33
La new economy o net economy 1 è caratterizzata da tre elementi di fondo: a) l’impiego, al tempo stesso in- teso e diffuso, di tecnologie dell’informazione e della comunicazione; b) la prevalenza di struttura di rete al- l’interno dell’impresa ed al suo esterno; c) l’importan- za dello stock di conoscenza e del flusso di informa- zioni nel determinare i vantaggi comparati. Una delle implicazioni principali è la riduzione delle barriere al- l’ingresso 2 , specialmente di quelle che dipendono dal fatto che, per la propria esistenza e sopravvivenza, l’impresa ha l’esigenza di met- tere insieme una massa critica di risorse allo scopo di sfruttare le economie di sca- la generate dal fatto di funzionare come contesto ed intermediario di contratti in va- ri mercati (dei capitali, del lavoro, ecc.); si tratta di una vasta rete di contratti, sia espliciti sia, soprattutto, impliciti, all’interno dell’impresa, tra tutti i soggetti coin- volti nell’impresa medesima. Questa funzione e questo modo di operare dell’im- presa (dimostrata nel “teorema di Coase” 3 ) viene sfidata dalla “new economy” che, richiedendo una massa modesta di risorse finanziarie e grande flessibilità (nonché, di conseguenza, minimizzando i contratti all’interno dell’organizzazione-impresa), spinge verso dimensioni ridotte dell’impresa medesima e l’impiego di servizi ester- ni tramite outsourcing. Ciò favorisce la diffusione e disseminazione delle tecnolo- gie dell’informazione e della comunicazione e delle attività su di esse basate 4 . 1 Premessa 2 Giuseppe De Filippi, Giuseppe Pennisi La new economy e “l’inizio della storia” 1 Il termine “new economy” viene utilizzato intercambiabilmente con la locuzione “net economy”, come è prassi non solo nelle pubblicazioni a carattere divulgativo ma anche in documenti ufficiali sia italiani sia interna- zionali: ambedue intendono l’insieme delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione che permettono di ridurre drasticamente distanze di spazio e di tempo ed i costi di transazione ad esse pertinenti. 2 Per un caso di studio molto recente e molto interessante, Sabbatini P. (2001). 3 Coase (1960). Nel suo teorema dimostra che “il carattere distintivo dell’impresa è il superamento del mec- canismo dei prezzi”. Tale istituzione, alternativa al mercato, sorge ed è essenziale all’economia di mercato in quan- to i contratti alla base dell’organizzazione-impresa riducono i costi di transazione. 4 Quah (2002).

Giuseppe De Filippi, Giuseppe Pennisi La new economy e “l ...€¦ · Nella prima parte di questo capitolo, si descrivono l’interazione tra il processo d’integrazione internazionale

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La new economy o net economy1 è caratterizzata datre elementi di fondo: a) l’impiego, al tempo stesso in-teso e diffuso, di tecnologie dell’informazione e dellacomunicazione; b) la prevalenza di struttura di rete al-l’interno dell’impresa ed al suo esterno; c) l’importan-za dello stock di conoscenza e del flusso di informa-zioni nel determinare i vantaggi comparati. Una delleimplicazioni principali è la riduzione delle barriere al-l’ingresso2, specialmente di quelle che dipendono dal

fatto che, per la propria esistenza e sopravvivenza, l’impresa ha l’esigenza di met-tere insieme una massa critica di risorse allo scopo di sfruttare le economie di sca-la generate dal fatto di funzionare come contesto ed intermediario di contratti in va-ri mercati (dei capitali, del lavoro, ecc.); si tratta di una vasta rete di contratti, siaespliciti sia, soprattutto, impliciti, all’interno dell’impresa, tra tutti i soggetti coin-volti nell’impresa medesima. Questa funzione e questo modo di operare dell’im-presa (dimostrata nel “teorema di Coase”3) viene sfidata dalla “new economy” che,richiedendo una massa modesta di risorse finanziarie e grande flessibilità (nonché,di conseguenza, minimizzando i contratti all’interno dell’organizzazione-impresa),spinge verso dimensioni ridotte dell’impresa medesima e l’impiego di servizi ester-ni tramite outsourcing. Ciò favorisce la diffusione e disseminazione delle tecnolo-gie dell’informazione e della comunicazione e delle attività su di esse basate4.

1Premessa

2Giuseppe De Filippi, Giuseppe Pennisi

La new economy e “l’inizio della storia”

1 Il termine “new economy” viene utilizzato intercambiabilmente con la locuzione “net economy”, come èprassi non solo nelle pubblicazioni a carattere divulgativo ma anche in documenti ufficiali sia italiani sia interna-zionali: ambedue intendono l’insieme delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione che permettono diridurre drasticamente distanze di spazio e di tempo ed i costi di transazione ad esse pertinenti.

2 Per un caso di studio molto recente e molto interessante, Sabbatini P. (2001). 3 Coase (1960). Nel suo teorema dimostra che “il carattere distintivo dell’impresa è il superamento del mec-

canismo dei prezzi”. Tale istituzione, alternativa al mercato, sorge ed è essenziale all’economia di mercato in quan-to i contratti alla base dell’organizzazione-impresa riducono i costi di transazione.

4 Quah (2002).

Nella prima parte di questo capitolo, si descrivono l’interazione tra il processod’integrazione internazionale e la new economy o net economy e le implicazioniche essa comporta sulle politiche pubbliche e, quindi, sulla Pubblica Amministra-zione (Pa) come strumento di formulazione e attuazione delle politiche pubbliche.Nella seconda, si introduce il concetto di “capitale sociale”, centrale alla “nuovateoria dello sviluppo” in corso di elaborazione dall’inizio degli Anni Novanta, e sipone l’accento su come la “net economy” possa contribuire alla sua formazione ecrescita. Nel successivo capitolo 3, si delineano alcune delle strategie seguite dal-l’Italia (che vengono meglio approfondite nei capitoli successivi di questo volume)e le si raffrontano con quelle adottate da Francia, Germania e Paesi Iberici; quelleadottate nei Paesi anglosassoni (Stati Uniti e Gran Bretagna) sono o più note (tra-mite l’attenzione che ricevono sulla stampa d’informazione) o meno “rilevanti” da-to il differente assetto istituzionale-amministrativo.

2.1. L’integrazione internazionale

Ad ogni decennio, o giù di lì, viene annunciata la finedi qualche cosa. Gli Anni Sessanta sono stati contras-segnati dalla “fine dei miracoli economici”, analizzatanelle sue determinanti ed implicazioni, in un bel librodell’economista ungherese Ferenc Janossy5, giunto conun lustro di ritardo all’attenzione degli economisti dicultura anglosassone e forse mai a quelli italiani. Sugli

Anni Settanta, si staglia “la fine della crescita economica”6 con un’ombra lunga didibattiti e di polemiche che, tra una crisi petrolifera ed una crisi finanziaria, sono pro-seguiti sino alla metà degli Anni Ottanta. Dall’inizio degli Anni Novanta, siamo alleprese con “la fine della storia”7, delineata nel 1989 in un breve articolo sul periodi-co The Public Interest dal politologo nippo-americano Francis Fukuyama in cui, he-gelianamente, si faceva coincidere la vittoria della liberal-democrazia sulle altre for-me di governo (in particolare, sui tentativi di varie guise di “socialismi reali”) conl’esaurirsi della stessa esperienza della Storia con la “S” maiuscola.

A cavallo del XXI secolo, si è aperta la discussione su un’altra “fine”, quella“della politica economica” (e delle sue principali componenti quali la politica mo-netaria, la politica di bilancio e la politica dei prezzi e dei redditi8, nonché delle po-

2Integrazione economicainternazionale, new economy epolitiche pubbliche

32 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI

5 Janossy (1966).6 Meadow, Meadows, Randers e Behrens (1972).7 Fukuyama (1989).8 Come viene normalmente insegnata (Cfr., ad esempio, Acocella, 1994, e De Vincenti, 1997).

litiche pubbliche ad esse pertinenti) come la abbiamo intesa per almeno un paio digenerazioni. La possibilità stessa di poter guidare con la mano pubblica l’economia,ossia l’essenza della politica economica, viene aggredita, e forse messa sotto scac-co, da due determinanti – l’integrazione economica internazionale (un termine neu-tro, e meno connotato da impliciti giudizi di valore, di quello “globalizzazione” og-gi più in uso) e la new economy o net economy – che insidiano e mettono a repen-taglio le leve su cui Governi e Parlamenti hanno contato, negli ultimi cinquant’an-ni (se non di più), per pilotare i sistemi economici verso obiettivi di sviluppo e diridistribuzione della produzione, dei consumi e del reddito. Ciò comporta, inevita-bilmente, un ripensamento, se non dell’ubi consistam, del ruolo della Pa come stru-mento per la formulazione e l’attuazione delle politiche pubbliche.

L’importanza dell’argomento è indicata dal fatto che al tema ha dedicato un fa-scicolo The Journal of Economic Perspectives, la rivista divulgativo-professionaledell’American Economic Association, chiamando a raccolta il fior fiore degli eco-nomisti non solo americani, tra cui numerosi Premi Nobel9. Sulla Revue d’econo-mie politique francese, due “maître-à-penser” di rango alla guida di una delle “gran-des écoles” d’Oltralpe, vanno ancora più oltre e si chiedono “a cosa serva la scien-za economica” e se la politica economica abbia un futuro10; un altro periodicoscientifico francese si chiede, addirittura, se “le riviste economiche servono anco-ra”11; la domanda innesca una replica immediata, in chiave di politica economicacentralizzata o, quanto meno, programmatoria, da uno dei “pensatoi” per eccellen-za della “gauche plurielle”12; tuttavia, proprio nel mondo d’espressione francofona,il concetto, se non di fine della politica economica, quanto meno dei crescenti vin-coli alla sua formulazione ed attuazione ottiene supporto implicito da economisti dipeso in scritti pubblicati da due organizzazioni considerate per decenni “cultural-mente interventiste” (ossia favorevoli all’intervento pubblico), il Centro per lo Svi-luppo dell’Ocse13 e l’Osservatorio francese delle congiunture economiche14. Le ci-tazioni potrebbero continuare15. Il problema, in breve, esiste e non può essere elu-so. Esaminiamone le componenti essenziali.

33LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”

9 The Journal of Economic Perspectives n. 14, n. 1 Winter 2000. Tra gli autori (in ordine di pubblicazione de-gli articoli), A.B. Krueger. J. Bradford De Lomg, T. Taylor, R. Easterlin, J. Kornai, W.E. Kovacic, C. Shapiro, J.J.Wallis, J. Persky, W.E. Becker, D. Colander, R.H. Thaler, B. Allen, R. Solow, R. Lucas jr., P. Krugman, D. Rodrik,D.T. Ellwood, P. Portney, B. Anderson.

10 Quinet e Wallisser (1999).11 Party (2001).12 Boyer (1999).13 Tanzi (1999).14 Drèze (2000). 15 Interessanti, nelle loro diversità, l’ampio saggio teorico di Zafirovsky (1999) e l’affondo divulgativo e pro-

vocatorio di Fox (1999), nonché il saggio di Drucker (1999).

L’integrazione economica internazionale ha ramificazioni molto ampie e moltoprofonde sulla capacità stessa dei Governi di fare politica economica al livello tan-to della formulazione quanto dell’attuazione delle politiche pubbliche, e quindi sul-la capacità della Pa di fornire il loro apporto nelle forme, procedure e prassi a cui siè abituata. In molti casi, ad esempio quello delle unioni monetarie, l’integrazionecontiene vincoli espliciti sia alla sovranità monetaria sia alle politiche di bilancio16,nonché alla politiche dei prezzi e dei redditi (i tre principali strumenti, come si è vi-sto, a disposizione della politica economica). Anche, però, in mancanza di vincoliespliciti contrattualizzati in accordi tra Stati, l’integrazione comporta quella che,con un’espressione felice, Thomas Friedman chiama: “una camicia di forza tuttad’oro”17. Se si vuole fruire, dei benefici dell’integrazione economica internaziona-le, di pari passo “con il crescere dell’economia, si restringe la sfera della politica”.“La “camicia di forza tutta d’oro” limita le scelte politiche ed economiche di chi èal potere entro parametri molto precisi, tanto che diventa anche difficile vedere ledifferenze tra i programmi dei partiti di governo e quelli dei partiti d’opposizione”.

Con il suo accento sulla necessità di formulare ed attuare politiche economichenon solo “virtuose”, ma “competitivamente virtuose”, proprio poiché l’integrazio-ne economica internazionale pone in concorrenza quelle di ciascun Paese rispetto aquelle di tutti gli altri, la “camicia di forza tutta d’oro” è un’immagine appropriata.Sia se condizionati da vincoli espliciti contrattualizzati sia se solo sotto lo stimolodella concorrenza tra politiche economiche in gara per “virtuosismo” (quale perce-pito dai mercati), i Governi (e le opposizioni) possono scegliere se indossare o me-no la “camicia di forza tutta d’oro” imposta dall’integrazione economica interna-zionale. Una volta indossatola, possono financo decidere di togliersi i lacci che es-sa implica. La sanzione, però, è forte, immediata e (a ragione delle imperfezioni dimercato, in particolare del mercato delle informazioni, e dei suoi effetti sui movi-menti di capitale, soprattutto a breve) sovente molto più dura di quanto ci si po-trebbe attendere. Lo hanno mostrato a tutto tondo, tra l’altro, le “crisi finanziarie”degli Anni Novanta; da quella che, all’inizio del decennio, ha colto quasi di sorpre-sa gli accordi europei dei cambi, colpendo in modo particolarmente pesante la lirae, quindi, la politica economica dell’Italia, a quelle che, nella seconda metà, hannopunito alcuni Paesi asiatici e la Russia e minacciato il Brasile18.

34 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI

16 La bibliografia su argomenti come questo è molto ampia. Utile il recente saggio di Savona (2000) in quan-to traccia, in un linguaggio non tecnico, il viaggio dell’Italia nel perseguimento di una sovranità monetaria mai pie-namente ottenuta.

17 Friedman (1999) e De Filippi e Pennisi (1999).18 Per una sintesi non tecnica, Jacquet (1999). Molto interessante la Richard Ely Lecture presentata, nella ve-

ste di Economista non di Segretario al Tesoro Usa, carica che allora aveva, da Lawrence H. Summers, Summers(2000).

I vincoli imposti dalla “camicia di forza tutta d’oro” hanno aspetti ancora piùpregnanti, pur se meno appariscenti, di quelli dei più noti vincoli alla sovranità mo-netaria. Non solo comportano, come già sottolineato anni orsono, lo sviluppo di unalex mercatoria internazionale che si sovrappone alle normative nazionali (in areecome il fisco, il lavoro e l’economia)19 ma tolgono a Governi ed a Parlamenti quel-li che sono i loro strumenti essenziali per “fare” politica economica: dare indirizzo(compito dei primi) e legiferare (funzione dei secondi). Le normative interne (nonesclusivamente il diritto, pubblico e privato, dell’economia) devono essere plasma-te sulle prassi internazionali, e su quelle dei Paesi più competitivi, non soltanto adesse adeguate in seguito a decisioni multilaterali o sovranazionali. È con queste“istituzioni”, nel significato di prassi e regole implicite rispettate da tutte le parti incausa20, che gareggiano, l’una contro l’altra, politiche economiche nazionali a cuirestano alvei sempre più angusti.

Le organizzazioni finanziarie internazionali, create mezzo secolo orsono per go-vernare la ricostruzione e lo sviluppo dell’economia mondiale, devono anch’essefare i conti con un’integrazione economica che limita i loro compiti21. In particola-re, nella prevenzione ex-ante di crisi finanziarie, acquistano un ruolo crescente or-ganismi specializzati, su base privatistica, quali il Comitato di Basilea per la Vigi-lanza bancaria, l’Organizzazione Internazionale delle Commissioni dei Valori Mo-biliari, l’Organizzazione Internazionale per la della Vigilanza delle Assicurazioni, ilComitato Internazionale per le Regole Contabili e così via. Sono gli standard adot-tati da questi organismi (che hanno la loro legittimità in intese privatistiche, valida-te dunque dal mercato e dalle sue libertà, non in accordi inter-governativi ed ancormeno in norme giuridiche formali22) a fornire il corpo di base della “lex mercato-ria” internazionale, e, plasmando quelle nazionali, a dare vita alle “istituzioni” del-la “condizionalità ex-ante”23 ed a vincoli ex-ante alle politiche economiche; tali vin-coli non riguardano solo indicatori e parametri macroeconomici, monetari, di bi-lancio e di politica dei prezzi e dei redditi (quali, per intenderci, quelli del Trattatodi Maastricht e del “patto di crescita e di stabilità”) ma entrano nel vivo della cor-porate governance e delle regole di contabilità e di revisione societaria, della vigi-lanza bancaria, del funzionamento dei mercati azionari ed obbligazionari. Tali vin-coli non possono non incidere, quindi, anche su quegli aspetti delle politiche eco-nomiche di cui gli Stati e le legislazioni nazionali sono sempre stati i più gelosi,

35LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”

19 Ad esempio, Galgano, Cassese, Tremonti e Treu (1993). 20 Come precisato nella scuola neo-istituzionalista guidata da D.C. North, North (1990).21 Un’esemplificazione eloquente è il dibattito sulla riforma del Fondo Monetario Internazionale e della Ban-

ca Mondiale; per una sintesi Wolf (2000); per un’analisi più ampia, Bergsten (2000) e Salop (2000).22 Guérot (2000). 23 Gomel (2000).

quali le politiche industriali e commerciali, le politiche sociali, le politiche dell’as-setto del territorio, le politiche dell’occupazione e del lavoro, le politiche della im-migrazione, le politiche della cultura e delle risorse umane.

Naturalmente, sono molto differenziati i percorsi di ciascun Paese e di ciascungruppo di Paesi verso la definizione di “istituzioni” di alta qualità per promuoverela crescita in un contesto competitivo. Non esiste più, però, quel “Washington con-sensus” sulla strada da seguire che solo sei anni fa veniva codificato al termine diun dettagliato lavoro di analisi dell’Institute for International Economics24. Tutta-via, anche coloro che sviscerano (ed auspicano) la più ampia differenziazione deisentieri per la definizione delle “istituzioni” per la crescita (al fine dir tenere contodello “stock locale di conoscenza ed esperienza”), ammettono che, alla lunga, nonsi può avere un settore o comparto dell’economia e della società immerso nel pro-cesso di integrazione economica internazionale (per catturarne i vantaggi) ed un al-tro da essa escluso (per tutelare gruppi, categorie ed interessi specifici)25. In quello“integrato” non si può “fare” politica economica, come la si intendeva solo tre lu-stri orsono quando il grado di apertura al mercato internazionale dei singoli Paesi egruppi di Paesi era limitato e quello d’integrazione internazionale ancora più ri-stretto26. Quello non integrato diventa preda di chi è “politicamente destinato a per-dere”, che può erigere paratie e scavare trincee, frenando il progresso, ma alla lun-ga è costretto a cedere il campo27.

2.2. La new economy: produttività, ciclo, disuguaglianze

In questo contesto si inserisce la new economy: la “rete-delle-reti” è immateria-le, è “tutto e solo” tecnica, non inquina, è, soprattutto, un collegamento impalpabi-le tra agenti economici (sia individui sia imprese) atomistici28. Gran parte del di-battito ha posto l’accento sui nessi tra net economy e produttività, e sulla sfida chetali interconnessioni comportano alla politiche economiche che si propongono digovernarli oppure sulle “nuove discriminazioni” innescate dalla net economy29. Ve-diamone alcuni punti essenziali prima di rivolgersi alle implicazioni della “legge-

36 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI

24 Williamson (1994), Liard-Muriente (2001), Crafts and Venable (2001).25 Rodrik (2000).26 Interessante rileggere con l’esperienza di oggi il volume scritto da Myrdal al termine della sua esperienza

alla guida della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, Myrdal (1958) e raffrontarlo con untesto recente con obiettivi analoghi quale Salvatore (1999).

27 Molto stimolante la modellizzazione recentissima offerta in Acemoglu e Robinson (2000).28 De Filippi e Pennisi (2000b) e (2000c) e Pennisi (1995).29 Jorgenson e Stiroh (2000), Kiley (1999), Zarnovitz , Oecd (2000), International Monetary Fund (2001).

rezza” della net economy sulla capacità stessa di formulare ed attuare politica eco-nomica e, quindi, di “servire” chi ha la responsabilità di formulare ed attuare poli-tiche pubbliche. Gli aspetti salienti sono i seguenti:– la relazione tra new economy e aumenti della produttività. Il caso più studiato è,

senza dubbio, quello dell’economia degli Stati Uniti d’America30. Dal 1990 lacrescita di lungo periodo, escludendo, quindi, fluttuazioni cicliche, dell’econo-mia americana (2,4% l’anno) è stata di mezzo punto percentuale inferiore a quel-la registrata nel 1973-1990 (2,9%), a sua volta molto più lenta di quella conta-bilizzata nel 1948-1973 (4%). Senza la new economy, però, il tasso sarebbe sta-to ancora più contenuto: non avrebbe sfiorato il 2% l’anno perché almeno un se-sto della crescita Usa post 1990 deve imputarsi ad investimenti in computer, adacquisti di computer da parte delle famiglie ed ai pertinenti flussi di servizi chehanno inciso principalmente sulla produttività multifattoriale del settore mani-fatturiero31. Un saggio recente di Dale W. Jorgerson, redatto dopo la finedell’“esuberanza irrazionale” che ha innescato la bolla speculativa borsistica,conferma sostanzialmente queste ipotesi, pur sottolineando l’esigenza di ricer-che ulteriori in materia, in particolare, degli effetti delle nuove tecnologie suimercati del capitale (il nesso tra valutazioni azionarie e prospettive di crescita) esui mercati dei capitali (la tecnologia dell’informazione e della comunicazione egli effetti di sostituzione tra varie categorie di lavoro)32. Un lavoro di Paola Ca-selli e Francesco Paternò del servizio studi della Banca d’Italia riafferma, sem-pre sulla base di dati Usa, il contributo della new economy all’accelerazione del-la produttività del lavoro nella seconda metà degli Anni Novanta sia nell’indu-stria manifatturiera sia nei servizi; evidenza econometrica di tale contributo si hasia utilizzando la contabilità della crescita sia una funzione di produzione del va-lore aggiunto33.

– la relazione tra new economy e ciclo economico. Dato che la tecnologia dell’in-formazione e della comunicazione è una general purpose technology (Gpt, ossiatecnologia a uso plurimo), la sua introduzione comporta una fase di rallenta-mento durante il periodo di sperimentazione, quando risorse fisiche ed umanevengono distolte da altri impieghi, più “sicuri”, ed incanalate in operazioni ad al-to rischio e di cui molte hanno una bassa probabilità di successo34; quindi nonsmussa i cicli economici ma in certi casi può anche accentuarli35;

37LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”

30 Per un’analisi utile e recente Gordon (2000) e per un confronto dei vari punti di vista in campo AA.VV. (2000).31 Jorgergenson e Kevin J. Stiroh (1999) e Black e Lynch (2000).32 Jorgenson (2001). 33 Caselli e Paternò (2001).34 Oltre all’ampia rassegna della letteratura di Aghion, Caroli e Garcìa-Peñosa (1999), le analisi empiriche in

Chennells e Van Reenen (2000), nonché il lavoro di Baily e Lawrence (2001). 35 Francis e Ramey, (2002).

– la relazione tra new economy e diseguaglianza. Nonostante l’ipotesi di qualcheanno fa secondo cui la tecnologia dell’informazione e della comunicazioneavrebbe creato nuove esclusioni36, l’aumento del gap tra fasce di reddito apparecontenuto anche nei Paesi in cui viene comunemente giudicato “spettacolare”37,appare, tutto sommato, moderato rispetto alle aspettative ed alle impressioni ini-ziali: negli Stati Uniti e nel Regno Unito il rapporto tra i redditi da lavoro medidi coloro nel decimo percentile più alto della scale e di quelli nel gradino piùbasso è passato, rispettivamente, da 4,76 a 5,63 e da 2,53 e 3,2138.In breve, dunque, la new economy non comporta effetti miracolistici né sulla

produttività né sul ciclo economico ma non ha neanche implicazioni distorsive ne-gative sulla distribuzione dei redditi. Implica, però, un forte cambiamento nelle re-lazioni tra soggetti ed organizzazioni economiche39.

Come si è detto, la net economy è basata su tecnologia dell’informazione e del-la comunicazione, su rapporti di rete all’interno ed all’esterno del processo di pro-duzione e distribuzione e sull’importanza dei flussi d’informazione e dello stock diconoscenza come determinante principale per ottenere vantaggi competitivi a livel-lo dell’individuo, dell’impresa, dei Paesi e dei gruppi di Paesi. I suoi aspetti princi-pali in termini di “come” formulare ed attuare politica economica sono i seguenti:a) l’esaurimento di alcune importanti economie di scala caratteristiche dei processidi produzioni manifatturieri; b) la drastica riduzione dei costi di transazione (sinoquasi a “mettere a repentaglio l’esistenza stessa del concetto di impresa quale in-sieme di contratti standardizzati nella tradizione del teorema di Coase”40); c) l’ab-battimento di distanza e di spazio e la spinta, perciò, alla delocalizzazione ed al de-centramento delle attività economiche. L’esaurimento delle economie di scala deiprocessi di produzione manifatturiera, nonché la sfida lanciata al concetto stesso diimpresa, incidono direttamente sull’economia del lavoro e delle relazioni industria-li41: mettono in crisi, quindi, l’idea stessa di fabbrica e di unità produttiva quale ela-borata a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XIX secolo ed attuata nei sistemitayloristi-fordisti di produzione e di relazioni industriali, con tutte le ramificazioni

38 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI

36 Pennisi (1995), Saint-Paul (2001).37 Aghion, Caroli, Garcìa-Peñosa (1999).38 Machin e John van Reenen (1998).39 Atkenson e Kehoe (2002a) e (2002b).40 Paganetto e Scandizzo (2000). Altri casi italiani interessanti in Butera (2001). Molto utile Shapiro Varian

(1999) in cui si sottolinea molto efficacemente la differenza nelle economie di scala nell’industria manifatturiera enella net economy; nella seconda ciò che conta sono le economie di scala dal lato della domanda (più che dell’of-ferta), in particolare quelle che si riescono a sprigionare tra i consumatori. Si creano mercati in cui “chi vince pren-de tutto” in quanto i costi di riproduzione sono minimi e non ci sono limiti alle economie di scala quali quelli ine-renti alle difficoltà di gestire imprese oltre un certo livello dimensionale.

41 Pennisi (1996).

che ne sono discese in termini di differenziazione, e contrapposizione, tra datori dilavoro e lavoratori, di sviluppo del sindacato e delle organizzazioni imprenditorialie di un diritto del lavoro plasmato a tutela della parte ritenuta più debole. Mettono,dunque, in crisi le varie forme di politica dei prezzi e dei redditi “concertata” ad es-sa connaturali al fine di “fare” politica economica42. Recidono, quindi, proprioquello strumento di politica economica che, pur con molteplici adeguamenti, pare-va in grado di adattarsi all’integrazione economica internazionale meglio della po-litica monetaria e della politica di bilancio. Se, nella leggerezza della rete, l’unitàproduttiva diventa atomistica, la differenziazione tra datore di lavoro/imprenditoree lavoratore si appanna sempre più e si dissolvono, poco a poco i concetti stessi diimpresa, di datore di lavoro, di lavoratore, spariscono, di conseguenza, progressi-vamente le “parti sociali” ed una politica dei prezzi e dei redditi tra loro e con loro“concertata”.

Ancora più pregnanti, anche se meno visibili, le ramificazioni in termini di co-sti di transazione. Cade l’argomento centrale in materia di formulazione ed attua-zione della politica economica: agire, tramite “politiche pubbliche”, sui costi ditransazione nell’interazione tra agenti economici (individui, imprese, organizzazio-ni)43. Cade anche un altro aspetto centrale, in particolare, alle discussioni degli An-ni Novanta: l’aumento dei costi di transazione “politici”, derivanti dell’esistenzastessa della politica economica. Evapora, almeno per i settori della net economy, laratio di una politica economica che, da un lato, mira, in ultima istanza, all’abbatti-mento di costi economici di transazione ma nel farlo crea costi politici di trans-azione44.

La “morte della distanza” – sottolinea Mario Deaglio in un saggio recente45 – ha,però, alcune implicazioni importanti: il diverso rapporto tra produttori e consuma-tori, i problemi dei diritti di proprietà, le regole di accesso. A favore del produttore-venditore (specialmente se di grandi dimensioni ed in grado di avere informazionidettagliate sui suoi clienti potenziali e sul mutamento dei loro gusti e della loro do-manda) gioca una forte asimmetria informativa, che negli Anni Novanta è stata al-la base di forti aumenti degli utili (la “creazione di valore per gli azionisti”). Le nor-me sui brevetti e sui diritti di proprietà intellettuale elaborate cent’anni fa perdonosignificato. Il diritto all’accesso diventa più importante del diritto di proprietà ecomporta in molti casi distorsioni46. La Pa può avere un ruolo significativo nel cor-reggere alcune disfunzioni connesse con queste implicazioni.

39LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”

42 De Filippi e Pennisi (2000a).43 Dixit (1996).44 Zerbie e McCurdy (1999).45 Deaglio (2001).46 Si pensi agli eccessi del trading-on-line da parte di soggetti privi di conoscenze elementari di funzionamen-

to dei mercati finanziari.

2.3. Pubblica Amministrazione tra integrazione internazionale e new economy

L’assedio, quindi, è parallelo e simultaneo. L’integrazione economica interna-zionale pone vincoli di mercato, tanto più cogenti quanto più impliciti e più infor-mali, alla politica monetaria e di bilancio (ossia ai principali strumenti dello Statoper formulare ed attuare politica economica, ed alla Pa nei suoi compiti di suppor-to tecnico alle autorità politiche) in generale, e vincoli ancora più stringenti alle po-litiche economiche (si pensi alle “politiche industriali”) nei settori oggetto, diretta-mente od indirettamente, di apertura al reso del mondo ed integrazione internazio-nale. Parallelamente e simultaneamente, la net economy spunta le armi al terzo stru-mento tradizionale della politica economica (la politica dei prezzi e dei redditi tra-mite varie forme di “concertazione”) e spegne lentamente l’obiettivo stesso dellapolitica economica: l’abbattimento dei costi di transazione economica ed il conte-nimento dei costi di transazione politica. La net economy, forse, non è “la fine del-la storia”47; ciononostante, che cosa resta alla nostra prassi di “fare” politica eco-nomica?

Riprendiamo in mano il “simposio” dell’American Economic Association cita-to all’inizio di questo capitolo48, soffermandoci in particolari sui saggi di DavidColander49, Beth Allen50, Robert Solow51 e Robert E. Lucas jr.52. Ai nostri fini,l’ultimo tra quelli elencati, ossia il lavoro di Robert E. Lucas jr., è il più eloquen-te: prende l’avvio da un modello di crescita innescata e sostenuta dal diffondersidello stock di conoscenza53 per spiegare l’evoluzione economica (e la convergen-za dei redditi pro capite dei maggiori Paesi industriali, prima, e di quelli di nuovaindustrializzazione, poi) degli ultimi 200 anni, nonché per tracciare ipotesi quanti-tative degli sviluppi possibili per i prossimi 100 (una maggiore “convergenza” traPaesi ed aree, ma non necessariamente all’interno di Paesi e di aree). Lucas am-mette i limiti dello strumento (principalmente la sua incapacità di spiegare perchéla “rivoluzione” economica cominciò proprio in Gran Bretagna nonché alla finedel XVIII secolo, nonché altrove od in un’altra epoca) ma sottolinea che, pur nelsuo meccanicismo, “si tratta di un modello economico che solo un teorico dell’e-

40 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI

47 Hodgson (1999).48 Si tratta, in effetti, di tre simposi distinti: Looking backward at economics and the economy, Forecasts for

the future of economics, Forecasts for the future of the economy.49 Colander (2000).50 Allen (2000).51 Solow (2000).52 Lucas jr. (2000).53 Tamura (1966).

conomia può avere scritto”. Quello che ai nostri fini rileva è che il modello, rilan-ciato ed approfondito di Lucas, non contiene alcuna indicazione di politica econo-mica. Non c’è politica economica (almeno quale è stata intesa negli ultimi cin-quant’anni) neanche nella visione di Solow su come coniugare la strumentazionekeynesiana e quella neo-classica in quella “macro-economia a medio termine” chedovrebbe plasmare il XXI secolo; lo stesso Solow, anzi in uno scritto di poco pre-cedente e di cui non fa menzione nel lavoro per il simposio54, aveva ricordato co-me gli economisti si siano trasformati dai “gentiluomini studiosi” quali erano ne-gli Anni Quaranta a “personaggi iperistruiti alla ricerca di ciò che non funziona”alla fine del XX secolo.

Sullo stesso crinale è Beth Allen che prospetta per la micro-economia un futu-ro sempre più collegato alla tecnologia, in particolare “con la biologia e con l’inge-gneria”, e sempre meno con le discipline (“scienze politiche, giurisprudenza, con-tabilità, finanza”) sue alleate e suoi cugini nell’ultimo secolo. Chiedendosi comeverrà insegnata la disciplina tra 100 anni, infine, David Colander prospetta una sem-pre maggiore specializzazione, dopo un tronco comune di base, per formare non piùeconomisti (quelli che maneggiano le “grandi” leve della “grande” politica econo-mica) ma “tecnici specializzati” in finanza pubblica, tecniche di previsione, econo-mia sanitaria, relazioni industriali e quant’altro.

All’inizio di questo capitolo, si è ricordato l’interrogativo di Fukuyama sulla “fi-ne della storia” che una dozzina di anni fa diede una scossa ai politologi ed agli stu-diosi di relazioni internazionali. Allora, Fukuyama si chiedeva che se caduto “il mu-ro di Berlino” non fosse terminata la Storia, intesa come non la dialettica tra libe-ral-democrazia e le altre forme di assetto politico e di governo; ricordava anche inessi inscindibili tra liberal-democrazia e libertà di mercato. Pochi rammentanoche, qualche anno più tardi, Fukuyama riprese in mano il breve articolo e partì dal-l’ipotesi là delineata per scrivere un intero libro, togliendo, però, dal titolo il puntointerrogativo e chiamando in causa, con la “fine della Storia” (ormai data per ine-ludibilmente assodata) anche l’“ultimo uomo”55 .

In questi ultimi mesi, ha notevole successo editoriale un saggio del Premio No-bel Amartya Sen, il quale da padre dell’economia del benessere e delle stesse pro-cedure dell’analisi costi benefici è via via diventato “political economist”, prima, efilosofo morale, poi. Il saggio prende le distanze dai tanti che sanno “sempre di piùattorno a sempre meno” per lanciare un’“idea rivoluzionaria”: quella che sviluppoè libertà56. Dunque, a dieci anni di distanza da Fukuyama, Sen, da un lato, si ricol-

41LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”

54 Solow (1997).55 Fukuyama (1992).56 Sen (2000a).

lega alla “fine della Storia” derivante dall’esaurimento degli avversari della liberal-democrazia e del mercato e, da un altro, riafferma come alla base dello sviluppo so-no le libertà sostanziali prima e più della politica economica. L’“ultimo economi-sta”, se esiste ancora, diventa filosofo morale, e politico, per l’affermazione delle li-bertà; altrimenti, è costretto ad imboccare la strada del “politically loser” che pone,futilmente, “barriere” al progresso57.

Dunque, se l’integrazione economica internazionale, da un canto, e la net eco-nomy, dall’altro, fanno sì che in futuro non ci sarà più politica economica (almenocome la abbiamo intesa noi), gli economisti ed i public servant (anche e soprattut-to nella loro funzione di consiglieri di organi a carattere politico per la formulazio-ne ed attuazione di politiche economiche) sono ormai una specie in via di estinzio-ne. In un mondo più libero, il posto dell’“ultimo economista” verrà preso, da un la-to, dal filosofo-politico e, dall’altro, dal tecnico specializzato.

3.1. Il concetto economico di “capitale sociale”

C’è un sentiero nuovo che si apre, o quanto meno sisocchiude all’economista ed al public servant: il con-tributo che la net economy può dare al “capitale socia-le”, un concetto non del tutto recente, anzi elaboratogià negli Anni Settanta, ma posto nell’ultimo decennioal centro delle analisi sullo sviluppo economico e, per-ciò, sulle politiche economiche per favorirlo. In questo

paragrafo, esploreremo il concetto economico di “capitale sociale”, il ruolo dell’in-formazione e della net economy nel promuoverlo ed in particolare quello dell’in-formazione-valutazione, funzione essenziale della Pa.

Negli Anni Novanta, il termine “capitale sociale”, nel senso di norme, regole ereti che facilitano l’azione di gruppo, ha destato notevole attenzione in tutte lescienze sociali e relative discipline. Se ne sono inizialmente interessati i sociologi58

e gli scienziati della politica59, ma il concetto ed il termine hanno anche guadagna-to notevole terreno tra gli economisti, specialmente in seno alla scuola neo-istitu-zionalista60. Nelle analisi dei processi di sviluppo tanto dei Paesi ad alto reddito pro

3New economy e “capitale sociale”

42 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI

57 Nel significato dato da Acemoglu e Robison (2000).58 Ad esempio, Coleman (1987, 1988, 1990). Si veda il recente contributo italiano in Bagnasco, Piselli, Piz-

zorno e Trigila (2001).59 Ad esempio, Putman (1993 e 2000).60 Per una rassegna Williamson (2000). Interessante il recente contributo di De Soto (2001).

capite quanto di quelli emergenti, nonché, e forse ancor di più, di quelli, principal-mente dell’Africa a sud del Sahara e dell’Asia centrale, che non riescono a decolla-re, il “capitale sociale” ha assunto un ruolo avuto negli Annni Sessanta e Sessantadal “capitale umano” come componente essenziale del “fattore residuo”.

Spieghiamo il significato di questi termini a chi non è avvezzo alla semanticadella letteratura sullo sviluppo economico e di quella più recente sulla teoria eco-nomica delle informazioni, della comunicazione, delle emozioni e, quindi, delleistituzioni. Già all’inizio degli Anni Sessanta, un lavoro di Edward Denison, consi-derato pionieristico per le tecniche statistiche allora impiegate ai fini della contabi-lità della crescita, concludeva che i fattori di produzione intesi in senso stretto – ilcapitale ed il lavoro – non erano sufficienti a spiegare le “fonti” della crescita eco-nomica né perché i tassi di crescita differiscono61. Denison formulò il termine “fat-tore residuo” per individuare tutto ciò che non poteva essere classificato né come“capitale” né come “lavoro” in base ai metodi ed alle tecniche di elaborazione del-la contabilità economica nazionale allora in uso. Per opera di una vasta scuola dieconomisti62, tale “fattore residuo” venne, in gran misura, fatto coincidere con il“capitale umano”, ossia con i differenziali di produttività derivanti da investimentiin istruzione, formazione, ricerca e sviluppo, nonché con le esternalità tecnologichepure esse connesse agli investimenti in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo.Da qui l’accento posto per decenni su investimenti in istruzione, formazione, ricer-ca e sviluppo, nonché su appropriate politiche in questi settori, visti sotto il profiloeconomico, non soltanto o prevalentemente, socio-culturale63.

A quarant’anni circa delle analisi di Denison, e sulla base di un apparato stati-stico ed econometrico molto più ricco di quello di cui si disponeva nel 1962, nuo-ve ricerche sulle fonti dello sviluppo giungono a conclusioni analoghe di quelle diallora. Eloquente a riguardo, la recente rassegna di Easterly e Levine64 con la qua-le, sulla base di dati di 21 Paesi dal 1940 al 1990, si documentano questi stilemi: a)il “residuo”, ossia la produttività totale dei fattori, conta molto di più dell’accumu-lazione dei fattori di produzione nello spiegare differenze di reddito e di crescita traPaesi; b) nel lungo periodo, tra Paesi e gruppi di Paesi i redditi pro capite divergo-no (invece di convergere); c) mentre l’accumulazione dei fattori è persistente, lacrescita non lo è, in quanto caratterizzata da pause e da interruzioni (a volte ancheprolungate e pure profonde); d) l’attività economica tende a concentrarsi nelle aree

43LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”

61 Denison (1962) e Denison (1967).62 Ad esempio, il Premio Nobel Gary Becker .63 Ad esempio, Bulgarelli, Giovine e Pennisi (1990) e Pennisi (1991). 64 Easterly e Levine (2001).

più ricche ed a maggior reddito; e) le politiche economiche nazionali sono stretta-mente associate con i tassi di crescita economica di lungo periodo. “Le analisi em-piriche – concludono Easterly e Levine – non vengono a supporto di modelli tradi-zionali basati su accumulazione di capitale, rendimenti decrescenti, rendimenti co-stanti di scala, e fattori di produzione fissi. Tuttavia, il lavoro empirico non distin-gue ancora tra le differenti definizioni e concezioni di produttività totale dei fatto-ri; gli economisti devono dedicare maggior tempo e maggiore attenzione a model-lizzare e quantizzare la produttività totale dei fattori”.

Il dibattito sul “capitale sociale” si inserisce in questo filone di ricerca su cosac’è alla base della produttività totale dei fattori. Eloquentemente, in uno dei suoi la-vori più recenti Dani Rodrik65 lo pone alla base del “nuovo pensiero sullo svilup-po” e il World Development Report 2001-2002 della Banca Mondiale66 è intera-mente dedicato al ruolo dell’informazione e della comunicazione nella formazionee crescita del “capitale sociale”. Fioriscono pure le analisi teoriche ed empiriche suinformazioni, comunicazione, emozioni, comportamento economico e “capitale so-ciale”67.

Come si è detto, il lavoro definitorio e concettuale su “capitale sociale” è statocondotto, in gran misura da sociologi e da scienziati della politica a cavallo tra la fi-ne degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta; solo nell’ultimo lustro il temaha interessato gli economisti. Veniamo ad una definizione economica, ove non eco-nomicistica, di “capitale sociale”. Da alcuni testi recenti68, si può ricavare questa:“il capitale sociale è la dimensione istituzionale delle transazioni, dei mercati e deicontratti tramite la quale si stabiliscono relazioni stabili, nonché basate sulla fidu-cia reciproca, e si condividono informazioni tra soggetti economici (individui, im-prese, Pubblica Amministrazione) tali da potenziare l’efficacia e l’efficienza delmodo di conseguire interessi collettivi ed individuali. È di particolare rilievo nel-l’analisi delle imperfezioni di mercato in cui sono in ballo beni pubblici o beni so-ciali/meritori. La “fiducia”, elemento di rilievo nel capitale sociale, viene inter-pretata, pure sotto il profilo formale in quanto aspettativa relative alle azioni deglialtri tale da determinare la scelta del corso di azione del soggetto in esame”.

Alcuni economisti69 considerano il “capitale sociale” come l’“anello mancate”per interpretare i processi di sviluppo, per prevederne i risultati probabili e per trac-ciarne il percorso, od influenzare quello “predeterminato” da esperienze storiche e

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65 Rodrik (2001).66 World Bank (2001).67 Elster (1999).68 Robison and Hanson (1995), Caroll (2001) , Robinson, Schmidt e Siles (2002).69 Ad esempio, Grooteart (1998).

valori culturali70. Anche se per la sua natura di concetto appartenente alla scuolaeconomica “neo-istituzionale”, la definizione stessa di “capitale sociale” non puònon avere connotati storico-sociologici ed anche psicologici, la stessa letteraturaeconomica distingue varie tipologie e dimensioni del “capitale sociale”. Il solo ele-mento unificante è che a differenza del capitale fisico o finanziario (ed in parte del-lo stesso capitale umano), il “capitale sociale” non diminuisce e non si erode conl’uso, ma al contrario aumenta e si arricchisce: a differenza del capitale fisico, fi-nanziario ed anche umano, il “capitale sociale” è relazionale e, quindi, cresce conl’interazione ripetuta di individui ed imprese nell’ambito di un gruppo o di un di-stretto o di una rete71. In una delle analisi economiche del concetto di “capitale so-ciale”72, prima ancora che la net economy ponesse la rete telematica tra gli elementicentrali degli studi in questo campo, si sottolinea come il volume di “capitale so-ciale” posseduto da una persona data dipende dalla dimensione del newtwork che èin grado di mobilizzare. Un’altra analisi, tra le pionestiche, di questa tematica73 po-ne enfasi sul ruolo dell’informazione e della comunicazione per far sì che il “capi-tale sociale” venga costruito come risorsa personale dell’individuo. Un filone piùrecente74 vede il ”capitale sociale” come proprietà di comunità e di gruppi (sia for-mali sia informali) e pone l’accento sulle crafting institutions (le istituzioni “arti-giane”, spesso esterne alla comunità ed al gruppo, che con incentivi creano e po-tenziano il “capitale sociale”); ancora una volta l’informazione e la comunicazionesono centrali alla costruzione ed all’arricchimento del network, aspetto fondante del“capitale sociale”.

In alcune versioni di questa scuola, il maggiore beneficiario del “capitale socia-le” è la società in senso lato; pur beneficiando una comunità od una società specifi-ca, il “capitale sociale” irradia l’intera società e modifica, in melius, l’interazioneeconomica interpersonale riducendo costi di transazione, selezione avversa e azzardo morale; in queste versioni l’informazione e la comunicazione hanno unruolo ancor più centrale, non solo nelle accezioni della letteratura sociologica e po-litologica75 ma anche in quelle rigorosamente economiche quali l’interpretazioneproposta in un recente saggio di Amartya Sen in cui si pone l’accento sul linguag-gio e sulla comunicazione come elementi fondanti del “capitale sociale”76.

45LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”

70 Nel senso di North (1990).71 Daspgupta and Serageldin (2000), Woolcock e Narayan (2000).72 Bordieu (1986).73 Coleman (1990).74 Ostrom (1990a, 1990b).75 Putman (1993).76 Sen (2000b).

Un aspetto significativo, e tale da distinguere nettamente il “capitale sociale” deri-vante dalla net economy dalle forme di “capitale sociale” maggiormente studiate –quelle dei “distretti industriali”77 – è che non richiede una base territoriale78; la neteconomy, anzi, contribuisce al “capitale sociale” proprio abbattendo distanze dispazio e di tempo e può, quindi, attivare e sostenere comunità “virtuali” in luoghi econtinenti molto lontani gli uni dagli altri.

Infine, un’interessante analisi recente di Bart Hobijn e Boyan Jovanovic79 spie-ga le relazioni tra news, net economy, capitale “nuovo e buono” e capitale “vecchioe cattivo”. L’analisi non sfiora il concetto di “capitale sociale” e guarda principal-mente al mercato azionario. Il modello elaborato da Hobijn e Jovanovic e la sua di-mostrazione econometrica documentano che la crisi delle borse del 1972-74, quan-do gli indici “si squagliarono”, la lenta ripresa delle quotazioni sino all’inizio degliAnni Ottanta, l’esuberanza sempre più accentuata da allora alla fine degli Anni No-vanta, la caduta degli ultimi 24 mesi o giù di lì devono essere letti come episodi diun solo grande, e lunge, fenomeno, annusato dalle news sin dall’inizio degli AnniSettanta: il capitale “buono” della new economy della tecnologia delle informazio-ni sta scacciando il capitale cattivo della vecchia economia delle ciminiere. Quan-do nel 1972 Intel ha sviluppato il primo micro-processore, è giunta “la notizia cheera arriva la tecnologia dell’informazioni e della comunicazione” e che la capitaliz-zazione azionaria della “vecchia economia” era sopravvalutata. Nel nostro contesto,il significato del lavoro è essenzialmente nel nesso tra news (pur solo annusate tra-mite “market sentiment”), net economy e capitale “nuovo e buono”, tra cui quello“sociale”.

3.2. Le informazioni, le news, i media e il capitale sociale

In aggiunta ad elaborazioni teoriche ed ad oltre 500 analisi empiriche pubblica-te negli ultimi dieci anni80, due lavori recenti sono particolarmente utili ad illustra-re l’interazione tra informazioni (intese in senso amplio e tale da includere le news,i media e la net economy), “capitale sociale”, funzionamento dei mercati e, quindi,crescita e sviluppo. Il primo è un’analisi econometrica degli effetti di benessere col-legabili a Cnbc, il principale canale digitale economico e finanziario della televi-

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77 Nella scuola ispirata, in vario modo, da Becattini (1987).78 Un’analisi recente molto interessante riguarda “capitale sociale” ed investimenti esteri diretti in Italia Mu-

dambi e Navarra (2002).79 Hobijn e Jovanovic (2001).80 Per una rassegna, Williamson (2000).

sione Usa81. Il secondo, redatto in stile di alta divulgazione e, quindi, accessibileanche a chi non è avvezzo al gergo ed alle formalizzazioni matematiche degli eco-nomisti, è un background paper commissionato in occasione della preparazionedell’ultimo World Development Report della Banca Mondiale, un volume che nel-l’edizione 2001-2002 riguarda interamente l’informazione, la comunicazione ed imercati e dedica, quindi, un capitolo all’interazione tra i media, compresi quellicollegati alla net economy, e lo sviluppo economico e sociale82. Dei due lavori, ilprimo si riferisce a un solo Paese, gli Stati Uniti, anche se Cnbc è diffusa in tutti iPaesi industriali (in Italia, ad esempio, è parte integrante del canale digitaleCnbcfn) ed in numerosi Paesi in sviluppo dell’Asia e dell’America Latina. Il se-condo è, invece, un’analisi comparata di 97 Paesi a vari stadi di sviluppo. Inoltre,dei due lavori, il primo pone l’accento sull’informazione finanziaria rispetto ad unfenomeno specifico di breve periodo: la “bolla” dei mercati azionari del 1997-2000. Il secondo, invece, si sofferma sugli aspetti strutturali ed istituzionali. Vedia-mone i punti salienti.

L’analisi del caso Cnbc porta alla conclusione che l’informazione è “estrema-mente efficace nell’influenzare le azioni e le reazioni” dei soggetti economici.L’“interazione strategica”, tra news, da un lato, e azioni di individui e di imprese,dall’altro, è tale, però, da farla diventare “una lama a doppio taglio” in quanto è“troppo efficace” nell’incidere; innesca, quindi, overshooting, “reazioni eccessive”,“magnificando qualsiasi brusio che inevitabilmente si infiltra nell’informazione”,aumentando, così, la “vulnerabilità dei mercati”, specialmente quelli finanziari (og-getto della verifica econometrica) in modo che può essere considerato “inefficientesotto il profilo sociale” ma “perfettamente razionale sotto il punto di vista dei sin-goli attori”. Proprio per mitigare i fenomeni di overshooting, nonché “l’indigestio-ne di informazioni su valori azionari ed obbligazionari”, è stato di recente propostoche la tecnologia venga utilizzata per mettere in funzione un “sistema mondiale diallarme” che, sviluppato dalle maggiori università e dai maggiori centri di ricerca,funzioni come “le previsioni del tempo” basate su modellistica molto avanzata; il“sistema” affiancherebbe la miriade di informazioni fornite dalla telematica ed aiu-terebbe a sceverare il grano dal loglio83. Il processo informazione-azione-reazionesi basa, infatti, su quello che un altro autore chiama efficacemente un “rito raziona-le”84 in cui l’“esuberanza” dei mercati non è “irrazionale”, come sostenuto nel tito-

47LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”

81 Morris e Shin (2001).82 Djankov, Caralee Mc Liesh, Shleifer (2001).83 Olsen e Cookson (2001).84 Chew (2001).

lo stesso di un recente libro di successo85 ma il frutto di “capitale sociale” di grup-po, ossia della comunità e della piazza “virtuali” creati ed alimentati dal condivide-re insieme le informazioni. È un “capitale sociale” che, per utilizzare il lessico del-la teoria dei giochi, si basa su giochi “ripetuti frequentemente” e sulla “fiducia” eco-nomica che essi comportano tra i soggetti coinvolti, senza differenziazioni di spa-zio e di tempo. Che il “capitale sociale” possa avere effetti perversi (quali l’ampli-ficazione della risposta alle news) od anche interamente negativi (si pensi al “capi-tale sociale” di associazioni con finalità da giudicarsi asociali, quali il “familismoamorale” o addirittura a delinquere, quali le mafie) è fenomeno noto e studiato dasociologi e da economisti86.

Lo studio empirico delle strutture dei media in 97 Paesi rafforza la rilevanza del-la comunità e della piazza “virtuali” nella costruzione e nello sviluppo del “capita-le sociale”. “Oggi più che mai prima d’ora, grazie a alti tassi d’alfabetizzazione,bassi costi di stampa, nuove tecnologie radio-televisive ed Internet, i media sonoimportantissimi nell’informare chi investe, chi consuma e chi fa commercio. Da unlato, i media in vernacolo, specialmente la radio, portano le informazione ed inco-raggiano lo sviluppo del mercato anche in zone geograficamente isolate. Da un al-tro, le informazioni e le analisi mediatiche sulle tematiche economiche mondiali,muovono i mercati dei cambi ed il commercio internazionale. I media, inoltre, for-niscono informazioni sui mercati politici, esponendo la corruzione e comportamen-ti non corretti sotto il profilo etico e dando una piattaforma per dare voce ad opi-nioni differenti su come si governa e sulla esigenze di riforma”. “Hanno, dunque,un impatto sulla politica e sui valori e rappresentano un supporto essenziale al cam-biamento istituzionale ed allo sviluppo del mercato”. “Le principali determinantiche rendono i media efficaci a produrre migliori risultati politici, economici e so-ciali (ossia allo sviluppo del “capitale sociale”) sono l’indipendenza (e la responsa-bilizzazione), la qualità e la copertura”. L’analisi empirica conclude che la strutturaproprietaria dei media è una determinante essenziale dell’indipendenza; la qualità,a sua volta, dipende dalla concorrenza e dall’accesso ad informazioni di interessepubblico, nonché ovviamente dalle capacità professionali di chi elabora e produceinformazione; l’ampliamento e la diversificazione della copertura comporta la ridu-zione all’accesso all’entrata nel settore, la partecipazione dei privati (specialmentenei Paesi in via di sviluppo ed in transizione), supporto ad iniziative su base comu-nitaria e non profit87.

48 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI

85 Shiller (2000). 86 Woolccook e Narayan (2000).87 Conclusioni analoghe si evincono da due lavori condotti nell’ambito della Scuola Superiore della Pubblica

Amministrazione.

Sempre nell’ambito del World Development Report 2001-2002 si suggerisce co-me la net economy, ed in particolare Internet, hanno aumentato, con la drastica ri-duzione dei costi nel settore, il potenziale di indipendenza, qualità e copertura deimedia: un’analisi comparata di 107 Paesi indica che 17 avevano posto, nel 2000,controlli significativi ad Internet88. Alcuni Paesi, quali la Corea del Nord, l’Irak,Myanmar e la Siria, restringono l’accesso tramite apposite norme inserite nei codi-ci penali. Altri stabiliscono il monopolio pubblico nell’offerta di Internet, restrin-gendo, quindi, l’accesso ad alcuni siti e monitorando l’informazione dall’estero; lofanno, però, con crescenti difficoltà, e costi, a ragione dell’abbattimento di distan-ze e di differenze temporali inerente proprio a Internet ed alle altre forme di neweconomy. I Paesi che controllano Internet sono anche quelli con gli indici più bassidi sviluppo umano, di minor sviluppo dei mercato, con tassi di crescita più conte-nuti e con gli indicatori di “capitale sociale” quali le reti associative basate su auto-regolazione ed auto-governo. Un lavoro econometrico89 recente suggerisce comun-que che Internet contribuisce ad un aumento dei lettori di news sia nel breve sia nellungo periodo; a breve termine, gli effetti sono proporzionali al potenziale di letto-ri in segmenti specializzati dell’informazione, mentre a lungo termine si stabilisceuna relazione tra la qualità dei siti e la persistenza dell’aumento dei lettori. La “con-divisione di informazioni”, le “relazioni stabili”, ed in varia misura, la “fiducia”, al-la base della definizione economica di “capitale sociale” sono, quindi, facilitate dal-l’informazione e dalle “comunità” e “piazze” “virtuali” innescate dai media ed ul-teriormente agevolate e facilitate dagli strumenti della net economy90.

In una prospettiva di analisi economica neo-istituzionale che svisceri i costi po-litici di transazione91, si può dire che, rispetto al “capitale sociale”, oltre ad inne-stare “giochi ripetuti” nell’ambito delle comunità effettive92 o “virtuali” in cui ope-rano, l’informazione ed i media hanno proprietà analoghe a quelle dell’istruzione:forniscono incentivi a basso potenziale che, se ben messi in atto e distribuiti, con-tribuiscono a ridurre asimmetrie informative (ed in certi casi anche posizionali) eda contenere fenomeni di selezione avversa e di azzardo morale, facilitando la “fi-ducia” che, come si è visto al paragrafo precedente, è centrale alla formazione edall’arricchimento di “capitale sociale”. Lo si ricava, tra l’altro da un recente lavoroempirico su 97 Paesi sul modo in cui mezzi d’informazione indipendenti e non

49LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”

88 Committee to protect journalists (2000).89 Pauwels (2001).90 Per un’analisi sociologica recente del “caso Italia”, Leto, Gallo, Abruzzese e altri (2001); per due rigorosa-

mente economiche (e con verifiche econometriche), Dellarocas (2001a), Dellarocas (2001b), Moulton, Madnick eSiegel (2001).

91 Dixit (1996).92 Besley e Prat (2001).

schierati influenzano le decisioni di voto consentendo una valutazione costi benefi-ci delle politiche del Governo in carica ed un esame di come si sia stato rispettatoil programma con il quali ci si era presentati agli elettori.

3.3. L’informazione e la valutazione come “capitale sociale”

I cenni ai lavori su media e “capitale sociale” ci portano ad un’altra riflessione:i nessi tra l’informazione in quanto risultato di un processo di valutazione e il “ca-pitale sociale”. È questa una materia da anni oggetto di attenzione da parte dei so-ciologi e degli studiosi di scienza della politica e di scienza dell’amministrazione93.Di recente, però, ha cominciato ad interessare economisti di prestigio, ad esempioil Premio Nobel Stiglitz94 ed il Direttore Generale Operations Evaluation della Ban-ca Mondiale95. Vediamone i punti salienti e come la net economy agisce su essi.

In primo luogo, gli economisti che si interessano all’informazione come risulta-to della valutazione e determinante del “capitale sociale” appartengono rigorosa-mente alla scuola “neo-istituzionale” nel senso chiarito da Williamson96 e specifi-cato ancora più puntualmente da Nugent97; secondo questa scuola, un’istituzione è“una serie di vincoli che governano le relazioni comportamentali tra individui e tragruppi”, definizione molto simile a quella che si è data di “capitale sociale” al para-grafo 3.1 di questo capitolo. A livello macro-economico – si pensi ai parametri delTrattato di Maastricht o del “patto” di crescita e stabilità tra i Paesi dell’Unione Mo-netaria Europea, oppure ancora ai programmi di stabilizzazione o di riassetto strut-turale definiti da Paesi in sviluppo o in transizione d’intesa con le istituzioni finan-ziarie internazionali –, la valutazione fornisce criteri e standard con cui esaminarel’efficacia delle politiche rispetto agli obiettivi prestabiliti, oppure di modificare gliobiettivi, se ciò appare utile; l’informazione sulla valutazione illumina i policy ma-kers (nonché l’opinione pubblica e l’opposizione) ed è parte integrante del quadrodi governance della società98.

La “net economy” è uno strumento particolarmente importante non solo per me-glio raccogliere e padroneggiare la vasta quantità di dati necessari per valutazionidi politiche macroeconomiche e strutturali, ma anche per diffonderne i risultati nel-

50 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI

93 Per un’efficace ed aggiornata rassegna, Bezzi (2001).94 Stiglitz in Picciotto e Weisner (2001).95 Picciotto (1998).96 Williamson (2000).97 Nugent (1998).98 Weiss (1998).

l’opinione pubblica sia in senso lato sia più specificatamente nelle “comunità” enelle “piazze virtuali” a cui si è fatto riferimento nel paragrafo precedente. In ag-giunta, la net economy rende la società meno gerarchica; “nessuno vede il taglio deltuo vestito e nessuna segretaria blocca il tuo accesso all’ufficio del direttore gene-rale o del Ministro se gli mandi le tue idee su supporto elettronico”99; i ricercatoripiù giovani non devono sfidare apertamente i professori più anziani per diffonderesulla rete-delle-reti i risultati delle loro analisi poiché è sufficiente che vengano lan-ciate su un sito Internet; si sgretola quella “deferenza” che nel mondo amministra-tivo e nel mondo accademico frena l’innovazione.

Ancora più significativa è l’informazione-valutazione a livello micro-economi-co, principalmente in organizzazione in cui gli “agenti” (dirigenti, funzionari) e le“agenzie” in nome e per conto di cui operano (il Consiglio di Amministrazione) cer-cano di perseguire obiettivi, pubblici o privati che essi siano. L’informazione-valu-tazione mette in atto un sistema di incentivi che avvicina la funzione di preferenzadell’“agente” a quella dell’“agenzia” e ne evidenzia eventuali discrepanze, conte-nendo, in tal modo, comportamenti opportunistici ed inducendo l’intera organizza-zione all’apprendimento. Nel settore pubblico, l’informazione-valutazione sostitui-sce in gran misura la revisione contabile richieste nel settore privato dalle autoritàdi vigilanza sulla corporate governance.

L’informazione-valutazione contribuisce a tre funzioni chiave alla base del “ca-pitale sociale” e del suo arricchimento: a) l’azione collettiva; b) la partecipazione;c) il coordinamento. Lo fa – ed è questo il punto nodale – tramite misure di merca-to, ossia incentivi a rispondere agli obiettivi definiti od a modificarli in via parteci-pativa od a meglio individuare i comportamenti opportunistici ed a sanzionarli inmodo coordinato. Per un’indicazione controfattuale – tra le tante che si potrebberooffrire – si pensi alla vicenda, nell’Italia degli Anni Ottanta, del tentativo di non ren-dere note alla stampa ed al pubblico le valutazione tecniche sui progetti che con-correvano a finanziamenti a valere sul Fondo Investimenti e Occupazione, Fio100;essa portò alle dimissioni dello stesso Ministro in carica proprio in quanto il conte-sto istituzionale stava cambiando, ed il “capitale sociale” crescendo, molto più ra-pidamente di quanto venisse percepito dalle stesse autorità di Governo, e ponendosempre più marcatamente l’accento sull’informazione-valutazione dell’attività digoverno, come ricordato al termine del paragrafo precedente.

In società democratiche in cui né lo Stato né le organizzazioni private hanno lapotestà di definire e condurre unilateralmente le proprie azioni, l’azione collettiva è

51LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”

99 The Economist, Nov. 10, 2001.100 Pennisi e Peterlini (1987).

il frutto di negoziati101, le cui regole sono vincolate da meccanismi di responsabi-lizzazione in termini, ad esempio, di reputazione e di credibilità. L’informazione-valutazione è uno strumento importante per superare asimmetrie informative, spe-cialmente tra “agenzie” ed “agenti”, nonché tra individui e gruppi sociali in diffe-rente grado di accesso all’informazione e per contenere fenomeni di selezione av-versa e di rischio morale. Le organizzazioni di cooperazione allo sviluppo per gliaiuti ai Paesi a basso reddito medio hanno elaborato una casistica molto ampia del-l’informazione-valutazione come grimaldello per l’azione collettiva102. Una com-ponente significativa delle strategie per le aree in ritardo dell’Unione Europea e del-l’Italia, si basa proprio sull’informazione-valutazione come strumento per l’“azio-ne collettiva” di organizzazioni, enti e gruppi molto diversi103. I metodi e le proce-dure per concorrere a fondi strutturali ed agli altri “sportelli” europei rappresentanoun altro esempio di come anche tramite il lessico, come indicato da Sen104, si abbiasviluppo di “capitale sociale” tra la “comunità” europea di coloro interessati alla va-lutazione di piani e progetti. La net economy ha ridotto costi di transazione di di-stanza e di tempo, inciso positivamente, quindi, su selezione avversa e azzardo mo-rale e facilitato la formazione e la crescita di tale forma di “capitale sociale”.

Una valutazione partecipativa o partecipata105 accresce ulteriormente il poten-ziale dell’informazione-valutazione nella formazione di “capitale sociale”. Picciot-to (2001) e Carroll (2001) descrivono o citano molti casi, principalmente di Paesiin via di sviluppo, in cui la informazione-valutazione non solo ha contribuito allaformazione di “capitale sociale” ma è stata anche strumento per privatizzazioni edevoluzione di funzioni a enti territoriali o funzionali. La letteratura di uno Statomolto centralizzato, come la Francia, ha sviluppato una casistica molto ricca106 diinformazione-valutazione come strumento per il decentramento attuato a partiredalla fine degli Anni Ottanta.

Non mancano esempi italiani di informazione-valutazione, specialmente perl’innovazione tecnologica, utilizzata, grazie all’impiego della net economy, per laformazione di “capitale sociale” tra distretti differenti e distanti107. L’informazione-

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101 Olson (1965).102 Si pensi alle tecniche di rapid rural appraisal, segnatamente nelle forme “partecipative” divenute ormai

prassi dell’allestimento di progetti nel settore agricolo (Fanciullacci, Guelfi, Pennisi, 1991) oppure di tecniche ana-loghe nel settore dell’istruzione e della formazione (Pennisi, 1991).

103 Ci si riferisce, ad esempio, ai contratti d’area ed ai patti territoriali (Viesti, 2001).104 Sen (2000b). 105 Palumbo (2001).106 Warin (1993).107 Scuola Superiore Sant’Anna (2001).

valutazione partecipativa si scontra con vincoli severi quando le parti in causa han-no interessi e punti di vista divergenti, specialmente se il contesto in cui avviene lavalutazione è incerto e volatile; ha potenzialità ma anche limiti anche importanti:espone chi deve prendere decisioni a pregiudizi ed a gruppi di pressione che posso-no sia fuorviare la valutazione sia avere effetti negativi, piuttosto che positivi, sul“capitale sociale”.

L’informazione-valutazione, infine, contribuisce a risolvere una grande varietàdi problemi di coordinamento108, specialmente in un contesto di devoluzione e/o de-centramento: l’“apprendimento sociale” viene facilitato tramite forme di monito-raggio che si basano sull’informazione-valutazione109 e promuovono la coopera-zione, e quindi l’azione collettiva, tra i soggetti coinvolti.

Cerchiamo ora di tirare le fila. Nella prima parte diquesto capitolo abbiamo tratteggiato come due deter-minanti parallele (l’integrazione economica interna-zionale, da un lato, e la new economy, dall’altro) met-tano in crisi la politica economica come comunemen-te intesa ed insegnata negli ultimi 50 anni: a cavallo trail XX ed il XXI secolo siamo alla prese con un’altra“fine”, quali la “fine” della Storia, della crescita e dei“miracoli economici” che hanno caratterizzato il pas-

saggio tra un decennio e l’altro110; estremizzando per meglio trasmettere il puntocentrale, siamo alla vigilia della politica economica. Nella seconda, invece, esplo-riamo come la new economy possa attivare un nuovo lungo ciclo di sviluppo, ope-rando sulla formazione ed arricchimento del “capitale sociale”, premessa, a sua vol-ta, di aumenti di lungo periodo della produttività multifatturiale, nonché di una mi-gliore creazione e distribuzione di reddito. Abbiamo delineato alcuni casi (informa-zioni, media, valutazione) in cui il nesso tra net economy e “capitale sociale” appa-re robusto. Altri sono in corso di studio (ad esempio, l’interazione tra net economy,“capitale sociale” ed export e quella tra i nuovi paradigmi tecnico economici e mer-cato del lavoro). Alcuni aspetti vengono trattati nei capitoli successivi di questo la-voro.

4Conclusione

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108 Come è noto, la disciplina economica che studia i costi di transazione pone l’accento sul rapporto tra costidi transazione e costi di coordinamento (Williamson, O.E. 1987).

109 Sabel (1994). Molto interessante l’analisi di Cooke e Morgan (1998).110 Janossy (1966), Meadow, Meadows, Randers e Behrens (1972), Fukuyama (1989).

L’analisi sin qui condotta porta comunque ad una conclusione: per la Pa nellasua funzione di collaborazione alla formulazione ed alla attuazione delle politicheeconomiche (e per i consulenti e consiglieri dell’Esecutivo e del Legislativo), la neteconomy pone non tanto un problema di file, bytes, chips, computers e collegamentioppure (in una concezione più vasta) un modo di ripensare le proprie procedure, adesempio per il fisco, per gli acquisti di beni e servizi e per il mercato del lavoro, op-pure ancora di riscrivere il proprio organigramma e funzionigramma in una formaa matrice non gerarchizzata. È qualcosa di molto più importante: vuol dire ripensa-re le politiche pubbliche mettendo ad esse come perno “il capitale sociale” ed uti-lizzando, con appropriati incentivi e disincentivi, l’enorme potenziale offerto dallanet economy.

Non siamo forse alla vigilia del vagheggiato “nuovo miracolo economico”111.Non siamo, però, neanche alla “fine della Storia”. Anzi come nel 1937, affermava,con un’ultima indimenticabile battuta Louis Jouvet chiudendo una “pièce” di JeanGriraudoux: “tutto ciò ha un nome molto bello: è l’aurora!”112 , l’inizio, quindi, del-la Storia.

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111 Modigliani, Baldassarri, Castiglionesi (2000).112 Giraudoux (1937).

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