotti vizi della sentenza di primo grado). (Dichiara inammissibile, App.

Napoli, 12/02/2007)

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 marzo 2011, n. 7042

I poteri istruttori non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere

privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al

processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche ovvero

ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o,

infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia,

ammettendo d'ufficio una prova diretta a sminuirne l'efficacia e la portata.

Del resto, i detti poteri - pur diretti alla ricerca della verità, in considerazione della

particolare natura dei diritti controversi - non possono sopperire alle carenze

probatorie delle parti, né tradursi in poteri d'indagine e di acquisizione del tipo di

quelli propri del procedimento penale.

Nel rito del lavoro, infatti, i mezzi istruttori, preclusi alle parti, possono essere

ammessi d'ufficio, ma suppongono, tuttavia, la preesistenza di altri mezzi istruttori,

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ritualmente acquisiti, che siano meritevoli dell'integrazione affidata alle prove

ufficiose.

Cass. civ. Sez. lavoro, 22 marzo 2011, n. 6498

Nel rito del lavoro, in deroga al generale divieto di nuove prove in appello, è possibile

l'ammissione di nuovi documenti, su richiesta di parte o anche d'ufficio, solo nel caso

in cui essi abbiano una speciale efficacia dimostrativa e siano ritenuti dal giudice

indispensabili ai fini della decisione della causa. (Nella specie, la S.C. ha confermato

la decisione del giudice di appello di consentire l'utilizzazione delle riprese video

dell'ambiente in cui, secondo la motivazione del licenziamento, era avvenuta

l'apprensione indebita di un plico contenente valori da parte del lavoratore, visto che

tali riprese apparivano potenzialmente idonee a evidenziare la commissione

dell'illecito contestato). (Rigetta, App. Bologna, 08/06/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 11 marzo 2011, n. 5878

Nel processo del lavoro, l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio in grado d'appello

presuppone la ricorrenza di alcune circostanze: l'insussistenza di colpevole inerzia

della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri

procedurali, l'opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente

delineato dalle parti, l'indispensabilità dell'iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli

effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza

probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali

lacune delle risultanze di causa. Non ricorrono, pertanto, i suddetti presupposti,

allorché la parte sia incorsa in decadenze per la tardiva costituzione in giudizio in

primo grado e non sussista, quindi, alcun elemento, già acquisito al processo, tale da

poter offrire lo spunto per integrare il quadro probatorio già tempestivamente

delineato. (Rigetta, App. Napoli, 03/02/2007).

Cassazione civile , sez. lavoro, Ord. 15 febbraio 2011, n. 3749

Nel rito del lavoro, in base al combinato disposto dell'art. 416 cod. proc. civ., comma

3, che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova

dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve

contestualmente depositare - onere probatorio gravante anche sull'attore per il

principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del

1977 - e art. 437 cod. proc. civ., comma 2, che, a sua volta, pone il divieto di

ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova - fra i quali devono

annoverarsi anche i documenti, l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del

giudizio di primo grado, dei documenti, e l'omesso deposito degli stessi

contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei

documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro

formazione o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed

alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento

o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di

produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali,

rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello.

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Cass. civ. Sez. lavoro, 11 febbraio 2011, n. 3376

Ai sensi dell'art. 652 (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654

(nell'ambito di altri giudizi civili) cod. proc. pen., il giudicato di assoluzione ha

effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico

accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato e

non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento

dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o

l'attribuibilità di esso all'imputato e cioè quando l'assoluzione sia stata pronunziata a

norma dell'art. 530, comma secondo, cod. proc. pen. (Nella specie, in relazione ad un

infortunio sul lavoro cagionato da una macchina raddrizzatrice di filo di ferro

sprovvista di idoneo dispositivo di blocco e di schermo di protezione, la corte

territoriale aveva ritenuto che la sentenza penale, in parte assolutoria ex art. 530,

comma 2, cod. proc. pen, e in parte - quanto alle violazioni antinfortunistiche -

dichiarativa della prescrizione, non avesse alcuna efficacia preclusiva, per cui, dopo

aver proceduto ad un autonomo accertamento dei fatti, ha affermato la responsabilità

del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ.; la S.C., in applicazione del principio di cui

alla massima, ha rigettato il ricorso). (Rigetta, App. Venezia, 24/10/2006)

Cass. civ. Sez. lavoro, 10 febbraio 2011, n. 3237

Il verbale di conciliazione non può ritenersi qualificabile agli effetti di cui all'art. 411

c.p.c. nelle ipotesi in cui non risulti sottoscritto in sede sindacale, né dal

rappresentante sindacale alla presenza ed in contestualità del lavoratore. In ipotesi

siffatte, invero, non può attribuirsi al menzionato documento quella funzione di

supporto che la legge riconosce al sindacato nella fattispecie conciliativa.

Cass. civ. Sez. lavoro, 8 febbraio 2011, n. 3051

Non è configurabile nell'ordinamento vigente un generale divieto di testimonianza,

dovendosi verificare di volta in volta la natura del diritto oggetto della controversia,

avuto anche riguardo al carattere di norme di stretta interpretazione delle disposizioni

sulla incapacità a testimoniare.

Cass. civ. Sez. lavoro, 20 gennaio 2011, n. 1237

Si ha mutamento della "causa petendi" della domanda originaria non solo allorché

esso involga una trasformazione obiettiva della domanda stessa, ma anche quando

determini solo un ampliamento del tema di indagine; integra tale ipotesi la condotta

del lavoratore-ricorrente che, in corso di causa, dopo aver dedotto una generica

violazione della normativa dettata in tema di sicurezza dei lavoratori e della

circolazione aeroportuale interna a sostegno del rifiuto opposto a prestare la propria

attività durante le operazioni di rifornimento, lamenti successivamente ulteriori

specifiche circostanze, costituite dalla peculiarità delle mansioni svolte che lo

avrebbero esonerato dall'adempimento.

Cassazione civile , sez. I, Ord. 20 gennaio 2011, n. 1291

In tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del

processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, l'inclusione delle cause di lavoro e di

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quelle previdenziali nel novero di quelle per le quali la Corte EDU ha ritenuto che la

liquidazione dell'indennizzo per il danno non patrimoniale possa giungere fino a

2000,00 Euro per anno, in ragione della particolare importanza della controversia,

non significa che dette cause debbano necessariamente considerarsi particolarmente

importanti, con la conseguente automatica liquidazione del predetto maggior

indennizzo, potendo il giudice del merito tener conto della particolare incidenza del

ritardo sulla situazione delle parti, che la natura giuslavoristica della controversia

comporta, nell'ambito della valutazione concernente la liquidazione del danno, senza

che ciò comporti uno specifico obbligo di motivazione al riguardo, nel senso che il

mancato riconoscimento del maggior indennizzo si traduce nell'implicita esclusione

della particolare rilevanza della controversia.

Cass. civ. Sez. lavoro, 3 gennaio 2011, n. 65

L'applicazione retroattiva dell'art. 32, comma 5, della L. n. 183/2010 trova limite nel

giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria conseguente all'impugnazione del

termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro, in quanto l'impugnazione del

solo capo relativo alla declaratoria di nullità del termine non impedisce la formazione

del giudicato sul capo di domanda relativo al risarcimento del danno. D'altra parte,

nei procedimenti dinanzi la Cassazione, tale applicazione è possibile solo se la nuova

disciplina sia pertinente alle questioni oggetto di censura nel ricorso e vi sia stata la

formulazione di uno specifico quesito di diritto relativo alle conseguenze patrimoniali

dell'accertata nullità del termine.

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GIURISPRUDENZA SUL “COLLEGATO LAVORO”

Corte cost., 11 novembre 2011, n. 303

Sono non fondate, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost. ed all'art. 6

Cedu, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32, commi 5, 6 e 7 della legge

4 novembre 2010, n. 183 ("Collegato lavoro"), nella parte in cui prevede in caso di

illegittimità di contratto di lavoro, al posto del risarcimento dei danni a termine, un

indennizzo forfetario, purché copra solo il periodo fino alla sentenza, in quanto da

una parte si tratta di indennizzo e d'altra parte non sussiste l'obbligo di risarcire

l'intero danno subito dal lavoratore, né si viola l'art. 6 Cedu.

Corte cost., 11 novembre 2011, n. 303

Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale delle norme di cui all'art.

32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183 - "Collegato lavoro" -

(sollevate in riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117, primo comma,

della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6, primo comma, della

Convenzione europea dei diritti dell'uomo) nella parte in cui prevedono che, nei casi

di conversione del contratto a tempo determinato, il risarcimento del lavoratore

illegittimamente estromesso alla scadenza del termine debba essere ragguagliato ad

una indennità onnicomprensiva da liquidare tra un minimo di 2,5 ed un massimo di

12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, alla stregua dei criteri dettati

dall'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (art. 32, comma 5); che il limite massimo

dell'indennità sia ridotto alla metà in presenza di contratti collettivi di qualsiasi

livello, purché stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più

rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l'assunzione, anche a tempo

indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di

specifiche graduatorie (art. 32, comma 6); che tali disposizioni trovino applicazione

per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della

predetta legge (art. 32, comma 7). Infatti la censurata normativa: 1) assicura la

stabilizzazione del rapporto, 2) forfetizza il danno - con valenza sanzionatoria - solo

per il periodo compreso tra la scadenza del termine e l'accertamento giudiziale della

sua nullità, 3) favorisce l'intervento della contrattazione collettiva nella regolazione

dell'assorbimento del personale precario, 4) non lede né le attribuzioni del potere

giudiziario, intervenendo elusivamente sul piano delle fonti, né, 5) le garanzie

imposte dalla Cedu per evitare un'intromissione del potere legislativo

nell'amministrazione della giustizia, volta ad influire sulla decisione di una singola

controversia o su un gruppo di esse, sia per il carattere generale della disciplina e sia

in quanto ricorrono i "motivi di interesse generale" che legittimano il margine di

apprezzamento dello stato membro.

Corte cost., 11 novembre 2011, n. 303

L'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 32, comma 5, legge n.

183/2010 è quella per cui la indennità forfettaria sostituisce il risarcimento del danno

secondo il diritto comune e non si aggiunge a detto risarcimento nonchè quella per cui

la previsione di detta indennità non preclude il diritto alla conversione del rapporto a

tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato.

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Cass. civ. Sez. lavoro, 21 marzo 2012, n. 4476

Costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius

superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del

rapporto controverso, il fatto che quest'ultima sia in qualche modo pertinente rispetto

alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di

legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso. Pertanto, con

riferimento all’art. 32 del Collegato lavoro, non essendo stata avanzata alcuna

specifica censura, che riguardi in qualche modo le conseguenze economiche della

declaratoria della natura subordinata del rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra

le parti ed in particolare il capo relativo al risarcimento del danno, tale norma non può

ritenersi applicabile nel giudizio de quo.

Cass. civ. Sez. lavoro, 31 gennaio 2012, n. 1411

L'indennizzo (da 2,5 a 12 mensilità), stabilito dall'art. 32, comma 5 della legge n.

183/2010 per la conversione del rapporto a termine in contratto a tempo

indeterminato, copre tutto il periodo compreso tra la fine del lavoro e la sentenza di

conversione. La natura di tale indennità è puramente risarcitoria, con conseguente

inapplicabilità del principio dell'"aliunde perceptum".

Cass. civ. Sez. lavoro, 31 gennaio 2012, n. 1409

In tema di risarcimento del danno nei casi di conversione del rapporto a termine, la

sopravvenuta disciplina dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010

(cosiddetto Collegato Lavoro), come interpretata dalla Corte costituzionale con la

sentenza n. 303 del 2011, si applica nel giudizio pendente in grado di legittimità,

qualora tale "ius superveniens" sia pertinente alle questioni dedotte nel ricorso per

cassazione. (In applicazione del principio, la S.C., nel ritenere ammissibile il quesito

ex art. 366 bis cod. proc. civ., applicabile “ratione temporis”, ha cassato la decisione

impugnata in ordine alla misura del risarcimento, e, negata ogni rilevanza

all'eccezione di "aliunde perceptum", non detraibile nella sopravvenuta disciplina, ha

rinviato al giudice territoriale per la determinazione dell'indennità in base alla

disciplina medesima).

Cass. civ. Sez. lavoro, 26 luglio 2011, n. 16266

Nel giudizio di legittimità, lo "ius superveniens", che introduca una nuova disciplina

del rapporto controverso, può trovare applicazione alla condizione, necessaria, che la

normativa sopraggiunta sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto

che i principi generali dell'ordinamento in materia di processo per cassazione - e

soprattutto quello che impone che la funzione di legittimità sia esercitata attraverso

l'individuazione delle censure espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse -

richiedono che il motivo del ricorso, con cui è investito, anche indirettamente, il tema

coinvolto nella disciplina sopravvenuta, oltre che sussistente sia ammissibile secondo

la disciplina sua propria. Ne consegue che - ove sia invocata l'applicazione dell'art.

32, commi 5, 6 e 7, legge n.183 del 2010 con riguardo alle conseguenze economiche

della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine al contratto di

lavoro - è necessario che i motivi del ricorso investano specificamente le conseguenze

patrimoniali dell'accertata nullità del termine, che non siano tardivi, generici o affetti

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da altra causa di inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto di

cui all'art. 366 bis cod. proc. civ. (nella specie, applicabile "ratione temporis"),

determinandosi, in caso contrario, la stabilità ed irrevocabilità delle statuizioni di

merito contestate. (Rigetta, App. Firenze, 30/08/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 28 gennaio 2011, n. 2112

L'art. 32 della legge n. 183 del 2010 (collegato lavoro) reca, per i casi di apposizione

illegittima di termine al contratto di lavoro, la previsione del pagamento di

un'indennità che esclude la condanna del datore di lavoro al pagamento delle

retribuzioni dalla data di scadenza del termine illegittimamente apposto; così intesa

tuttavia la previsione non tutela adeguatamente il diritto al lavoro (contrasto con artt.

3 e 4 Cost.), non reca strumenti che evitino che il datore prolunghi il giudizio e possa

sottrarsi all'esecuzione della sentenza (art. 111 Cost.) e contrasta con l'art. 6, C.e.d.u.,

realizzando un'indebita interferenza del legislatore nei processi in corso (art. 117

Cost.).

Cass. civ. Sez. lavoro, 4 gennaio 2011, n. 80

Il quesito di diritto, richiesto dall'art. 366 bis cod. proc. civ. (applicabile "ratione

temporis") e formulato con il ricorso, deve essere conferente rispetto alla fattispecie

dedotta in giudizio e rilevante per la decisione della controversia anche nell'ipotesi in

cui la parte alleghi, con memoria ex art. 378 cod. proc. civ., l'applicabilità dello "ius

superveniens" ai fini della decisione del ricorso, dovendosi ritenere, in mancanza,

l'inammissibilità del motivo. (Nella specie, con riguardo ad un controversia relativa

alla nullità del termine apposto ad un contratto di lavoro, la parte, con la memoria ex

art. 378 cod. proc. civ., aveva dedotto l'applicabilità della norma sopravvenuta di cui

all'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010, con la quale il legislatore

aveva disciplinato, con efficacia estesa ai procedimenti pendenti, la determinazione

del risarcimento conseguente alla conversione del contratto a tempo determinato,

mentre il quesito di diritto formulato con il ricorso non si riferiva all'"aliunde

perceptum", era generico sulla "mora credendi" e non era pertinente rispetto alla

fattispecie, risolvendosi nell'enunciazione in astratto delle regole vigenti nella

materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto

accertamento operato dai giudici di merito). (Rigetta, App. Roma, 06/09/2006).

Cass. civ. Sez. lavoro, 3 gennaio 2011, n. 65

L'applicazione retroattiva dell'art. 32, comma 5, della L. n. 183/2010 trova limite nel

giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria conseguente all'impugnazione del

termine illegittimamente apposto al contratto di lavoro, in quanto l'impugnazione del

solo capo relativo alla declaratoria di nullità del termine non impedisce la formazione

del giudicato sul capo di domanda relativo al risarcimento del danno. D'altra parte,

nei procedimenti dinanzi la Cassazione, tale applicazione è possibile solo se la nuova

disciplina sia pertinente alle questioni oggetto di censura nel ricorso e vi sia stata la

formulazione di uno specifico quesito di diritto relativo alle conseguenze patrimoniali

dell'accertata nullità del termine.

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Cass. civ. Sez. lavoro, 3 gennaio 2011, n. 65

Le previsioni dell'art. 32, commi 5, 6, 7 della legge 4 novembre 2010, n. 183 -

secondo cui in caso di conversione del contratto a termine condanna il datore di

lavoro al pagamento di una indennità omnicomprensiva compresa tra le 2,5 e le 12

mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con riferimento a tutti i giudizi

compresi pendenti alla data di entrata in vigore della legge stessa - non si applica

quando sulla statuizione relativa alla condanna risarcitoria si sia formato il giudicato

interno ai sensi dell'art. 324 c.p.c..

Corte di Appello di Ancona, sentenza del 19 gennaio 2012. Non è applicabile il comma 6° dell’art. 32, L. 183/10 stante l’assenza di prova in

ordine “all’operatività - in termini di attualità, in epoca successiva all’entrata in

vigore della L. 183/2010” di contratti collettivi che prevedano l’assunzione di

lavoratori già occupati con altro contratto a termine nell’ambito di specifiche

graduatorie.

Corte di Appello di Roma, sentenza 2 febbraio 2012. Il Giudice, dichiarando l’illegittimità del termine apposto ad un contratto di lavoro,

condanna la convenuta al pagamento di un indennizzo ex art. 32, co. 5, L. 183/2010 e

al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dalla data del

deposito del ricorso di primo grado (contra, v. Cass. 31.01.2012 n.1411 per la quale

l’indennizzo forfetario copre sino al momento del deposito della sentenza). Ciò in

diretto contrasto con l’interpretazione del nuovo regime indennitario offerta dalla

Corte Cost. (sent. 303/2011) che ha ritenuto l’indennizzo ex art. 32 “sostitutivo”

(rectius omnicomprensivo) del risarcimento per il periodo intercorrente tra la data di

cessazione del rapporto e la sentenza di conversione del rapporto a tempo

indeterminato.

Corte di Appello di Firenze, sentenza del 13 dicembre 2011. Applicabilità dell’art. 32 alle controversie in materia di somministrazione irregolare.

Pronunciandosi sull’impugnazione di contratti di somministrazione di lavoro la Corte

ne dichiara l’illegittimità ritenendo però applicabile anche al caso di specie l’art. 32

L. 183/10 per effetto del quale, precisava la Corte, “il risarcimento risulta forfetizzato

e ricollegato a parametri del tutto svincolati dalla effettiva percezione di redditi

successivamente alla scadenza del contratto”, risultando quindi irrilevante ogni

indagine sul cd. aliunde perceptum. L’orientamento prevalente esclude la

applicabilità del collegato lavoro ai contratti di somministrazione.

App. Perugia Sez. lavoro, 3 maggio 2011

L'intento manifestato dal legislatore è chiaro e il comma 5 (dell'art. 32, legge 4

novembre 2010, n. 183) non sembra offrire difficoltà interpretative particolari. Lo

scopo e l'effetto della disposizione sono di agevole individuazione: in tutti i casi in

cui il giudice dichiari la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo

indeterminato, per il periodo compreso fra l'interruzione dei rapporto stesso (alla

scadenza del termine dichiarato illegittimo) e la sentenza dichiarativa della nullità del

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termine, è dovuta al lavoratore, a titolo di risarcimento, soltanto un'indennità

omnicomprensiva, dunque, esaustiva di qualsiasi pretesa risarcitoria o retributiva, da

un minimo di 2.5 a un massimo di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto in

godimento all'epoca di risoluzione del contratto. La predeterminazione del

risarcimento da parte del legislatore in una somma omnicomprensiva rende irrilevante

che il lavoratore abbia messo in mora il datore di lavoro, offrendogli le proprie

prestazioni, poiché il danno è presunto e il risarcimento prestabilito, sia pure in una

misura graduabile fra un minimo e un massimo, secondo i criteri dettati dall'art. 8

della legge n. 604/1966.

Trib. Milano Sez. lavoro, 1 dicembre 2011

L'indennizzo contemplato dalla legge n. 183 del 2010 in favore del lavoratore in caso

di conversione del contratto a tempo determinato, non può intendersi aggiuntivo

rispetto al risarcimento del danno fino ad oggi pacificamente riconosciuto in favore

del medesimo soggetto. Il dato letterale della norma, invero, non evidenzia alcun

elemento da cui desumere la natura aggiuntiva di una tale componente risarcitoria, ai

fini della cui determinazione non può prescindersi dal numero di contratti a termine

stipulati tra le parti. Tale indennizzo, invero, è destinato a risarcire il lavoratore per la

situazione di precarietà in cui è stato posto in seguito alla scadenza del termine,

nell'attesa di un eventuale ulteriore rinnovo della medesima fattispecie contrattuale, in

quanto indubbiamente incidente sulla capacità del lavoratore di porsi pienamente e

senza condizionamenti sul mercato del lavoro e, conseguentemente, sulla possibilità

di reperire una diversa occupazione.

Trib. Napoli Sez. lavoro, 16 novembre 2011

Il lavoratore, in caso di contratto di lavoro a termine illegittimo, ha diritto, oltre

l'indennità forfetaria prevista dall'art. 32, legge 4 novembre 2010, n. 183 ("Collegato

lavoro"), al risarcimento del danno pari alle retribuzioni dal momento in cui propone

la domanda e non dalla sentenza.

Trib. Milano Sez. lavoro, 20 ottobre 2011

La rilevata nullità del termine apposto al contratto di lavoro, per omessa indicazione

delle ragioni giustificatrici, determina la conversione del rapporto in contratto a

tempo indeterminato sin dall'origine, cui consegue, altresì, la condanna della parte

datoriale alla corresponsione al lavoratore ricorrente dell'indennità risarcitoria di cui

all'art. 32, comma quinto, della legge n. 183 del 2010, determinata, in considerazione

della durata complessiva dei rapporti, delle successive occupazioni della parte

ricorrente e delle dimensioni dell'azienda, secondo quanto disposto dagli artt. 30,

comma terzo, e 32, comma quinto, della medesima legge n. 183 del 2010, in 2,5

mensilità oltre interessi e rivalutazione della pronuncia al saldo effettivo.

Trib. La Spezia, 22 settembre 2011

Con le modifiche apportate dalla legge di conversione (legge n. 10/2011) al c.d.

decreto Milleproroghe (D.L. n. 225/2010), è stato introdotto un comma 1 bis all'art.

32, legge n. 183/2010, che, in sede di prima applicazione, differisce l'efficacia dei

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termini di decadenza al 31 dicembre 2011. Il comma 1 bis dell'art. 32 ha valore dal 27

febbraio 2011 e non vale a rimettere in termini situazioni per le quali la fattispecie

estintiva si è già compiuta. Il comma 1 bis si riferisce al solo caso dell'impugnativa

del licenziamento.

Trib. Milano Sez. lavoro, 10 agosto 2011

Accertata la invalidità dell'apposizione del termine, il contratto si considera affetto da

nullità parziale ex art. 1419, comma secondo, c.c., con la conseguenza che il rapporto

si reputa instaurato sin dall'origine a tempo indeterminato e disciplinato dalle relative

disposizioni di legge. Alla conversione del rapporto in contratto di lavoro subordinato

a tempo indeterminato consegue, ex art. 32, commi 5 e 7, della L. n. 183 del 2010,

segue il diritto del lavoratore al risarcimento danni, da stabilirsi nei termini di legge.

Trib. Milano Sez. lavoro, 19 luglio 2011

Nel caso di scadenza di una serie di contratti a termine illegittimamente stipulati, non

è applicabile, quanto agli effetti, la regola di cui all'articolo 18 dello Statuto dei

lavoratori, relativa alla reintegrazione nel posto di lavoro. In simile evenienza, infatti,

come recita l'articolo 32 della Legge del 4 novembre 2010, n. 183, il contratto si

converte in contratto a tempo indeterminato.

Tribunale di Roma, sentenza del 16 giugno 2011. Il Giudice, nel dichiarare l’illegittimità del termine apposto ad un contratto di lavoro

condanna la convenuta all’indennizzo ex art. 32, co. 5, L. 183/2010, prevedendo la

decorrenza degli accessori su tale somma a partire dalla data di cessazione del

rapporto a termine. Per il Giudice l’indennizzo, basato sull’illecita apposizione del

termine, ristora infatti un danno che si “si produce nel momento in cui il lavoratore

cessa di lavorare e quindi di essere retribuito per effetto di tale clausola nulla”.

Trib. Reggio Emilia, 28 aprile 2011

L'illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro comporta la conversione

ex tunc in contratto a tempo indeterminato e, sotto il profilo patrimoniale, la

corresponsione dell'indennità prevista dall'art. 32, legge n. 183/2010, che esaurisce il

profilo risarcitorio, ma non esclude il riconoscimento del diritto alle retribuzioni non

corrisposte a partire dall'offerta della prestazione lavorativa al datore di lavoro.

Trib. Taranto, 30 marzo 2011

Posto che la percentuale di assunzioni a tempo determinato consentita dall'art. 2,

comma 1 bis, D.Lgs. n. 368/2001 va calcolata in riferimento ai dipendenti addetti alla

raccolta ed alla consegna della posta e che l'onere della prova della sua osservanza

incombe sul datore di lavoro, è nulla la clausola di apposizione del termine finale al

contratto di lavoro in caso di mancanza di prova del rispetto della suddetta

percentuale, con la conseguenza che, sul piano risarcitorio, spetta al dipendente

l'indennità prevista dall'art. 32, legge n. 183/2010, che non presenta profili di

contrasto con l'ordinamento nazionale e comunitario.

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Trib. Milano Sez. lavoro, 9 febbraio 2011 In applicazione della disposizione del Collegato lavoro, l'unica conseguenza in caso

di nullità del termine per la totale mancanza delle ragioni tecniche, organizzative,

produttive e sostitutive previste dall'art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001, è la condanna della

società al pagamento delle mensilità: tale misura è congrua attesa la risoluzione

definitiva del rapporto intervenuta "ex lege". Con la nuova disciplina non deve essere

restituito il TFR in quanto il rapporto non è ricostituito e non rivive.

Trib. Roma Sez. lavoro, 11 gennaio 2011

Il comma 5 dell'art. 32, legge n. 183/2010 non ha fatto venire meno il diritto del

lavoratore di chiedere ed ottenere la pronuncia della conversione del rapporto. La

novità, rispetto alla situazione precedente, sta nell'introduzione di un particolare

regime risarcitorio che prevede il pagamento di un'indennità onnicomprensiva che si

sostituisce e non si aggiunge alle conseguenze risarcitorie di diritto comune e quindi

esaurisce in sé tutte le conseguenze - risarcitorie - dell'accertata illegittimità del

termine.