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I QUADERNI DELLA BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI Serie IX - n. 13 1

I QUADERNI DELLA BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI … · Ed è la condizione umana, ... recepito il precetto evangelico “non giudicare per non essere giudicati, perché con lo stesso

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I QUADERNI DELLA BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLISerie IX - n. 13

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PersonaeIl volto dei vinti.

Storie e destini dipinti da Salvatore Maria Sergio e raccontati da Mauro Giancaspro

Sala LeopardiBiblioteca Nazionale

Palazzo Reale16 giugno - 2 luglio 2010

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Ministero per i Beni e le Attività CulturaliDirezione Generale per i Beni Librari,gli Istituti Culturali e il Diritto d’Autore

Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele IIINapoli

Personae

Catalogo a cura di Mauro Giancaspro

FotografiaGiuseppe De Girolamo

AllestimentoGennaro D’Aria

Coordinamento organizzativoAlma Serena Lucianelli

SegreteriaRosaria BimonteMaria CalascibettaAnna CardilloValentina CosentinoAnna Maria FioreLaura SaccoMaria Francesca Stamuli

Ufficio stampaLydia Tarsitano

Sito WebGennaro Alifuoco

Staff tecnicoVincenzo AvallonePasquale AgrilloMarco De RosaEduardo MarinoAniello TozziLuigi Vallefuoco

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La mostra è posta sotto il patronato delConsiglio dell’Ordine Forense di NapoliConsiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Campaniadell’Emeroteca – Biblioteca “V. Tucci”e dell’Associazione Bibliofili & Artisti

Comitato promotore:Ettore Capuano, Ernesto Filoso, Benedetta De Falco,Umberto Franzese, Silvana Capuano, Fabio Sergio

Fotolito e impaginazione: Graphicus sas - NapoliStampa: Arti grafiche Zaccaria srl - Napoli

IL VOLTO DEI VINTI

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Trovandosi improvvisamente di fronte alla galleria dipersonaggi di Salvatore Maria Sergio, forse perché mostratil’uno dietro l’altro nel suo studio, torna immediatamente allamente un racconto. Sì, perché il suo studio, per essere quellodi un eminente penalista, è a dir poco insolito. Non ci troviscaffali che allineano la triste sequela di fascicoli, gonfi di cartee di perverse creature della burocrazia che descrivono, con ladisumana freddezza di bolli e di formule cancelleresche, ildolore di chi si è misurato con la giustizia; non ci trovi unasala di attesa invasa dall’angoscia di chi aspetta di conosceresentenze o prospettive; non ci trovi una segreteria tormentatadalla continua ossessione di un telefono. Ci sono, invece, libri:quei libri a contatto dei quali Sergio ha formato e costruitoquella carica umana e culturale che è la prevalente energiadalla quale attinge per le sue arringhe, per le sue indagini, perle sue ricerche. E ci sono i suoi personaggi. Avrà,probabilmente, da qualche altra parte l’archivio, le carte dilavoro, i collaboratori.La sua è una galleria drammatica; nessuno dei suoi personaggi èpiù in grado di sorridere e, forse, di sperare. Probabilmente per ilcondizionamento dei tanti libri che lo accerchiano, stipati a fileserrate nelle sue scaffalature, viene in mente un racconto e unpersonaggio. Si tratta di Crainquebille, un ortolano ambulanteche gira col suo carretto per le vie della Parigi di fine ottocento-inizio novecento. È il protagonista di un celebre racconto diAnatole France. Il poveraccio viene arrestato perché non èsollecito all’intimidatorio “circolare” di un gendarme chesbrigativamente vuole liberare la strada dall’ingombro del suocarretto. L’ortolano vorrebbe spiegare che aspetta il pagamentodi un cavolo che una signora ha preso chiedendogli di aspettarequel minuto necessario a salire a casa a prendere i soldi. Lo

zelante tutore dell’ordine, alle miti resistenze dell’ambulante ealle sue confuse spiegazioni, lo accusa di aver gridato “morte aigendarmi”. Ne segue l’arresto e il processo.Nel corso del processo il timido e ignorante Crainquebille èsopraffatto dal monumentale apparato della giustizia francese:gli altri imputati, la folla dei curiosi, la magniloquenza delletoghe, l’appariscenza rituale dell’apparato, la solennità dellestanze, l’ampollosità incomprensibile delle formule giuridiche losoggiogano e, ad un tempo, lo affascinano. Non avrà la possibilitàdi pronunciare una parola a sua discolpa, non capirà leprocedure che gli si volgono intorno; si troveràpiù stupefattoche disperato, in cella con l’unica preoccupazione del carrettoabbandonato e finito chissà dove. Quando tornerà libero sitroverà in strada esposto al freddo e alla fame, senza carretto esenza lavoro. Sarà la miseria. Ripenserà, allora, alla cella; lì,almeno, aveva di che coprirsi, mangiare e difendersi dal freddo.La decisione di tornare in carcere è immediata. Questa volta simacchierà davvero del delitto. Incontra un gendarme e gli grida“morte al gendarme”. Ma, il tutore dell’ordine è ben diverso daquello che lo ha precedentemente arrestato. “Se dovessimoarrestare tutti gli ubriaconi che dicono quello che non si devedire ce ne sarebbe di che lavorare. E a che servirebbe…Ve loripeto andate per la vostra strada”.“Crainquebille – concludemestamente Anatole France – con la testa bassa e le bracciaciondoloni si allontanò sotto la pioggia nell’ombra”.Ecco: quelli di Sergio sembrano personaggi che hanno inqualche modo vissuto l’esperienza di Crainquebille. Hanno,pieni di angoscia, percorso freddi e interminabili corridoi; hannopassato ore di estenuante attesa su una scomoda panca; hannocercato i loro nomi in bacheche affastellate di vecchie carte;hanno chiesto invano informazioni alla ricerca di uomini, di

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stanze e di aule che non hanno mai trovato; hanno cercato diraccontare la loro storia, ma non hanno saputo farlo, non hannopotuto essere compresi; non sono stati ascoltati quando allatelegrafica domanda che richiede un’altrettanto telegraficarisposta avrebbero voluto continuare a dire e a spiegare.Sono uomini e donne che non parlano più, non credono piùnella forza comunicativa del colloquio, non hanno saputocomunicare quando era necessario; uomini e donne macinatidall’ineluttabile indifferenza della vita che al primo inevitabilecontatto con l’autorità hanno perso la loro prima ed ultimapartita.Quello di Sergio è un nuovo ciclo dei vinti. Per questa umanitàl’avvocato si è battuto indossando la sua toga; ma, assolti ocondannati, i suoi uomini e le sue donne sono rimastiirrimediabilmente segnati. E allora, quando nessuna provatestimoniale, nessun riscontro logico, nessuna documentazioneprobatoria, nessuna arringa è ormai utile, alla competenzaprofessionale subentra la solidarietà umana. Una solidarietà chesi esprime con il pennello.Ed è la condizione umana, fatta di irreversibile fragilità, diimpotenza e di debolezza che Sergio raffigura, come testimonedel dolore e della delusione, che hanno travolto uomini e donne,annullando differenze sociali e di censo, di età, di professione eperfino di sesso.La Portinaia del condominio signorile, la Nobildonna, la Commessadi profumeria, il Sorvegliante di ospizio per vecchi sono tuttiinesorabilmente accomunati da una irrevocabile condanna. Chenon è certo solo quella del tribunale. Perché non c’è solo – lasciaintendere Sergio – la condanna di una giuria o di un giudice.La vita di tutti in giorni, le strade, i posti di lavoro sonoaltrettanti tribunali che esprimono condanne irrevocabili, senzaprocesso, senza giuria, senza un difensore, senza un appello,spesso senza motivo.I personaggi di Salvatore Maria Sergio sono i condannati di tuttii giorni, quelli fulminati dai loro simili che non hanno mairecepito il precetto evangelico “non giudicare per non esseregiudicati, perché con lo stesso metro con quale giudicheretesarete giudicati”.L’autore, per la sua professione, è abituato a riconoscere neiluoghi delegati alla gestione della giustizia l’accusato, l’indagato,il giudicato, il condannato. E questa infallibilità di introspezione

lo porta a sentire sulla propria pelle queste stesse condizionianche al di fuori del tribunale.La sua Vecchia attrice a riposo è stata giudicata dalla volubilitàdel pubblico che, senza altro parametro che l’umore, l’hacondannata all’insuccesso. Quante storie, fatte di speranze, diillusioni e disillusioni si leggono in quel volto destrutturatodall’angoscia del successo negato o perduto.La Segretaria d’azienda è segnata dalla triste consapevolezza diuna posizione irrimediabilmente subalterna, non riscattatadall’inutile cura del trucco un po’ maldestro degli occhi e dallapovertà del monile appeso al collo.Il Prelato di campagna ha negli occhi la rassegnazione di una vitapassata a confessare beghine e a sopportare le imprecazioni deiparrocchiani, senza altro conforto che un bicchiere di vino e unbuon pasto che fanno debordare la faccia dal colletto.I volti sembrano assemblati incollando parti di costruzionicrollate e tenute instabilmente coese; sono deformatidall’abitudine al dolore o dalla noia; hanno la pelle spessotalmente rattrappita da apparire quasi trasparenti, da lasciareintravedere i muscoli che hanno solo il minimo di forza pergarantire un movimento.In questa continua e implacabile opera di destrutturazioneprosopografica Sergio finisce per rinunciare alla composizione ealla scomposizione volumetrica dei volti appiattendoli inmacchie di colore. Progressivamente, le facce perdonovolumetria e ombre, per divenire, infine, fantasmi impalpabili.La loro sconsolante solitudine è accentuata dalla rinuncia delpittore a qualunque inquadratura in una scatola prospetticacapace di creare un accenno all’ambientazione. Sono uomini edonne senza luogo e senza tempo, coperti da abiti volutamenteimprobabili, come quello dello scolaro il cui colletto gigantescoe grottesco potrebbe essere quello di un clown.Quali sono i modelli che possono essere intravisti nellaformazione di un pittore rivoluzionario, appassionato e fuoriruolo? Si potrebbe individuare la disperata perfidia deformantedi Bacon, l’aggressivo e irrecuperabile disfacimento corporale deidisperati di Kokoshka, la spigolosa sofferenza degli esclusi diSchiele. Tutti potrebbero essere plausibilmente individuati comeascendenti, ma nessuno potrebbe soddisfare questa, in fondoinutile, ricerca di una fonte di ispirazione.Sono, dunque, personaggi scaturiti da una pluriennale esperienza

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del dolore umano che ha invaso le vene dell’autore come in unavera e propria trasfusione umorale ed epidemica. Poco conta cheli abbia incontrato nelle aule di tribunale, nelle strade della suacittà, al tavolino di un bar, in tutti quei luoghi della nostra vitanei quali la gente ha smesso di attendere. La sua pittura èineliminabile necessità di tradurre in tinte, prevalentementecupe e tenebrose, e in forme, quasi sempre esasperatamente

fisiognomiche al limite del grottesco e del caricaturale, il dolore,la noia, la disillusione di cui la nostra vita è piena.I suoi personaggi finalmente riescono a parlare; sono liberi dalterrore d’essere interrogati, fraintesi, giudicati, condannati eraccontano come possono la loro storia. Lo fanno come possonoe sanno: con semplicità, con dolore, con rabbia, conrassegnazione.

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Vecchia attrice a riposo

Cominciammo alla Stiva; o si chiamava La Cambusa, nonricordo. Era uno scantinato allestito alla men peggio in uncondominio non lontano dal decrepito palazzo che ospitava ilnostro liceo. Per raggranellare i soldi per il fitto, per pagare laluce e per allestire un minimo di scenografia, bisognava farcrescere il numero degli iscritti ad uno strampalato club. Ilsabato e la domenica si ballava. Giorgio che ci accompagnava alpianoforte si era rassegnato, almeno al fine settimana, arinunciare al suo idolatrato Erik Satie, per suonare ballabili,alternandosi con una volenterosa fonovaligia sulla qualemettevamo i nostri vecchi settantotto giri con Franky Lane,Herry Bellafonte e i rivoluzionari Platters e i primissimiquarantacique giri.Che tempi! Ci cimentavamo pieni diemozione e con coraggio con cose non da poco: addirittura itragici greci. Tutte le sere a provare e a studiare, tranne,ovviamente i sabati danzanti. I compagni di classe dicevano cheero una Antigone straordinaria.L’avventura finì presto. Loscantinato prendeva sempre più l’aspetto di un night;cominciarono a dipingere le volte dello scantinato con coloriosceni; poi si misero a ballare anche nei pomeriggi dei giorniferiali. Insomma non fu più possibile continuare a fare teatro. Ascuola le vicende della squadra di pallacanestro che si misuravacon quelle degli altri licei sembravano interessare assai più deinostri spettacoli. E di quel gruppo affiatato e appassionato solo

io ho continuato. E ho rinunciato a tutto; all’amore di Filippo,al suo progetto di matrimonio e di mettere su famiglia, a volteanche al pranzo o alla cena. E aspettavo, aspettavo con tenacia econ impazienza, il successo. Successo che alla fine è venuto.Ebbi anche una piccola parte in uno sceneggiato televisivo. Miriconoscevano per strada, mi chiedevano l’autografo; ottenniperfino un servizio su un rotocalco famoso.Poiimprovvisamente il pubblico si dimentica di te, della tuabravura, dei tuoi sacrifici Non piaci più; non trovi piùimpresari, non trovi più teatri; non c’è un regista che ti facciafare nemmeno uno spot televisivo. E ti tocca ricominciaredaccapo. Trovai una nuova compagnia di sconosciuti. Fu allorache, ricominciando con pazienza e con coraggio, firmai non soche carte ad un impresario. Da quel momento non ho trovatopace. Carte bollate, avvocati, processi, tribunali, condanne. Persiquel pochissimo che avevo. Adesso sono in una specie dialbergo. Mi aiuta come può un mio nipote. Non me la passomale, però. Posso tenere le mie cose: vecchie lettere, locandine,ritagli di giornali e una scatola per il trucco. Amelia, che miaccudisce, va matta per le mie storie. Ogni quindici giorni, poi,il giovedì, gran festa per tutti. Aiutata da Amelia, mi trucco, mivesto come si conviene e recito ai miei coinquilini. I monologhidi Antigone hanno ancora un successo strepitoso. Che mi rendefelice.

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Prelato di campagna

Si fa presto a dire di me “non ricorda nemmeno il latino dellamessa”. E quando vengo in città lo leggo il disappunto e ildisprezzo negli occhi di quelli che incrocio, che vedendomibisbigliano e commentano: “Guarda che tipo”. Lo sento, fuoridel mio paese, il peso e l’offesa del giudizio della gente. Ma chene sanno della mia vita?Non sono di quelli che vanno in borghese o si mettono ilclergyman con quei colletti da strangolarsi. Il colletto del restonon lo porto; non servirebbe perché il doppio mento debordantelo nasconderebbe. Va bene, sono un tipo trasandato. Macredetemi, a tre ore dalla rasatura la barba è sempre lì come unacarta vetrata fastidiosa. Sto sempre con la stessa sottana nera unpo’ lisa che fa ancor più risaltare lo stomaco enorme.Non so diteologia; uno studentello di liceo mi metterebbe facilmente allecorde parlando di filosofia e di padri della chiesa. Che me nefarei mai di teologia e di filosofia a Monte Sant’Omobono? Aipochi parrocchiani rimasti sono cose che non servono. Gliuomini non vengono mai in chiesa; se devono battezzare ilnipotino o portare la figlia all’altare chiedono il nulla osta perandare giù in pianura nella Chiesa della Madonna del Soccorso.Agli uomini, i vecchi che sono rimasti, il parroco serve solo perl’olio santo al momento del pentimento finale. Le donnevengono; quelle sì. Sempre con la testa velata e col voltoseminascosto, tutte uguali, tutte con gli stessi inconsistentipeccati che mi confidano in confessionale, tutte con la loropersonalissima preghiera, fatta di un psst psst incomprensibile,tale e quale a quello dei tempi delle messe in latino. Ma anche

loro sono anziane e decrepite, non ce la fanno più nemmeno adaiutarmi a tenere pulita la chiesa e la canonica. Devo fare tuttoda me.Per fortuna che c’è il vecchio Fausto che mi porta la legnaper una vecchia stufa, che mi aggiusta lo scaldabagno tutte levolte che si guasta e mi fa un po’ di compagnia, con la sola, cosache sappia fare: il domino. Ho dei vecchi libri. Mi ha detto untale che si interessa di antiquariato e che si è fissato a volercompararsi un mio malandato comò, che sono libri di qualchepregio. Ma figurarsi se mi viene voglia di leggere. Meglio latelevisione.Però mi vogliono tuttio bene e non mi fanno maimancare niente. Anzi! Stanno sempre a darmi caciotte, salami,barattoli di ortaggi sottolio e il vino che da queste parti è buonoanche se un po’ troppo forte. Non ho neanche il telefono.Quando mia sorella, che vive a Sabellia e ha sposato unsottufficiale, vuole comunicare mi chiama al telefono deltabaccaio che sta proprio di fronte alla chiesa. Di solito lo fa unsabato si e un sabato no. So già che se lo facesse in un altrogiorno sarebbe solo per annunciarmi un guaio capitato a unodella numerosissima famiglia del marito. Basta, comunque, un“don Chiaffredo!” gridato dal tabaccaio e scendo. Il miopredecessore, almeno, passava un po’ di tempo a scrivere lettereper gli analfabeti. Ora sanno tutti leggere e scrivere, ma nessunolo fa più, perché c’è il telefono. Che posso fare: mangio eingrasso, sordo alle contumelie del medico condotto che miminaccia con i soliti terrorismi verbali fatti di glicemia, uricemiae colesterolo. Non prendo medicine, a parte gli analgesici per ilmal di denti.

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Scolaro

“E questa, avvocato, e l’unica fotografia che mi resta di miofiglio. Non è stato facile allevarlo bene, senza un padre e con ilmio mestiere. Anche in questa foto ha un aria triste, poverofiglio mio, con quella tristissima divisa del collegio. Perché fuicostretta a metterlo in collegio dai preti del mio paese, quandomorì mia madre che lo teneva con se tutto il giorno. Non mel’ha mai perdonato, sa, avvocato. Ma non poteva capire. Loavevo fatto per lui, per farlo studiare, per dargli un avvenire.Non pensavo certo di fargli fare il sacerdote. Finirà le medie,pensavo, poi si deciderà.Quando lo andavo a trovare, quelle rare volte che potevo, astento mi salutava; teneva lo sguardo fisso nel vuoto; l’ariasempre imbronciata. Se gli chiedevo come stava ripetevameccanicamente che tutto andava per il meglio. Ma si vedevache soffriva; che mangiava poco; che in quel posto soffriva unfreddo terribile. Stava con le mani in tasca per nascondermi igeloni. Povero ragazzo, ogni volta che lo vedevo dicevo che lodovevo togliere da quel posto.Poi don Medardo, accompagnandomi all’uscita, mitranquillizzava. Studiava, era il più bravo in latino. Non dava maifastidio. Era bravo. Gli piaceva assai leggere. Lo sapevo e ognivolta gli portavo un libro.

Probabilmente non sarebbe diventato mai un sacerdote; lui, DonMedardo di queste cose ne capiva. “Lo sappiamo bene – miripeteva – che di questi ragazzi pochi continuano e vanno inseminario. Per noi è una scommessa e un investimento. Lefamiglie ce li mandano. Noi li facciamo studiare, cerchiamo ditenerli in salute, ci sforziamo anche di trovare qualchedistrazione. Ma solo qualcuno prosegue. E noi siamo contenticosì”. A sentir lui non mi dovevo preoccupare della sua tristezza.“Cose di ragazzi – diceva – gli passerà”.Tornavo a casa sempre con un gran peso nel cuore. Ricordavocome era stato allegro e vispo nei tempi in cui lo avevo tenutoin casa con me. Ma mi ripetevo: meglio in collegio che con me.Mi dica, avvocato, che vita e che esempio avrei potuto dargli? Icompagni di scuola e gli amici gli avrebbero sempre fatto pesarela vergogna del mio lavoro, lo avrebbero fatto sentire un diverso.Lì, in collegio, nessuno di quei ragazzi parlava della propriafamiglia. Forse se ne vergognavano tutti. Chi avrebbe potutoimmaginare quello che sarebbe successo.Adesso che il buon Medardo non c’è più; solo voi, avvocato, lopotete aiutare, anche se non potrò mai pagarvi. Vero che loaiuterete?”.

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Contadina del Cilento

L’unica distrazione era il passaggio dei treni. Lavoravo con i mieiin una zona coltivata a terrazze. Si vedeva un tratto di mare,stretto dalle colline; una piccola mezzaluna di costa segnatadalla linea metallica dalla ferrovia: un binario unico lungo ilquale i convogli procedevano emettevano un fischio penetrante;e camminavano lentamente. Sembrava come se quelle lunghefile di vagoni avessero timore di percorrere quella lunga curvasul mare o che il macchinista lo facesse apposta ad andar pianoper far godere i passeggeri con quel panorama stupendo.Andavano così piano che qualche volta scendendo sulle terrazzepiù basse potevamo addirittura guardare negli scompartimenti.Sembravano vuoti. Ma Assunta ripeteva sempre che, no, queitreni non erano vuoti; in quel momento stavano tutti a guardareil mare dall’altra parte. Figurarsi se avevano interesse a guardarea noi dall’altra parte che ci ammazzavamo di lavoro con la terra.E ripeteva sempre: “Hanno gli occhi sul mare; scappano dallecampagne e vanno al nord a lavorare. Un giorni di questi prendoil coraggio e me ne vado anche io”. “Dove vuoi andare tu –ripeteva con la stessa aria seccata Clotilde – e chi la cura poi lavostra terra”. Ma il più delle volte, senza nemmeno parlare,rimanevamo fermi e curvi: senza cambiare la nostra posizione,sempre con la schiena piegata in due, alzavamo gli occhi perseguire la fuga dei finestrini dei vagoni.E qualcuna di noi in

silenzio sognava. Una volta, di mattina presto, appena arrivatesulla terra, vedemmo un treno merci immobile. Chissà daquanto tempo era fermo. Forse dalla notte. I merci erano ancorapiù lenti e cigolanti di quelli passeggeri. Ci chiedevamo semprequando lo vedevamo passare, che cosa mai portasse al nord, oche cosa era stato sceso al sud. Era un convoglio così lungo che,in quello spazio di visuale così ristretto, non si vedeva né la codané la tesa del locomotore. Cosa mai poteva essere accaduto. Unincidente? Una guerra? Al tramonto, quando tornammo versocasa, il convoglio era ancora fermo. “Se domattina sta ancora lì –disse qualcuna di noi – scendiamo giù e andiamo a vedere cosa èsuccesso.” Ma la mattina dopo non c’era. S’era mosso di notte.Quel treno non l’ho mai preso. Anzi non ho mai viaggiato intreno, non so neanche come si sta. Ma deve essere un piacerestare con finestrino aperto a guardare il mare che scorre sotto alvagone. Quante volte, come Assunta, mi sono detta che prima opoi quel treno lo avrei preso. Poi mi sono sposata. Ho dovutobadare al marito, alla terra e ai figli. Adesso non ho più la forza el’età per andare sulla terra. Mi dicono che i treni sono diventatipiù veloci e che non hanno più paura di affrontare quella curva.E ci credo perché li vedo in televisione: colorati e moderni. Melo scrivono, qualche volta, anche i miei figli che quel treno, ungiorno, lo hanno preso.

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Nobildonna

Della mia famiglia nessuno si ricorda più. Eppure lì al Palazzodelle Acacie tutti i contadini di Massombrosa venivano tutti igiorni. Nessuno ricorda quanto ha fatto mio padre per il suopaese. Lasciava che tutti occupassero e lavorassero le sue terre,senza chiedere in cambio null’altro che la riconoscenza. Ec’erano sempre a chiedere udienza a lui, per essere aiutati, permettere in commercio i loro semplici prodotti attraverso i milleaffari di mio padre, i contadini della vallata. Le loro vociriempivano il cortile del palazzo mentre aspettavano di esserericevuti da mio padre. E quanti pretendenti avevo. Io, MariaTeresa Carmela Monzelli di Massombrosa, ero la più corteggiatae la più ammirata. La domenica pomeriggio a passeggio sulcorso o nella piazza davanti alla chiesa di Sant’Onorato, tutti igiovani si facevano incontro per salutarmi, senza il coraggio diavvicinarmi, stretta a braccetto con mio padre. Mio padre erabello, coraggioso e forte. Quando andava in giro a cavallo per lesue terre mi portava con se; mi aveva donato un piccolo cavalloagile e docile. I miei fratelli erano gelosissimi. Mi tenevanochiusi in casa, tra le stanze del Palazzo delle Acacie. Loro eranosempre fuori a viaggiare e ad organizzare traffici con mio padre.Quando tornavano mi portavano sempre un regalo. Mi viziavanoe mi coccolavano e favoleggiavano d’un matrimonio che avreifatto con un giovane del nostro stesso rango che non ho maiincontrato. Studiavo dalle suore del paese. Ma il pomeriggio sialternavano insegnanti che venivano anche da Borgo Forestale oaddirittura dalla città. Studiavo francese e musica. Tutti midicevano che ero bravissima. Avevamo in casa uno stupendopianoforte Blunther. Era nel vecchio salotto piccolo, quelloereditato dalla zia Manina che non si era mai sposata. Mobili

bianchi e rosa, di stole veneziano, diceva mia madre. Eradominato da un monumentale e paffuto baule nel quale tenevoi miei spartiti. Spesso la sera, quando gli uomini erano nelle“Carte rosse”, lo studio di mio padre, e mamma era già a letto,suonavo. E quasi sempre suonavo la Sonata al Chiaro di Luna diBeethoven. La musica si diffondeva nel giardino dei platani.Sapevo che Antonio era sempre lì ad ascoltarmi. E quello eral’unico rapporto che potevamo avere. Poi cominciai a vederemio padre e i miei fratelli perdere il loro ottimismo e ilconsueto buonumore. Dei loro affari non parlavano con me. Maio origliavo e li ascoltavo mentre discutevano di cose che a menon erano chiarissime. Parlavano di ferrovia e di strade, ditrasporto del pregiatissimo legname delle nostre terre diMassomborsa e di una diga che doveva sorgere al lago diComba. Li sentivo parlare animatamente, citare spesso ilCommendatore de Cesari che si era dato alla politica, cheavrebbe potuto risolvere i loro problemi problemi. Parlavano dinazionalizzazione, di prezzi, di operai, di paghe, di sindacato. Lastoria la conoscete tutti. Il lago di Comba ebbe la sua diga;nacque in tempi velocissimi la stazione ferroviaria diMassombrosa Scalo. Tra i lavori della ferrovia, quelli della diga, icommerci portati dalla autostrada, nessuno si interessò più delnostro legno pregiato. Antonio sposò una brava ragazza diMassombrosa. Quanti anni sono passati da allora? Non loricordo. Dicevano di me che ero altezzosa e sprezzante. Bugie.Dicono di me che sia svampita. Forse è vero. Se avessero qui unpianoforte potrei ancora suonare. I miei compagni di qui, diquesta che chiamano pensione, avrebbero un diversivopiacevole. Stanno sempre attaccati alla televisione.

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Commessa di profumeria

Non sono mai stata bellissima. Ma vestivo con ricercatezza e coneleganza; il mio trucco era sempre a posto; avevo modigentilissimi e affabili con tutti. Che negozio, amici, la Profumeriadi Corso Mazzini! In città, praticamente, non ce n’erano altre. Eche clientela avevamo. C’erano i nostri affezionatissimi, dei qualiconoscevo i segreti i gusti e le debolezze. In tepidi regali ero ingrado di dare suggerimenti infallibili; i clienti lo sapevano e simettevano in fila per rivolgersi a me.Il titolare del negozio ne era orgoglioso e un po’ geloso. Sapevoche donna Beatrice, una delle signore più in vista della città,amava le fragranze a base di lavanda e detestava l’essenza dibergamotto; sapevo quali colori di cipria erano preferite dadonna Clotilde, una baronessa aristocratica e sprezzante. E sequalcuno decideva di regalare un portacipria, o una scatola per iltrucco ero in grado di consigliare forma, colore e materiale, dalprezioso cofanetto di tartaruga all’astuccio di galalite. Quantimariti in ritardo il giorno di un onomastico o di un anniversariodi matrimonio ho salvato all’ultimo momento.Anche gli uomini, quasi di nascosto, venivano e chiedevanoconsigli. Era il tempo delle brillantine; come dimenticare marchecome la Linetti o la Tricofilina, che avevano odori pungenti epersistenti. Ricordo ancora le fragranze di profumi per uomoche sono scomparsi definitivamente: la Lavanda Coldinava,Messire, Gres. Allora gli uomini portavano il fazzoletto bianconel taschino, che veniva cosparso di profumo. I clienti fissi liavrei riconosciuti dall’olfatto; perché su ognuno di loro ogniprofumo era diverso. Come dimenticare l’ingegnere Ferrara, unuomo alto con capelli e baffetti grigi; i suoi capelli erano semprein ordine. Usava il Tenax; la chiamavamo gommina. L’ingegnereFerrara con quella dominava una vertigine; lo capivo benissimo.Che persona elegante e galante; sempre sorridente e garbato. Unbell’uomo. Peccato che si sia rovinato col gioco. Come eradiverso dal professor Parrella, un austero e severo insegnante dilettere che ha sempre cercato di prendersi confidenze eccessivee che ho dovuto sempre tenere a bada.Che tempi, amici. La plastica, che cominciava allora a fare le sueprime comparse, con l’arrivo dell’orrendo moplen, era bandita

dal negozio. Allora si usavano anche i servizi da toletta dicristallo o di opalina: il portacipria, lo spruzzaprofumo, ilportasapone, lo specchietto. Le ricordate le bottiglie di cristallo;si capovolgeva in modo da bagnare il tappo col quale si toccavaappena il collo per profumarlo. Truccarsi, o solo curare lapersona era un vero e proprio rito. Quanti necessaire da viaggioper uomo ho venduto. E come dimenticare la cura che i nostriclienti mettevano nelle scegliere il pennello da barba,controllando attentamente la morbidezza delle setole e la formadell’impugnatura. E chiedevano anche consigli sul saponesempre indecisi tra il tubetto, lo steack, la crema in barattolo.Quella meticolosa scelta palesava che la rasatura era ancora unrito che richiedeva il sapone, la pietra di allume, il dopobarba esoprattutto il tempo. Non abbiamo mai tenuto in negozio quelleorrende bombolette di sapone spray o rasoi usa e getta, roba,diceva il principale, per tabaccai. Anche i nomi dei profumi nonerano aggressivi come quelli di oggi; erano tutti invitanti eintriganti: Presage, Tendresse, Taffettà, Tabacco D’Arar. E più ditutte vendevamo la tenuissima acqua di colonia. Poi la clientelaè cambiata. Ognuno già sapeva, entrando, cosa voleva, perchéglielo aveva suggerito la pubblicità. Poi le grandi case hannomesso nei negozi espositori di prova, con ciprie, rossetti,fondotinta, matite per gli occhi. Nessuno ha più volutosuggerimenti, nessuno ha avuto più bisogno di me e dei mieiconsigli. Mi limitavo ad andare allo scaffale, fare il pacchetto epreparare la bolletta. Ma non ho mai saputo armeggiare benecon carta de regalo e nastrini. Non era quello il lavoro che avevoimmaginato. Fare i pacchi e dichiarare quale sconto su un datoprodotto si poteva praticare. Della mia esperienza nessuno a piùsaputo che farsene. Ho continuato, certo, a stare in quellaprofumeria, fino a quando il proprietario mi ha fatto capire chenon avevo più l’età e il fisico adatti per stare lì.Ora sono qui, grazie all’aiuto di un mio nipote, che ogni tantomi viene a prendere per farmi un po’ distrarre. L’ho rivista laprofumeria di Corso Mazzini. Ora è diventata una specie disupermercato con banconi a vista. Ogni cliente va preleva quelloche gli interessa e va a pagare alla cassa.

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Operaio

“Carissimo Avvocato,è da tempo che volevo scriverLe. Glielo dovevo. Ma lei sa beneche con la penna ho sempre avuto difficoltà. Qui adesso mi trovobene e riesco a sopportare finalmente l’inattività forzata. Perfortuna qui ho degli amici. Gente strana; ognuno ha un problema,una storia da raccontare, un dolore da rimarginare. Sono tuttistrani, ma affettuosi. C’è con noi una nobildonna, baronessa diMassombrosa, che ha molta simpatia per me. Ha ascoltato conaffetto la mia storia e io ho ascoltato la sua. Ed è lei che ha scrittofinalmente per me questa lettera. Io non ne sarei stato capace.Che imprevedibili casi ci riserva la vita. Io trovai lavoro, proprioquando la sua famiglia lo perdeva. Ricordo che ero contentissimo;al cantiere della diga del lago di Comba, facevo i turni di notteper mettere da parte i soldi per il matrimonio.Lei lo sa, avvocato, che quella era una vita dura. Un climaimpossibile, freddo e umido. E le notti non passavano mai. Conun gruppo di colleghi, avevamo quasi un incarico di ronda.Eravamo specializzati e dovevamo intervenire nei casi diemergenza. E ce n’erano tantissimi. Poi cominciai a star male e aperdere i capelli. Chissà quali misture usavamo. Nessuno èriuscito mai a scoprirlo. A sentirsi male fu Amilcare. L’impresafu assai tempestiva; gli diede una promozione e lo trasferì. Di luinon ho saputo più niente.Poi l’incidente, la lunga degenza in ospedale e lo spettro delladisoccupazione. I soldi che avevo messo da parte per ilmatrimonio, Lei lo sa bene, mi servirono per le cure mediche.Adesso sto abbastanza bene, non ho quasi più le vertigini, eriesco anche a camminare col bastone. Sì, mi sento spessodebole; ma è inconveniente da poco. Qui non ho che dariposarmi e far passare il tempo. I miei fratelli vivono lontano edhanno sempre da fare. Ogni tanto mi mandano una cartolina,quasi per far vedere che si ricordano che io esisto ancora.Finalmente riesco a scriverLe. Non l’ho mai dimenticata, sa.Come posso dimenticare quel mercoledì mattina che la incontrainei corridoi del Tribunale. Ero buttato su un specie di panchina,con la faccia tra le mani. Forse stavo piangendo, non ricordobene. Lei attaccò discorso, si interessò del mio caso. Parlammo

per una buona mezzora. Poi mi propose di rappresentarmi.L’impresa che doveva risarcirmi i danni era troppo potente. Nonce l’avrei mai fatta – mi disse – con quell’avvocato d’ufficio. Cipenserò io. Io accettai. La sua cordialità mi diede fiducia. Apagarmi, poi, ci penserà, mi disse. Scoprii solo dopo qualchemese che mi difendeva uno dei più grandi penalisti della città. Ela cosa andò bene. Grazie alla sua difesa ho ottenuto questovitalizio che mi permette di vivere e di mantenermi in questoposto, dove mi trattano abbastanza bene.Dopo il processo sono stato di nuovo male. Di nuovo medici emedicine. Mi dicono, ora, che ho avuto un forte esaurimento,che ho perso la memoria e la cognizione del tempo. Adessocomincio a star bene e a risistemare più o meno in ordine ilgroviglio dei ricordi che mi ha assalito appena ho riacquistato lamemoria. Grazie all’aiuto di donna Maria Teresa, mi storiprendendo. Lei mi ripete sempre che la sua famiglia, unamobilissima famiglia, ha sempre avuto verso i suoi lavoratorigrande comprensione e affetto. E le credo davvero.La prima persona della quale mi sono ricordato quando i mieinervi hanno ripreso a funzionare è stata lei, avvocato. Chi loavrebbe detto! Proprio lei che giudicavamo tutti altezzoso esprezzante. Ora è questo posto che ci rende inesorabilmenteuguali. Ho raccontato a tutti la mia storia e ho chiesto ai gestori diquesto posto di rintracciarla. Ma sa, avvocato, qui sono tuttiaffettuosi e premurosi, ma non hanno fiducia in quello cheraccontiamo. Dicono che se stessero a credere a tutto quello chediciamo perderebbero giornate intere inutilmente. Poi, suconsiglio di donna Maria Teresa, ho fatto la cosa più semplice. Hoguardato sull’elenco telefonico. Lei è sempre là, col suo studio.Capisco che non mi ha cercato; come avrebbe potuto. Comepotrebbe andare alla ricerca di tutte le persone cui ha fatto delbene e hanno preso, come dice donna Maria Teresa, le più diversestrade. Ecco, io desideravo ringraziarLa per tutto quello che hafatto per me e che sono riuscito a mettere da parte qualche cosa,per potere pagare almeno parte della sua parcella. Grazie ancoraper tutto quello che ha fatto per me. Le lascio l’indirizzo. Se hatempo mi risponda. Con affetto e riconoscenza, Mario”.

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Segretaria d’azienda

“Egregio dott. X,forse non si ricorderà nemmeno di me. Sono Amelia G. Si, la suasegretaria personale. Erano i tempi di grande lavoro per laCompagnia. Quanti impiegati c’erano allora, distribuiti suquattro piani? Settanta, ottanta? Chi può ricordarsene. Io erosempre confinata nella stanza accanto alla sua, senza orari e quasisenza ferie. Lo stipendio era quello che era, di segretaria. Iofacevo tutto e Lei quasi non lo sapeva. Gestivo il portafoglio deiclienti e ne tenevo l’archivio. Curavo le scadenze e gli avvisi perla riscossione dei premi. Le tenevo l’agenda degli appuntamenti ea fine giornata mi mettevo alla telescrivente per mettermi incontatto con i riassicuratori stranieri, inglesi e olandesi.Le facevo anche le traduzioni dall’inglese. E prima di batterle amacchina, correggevo le sue lettere. Le sue erano letterestraordinariamente belle. Aveva una capacità di sintesi e diespressione straordinaria. In poche righe raggiungeva obiettivistraordinari; era una prosa scattante, lucida e convincente. Ma leistesso era consapevole che non c’era benché minima traccia dirispetto delle più elementari norme di grammatica e di sintassi.Lei ne rideva e non faceva segreto a nessuno delle miecorrezioni. Eravamo tutti affascinati dal suo dinamismo e dallasua inventiva, dalla carica di simpatia che riusciva a ispirare neiclienti. Il suo era una modo di procedere controcorrente.Quando incontrava un futuro cliente preannunciava che Leiavrebbe proposto costi certamente assai superiori a quelliproposti da altri assicuratori. E chissà perché sceglievano,nonostante questa premessa, tutti lei.Ne aveva intorno di dottori, di laureati; ce n’era perfino unolaureato in lettere che non capiva niente di tariffe e diprontuari. Quante volte ho dovuto soccorrere questo tipo ognivolta che si avvitata, pur con l’aiuto di una strepitosa

calcolatrice in numeri periodici e infiniti. Ero molto più brava iocon una vecchia macchina meccanica a manovella. Ma gliserviva, diceva lei, per mettere su clausole vantaggiose per iclienti.Ero innamorata di lei. E lei lo sapeva e fingeva di nonaccorgersene. Ma era abituato ad avventure con donne dell’altaborghesia, figurarsi se poteva darmi un tantino in più della suasimpatia e delle sue battute. Quando si ricordava di presentarmia un cliente o a un funzionario dell’ultimo piano diceva sempreche io ero il suo correttore automatico. Cosa volesse dire conquella espressione l’ho capito a mie spese, quando in Compagniasono arrivati i computer. A me già sembrava tanto saper usare latelescrivente. Con computer non ce l’ho proprio fatta.Nonostante gli sforzi, nonostante un corso serale. Mi hasostituito un ragazzetto che con una diavoleria del programmadi un computer le correggeva le lettere, le curava il portafogliodei clienti, lo scadenzario e l’agenda.Non sono stata licenziata. Ho cambiato di volta in volta stanza,come accade nella clinica di un allucinante racconto di DinoBuzzati. Ma che ne può sapere lei di Buzzati. Non sono statalicenziata. Me ne sono andata, appena ho potuto in pensione.Per tutto il tempo che sono stata lontana dal suo ufficio, mai unsaluto, mai una telefonata. Quando in Compagnia mi hannofatto un dono per il pensionamento, tra le firme di quelli chehanno partecipato alla colletta c’era anche la sua. Ma senza unafrase. Adesso sono qui e non ho altro da fare che scrivere a tuttiquelli che ho conosciuto. Gente che forse si ricorderà di me, mache non potrà rispondermi perché non ho il computer e non hoil telefonino sul quale mandarmi un messaggio. Sono stata moltoin dubbio se scrivere anche a lei. Alla fine è arrivato anche il suoturno. Mi risponderà, dottore?”.

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Cassiera di bar

Avrei potuto scrivere un libro, se avessi avuto il tempo. Adessoche di tempo ne ho, potrei tentare. Ma chi lo leggerebbe?Nemmeno i mie amici di qui lo farebbero; perché sottoporsi allafatica della lettura se possono ascoltare le mie storie che per lorosono appassionanti.Quanta gente ho incontrato nel Gran Caffè di Corso Mazzini. Sitrovava nella piazza centrale che non ha mai avuto un nome. Lachiamavano, allora, piazza degli uffici. Ho saputo che la hannoristrutturato e chiusa al traffico e che i tavolini sono sempre là, neigiardini. Adesso per i camerieri non deve essere un problemaattraversare la strada con i vassoi in mano. Deve essere bellissima.Quanta gente ho visto e ascoltato. Si apriva prestissimo, allecinque e mezza del mattino. Io e Pasquale che avviava lamacchina del caffè eravamo i primi. Arrivavano subito dueguardie giurate, che avevano trascorso tutta la nottata avanti eindietro in bicicletta a controllare i negozi e gli uffici. Via viache si andava incontro al giorno cambiava la clientela cheaffollava il Gran Caffè.Poi arrivavano gli impiegati degli uffici del Comune e i bancari.Che discorsi e che discussioni. E tutti, immancabilmente, sirivolgevano a me per chiedermi il parere. Io ero diventatabravissima a dare ragione a tutti, sorridendo, annuendo,confortando, placando gli animi.In fondo il mio lavoro mi piaceva moltissimo. Non si trattavasolo di fare lo scontrino, ricordare a memoria il prezzario che eraalle mie spalle e stare attenta nel dare il resto. Ero velocissima eattenta. Ero bravissima, quando due o tre avventori facevano agara a pagare; individuavo sempre quello più importante chedoveva far bella figura con gli altri, o il meno importante cheportava avventori di riguardo, venuti da fuori, e doveva onoraredoveri di ospitalità.Sport, politica e pettegolezzi. Questi i discorsi dei clienti cheerano quasi tutti uomini. Veniva spesso l’onorevole Straccini,con un codazzo di ammiratori e di questuanti. Lui sempresorridente, padrone di ogni situazione, garbatissimo con me. Una

volta gli ho chiesto persino una raccomandazione per un nipote.Per strada non mi riconoscevano. Erano abituati a vedermi amezzo busto dietro la cassa, una vera e propria postazione chedominava l’intero locale. Lì apparivo assai più alta e imponente.Nessuno poteva accorgersi che ero veramente bassa. La gestionedella cassa mi dava sicurezza e spigliatezza. Mi corteggiavano,qualche volta. Fu proprio Straccini che mi incontrò unadomenica d’agosto al mare. “ Non mi dica che lei è Italia, lacassiera del Gran Caffè. Non l’avevo riconosciuta”.Seduta alla cassa del bar ero una leonessa. Sempre ben pettinata,truccata come si deve, forte di un sorriso smagliante. Non sonomai andata da un dentista. Forse non avrei avuto nemmeno iltempo con gli orari massacranti. Fuori dal bar perdevo la miagrinta. Poi è accaduto quello che è accaduto ai bar più belli dellacittà. La gente ha cominciato a uscire poco alla sera. Abbiamoridotto sempre di più gli orari. Alla fine i quattro fratelli,proprietari del bar, hanno deciso di chiudere. Solo don Carlo, ilpiù simpatico di loro, quello che nel Gran Caffè passava quasitutta la giornata, si oppose. Ma non servì a niente il suoattaccamento al lavoro. Fu ceduto il negozio. Ci misero ungrande magazzino di abbigliamento. Per gli impiegati fu unatragedia. Io me la cavai perché il grande magazzino mi assunsecome cassiera. Orari più umani; pubblico meno pressante; oreintere di attesa dei clienti. Di tanto in tanto mi veniva a trovaredon Carlo che aveva sempre un sacchetto di caramelle o unatavoletta di cioccolata da portarmi. Nessuno scherzava più conme. Nessuno mi chiedeva di dirimere una discussione di calcio odi politica. Nessuno mi corteggiava più, nemmeno per scherzo.Le signore che frequentavano il negozio mi trovavano antipaticae scorbutica. Non avevo più qualcuno con cui scambiare quattrochiacchiere. Adesso ne ho di ascoltatori, qui. Vogliono tuttiascoltare e riascoltare le mie storie. Qualche volta, pur diaccontentarli, me le invento. Adesso sono felice come ai tempiin cui lavoravo al bar. Gli anni passati nel negozio diabbigliamento, quasi non li ricordo più.

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Cartomante

Qui nessuno vuole sapere il suo futuro. Ne hanno paura. Masiccome sono tutti vecchi e dispettosi, ognuno vorrebbe prendermiin disparte per sapere il futuro degli altri. Figurarsi se io mi prestoa questo gioco perfido. E così passo il tempo a fare solitari e aguardare la televisione. Che tempi. La televisione è piena diciarlatani e imbroglioni che si prendono gioco degli ingenui. Io, chesono una professionista, li ho guardati con attenzione. Ho notatoche si inventano storie incredibili e fantasiose e diversissime anchequando le carte si presentano con combinazioni diverse. Mario,l’operaio, che è stato giocatore di tressette e che deve essere statoimbattibile, mi contesta che è impossibile che io mi accorgaquando ad un indovino televisivo si presentano le carte nelle stessecombinazioni. Dice che è impossibile poterle ricordare; soprattuttoper una come me che non si ricorda quello è successo ieri. Inutileche gli spieghi che sono una smemorata distratta, ma che le cartelo ho nel sangue, e che potrei al tatto indovinare la carta che staper uscire. Ma non mi esibirei mai in questo modo. Sono unacartomante seria. Ho rispetto e paura delle carte. C’è nelle carteuna forza che non riesco a controllare e in tanti anni che le leggonon ho ancora capito se è una energia benevola o una forzamalevola che le manovra e che si serve di me.Mi hanno detto cose bellissime e cose tremende queste mie

carte. È sempre lo stesso mazzo consumato e diventato ormaiquasi illeggibile.Che strana cosa è il genere umano. Ho avuto tantissimi clientifissi, anche importanti. Erano generosi e affettuosi con me. Maquando mi incontravano per strada fingevano di nonconoscermi. Una volta proprio sul Corso ne incontrai due chepasseggiavano insieme. Sapevo che si conoscevano. Non avevanosegreti per me. Ma era evidente che nessuno sapeva dell’altro. Ciincrociammo proprio al semaforo. Arrossirono per il timore cheli salutassi. Arrossirono tutti e due temendo che se li avessisalutati, l’uno avrebbe scoperto la dedizione dell’altro alla mialettura delle carte. Finsi di non vederli. Non so se mi serbaronogratitudine per la mia distrazione. Ma nessuno dei due è piùtornato. Qui sembra che nessuno abbia più l’obbligo di fingersidiverso da quello che è. Sono tutti stanchi di fingere. E ciaccettiamo tutti l’uno con l’altro. Chissà forse accomunati dallatavola. Mangiamo tutti le stesse cose che, per essere igieniche,salutari ed economiche, bene che vada, sono senza sapore.Qualcuno mi chiede di fare il solitario di Napoleone. Io accetto.Ma è sempre una tragedia. Ognuno di loro lo fa in manieradiversa e attribuiscono il nome di solitario di Napoleone a cosediversissime.

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Giocatore di scacchi

Il massimo che sanno fare è la dama. C’è il prelato di campagnache sostiene di saper giocare a scacchi. Per carità. Ci ho provato.Solo le manacce gigantesche che ha ti mettono il terroreaddosso quando infila la destra tra alfiere e torre per partire colcavallo. Ho l’impressione che stia per abbattersi sulla scacchieraun terremoto. E poi non sa riflettere; è frettoloso e sbrigativo.Perde inesorabilmente. La vecchia attrice mi parla sempre diun’opera teatrale che quando era giovane fu allestita alla Stiva.Lei interpretava, a sentir lei in maniera strepitosa, la parte diIolanda ne La partita a scacchi, una fiaba teatrale di GiuseppeGiacosa. Una intrigante fiaba d’amore, a lieto fine come tutte lefiabe. E come sempre il giocatore mette in palio la sua stessavita. Ma dal racconto che lei fa nulla si vede della grandiosità delgioco a scacchi. Sciocchezze! Il gioco degli scacchi è un giococattivo e micidiale. Un gioco cannibalesco nel quale i pezziavversari si distruggono mangiandoli. Sono necessarie abilità eastuzia, pazienza e attenzione. Ad ogni mossa dell’avversario iltuo piano di attacco viene sconvolto. Ed è un gioco semprediverso. Nonostante le aperture classiche da manuale, sul pianodi battaglia la disposizione dei pezzi, in attacco e in difesa, èsempre imprevedibilmente diverso.È una guerra al re avversario. Ma è una guerra leale. Tutti i pezzipossono essere colti di sorpresa. Possono e devono cadere nella

trappola. Ma al re non può essere tesa un’imboscata. Quando losi mette sotto scacco, deve essere avvertito. “Scacco al re!”Nessun gioco ha questa regola di aperta lealtà. Il re non siuccide o mangia. Viene messo nelle condizioni di immobilitàcon la scacco matto. La partita si chiude con la sconfitta del re.Ma non con la sua morte. Nessuno tiene conto di questaconsiderazione.Qui non ho davvero con chi giocare. E allora lo faccio da solo.Una mossa al giorno. Un giorno dalla parte dei bianchi, ungiorno dalla parte dei neri. Di tempo ne ho. E non è una cosafacile. Ogni giorno sul mio quaderno a quadretti, quando smettoprendo nota delle varie posizioni. Poi rimetto i pezzi nella lorocustodia e li chiudo insieme alla scacchiera nel mio comodino. Ilgiorno dopo risistemo tutto.Dicono tutti che mi sono scimunito con la fissazione degliscacchi. Ma qui chi non lo è? Gli unici che mi chiedono sempredi come va il gioco sono i miei figli, che mi tengono qui e chesono contentissimi di non avermi tra i piedi, che non chiedo maila loro compagnia, non chiedo soldi. Sono contentissimi disapere che penso solo a giocare a scacchi. Certo che unavversario come il mio avvocato mi farebbe piacere. Ma chissàche fine a fatto a furia di difendere baldanzosamente clientisenza soldi come me.

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La modista

La mia maestra, una sarta famosissima, me lo ha sempreripetuto. Una brava modista è quella che riesce ad arrangiarsicon le cose che ha, senza avere soldi a disposizione. Si imparaarrangiandosi con quello che ha, diventerà importante e ricca epotrà sbizzarrirsi davvero. Io non sono mai diventata ricca ma difantasia ne ho da vendere. Anzi dicono di me che avevo troppafantasia e che nessuno ha mai avuto il coraggio di indossare icappelli che disegnavo io. Facevo cose strampalate e pazzesche.Mia madre mi rimproverava sempre, diceva che perdevoinutilmente il tempo; che lei si era sacrificata per mandarmi abottega da una sarta così brava dalla quale non avevo appresoproprio niente. Così ho rinunciato a lavorare. Mi sono sposatacon un uomo d’oro; ho avuto quattro figli bellissimi. E per tantianni le mie fantasticherie di diventare una modista di successome le sono dimenticate. Poi i ragazzi se ne sono andati per laloro strada. Mio marito, proprio quando potevamo staretranquilli con i figli sistemati si è messo in testa il tarlo del giocoe si è rovinato. Denunce, tribunali, condanne. Ma alla fine sonoriuscito a tirarlo dai guai. Poi è morto ed io sono finita qui. Unastoria come tante, direte. Certo! Ma qui ho ripreso a disegnare ea creare. E tutte le ospiti vanno matte per le mie creazioni. Soloquella contadina cilentana non ne vuol sapere di togliersi ilfazzoletto dalla testa. Ma le altre. Le dovreste vedere. L’attrice,

quella nobildonna pallidissima e stralunata, la commessa diprofumeria, la vecchia segretaria, sono felicissime quando creoun cappello e fanno a gara per accaparrarselo. Mario l’operaio èriuscito ad ottenere il permesso di usare una vecchia macchinada cucire. Tutti sulle prime temevano che si facesse male. Ma èbravissimo e docilissimo. Quando sono stanche delle miecreazioni mi riconsegnano tutto e io riciclo tutto. Anche allacartomante ho fatto una specie di velo che ha un che dizingaresco. A donna Maria Teresa ho rimesso a nuovo una suavecchia veletta. Quel campagnolo del prete scuote la testa einvoca su di noi il perdono celeste per i nostri inutili peccati divanità. Il carnevale scorso li ho mascherati tutti. Ci siamodivertiti da morire. Ci è venuta una crisi collettiva di riso. Qui sisono tutti preoccupati. Chissà perché. Erano anni che nonridevo così. C’è uno qui, un signore d’altri tempi, un nobiledecaduto, dicono, che ha la fissazione della fotografa. I nipotiquando lo vengono a trovare gli portano sempre rullini nuovi ela stampa delle foto fatte. Poveraccio non ha altri da fotografareche noi. Mi ha fatto questa foto con un cappello folle che misono cucito. Una specie di turbante gigantesco. Penso sempreall’effetto che ha fatto al fotografo che l’ha sviluppata. Non hacerto potuto pensare ad uno scherzo che ho fatto il giorno delprimo aprile: avrà pensato che sono pazza.

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Nobile decaduto

Maria Teresa Carmela Monzelli di Massobrosa, una nobile? Percarità! Il Palazzo delle Acacie? Una gigantesca casa di campagna;niente di più. Nobili quelli? Scherziamo! Commercianti di legnopregiato che hanno fatto fortuna e hanno comprato le terre. Chilo ha mai visto lo stemma dei Monzelli di Massonbrosa? Fatemiil piacere. E non sono stati nemmeno capaci di fronteggiarel’arrivo di una ferrovia e di una diga. Se ne sono andati e si sonomessi a lavorare. Solo questa povera e fragile creatura crede diessere una baronessa con pretese democratiche. Per carità! Nonme ne parlate nemmeno. Con tutto il sussiego che ha non èstata nemmeno capace di trovare marito.E badate bene che non parla mai dei nonni. Quella deiMassombrosa una nobiltà? Le ho chiesto un giorno se la loro erauna nobiltà di toga o di spada. Quali e quanti erano i quarti delloro stemma. Mi ha guardato con i suoi occhioni stralunati e unpo’ bovini come se non sapesse cosa rispondere. I guantoniricamati? Ma non mi fate ridere. Come potrebbe dare retta aquello zoticone del cappellano o chiacchierare con un operaiocome Mario se avesse veramente sangue blu? Come potrebbeavere rapporti con uno di quegli operai che hanno preso ilsopravvento su tutto e su tutti? Bah!Io non parlo mai dei miei, dei possedimenti che la mia famigliaha avuto, dei legami di sangue addirittura con i discendenti degli

Hohenstaufen, altro che Massombrosa. E non starei mai qui senon fosse con uno scopo ben preciso. Un’idea geniale che mihanno dato i miei nipoti, spingendomi a riprendere i miei studie le mie ricerche sull’intelletto umano. Una sfida, dicono i mieinipoti, proprio adesso che non sei più giovane; una sfida perdimostrare che il fatto che non sei laureato non vuol dire niente;una sfida per dimostrare quanto utile può essere il contributo diun nobile che ha avuto un’educazione privilegiata. Una sfida cheio ho accettato.E poi guardateli, guardateli tutti. In questo posto tremendostanno tutti a loro agio. Sempre davanti alla televisione o achiacchierare di cose futili. E quello stupido che si crede ungenio solo perché gioca a scacchi. Ma guardateli. Aveva ragioneLombroso. Guardate che facce. È da tempo che li studio. Lifotografo, li studio, li catalogo. E di notte prendo appunti.Nessuno sa che io sono d’accordo con i miei nipoti, che paganola retta per tenermi qui a studiare. E vengono a portarmi i rullinie le stampe ogni quindici giorno. E questi stupidi si divertono unmondo a farsi fotografare. Quando avrò finito il lavoro me neandrò da qui. Mi servono ormai solo un paio d’anni. Poi uscirò adare alle stampe uno studio della follia vista dal di dentro. Miservono ancora un paio d’anni e me ne andrò. Con il ricavatodella vendita del libro, mi sistemerò definitivamente.

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Portinaia di condominio signorile

Si, avvocato, i miei nipoti mi hanno detto che qui mi sareitrovata benissimo. Hanno avuto ragione. I giovani hanno sempreragione. Sto benissimo. Finalmente non sono schiava di nessuno.Tutti mi trattano bene e mi chiamano la signora Assunta. Midanno dei lei, non mi dànno ordini, non mi dànno mance, manon mi maltrattano mai. C’è gente semplice qui. Anche quelnobiluomo che chiamano marchese e di cui nessuno sa il nome,con quell’aria di padreterno, sempre con la puzza sotto il naso,con lo sguardo dall’alto in basso col suo occhialino, anche lui èsempre educato e mi chiama la signora Assunta.Lo chiamavano condominio signorile. Ma li sentivo dal mioalloggio al piano terra quando a casa del dottor Bianchi, chestava a piano rialzato, facevano le assemblee di condominio.Belve! Altro che signori. E i litigi per il posto macchina.Incredibile. Tutti professionisti, eh! Mica gente da poco. Bastavavedere le pellicce e le automobili. Una vita ho passato in quelcondominio. Quaranta anni. Ero entrata al momentodell’inaugurazione. Un casermone nato con un piano speciale.Mi pare si chiamasse piano Aldisio. Si trattava di una

cooperativa con un nome difficile, addirittura in latino. Tuttimorti di fame. Ma tutti laureati, o falliti, o giovanissimi in cercadi fortuna e di soldi. E i soldi li hanno fatti. E hanno preteso ditrasformare il casermone in un palazzo signorile. Ma non hannoproprio idea del condominio signorile.Certo, avvocato, che mi ricordo quando con mio padre, portiereanche lui, stavo nel suo Palazzo. Un fabbricato antico emonumentale. Un cortile strettissimo, senza luce e sempreumido. Certo, mi ricordo anche di suo padre. Un signore.Sapesse come ho rimpianto quel palazzo freddo e scomodo per iquaranta anni di lavoro al cosiddetto condomino signorile incollina. Si, adesso mi trovo benissimo. No non mi annoio. Nientedi eccezionale, s’intende. Televisione, chiacchiere, qualche visita.D’estate forse un po’ più dura. In fondo la vita in portineria,quella sì che era una bella noia. Sempre sola e sempre a doversentire pettegolezzi per avere un po’ di compagnia. Qui lacompagnia è buona. Faccio una vita tranquilla. E mi rispettanotutti. Come dice? Che verrà a trovarmi. Grazie, l’aspetto. Egrazie per la telefonata”.

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Folle

Mi evitano. Si vede bene che mi evitano. Hanno paura. Perchéio non sono di quelli che parlano. Stanno sempre a parlare.Dio, quanto parlano. Io, invece, penso. E quello che penso nonlo dico nemmeno a mia figlia quando mi viene a trovare, unadomenica sì, una domenica no. Perché dirglielo. Le sorrido, ledò il bacio, faccio credere che non mi ricordo dei suoi figli; liho visti un paio di volte. Due imbecilli che sono tali e quali aquel cretino di suo marito, che si sta facendo dilapidare daquei tre una fortuna. E faccio credere che sia buona anche lacrostata che mi porta ogni volta che viene. Non la mangio maiperché mi secco di mangiare.Non parlo quasi mai. Non ho niente da raccontare. Preferisco

dormire. Da che sto qui dormo che è un piacere. E quandodormo non mi svegliano nemmeno le cannonate o la chiacchieredi questi mezzi scemi che stanno qui. E si vede che ci stannobene. Anche quell’insulso del marchese che crede che prima opoi i nipoti se lo vengono a prendere. Lo lasceranno qua a vita.Ma io non sono così scema. Prima o poi ce la farò a uscire diqui. E una volta fuori, vedremo cosa farà mia figlia. So già doveandare e come fare. Ho un piano perfetto che non confiderò maia nessuno. È solo questione di tempo. Debbo solo aspettare chemi passi questa sonnolenza che ho sempre addosso e che mitoglie un po’ di forze. Appena sto un po’ meglio me ne vado.Vedrete se non ci riesco.

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Sorvegliante di ospizio per vecchi

Che facce, quando vengono a trovare i loro parenti. Hannosempre fretta, hanno sempre impegni, sono sempre impazienti.E in parte li capisco. Li hanno portati qui, quando proprio nonce la facevano più. Poi uno stipendio solo non basta mai. Già èuna fatica badare ai piccoli, figurarsi se possono farlo con i lorovecchi.Mi guardano con ossequio e con curiosità. In fondo mi prendocura dei loro parenti, ma si vede bene che si domandano comefaccio a fare questo mestiere. Probabilmente, sotto sotto, midisprezzano e non hanno simpatia per me. Sembro un duro, unodi quelli che usano le maniere forti, che si fanno temere. Un po’è vero. Come farei a tenerli a bada quando fanno i capricci,quando protestano senza motivo, quando sono nervosi perchénon ricevono telefonate, quando il medico non prescrive lemedicine che vorrebbero, quando litigano per scegliere ilprogramma televisivo.Sto sempre qua. Sono uno dei pochi che dorme nel pensionato.Dormire…si fa per dire. Stanno sempre a chiamarti e a chiedertiqualche cosa. Hanno tutti la fissazione della pressione. Lamisuro una volta al giorno a tutti. Qualcuno si fa anche letabelle per calcolare l’andamento generale della settimana. Lasete o il bisogno di andare in bagno viene anche di notte. Maalla fine è un lavoro come un altro.Tra l’altro fanno i capricciosi soprattutto quando ci sono iparenti in visita; si sentono tutti i mali del mondo, non ce lafanno a camminare, si lamentano continuamente, fanno finta dinon ricordare, diventano più sordi del solito. Ma quandorimangono soli con me sanno che c’è poco da scherzare e dafare scene; sanno che devono collaborare. Non mancano i

sussiegosi, come la Maria Teresa Carmela di Msssombrosa, chesta sempre con i guanti di pizzo. Si vede ancora che deve esserestata una gran bella donna. Si lamenta che nella casa non c’è unpianoforte; se ci fosse, ripete sempre che ci farebbe vederequanto ancora è brava, come le sue dita mantengono l’agilità diuna volta. È per questo, spiega continuamente, che porta semprei guanti; per difendere le sue dita. E per questo che al mattino siesercita. Prende con le mani due fogli di giornale, econtemporaneamente con la destra e la sinistra li accartoccia. Leserve, dice, a mantenere forti e agili le sue dita. Se ci fosse unpianoforte, ripete, ci farebbe ascoltare alla grande il secondoNotturno di Chopin, che era il suo pezzo preferito. Ce ne sonoalcuni per la verità che sono pure simpatici. C’è un professore dilatino che racconta un sacco di storie: di mitologia,piacevolissime. È bravissimo e me li tiene distratti, quando nonc’è niente alla televisione. E la giornata alla fine passa. D’altrocanto il dottore mi dice sempre che non dobbiamo esagerare nécon i calmanti né con la televisione. Qualche volta sembra chenasca qualche storia d’amore. Naturalmente ci sono anche irompiscatole che sanno tutto e ti devono dare consigli su tutto.Ma alla fine sopporti anche quelli. E poi c’è sempre Wanda. Lavecchia attrice drammatica. Almeno lei dice di esserlo stato; manessuno ci crede a dispetto dei ritagli di giornale che mostra.“Ma non dire bugie - le ripetono- si vede che non sei tu. Non tisomiglia proprio”. Però ogni quindici giorni, il giovedì, c’è la suarecita. Prima che lei cominci la prendono in giro. Ma quandocomincia con l’Antigone restano tutti in silenzio, affascinati. Edevo riconoscerlo convince anche me. Deve essere stata propriobrava.

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Opere

1. Vecchia attrice a riposo2. Prelato di campagna3. Scolaro4. Contadina del Cilento5. Nobildonna6. Commessa di profumeria7. Operaio metallurgico8. Segretaria d’azienda9. Cassiera di bar

10. Cartomante11. Giocatore di scacchi12. Modista13. Nobile decaduto14. Portinaia di condominio signorile15. Folle16. Sorvegliante d’ospizio per vecchi

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Finito di stampanel mese di giugno 2010da Arti grafiche Zaccaria

Napoli