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Gli Angeli del Bar di Fronte

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Elena Genero Santoro, mainstream Chiara, italiana e Paula, rumena. Due giovani voci in una Torino autunnale e desolata. Due ragazze che vivono di lavori umili. Chiara serve ai tavoli di un bar malfamato, Paula fa la badante in nero. Tra di loro, un gruppo di ragazzi rumeni che ha tutta l’aria di essere una banda. Una sera, quello che pare essere il capo, Vic, salva Chiara da un tentativo di stupro da parte di due di loro. Chiara vorrebbe sporgere denuncia, ma Vic, che è tanto affascinante quanto ambiguo, le chiede di non farlo, in cambio della sua protezione. Nel frattempo l’ingenua Paula sogna l’amore, ma ripone tutte le sue speranze nell’uomo più sbagliato che ci possa essere. Un romanzo contro i pregiudizi e contro la violenza, che ha il sapore di una fiaba moderna.

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In uscita il 25/11/2014 (15,70 euro)

Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2014 e inizio gennaio

2015 (5,99 euro)

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ELENA GENERO SANTORO

GLI ANGELI DEL BAR DI FRONTE

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GLI ANGELI DEL BAR DI FRONTE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-811-4 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Il Cielo su Torino sembra ridere al mio fianco (Subsonica)

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Prologo Padronanza assoluta. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel movi-mento. Quelle tre palline rosse nelle sue mani avevano completamente catturato la mia attenzione. Quell’artista di strada, accovacciato per ter-ra, su un giaciglio improvvisato, non si stava esibendo. Stava solo gio-cherellando a tempo perso. Forse aveva già tenuto il suo numero, quella sera, e ora bivaccava stanco, in attesa di qualcosa. Tuttavia i suoi gesti erano perfetti e misurati. Quelle tre palline appartenevano alle sue mani e avrebbero compiuto qualunque fluttuazione lui avesse loro imposto. Continuavo a osservarlo rapita. Lui non pareva farci caso. Attorno a noi una fiumana di gente che andava e veniva. C’era la Sagra del Peperone a Carmagnola. Era un evento che durava una decina di giorni: nel cen-tro storico venivano allestiti stand fieristici, padiglioni, attrazioni varie, musica nelle principali piazze, luci ovunque e intrattenitori dappertutto. Carmagnola era un grosso paesone dove in genere non accadeva nulla di nulla. Diceva la mia amica Noemi, i cui nonni vivevano lì, che i loca-li commerciali erano tutti in mano a una mafia, per cui aprire anche so-lo una pizzeria era un’impresa impossibile. In effetti, la sera c’era il coprifuoco: Piazza Sant’Agostino deserta, non girava un’anima, per le strade non c’era nessuno. Ma in quei dieci giorni di fiera tra la fine ago-sto e l’inizio di settembre cambiava tutto. Il mondo intero confluiva lì. In Piazza Sant’Agostino allestivano un palco e veniva inscenato uno spettacolo, di musica o di cabaret, diverso ogni sera. Di sabato ingag-giavano pure qualcuno di conosciuto. Altrimenti si esibivano professio-nisti meno noti e le viuzze del centro storico si popolavano di pagliacci, trampolieri e acrobati. Quell’anno mi ero fatta coinvolgere da Noemi e dal suo fidanzato, Si-mone, e mentre attendevo che quest’ultimo comprasse gelato al pepe-rone per tutti, mi ero lasciata incantare per caso dalle mani di quel ra-gazzo che continuava a lanciare per aria e ad afferrare le tre palline ros-se. Non riuscivo nemmeno a distinguere bene il suo viso, perché si era dipinto la faccia di bianco come i clown ed era malamente illuminato dalla luce giallognola del lampione. Finché, a un certo punto, il gioco-

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liere non fu distratto da qualcosa, distolse lo sguardo, e una delle palli-ne gli scappò via, rotolando fino ai miei piedi. In quel momento Simone, col gelato in mano, mi chiamò. Mi voltai e lo raggiunsi, non senza aver prima ricevuto uno spintone da un passante. Poi cercai di nuovo il ragazzo con lo sguardo, ma non c’era più, doveva essersene andato. Mi resi conto in quell’istante che in quelle mani sicu-re avevo lasciato un pezzo del mio cuore.

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Settembre 2013

1. Chiara Alzarsi al mattino era sempre più dura. La notte facevo spesso le tre e poi ero stanca morta. No, non mi dedicavo ai bagordi. Magari avessi avuto di che festeggiare. Lavoravo, invece. In un malfamato bar di To-rino, di quelli che aprivano più tardi al mattino, ma che poi la sera an-davano avanti a oltranza, situato dalle parti di Porta Palazzo. Il nome del locale era “Il Bar di Fronte”, ed era sottointeso, a detta del gestore, che quel nome intendesse “il bar di fronte al tiglio più bello del contro-viale”. Dovevo convenire che c’era veramente una pianta imponente, nel raggio di pochi metri, ma da lì ad affermare che il significato del nome del bar fosse così scontato, ce ne passava. Mio padre era morto l’anno prima e a casa i soldi iniziavano a scarseg-giare. Un tempo eravamo benestanti, ma poi con la crisi, il decesso del babbo e la depressione di mia madre c’era stato qualche problema. Mia sorella Eleonora oramai si era sposata, viveva a Milano, non la vede-vamo di frequente. Sicuramente stava molto meglio di noi. In casa, un ampio alloggio di un edificio dalla facciata eclettica situato in via Ci-brario, ormai c’eravamo solo io e la mamma, anche se lei viveva rinta-nata nella sua stanza, dormiva tutto il giorno e si nutriva di antidepres-sivi. Averci a che fare non era piacevole e stavo meditando di trasferir-mi dalla mia amica Anna, per lo meno per un po’, anche se questo a-vrebbe implicato ulteriore esborso di denaro. Eppure stavo valutando l’idea, se non altro perché dovevo terminare gli studi, concludere una volta per tutte, e invece non ne venivo a capo. Mi mancava poco, dove-vo finire di scrivere la tesi e trovare il tempo di discuterla, ma, da quan-

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do avevo iniziato a lavorare al bar, ero sempre distrutta e non avevo mai né la testa né la voglia di accendere quel dannato computer e appli-carmici. Il professore si stava seccando. Sperava di vedermi un po’ più presente nella Facoltà di Fisica, per lo meno nei laboratori, dove avevo il materiale da analizzare. La verità era che a lui i miei dati servivano, con urgenza per giunta, perché doveva rivenderseli il più in fretta pos-sibile e trarne del lustro, ma io ormai ero nell’impasse più inerte e se-guitavo a non dargli alcuna soddisfazione. Comunque, al mattino bivaccavo abbastanza e mi trascinavo fino al primo pomeriggio quando era ora di prendere servizio. Quando arriva-vo, trafelata perché il tram era sempre in ritardo, Armando, il proprieta-rio, era già lì. E poco dopo il bar si popolava di alcuni individui, sempre più o meno gli stessi, che di fatto erano i cosiddetti “clienti fissi”. A lungo mi ero stupita della fedeltà di quei figuri, che incuranti del fatto che il bar fosse una vera bettola non avevano mai tradito Armando con il suo dirimpettaio, solo un po’ più decente, al di là del viale. Probabil-mente erano in cerca di un surrogato di famiglia, e con Armando si sen-tivano a casa. Ciò di cui avevo avuto modo di rendermi conto era che Armando era un ottimo ascoltatore: discreto, molto empatico, insomma, alla gente piaceva. Un barista nato, dunque, almeno secondo i miei ca-noni. Chissà perché allora non dava al suo locale un tono più trendy, e conti-nuava invece a lasciare che fosse un bugigattolo dall’arredamento spar-tano e dall’aspetto mai troppo pulito, per quanto io mi spezzassi la schiena a fregare i pavimenti dopo la chiusura. Evidentemente ad Ar-mando conveniva mantenere quell’assetto. Forse la sua era una scelta economica. Comunque di soldi ne faceva. E poi teneva anche le mac-chinette, quelle che alcuni clienti con il vizio del gioco foraggiavano quasi quotidianamente. Tra i clienti fissi c’era Giovanni, un uomo di circa cinquant’anni portati malissimo. Su Giovanni, come sugli altri, Armando non esprimeva giu-dizi, ma io ero abbastanza sicura che quel poveretto, cassa integrato da mesi, fosse ipocondriaco. Non era chiaro se l’assenza di lavoro fosse la causa o l’effetto del suo disagio, ma ogni giorno arrivava a farsi il suo cicchetto tenendo in mano un referto medico e poi ci ammorbava tutti con l’esito della più recente colonscopia, o della tac alla colonna verte-brale. Nell’ultimo periodo, diceva, gli era venuto mal di schiena, e bi-

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sognava capire se il problema fosse un’ernia che quasi sicuramente gli era uscita, o il colon irritabile. Era stato seguito da diversi medici, e nessuno di loro sembrava dello stesso parere: chi propendeva per l’ernia, chi per l’intestino. Io non sapevo se credere a tutto ciò che rac-contava e pensare, come lui, che il servizio sanitario nazionale fosse composto da una manica di incompetenti, oppure se propendere per la mia idea iniziale: tutte quelle analisi, tutti quegli esami, non erano frutto dell’incompetenza dei medici, ma delle sue continue richieste. Dunque Giovanni poteva essere un malato immaginario. Certo era, però, che soffriva. Poi, come sempre, quel giorno arrivò Carla. Carla era una disoccupata sulla trentina e oltre, piccola, magra, scura di pelle, con un taglio di ca-pelli da dura, alcuni tatuaggi disseminati lungo il corpo e una gravidan-za in stato avanzato. Del padre del nascituro, un maschio, non c’era traccia e lei non ne parlava mai. Di solito entrava e si accomodava al bancone, che ormai toccava con la pancia, e chiedeva da bere. In genere prendeva una bibita, ma qualche volta si concedeva pure qualcosa di alcolico. Ogni tanto si sedeva alle macchinette e faceva qualche punta-ta, perdendo regolarmente qualche decina di euro. Non avevo idea di come campasse, visto che non aveva un reddito fisso, e nemmeno pote-va impiegarsi in lavoretti saltuari di impatto fisico, dato che era incinta. Ipotizzavo che potesse essere depressa per trascorrere le sue giornate con un bicchiere in mano in un bar dall’aspetto discutibile e frequentato da gentaglia. E pensare che, a vederla così, mi sembrava una donna dall’intelligenza vivace e dalle molte risorse. Perché perdeva tempo sul bancone di Armando? Comunque, in effetti, non la conoscevo a suffi-cienza per poter avere su di lei un’idea precisa. E poi c’erano i rumeni. Il bar di Armando aveva come clienti fissi un gruppo di perdigiorno provenienti dall’est Europa, che si incontravano sempre allo stesso tavolino, si riempivano la pancia di birra e spende-vano ore e ore fino a tarda sera discutendo di qualcosa nella loro lingua d’origine. Il bar di Armando era territorio loro, a differenza di quello di fronte che era popolato da nordafricani: marocchini, magrebini, algeri-ni, non avrei saputo distinguerli. A me i nordafricani parevano tutti u-guali, anche se sicuramente ero io che non riuscivo a coglierne le diffe-renze. Parlavano un italiano approssimativo mangiandosi sempre le vocali.

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Invece da Armando c’erano i rumeni. All’inizio non li avevo focalizzati bene, tuttavia ogni giorno erano almeno in quattro o cinque. Dopo un po’ avevo iniziato a riconoscerli e avevo pure imparato i loro nomi. C’era Constantin, che era alto, segaligno, con i capelli scuri. Poi c’era Ciprian, che invece era biondo con gli occhi azzurri. Sarebbe stato un bel ragazzo, se non fosse stato decisamente troppo grosso, con una gran pancia che si gonfiava ulteriormente non appena ci buttava dentro litri e litri di birra. Ogni tanto poi faceva la sua apparizione Gogu, che era mingherlino, bruno e aveva un’aria scaltra. Meno frequente era la pre-senza di Istrate, biondissimo e parecchio arrogante. Aveva i capelli ricci di un angelo, ma uno sguardo strafottente e irritante. Istrate non veniva spesso, ma, quando c’era, era impossibile non accorgersene: a volte persino Armando, con la sua aria flemmatica e il suo fare perennemente bonario, aveva dovuto riprenderlo e chiedergli di darsi un contegno e di togliere i piedi dal tavolo. I rumeni erano sempre abbastanza chiassosi e la loro presenza si notava. Quando c’erano loro, non era inusuale che gli altri presenti mostrassero fastidio o pagassero la consumazione in fretta per uscire al più presto. Ero abbastanza sicura che Armando a-vrebbe dovuto vietare loro l’ingresso, perché gli facevano perdere clienti, ma forse lui si era fatto bene i suoi conti e aveva valutato che le birre dei rumeni compensavano i caffè di altri ospiti di passaggio. E poi Porta Palazzo era una zona alquanto degradata: non stavamo nella To-rino bene, non c’era clientela snob da quelle parti. Solo uno dei rumeni si distingueva per la sua presenza silenziosa. Il suo nome era Victor, anche se tutti lo chiamavano Vic, e mi ero fatta l’idea che fosse una specie di capo di quella sgangherata banda. Vic aveva la pelle chiara, gli occhi azzurri e i capelli castani, chiari e lisci, corti sulla nuca, che gli cadevano più lunghi sulla fronte. I suoi tratti erano regola-ri, aveva gli zigomi alti e lo sguardo sfuggente e freddo. Di statura me-dia, aveva un fisico asciutto e le spalle larghe. Vic parlava poco. Di so-lito sedeva a braccia conserte e si guardava intorno. Eppure, quando apriva bocca, gli altri lo stavano a sentire. Doveva avere un forte ascen-dente sui suoi compagni, e a vederlo sempre così misurato, e al con-tempo così vigile, attento, e padrone della situazione, non me ne stupi-vo. Mi sembrava che nel suo modo di presentarsi, o di porsi, anche in quello di vestirsi, fosse sempre essenziale. Non compieva un gesto, non diceva una parola più del necessario. Indossava abiti semplici, - una

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dolcevita, un paio di jeans, talvolta una giacca, - ma di buon taglio, mai pacchiani. La sua freddezza e il suo distacco mi intimorivano, eppure mi accorge-vo di osservarlo spesso. Lui non si lasciava andare a fragorose risate. Lui non usciva mai dal bar con la pancia gonfia di birra, al massimo beveva una media, e questo dettaglio mi piaceva. Forse perché era il capo, forse perché teneva in pugno la situazione, doveva essere sempre presente a se stesso. Non si comportava come Ciprian, che si imbottiva di alcolici per poi mettersi in un angolo con gli occhi rossi e le guance rubizze; e nemmeno come Istrate, che, una volta ubriaco, iniziava a sproloquiare e ad attaccare briga con qualcuno, mentre il suo bellissimo viso si deformava in una smorfia odiosa e i suoi capelli ondulati si sparpagliavano in tutte le direzioni. Vic era diverso, in un certo senso superiore, e mi incuteva timore. Quella sera attendevo solo di chiudere e filare a casa. Armando se n’era andato mezz’ora prima. Carla e Giovanni anche. Mezzanotte era passa-ta e i piedi mi dolevano non poco. E poi dovevo telefonare a Luigi, il mio ragazzo. Gogu, con quel suo ghigno strano, quella sua faccia bef-farda, si era avvicinato alla cassa come per pagare, ma voleva fare il furbo, insisteva, nel suo italiano mediocre, a dirmi che dovevo dargli più resto. Appena Vic si rese conto di ciò che stava accadendo, si alzò e ci raggiunse. Lanciò uno sguardo gelido al suo compagno e gli bisbigliò qualcosa in rumeno che non riuscii a comprendere, ma che nella mia testa significò: «Non fare l’idiota, non puoi permetterti di fregare la cameriera del bar da cui ti servi abitualmente». Sta di fatto che un secondo dopo Gogu mi diede tutto il denaro che mi spettava. Mi accorsi che gli occhi di Vic si erano posati su di me e ci lessi una sorta di condiscendenza. Durò un attimo, poi lui e i suoi com-pagni uscirono dal locale e io rimasi sola al bancone.

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2. Paula La naiba. Avevo rotto una cornice e mi ero fatta male. Sperai che al-meno non portasse sfortuna. E poi dopo l’avrei dovuta anche pagare, perché non era mia. Stava sulla cassettiera della signora Gianna e io dovevo pulirla. Mi ero giocata la paga di quel giorno. Forse anche quel-la della settimana a venire. Ma Gianna mi versava i contributi e quindi pretendeva che fosse tutto in regola. E se io rompevo, io pagavo. Di solito non rompevo, ma quel giorno ero stanca. Come dicono da queste parti, non connettevo. Nonno Giorgio, quello con cui vivevo, quella notte mi aveva svegliato sei volte. Sei! Una volta voleva bere, una volta aveva urinato nel pan-nolone, una volta voleva ancora bere, poi aveva avuto un incubo, poi aveva di nuovo urinato e infine aveva bisogno di compagnia. Aveva in mente un episodio della seconda guerra mondiale che doveva a tutti i costi raccontarmi. Non ci avevo capito molto, lui farfugliava in dialetto, ma credo che avesse qualcosa sulla coscienza di cui non riusciva a libe-rarsi, e ora che era anziano e forse sentiva la fine vicina, ora che non ricordava nemmeno cosa aveva fatto il giorno prima, era ossessionato da qualche avvenimento del passato o forse da qualche fantasma con cui non poteva pacificarsi. Mia madre, quando gliene ebbi parlato, mi chiese se qualcuno non gli avesse fatto il malocchio, perché a lei pareva probabile che comportamenti del genere potessero essere il frutto di qualche maledizione lanciata da un invidioso, oppure, dato che il nonno diceva e pensava cose strane, la sua idiozia poteva essere conseguenza di una sarta che gli aveva puntato l’orlo dei pantaloni dopo averglieli fatti indossare. Invece la figlia di nonno Giorgio, Caterina, mi aveva raccontato una cosa del tutto diversa, mi aveva spiegato che suo padre era malato di demenza senile e che il suo cervello stava degradando progressivamente. Diceva che capitava, negli anziani. Era un fenomeno naturale. Di fatto mia madre continuava a consigliarmi di fuggire da quella casa, infestata evidentemente da qualche forma di maledizione,

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ma io non potevo permettermelo. Mi fornivano un tetto e una retribu-zione, e poi avevano il terrazzo, - a me le piante erano sempre piaciute, e mi avevano permesso di seminare e coltivare alcuni fiori che amavo particolarmente, - insomma, avevo di che campare e tutto sommato sta-vo bene. Certo non stavo facendo ciò per cui avevo studiato. Ero un perito elettronico, ma nella mia regione non c’era possibilità di impie-go, così ero arrivata in Italia l’anno precedente, accettando il lavoro di colf e badante, nella speranza di trovare di meglio, prima o poi. Solo che non saltava fuori un bel niente, e allora, per racimolare uno stipen-dio decente, mi toccava arrabattarmi come badante residente di notte e come colf a casa di alcune famiglie del circondario di giorno. Non pos-sedevo l’auto, dunque mi spostavo a Torino con i mezzi pubblici, che spesso erano in ritardo. Gianna quella mattina era già indisposta per via del fatto che, appunto, non ero arrivata puntuale e lei doveva andare al lavoro, doveva bollare il cartellino, e prima di ciò portare i due figli a scuola. O meglio, il grande a scuola, in prima elementare, e il piccolo all’asilo. Comunque, era nervosa e io mi domandavo che reazione a-vrebbe avuto di fronte alla cornice spaccata. Gianna non era cattiva, ma a volte era un po’ lunatica. Sapeva essere simpatica da morire, quando ci si metteva, ma era scostante. Non so se avere bambini piccoli la ren-desse tanto instabile, o se lei fosse sempre stata così. C’erano giorni in cui pretendeva di farmi da mamma, in cui mi dispensava buoni consigli, o almeno ci provava, (in fondo aveva solo pochi anni meno di mia ma-dre), altri in cui mi spronava a cercare un impiego più adatto alle mie competenze, e poi c’erano i giorni in cui mi lanciava strane occhiate come se disapprovasse totalmente il mio lavoro oppure altri in cui stra-buzzava gli occhi quando le parlavo di mia madre e dei suggerimenti che mi elargiva. Intuivo nel suo sguardo un misto di compassione e di-sprezzo quando le raccontavo che per togliere il malocchio ai bambini gli si fa indossare un nastrino rosso, dalle nostre parti. Mi aveva chiesto più volte: «Ma tu davvero credi a quelle cose?». E io le rispondevo puntualmente: «Non lo so, la nostra Chiesa Ortodossa dice di non darci retta. Io non so se ci credo o no, non me lo domando neanche, perché per noi è una tra-dizione, a parte tutto».

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A quel punto lei cambiava argomento, dopo avermi guardato con rin-novata sorpresa e commiserazione. Forse se lei avesse messo un brac-cialetto rosso a suo figlio Marco non sarebbe stato un male: quel picco-letto di quattro anni si arrampicava dappertutto, e ogni volta cadeva, si spellava, piangeva. Era un disastro. L’altro, Mario, il più grande, era un po’ più tranquillo, amava disegnare, però talvolta attaccava con dei ca-pricci incontrollabili. Supponevo che a Gianna mancasse suo marito, e che pure ai suoi figli mancasse il padre: non perché fosse morto, ma perché si faceva vedere assai poco. In teoria quel tipo lavorava fino a tardi, in pratica a me sembrava che si facesse beatamente i fatti suoi. Comunque, quando os-servavo quella coppia, mi passava la voglia di sognare un futuro come sposa. Tanto il problema non si poneva, avevo già ventun anni, ma non ero ancora fidanzata. Presto però in famiglia ci sarebbe stato il matri-monio di mia cugina Daniela.

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3. Chiara Mia sorella Eleonora venne a prendermi alle sette di sera. Era a Torino per lavoro, un corso d’aggiornamento organizzato dalla banca, si sareb-be fermata fino al giorno dopo e con l’occasione era passata a salutare la mamma. Io avevo chiesto un permesso ad Armando per poter uscire prima e lui non aveva obiettato. Quella sera non c’era molta gente, ma era passata Carla con una novità: si era presa un cane, un poco più che cucciolo che sarebbe presto diventato un animale di grandi dimensioni. Io mi domandavo se fosse impazzita: incinta, depressa, senza lavoro, le mancava solo il cane. Forse le mancava per davvero. Forse la solitudine era davvero troppa. Non volli domandarmi come avrebbe fatto una vol-ta nato il bambino, se non se lo chiedeva lei, non era il caso che mi ci angosciassi io. La bestiola era simpatica e dolce, era un incrocio con un maremmano, ma non ebbi il tempo di soffermarmici. Orecchiai solo che Carla intendeva chiamarlo Smash, e non compresi come le fosse venuto in mente un nome del genere. I rumeni invece, per qualche ragione, non si erano visti, e non mi erano mancati. La loro presenza, di solito, mi provocava sempre un po’ di agitazione. Eleonora era sempre stata di gusti raffinati e di appetito scarso, così mi portò all’Hafa Café di via Sant’Agostino, un ristorante marocchino del Quadrilatero, geograficamente non troppo distante dal bar di Armando, ma con ambizioni smisurate, rispetto al posto in cui lavoravo io. L’Hafa Café era il top del glamour e aveva una fama supportata da fior di re-censioni su internet. Quindi era tagliato su misura per mia sorella. Ci accomodammo in una saletta dietro a un arco acuto, ricavato in una pa-rete dai muri spessi e dai colori ambrati. Sul tavolino di legno era posto un lume che creava una certa atmosfera. Sulle sedie e sugli schienali c’erano dei cuscini imbottiti dalle tinte accese. Eleonora si ravvivò i riccioli biondi che le cadevano morbidi sulle spal-le. Lei era sempre stata quella bella, tra le due, più magra, con gli occhi

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azzurri e i capelli più chiari e inanellati. Io invece avevo i capelli lisci, color miele, e gli occhi castani. Lei era sempre stata quella piena di fi-danzati. E infatti si era sposata presto, con quel Filippo, manager a Mi-lano, patito di tennis, di sci, di libri d’arte, di vini pregiati e di altre a-menità mediamente costose. «Sono passata a trovare la mamma. Non sta bene» esordì lei. Lo sapevo pure io, anche se cercavo il più possibile di dimenticarmelo. «Le segue le sue cure? Le stai dietro?». «Non so, Ele… Ci provo, ma poi lavoro, sono spesso fuori casa…». «Mi posso fidare di te, Chiara? A volte ne dubito. Dovresti essere più responsabile, cosa che non sei». Parlava lei che abitava a duecento chi-lometri. «In che senso?» cominciavo a seccarmi. Avevo intuito che ci sarebbe stata una paternale, ma ne ignoravo la portata. «Guardati! Quando hai intenzione di finirla, la tua università?». «Non lo so… Col bar se ne vanno tante ore!». «Appunto» aggiunse buttando un occhio nel menù. «Parliamo di questo bar. Ti sta facendo perdere un sacco di tempo». «Ele» cominciavo a esasperarmi, «dobbiamo pure campare!». «Vi passo io dei soldi!». «Non bastano». «E allora cerca un impiego più consono! Quella bettola è un vero schi-fo, frequentata da gente dubbia. Se proprio ti va di fare la cameriera, trovati un locale come questo, per esempio. E poi sbrigati a chiudere con Fisica, almeno dopo ti si aprirebbero le porte del mondo del lavoro, quello vero, intendo…». Distolsi lo sguardo tentando di non ascoltarla, e fu allora che vidi Vic. Era seduto poco più in là, con un tizio, che non era uno dei suoi compa-ri e forse non era nemmeno rumeno. Non lo avevo mai incontrato al di fuori del contesto di Armando, e la cosa mi sembrava fuori luogo. Ep-pure Vic in quel posto raffinato non stonava. Mi misi a osservarlo. Sta-va cenando e parlando e notai che nei suoi movimenti non era rigido, anzi, al contrario, era stiloso e flessuoso. Fluido. Magari da Armando, dove se ne restava seduto e semi-muto, si sentiva più a disagio di quan-to avessi mai supposto. Quantomeno, da Armando era come trattenuto e sicuramente più teso. Forse perché sorvegliare i colpi di testa di Gogu e Istrate non era semplice. Invece quella sera era rilassato e decisamente

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a suo agio. Cominciai a farmi un sacco di domande. Che ci faceva lì? E gli altri, lo sapevano? Chissà perché avrebbero dovuto, eppure non riu-scii a non chiedermelo. Oppure la domanda giusta era: che combinava piuttosto con gli altri quattro? Quale strano intrallazzo…? Non erano fatti miei. Non ci volevo entrare. E forse non stava succedendo niente di eccezionale. Semplicemente un tizio che conoscevo solo di nome era a cena con un amico, fine. Però, non riuscivo a distogliere il mio sguar-do dai suoi gesti, dai suoi movimenti. Finché, voltandosi, anche lui non mi notò. Ero vestita bene, meglio del solito. Ero anche un po’ truccata. Vic si irrigidì, ma solo per un secon-do. Poi mi fece un rapido cenno con la mano e mi sorrise con gli occhi, riprendendo immediatamente la conversazione con il suo commensale. Io finsi di ascoltare mia sorella, e tutte le sue rimostranze, ma a quel punto la mia testa era altrove.

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4. Paula II matrimonio di mia cugina sarebbe stato celebrato in Italia, perché lo sposo era italiano, e la cosa aveva causato parecchia disarmonia in fa-miglia. Uno stuolo di zie, mamme e nonne aveva protestato per la scelta della nazione in cui sarebbe avvenuto l’evento, anche se il rito si sareb-be tenuto nella chiesa ortodossa rumena di via Santa Croce. Luca, lo sposo, non credeva a niente perciò per lui prendere moglie in una chiesa ortodossa o sulla luna era perfettamente uguale. Quella sera avevo staccato da casa di Gianna abbastanza tardi e l’avevo vista assai nervosa. Qualcosa sul lavoro era andato storto, inoltre Mario, che andava in prima elementare, non aveva ancora finito i compiti. In-fine ci si era messo suo marito, che aveva telefonato per avvertire che sarebbe tornato più tardi del solito. Una cena improvvisa con quelli dell’ufficio. Il marito di Gianna lo avevo visto solo in un paio di occasioni. Era quello che si sarebbe definito un bell’uomo, alto, bruno e con i denti bianchi. Era simpatico e cortese, anche troppo. Mi dava l’impressione di essere a caccia di consensi. Avevo anche capito che ci teneva un sac-co al vestiario. Tutte le camicie costose che mi toccava stirare le aveva acquistate da solo. Gianna ogni tanto si lasciava scappare qualche battu-ta velenosa a proposito di quella mania del marito: «Come se non ne avesse già abbastanza», sillabava, davanti a una nuo-va infornata di camicie. «Anche perché poi lui non è che se ne compra una, se ne compra almeno tre. E poi non vuoi prendere anche una cra-vatta che si intoni? E un cappello che arriva l’inverno e non si sa mai? E un pantalone, casomai tutti quelli che ha si sporcassero contempora-neamente? E il profumo nuovo, perché quello vecchio era quasi fini-to?». Non aveva tutti i torti. Suo marito era un po’ esagerato, in effetti. An-che Gianna amava vestirsi bene e si curava, per esempio aveva sempre un taglio di capelli corto e sofisticato, ma lui sembrava in cerca di con-

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quiste, giocava proprio a fare il “piacione”, come dicevano da queste parti. E quando tardava la sera a me veniva il dubbio che fosse con qualche amante. Ma di questo Gianna sembrava non accorgersi. Il suo disappunto nei confronti del marito era dettato più da una lamentela di tipo economico, nonché di tipo affettivo: «Con quello che ha speso oggi per sé, potevamo fare una settimana a Sharm El Sheik tutti insieme». Insomma, il suo consorte scialacquava quattrini solo per se stesso, mai per lei o per il resto della famiglia. Il che lo rendeva un egoista perso, ai miei occhi. Altro di quell’uomo non conoscevo, a parte il nome, Mauro, ma lo trovavo abbastanza antipatico. Troppo concentrato su se stesso. Se farsi bello era la sua unica preoccupazione, quel tipo era una persona completamente vuota. Anzi, in verità atteggiarsi a conquistatore non era la sua sola priorità. All’estetica si affiancavano le sue ambizioni di car-riera. Il che però non me lo rendeva più gradevole. Quella sera comunque il problema non era l’abbigliamento, ma l’ennesima assenza di quell’uomo, che aveva reso Gianna nevrotica. Tuttavia, quando la mia datrice di lavoro commentò con un certo sprez-zo: «Certo che la tuta di Mario la potevi anche stirare un po’ meglio». Mi venne il dubbio che ce l’avesse pure con me. Arrivai da Daniela che avevo le ossa rotte. Lei, al contrario mio, era carica ed eccitata. Mi mostrò l’abito che aveva comprato per le nozze quando era andata in Romania l’ultima volta: là costava meno della me-tà che in Italia. Avevo discusso con Gianna dell’enorme differenza di prezzo tra i due paesi e lei mi aveva risposto con sufficienza: «Beh, ma vuoi mettere il materiale? Un abito da sposa qui lo fanno di seta e organza, là di nylon. Cambia tutto. Un po’ come per i dentisti. Da voi un lavoro costa infinitamente meno, ma dopo due anni è tutto da rifare». Ci ero rimasta male. Il vestito di Daniela era bellissimo, enorme, regale, con qualunque stoffa fosse stato confezionato. «Ti piace il mio abito da principessa?» mi domandò lei, esaltata. Non mi stupii. Me l’aveva già detto che per quel giorno voleva sentirsi la protagonista di una fiaba.

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«Ora però dobbiamo pensare anche al tuo e a quello delle altre damigel-le! Poi, hai idea di cosa vuoi indossare per la festa dopo la cerimonia? Magari un bell’abito da sera fucsia, che ne dici? O verde pallido?», Daniela pretendeva che io mi cambiassi addirittura tra lo sposalizio in chiesa e il banchetto al ristorante. Per la festa ci voleva una mise da se-ra, mentre per la funzione religiosa era necessario qualcosa di più so-brio. Ma, superato il momento del rito, ci sarebbe stata festa grande. Era presumibile pensare che un ricevimento in Italia non avrebbe potu-to essere mai lungo e consistente quanto uno in Romania, cionondime-no lo zio Adrian stava organizzando i festeggiamenti in modo degno. «E magari trovi un fidanzato anche tu!» aggiunse Daniela, realmente speranzosa. Lei di anni ne aveva venti, uno meno di me, e aveva incontrato l’amore della sua vita. Io invece ne avevo già ventuno e, anche se mi sarebbe piaciuto sposarmi, avevo altri problemi. Per esempio i miei genitori erano rimasti in Romania e pretendevano da me un supporto economico mensile. E io glielo mandavo quasi sempre. Fingevo di ignorare che buona parte dell’introito mio padre se lo spendeva bevendo. In vista del matrimonio di Daniela avrei dovuto chiedere un anticipo alla figlia di nonno Giorgio. Per un regalo degno della nostra tradizione non mi sa-rebbero bastati meno di mille euro. Temevo che Caterina non sarebbe stata propriamente contenta di darmeli e anche quello costituiva un grosso problema. Volevo molto bene a Daniela, ma le sue nozze mi inguaiavano non poco. Implicavano un esborso non indifferente. Certo, se mi fossi maritata pure io, mia cugina e la sua famiglia mi avrebbero fatto un regalo di pari valore. Intanto però, mi toccava spaccarmi la schiena per lavorare. Non c’erano soltanto i miei da aiutare, ma anche mio fratello da tenere d’occhio. Era venuto in Italia insieme a me, l’anno prima, ma non aveva mai dimostrato una grande attitudine al lavoro. Era la mia spina nel fianco.

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5. Chiara Mia sorella era rimasta con me fino al giorno dopo e poi era ripartita per tornare dal suo caro maritino. Inutile dire che il suo contributo era stato nullo. Dopo avermi rimbrottato in ogni modo, e perché non mi ero ancora laureata, e per le pessime condizioni in cui versava l’appartamento, e perché non mi dedicavo abbastanza alla mamma, se n’era andata senza nemmeno lavare la tazza che aveva usato per la co-lazione. In fondo, se Eleonora era scappata tanto distante, era perché sopportava la mamma meno di chiunque altro. La pativa quando quella attaccava con le sue litanie e lamentele. Un depresso come la mamma non era semplice da reggere. Per lo più se ne restava nel suo immobili-smo, nel letto o comunque in casa. Ma quando parlava, non faceva che sputare fiele. Per chi doveva coabitare con lei, la situazione era terribi-le. Il fatto era che la mamma vedeva la realtà deformata dalla sua ma-lattia, dunque era impossibile ragionarci. Benché unisse ai farmaci an-che dei cicli di psicoterapia, non pareva fare progressi. Il cielo per lei era sempre tinto di grigio e la sua rabbia era tanta. Ovviamente, nel suo cervello, la colpa era tutta mia che non comprendevo il suo stato d’animo. Dunque se per qualunque motivo si impermaliva, il che acca-deva con frequenza, la causa era sempre la mia insensibilità. Quella domenica me n’ero andata con Noemi all’ex giardino zoologico, dove era stata allestita una mostra di dinosauri. La mia amica era in cri-si con il suo ragazzo. Erano arrivati a un punto in cui o si sposavano, oppure era meglio che prendessero strade diverse. «Vedi, non c’è niente che non va… Cioè, io lo so che Simo è un bravo ragazzo, non è uno stronzo… Ma è proprio per questo… Voglio dire, averlo sempre intorno e non sapere più cosa inventarci per fare qualco-sa di diverso… Lui mi accompagna dappertutto… Oggi ho dovuto rac-contargli una palla mostruosa per venire qui con te, senza di lui, perché altrimenti mica ci lasciava sole». «Che gli hai detto?» domandai con curiosità e pure un po’ allarmata.

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«Che tu eri in crisi, sai, con tua madre e tua sorella che rompe, e che a momenti ti suicidi…». «Tiè» risposi facendo le corna. «E quindi io non lo so mica se me la sento di passare con lui il resto della vita» fu l’ovvia conclusione del suo filo di pensieri. Valutai tra me e me che io avevo il problema opposto. Luigi non lo ve-devo quasi mai. Anche lui stava terminando gli studi, faceva ingegneri-a, ed era sempre a casa a studiare. Considerando poi che abitava a Cu-neo, e che raramente ormai metteva il naso a Torino, se non per portare avanti la tesi, la nostra frequentazione era realmente ridotta all’osso. Certo, ci sentivamo tutte le sere. Ma non era lo stesso. E poi avevo sempre la fastidiosa sensazione che lui sopportasse la distanza molto meglio di me, dunque non mi sentivo mai al primo posto nei suoi pen-sieri. Tuttavia non potevo dire che le cose andassero male tra di noi. Quando parlavamo, eravamo mediamente d’accordo su tutto. Notai che Noemi, pur colloquiando con me, non aveva mai smesso di gettare occhiate al suo smartphone, tant’è che a un certo punto glielo feci notare: «Stai aspettando un messaggio o qualcuno che ti chiami?» domandai esasperata da quell’atteggiamento che aveva un che di compulsivo. «No, cioè sì… ». Mi resi conto che era arrossita ed era imbarazzata. Tentennò: «Mi prometti che non lo dici a Simo? Ho conosciuto uno su Facebook, ci scambiamo messaggi». Compresi che eravamo arrivate al nodo della questione di quel pome-riggio, e che se in quel momento stavamo sedute al fianco di un tricera-topo di cartapesta non era per una passeggiata amena tra amiche, e nep-pure perché mia madre era disperata e disperante. Il motivo era che No-emi doveva assolutamente farmi partecipe dei suoi intrallazzi. Nel frat-tempo seguitava a giocherellare con quel telefono ed era fastidiosa. Sa-pevo che Noemi era abbastanza drogata di internet e di cellulare, ma vederla all’opera, nel bel mezzo di una manifestazione della sua dipen-denza, mi dava sui nervi. Mi pareva inconcepibile che una persona non riuscisse a condurre una conversazione con me senza buttare gli occhi sul display a secondi alterni. L’avrei quasi presa a ceffoni. «Come l’hai conosciuto questo tale?» la incalzai io. «Piercarlo? Su Facebook! Amico di una mia amica. Mi ha chiesto ami-cizia e abbiamo iniziato a chattare».

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«E…?». «E mi acchiappa. Mi sembra che con lui posso parlare di cose nuove. Mi fa sentire viva, cosa che con Simo non mi accade più da un secolo. Da quanto ci esco, con Simo? Da quasi quattro anni! Ormai ci siamo detti tutto!». «E dove sta questo tipo? A Torino? Vi siete mai incontrati?». «Incontrati ancora no, e poi lui ha una situazione incasinata con una… È di Asti, però, non è lontano». «Asti è in capo al mondo!». «Sessanta chilometri e c’è anche il treno! Comunque ora lo voglio in-contrare…». Scrollai le spalle: «Fai tu…». Rimasi infastidita ad ascoltarla per un’ora buona, poi fu tempo di pren-dere servizio al bar. L’idea di mettermi a lavorare, di infilare tazzine nella lavastoviglie, di fare qualcosa di manuale mi sollevava. La dome-nica poi, talvolta, c’erano anche alcuni pensionati e altri perdigiorno che si giocavano due euro a carte. Quando giunsi, c’era già Giovanni, con un’acqua tonica in mano. Si accorse che avevo la luna per traverso, perché mi guardò con aria pre-occupata e mi chiese come stavo. Pensai che nonostante la sua ipocon-dria e la sua propensione ad angosciarsi per ogni minima sciocchezza, lui dovesse essere un uomo mite e con una certa attitudine per le fac-cende umane. «Sono solo un po’ stanca» replicai in modo non troppo garbato. Ar-mando mi aveva tante volte raccomandato di non parlare di me con i clienti, anzi, di lasciare che fossero loro a raccontare di sé. Quella era la filosofia e io mi attenevo. Lui mi guardò con occhi buoni: «Una bella ragazza giovane come te non dovrebbe stare qua. Tu sei un fiore, sei fresca come una rosa. Trovati un fidanzato e sposati… Se io avessi vent’anni di meno e più salute ti sposerei io!». In fondo mi aveva detto una cosa carina. Era stato galante, a modo suo. Tra tanti vecchi sporcaccioni, lui si stava comportando come un genti-luomo. «Ce l’ho già un fidanzato… » bofonchiai, ingrata. «Ah sì?» pareva sorpreso. «E allora cosa ci fai ancora qui?».

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«Lui deve laurearsi. Poi, chissà… ». Omisi che dovevo laurearmi pure io. Poco dopo arrivarono i rumeni, si sedettero al loro tavolo e ordinarono un primo giro di birre. Glielo portai. C’era Gogu che parlava al telefo-no, Ciprian che doveva essere già mezzo ubriaco, Constantin con le dita nel naso e Istrate, con i riccioli ribelli e uno sguardo che non mi piaceva per niente. Mi osservava con un occhio interessato, che quella sera ave-va anche un che di concupiscente, e sebbene io non fossi né vestita in modo appariscente, né atteggiata a voler dare confidenza, non mi senti-vo a posto, anzi, stavo davvero a disagio. Cercai di ignorarlo anche quando, successivamente, gli portai da bere, ma continuavo a sentire i suoi occhi addosso. Vic non c’era. Me ne andai poco prima del solito, ma era già buio. Procedevo spedita nel marciapiede largo e sporco, ma ero stanca morta. Volevo solo torna-re a casa e posare le mie ossa sul letto. Speravo che la mamma fosse già a dormire per non doverle parlare. Pregavo che il Tavor avesse già fatto il suo effetto. La fermata del 18 era a soli due isolati. L’auto non ce l’avevamo più. Mia madre non guidava, mio padre aveva un’Alfa Giu-lietta aziendale che, morto lui, avevamo dovuto restituire. A un tratto, mi sentii afferrare da dietro. Qualcuno aveva messo una mano intorno alla mia bocca e stava cercando di immobilizzarmi. Tentai di gridare ma mi fu impossibile. Cercai di divincolarmi, ma due braccia mi tene-vano ferma. Provai a dare un calcio, ma mi feci male e ricevetti un cef-fone. Capii che erano in due e volevano abusare di me. Volevano acce-dere alle mie gambe, al mio intimo. Ammisi che mia sorella, per quanto noiosa e saccente, avesse ragione. Quella era una zona malfamata e io non avrei dovuto essere lì. Pensai anche a Noemi e al suo intrallazzo clandestino. Che diritto avevo io di giudicare le sue frequentazioni, quando poi mi cacciavo in guai decisamente più seri? Mi sentii in colpa per essere in quel luogo in quel momento, come se quel tentativo di stupro ai miei danni me lo fossi cercato. Pregai che almeno non mi pic-chiassero, che facessero in fretta. Invece di botto si fermarono. Una voce li aveva richiamati all’ordine. Era quella di Vic che, urlando contro i due alcune frasi in rumeno, li aveva costretti a lasciarmi andare. Ovviamente non compresi cosa ave-va detto, ma tra i suoni mi parve di distinguere un “Istrate”. Mi voltai lentamente e riconobbi il mio cliente al bar, insieme a Constantin.

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Vic si avvicinò a grandi passi. Puntò contro i miei due aggressori e li riprese con improperi per me incomprensibili. Ora che era più vicino, parlava a voce bassa, ma il suo tono era secco. Ancora ignoro cosa dis-se loro di preciso, ma dovette essere durissimo, perché Constantin si allontanò con l’aria di un cane bastonato e Istrate, con gli occhi rossi per via dell’alcol e dell’arroganza in circolo, dovette desistere e suo malgrado lasciarmi andare, non senza prima avermi dato uno spintone che mi fece inciampare. Per fortuna Vic mi sostenne con un braccio e non caddi. Vic e Istrate ora erano uno contro l’altro e si guardavano in cagnesco. Vic era sulla difensiva, ma determinato a mantenere la sua posizione. Istrate aveva l’aria di chi cercava solo un pretesto per attaccare. Ero convinta che quest’ultimo, ubriaco e incontenibile al punto da usare violenza a me, potesse scaricare la stessa brutalità contro Vic durante una rissa. Ma per qualche ragione inspiegabile, la scintilla non scoccò e la rissa non iniziò. Vidi Istrate allontanarsi con sdegno, se fosse dipeso da lui avrebbe rea-gito molto male, ma evidentemente Vic doveva essere davvero influen-te nella loro organizzazione, quale che fosse, perché nonostante la sbronza e la rabbia, Istrate si represse. Ero ancora appoggiata a Vic quando cominciai a realizzare appieno ciò che mi era accaduto. Ma ero talmente arrabbiata e spaventata che me la presi con lui, che era quello che mi aveva salvata. Però era anche invi-schiato con quei delinquenti, e allora non poteva essere del tutto inno-cente. «Che razza di amici hai?» gli sbraitai addosso, sconvolta e con i nervi a pezzi. «Io adesso chiamo la polizia o i carabinieri immediatamente!» urlai, e frugai nella borsa per trovare il mio cellulare. «No, no, ti prego» replicò lui, sfilandomi delicatamente il telefono dalle mani. «Quei due sono stati… inqualificabili, ma ti giuro che un episo-dio del genere non si ripeterà mai più». «Ah, certo, non vi conviene stuprare la vostra barista! Almeno avrebbe-ro dovuto scegliere una preda sconosciuta che non li potesse riconosce-re in commissariato!» seguitai a urlare. «No, no» continuò Vic, cercando di contenere la mia ira. «Sono solo due stupidi ed erano pure ubriachi. Ne sono consapevole e ti chiedo scusa perché avrei dovuto tenerli meglio sotto controllo. La colpa di

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questo incidente è anche mia. Ma ti assicuro che non accadrà un’altra volta, né a te, né a un’altra ragazza. Ci starò più attento. Il timbro di voce di Vic ebbe su di me un effetto balsamico e mi placai. Non c’era alcun motivo razionale per cui avrei dovuto credergli, eppure volli farlo. Notai inoltre che parlava molto bene in italiano, senza ac-cento e con buona proprietà linguistica. «Perché dovrei darti retta? Che cosa mi garantisce che quei due smidol-lati non ripetano questa azione depravata, prima o poi?». Vic abbozzò un sorriso che mi parve persino imbarazzato, ma forse era solo una mia impressione: «So che è difficile darmi credito, dal tuo punto di vista, e ti capisco. Ma ti assicuro che denunciare Constantin e Istrate per un atto che, di fatto, non hanno commesso, è ancora peggio che dimenticare tutto e voltare pagina. Cioè, gli effetti sarebbero peggiori. Loro potrebbero arrabbiarsi parecchio e le conseguenze ti si ritorcerebbero contro». «È una minaccia?». «No, è quello che accadrebbe». «Cosa intendi?» domandai diffidente e riconoscendo in cuor mio che in capo a pochi giorni quei due sarebbero stati fuori di prigione e più infu-riati di prima. «Non te lo posso spiegare adesso» disse Vic, con le braccia conserte. Mi arresi. Ero esausta. E per qualche ragione assurda mi ero fidata di lui, anche se era probabile che mi stesse solo raggirando. Possibile che l’ascendente di Vic fosse talmente forte da condizionare anche me, oltre che i suoi compari? Cosa aveva quel tizio? Forse una specie di sicurez-za interiore in grado di ipnotizzarmi? «Voglio andare a casa». «Ti accompagno» disse lui. «Prendo il tram insieme a te». Non era una proposta, era un’imposizione. Il 18 arrivò dopo breve. Salimmo. Vic si sedette di fianco a me, ma non invase i miei spazi. Io ero imbarazzata e non sapevo cosa dirgli. Lui mi pareva solo poco meno teso di me.

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Mi salutò sotto il portone con un gesto della mano e se ne andò solo dopo che ebbi richiuso. Fino ad allora percepii addosso i suoi occhi chiari e indecifrabili. In casa la mamma, ignara, dormiva il suo sonno pesante indotto dal Ta-vor. Mi buttai sul letto, scontenta di me, della mia debolezza e della mia paura, arrabbiata per essermi fatta condizionare dalle parole di Vic, che aveva fatto leva sulle mie ansie in un momento così delicato, e iniziai a piangere.

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6. Paula Mio fratello, che aveva solo un anno più di me, mi faceva stare in pena non poco. In teoria era venuto in Italia con me per trovare un lavoro. In realtà tutto aveva fuorché voglia di lavorare. Gli impieghi che gli avevo procurato non gli piacevano mai, e puntualmente li mollava, uno dopo l’altro. All’inizio aveva fatto il magazziniere, poi l’operaio in un’aziendina nella cintura di Torino, poi era stato ai mercati generali e adesso invece non faceva più nulla e diceva di voler prendere la patente da camionista. Così mi aveva chiesto dei soldi per iscriversi alla scuola guida e io non sapevo se darglieli. Se avesse davvero voluto quella pa-tente, avrebbe fatto prima a tornare in Romania. Gli sarebbe costato di meno e venuto più facile, dal momento che, comunque, avrebbe com-preso meglio la lingua dell’insegnante che gli avrebbe dato lezioni. L’italiano non era il punto di forza di mio fratello. Lo capiva abbastan-za, ma lo parlava male. Non si sforzava. Io invece ero ambiziosa, mi ci impegnavo parecchio. Se sbagliavo, volevo essere corretta. Mi esaltavo se qualcuno mi faceva i complimenti. Avevo anche fatto la tessera a una biblioteca vicino a casa e prendevo in prestito romanzi d’amore, anche altri libri pur di impratichirmi e di imparare parole nuove. La scrittura continuava a essere un serio problema: non avendo frequentato una scuola vera e propria avevo molti dubbi sulla corretta forma scritta delle parole, e poi c’erano le doppie che costantemente mi perdevo. Tuttavia nell’espressione verbale me la cavavo sempre meglio, anzi, avevo un accento anche un po’ piemontese, abituata com’ero ad ascol-tare nonno Giorgio e le sue espressioni tipiche. Comunque mi piaceva assimilare vocaboli nuovi, tant’era che mi ero procurata un quadernetto dove appuntarmi tutto ciò che orecchiavo, con traduzione e commenti. Mio fratello invece non se ne dava per inteso e si esprimeva malissimo. Non aveva alcuna voglia di impegnarsi e di applicarsi all’apprendimento, e del resto non aveva mai avuto voglia di dedicarsi seriamente a nulla. Aveva nella testa l’idea recondita che tutto gli fosse

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dovuto, e la decisione di trasferirsi in Italia, di abitare vicino ai cugini e allo zio Adrian, non era stata dettata da un genuino desiderio di trovare un lavoro migliore, quanto dalla convinzione che in Italia sarebbe stato tutto più semplice. Gli piaceva ostentare. Sperava sempre di fare i soldi in modo facile, ma se non ci riusciva non provava mai vergogna nel chiederne a me. L’idea di guidare un’automobile di grosse dimensioni, o di telefonare con un apparecchio costoso lo esaltava al punto che per procurarsi tali beni di consumo avrebbe probabilmente fatto qualunque cosa. Qualunque, eccetto rompersi la schiena lavorando. Da qui la mia preoccupazione quando lo vedevo girare con certe compagnie e bazzi-care con certi amici di dubbia moralità. In particolare mi angosciavo quando lo sapevo con alcuni tizi che conoscevamo da quando eravamo piccoli e vivevamo in Romania: si trattava di gente arrivata qua in Italia con l’intenzione di vivere di espedienti, pensando di aver trovato un luogo idoneo a far fiorire attività più o meno lecite. E mio fratello era talmente citrullo non solo da farsene coinvolgere, ma anche da subirne pesantemente il fascino. Quel giorno mi cercò la mamma e al telefono mi parve strana. «Vengo in Italia presto, arrivo per il matrimonio di Daniela, ma mi fermo un po’. Lo zio Adrian mi può ospitare. Poi magari mi trovo an-che io un lavoro lì». «Un lavoro qui? Perché mamma?». Mi stupii. La mamma non aveva mai manifestato una tale intenzione, e, tra l’altro, non conosceva una sola parola in italiano. Parlava un dialetto rumeno locale, quello del nostro villaggio, e nient’altro. «Voglio andarmene di qua» rispose. «E papà? Verrebbe anche lui?». «Spero proprio di no! Non lo voglio portare in Italia con me» puntua-lizzò piccata. Era da quando li conoscevo che li vedevo litigare. Ogni tanto, quando mio padre esagerava con l’alcol, poi alzava anche le mani. Non accade-va di frequente, ma accadeva. In passato aveva picchiato anche me e mio fratello, e questo era uno dei motivi che mi aveva fatto desiderare di mettere una distanza chilometrica tra me e lui. Ma in fondo gli vole-vo bene, era pur sempre mio padre. Non è semplice mandare avanti una famiglia quando manca tutto. «Ma papà verrà al matrimonio di Daniela?».

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«Non lo so e non mi interessa un accidente di niente!». Era da quando li conoscevo, ventun anni, che li vedevo litigare, ma da ventun anni facevano molto rumore per nulla. Ora invece doveva essere accaduto qualcosa che ignoravo. Cercai di estorcerle qualche informa-zione in più, ma non ci riuscii. Quando riattaccai, un’ansia mi pervase. Complice anche il fatto che la bella stagione ormai se n’era andata e il sole aveva lasciato posto al cie-lo grigio di Torino, mi montò un’ondata di malumore. Cosa avrei dovu-to fare? Chiamare mio fratello e chiedergli se sapeva qualcosa in più? Accantonai il pensiero e mi misi a preparare cena. In quel momento entrò Caterina, la figlia di nonno Giorgio, e mi riprese immediatamente: «Non ti sei accorta che mio padre aveva il pannolone da cambiare? Con tutti i diuretici che ha preso sta urinando in quantità industriale». Non me n’ero accorta. Stavo controllando la cottura della pastina, che non doveva essere né troppo scotta né troppo appiccicata, per poi ser-virgliela imboccandolo un cucchiaio alla volta. «Cerca di stare più attenta, per cortesia» continuò con la reprimenda. «Devo venire a controllare più spesso quello che fai?». Non protestai, ma mi venne un moto di rabbia. Parlava lei che non c’era mai, presa com’era dai fatti suoi, dai suoi figli adolescenti, dal suo lavo-ro, lei che compariva solo ogni tanto e che faceva le sue apparizioni sul più bello, dopo essersi persa il meglio, la minestra rovesciata ovunque, sui vestiti, tra le lenzuola, in faccia, o la dissenteria notturna con cui il suo anziano genitore si sporcava fin sopra i capelli. Che mai sarà stato un pannolone un po’ più zuppo? Quando se ne andò ricominciai a respirare. Dopo aver messo a letto il nonno, mi infilai pure io nel mio, presi un romanzo d’amore e iniziai a leggere, cercando di evadere con la testa. Dopo un po’ mi venne sonno. L’ultimo pensiero andò a mio fratello. Non avevo un fidanzato, non ne avevo mai avuto uno, ma mio fratello aveva un amico che mi piaceva un sacco. Doveva essere uno scalmana-to, ma era bellissimo e il cuore mi batteva ogni volta che me lo trovavo davanti. Chissà se lui sospettava ciò che provavo per lui. Comunque lo avrei visto presto, al matrimonio di Daniela.

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7. Chiara Per un paio di giorni me ne rimasi chiusa in casa, con il terrore di usci-re. Ad Armando avevo spiegato solo che non stavo bene, e lui aveva risposto con un neutro e indecifrabile: «Cerca di riguardarti». Naturalmente alla mamma non raccontai nulla, e nemmeno a Eleonora che telefonò una volta per sapere come stavamo, e se la mamma era andata dallo psicoterapeuta quella settimana. Risposi in modo vago e pure a lei non dissi niente. Mia sorella avrebbe solamente rincarato la dose, mi avrebbe dato della stupida con una frase tipo: «Come se io non te l’avessi detto, non immaginavi che potesse accade-re una cosa così in un posto come quello?» alimentando in questo modo il mio inutile e immotivato, ma pur presente, senso di colpa. Ne parlai invece con Noemi, la quale mi rimproverò pure, ma per un altro motivo: «Cosa ti è saltato in mente di dare retta a quel rumeno, come hai detto che si chiama?». «Vic». «Vic. Farti convincere a non denunciare l’aggressione… sei impazzita? Se chiamavi i carabinieri subito, li avrebbero almeno trovati ubriachi e molesti, ma ora, a giorni di distanza, che prove avresti?». Già, perché mi ero lasciata convincere da Vic? La mia amica non aveva del tutto torto. «E quel Vic, poi… Mi sembra il peggiore di tutti. Da come me lo de-scrivi, così freddo, così cattivo». «Con me è stato gentile». «E certo! Gli conveniva! Ma è il capo della banda, no? È quello che muove tutti i fili. È quello che disciplina tutta la loro organizzazione». «Non so se la loro sia proprio un’organizzazione… E non so nemmeno se lui sia il capo, però…».

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Pensai che in effetti non avevo idea di che facevano quei perdigiorno per campare. Forse qualche strutturata attività criminosa o ai limiti della legalità non era da escludersi, in effetti. Ignoravo persino se mantenes-sero qualche occupazione di facciata. Io li vedevo solo in quel frangen-te, intenti a ingollarsi birre. Erano solo uomini, non si portavano mai dietro la compagna, se anche ce l’avevano. Ma questa era una caratteri-stica comune di molti frequentatori di bar. Di domenica, da Armando, veniva anche il solito crocchio di pensionati. Costoro iniziavano pun-tualmente un piccolo torneo di scopa o di briscola e ciarlavano e gioca-vano per tutto il pomeriggio. In generale, a parte bisticciare sulle mani di carte, non avevano molti argomenti di conversazione, ma molte volte li avevo orecchiati mentre sparlavano delle loro consorti, le quali in quel momento erano intente a pulire la casa, dove a detta dei mariti era giusto che stessero, mentre loro se la spassavano. Io speravo che al con-trario le loro mogli fossero impegnate in attività più proficue e diverten-ti quali fare sesso sfrenato con un uomo più giovane e prestante del loro impotente consorte. «Qualunque cosa sia, Chiara, sono rumeni! Sono immigrati che con te hanno tutto da guadagnare! Ti fidi forse di quell’extra comunitario che non sai nemmeno cosa faccia di preciso nella vita?». «I rumeni non sono “extra comunitari”». «Sono immigrati, arrivano da un paese povero e senza cultura». «Mi ha anche accompagnata a casa…». «Oh, ma ci sei o ci fai? Quello è fin troppo furbo. Modi gentili… dove-va intortarti e ci è riuscito! C’è da aver paura di uno così. Gli altri sono pure pericolosi, sono aggressivi, ma quello è uno che premedita, che calcola. Io fossi in te mi terrei ben alla larga. E poi, in generale, cosa vuoi che gliene importi se i suoi compari ti stuprano o no? Quelli hanno una considerazione della donna che è qualcosa di vergognoso». Noemi non aveva tutti i torti, inoltre si vantava di capire bene le perso-ne perché era (ancora) iscritta a Psicologia e io, dovevo ammetterlo, di voglia di tornare in quel bar non ne avevo proprio. Ma quando mi ac-corsi che nel cassetto i contanti erano terminati, volente o nolente decisi di darmi una mossa e quella sera mi presentai puntuale da Armando che mi accolse con un semplice: «Stai meglio, ora?». Risposi di sì.

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In realtà ero nervosa. Ero carica e arrabbiata, dopo le riflessioni che Noemi, seduta sul mio letto e con una sigaretta in mano, mi aveva in-dotto a formulare. Quando arrivarono i rumeni, – avevo sperato che per qualche ragione non si presentassero, - mi dissi che dovevo ignorarli, eppure non riuscii a evitare di lanciare loro un’occhiata di fuoco. Istrate la colse al volo e sogghignò beffardo. Aveva intuito che la sua presenza mi metteva a disagio e si divertiva a provocarmi ulteriormente, rivolgendomi orribili sorrisetti maliziosi e sguardi lussuriosi. Bastardo. Io, già rigida, cercavo di muovermi il meno possibile, senza chinarmi e senza esaltare le mie forme in alcun modo per fornirgli il meno possibile da guardare. Come sempre indossavo abiti sobri e ben poco provocanti, ma quando rag-giunsi il loro tavolo con l’ennesima birra da servire, e dovetti piegarmi, percepii il fiato di Istrate sul collo e ne ebbi ribrezzo. Sapeva di aglio. In compenso di Vic non c’era l’ombra. Menomale che aveva promesso di vegliare sui suoi amici disgraziati affinché non ripetessero quanto combinato poche sere prima. Mi convinsi che mi avesse mentito, ov-viamente. Nulla di più semplice, del resto. In quel momento doveva lisciarmi in qualunque modo pur di impedirmi di far partire una denun-cia. Mi diedi dell’ingenua colossale per aver anche solo considerato l’eventualità che Vic fosse stato sincero. Magari però ero ancora in tempo per passare dai carabinieri. In fondo il fattaccio era successo solo qualche giorno prima. Lasciai che tutti, compresi i rumeni, uscissero dal locale prima di met-termi sulle spalle la giacca e dirigermi verso casa. Sperai che Istrate e Constantin fossero già lontani a sufficienza e non avessero mire su di me, in quel momento. Che fossero in altre faccende affaccendati. Come fui sola per la strada buia e desolata, però, fui pervasa dallo scon-forto. Dovevo ripercorrere lo stesso tragitto che pochi giorni prima mi aveva portato a un’esperienza tanto negativa, e mi sentii le gambe cede-re. Presi fiato e considerai l’eventualità di acquistare uno scooter di se-conda mano, anche se non avevo mai avuto nulla del genere, dubitavo di saperlo guidare e mi faceva anche parecchia paura. Quando avevo tredici anni un mio compagno di classe col motorino fu investito e ci lasciò la pelle. Una storia penosa, e da allora non avevo mai voluto sa-pere di veicoli a due ruote. Poteva valere la pena che ora, ad anni di-

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stanza ne acquistassi uno io? Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, di fron-te a me c’era Vic che mi disse: «Ciao». Restai un attimo in silenzio, poi, carica di tutte le ansie e di tutti i pen-sieri negativi che mi ero fatta nei giorni precedenti, lo aggredii verbal-mente senza nemmeno salutarlo: «Menomale che dovevi impedire a quei due animali di commettere altre sconcezze! Come pensi di farlo se nemmeno ti presenti al bar?». Vic, che non si aspettava una tale esplosione, batté le palpebre interdet-to. «Di che cosa stai parlando? Istrate e Constantin hanno combinato qual-cosa che…?». «No! Ma avevi promesso di vegliare sulla loro condotta! E invece oggi non ti sei nemmeno fatto vedere!». Mi resi conto, immediatamente, di parlare come una specie di fidanzata gelosa. Lui non si scompose: «Veramente sono giorni che non ti fai viva… Nemmeno sapevo se sa-resti mai tornata qua». «E dove altro potrei andare?». Non era premeditato, eppure scoppiai a piangere. Vic si guardò intorno desolato, poi mi prese delicatamente per un brac-cio e mi disse: «Perché non ne parliamo con calma? Ti offro una birra in un locale qui vicino che sta aperto fino a tardi». Lo seguii docilmente, realizzando che con la sua flemma lui era riuscito a smontare tutto il mio malanimo. Avevo speso giorni a maledirlo, ad assimilarlo ai suoi compari, ma ora che lo avevo di fronte, così gentile e per nulla aggressivo, ne subivo nuovamente l’influsso e non riuscivo a considerarlo villano come i suoi amici. Ci sedemmo una di fronte all’altro, su panche di legno, con una birra a testa da sorseggiare. «Mi domandavo se dopo l’altra sera tu ti fossi licenziata» mi spiegò, con tutta calma. «Non sei più venuta e… ». «Tu pensi che io mi tiri un mazzo quadro da Armando solo per diverti-mento?» ribattei io, che al contrario di calma non ne avevo per niente. «Che mi sia cercata questo lavoro serale per puro sfizio? Che idea hai di me, scusa?».

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«Nessuna idea, ma magari potevi aver trovato un altro posto». «Ah, certo, è facile trovare un altro posto, al giorno d’oggi!». «So che da McDonald’s assumono di continuo e pagano pure abbastan-za bene, per esempio». «E perché diavolo dovrei andarmene io, eh? Questo è il mio impiego, Armando mi paga, mi ha anche messo discretamente in regola! Andate-vene voi, tu e i tuoi cosiddetti amiconi!». Temevo che fosse un crimina-le, eppure gli stavo parlando con sfrontatezza, senza peli sulla lingua. Il suo atteggiamento mansueto mi aveva indotto a quello sfogo. «E allora non andartene, se non vuoi. Non ne vedo il motivo». Dopo quell’ultima affermazione, però, l’avrei preso a schiaffi. «La situazione è questa: io mi sto per laureare». «Davvero? In cosa?». Pareva incuriosito. Sorrise. Mi domandai se il ramo degli studi che avevo intrapreso potesse seriamente fare per lui la differenza. Se gli avessi spiegato in cosa consisteva il mio operato, ci avrebbe mai capito qualcosa? «In Fisica, se ti interessa. Comunque, devo finire la tesi a breve. Dal momento che mi auto-mantengo e che non c’è nessuno che possa farlo per me, devo lavorare, e non ho nessuna intenzione di cercare un altro posto, almeno finché non mi proclamano. Chiaro?». «Chiarissimo». «Quindi rimango da Armando. Però sto male». Mi si incrinò di nuovo la voce. «Oggi è stata una giornata durissima. Vedere Istrate che mi lancia occhiate oscene mi fa schifo! Io continuo a sognarmelo tutte le notti, sai?» e a quel punto scoppiai a piangere di nuovo. «Sentirmi ad-dosso le sue mani e quelle di Constantin, che mi tengono ferma, che mi bloccano, che tentano di introdursi dove non devono! Io mi domando, perché ti ho dato retta? Perché non sono andata subito a denunciarli? Io sto male, non riesco ad andare avanti! Cosa faccio, ora? E tutto per a-scoltare te, che oggi neppure c’eri mentre quel depravato mi stuzzica-va!». Ero davvero nera. Osservai Vic vacillare per un istante. Quello che gli avevo detto lo ave-va toccato. Non se lo aspettava. «Davvero la stai vivendo così male?». «Ti pare difficile crederlo? C’è da stupirsi? Non riesci proprio a imme-desimarti? Per me tu e i tuoi compari siete solo una minaccia».

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«No, non è difficile da intuire, certo, ma è che… » si passò una mano sulla fronte, turbato. «Questa è una bella complicazione, cavoli!». Complicazione di che cosa? Della mia vita, sicuramente. «Oh, come si vede che nella tua cultura la donna è solo un oggetto da esibire e poi da mettere a tacere!» gli buttai in faccia, sprezzante. «In fondo che ti deve importare di come sto io, dopo un tentativo di stu-pro!» aggiunsi facendo mie le parole di Noemi e meditando sull’assurdità dell’intera situazione. Stavo insultando il presunto capo di due criminali che mi avevano messo le mani addosso. Era il colmo. Ep-pure Vic in quel momento non aveva l’aria di un delinquente e quello era il motivo per cui gli parlavo. «Cosa cavolo dici? Perché generalizzi in questo modo? Cosa significa per te “nella tua cultura”?» mi riprese immediatamente, ma sempre sen-za alterarsi. Avrebbe potuto offendersi, ma non lo fece. «Io non sono così insensibile. Ho una sorella della tua età, per giunta! Se qualcuno le facesse ciò che hanno tentato di fare a te, mi arrabbierei non poco!». Mi parve improvvisamente molto più umano di quello che mi ero messa in testa che fosse. Sembrava persino comprensivo. Ma allora, se era tanto diverso da loro, perché non ne prendeva le distanze? Cosa ci ave-va da spartire? Forse mi stava solo mentendo. «Mi dispiace per quello che stai passando, sul serio» disse ancora, sor-seggiando dal boccale. «E mi sento in parte responsabile. Tuttavia devo chiederti di non far partire alcuna denuncia. Troverò una soluzione per questo casino, te lo prometto. Mi farò venire in mente qualcosa, te lo garantisco!». «Mi spieghi perché la fedina penale dei tuoi amici ti sta tanto a cuore?» chiesi, infastidita. «Più a cuore della giustizia e della serenità delle loro vittime?». «Te l’ho detto» nicchiò lui, guardando di lato. «Tanto non ti servirebbe a niente… Sarebbe la tua parola contro la loro…». «Che rapporto hai con loro? Me lo dici, per favore? Sono amici? Sono parenti? Quando confabulate al tavolo sembra che abbiate in ballo chis-sà quale affare! Forse è per questo che la loro libertà ti sta tanto a cuo-re?». «Non che io sia tenuto a risponderti» puntualizzò. Usava il congiuntivo e pure bene. «Però, sì» concesse. «Diciamo che siamo soci in un “affa-re” che dovrebbe andare in porto a breve».

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«“Affare”? Che genere di “affare”?». «Questo non posso dirtelo». «Se è una cosa pulita perché non me ne puoi parlare?». «Per ora è un discorso riservato. Quando sarà tutto finito, magari, ti spiegherò qualcosa in più». Tirò giù l’ultimo sorso di birra. Per lo meno non erano parenti né amici e la cosa da un lato mi rincuorò. Ma che diavolo stavano combinando tutti insieme? E se fossero stati criminali per davvero? Se stessero mettendo su qualcosa di veramente losco? «Ora però si è fatto tardi, quindi ti riporto a casa» concluse, alzandosi. «Qua fuori ho lo scooter». Rimasi impietrita per un attimo. Lo scooter non me lo aspettavo. Mi faceva paura l’idea di guidarne uno io, e ancora di più quella di salire insieme a un altro. Lui colse il mio impasse. «Tranquilla, ho due caschi». Un criminale, ma rispettoso del codice stradale, dunque. O per lo meno preoccupato per la sicurezza. «È che non sono abituata a girare con quel coso… Cioè, non ci sono proprio mai salita». «Sul serio?» parve stupefatto. «Mai salita su un motociclo? Beh, non devi fare nulla, solo abbottonarti bene la giacca, sederti e tenerti stretta. Ah, se curvo e mi piego, devi fare lo stesso, non buttarti dall’altra parte perché è peggio. Prometto che andrò piano. Velocità di crociera. Mi arresi. Mi appollaiai posteriormente e cinsi Vic con le braccia. Nell’istante in cui partì, sentii le viscere in subbuglio per l’accelerazione. Ma presto mi abituai al movimento, e anche al contatto con la sua schiena, che mi riparava dall’aria e dalla pioggerella fastidio-sa che aveva iniziato a cadere. Per non pensare alla strada, lasciai che la mia mente divagasse. Che razza di società poteva aver messo su uno come Vic con quei quattro disgraziati? Poteva trattarsi di una società criminosa? E allora che cos’era Vic, così gentile e ammodo, un ladro galantuomo? Perché indubbiamente lui era diverso da quegli altri, ave-va tutto un altro stile, aveva un che di raffinato, e poi sembrava ragio-nevole. Che non fosse come loro mi era balzato all’occhio fin da subito, ma ora mi pareva che la differenza non consistesse solo nella quantità di birra e di parole che rispettivamente entrava e usciva dalle loro boc-che e nei modi più scostumati che quegli altri avevano di comportarsi e

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negli sguardi lascivi che lanciavano alle donne. Vic, quando era con me, sembrava un ragazzo normale: sicuramente era più rilassato che in loro compagnia e, per dirla tutta, averci a che fare era persino piacevo-le. Ma allora cosa aveva da spartire con quei tizi? Cosa ci faceva con loro? Perché un tipo come lui, che conosceva l’educazione, che parlava un italiano impeccabile, si era unito in una qualche “affare” con quella marmaglia? In che cosa quei disgraziati combina-guai potevano tornar-gli utili? Oppure, come sottolineava Noemi, lui mi stava solo intortan-do? Non avevo ancora terminato le mie congetture quando Vic si acco-stò: «Credo che siamo arrivati» disse. «Com’è stato il primo viaggio in scooter?». «Direi ottimo» risposi sfilandomi il casco e guardandomi intorno con-fusa. Eravamo già arrivati? Ci avevamo messo così poco? O forse le mie elucubrazioni avevano annebbiato la mia percezione del tempo? «Se domani sera lavori, ti accompagno di nuovo a casa. E troverò una soluzione per questa faccenda. Te lo prometto» mi disse con un mezzo sorriso. Aprii il portone, poi tornai indietro: «Posso chiederti una cosa?». «Tu chiedi, se posso ti rispondo». «Da quanto tempo sei in Italia?». Lui incrociò le braccia e guardò un punto nel vuoto: «Bel quesito… Non lo ricordo più nemmeno io. Comunque da un po’». Intuii che non volesse darmi troppa soddisfazione, ma poi pensai che fosse una domanda stupida. Per parlare l’italiano in modo così fluente non doveva essere arrivato solo l’anno prima. «Va bene» feci. «Allora buonanotte. E… grazie». Si rimise il casco e mi fece un cenno con la mano. Quando richiusi il portone, lo sentii ripartire.

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8. Paula Il bello di lavorare per più padroni diversi, pur facendo per loro la stes-sa cosa (le pulizie), era che ognuno aveva le sue fissazioni. Oltre che a casa di Gianna, prestavo servizio da una signora non più giovanissima di nome Rosalinda, e questa Rosa-linda (ho scoperto che in italiano “linda” significa “pulita”) non era linda per niente. Infatti mi ordinava di pulirle in modo maniacale i pavimenti e le porte, nonché i tappeti, ma non voleva che le toccassi i soprammobili, - ne aveva moltissimi, di tutte le forme e dimensioni, statuine in stile Settecento, gondole di Ve-nezia, sfere di vetro contenenti finta neve e lustrini colorati, e altre cose così, - probabilmente temeva che glieli sfasciassi, il che sarebbe stato un guaio perché ogni pezzo, diceva, era veramente esclusivo e non a-vrebbe potuto in nessun caso essere sostituito. Non sarebbe servito a niente nemmeno che glielo ripagassi, perché ciò che contava era il valo-re affettivo. Così io mi rompevo la schiena sui suoi pavimenti, ma tra i suoi ammennicoli regnavano polvere e caos. Stessa cosa dicasi per gli angoli e i termosifoni: erano zeppi di polvere e di ragnatele, ma lei sembrava non badarci. Una volta mi ero messa di buzzo buono a passa-re ogni cantuccio, a spazzolare ogni piega del calorifero, ma così facen-do ci avevo messo tre quarti d’ora in più del solito. Per tutta risposta lei mi aveva pagato solo le due ore concordate e io ci avevo rimesso. Non solo, aveva pure insinuato che io volessi approfittarmene, che stessi prendendomi troppe libertà e, dulcis in fundo, che avessi battuto la fiac-ca perché mi ero concentrata su dettagli irrilevanti per non stancarmi troppo. Da quella volta mi ero fatta furba e mi ero focalizzata solo sui suoi amati pavimenti, e dopo due ore esatte me n’ero sempre andata via puntuale, per la sua e la mia soddisfazione. E che dire di quell’altra? La signora Anastasia aveva ben tre lampadari con le gocce di cristallo, e ogni volta pretendeva che gliele pulissi tutte, una per una, fino allo splendore. In bagno, poi, voleva che usassi un

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prodotto in polvere per detergere i sanitari, e dovevo ricordarmi poi di rimettere le spugnette una sull’altra nello sgabuzzino. Gianna invece, all’idea della polvere detergente, si era messa a ridere come una matta: «È un prodotto superatissimo, quanti anni ha questa signora? E dove la compra ancora una roba del genere? Qui a casa mia uso l’anticalcare spray, che è più innovativo e viene periodicamente riformulato. Mi rac-comando, non confonderlo con lo sgrassatore, che non è lo stesso. An-che lo sgrassatore pulisce, ma non igienizza, non toglie il calcare e do-po due minuti il lavandino sembra più sporco di prima. Invece l’anticalcare ha un effetto più duraturo, e senza non potresti eliminare il residuo che si forma intorno al rubinetto». Tra tutte, Gianna mi sembrava la più sensata, anche se qualche mania ce l’aveva pure lei: aveva un attaccamento morboso all’aspirapolvere tedesco costosissimo che aveva acquistato l’anno prima, il Folletto, si chiamava, e lei diceva che era il suo terzo figlio, e se si accorgeva che io urtavo i mobili si indispettiva più per lui che per i mobili stessi. Però non pretendeva che pulissi le pareti esterne degli armadi, asseriva che era inutile, che la polvere sulle superfici verticali nemmeno si fer-mava. Invece la signora Anastasia mi faceva arrampicare sulla scala tutte le sante volte, non solo per lustrare i lampadari, ma anche le nume-rose ante dei molti armadi. Sembrava incurante del fatto che se fossi mai caduta, anche lei avrebbe passato un guaio, dato che, a casa sua, lavoravo rigorosamente in nero. Questo risvolto lo conoscevo perché Gianna me lo aveva spiegato: lei era l’unica ad aver regolarizzato la mia situazione all’INPS. Mi aveva detto: «Non lo faccio solo perché è giusto, ma perché se tu ti rompi un’unghia a casa mia e vai al Pronto Soccorso, poi giustificare la cosa è difficilis-simo». Neppure Caterina, la figlia di nonno Giorgio dal quale trascorrevo la più parte del mio tempo, mi aveva ancora proposto un contratto. Conti-nuava a promettermi di voler sistemare la faccenda, ma al dunque nic-chiava e rimandava. Ufficialmente io avevo il domicilio a casa dello zio Adrian, ma di fatto non ci avevo mai abitato. Anche mio fratello, for-malmente, risiedeva là, ma pure lui si faceva vedere raramente dai pa-renti. Riemergeva solo quando aveva bisogno di qualcosa. In realtà di-videva un alloggio con certi suoi amici che non mi convincevano mol-

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to. Non avevo ben chiaro chi e quanti fossero, e da quello che avevo intuito c’era pure un certo ricambio di persone, ma ero abbastanza sicu-ra che il ragazzo che mi piaceva fosse dei loro. Per quanto tentassi di ripetermi che quel tipo non poteva essere migliore degli altri, e men che meno di mio fratello, non riuscivo proprio a togliermelo dalla mente. I suoi occhi magnetici, i suoi modi spavaldi me lo avevano fatto entrare in testa e nel cuore. Spendevo parte della giornata, tra un pavimento e un bucato, a immaginarmi come sarebbe stato se lui mi avesse mai de-gnata di uno sguardo, se si fosse interessato a me. Sognavo che, da qualche parte, lui avesse un lato romantico e dolce e mi figuravo che sarebbe stato bello andare insieme a passeggio, su e giù per il Parco del Valentino o per il Parco della Tesoriera alla domenica, e poi, magari, avremmo potuto trascorrere un paio d’ore al cinema, a vedere un film d’amore e a baciarci pure noi. Fantasticavo di potergli cucinare delle succulente cenette, ben più sostanziose e gustose delle minestrine an-nacquate che facevo ribollire per il nonno che accudivo, al termine del-le quali lui mi avrebbe ringraziata ricoprendomi di coccole. E fu proprio sognando un momento di tenerezza, sperando di baciare un giorno il ragazzo dei miei sogni che mi distrassi. In quel momento l’anziano Giorgio mi chiamò, o meglio, si mise a urlare. Chissà quali incubi attraversavano la sua testa, mentre la mia era imbottita di belle speranze. Trasalii per lo spavento, con la sensazione che l’uomo fosse dietro di me, il che non era possibile, perché lui ormai non si alzava più: se così non fosse stato, non avrei mai nemmeno avuto la possibilità di lasciarlo solo in casa e di uscire, di andare a fare altri lavori dopo averlo sistemato, perché altrimenti, fuori di testa com’era, lui chissà in quale guaio si sarebbe cacciato. Eppure quell’urlo angosciato mi sem-brò talmente vicino che per il soprassalto mi voltai di scatto, e così fa-cendo urtai il pentolino che avevo sul fuoco, colmo di semolino roven-te, e me lo rovesciai addosso. Per un attimo non sentii nulla, poi, all’improvviso, le mani e le gambe che erano state investite dal fluido bollente, presero a bruciare. Strillai per il dolore, che aumentava di momento in momento. Faceva talmente male che mi sembrava mi mancasse il fiato. Fui colta dal panico, non sapevo cosa fare, a chi chiedere. Scacciai l’idea di telefonare alla mamma. Presi il cellulare e composi il numero di Caterina. Quella par-ve più che altro infastidita:

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«Mettici dell’olio, vedrai che passa. Comunque tra un po’ arrivo» si limitò a dirmi. Me ne rimasi buona per un po’, spalmandomi d’olio, ma non servì a nulla, anzi, peggiorò la situazione. Togliendomi i pantaloni, poi, mi ero pure portata via un lembo di pelle da una coscia. Iniziai a singhiozzare silenziosamente, a dondolarmi su me stessa per auto-consolarmi. Nella camera di fianco di quell’alloggio desolato e puzzolente di vecchiume si udiva nonno Giorgio che si lamentava per qualcosa, ma non riuscivo a capire che cosa volesse e comunque, in quel momento, i suoi guaiti penosi mi davano solo fastidio. Mi tappai le orecchie, ma non servì a nulla. Caterina tardava ad arrivare. Alla fine, in preda all’ansia, chiamai lo zio Adrian. Ma quello mi rispose che non poteva allontanarsi da dov’era in quel momento, e che mi avrebbe mandato direttamente quel debosciato di mio fratello. Passò un’altra ora, senza che ci fosse traccia né di Caterina né di qual-che mio consanguineo. Poi, quando avevo perso ogni speranza, il cam-panello suonò. Era lui, il mio non proprio solerte fratellone, che spa-zientito al citofono mi invitava a scendere celermente se volevo essere portata all’ospedale più vicino. Era col suo amico, e il Ducato in doppia fila in corso Traiano non si poteva tenere: tutte le auto dietro strombaz-zavano. Diedi un’ultima occhiata al nonno, mi sincerai che non gli mancasse nulla e, chiusa la porta a doppia mandata, mi catapultai di sotto. La pelle sulle gambe tirava. La mano sinistra non riuscivo nem-meno più a muoverla. «Sbrigati» mi sollecitò lui, «sali in fretta». Salire in fretta non mi fu possibile, date le mie condizioni, ma feci del mio meglio. Una volta su mi accorsi che alla guida dello sgangherato furgoncino c’era Lui, il ragazzo dei miei sogni, che non mi degnò di uno sguardo, ma mise in moto e in un batter d’occhio mi scaricò davan-ti al pronto soccorso delle Molinette. Feci appena in tempo a contem-plarlo silenziosamente mentre sterzava, incurante di tutto, del traffico, dei divieti di transito, che mi toccò scendere. Ovviamente né lui, né mio fratello mi accompagnarono dentro, a loro non importava un accidente di me e dei miei problemi. Volevano solo sbrigare quella fastidiosa in-combenza il più rapidamente possibile. Lo zio Adrian probabilmente lo aveva convinto con le cattive ad aiutarmi: o si rendeva utile, o niente quattrini.

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All’accettazione mi assegnarono il codice verde e mi diedero subito del ghiaccio: «Ci ha messo sopra dell’olio?» mi rimproverò l’infermiere di turno. «Come le è venuto in mente?». Non risposi. Non mi chiesero molto, solo se ero arrivata con mezzi miei e quando era successo il fattaccio. «Perché ci ha impiegato tanto a venire? Guardi che bolle che le stanno uscendo» commentò sempre lo stesso tizio. Risposi che nessuno poteva portarmi. «Perché non ha chiamato il 118, piuttosto?». Mi presi la rampogna, ma evitai di parlare del nonno Giorgio e dell’appartamento in Corso Traiano. Chissà se quell’infermiere in cuor suo poteva avere intuito che io, una rumena di ventun anni, fossi in re-altà una badante in nero, una vittima del lavoro sommerso, e che il mio infortunio avesse una ragione precisa. In tal caso, aveva messo magi-stralmente a tacere ogni moto della coscienza che lo avrebbe portato a denunciare la mia condizione. Uscii da lì tre ore più tardi, con un’iniezione di Toradol antidolorifico, un impacco di Sofargen, una diagnosi (“Ustione di secondo grado aggravata da abrasioni”) e la pre-scrizione di un antibiotico, e cercai un pullman che mi avvicinasse a casa. Quando aprii la porta, trovai ad accogliermi Caterina, che fu gelida: «Dove sei stata tutto questo tempo? Non sapevo più cosa pensare! Non avevi dietro nemmeno il cellulare». Intuii che non fosse preoccupata tanto per me quanto per le implicazio-ni della mia sparizione. E se mi fossi lasciata scappare che lavoravo in nero pur essendo domiciliata presso di loro? La rassicurai dicendo che avevo tenuto la bocca chiusa. Non mi chiese nemmeno come stessi, era convinta che le mie fossero tutte paturnie, evidentemente. Prima che uscisse, però, mi tolsi la soddisfazione di puntualizzare: «L’olio sulle ustioni è sbagliatissimo». Lei si indispettì e scrollò le spalle: «A me avevano sempre detto così». Quando mi infilai a letto, avevo ancora male e mi resi conto che dormi-re sarebbe stata un’ardua impresa. Poi però ripresi a fantasticare sull’amico di mio fratello, che continuava a non accorgersi nemmeno

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della mia esistenza, nonostante quel giorno mi avesse traghettato fino alla salvezza dell’ospedale. Pazienza, pensai, era già stato sufficiente-mente umiliante che mi vedesse in quelle condizioni così poco dignito-se. Confidavo nel matrimonio di Daniela per fare colpo su di lui, sul mio adorato Istrate. FINE ANTEPRIMA.Continua...