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I corvi di Erto e Casso. Voci dal Vajont

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a cura di Stefano Ferrio - Prefazione di Isabella Bossi Fedrigotti Questo è il romanzo che è stato scritto prima della catastrofe del Vajont. Il testimone è il suo scrittore che racconta e profetizza prima di quel 9 ottobre 1963,

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I CORVI DI ERTOE CASSOvoci dal Vajont

a cura di Stefano Ferrio

prefazione di Isabella Bossi Fedrigotti

Armando Gervasoni

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© Il SEGnO DEI GABRIEllI EDITORI, 2012Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona)tel. 045 7725543 – fax 045 6858595mail [email protected]

ISBn 978-88-6099-158-4

StampaIl Segno dei Gabrielli editori, Aprile 2012

Progetto grafico copertinalucia Gabrielli

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«Alcuni di noi sono come inchiostro,altri come carta.

E se non fosse per il nero di alcuni di noi,altri sarebbero muti.

E se non fosse per il bianco di alcuni di noi,altri sarebbero ciechi.»

Kahlil gibran

Al nostro papà Armandocon affetto

Rossana e Pierpaolo

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InDICE

PREFAZIOnEdi Isabella Bossi Fedrigotti 7

I CORVI DI ERTO E CASSO 11

PROlOGO 13

Parte primaSHERAZADE 17

Parte secondal’InCHIESTA 85

Parte terzalA PARTEnZA 149

COnClUSIOnE 167

POSTFAZIOnEdi Stefano Ferrio 177

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PREFAZIOnEdi Isabella Bossi Fedrigotti

Da lontano ci giunge una voce sorprendentemente chiara e pulita, senza polvere, senza crepe, senza se-gni di vecchiaia. Giunge da un fatto avvenuto ormai quasi cinquanta anni fa, tremendo e tragico e pur tut-tavia da tempo assimilato dalla nostra memoria tanto portata all’assuefazione. Un fatto accettato, digerito si può dire, parte della normale storia della nostra ita-liana umanità. Oppure, anche, un fatto dimenticato o nemmeno conosciuto da chi ha meno di quarant’anni.

Armando Gervasoni, che «poi» vide, e documentò sui giornali quel fatto, non seppe accontentarsi degli ar-ticoli scritti da lui medesimo ma che, comunque, non potevano che essere sempre e soltanto frammenti, ve-dute singole dell’avvenimento, sebbene sistemate di se-guito una accanto all’altra, una dopo l’altra. Compose, addirittura «prima» dell’evento, un romanzo sulla tra-gedia – «profetico» romanzo, rimasto inedito a causa della sua precoce morte – per poterla rappresentare tut-ta fino in fondo senza perdere la voce per lo sgomento: i romanzi hanno infatti questa caratteristica, di ren-dere raccontabili e leggibili anche le vicende più ter-rificanti, togliendo loro il peso insopportabile ma non l’agghiacciante verità.

È la catastrofe del Vajont il suo tema, più di duemila morti in una sola notte, un pugno di paesini devastati

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o anche cancellati da una valanga di fango provocata da un immenso pezzo di montagna precipitata den-tro l’invaso di una diga. Una calamità naturale? Solo nel senso che la natura non ha retto ai misfatti degli uomini, intesi come criminale incuria e sfruttamento più perverso delle risorse dell’ambiente. Se di normale, fatale e imprevedibile calamità si fosse trattato, all’au-tore sarebbero probabilmente bastati, per raccontarla, i suoi puntuali articoli sul giornale; trattandosi invece di una catastrofe accuratamente preparata dall’uomo in anni di gestione a dir poco sconsiderata e superficia-le, gli è stato necessario scrivere il romanzo.

Un romanzo dai toni teneri, poetici e insieme ama-ri e durissimi il cui protagonista è l’ingegner Recher, giovane marchigiano capitato quasi per caso nel go-verno della diga, figura storica ampiamente «rivisitata» dall’autore, che impara ad amare quei luoghi non suoi e quella gente non sua; ma non serve che egli veda e forse capisca: l’esito della vicenda è da troppo tem-po preparata perché possa intervenire a modificarla. Il sacro totem, intoccabile già una cinquantina di anni fa, è, infatti, lo sfruttamento delle risorse naturali, por-tatore di (non moltissimi) posti di lavoro, di consenso politico e di danaro.

Un romanzo di denuncia civile si potrebbe, dunque, definire questo di Armando Gervasoni, appartenente a un genere prezioso inteso a smascherare i perversi meccanismi del potere nonché la sua insensata, crimi-nale avidità, in nome della quale un certo numero di vittime può essere messo in conto, sebbene l’orribile ipo-tesi non venga mai davvero pronunciata bensì soltanto lasciata intendere. Ma a leggerlo si capisce che è, inve-

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ce, tutt’altro: uno scritto pieno di poesia e di emozioni, non arrabbiato ma che pur fa arrabbiare, non lacri-moso ma che pur fa piangere, mai gridato ma che pur mette voglia di gridare contro la miseria degli uomini e l’iniquità di altri uomini. Un normalissimo romanzo vero, insomma.

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I CORVI DI ERTO E CASSO

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PROlOGO

Il vento lo prese per i capelli e lo portò in cima alla montagna.

«lasciami stare» gridò invano. Stava così bene sotto i sassi della trattoria... Macché sassi, tonnellate di pol-vere... Un bulldozer l’aveva schivato per un pelo, ma un caterpillar gli era passato sopra, impacchettandolo bene fra la volta della cantina e il resto delle botti di vino.

«lasciami stare dov’ero» gridò ancora. «Ti hanno trovato» rispose il vento. «non puoi più

stare lì.»Allora si mutò in corvo. «Chi sei?» chiesero tutti gli altri corvi della montagna. «Panfilo Recher. l’ingegnere che...» «Ti conosciamo» dissero i corvi. E presero a volare

giù, verso il bacino. «Dove andate?» «A Casso. Qui la montagna sta per cascare.» «Ancora?» «Ancora, ingegner Recher. Se non lo sai tu, che eri

fra quelli...»«Io non c’entro, per vostra norma.»«Vero, ci sei rimasto anche tu. Ma sei sempre di quel-

la bottega.»I corvi volarono via tutti, picchiando con i loro becchi

sulla frana e sull’acqua del lago, per risalire poi, grac-chiando, l’altro fianco della valle. Una nuvola nera e la-mentosa.

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«non mi vogliono» disse Recher. «Alla malora. loro sono qua, ci sono rimasti. Ma io dove sono?»

Recher voleva restare là sotto, perché aveva sentito l’ululato di Flop sopra le macerie, e temeva che con Flop ci fosse sua madre. Flop, non appena sceso giù dalla macchina al posto di blocco di Polpet, aveva fat-to di corsa i quindici chilometri fra cadaveri di vacche bianche e nere, e di cristiani. Così era stato il primo a scovarlo, ma tra loro due c’erano di mezzo almeno cinque, forse dieci tonnellate di cemento e mattoni im-pacchettati.

«Però, che solide queste case di una volta» disse l’in-gegner Recher saggiando la qualità del cemento e dei mattoni che gli schiacciavano la metà bassa del cor-po. Quanto all’altra metà, era protetta dalla volta della cantina, ma un’armatura di ferro gli aveva trapassato il collo. Ferro da otto millimetri. non come le case di adesso...

Che lo trovasse chiunque, il cane, i soldati, i vigili, ma non la mamma. Il guaito di Flop glielo aveva fatto fortemente temere. «Vai via, Flop!» allora aveva gridato. Via, via... Il guaito, in effetti, era scomparso. I soldati dovevano averlo cacciato, intenti com’erano ad attac-care le cinque o dieci tonnellate di cemento e mattoni. Però eccolo ancora, Flop, che ringhiava e mordeva. Chissà, forse credendolo idrofobo, alla fine lo avreb-bero ucciso.

Quanto alla mamma, guardando meglio, non c’era. Era venuto Marco, che chiedeva a destra e a sinistra, ma lei no, i fratelli non gliel’avevano permesso, e così era rimasta a Pescia, a pregare.

l’ingegner Panfilo Recher prese il vento della sera e volò fino all’Adriatico. Risalì la pianura ferrarese e mo-denese raggiungendo l’Appennino, e poi giù, dall’Abe-tone a Pescia. la mamma pregava, Marta pregava, per-fino il monsignore pregava davvero. la mamma lo

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faceva tenendo davanti l’ultima foto che lui le aveva mandato dalla diga, con tuta blu ed elmo a pila in te-sta. E anche Pia e Francesca, le sorelle sposate, pre-gavano. Anzi, speravano. Anche se presto non avreb-bero più sperato. Marco aveva già riconosciuto il suo cadavere.

«non voglio essere qua in quel momento» disse l’in-gegner Panfilo. Che si trasformò così in gabbiano, e volò sul Po fino al delta, e poi alla laguna di Venezia.

«Recher» sentì chiamare. Era la voce di Rossi, il dise-gnatore.

«Cosa fai qui?»«Sono veneziano, non lo sapevi?»«no.»«Mio padre è morto di crepacuore stanotte al lido.

Addio Recher.»«Addio.» Rossi si levò con altri cento gabbiani dalla barena

davanti a Porto Marghera e sparì nel cielo dell’Adria-tico. Il vento lo portò a Venezia. C’era acqua alta sui campi e nelle calli, come del resto a San Marco e a Ri-alto. nebbia, acqua alta e un certo numero di persone vestite di nero con stivali alti che andavano a messa, rito da morto nella basilica dei Frari. Allora Recher si fece colombo e si confuse a tutti gli altri colombi, ac-cartocciati nelle grondaie e sotto i cornicioni. Al canta-re dei frati entrò, volando sulle vetrate.

«Sono Celso» disse una voce. «Guglielmo Celso, sin-daco di longarone.» Era un colombo bianco, anzi una colomba, e indicava qualcuno, in mezzo alla folla lag-giù. «li conosci?»

«Conosco il mio collega Valli che era alla diga prima di me» rispose Recher. «E poi B., il capo dei servizi ter-mici della società.»

«Troppo poco.»«E chi altro dovrei conoscere?»

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«Quello è il presidente» spiegò il sindaco. «Quello il vicepresidente, quelli i consiglieri, quello il presiden-te dell’associazione degli industriali, quello il commis-sario straordinario dell’Enel, quello il presidente della fondazione, quello il conte V., figlio del fondatore del-la Sade sepolto in quella cripta là.»

«E cosa fanno?» «Piangono.»«Per noi?» «Sì. Per noi.»Il conte uscì all’acqua alta dopo il Libera me Domi-

ne, e la colomba bianca dietro, sopra di loro.«Piangono per sempre?» chiese Recher. «Per sempre.»Allora l’ingegnere si fece coturnice e volò ancora

verso il monte. Quando si sentì chiamare «Panfilo» da un bosco di betulle, ebbe un guizzo di gioia. E gridò: «Sherazade!»

«Sì, sono tornata in tempo dalla Germania. la sera stessa.»

«E dov’eri? A casa tua, a Erto?» «no. Giù a longarone.»«Anch’io. Stavo prendendo un caffè.» «E Miri Da Zolt?»«lui è ancora in gelateria a Monaco.»«Bentornata, Sherazade!» gridò Recher.«Tutti mi chiamano così ed io non ho mai sentito

quella musica. l’ascoltiamo insieme? Andiamo?» «Andiamo» disse Recher. E volarono felici verso la

montagna.