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Gothic Club

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Antologia di racconti horror di Vampire

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Diabolika

Lo ascoltava attentamente da quasi un’ora.

Parlava con fare spedito. Tamburellava a volte sul bracciolo destro della poltrona,poi si grattava furtivamente il naso e riprendeva nel suo eloquio fluido, disinvolto,padrone della situazione, smagliante e beffardo.

Ne era affascinato.

I suoi occhi placidi sostavano liquidi sul muro di fronte, poi saettavano perincrociare i suoi quando meno se lo aspettava.

Quello sguardo lo coglieva impreparato per la sua scaltrezza e per la sua acuità.L’uomo seduto di fronte a lui lo sapeva.

Stava lentamente prendendo il sopravvento e non poteva permettere che ciòaccadesse.

“Qual è l’ultima immagine che le sovviene prima di addormentarsi?”.

L’uomo sorrise.

“I loro volti”.

“Quelli delle sue spose?”.

“Delle mie spose, sì… le rivedo nell’attimo prima di donarmi il loro cuore”.

“Parliamo dei resti. Pensa di essere pronto a dirmi cosa ne ha fatto?”.

“Dottore, dottore, dottore…tanti anni di pratica con i sociopatici ed ancora non hacapito quando e quali domande porre…non va affatto bene. No, no, no.

Non ricordo nulla dei loro resti, ma credo che si possano ancora ritrovare…concalma, fortuna ed immedesimazione”.

Alvarez continuava a fissarlo con aria divertita. Howard sostenne il suo sguardosprezzante e sicuro, fermo ed impettito nel suo completo buono, gli occhialiassestati sul naso aquilino ed un tremendo cerchio alla testa che cominciava adobnubilargli le idee.

L’orologio contro il muro ticchettava rumoroso ed il silenzio circostante si feceinsopportabile. La guardia carceraria che irruppe nella stanza gli fece venir vogliadi esultare.

“Forza Alvarez, la seduta è finita, si torna a casa, nella tua comoda stanzuccia”.

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Greg, panciuto poliziotto sessantatreenne, odiava il suo lavoro, Howard, da bravopsichiatra, lo aveva intuito dalla trasandatezza della sua divisa e dai suoi modinoiosamente sbrigativi, ma adorava maltrattare la feccia dell’umanità, come gliaveva confidato durante una breve e furtiva chiacchierata consumata nel cortiledel carcere, fra una Lucky Strike ed un sorso di birra calda.

“Immedesimazione, dottore, lo rammenti” aggiunse Alvarez trascinando le gambelegate da pesanti catene fuori dal parlatorio.

Howard rimise le sue scartoffie nella ventiquattrore di pelle marrone, ripose gliocchiali da vista nel fodero e indossò un paio di vecchi Ray Ban da sole.

La calura dell’estate inoltrata lo colpì alla bocca dello stomaco con tutti i suoiveementi fetori non appena raggiunse la sua auto nel parcheggio dell’istituto didetenzione. L’ampio parco era completamente deserto, fatta eccezione per laMustang nera del direttore che si abbrustoliva mesta. Per miglia e miglia non siscorgeva nulla, solo deserto e rovi. Non c’era modo di evadere da quel posto, gliaveva sussurrato orgoglioso il signor Miles responsabile del carcere da quasitrent’anni. Il penitenziario era semplicemente immerso nel niente, fuggire sarebbeequivalso a morire di fame e di stenti. Luogo totalmente inadatto a qualunqueprogramma di riabilitazione, aveva obbiettato lo psichiatra, ma riabilitazione dacosa e per chi? Aveva replicato il direttore. A Fort Lowderdale venivano rinchiusisolo i condannati a morte, gli psicopatici ed i terroristi, melma che non aveva lanecessità di essere reintegrata nella società civile. Dopo un anno trascorso in quelposto, anche per solo un’ora alla settimana, a raccogliere le memorie e leconfessioni della popolazione carceraria, Howard si era dovuto arrendereall’evidenza: Miles aveva ragione, quegli esseri avevano perduto da tempo il dirittodi appartenere alla razza umana.

Il viaggio di ritorno fu più spossante del solito, il suo appartamento gli apparve illuogo più sicuro e più desiderabile dell’Universo.

Barbara era seduta sul divano con le gambe acciambellate come un gatto soriano.Sorseggiava una tazza di the freddo e spulciava con noncuranza una rivistaadagiata sul tavolino.

Lo guardò con aria benevola:

“Tesoro, sei distrutto”.

“Grazie, lo so. Baciami”.

Lei si alzò adagio, si levò sulle punte dei piedi scalzi e gli sfiorò appena le labbra.Lui le fece scivolare le mani sotto la camicetta semi sbottonata, ed il bacio siruppe in una maliziosa risata.

Sdraiati sul letto sfatto si accarezzavano senza parlare.

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Barbara fumava facendo scorrere le dita della mano sinistra fra i pettorali diHoward e lui si limitava ad accarezzarle una gamba fissando l’angolo opposto delsoffitto candido.

“Cosa c’è che non va? Sei assente” gli chiese lei.

“Alvarez”.

“Sei venuto a capo di qualcosa?”.

“No, mi ha solo schernito come suo solito. E’ la prima volta che provo un talesenso di impotenza di fronte ad un paziente, è come se mi incutesse una sorta disoggezione che non so spiegare”.

“Howie, ti prego, non dirmi che ti fai intimidire da un analfabeta, schizoide e perdi più incatenato come un maiale al macello”.

“Esattamente, puoi anche non crederci, ma è proprio così. Mi disorienta, non siconfida, sono sei mesi che parla con me del nulla. Né una visione, né un ricordo,nulla. Mi stima, questo è palese, ma sa anche che non riuscirò mai ad entrarenella sua testa a meno che non sia lui a permettermelo. Ed intanto ildipartimento incalza… Se non riuscirò a farmi indicare il luogo esatto in cui sonosepolte le vittime mi revocheranno il caso ed anche l’assegno di ricerca. Sononella merda”.

Si alzò di scatto ed uscì in balcone.

Barbara lo raggiunse cingendogli le spalle con dolcezza:

“Non esagerare, ci deve pur essere qualcosa che ti è sfuggito, un particolare chehai trascurato, una frase…”.

“E credi che non lo avrei già individuato? Sono il più giovane profiler accreditatodall’università, il mio metodo d’intervista e raccolta dei dati viene già insegnatonei corsi di intelligence. Se ci fosse stato anche il più piccolo dettaglio lo avreicolto, credimi”.

“Conosco le tue credenziali dottore, sono tua moglie! Però è impossibile che non cisia nulla su cui lavorare ancora”.

“Stasera mi ha salutato in maniera anomala, adesso che ci penso…mi ha detto:immedesimazione”.

Rientrò ed estrasse dalla valigetta una piccola cartella di cartone, ne sparpagliò ilcontenuto sul pavimento e si alzò per osservare meglio il quadro.

Barbara si avvicinò alle foto e distolse lo sguardo con aria di disgusto.

“Mio Dio, che scempio”, commentò.

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I volti esanimi ed esangui di sei giovani donne si stagliavano, surreali, contro unaparete scura. Le teste erano state mozzate ed erano immortalate disposte in filasu uno scaffale di legno. Le polaroid le ritraevano secondo diverse angolazioni, malo scenario non cambiava poi di molto: sei teste mozzate con i capelli raccolti inaltrettante code di cavallo, i volti perfettamente truccati e gli occhi privi dei bulbioculari, disposti con cura di fronte ai colli mozzati.

Sei spose, le definiva Alvarez, che gli avevano donato il loro cuore.

“Sei donne uccise per decapitazione. Sei donne senza nulla in comune. Sei donnesenza corpo. Sei spose…sei spose…immedesimazione”.

Barbara lo osservava perplessa e divertita. Quando Howard cominciava adissertare da solo vagando nudo per la casa, era segno che i suoi ingranaggicerebrali avevano ripreso quella peculiare marcia che lo avrebbe condotto lontanoe vicino alla meta.

A suo modo anche lui era uno schizofrenico in cerca di un proprio equilibrio.Quello che sua moglie temeva era che quel baricentro fosse troppo distante dallarealtà per poter essere raggiunto.

Gli porse i pantaloni del pigiama che Howard indossò senza smettere di parlareinseguendo il filo delle sue elucubrazioni. Lo abbandonò in salotto e fece ritorno aletto.

La mattina seguente lo trovò addormentato in veranda con le foto delle ragazze, omeglio delle loro teste, strette nella mano.

Lo scosse dolcemente e gli porse una tazza fumante di caffè nero bollente.

“Immedesimazione”, gli ripeté lui prima ancora di darle il buon giorno.

Barbara si sedette a gambe incrociate sul pavimento e con gli occhi assorti glichiese:

“Sono tutta orecchie, comincia”.

“ Avevi ragione tu. C’era qualcosa che avevo trascurato: Alvarez”.

“Spiegati meglio”.

“Io non so nulla di lui. So che ha assassinato delle donne, so che è un maniacosessuale, analfabeta, immigrato dal Messico, senza fissa dimora, un emarginato.Ma cosa sognava da ragazzo? Cosa amava della vita? Qual era il suo scopo? Tuttidettagli tralasciati alla folle ricerca di comprovare la mia teoria: porre il soggettoin stato di quiete e di inutilità per portarlo a confessare”.

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“Bhe…è la tesi che ti ha fatto diventare il più giovane profiler dell’università, lohai detto tu…”.

“Sì, ma Alvarez è diverso. Non lo ammetterei con nessun altro all’infuori di te, male mie teorie sono frutto di una mera improvvisazione”.

“Cosa?”.

“Un’intuizione poco scientifica che si è verificata esatta in alcuni casi, fortunainsomma. E’ vero che molti sociopatici vivono per raccontare le loro “opere” e nonporre loro alcuna domanda inerente i delitti li spinge a confessare con estremarapidità, ma è altrettanto vero che questo killer è vecchio stampo. L’ho capito soloieri sera riguardando le foto per l’ennesima volta: nulla è lasciato al caso, c’è artein quello che fa, nessun raptus, nessuna ferocia incontrollata, ma meticolosaricerca, ricerca volta alla propria soddisfazione. Quest’uomo non brama la famané il plauso di nessuno. Dovrò cominciare a comportarmi con lui come unostrizzacervelli autentico: raccolta dell’anamnesi familiare, stati d’animo, traumi equant’altro”.

“Ma questo significherebbe stabilire un trasfert e non credo che una cosa delgenere giovi alla tua salute mentale”, replicò Barbara con foga inaspettata.

Howard le accarezzò i capelli.

“Non temere, non accadrà più”.

Lei si alzò e si diresse in cucina.

Fece ritorno poco dopo con un coltello per affettare il pane stretto nella mano.

“Che significa?” chiese lui preoccupato.

“La tua fobia per le armi da taglio”, disse gettando la lama sul pavimento dellaveranda, “quella per il buio, gli incubi, la claustrofobia, le hai dimenticate?”.

“Ero giovane ed inesperto, mi spiace solo che a pagarne lo scotto sia stata tu”.

“Non so Howard… So solo che il tuo lavoro stava per annientarci, e ti occupavi dibanali nevrotici in una tranquilla cittadina di provincia. Cosa inventerà la tuapsiche se tenterai di stabilire un transfert con un omicida?”.

Howard si alzò e fissò la moglie dritto negli occhi grandi ed impauriti.

“La mia decisione di diventare un profiler è nata proprio dalla mia eccessivaimmedesimazione nei pazienti. Lasciavo che le loro emozioni mi permeassero finoa diventare parte della loro patologia. La mia geniale trovata di creare unasituazione nella quale i soggetti si confidassero senza bisogno che ci fosse alcunapartecipazione del terapista, è stata un modo per fuggire dai miei problemi. Ora è

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necessario confrontarmi con essi e vedere se e come sono cresciuto. Non lo faccioper il dipartimento, né per la carriera e neppure per amore della giustizia, lo devofare per me, per dimostrare a me stesso che sono migliore della gente chepretendo di curare”.

“E se ricominciasse tutto daccapo?”.

Howard sospirò dolorosamente:

“Ti faccio una promessa: se mi dovessi accorgere anche solo di un minimo sensodi disagio, rinuncerò immediatamente al caso e tornerò ad insegnare alla facoltàdi medicina, e non mi lamenterò mai più di dover annegare in un mare discartoffie”.

“Buona sera dottore”.

“Salve Alvarez, come stai?”.

“E’ la prima domanda personale che mi rivolge dall’inizio dei nostri incontri”.

L’uomo inarcò le sopracciglia e fissò i suoi piccoli occhi da roditore sul voltocompassato di Howard.

“E desidererei anche avere una risposta”.

“Bene, sto bene”.

“Dormi?”.

“Non c’è molto altro da fare in una cella d’isolamento”.

“Hai subito maltrattamenti da quando sei ospite in questa struttura?”.

Alvarez rise sarcasticamente:

“Ospite…davvero divertente Doc”.

“Doc?”.

“Non è così che ti chiama tua moglie nei momenti d’intimità?”.

“Sì, ma non rammento di avertelo mai confidato”.

“Immedesimazione, Doc. Io gioco spesso ad immedesimarmi negli altri. E’ unbuon esercizio per tenere desta la mente”.

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“Dove sei nato…”.

“Antonio, non si rammenta neppure il mio nome?”.

“Non sono abituato a considerarti una persona, per me sei il 1666 rinchiuso nelbraccio D, condannato alla pena capitale per omicidio plurimo, e l’unica cosa chemi interessa veramente sapere da te è dove hai nascosto quei cadaveri mutilati,ma so che non me lo dirai. Allora sono costretto a sapere chi sei”.

“Bene, almeno abbiamo smesso entrambi di mentire. Sono Antonio Alvarez, natoa Città del Messico quarantasette anni fa, non ho mai avuto una famiglia, unacasa, un lavoro, sono figlio del niente”.

“Orfano, dunque. Sei cresciuto in un istituto?”.

“No, sono cresciuto in una stradina di periferia, dimenticato fra i bidoni dei rifiuti.Vuole sapere se sono stato abusato, molestato, violentato? Oh sì, tante di quellevolte che non lo rammento più nemmeno con disgusto. Balocchi infantili…”.

Un brivido corse lungo la schiena di Howard, ma qualcosa non combaciava.

“E per quanto concerne la tua istruzione? So che non sai leggere, ma il tuoeloquio è accurato e forbito, non in sintonia con la storia di truce miseria che mistai raffazzonando”.

“Ascolto, io ascolto molto, ed imparo, memorizzo”.

“Immaginavi di essere qualcun altro da ragazzo?”.

“Immaginavo di essere chiunque incrociasse la mia strada. Per pomeriggi interiosservavo i bambini della mia età passeggiare con le loro madri, mangiare,giocare. La notte mi rintanavo in qualche cartone e sognavo ad occhi aperti dichiamarmi Alonso, Jesus, Jessie e di uccidere i miei genitori smembrandoli pezzoa pezzo”, rise ancora.

“Chi ti ha cresciuto?”.

“I barboni delle bidonvilles, a turno. Qualcuno mi coccolava, qualcuno mi dava damangiare, qualcuno mi portava a letto, gliel’ho detto…”.

“Già, balocchi infantili, lo rammento. Chi è stata la tua prima vittima?”.

“Il gestore di un ristorante. Non voleva che frugassi nel cassonetto dellaspazzatura sul retro del suo locale. Lo accoltellai con un coccio di vetro. Morìdissanguato. Bevvi il suo sangue, avevo sete”.

“E l’ultima?”.

“Mary Elisabeth Mastronardi, spogliarellista in un disco pub”.

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“Hai bevuto anche il suo sangue?”.

“No, mi serviva il suo corpo intatto”.

“Ma non la sua testa”.

“No, quella proprio no”.

Silenzio.

“Cosa provi quando uccidi, soddisfazione, rivincita, frustrazione?”.

“Nulla, lo faccio e basta. Non ho quello che voi psicoanalisti definite “senso dicolpa”. Non provo niente”.

“Allora perché lo hai fatto?”.

Estrasse dalla borsa la polaroid che ritraeva le sei teste disposte in ordine sullamensola di legno.

“Questo è opera di un grande artigiano, di un cesellatore accurato, di un uomoche ama profondamente il suo lavoro”, continuò.

Alvarez guardò la foto di sfuggita.

“E’ vero, ma non amo il mio lavoro, lo dovevo semplicemente compiere”.

“Le tue spose ti hanno donato il loro cuore, ti amavano?”.

“Non si può amare uno come me”, sghignazzò.

“Nessuno lo ha mai fatto?”.

“Una volta sola”.

Per un attimo impercettibilmente breve Howard sentì le difese dell’uomo cedered’improvviso, stava per espugnare la fortezza.

“E tu l’amavi?”.

“Più della mia stessa vita, mi faceva sentire…umano”.

“E dov’è ora?”.

Alvarez non rispose,

“E’ venuta a trovarti in carcere?”.

L’uomo si passò nervosamente le mani sul volto sudato, si arruffò i capelli ispidi.

“Rispondimi Antonio, dov’è lei ora?”.

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L’uomo morto che cammina si levò di scatto dalla sedia con furia inaudita:

“Che cazzo vuoi da me bastardo! Che cosa cazzo vuoi? Credi che ti permetterò diportarmi via l’unica cosa che abbia mai avuto! Ma io ti sbrano, bastardo, io timangio il cuore….”.

Ringhiava, si dimenava. Howard era impietrito, irrigidito sulla sedia, vide le maniossute di Alvarez avventarsi contro il suo collo. L’aria gli mancò d’improvviso, unamiriade di stelline bianche cominciarono a danzare impazzite dinnanzi ai suoiocchi sgranati, poi la voce di Greg lo riportò alla realtà.

La guardia strattonò Alvarez per la catena che aveva legata alla vita e l’uomoinciampò sui suoi stessi piedi, la morsa alla gola del dottore si allentò ma nonsvanì. Un colpo di sfollagente vibrato alla base della nuca dell’ergastolano glirestituì il respiro.

“Sta bene dottor Hamilton?”, chiese Greg ansimando.

Howard fece cenno di sì con la testa.

“Alzati figlio di puttana, che in cella te ne aspettano delle altre” e colpì Alvarez alfianco con un calcio possente. L’uomo sussultò appena, quindi si issò sulleginocchia e gattonando si avvicinò di nuovo allo psichiatra.

“Ti ammazzo se la cerchi. Ti ammazzo”, sibilò.

“Dove sono i corpi delle donne…”, rantolò Howard.

“Sotto la chiesa di St. Mary”.

Alle sette della stessa sera Howard Hamilton attendeva seduto sulle scale delsagrato della chiesa sconsacrata di St.Mary che la squadra dell’ F.B.I. finisse diridurre a brandelli il pavimento della navata principale.

Fumava distrattamente quando l’agente Harrington lo chiamò a gran voce.

Erano lì, impilati ordinatamente uno sull’altro. Sei corpi senza testa, nudi e con iltorace squarciato, sepolti sotto l’altare.

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“Bel lavoro”, commentò il capo dell’agenzia, accompagnando la frase con duepacche vibrate rispettivamente sulle spalle del suo vice e del geniale psichiatra.

Il dottor Hamilton abbandonò in fretta il luogo del ritrovamento. Aveva unpersistente senso di vertigine e la strana sensazione che qualcuno lo stesseinsistentemente chiamando.

“Tesoro”, gli gridò Barbara gettandogli le braccia attorno al collo.

“E’ stato un trionfo! Com’eri bello al telegiornale delle venti. Dio mio, come sonofelice, sei stato semplicemente grandioso…”.

“Sì, sì, sono telegenico lo ammetto”.

“Cos’hai, qualcosa non va? Hey, dico, sei l’eroe del giorno, la facoltà ti pregherà inginocchio di accettare la cattedra di psichiatria forense, e sembra che ti sia mortoil gatto…”, aggiunse lei imbronciata.

“Scusa se non faccio i salti di gioia, ma un pluriomicida mi ha quasi strangolatonel primo pomeriggio ed ho da poco assistito alla riesumazione di sei cadaveriorrendamente deturpati nella navata di una chiesa sconsacrata”.

Si gettò sul divano coprendosi gli occhi con il dorso della mano.

Barbara rimase contrita in un mesto silenzio.

“Hai ragione, è solo che l’incubo è finito e credevo che…”.

“Non è finito. A quei corpi mancava il cuore. Il puzzle non è ancora completo, manon potrò più parlare con Alvarez, e questo limita la mia iniziativa”.

“Ma non è più affar tuo… Lascia che del resto si occupi la polizia. Goditi il tuomomento, goditi me…”.

Si tuffò fra le sue braccia e lo baciò con passione.

Stava facendo all’amore con sua moglie.

Le accarezzava i capelli, le serrava i fianchi, le voltava il viso per baciarla ancora ed’un tratto si accorgeva che non era lei.

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Gli occhi nocciola erano diventati verde smeraldo e la folta chioma rossa era neracome la notte.

Urlò.

Si destò di scatto, sudato, scosso da brividi, nudo sul pavimento della veranda.

“Howard…”.

Si voltò, nessuno.

“Howard, amore mio”.

“Chi è?” gridò alla volta del salotto scuro e vuoto.

Barbara si fece avanti barcollando. Aveva indosso la sua camicia bianca e sistropicciava gli occhi come una bambina.

“Che ci fai qui amore? Sono le quattro e sedici del mattino”.

“Mi hai chiamato?”.

“No, ti ho sentito gridare e mi sono svegliata. Stai bene?” gli chiese visibilmentepreoccupata.

“Sì, dannazione, sto benissimo. Non mi guardare sempre come se dovessi dar dimatto da un momento all’altro!”, gridò.

“Cristo, Barbara, mi stai distruggendo la vita”.

Entrò in camera da letto, si infilò un paio di pantaloni e le scarpe da tennis,dirigendosi verso la porta d’ingresso.

Barbara restò immobile nel centro della stanza buia, interdetta e sbigottita.

“Dove vai?”, chiese trattenendo a stento un singhiozzo.

“A prendere un po’ d’aria”, replicò sbattendo l’uscio.

Vagava senza meta quando si accorse di essere giunto dinanzi al portone dellachiesa di St.Mary.

Entrò scavalcando il nastro adesivo giallo che contornava la scena del crimine.

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La navata era immersa in un’oscurità solida, ma dopo qualche attimo si abituòalla fioca luce che filtrava dalle finestre infrante.

Si chinò sulla buca rimasta aperta sotto l’altare ed inalò profondamente l’odore dimorte stantia che emanava.

Scese nella fossa, senza comprenderne a pieno il perché.

Tastò, frugò, scavò, finché riuscì a trovare ciò che il suo inconscio bramava: unaciocca di capelli neri come la notte.

Rincasò per prendere degli abiti puliti. Controllò che Barbara si fosseaddormentata e portò il suo feticcio alla scientifica.

L’edificio dove era situato il laboratorio analisi si trovava in una zona appenafuori mano. A quell’ora della notte era certo di trovare solo l’agente di guardia eBriton, suo collega di corso alla facoltà di medicina e stacanovista delmicroscopio, ad animare il palazzo, per il resto deserto.

Salì le scale a quattro a quattro con il cuore che gli martellava nel pettoall’impazzata.

“Heilà”, lo accolse il ricercatore con un gesto divertito del capo.

“Ho bisogno di un favore”.

“Lo immaginavo, ma fa presto, ho ancora circa una ventina di vetrini dacatalogare”.

“Analizza questo”, disse porgendogli la ciocca di capelli che teneva stretta nellamano destra “e dimmi solo se appartengono ad una delle vittime di Alvarez”.

Briton prese il reperto con una pinza di metallo, ne estrasse un singolo crine e lodepose in una sorta di provetta metallica che chiuse in una specie di centrifuga.

“Pochi minuti e lo sapremo. Ovviamente l’F.B.I ignora del tutto questo piccoloindizio che tu hai sottratto dal luogo del ritrovamento dei corpi, giusto?”.

“Esatto, e tu non mi hai visto né stanotte né negli ultimi sette giorni, giusto?”.

“Sono molto miope e non riconosco neppure i parenti dopo una giornata dilavoro”, aggiunse strizzandogli l’occhio con complicità.

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Dopo pochi minuti il personal computer emise uno strano scampanio ed apparveuna complicata schermata ricca di grafici e di finestre di confronto.

“No, non appartengono a nessuna delle vittime”.

Howard si alzò di scatto e lasciò la stanza.

“Hey”, chiamò a gran voce Briton, “non li rivuoi?” urlò sventolando i capellitagliati.

Solo nell’auto guidava meccanicamente inseguendo un pensiero che continuava asfuggirgli.

“Howard”.

Si voltò verso il lato del passeggero e la vide.

Bella come un’apparizione angelica.

Gli sorrideva.

I lunghi capelli neri le incorniciavano l’ovale perfetto, gli occhi color smeraldo lofissavano con tenerezza e le labbra dischiuse e carnose lo invitavano sensuali.

L’auto sbandò e si schiantò contro un piccolo muro di pietra che costeggiava lacarreggiata.

Perse momentaneamente i sensi.

In quell’oblio fatto di profumi antichi e di morbidezze lascive, stringeva il corpo diquella donna con furia animalesca. Un senso di calore e di appagamentopervadeva il suo corpo risvegliando istinti che credeva assopiti e dimenticati.

Quando rinvenne lei era svanita.

Lei.

Scese dall’auto e cominciò a correre verso il centro cittadino. Si fermò senza fiatoad una cabina telefonica e compose il numero del penitenziario.

“Pronto”.

“Sono il dottor Hamilton. Ho assoluta necessità di parlare con Alvarez”.

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“Dottore, conosce la prassi, i condannati a morte non possono ricevere telefonatefuori dall’orario delle visite”.

“La prego è di vitale importanza. La vita di una donna potrebbe essere in seriopericolo”.

La voce dall’altro capo del filo esitò per un minuto che parve ad Howardinterminabile.

“Lei è quasi un eroe da queste parti, e se dice che c’è di mezzo la vita di unadonna forse…o.k., attenda in linea”.

Un sibilo metallico gli trapanò un timpano.

“Che vuoi Doc?”.

Alvarez sembrava stanco, il suo tono aveva perso ogni vena di ironia e discaltrezza. Sembrava vecchio.

“Lei… Chi è lei?” urlò Hamilton dall’altro capo del filo.

“Ti ha trovato, vero? L’ho persa…l’ho persa. Che tu sia maledetto…” piangeva.

“Chi è? Dimmelo…” implorava.

“E’ la Donna. Ti prenderà, io non le servo più” riagganciò.

Howard si accasciò singhiozzando.

“Avanti, torna in cella”, biascicò Greg insonnolito.

Alvarez si distese sulla brandina di legno.

Si fece il segno della Croce e recitò alcune parole in spagnolo.

La guardia lo osservò con disgusto.

“Prega, povero matto, tanto nessuno ti perdonerà per quello che hai fatto”.

Antonio si voltò verso la parte opposta e vide apparire leggero ed etereo nel centrodella stanza il volto della Donna.

Gli inviava un bacio silenzioso e fluttuante.

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Si alzò. Prese il lenzuolo. Lo attorcigliò e lo fece passare sopra il tubo del discaricodel piccolo water.

Salì sul bordo di porcellana del sanitario. Si passò la corda improvvisata attornoal collo e saltò.

Greg accorse sentendolo rantolare.

Lo vide scalciare e dimenarsi con i piedi che saettavano a trenta centimetri dalpavimento.

Si voltò dall’altra parte ed attese che l’agonia avesse fine.

Rincasò confuso, intorpidito, rallentato nei movimenti e nell’ideazione. Era comese tentasse di tenere l’equilibrio sott’acqua.

Lento.

Irreale.

Lei era lì, accanto al letto dove Barbara dormiva in posizione fetale, le guanceancora rigate dalle lacrime ed un clinex stretto nella mano.

“Ho fame” disse Lei.

“Sì” rispose Howard in stato di trance.

“Ma fa che non mi veda”.

Il dottor Hamilton si recò in cucina e fece ritorno nella camera da letto con lostesso coltello per affettare il pane che Barbara gli aveva gettato ai piedi solopoche ore prima.

Prese la moglie per i capelli e le squarciò la gola.

Poi con meticolosa precisione le recise il capo.

Il sangue imbrattava copioso le sue mani, il suo petto, il lenzuolo, sembrava chel’intera stanza stesse sanguinando.

Le spalancò le palpebre, osservò per un attimo i suoi occhi rivolti all’insù e glielicavò con la punta della lama.

Quindi la spogliò completamente, montò a cavalcioni sul suo tronco e con ungesto rapido e preciso le lacerò il torace e ne estrasse il cuore.

“Bene”, disse Lei, “ora portala da me”.

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Howard infilò i resti della sua adorata Barbara, la donna con la quale avevacondiviso quasi vent’anni della sua vita, in un sacco di plastica che si issò senzafatica sulla spalla, e con il suo cuore saldamente stretto nella mano, fece ritorno aSt. Mary.

Lei era lì ritta sulla fossa, sotto l’altare.

Howard gettò il corpo di Barbara nella buca. Dispose il capo su uno degli scrannidi legno ancora intatti e vi pose i bulbi oculari affianco, quindi porse il cuore allaDonna che lo divorò.

La sua figura eterea prese di colpo consistenza e Lei gli si avvicinò.

“Il suo volto”, disse, “per ridarmi la bellezza. I suoi occhi perché non mi possa maivedere. Il suo cuore perché mi faccia vivere”.

Howard si inginocchiò dinanzi a quella dea oscura.

“Chi sei?”.

“Sono la carne pervasa dallo spirito di mille amanti, madri, mogli, sorelle, amiche.Sono il demone della sensualità. Sono il tempio del tuo piacere. Sono la somma dichiunque mi abbia nutrito e la gioia dell’uomo che mi sfamerà. Ora sono la tuaDonna”.

“Ti amo” sospirò lui battendosi il petto.

“Anch’io” replicò lei baciandolo.

“Brutto affare”, sentenziò perplesso l’agente Bobbit fissando il lago di sangue cheimbrattava la camera da letto dei coniugi Hamilton.

“Alvarez si suicida nella sua cella di isolamento ed il dottore che ha condotto alritrovamento dei corpi svanisce misteriosamente insieme alla sua dolce metà,lasciandosi alle spalle una sorta di mattanza”.

Bruce Abbard, vice capo dell’F.B.I., annuiva sconsolato.

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“Cosa diremo alla stampa?”, chiese affranto.

Ramirez, un vecchio poliziotto della squadra omicidi del luogo, si avvicinò escosse la testa con aria saccente alla volta delle lenzuola madide di plasma.

“Che hai da dire ispanico?”, lo apostrofò sghignazzando Abbard.

“E’ la Llerona”.

“Cosa?” chiesero i due uomini all’unisono.

“So che non ci crederete, forse non ci ho mai creduto neppure io, ma Dio mi ètestimone, cose del genere”, disse additando il letto, “e corpi mutilati come quellimassacrati dal messicano che si è ucciso, si sono ritrovati spesso al mio paese, etutti dicono che sia colpa della Llerona”.

“Spiegati meglio vecchio” lo apostrofò Bobbit.

“E’ una leggenda che si tramanda di generazione in generazione. La LIerona è undemone che si nutre dei cuori delle donne assorbendo la loro bellezza, la loro vita.Un diavolo che strega gli uomini e li costringe a sfamarla…Bha, io me ne torno acasa”, aggiunse quasi fuggendo.

Bobbit ed Abbard risero di gusto.

“Incivili messicani”, disse Abbard fra le risa, “ancora legati a queste stronzatetribali”.

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