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I quaderni della formazione: 5 - Master course in diritto del lavoro e

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quaderni di formazionei

Collana di incontri e studi a cura dellaFederazione delle Banchedi Credito Cooperativo dell’Emilia Romagna

Master Coursein diritto del lavoroe amministrazione

del personale

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Lezioni, contributi, documentia cura di Enrico Gragnoli

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Federazione Banche di Credito Cooperativo dell’Emilia RomagnaVia Calzoni, 1/3 - 40128 Bologna - Tel. 051.6314011 - Fax [email protected] - www.fedemilia.bcc.it ©

MASTER COURSE - BOLOGnA, GEnnAiO - OTTOBRE 2007

Giulio MagagniPresidente Federazione Regionale BCC Emilia Romagna e Iccrea Holding

PRESEnTAZiOnE

inTRODUZiOnE

Daniele QuadrelliDirettore Generale Federazione Regionale BCC Emilia Romagna

Enrico Gragnoli - Luca Zaccarelli

L'inquadramento dei lavoratoriPotere di controllo del datore di lavoroIl licenziamento disciplinare

Alessandro Trombetti - Roberto Zalambani

Sintesi per schede delle giornate di studio

Giuseppe AlaiIn conclusione

pag.pag.pag.

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92943

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LPresentazione

e persone che agiscono nell’ambito dei processi chiave di business dell’industria dei servizi finan-ziari hanno bisogno di essere preparate al meglio per affrontare sistemi e mercati sempre più evo-luti e competitivi.Con questo obiettivo primario, la nostra Federa-zione ha promosso un Master in diritto del lavoro e amministrazione del personale che ha inaugura-to una nuova fase formativa e progettuale all’in-terno del sistema del Credito Cooperativo che ha fatto scuola e si sta rivelando di particolare utilità per affrontare le sfide e i cambiamenti che stanno interessando il personale delle BCC e delle socie-tà prodotto e di servizio.Fondamentale risulta al riguardo la crescita pro-fessionale della funzione risorse umane nell’am-bito della gestione amministrativa delle persone con specifica attenzione agli aspetti amministra-tivi, giuridici e normativi che caratterizzano il rapporto di lavoro.Ringrazio pertanto il Direttore generale della Federazione Daniele Quadrelli che ha diretto e coordinato il Master, Enrico Gragnoli, relatore, docente universitario e avvocato di chiara fama, per la consulenza scientifica tanto del percorso formativo che di questo “Quaderno”, il nostro

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servizio formazione e tutti i colleghi e collabora-tori che hanno supportato l’aula, e tutti i prestigio-si docenti che ci hanno accompagnato in questo impegnativo ma fruttuoso percorso.

Giulio MagagniPresidente della Federazione delle Banchedi Credito Cooperativo dell'Emilia Romagna

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Introduzione

Daniele QuadrelliDirettore Generale Federazione Regionale BCC Emilia Romagna

Questo ‘ Quaderno’ nasce a un anno dalla conclusione del “Master Course in Diritto del Lavoro“, una grande no-vità formativa per il Credito Coopera-tivo, promossa dalla Federazione dell’ Emilia Romagna, modello per il si-stema ma soprattutto finalizzato - con esiti eccellenti - a costruire nelle Bcc un gruppo di professionisti, preparati e motivati a gestire al meglio un set-tore così delicato e centrale: le risorse umane in azienda.Sono state ben 23 le giornate di le-zione, ricche di stimoli per la varietà, ovviamente in un contesto di coerente programmazione, dei contributi for-mativi sia di docenti esterni di alto li-vello sia di competenze che il nostro sistema ha mostrato di saper mettere in campo. L’ attualità stringente di al-cune problematiche e la continua evo-luzione del quadro legislativo e nor-mativo, per non parlare dei frequenti contenziosi interpretativi e di norme particolarmente complesse anche per gli addetti ai lavori, se riportate nell’ integralità con la quale sono state esposte, rischiavano di rendere questo "Quaderno" già vecchio appena fosse stato pubblicato.

Abbiamo pertanto ritenuto di rendere un servizio più utile alle Bcc, ai par-tecipanti al Master e a tutti coloro che vorranno confrontarsi con le proble-matiche esposte, chiedendo al Coordi-natore scientifico del corso, avvocato professor Enrico Gragnoli, e all’ av-vocato e consulente del lavoro Luca Zaccarelli, che è stato protagonista di lezioni particolarmente apprezzate, di riprendere alcuni dei temi di maggiore interesse e utilità per i dirigenti e gli addetti delle Bcc all’ area risorse uma-ne, e gestione del personale, e, modu-landosi nell’ approccio utilizzato per il "Master" , di aggiornandoli nell’ ottica della legislazione e delle norme vi-genti al momento della pubblicazione.Nel ringraziare pertanto loro e più in generale tutti i docenti del corso per la passione e la professionalità con cui hanno approcciato l’ aula composta da funzionari e operatori di quasi tutte le nostre Bcc, presentiamo ai lettori que-sto volumetto che, peraltro, oltre ai tre saggi di questi docenti, e la presentazio-ne del Presidente della Federazione in-gegner Giulio Magagni, riporta schede sintetiche degli argomenti trattati nelle 23 giornate e dei docenti che si sono

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alternati nelle aule della Federazione.Vorrei tuttavia, in questa introduzione, fare alcune osservazioni e riflettere su alcune tematiche sulle quali il credito cooperativo, peraltro non ancora a suf-ficienza, si confronta oggi nel mondo del cambiamento globale.La prima è che questo lungo e impe-gnativo percorso formativo ha consen-tito un fruttuoso scambio di conoscen-ze e di esperienze tra collaboratori di diverse età lavorative, provenienti da banche in apparenza assai differenti per dimensioni , approccio al territo-rio, contesti di riferimento.La seconda è che questo scambio è av-venuto ancor più fruttuosamente con i colleghi della Federazione e con la no-stra struttura consulenziale potenziata nell’ assistenza tecnica, nei livelli di competenza, nelle tecnologie messe in campo quali le piattaforme di rete, i si-stemi più avanzati di videoconferenza, la rete di saperi, la positiva accettazio-ne degli obblighi formativi in settori delicati quali la sicurezza e il soccor-so, che troveranno un contenitore par-ticolarmente accogliente e innovativo nella nuova sede della Federazione in corso di avanzato allestimento all’ in-terno del Bologna Business Park.La terza è la conferma che ,anche trattando problematiche di carattere tecnico, di leggi “ uguali per tutti “, l’ approccio del credito cooperativo può mantenersi “ differente “ nel senso che il rispetto e la valorizzazione delle per-sone non possono fermarsi alle enun-ciazioni di principio ma devono trova-re pratica quotidiana e riconoscibile

nel lavoro di tutti i giorni, nell’ intranet e nelle relazioni aziendali ma anche, e soprattutto, nel rapporto con i soci e la clientela, che è un rapporto di forte prossimità, che lo vogliamo o no.Questo rapporto è evidentemente un’ arma a doppio taglio: un grande van-taggio competitivo nel momento nel quale la fiducia, da una parte e dall’ altra dello sportello, si costruisce, si consolida, si allarga nella comunità; un altrettanto grande rischio quando il rapporto si incrina, serpeggia l’ insod-disfazione per operazioni non andate a buon fine, deludenti nel rendimento anche per fattori esterni e imprevedi-bili, addirittura per piccole disatten-zioni magari legate a casuali fattori del momento.Quel cliente insoddisfatto lo trovi an-che fuori dal lavoro, in chiesa piuttosto che al bar, nei circoli ricreativi piutto-sto che alla partita di calcio, nelle fre-quentazioni commerciali di ogni gior-no; e non puoi pensare di rimuovere il problema con l’ allontanamento dalla zona del disagio, come invece fatto a volte dalle grandi banche.Abbiamo messo in campo la cultura, l’ innovazione, la competenza, la ca-pacità di ascolto e di rapporto con gli altri anche attraverso tecniche che i nostri Corsi di formazione, grazie alla società del Gruppo SeF Consulting, propongono da tempo in aula e che riguardano tutta l’ area transazionale, dalla relazione con il cliente all’ emo-tività quale fattore di successo.In questo “ Master “ siamo partiti par-lando di logiche di sistema del credito

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cooperativo, abbiamo parlato di rela-zioni sindacali, di risorse umane, di ruoli e di responsabilità nella gestio-ne del personale.; abbiamo terminato calando la gestione del personale nei contesti aziendali, proponendo mo-delli di gestione e di sviluppo delle risorse umane nel settore bancario co-operativo, parlando di sinergie, com-petenze e responsabilità. Quindi, come acutamente ha osservato nell’ incontro conclusivo il Presidente della Com-missione regionale sulla formazione Giuseppe Alai, i partecipanti hanno in-tensamente lavorato per crescere nelle responsabilità e per dotarsi di quelle capacità critiche che, per chi lavora nella cooperazione,significano: trasfe-

rimento delle competenze, maggior senso del dovere, maggiore autonomia propositiva. E lo sforzo , anche eco-nomico, della Federazione e delle Bcc Associate sarebbe stato inutile se i cor-sisti, tornati nelle proprie aziende, non fossero stati messi nella condizione di attuare le cose che hanno appreso.Cosa che, per fortuna, non si è veri-ficata, a merito delle Direzioni delle nostre aziende che ci affiancano nella condivisione delle scelte formative.Ringrazio anche la Direzione Gene-rale di Federcasse che ha consentito di portare in aula in qualità di relato-ri i responsabili nazionali dei servizi di consulenza nei settori oggetto del "Master".

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L'inquadramentodei lavoratori

Enrico GragnoliLuca Zaccarelli

1. Nozione. 2. Le qualifiche e l’art. 2103 cod. civ.. 3. Le categorie legali. 4. Le qualifiche della contrattazionecollettiva ed il sistema di

inquadramento unico. 5. Il cosiddetto “diritto alla qualifica”. 6. La qualifica convenzionale. 7. La dequalificazione ed il risarcimento del danno. 8. L’adibizione a mansioni equivalenti. 9. La promozione.10. L’inquadramento dei lavoratori pubblici.

1. Nozione.

Se le mansioni sono i compiti affidati al singolo prestatore di opere e, per-tanto, l’oggetto del contratto indivi-duale, l’inquadramento è il sistema, legale e contrattuale, di classificazio-ne del facere, affinché possano essere raggruppati i rapporti omogenei, con la correlata identificazione del tratta-mento economico e normativo, stabi-lito in relazione alle categorie dell’art. 2095 cod. civ. e, per altro verso, in ra-gione delle qualifiche identificate dai

contratti collettivi. Se, in una prima accezione, “qualifica” è un semplice sinonimo di mansioni, più di frequen-te la locuzione identifica un meccani-smo di valutazione dell’attività dovuta e svolta. Quindi, la qualifica coincide con la posizione nel complessivo in-quadramento, attribuita secondo un procedimento logico di paragone fra le caratteristiche della prestazione e le declaratorie generali, formulate dall’accordo sindacale.

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L’inquadramento è il sistema di clas-sificazione del facere, predisposto in un primo livello di approssimazione dall’art. 2095 cod. civ. e, poi, con un dettaglio molto maggiore, dalle intese collettive.In questa prospettiva, la qualifica è stata ritenuta un mero indice abbrevia-to di una serie di posizioni soggettive attive e passive e, cioè, uno strumento che riordina rapporti con connotazioni simili, al fine di suddividerli in gruppi omogenei e di fare sì che ciascun in-sieme abbia il medesimo trattamento, in ordine alla retribuzione, ma anche a molti altri aspetti, dalla durata del periodo di prova a quella del periodo di preavviso, per toccare i più diversi profili della regolazione collettiva. Da un primo punto di vista, lo studio dell’inquadramento postula la rifles-sione sull’art. 2095 cod. civ., per la ne-cessaria considerazione delle categorie legali di dirigenti, quadri, impiegati ed operai, non solo per la reciproca di-stinzione delle varie figure, ma anche per cogliere le differenti disposizioni applicabili alle une od alle altre.Sotto un secondo punto di vista, l’ana-lisi dell’inquadramento si traduce nel-la ricostruzione di una parte presente in tutti i contratti nazionali di catego-ria, con enorme varietà di soluzioni, seppure con alcuni tratti comuni.La definizione della qualifica presup-pone l’interpretazione degli accordi e, dunque, delle numerose declaratorie che, in ciascuno di essi, delimitano i confini di ogni qualifica e, di conse-

guenza, le prestazioni ivi ricomprese. Una certa fantasia si esprime anche nella denominazione e si sprecano i ri-ferimenti ai numeri ordinali e cardinali ed alle lettere, con varie combinazio-ni. Maggiore omogeneità si riscontra in tema di lavoro pubblico “privatiz-zato”, anche se, ormai, il sistema di inquadramento è abbastanza simile a quello del lavoro privato, nonostante l’applicazione solo parziale dell’art. 2103 cod. civ., per le deroghe appor-tate dal decreto legislativo n. 165 del 2001, in primo luogo in tema di pro-mozioni.

2. Le qualifiche e l’art. 2103 cod. civ..

Nell’accezione prevalente di criterio di classificazione elaborato dalla con-trattazione collettiva, la qualifica (e lo stesso vale per le categorie legali dell’art. 2095 cod. civ.) è in funzione delle mansioni e, pertanto, dei com-piti oggetto del contratto individuale, a loro volta considerati dall’art. 2103 cod. civ., che, in particolare, alla luce delle trasformazioni apportate dall’art. 13 St. lav., si sofferma sulla prote-zione del prestatore di opere a fron-te delle modificazioni organizzative dell’azienda e degli eventuali provve-dimenti del datore di lavoro. Di per sé, l’art. 2103 cod. civ. non re-gola l’inquadramento e le relative tec-niche, né interferisce con gli accordi collettivi e, in particolare, con quelli di categoria, lasciati arbitri di definire i parametri di valutazione delle diver-

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se attività e, quindi, il raccordo fra le mansioni ed il trattamento prefigura-to.Peraltro, poiché l’inquadramento pre-suppone la sintesi delle mansioni, le relative indicazioni dei contratti pro-teggono la professionalità, con una tu-tela perfezionata dal testo oggi vigente dell’art. 2103 cod. civ.. Per tale ultima disposizione, i compi-ti iniziali sono stabiliti, al momento dell’assunzione, dal negozio indivi-duale di lavoro; l’art. 2103 cod. civ. vieta la dequalificazione (legittima solo nei casi regolati in via espressa da norme derogatorie), permette la variazione delle mansioni a parità di qualifica solo qualora le nuove siano equivalenti alle precedenti dal punto di vista professionale e disciplina la promozione, riconoscendo l’imme-diato diritto alla maggiore retribuzio-ne dal momento dell’adibizione alle funzioni più rilevanti e lo stabilizzarsi del provvedimento del datore di lavo-ro dopo tre mesi dalla sua adozione, salvo il caso della semplice sostituzio-ne di un dipendente assente con diritto alla conservazione del posto. Peraltro, rispetto all’evoluzione del sistema contrattuale di inquadramen-to, le novità apportate nel 1970 all’art. 2103 cod. civ. non sono state affatto neutre, ma hanno incoraggiato i sog-getti collettivi a sperimentare nuovi meccanismi di classificazione, con il progressivo consolidarsi del cosiddet-to sistema di inquadramento unico e, quindi, con la concomitante conside-razione, all’interno delle medesime

posizioni, sia di impiegati, sia di ope-rai e, in alcuni casi, dei quadri. Di fronte alla complessità delle decla-ratorie prefigurate dai contratti, l’in-terprete è costretto a delicati sforzi, per riportare clausole di difficile lettu-ra al frenetico modificarsi del contesto aziendale ed alle rapide trasformazioni di ciascuna impresa e della sua orga-nizzazione.Peraltro, hanno avuto scarso successo i tentativi di alcuni accordi di deferire ad organismi paritetici la responsabi-lità di stabilire l’inquadramento o di governare in modo consensuale i pro-cessi di carriera. Quindi, in prima battuta, spetta al dato-re di lavoro procedere alla ricostruzio-ne della volontà dei soggetti collettivi e, sulla base della ricognizione delle mansioni, identificare il corrisponden-te inquadramento, comunicando le sue conclusioni, anche ai sensi dell’art. 96 disp. att. cod. civ..L’eventuale contestazione del presta-tore di opere può portare ad un giu-dizio nel quale, per un verso, occorre accertare i compiti svolti e, per altro verso, ricondurli alle declaratorie, a loro volta da interpretare e, quindi, da riportare alla realtà produttiva ed alle dinamiche gestionali. Pertanto, “nel procedimento diretto alla determinazione dell’inquadra-mento non si può prescindere da tre fasi successive e, cioè, dall’accerta-mento delle attività esplicate, dall’in-dividuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto di categoria e

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dal raffronto dei risultati di tali due in-dagini” (v. Cass. 16 febbraio 2005, n. 3069, in Giur. it. mass., 2005, c. 287). Dunque, la ricognizione delle man-sioni si accompagna alla ricostruzio-ne della portata di ciascuna qualifica e, quindi, all’interpretazione del testo negoziale. Il paragone richiesto non è sempre agevole; ad esempio, il carattere vi-cario dell’attività preclude il diritto al superiore inquadramento (v. Cass. 16 agosto 2004, n. 15968, in Giur. it. mass., 2004, c. 897) e, nell’ipotesi di mansioni promiscue, quella prevalente non deve essere individuata sulla base di una mera contrapposizione quantita-tiva, ma con l’identificazione, in base all’analisi qualitativa, del compito più significativo sul piano professionale (cfr. Cass. 23 giugno 1998, n. 6230, in Giur. it. mass., 1998, c. 457), quindi con una valutazione complessiva e, per ciò solo, opinabile.Comunque, in un eventuale giudizio, il lavoratore ha l’onere di allegare e di provare quali siano i profili carat-terizzanti dell’inquadramento richie-sto, raffrontandoli con la sua attività (v. Cass. 21 maggio 2003, n. 8025, in Mass. giur. lav., 2003, p. 699). In sostanza, il collegamento fra com-piti e qualifica si traduce in quello fra la realtà della vita produttiva e le in-dicazioni normative delle clausole dei contratti, con un dialogo non sempre agevole fra il modificarsi progressivo e spesso rapido dei contesti aziendali e le previsioni generali che, riferite a molte situazioni diverse, sono talora

impostate con locuzioni di voluta am-biguità. Le relative controversie si tra-sformano di frequente in dispute no-minalistiche, sul significato delle varie parole, con la difficoltà di riportare il lessico dei contratti ad una appagan-te valutazione del lavoro e del suo multiforme atteggiarsi. Peraltro, con riguardo all’azione di accertamento giudiziale della qualifica superiore, il risultato utile e rilevante, richiesto per la sussistenza dell’interesse ad agire, è costituito dalla rimozione di uno stato di incertezza sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi delle parti, correlati all’inquadramento (v. Cass. 4 giugno 2004, n. 10661, in Mass. giur. lav., 2005, p. 751).

3. Le categorie legali.

L’art. 2095 cod. civ. regola un insie-me di categorie, di varia importanza, a loro volta presupposto degli interventi della contrattazione collettiva, in parte votata a costruire su tale base il siste-ma delle qualifiche, in parte orientata a prescindere dalle indicazioni dello stesso art. 2095 cod. civ., come traspa-re dal cosiddetto inquadramento unico e, pertanto, dalla considerazione nello stesso sistema negoziale sia degli im-piegati, sia degli operai. Con riguardo alle condizioni di attri-buzione della dirigenza, per lo meno le tesi ultime della giurisprudenza sot-tolineano più il risalto delle clausole dei contratti collettivi che il significa-to intrinseco della figura, desumibile dall’art. 2095 cod. civ.; per esempio, si

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suggerisce di non fare riferimento alla nozione legale, ma alle relative pre-visioni degli accordi, cui il giudice di merito avrebbe il dovere di attenersi, per un loro preteso valore vincolante e decisivo, sorretto dalla valutazio-ne dell’esperienza di ciascun settore merceologico, compiuto dai soggetti stipulanti (v. Cass. 26 aprile 2005, n. 8650, in Giur. it. mass., 2005, c. 479). Peraltro, in altre pronunce, i tratti ca-ratteristici e tradizionali dell’impianto dell’art. 2095 cod. civ. riaffiorano in modo più chiaro, poiché si sottolinea l’importanza dell’autonomia e della discrezionalità delle scelte decisionali dei dirigenti, in modo che la loro atti-vità influisca sugli obbiettivi comples-sivi dell’imprenditore (v. Cass. 30 ago-sto 2004, n. 17344, in Lav. giur., 2005, p. 281); anzi, il dirigente non dovrebbe essere sottoposto ad una dipendenza gerarchica, con l’esercizio di funzioni tali da influire sulla conduzione di una intera azienda o di un suo ramo auto-nomo, e non circoscritte ad un suo set-tore (cfr. Cass. 27 aprile 2004, n. 8064, in Gius, 2004, p. 3442). Ne deriva un panorama composito, nel quale il rinvio alle indicazioni nego-ziali si combina con l’opposta tenden-za a sottolineare elementi desunti dalla ricostruzione dell’art. 2095 cod. civ.. Quindi, le sentenze si affidano ora alle formule più analitiche dei contratti, ora all’elaborazione tradizionale della stessa giurisprudenza, piuttosto basata sull’art. 2095 cod. civ..Peraltro, il dibattito è significativo per le rilevanti conseguenze del ricono-

scimento dell’appartenenza alla ca-tegoria di dirigente, con implicazioni sulla definizione dei contratti collettivi applicabili, soprattutto sulla disciplina dei licenziamenti individuali.Al contrario, resta confinata nell’in-terpretazione e nell’attuazione del negozio collettivo la determinazione del concetto di funzionario, ripreso solo da taluni accordi, ad esempio nel settore bancario, in contrapposizione alla dirigenza e, quindi, con la sconta-ta applicazione della legge n. 604 del 1966.

Al confine fra regolazione eteronoma e contrattazione si pone la legge n. 190 del 1985, che ha introdotto la catego-ria del quadro, peraltro rimettendo ai soggetti sindacali il compito di rego-larne configurazione ed implicazioni. Se mai, nel segno di una attenuazione delle rigidità imposte dall’art. 2103 cod. civ., l’art. 6 della legge n. 190 del 1985 permette agli accordi collettivi di stabilire un periodo di tempo superio-re a tre mesi per conseguire il diritto ad una qualifica propria della catego-

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ria dei quadri o di quella dei dirigenti (v. Cass. 5 luglio 2004, n. 12238, in Giur. it. mass., 2004, c. 1097), e questa pare una delle novità più significative dell’intera legge n. 190 del 1985. Se, ormai, in un sistema di inquadra-mento unico, la categoria degli inter-medi ha perso di significato, le ultime evoluzioni normative hanno ridimen-sionato l’importanza della contrappo-sizione fra impiegati ed operai, per lo più imperniata sulla natura manuale od intellettuale dell’attività.Peraltro, la distinzione ha perso molto risalto, se non per aspetti previdenzia-li, ad esempio con riguardo al regime dell’indennità di malattia.Questa linea di tendenza ne testimonia una più generale; ad eccezione della categoria dei dirigenti, le altre dell’art. 2095 cod. civ. hanno vista ridotta la loro incidenza sulla determinazione del trattamento dovuto e, quindi, le implicazioni dei contratti hanno ac-quistato un peso sempre maggiore, divenendo il fulcro dell’intero inqua-dramento, a scapito dell’art. 2095 cod. civ. e delle sue nozioni.L’inquadramento è sempre più mate-ria di contrattazione e non di legge, se si esclude il caso più contrastato e complesso dei dirigenti, in specie per le conseguenze in tema di disciplina li-mitativa dei licenziamenti individuali.

4. Le qualifiche della contrattazione collettiva ed il sistema di inquadra-mento unico.

Salutata con entusiasmi forse ecces-

sivi, la svolta della contrattazione a favore del sistema di inquadramento unico ha contribuito a ridimensiona-re l’importanza della distinzione fra attività impiegatizie ed operaie, in un contesto produttivo nel quale l’ado-zione di moderne tecnologie addensa anche nelle funzioni per tradizione operaie componenti intellettuali, con il necessario uso di macchine complesse ed il ricorso a cognizioni non banali, in specie di natura informatica.Invece, sul piano del trattamento e, quindi, delle implicazioni economiche delle diverse qualifiche negoziali, l’in-quadramento unico non ha apportato le evoluzioni attese e, in primo luogo, non ha introdotto significativi miglio-ramenti patrimoniali per i lavoratori adibiti alle mansioni di minore conte-nuto professionale.In realtà, con il sistema di inquadra-mento unico vi è stata una riduzione delle differenze retributive tra i livelli alti e quelli bassi. In generale, la giurisprudenza rico-nosce un ampio spazio di autonomia all’accordo sindacale, al quale è con-sentito prorogare l’efficacia dei pre-cedenti contratti, modificare, anche in senso peggiorativo, i vecchi inquadra-menti e le pregresse retribuzioni, fermi i diritti quesiti, nonché disporre sulla prevalenza da attribuire di volta in vol-ta ad una clausola del contratto nazio-nale o di quello aziendale (v. Cass. 26 giugno 2004, n. 11939, in Mass. giur. lav., 2004, p. 789).Del resto, queste conclusioni riporta-no al tema specifico un più generale

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approccio del diritto contemporaneo sull’autonomia sindacale e sui suoi atti. Peraltro, di fatto, sono contenute le differenze di trattamento collegate all’inserimento nell’una o nell’altra qualifica, poiché la progressione eco-nomica è spesso poco pronunciata, per una scelta comune a molti accordi di categoria.Quindi, la valorizzazione della pro-fessionalità e le sue implicazioni sulle dinamiche salariali sono rimesse con intensità molto maggiore al negoziato individuale, in specie per quei presta-tori di opere con meriti significativi e con competenze rilevanti dal punto di vista tecnologico e produttivo. Di conseguenza, l’inquadramento ha visto ridimensionate le sue ricadute patrimoniali e non è più il principale criterio di diversificazione del corri-spettivo dovuto e di valorizzazione del merito.Il frequente intervento del contratto individuale e la remunerazione della dedizione personale con superminimi hanno ridotto l’impatto dell’attribu-zione dell’una o dell’altra qualifica, con una tendenza alla compressione delle differenze rispettive e, dunque, con una progressiva perdita di signifi-cato patrimoniale dell’inquadramento. Tale linea di tendenza, ancora contra-stata, ma abbastanza evidente, deter-mina una netta distinzione dall’impo-stazione del lavoro pubblico, invece basato sempre, anzi in misura crescen-te, sull’inquadramento quale meccani-smo fondamentale di organizzazione

gerarchica e di remunerazione dell’im-pegno di ciascun prestatore di opere. Se, nel lavoro privato, le capacità tro-vano riscontro nel contratto individua-le, nelle amministrazioni il senso di appartenenza di ciascun prestatore di opere per la sua qualifica rimane cru-ciale, vista l’assenza di altre forme di incentivazione o di premio. In ogni caso, sia nel lavoro privato, sia in quello pubblico, la classificazione ha luogo con valutazioni che colloca-no ciascuna prestazione in scale carat-terizzate da una crescente complessità concettuale, con il delicato tentativo di stabilire l’impegno richiesto, le re-sponsabilità connesse e, dunque, il va-lore organizzativo e retributivo di ogni attività.L’innovazione tecnologica costante e la rapida trasformazione dell’assetto produttivo minacciano la credibilità di tale catalogazione, in specie facendo emergere in modo repentino l’impor-tanza di funzioni prima ignote e di dif-ficile collocazione. Quanto più rapidi sono tali processi, tanto minore è la complessiva coe-renza del sistema, come è dimostrato dall’esperienza delle aree più dinami-che del mondo dell’impresa, aree nelle quali è massiccio lo spiazzamento del-la logica dei contratti collettivi e dove è imponente il ricorso al negoziato individuale per la specifica individua-zione della retribuzione.Se, invece, l’organizzazione è meno fluida e più stabile e l’innovazione è più lenta, come accade nelle pubbli-che amministrazioni, ma anche in vari

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settori del lavoro privato, non è scal-fita la centralità dell’inquadramento, non solo in una logica gerarchica, ma come strumento di classificazione, con il conforto di una più diffusa sensibili-tà dei lavoratori. Vi è da chiedersi se il trattamento di fatto riconosciuto sia oggetto in modo prevalente delle implicazioni delle in-tese individuali o collettive; in tale se-condo caso, il passaggio inevitabile è la qualificazione dell’attività per mez-zo dell’inquadramento, mentre, nella prima ipotesi, scompare la mediazione sindacale a fronte di un dialogo serra-to sui meriti di ciascun collaboratore e sulla sua forza negoziale, derivante dalle sue competenze, vere o pretese e, in ogni caso, dalla sua capacità di imporsi alla controparte.Nella moderna società economica, non si assiste tanto ad una crisi dei mecca-nismi di inquadramento, quanto ad un più generale ripensamento sul nesso fra la contrattazione collettiva e quella individuale.Tale tensione coinvolge in modo ine-vitabile il più circoscritto profilo delle qualifiche, del loro valore evocativo e della loro importanza applicativa.

5. Il cosiddetto “diritto alla qualifi-ca”.

Si è discusso a lungo se esista un “diritto alla qualifica” e, accantonato l’equivoco riferimento alla nozione di status, se il prestatore di opere sia tito-lare di uno specifica posizione sogget-tiva all’attribuzione dell’inqua

dramento conforme alle indicazioni della legge (in ordine alle categorie) e, in particolare, al riconoscimento delle qualifiche negoziali, sulla base delle declaratorie dei contratti collettivi.La tesi negativa si fa preferire, perché la qualifica è solo un meccanismo che consente di selezionare i principi ap-plicabili al rapporto e di individuare la collocazione di ciascun prestatore di opere nel sistema organizzativo, sulla base della valutazione delle mansioni e del loro inserimento in classi omo-genee. Dunque, l’inquadramento è uno stru-mento di determinazione delle previ-sioni legali o negoziali riferibili a cia-scun rapporto, con il sorgere di diritti inerenti alle varie componenti del trat-tamento correlato e non alla qualifica in sé; anche ai sensi dell’art. 96 disp. att. cod. civ., il diritto a conoscere le determinazioni del datore di lavoro non presuppone una autonoma posi-zione soggettiva che abbia per oggetto l’inquadramento.Questa è una semplice “formula sin-tetica” utilizzata per cogliere in modo univoco la titolarità in capo al lavora-tore di altri diritti, a partire da quello

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alla retribuzione. Quindi, l’atto dell’art. 96 disp. att. cod. civ. ha mero valore ricognitivo; se la qualifica e la categoria selezionano le prescrizioni legali e convenzionali vigenti in ordine a ciascun rapporto e, pertanto, il corrispondente tratta-mento, l’impresa deve rendere edotto il lavoratore delle sue valutazioni sul regime al quale è assoggettato il con-tratto e, se la qualifica dichiarata è contestata, il prestatore di opere può agire in giudizio, non per tutelare un inesistente “diritto alla qualifica”, ma le effettive posizioni soggettive aventi per oggetto le singole componenti del trattamento. Non è di questa opinione la giuri-sprudenza più recente, per la quale “il diritto alla qualifica superiore è configurabile come specifica posizio-ne soggettiva e, anzi, essa si prescri-ve nell’ordinario termine decennale dell’art. 2946 cod. civ., mentre il cre-dito alle differenze retributive spettan-ti è sottoposto alla prescrizione quin-quennale dell’art. 2948 cod. civ. (v. Cass. 6 aprile 2005, n. 7116, in Guida dir., 2005, fasc. 18, p. 66). Se si identi-fica un “diritto alla qualifica”, è inevi-tabile ravvisare l’operare del termine decennale di prescrizione; peraltro, a temperamento di questo criterio, si soggiunge che “il decorso del decen-nio dal momento dell’insorgenza del diritto non preclude l’accesso al su-periore inquadramento allorché con-tinui l’attività idonea a determinarlo” e, quindi, l’adibizione alle mansioni di maggiore contenuto professionale.

Infatti, se permane la situazione di fatto alla quale la clausola negoziale e l’art. 2103 cod. civ. collegano il sorge-re del diritto, “la prescrizione decorre da ogni giorno successivo a quello nel quale si è per la prima volta concretata tale situazione, fino alla sua cessazio-ne” (v. Cass. 17 luglio 2001, n. 9662, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, p. 290). Sono ragionevoli le soluzioni applica-tive di queste indicazioni, ma la tesi di fondo desta perplessità.E’ difficile immaginare che, in quan-to espressione sintetica idonea a col-legare le mansioni ad un trattamento legale o negoziale, la qualifica possa essere oggetto di un diritto, distinto da quelli concernenti i vari beni della vita riconosciuti per legge o per contratto e correlati all’inquadramento stesso.

6. La qualifica convenzionale.

In generale, sia il riconoscimento della categoria legale, sia quello della quali-fica regolata dai contratti hanno luogo a seguito di una considerazione anali-tica delle mansioni e, quindi, sono in funzione di queste ultime.In quanto indicative della dimensione professionale, esse sono il presuppo-sto dell’inquadramento e, perciò, della classificazione della prestazione.Tuttavia, tale nesso è relativo e può essere superato nell’esercizio dell’au-tonomia individuale, poiché è possi-bile riconoscere “ad un lavoratore la categoria di dirigente a prescindere dalla corrispondenza della stessa alle mansioni.

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Il principio fondamentale desumibile dall’art. 2103 cod. civ., secondo cui la qualifica deve corrispondere ai compi-ti, essendo stabilito a tutela del lavo-ratore, può essere derogato in suo fa-vore, anche qualora la deroga non sia del tutto propizia, ma presenti aspetti in astratto pregiudizievoli. Essa è le-gittima espressione di autonomia ne-goziale se risponde ad un apprezzabile interesse e non ha finalità elusive di norme imperative” (v. Cass. 12 set-tembre 2002, n. 13326, in Dir. e giust., 2002, fasc. 36, p. 64). Pertanto, il nesso fra mansioni ed in-quadramento non impedisce un accor-do modificativo, con l’attribuzione di una categoria o di una qualifica supe-riori a quelle alle quali il lavoratore avrebbe diritto. In tale caso, la rottura del raccordo fra il facere e la sua va-lutazione è giustificato proprio dalla riserva al prestatore di opere del trat-tamento migliorativo collegato al rico-noscimento della qualifica superiore. Il lavoratore non cambia mansioni, né ha diritto ad eseguire una attività più qualificata, ma gode solo dei benefici dipendenti dal più elevato inquadra-mento, con variazioni concentrate sul trattamento, senza implicazioni in or-dine alla prestazione di facere. Per le impostazioni più recenti, il po-tere di attribuire qualifiche più ele-vate non trova limite in alcun princi-pio di parità di trattamento (v. Cass. 23 febbraio 2004, n. 3571, in Guida dir., 2004, fasc. 14, p. 58). Pertanto, ai fini della determinazione giudi-ziale dell’inquadramento, il termine

di paragone non può mai essere dato dall’altrui qualifica, poiché essa può essere stata riconosciuta in via con-venzionale. Tale riferimento ha un valore limitato ed occorre sempre una prioritaria comparazione con le de-claratorie dei contratti collettivi. Solo le relative clausole normative fanno sorgere posizioni soggettive attive in capo a ciascun dipendente, che non può pretendere una generica parità di trattamento, ma solo invocare il rispet-to degli accordi sindacali o, per altro verso, dall’art. 2095 cod. civ..

7. La dequalificazione ed il risarci-mento del danno.

Al di fuori dei casi previsti dalla leg-ge (e fra essi il più importante è quello dell’accordo stipulato con riguardo ad una procedura di mobilità, per evitare un licenziamento), dall’art. 2103 cod. civ. si desume a ragione un generale divieto di dequalificazione e questo è il necessario corollario dell’attribuzio-ne al datore di lavoro di un potere di modificazione dei compiti nel rispetto dell’equivalenza. Quindi, i criteri di identificazione delle mansioni infe-riori per contenuto sono speculari a quelli impiegati per cogliere la no-zione di equivalenza; la dequalifica-zione implica una compressione del globale livello delle prestazioni, con una sottoutilizzazione delle capacità ed una consequenziale, apprezzabile menomazione della professionalità, nonché con la perdita di potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità

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di guadagno (v. Cass. 29 ottobre 2004, n. 20989, in Giur. it. mass., 2004, c. 1735; Cass. 8 novembre 2003, n. 16792, in Amb. e sic., 2004, fasc. 8, p. 86). Il parametro è di natura professio-nale, con una specifica attenzione per le ripercussioni pregiudizievoli sulla posizione del dipendente non soltanto nell’organizzazione aziendale, ma nel mercato, con la tutela delle ulteriori occasioni di reddito. Ha lineamenti autonomi ed è oggetto di valutazioni contrastanti il problema dell’adibizione a mansioni inferiori al fine evitare l’intimazione del licenzia-mento, fuori dal caso di quelli colletti-vi, fattispecie regolata in via espressa dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991. Se, talora, si invita il datore di lavoro a valutare anche compiti dequalifican-ti ai fini dell’assolvimento del cosid-detto obbligo di ripescaggio (v. Cass. 19 agosto 2004, n. 16305, in Giur. it. mass., 2004, c. 1035; con riguardo ad un prestatore di opere invalido, cfr. Cass. 3 maggio 2005, n. 9122, in Guida dir., 2005, fasc. 24, p. 78), in altre situazioni si giunge a conclusioni opposte, in nome dell’inderogabilità dell’art. 2103 cod. civ. (cfr. Cass. 20 agosto 2003, n. 12270, in Gius, 2004, p. 515).

Il contrasto di opinioni può essere ri-solto in modo equilibrato se si ritiene che l’impresa debba proporre la prose-cuzione del rapporto con mansioni de-qualificanti e che l’eventuale accordo sia valido (v. Cass. 7 febbraio 2005, n. 2375, in Guida dir., 2005, fasc. 9, p. 88); non si vede perché il lavoratore non potrebbe sacrificare il bene tutela-to dall’art. 2103 cod. civ., in nome del perseguimento di interessi di maggiore risalto. Diverso sarebbe imporre l’ado-zione di un provvedimento unilaterale, seppure per prevenire il recesso; a tale fine, l’assegnazione dei compiti di mi-nore contenuto postula il consenso del dipendente, cui deve essere rappresen-tata in modo chiaro l’alternativa. In generale, l’ingiustificata violazione dell’art. 2103 cod. civ. determina una responsabilità contrattuale e, secondo la tesi maggioritaria (v. Cass., sez. un., 14 marzo 2006, n. 6572, in Arg. dir. lav., 2006), il lavoratore deve allegare e dimostrare il danno (professionale od anche nella sua eventuale componente di pregiudizio alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) ed il nes-so di causalità con l’inadempimento (cfr. Cass. 28 maggio 2004, n. 10361, in Mass. giur. lav., 2004, p. 719). Tale impostazione supera qualunque auto-matismo e, in particolare, mette in crisi l’abituale tendenza di larga parte della giurisprudenza di merito a calcolare il risarcimento in funzione della retribu-zione versata a ciascun prestatore di opere; se tale soluzione è comoda dal punto di vista applicativo, non si capi-sce che nesso possa avere l’entità del-

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la retribuzione con la quantificazione del ristoro (in senso diverso, v. Cass. 2 marzo 2005, n. 4370, in Mass. giur. it., 2005, c. 357). Se mai, possono essere utilizzati “mol-ti criteri, come la perdita di opportuni-tà di carriera, la posizione gerarchica abbandonata (alla quale possono esse-re connessi il danno all’immagine e la sofferenza psicofisica), la durata della dequalificazione, l’età del lavoratore, l’elemento psicologico della condotta del datore di lavoro” (v. Cass. 8 no-vembre 2003, n. 16792, in Guida dir., 2003, fasc. 49, p. 53). Il potere equita-tivo del giudice è ampio ed è inevitabi-le il ricorso alle presunzioni; ciò ridi-mensiona la complessità dell’onere di allegazione e di prova del prestatore di opere, il quale, comunque, deve dare elementi rilevanti ai fini dell’identifi-cazione dei danni, della loro natura e della loro entità, con tesi calate nella specifica situazione. In modo un po’ sorprendente, varie sentenze negano che, in caso di dequa-lificazione, il dipendente possa rifiuta-re di eseguire la prestazione, qualora sia versata la retribuzione (v. Cass. 23 dicembre 2003, n. 19689, in Gius, 2004, p. 2232; Cass. 7 febbraio 1998, n. 1307, in Mass. giur. it., 1998, c. 93). L’effetto lesivo dell’illegittimo prov-vedimento è identificato nella perdita della possibilità di esercitare i compiti coerenti con la propria esperienza e non nell’aggravio, anche psicologico, indotto dallo svolgimento di una atti-vità imposta in modo illecito.Tale punto di vista non è persuasivo

e non si vede perché, a fronte della condotta dell’impresa in violazione dell’art. 2103 cod. civ., il prestatore di opere non possa reagire con il rifiuto di svolgere compiti la cui esecuzione non può essere pretesa.

8. L’adibizione a mansioni equiva-lenti.

Il potere unilaterale di adibire il pre-statore di opere a mansioni equivalen-ti presuppone la ricostruzione di tale ultima nozione e, a questo riguardo, è insufficiente il fatto che i compiti ap-partengano alla stessa qualifica, poi-ché l’art. 2103 cod. civ. non si limita ad una protezione del solo interesse economico, ma cerca di salvaguardare in modo più articolato le competenze professionali, evitando turbative nello svolgimento dell’attività che pregiudi-chino le competenze acquisite e, così, le aspettative non solo inerenti all’ul-teriore corso del rapporto, ma, soprat-tutto, alla posizione sul mercato del lavoro. Per la giurisprudenza, l’equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti deve essere intesa non solo nel senso di pari valore oggettivo alla stregua del sistema dell’inquadramento, ma anche come attitudine a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l’ar-ricchimento del patrimonio di abilità (v. Cass. 12 aprile 2005, n. 7453, Giur. it. mass., 2005, c. 487). Anzi, non è sufficiente il riferimento in astratto alla qualifica, ma i compiti devono es-sere aderenti alle specifiche capacità,

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salvaguardandone il livello e garan-tendone l’accrescimento progressivo. A tale fine, si chiede di verificare i contenuti delle attività. In particolare, le nuove mansioni sono equivalenti alle ultime soltanto qualora sia tutelata la professionalità e la nuova colloca-zione consenta di sfruttare le pregresse conoscenze e le esperienze (cfr. Cass. 30 luglio 2004, n. 14666, in Lav. giur., 2005, p. 73). Peraltro, “l’art. 2103 cod. civ. pone il divieto di adibire il lavoratore a man-sioni non equivalenti, in quanto pro-prie di un livello di inquadramento inferiore, rispetto alle ultime.Invece, non rientra in tale previsione la successiva equiparazione, in termini di inquadramento, di mansioni inferio-ri ad altre prima considerate superiori” (v. Cass. 19 aprile 2001, n. 5761, in Giur. it. mass., 2001, c. 457).Quindi, l’equivalenza non pone limiti all’esercizio dell’autonomia negoziale collettiva e non impedisce diverse so-luzioni convenzionali sulla conforma-zione di ciascuna qualifica e dei pre-supposti per l’inserimento in essa. A tale riguardo, l’art. 2103 cod. civ. non preclude, né scoraggia differenti valutazioni degli accordi sindacali che si siano succeduti nel tempo, ma si ri-ferisce solo ai provvedimenti del dato-re di lavoro incidenti sul facere, al fine di proteggere le competenze dei pre-statori di opere, per i valori morali ed economici sottesi e, quindi, per la dife-sa della dignità e, al tempo stesso, del-le abilità, quale premessa all’ulteriore attività e, pertanto, al conseguimento

di una conforme collocazione. In que-sta prospettiva, la professionalità è una componente della personalità.

9. La promozione.

L’art. 2103 cod. civ. regola le conse-guenze dell’adibizione a mansioni su-periori e, quindi, relative ad un più ele-vato inquadramento, senza soffermarsi sulla natura dell’atto di promozione. Se talora si nega il carattere unilaterale del provvedimento, la tesi maggiorita-ria è di diverso avviso e riporta la fat-tispecie ai poteri del datore di lavoro, non ad un apposito accordo.Peraltro, l’art. 2103 cod. civ. assecon-da la naturale vocazione di ciascun prestatore di opere a progredire nel-la complessità e nell’importanza dei compiti, e regola le implicazioni eco-nomiche della promozione, tra l’altro distinguendo fra quella stabile e quella temporanea e, in tale secondo caso, imponendo il suo consolidarsi decorso il termine di tre mesi, salva l’ipotesi di sostituzione di un altro lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto.Dunque, “il diritto alla migliore qua-lifica è fondato sullo svolgimento del-le mansioni superiori, fatto oggettivo qualificato dal suo presupposto, costi-tuito dal livello” della prestazione (v. Cass. 3 gennaio 2005, n. 24, in Mass. giur. lav., 2005, p. 292). Nella struttura dell’art. 2103 cod. civ., la protezione non si impernia sulle connotazioni dell’atto di modificazio-ne del facere e, in particolare, prescin-

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de per intero dalla considerazione del suo carattere unilaterale o convenzio-nale.L’art. 2103 cod. civ. considera solo le mansioni, stabilendo il sorgere di un diritto a svolgere in modo continua-tivo quelle superiori dopo tre mesi e, comunque, l’immediato diritto a go-dere del trattamento corrispondente al migliore inquadramento.Non a caso, con esatta interpretazio-ne dell’art. 2103 cod. civ., si rileva che il diritto alla retribuzione è ga-rantito in modo autonomo dal conse-guimento della qualifica superiore e, quindi, deve essere riconosciuto per tutto il periodo di effettiva adibizione (v. Cass. 12 marzo 2004, n. 5137, in Mass. giur. lav., 2004, p. 539), anche a prescindere da un espresso provvedi-mento, tanto meno formale. L’art. 2103 cod. civ. presuppone la regolazione negoziale dell’inqua-dramento e recepisce tale modello di classificazione del facere, per un verso assicurando il diritto all’imme-diata percezione del compenso pro-porzionato ai compiti espletati e, per altro verso, prescrivendo la cosiddetta promozione automatica e, quindi, il diritto allo stabile espletamento delle mansioni superiori decorsi tre mesi. In entrambe le ipotesi, l’accento grava sul fatto dell’attività esercitata, più che sulle determinazioni dell’impresa e sul loro carattere negoziale, ed il termine di paragone è dato comunque dalle in-dicazioni degli accordi sindacali sulle qualifiche, indice dei corrispondenti trattamenti e, pertanto, della valutazio-

ne della complessità della prestazione secondo una scala crescente.Non a caso, lo stesso negoziato col-lettivo può disciplinare con apposite clausole il problema delle mansioni “promiscue”, per determinare quali ri-entrino in ciascuna qualifica (v. Cass. 10 marzo 2004, n. 4946, in Gius, 2004, p. 2996), con un problema per lo più risolto con il criterio della prevalenza.

10. L’inquadramento dei lavoratori pubblici.

Il complesso tema dell’inquadramen-to dei lavoratori pubblici ha una arti-colata tradizione storica, nell’ambito della quale è centrale la legge n. 93 del 1983. Se tale fonte ha superato il precedente sistema delle carriere, ha anche accorpato in poche qualifiche, per lo più otto o nove, tutte le posizio-ni retributive presenti nel frastagliato regime antecedente, vincolando in larga parte i successivi accordi sinda-cali ed i relativi decreti presidenziali di recepimento, e rendendo omogenee la retribuzione e le qualifiche nelle di-verse amministrazioni, con un unitario disegno trasversale.

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Esso si è basato sulle due comuni ca-tegorie legali della qualifica funzio-nale (conformata in modo simile nei singoli comparti) e dei profili profes-sionali, visti come articolazione della qualifica ed indicativi della specifica vocazione e della natura dell’attività. Caratterizzato da una notevole rigidi-tà, tale impianto presupponeva che il passaggio dall’una all’altra qualifica avesse luogo con una novazione del rapporto ed a seguito di un concorso pubblico, dunque con la competizione fra i dipendenti e gli esterni, nonostan-te numerose deroghe siano state intro-dotte da prescrizioni eteronome e dai contratti sindacali, su sollecitazione di gruppi più o meno numerosi di impie-gati. La complessiva revisione della disci-plina ha avuto luogo a seguito della “privatizzazione” e, pertanto, del de-creto legislativo n. 29 del 1993 e, da ultimo, dell’art. 52 del decreto legi-slativo n. 165 del 2001, che regola le mansioni e le forme della loro modi-ficazione, secondo principi ispirati a quelli dell’art. 2103 cod. civ., ma con evidenti differenze. In sintonia con l’esperienza del lavoro privato, il de-creto n. 165 del 2001 non si sofferma sull’articolazione dell’inquadramento, impostata, per ciascun comparto, dai contratti nazionali del quadriennio 1999 - 2001, con soluzioni fino ad oggi confermate nel loro assetto fon-damentale dalle successive intese.Le posizioni di inquadramento sono raggruppate in aree, identificate da let-tere, con suddivisioni interne, contras-

segnate da numeri cardinali. Si discute fino a che punto l’art. 2095 cod. civ. sia applicabile al lavoro pub-blico. Se, in ordine ai dirigenti, sov-viene la specifica regolazione del de-creto n. 165 del 2001 e se esso prevede anche, per le amministrazioni statali, la discussa figura della vicedirigenza, per la giurisprudenza maggioritaria (v. Cass. 5 luglio 2005, n. 14193, in Arg. dir. lav., 2006, 577) la legge n. 190 del 1985 non potrebbe essere invocata da-gli impiegati pubblici, che non potreb-bero chiedere in via giudiziale l’accer-tamento del diritto al riconoscimento della categoria di quadro. Se la legge n. 93 del 1983 aveva mi-rato a rendere omogeneo il sistema di inquadramento in tutti i comparti e per qualunque amministrazione, i contratti relativi al quadriennio 1999 - 2001 hanno adottato impostazioni differenti, cercando di soddisfare le esigenze di maggiore duttilità organiz-zativa degli enti locali e delle Regioni e conservando un regime più tradizio-nale per lo Stato, gli enti pubblici non economici e le università degli studi. I singoli accordi hanno previsto anche la possibile introduzione di “posizioni organizzative”, che non interferiscono con la classificazione del facere, ma identificano e remunerano funzioni le quali dovrebbero denotare specifiche responsabilità.Se le “posizioni organizzative” sono state immaginate per incarichi a ter-mine e retribuiti in modo specifico, esse dovrebbero essere eterogenee rispetto al sistema di inquadramento.

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L’assegnazione dell’obbiettivo e del compenso dovrebbe prescindere dalla modificazione della qualifica, anche perché la “posizione” non attiene alla valutazione qualitativa del facere, ma alla selezione ed alla ripartizione di funzioni complesse. Solo in apparenza l’art. 52, primo comma, del decreto n. 165 del 2001 ri-evoca l’art. 2103 cod. civ. a proposito della modificazione delle mansioni in senso orizzontale. Infatti, le espressio-ni utilizzate (il prestatore di opere può essere adibito “alle mansioni conside-rate equivalenti nell’ambito della clas-sificazione professionale prevista dai contratti collettivi”) e molte clausole dei negozi sindacali hanno indotto a chiedersi se l’assegnazione di man-sioni “equivalenti” postuli una valuta-zione sulla coerenza professionale dei compiti, alla stregua di quanto accade con l’applicazione dell’art. 2103 cod. civ. nel lavoro privato, o se il provve-dimento dell’amministrazione sia li-bero da ulteriori vincoli, purché siano attribuite funzioni proprie della mede-sima qualifica secondo le declaratorie dei contratti collettivi.Nonostante il tenore letterale dell’art. 52, primo comma, la prima tesi, più garantista, si fa preferire, perché sareb-be singolare un potere dell’istituzione di trasformare il facere senza che ne sia considerata la specifica vocazione professionale, soprattutto se si consi-dera come nella stessa posizione di in-quadramento siano comprese, in tutti gli accordi collettivi, mansioni molto diverse le une dalle altre.

In modo chiaro, l’art. 52 del decreto n. 165 del 2001 propone una regolazione derogatoria della promozione, poiché l’assegnazione di mansioni superiori può avvenire solo “nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualo-ra siano state avviate le procedure per la copertura”, o di “sostituzione di al-tro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto”.Peraltro, a prescindere dal ricorrere di tali fattispecie, “al lavoratore è cor-risposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore”. Dunque, la promozione disposta in si-tuazioni diverse da quelle consentite determina la nullità dell’atto, ma non incide sul diritto alla maggiore retribu-zione, salva la responsabilità patrimo-niale del dirigente, per la violazione dello stesso art. 52.Però, non esiste alcuna forma di pro-mozione automatica, perché “l’eserci-zio di fatto di mansioni non corrispon-denti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento (...) o dell’assegnazione di incarichi di direzione”. Nel definire il nuovo sistema delle qua-lifiche, i contratti relativi al quadrien-nio 1999 - 2001 hanno previsto forme di progressione basate su procedure di selezione regolate dal diritto comune. A tale fine, gli accordi distinguono fra “progressioni orizzontali”, con l’ac-quisizione di una posizione superiore all’interno delle aree, e “verticali”, con il passaggio da una area all’altra. Il forte dibattito giurisprudenziale di

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questi anni ha indagato sul riparto di giurisdizione, con tesi differenti e con un quadro complessivo ancora in atte-sa di definizione, in particolare viste le posizioni della Corte costituzionale, secondo la quale l’attribuzione di una qualifica superiore presuppone sempre la partecipazione e la vittoria ad un concorso pubblico, con la stipulazio-ne di un contratto novativo (v. Corte costituzionale 23 luglio 2002, n. 273, in Lav. pubbl. amm., 2002, p. 573 ss.; Corte costituzionale 16 maggio 2002, n. 194, ibid., 2002, p. 289 ss.; Corte costituzionale 29 maggio 2002, n. 218, in Giust. civ., 2002, I, p. 437 ss.).In realtà, né i principi costituzionali, né la stessa struttura degli istituti pos-sono indurre ad equiparare in modo necessario le promozioni e le assun-zioni e, pertanto, non si vede perché le prime dovrebbero implicare un con-corso pubblico. Né vi può essere giu-risdizione del giudice amministrativo, poiché essa attiene ai concorsi inerenti all’accesso. E’ pacifica la giurisdizione ammini-strativa in tema di concorsi esterni, anche qualora vi siano quote riservate (cfr. Cass., sez. un., 23 marzo 2005, n. 6217, ord., in Foro amm., 2005, 1665).Per altro verso, a differenza di quanto si ricava dalle più recenti indicazioni, la giurisdizione del giudice ordinario non riguarda solo le procedure che abbiano in palio una progressione all’interno di ciascuna area, ma anche quelle cosiddette verticali (invece, v. Cass., sez. un., 20 maggio 2005, n.

10605, ord., in Foro amm., 2005, p. 1344; Cass., sez. un., 18 ottobre 2005, n. 20107, in Giur. it. mass., 1205, c. 1379; Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2005, n. 2998, in Giur. it., 2005, c. 2205; Cons. stato, sez. IV, 7 giugno 2005, n. 2987, in Foro amm., 2005, p. 1708). Non si vede come si possa ri-tenere diversa la giurisdizione nei due casi, se si considerano la stessa matri-ce convenzionale ed il simile regime sostanziale delle “progressioni”, a pre-scindere dal fatto che siano “orizzon-tali” o “verticali”. Nonostante, in apparenza, l’idea emer-sa nella giurisprudenza più recente possa sembrare una comoda soluzione di compromesso fra orientamenti op-posti, alla ricerca di un punto di equi-librio fra la giurisdizione del giudice amministrativo e di quello ordinario, non è così. Infatti, se le “progressioni verticali” implicassero una assunzione, non sarebbe in discussione solo il ri-parto della giurisdizione, ma andrebbe in crisi la validità stessa delle clausole convenzionali, che concepirebbero la promozione secondo meccanismi non in sintonia con l’art. 97 cost. e, cioè, con il semplice espletamento di sele-zioni regolate dal diritto privato. Vi è da chiedersi se le sentenze degli ultimi mesi non sottintendano la nullità delle previsioni dei contratti che hanno vo-luto concorsi di diritto comune per la modificazione dell’inquadramento.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Potere di controllodel datore di lavoro

Enrico GragnoliLuca Zaccarelli

1. Nozione.2. Limiti all’esercizio del potere di controllo visivo del datore di lavoro.3. Gli strumenti di controllo a distanza.4. Il potere di indagine su fatti attinenti all’idoneità professionale. Distinzio-

ne dal potere di controllo del datore di lavoro.5. Il sistema della legge n. 300 del 1970 e quello della legge n. 675 del 1996 e

del decreto legislativo n. 196 del 2003.6. Il potere di controllo del datore di lavoro ed il trattamento dei dati per-

sonali.

1. Nozione.

La legge n. 300 del 1970 ha intro-dotto specifici limiti all’esercizio dei controlli del datore di lavoro, per con-temperare l’interesse individuale alla riservatezza con quello dell’impresa a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni del prestatore di opere e, a maggiore ragione, per proteggere la sfera privata del dipendente, a pro-posito di fatti estranei alla dimensione professionale. Poi, il tema del con-trollo ha avuto ampio risalto a seguito dell’emanazione della legge n. 675 del 1996 e del decreto legislativo n. 196

del 2003, sul cosiddetto “trattamento dei dati personali”, vista l’incidenza di tali fonti sul rapporto di lavoro. Sul piano ricostruttivo, si discute se esista una specifica posizione sogget-tiva del datore di lavoro avente per og-getto il controllo sul prestatore di ope-re e sul suo adempimento e, per lo più, si riconosce tale potere, ricompreso fra quelli che caratterizzano la subor-dinazione e la stessa struttura causale del contratto. Si obbietta che il potere non si distinguerebbe da quello in ge-nerale proprio di qualunque creditore;

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quindi, non esisterebbe una separato posizione soggettiva, distinta dal dirit-to all’esecuzione dell’altrui facere. Il controllo non avrebbe natura diversa da quello di ciascun creditore, nono-stante la relativa disciplina legale e, quindi, i vincoli apposti alle iniziative dell’impresa. Tale ultima tesi non è persuasiva; a differenza di altri creditori, il datore di lavoro cerca ed acquisisce informazio-ni sull’adempimento in modo duratu-ro e stabile, con un riscontro non solo prolungato nel tempo, ma effettuato grazie ad una apposita organizzazio-ne, con una coordinata e riconoscibile funzione aziendale di analisi costante sul comportamento dei prestatori di opere. E’ una attività concepita ed ese-guita come un programmato, razionale e metodico controllo, influenzato non in modo estrinseco, ma nella sua stes-sa conformazione e nelle sue organiz-zate modalità di esecuzione dal fatto che il rapporto è, per sua natura, di du-rata. La coabitazione in azienda com-porta l’assoggettamento ad una veri-fica sistematica, espressione specifica dell’autorità del datore di lavoro, con una possibile interferenza sulla libertà personale e sulla riservatezza. Per un verso, l’esporsi del dipendente all’informazione è uno degli elementi della causa del contratto, con una net-ta differenza da altri negozi, che non implicano analisi così invasive e con-tinuative; per altro verso, il controllo è oggetto di un potere, espressione della subordinazione. Esso incontra limiti appositi nel diritto positivo, sia nella

legge n. 300 del 1970, sia nel decreto legislativo n. 196 del 2003. Tale pote-re si distingue da quello direttivo e da quello disciplinare e l’acquisizione di conoscenze non coincide con altre e differenti manifestazioni dell’autorità. Se mai, dal punto di vista empirico, i risultati del controllo sono di stimolo per l’esercizio del potere direttivo o di quello disciplinare, all’interno della complessiva sfera decisionale dell’im-presa, senza che tali nozioni possano essere considerate coincidenti o so-vrapponibili. Quindi, il potere di dirigere il facere, per trarne un risultato soddisfacen-te, comporta quello di conoscere la condotta solutoria dei lavoratori. Nel circoscrivere le legittime iniziative dell’impresa, la disciplina di tutela del dipendente identifica taluni metodi di controllo e rende non utilizzabili, in primo luogo ai fini disciplinari, infor-mazioni acquisite in violazione dei di-vieti. Se la legge n. 300 del 1970 ha considerato le espressioni più brutali e poliziesche dei meccanismi di verifica propri degli anni ‘60, la legge n. 675 del 1996 ed il decreto n. 196 del 2003 hanno aggiornato le impostazioni normative a fronte del prorompere di nuove tecnologie informatiche e delle connesse insidie alla libertà in azienda ed alla riservatezza. In qualche modo, sia gli artt. 2 ss. St. lav., sia i princi-pi sul “trattamento dei dati personali” (per quanto attiene al controllo) rea-lizzano il criterio generale dell’art. 1 St. lav., sulla libera manifestazione del pensiero in azienda, in sintonia con

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una più generale vocazione personali-sta del nostro diritto.

2. Limiti all’esercizio del potere di controllo visivo del datore di lavoro.

I limiti apposti dagli artt. 2 ss. St. lav. alle forme di esercizio del potere di controllo riguardano i metodi più tra-dizionali di verifica sul facere, basati sull’analisi visiva. Pertanto, tali dispo-sizioni presuppongono il potere e lo adeguano ad esigenze di socialità e di promozione della persona e delle sue libere manifestazioni, anche in quella necessitata comunità di vita costituita dall’azienda. Quindi, non è persua-sivo cogliere nella legge n. 300 del 1970 l’intento di “spersonalizzare” il rapporto. Per un verso, nonostante le restrizioni apposte ai meccanismi di controllo, la prestazione resta domi-nata dall’elemento della persona del dipendente, il quale esprime le sue capacità e le sottopone all’inevitabile valutazione altrui. Per altro verso, gli artt. 2 ss. St. lav. vogliono fare emer-gere e razionalizzare il conflitto fra persone presenti in azienda, e non già eliminarlo.

La coabitazione dovuta alla stipula-zione del contratto è una specifica convivenza fra soggetti con interessi confliggenti e con aspettative morali e patrimoniali divergenti, alla ricerca di un punto di equilibrio razionale, seppure per lo più instabile. L’elemen-to personale qualifica il rapporto e la legge n. 300 del 1970 ne è consapevo-le fino dall’art. 1, con l’enunciazione del basilare criterio di effettiva tutela della libertà del prestatore di opere. Tale prospettiva deve essere concilia-ta con l’interesse economico dell’im-presa; dunque, il potere di controllo è in funzione delle ragioni economiche di questa ultima ed i limiti mirano a contemperarle con la difesa della di-gnità. Sarebbe impensabile un lavoro “spersonalizzato”, con una insanabile contraddizione fra i due termini, poi-ché la prestazione è resa ed apprezzata proprio nella sua inevitabile e qualifi-cante dimensione personale. Oltre al rispettare criteri generali de-sumibili dal canone di correttezza, il datore di lavoro deve osservare le disposizioni sull’impiego di guardie giurate (art. 2 St. lav.), sui compiti e sulla necessaria identificazione del personale di vigilanza (art. 3 St. lav.), sul ricorso ad impianti audiovisivi (art. 4 St. lav.), sugli accertamenti sanitari (art. 5 St. lav.) e sulle visite persona-li (art. 6 St. lav.). Sebbene il potere di controllo non debba essere visto solo in funzione dell’avvio del procedi-mento disciplinare, ma, se mai, prima di tutto, in connessione con quello direttivo, corona queste prescrizioni

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l’art. 7 St. lav., appunto dedicato alle sanzioni disciplinari, in una integrata valorizzazione della persona e, quindi, con la predisposizione di uno spettro articolato di misure di tutela. Gli artt. 2 ss. St. lav. non incidono sul controllo eseguito dai superiori gerar-chici, ai quali, in particolare, non si applica l’art. 3, sulla base di un con-solidato orientamento giurispruden-ziale (ad esempio, v. Cass. 17 giugno 1981, n. 3960, in Giust. civ., 1981, I, p. 2227; Cass. 26 febbraio 1982, n. 1263, in Not. giur. lav., 1982, p. 352; Cass. 10 maggio 1985, n. 2933, ibid., 1985, p. 417). Inoltre, le stesse norme non impediscono verifiche sulla commis-sione di reati, come è per le iniziative dei cosiddetti agenti provocatori nel-le imprese della grande distribuzione (v. Cass. 14 luglio 2001, n. 9576, in Giur. it. mass., 2001, c. 739) o per gli altri interventi a tutela del patrimonio aziendale (cfr. Cass. 7 febbraio 1983, n. 1031, in Foro it., 1985, I, c. 439; Cass. 18 settembre 1995, n. 9836, in Orient. giur. lav., 1996, p. 17; Cass. 25 gennaio 1992, n. 829, in Not. giur. lav., 1992, p. 523). Il controllo delle guardie giurate o di una agenzia investigativa non può ri-guardare l’adempimento dell’obbliga-zione di facere, poiché ciò è sottratto a tale invasiva vigilanza; essa si deve limitare agli atti illeciti diversi dal mero inadempimento, come l’appro-priazione indebita di denaro (v. Cass. 7 giugno 2003, n. 9167, in Arch. civ., 2004, p. 531). Inoltre, gli artt. 2 e 3 St. lav. non sono applicabili per iniziati-

ve compiute fuori dall’azienda, come è per i riscontri su dipendenti incari-cati di attività promozionali esterne (v. Cass. 3 novembre 2000, n. 14383, in Notiz. giur. lav., 2001, p. 161). A maggiore ragione, sono legittime tutte le azioni di protezione del patrimonio compiute nei periodi non compresi nell’orario di lavoro (cfr. Cass. 3 lu-glio 2001, n. 8898, in Giur. it. mass., 2001, c. 679). L’art. 6 St. lav. regola le visite perso-nali e, quindi, un metodo di verifica talora indispensabile, seppure di parti-colare incidenza sulla dignità del pre-statore di opere. L’art. 6 consente que-ste operazioni solo se necessarie e per l’esclusivo obiettivo di difendere gli strumenti, le materie prime od i pro-dotti. Si discute se le cautele dell’art. 6 debbano essere applicate anche ad ispezioni sulle borse (in senso contra-rio, v. Cass. 29 ottobre 1999, n. 12197, in Giur. it. mass., 1999, c. 989; Cass. 10 febbraio 1988, n. 1461, in Orient. giur. lav., 1988, p. 310).

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Sarebbe singolare se un intervento comunque invasivo, come l’ispezione degli involucri portati con sé dal di-pendente, non godesse delle garanzie proprie delle visite personali. In tale prospettiva acquista specifico risalto l’autorizzazione concessa, in via al-ternativa, da un accordo sindacale o dai servizi ispettivi della Direzione provinciale del lavoro, affinché sia ac-certata l’oggettiva necessità di questa forma di verifica.

3. Gli strumenti di controllo a di-stanza.

L’art. 4 St. lav. vieta l’uso di “impianti audiovisivi e di altre apparecchiatu-re per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, con una disposizione la quale, sorta in un di-verso contesto tecnologico, identifica una ipotesi tipica che fatica ad ambien-tarsi nel nuovo orizzonte, dominato dall’informatica e dalle sue più com-plesse e sofisticate risorse di verifica. Pensando in via diretta alle telecame-re, l’art. 4 St. lav. ammette l’uso di tali strumenti solo qualora sia richiesto “da esigenze organizzative e produtti-ve ovvero dalla sicurezza del lavoro”, nonostante gli apparecchi rivolti a tali fini consenta il controllo del personale. Però, in questa ipotesi, l’utilizzazione deve essere autorizzata o da un accor-do sindacale o, in via alternativa, da un provvedimento dei servizi ispettivi della Direzione provinciale del lavoro. Peraltro, “la potenzialità di controllo a distanza deve ritenersi innata negli

impianti audiovisivi e l’art. 4 St. lav. opera a prescindere dalla prova della concreta idoneità dell’impianto al con-trollo” delle persone (v. Cass. 16 set-tembre 1997, n. 9211, in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, p. 830). E’ oggetto di un intenso dibattito la possibilità di estendere gli stessi prin-cipi a forme di analisi sul comporta-mento realizzate con risorse informati-che, del tutto differenti dagli strumenti audiovisivi, sebbene, in vari casi, pos-sano portare a risultati paragonabili. Se lo scopo della disposizione è proi-bire indagini lesive della dignità per-ché compiute in modo inquisitorio, lo stesso obbiettivo dovrebbe essere per-seguito con riguardo alle tecnologie informatiche, non immaginabili dal legislatore del 1970. L’art. 4 St. lav. intende preservare la tranquillità del prestatore di opere rispetto a controlli imprevedibili, compiuti all’insaputa del destinatario, protratti per un lungo lasso di tempo. Anzi, per l’art. 4, se-condo comma, St. lav., qualora possa implicare una verifica sulla condotta dei dipendenti, richiede una espressa autorizzazione l’installazione di mac-chine comunque coerenti con esigenze organizzative e produttive. Se non contrasta con l’art. 4 St. lav. l’uso di pareti di vetro, non sono proi-biti neppure i riscontri che attengano al risultato della prestazione e non alla sua esecuzione ed alle relative modali-tà, nonostante tali analisi abbiano luo-go a distanza e senza contraddittorio. Del pari, sfuggono al divieto dell’art. 4 St. lav. gli strumenti di verifica sulle

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presenze, anche se automatici, nonché i centralini che permettano di identi-ficare se le telefonate rispondano a ragioni di servizio, ferma l’illiceità di registrare la conversazione (v. Cass. 3 aprile 2002, n. 4746, in Arch. civ., 2003, p. 207) ed i numeri chiamati senza l’occultamento delle ultime tre cifre. Di fatto, ormai si accetta l’impiego costante di programmi informatici in-dispensabili ai fini della produzione, ma i quali, come effetto secondario, consentono un riscontro sull’attività di ciascun dipendente. Del resto, la nostra società e la sua crescente di-mensione tecnologica non possono ammettere un generale divieto di im-piegare le risorse informatiche per il controllo, a maggiore ragione se il fine è contrastare la commissione di reati (v. Cass. 12 giugno 2002, n. 8388, in Arch. civ., 2003, p. 442). Pertanto, sono legittime le verifiche eseguite sui registratori di cassa, con l’uso delle relative potenzialità di me-morizzazione delle operazioni com-piute (cfr. Cass. 18 febbraio 1997, n. 1455, in Giust. civ., 1997, I, p. 493). La violazione dell’art. 4 St. lav. non rileva solo sul piano penale, ma com-

porta l’irrilevanza su quello probatorio delle immagini o delle informazioni acquisite in modo illegittimo (v. Cass. 17 giugno 2000, n. 8250, in Orient. giur. lav., 2000, I, p. 857).

4. Il potere di indagine su fatti atti-nenti all’idoneità professionale. Di-stinzione dal potere di controllo del datore di lavoro.

Non rientra nella disciplina in sen-so stretto delle modalità di controllo dell’adempimento il divieto di inda-gini sulle opinioni dei prestatori di opere, oggetto diverso dall’esecuzione della prestazione e come tale concepito dall’art. 8 St. lav., che allarga lo sguar-do dal semplice controllo ad iniziative invasive rivolte all’intera persona ed agli aspetti indicativi delle sue libertà e delle scelte individuali, sul terreno morale, politico, sindacale, familiare, affettivo. Con l’uso consapevole del termine “indagini”, l’art. 8 St. lav. ha considerato situazioni nelle quali la conoscenza sia la conseguenza di uno sforzo apposito di ricerca, invece di essere il frutto di casuali constatazio-ni e di eventi non programmati e non provocati da una scelta consapevole e predeterminata. Peraltro, l’indagine non implica un processo di particolare sofisticazione, né deve essere condotta in modo oc-culto o sleale, poiché basta una sem-plice domanda, illegittima qualora non attenga a circostanze rivelatrici dell’idoneità professionale. Quindi, per l’operare dell’art. 8, non occorro-

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no né la violazione di un segreto, né il superamento dell’opposizione e del-la resistenza del lavoratore o di terzi, ma è sufficiente la preordinazione di mezzi (anche molto semplici) al fine di acquisire notizie, non desunte dal semplice comportamento del soggetto passivo. Questi può rivendicare anche sul luogo di lavoro la sua fede, la sua militanza politica o sindacale, le deci-sioni sulla sua vita e le sue convinzioni etiche, come confermato dall’art. 1 St. lav.. Del resto, in larga parte, le infor-mazioni indicate dall’art. 8 sono note e, talora, pubbliche ed ostentate. Però, il datore di lavoro non può indagare lo stesso. In questa prospettiva, l’art. 8 vuole evitare che, anche con sforzi program-mati di verifica, l’impresa possa im-porre una complessiva soggezione a precostituiti modelli di comportamen-to, con interventi invasivi che possano mettere in pericolo la spontaneità e la serenità delle scelte individuali. E’ ancora presente nella società contem-poranea la grave tentazione di vedere nella pretesa fedeltà del dipendente una sorta di asservimento personale al datore di lavoro, che può essere porta-to a proiettare suoi modelli etici ed a pretenderne il rispetto. Non rientrano nell’oggetto dell’art. 8 St. lav. questionari anonimi, destinati a riscontri sulle motivazioni, in primo luogo se è impossibile risalire dalle risposte all’autore; invece, l’art. 8 ha avuto larga risonanza in giurispruden-za con riguardo al sindacato di bandi di concorso privati i quali indicavano

fra i requisiti di partecipazione aspetti privi di qualunque connessione con un oggettivo riscontro dell’idoneità pro-fessionale, come è per la condizione di parente con chi fosse già stato assunto dalla stessa impresa. Ad esempio, è stata considerata nulla “la clausola del bando di concorso per il reclutamento di nuovo personale da parte di un ente pubblico economico qualora si subor-dini l’assunzione sia all’esistenza, sia alla mancanza di vincoli di parentela con dipendenti” (v. Cass. 19 gennaio 2002, n. 570, in Giur. it. mass., 2002, c. 79). L’art. 8 St. lav. pone il problema di identificare i fatti rilevanti ai fini del giudizio sull’idoneità professionale e la loro selezione si collega dall’am-piezza con la quale si colga nel con-tratto e nella sua causa un elemento fiduciario. Peraltro, a tale riguardo, non possono avere rilievo le soggetti-ve valutazioni del datore di lavoro, ma occorre utilizzare parametri oggettivi, nonostante il dibattito presenti note-voli incertezze. In primo luogo, ci si chiede fino a che punto le organizza-zioni di tendenza possano subordinare la prosecuzione del rapporto a com-portamenti tenuti nella normale vita di relazione, come è per i prestatori di opere di strutture dalla dichiarata ma-trice cattolica. Quanto più si annette risalto a tali circostanze, come la con-vivenza more uxorio, tanto più si allar-ga il confine dei fatti significativi sul piano dell’idoneità professionale. Per altro verso, di frequente sono in-timati licenziamenti, ad esempio ai

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dipendenti di istituti di credito, per condotte illecite estranee all’adem-pimento, per lo spiccato desiderio di molti datori di lavoro di proteggere la loro immagine e la loro credibilità con l’espulsione di chi si sia macchiato di reati gravi, seppure nella vita privata. Poiché tali comportamenti sono con-siderati meritevoli del recesso se in-cidono sull’idoneità all’adempimento (v. Cass. 24 febbraio 1986, n. 1141, in Dir. lav., 1986, II, 497), l’art. 8 St. lav. non vieta indagini su queste ma-terie, mentre sono illegittimi controlli sul possesso di un titolo di studio su-periore a quello richiesto (cfr. Cass., sez. un., 11 dicembre 1979, n. 6452, in Giur. it. mass., 1979, 367). Se anche la singola impresa non vuole avere lavo-ratori laureati per attività proprie dei diplomati, tale specifico (e singolare) punto di vista non consente verifiche, perché, sul piano oggettivo, il profilo non rientra nell’idoneità professiona-le. In sostanza, per identificare i confini di tale categoria, non importa stabilire che cosa il datore di lavoro desideri cono-scere; se così fosse, sarebbe travolta la portata garantistica dell’art. 8 St. lav.. Occorre utilizzare parametri di merite-volezza sociale. In particolare, in ca-renza di appositi divieti, nell’esercizio della sua libertà contrattuale, l’impresa può porre alla base delle sue decisioni aspetti contrari a principi di equilibrio ed ai postulati della nostra vita civile, e persino valutazioni immorali. Ad esempio, non vi è modo di costringere ad assumere lavoratori extracomuni-

tari chi non lo voglia fare. Tuttavia, non vi è equiestensione fra la libertà negoziale e quella di indagine, proprio perché questa ultima si può esplicare solo su materie che, sul piano oggetti-vo, siano indicative dell’idoneità pro-fessionale. A prescindere dalla difficoltà di sta-bilire fino a quale punto si possa dare risalto agli elementi fiduciari nel con-tratto di lavoro, l’art. 8 St. lav. porta la protezione della dignità oltre a quanto è previsto dalla disciplina antidiscri-minatoria in relazione all’esercizio della libertà contrattuale. Tale profilo non deve sorprendere se si considera fino a che punto la coscienza sociale contemporanea annetta risalto alla ge-losa difesa della riservatezza. Se mai, la legge n. 300 del 1970 desta ammi-razione per avere saputo precorrere i tempi della complessiva evoluzione del diritto privato, con un percorso fa-ticoso coronato dall’emanazione della legge n. 675 del 1996 e dal decreto le-gislativo n. 196 del 2003.

5. Il sistema della legge n. 300 del 1970 e quello della legge n. 675 del 1996 e del decreto legislativo n. 196 del 2003.

Nel regolare l’informazione del datore di lavoro, la legge n. 675 del 1996 non la considera una funzione conoscitiva e la regola in modo indistinto, non per specifici aspetti, qualificati per i loro oggetti. Quindi, l’informazione non è un fenomeno unitario, ma una atti-vità psichica continuativa, di cui solo

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alcuni segmenti hanno ricevuto una regolazione apposita, circoscritta a pochi settori. Mentre l’idea soggettiva della conoscenza traspare dalla leg-ge n. 300 del 1970 e dal suo sistema più tradizionale, orientato a regolare i comportamenti, ad esempio quelli più intrusivi, con l’incisiva limitazione dell’esercizio del potere di controllo, tale concezione è meno nitida nella legge n. 675 del 1996 e nel successivo decreto legislativo n. 196 del 2003. L’elaborazione elettronica permette una utilizzazione diversa dai vecchi strumenti, con una differente capaci-tà di incidere nella sfera del soggetto al quale le notizie si riferiscono e con la conseguente necessità di corrispon-denti tutele. Non importano tanto la ra-pidità e la sicurezza dei dati ottenibili (rispetto a quelli immessi), la prolun-gata conservazione ed il progressivo arricchimento delle cognizioni, quanto la facoltà di creare collegamenti celeri e certi fra aspetti diversi, i quali resta-no irrilevanti se considerati in modo isolato e, invece, sono fonte di minac-cia grazie alle intersezioni provocate in via informatica. A questi rischi ha cercato di ovviare la legge n. 675 del 1996, con un chiaro divario metodologico dal sistema con-sueto del diritto del lavoro. Incentrata sul “dato”, come preteso frammento oggettivo, senza riferimento alla sua origine, la tutela diverge da quella dell’art. 8 St. lav., il quale, con il rin-vio alle indagini, impernia il divieto sul processo intellettivo. Si può quasi contrapporre la dimensione dinamica

dell’art. 8 St. lav. e dell’intera legge n. 300 del 1970 (volta a cogliere la cono-scenza come rapporto con l’oggetto) a quella statica della legge n. 675 del 1996, intenta a ricavare una immagi-ne del “dato” come entità isolata, per conferire ad esso una “realtà” fittizia ed arbitraria. Ne è derivato un nuovo orizzonte di problemi con i quali il diritto del lavoro si sta cimentando, per trovare una sintesi accettabile fra il suo impianto tradizionale e le tra-sformazioni apportate dalla legge n. 675 del 1996 e dal successivo decreto legislativo n. 196 del 2003. La legge n. 675 del 1996 si è rivolta a “qualunque informazione”; vi si trova l’ambizione di comprendere nell’og-getto della nuova normativa una ge-nerale idea di “informazione” e di “trattamento”, inteso quale operazione comunque inerente alla notizia. Ne sono derivati vincoli anche per con-dotte in passato ritenute immeritevoli di tutela. Tale approccio generico ha comportato un diffondersi di dove-ri strumentali, reso inevitabile dalla pretesa di disciplinare ogni area eco-nomica ed i comportamenti di fami-glie, associazioni, imprese e pubbliche amministrazioni. Questa tentazione di dominare l’intero problema dell’in-formazione è il frutto della consape-volezza dei collegamenti inevitabili nel formarsi della conoscenza; a tale esatta constatazione ha fatto seguito una regolazione che, salve le eccezio-ni, ha voluto ripercorrere la traiettoria della conoscenza e sovrapporre ai suoi sviluppi imprevedibili un apparato di

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restrizioni destinate a contenerne gli esiti più pericolosi. In questo sta il fascino della legge n. 675 del 1996 e del decreto n. 196 del 2003, ma anche la ragione della loro difficile attuazione, dovuta al taglio generale e quasi mai selettivo di di-sposizioni volte a regolare la sorte di tutte le notizie. Invano si cercherebbe una definizione di riservatezza in tali testi normativi; essi ne prescindono, per concentrarsi sull’informazione e sulla sua sorte, accantonando l’identi-ficazione dettagliata del bene protetto. In contrasto singolare con il modello della legge n. 300 del 1970, il decreto n. 196 del 2003 abbraccia ogni “dato personale”, cioè riferibile ad un sog-getto noto; quindi, sono considerate tutte le notizie non anonime, a pre-scindere dalla forma e dalle cause del processo conoscitivo, nonché dagli ul-teriori sviluppi del giudizio individua-le, cioè dai comportamenti successivi all’apprendimento. Senza circoscrivere il suo campo di ap-plicazione e rinnegando il taglio selet-tivo della legge n. 300 del 1970, quella n. 675 del 1996 ha investito questioni tradizionali nel dibattito antecedente, ma fra loro differenti. Sarebbe sta-to strano se la pretesa di disciplinare qualsiasi informazione (con modeste eccezioni) avesse condotto ad una regolazione coerente; se non il testo, almeno la sua attuazione ha dovuto riscontrare come la rilevanza giuridi-ca non sia della conoscenza in sé, ma dell’appuntarsi del processo intelletti-vo su oggetti specifici. Se non si muo-

ve dalle varie aspettative del singolo e delle formazioni sociali, non si può discriminare quanto può o deve avere rilevanza giuridica; essa non attiene ad ogni comportamento cognitivo, né a tutti i connessi, possibili risultati, ma si impernia sulla loro qualificazione in ragione di interessi precisi.

6. Il potere di controllo del datore di lavoro ed il trattamento dei dati personali.

Il sistema di protezione della legge n. 675 del 1996 e, ora, del decreto legi-slativo n. 196 del 2003 si aggiunge a quello della legge n. 300 del 1970, con un metodo prescrittivo diverso, basato non sulla considerazione e sul divieto di specifici comportamenti, ma sulla costruzione di categorie generali, de-stinate ad applicarsi anche ai lavora-tori subordinati, pubblici e privati. La legge n. 300 del 1970 ed il decreto le-gislativo n. 196 del 2003 si riferiscono in modo diverso agli stessi fatti, con innegabili punti di affinità, poiché, ad esempio, le norme sul cosiddetto “trat-tamento dei dati sensibili” ricordano l’art. 8 St. lav. e, soprattutto, giungono a risultati paragonabili nella protezio-ne della riservatezza. Peraltro, di fronte a due contesti nor-mativi differenti, seppure non incom-patibili, il datore di lavoro deve rispet-tare tutte le disposizioni. Ad esempio, l’osservanza dell’art. 4 St. lav. non esonera dall’adempimento dell’ob-bligo di informare il lavoratore sulle modalità del trattamento e, per altro

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verso, in caso di installazione di im-pianti audiovisivi per finalità di tutela del patrimonio aziendale, la necessaria stipulazione dell’accordo sindacale ai sensi dell’art. 4, secondo comma, St. lav. non evita il rispetto delle prescri-zioni dell’Autorità garante sull’uso di strumenti di vigilanza a distanza, con particolari previsioni aggiuntive rispetto ai più sintetici obblighi desu-mibili dall’art. 4 St. lav.. Ad esempio, tale ultima norma non si occupa della custodia e dell’uso delle cassette con-tenenti le immagini registrate, mentre sul punto si soffermano vari provvedi-menti dell’Autorità garante. Nell’esperienza applicativa, l’osser-vanza degli obblighi introdotti dal de-creto legislativo n. 196 del 2003 non ha provocato problemi molto significativi e la tutela già predisposta dalla legge n. 300 del 1970 è stata talora perfezio-nata (soprattutto grazie ad alcune de-cisioni dell’Autorità garante), ma non è stata alterata né nei suoi fondamenti teorici, né nei suoi pilastri regolativi; a quasi quaranta anni dalla sua ideazio-ne, la legge n. 300 del 1970 mantiene piena attualità e continua ad essere il principale baluardo nella difesa della riservatezza in azienda. I molti obblighi procedurali e stru-mentali voluti dal decreto legislativo n. 196 del 2003 (come quello di in-formazione del lavoratore) e la tenace valorizzazione del principio del con-senso del soggetto passivo (nozione propugnata dallo stesso decreto) non hanno portato a risultati molto mi-gliori in tema di valorizzazione della

dignità rispetto a quanto già era stato ottenuto con la legge n. 300 del 1970. In particolare, se essa presentava in molte parti, ad esempio con riguardo all’art. 8, seri problemi di effettività, essi non sono stati superati dalla legge n. 675 del 1996 e dal decreto legislati-vo n. 196 del 2003, nonostante la loro diversa ispirazione. Ad oggi, la separata applicazione su temi simili di due differenti sistemi prescrittivi ingenera problemi interpre-tativi e qualche sconcerto nelle impre-se, perché può essere difficile capire ed accettare come il potere di controllo incontri vincoli introdotti in successi-vi momenti storici ed in fonti norma-tive con separata ispirazione. Ferma la perdurante centralità della legge n. 300 del 1970, il datore di lavoro deve anche agire nel rispetto del decreto le-gislativo n. 196 del 2003, verificando di volta in volta la legittimità dei suoi comportamenti sulla base dell’uno e dell’altro testo normativo. Essi non possono essere sovrapposti, ma devo-no essere esaminati alla luce della loro diversa concezione sistematica e, quin-di, se mai, devono essere contrapposti. Proprio per questo non è attuale alcuna ipotesi di ricomposizione ricostruttiva dei due orizzonti regolativi; le relative divergenze devono essere accettate sia sul piano della riflessione teorica, sia su quello operativo.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Il licenziamentodisciplinare

Enrico GragnoliLuca Zaccarelli

1. L’applicazione dell’art. 7 St. lav. al licenziamento.2. La nozione di licenziamento disciplinare.3. Il licenziamento come sanzione disciplinare.4. Inadempimento, disciplina e licenziamento.5. La proporzione, il potere del giudice ed i codici disciplinari.

1. L’applicazione dell’art. 7 St. lav. al licenziamento.

Se ha avuto grande intensità nel passa-to1, il dibattito sul licenziamento disci-plinare si è andato spegnendo nell’ul-timo periodo, per lo meno per quanto attiene alle implicazioni applicative, poiché, se non altro in giurispruden-za2, non si dubita dell’operare dell’art. 7 St. lav. e delle relative disposizioni procedurali a proposito del recesso per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo3 e, forse in via definitiva, lo stesso principio è stato enunciato con riguardo al licenziamento del di-rigente4 e, quindi, nell’area presidia-ta dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966.

A dire il vero, se ancora si contesta che coincidano nei loro lineamenti strutturali il licenziamento disciplina-re e quello per giusta causa o per giu-stificato motivo soggettivo5, l’esito al quale è pervenuta la giurisprudenza, sul necessario rispetto dell’art. 7 St. lav., è persuasivo e forse non avrebbe meritato tante tensioni e così accese contrapposizioni, in qualche modo se-date6. L’operare dell’art. 7 St. lav. non comporta una trasformazione struttu-rale della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo, né impone di iden-tificare tali categorie sulla scorta delle esclusive previsioni dei codici disci-

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plinari e, quindi, per lo più dei contrat-ti collettivi nazionali di categoria. Nel suo nucleo originario, l’art. 7 St. lav. prefigura forme di tutela procedurale che rendono il possibile destinatario di una misura punitiva consapevole dell’intenzione del datore di lavoro e, quindi, in grado di comprendere in an-ticipo l’eventuale provvedimento. Pertanto, a prescindere dalle sue conseguenze ed anche se è legittimo il recesso ad nutum, qualora l’atto dell’impresa sottintenda un rimpro-vero, di qualunque natura, per un ina-dempimento contrattuale, il prestatore di opere deve essere messo nelle con-dizioni di sapere in anticipo che cosa stia accadendo, prima che lo sappiano i colleghi, le persone che si occupano di amministrazione del personale, i cu-riosi in grado di anticipare od immagi-nare le intenzioni del datore di lavoro. Del resto, il cosiddetto procedimento dell’art. 7 St. lav. non condiziona nel merito le determinazioni in procinto di essere assunte, ma introduce una pro-tezione formale, non per questo meno importante nella difesa della dignità. Per qualche verso, proprio la struttu-rale limitazione delle garanzie dell’art. 7 St. lav. ed il loro mancato incidere sull’elemento sostanziale dei singoli provvedimenti rendono più agevole e lineare l’applicazione della norma. Chi può subire un licenziamento non può essere ignaro e non può attendere l’adozione dell’atto per avere cono-scenza delle intenzioni del datore di lavoro, con una posizione che sareb-be deteriore a paragone di chi affronta

una piccola misura conservativa, di marginale rilievo nel progredire di un rapporto di lavoro. In questa prospetti-va, in parte anche di carattere equitati-vo, bene si comprendono le posizioni della giurisprudenza costituzionale e di quella di legittimità che, rinuncian-do a collegare la nullità alla violazione dell’art. 7 St. lav.7, hanno fatto rien-trare tale ipotesi in quella dell’illegit-timità8, con il ricorso alle corrispon-denti sanzioni9 e, cioè, ad esempio, a quelle comminate dall’art. 18 St. lav., dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966 o dai contratti collettivi per i dirigen-ti10. A prescindere dal problema delle con-seguenze sanzionatorie, in qualche modo autonomo, il tema dell’applica-bilità dell’art. 7 St. lav. ai licenziamen-ti per giusta causa e per giustificato motivo può essere affrontato, in prima battuta, se si ridimensiona l’importan-za di identificare i confini delle sanzio-ni disciplinari.A prescindere dai limiti di tale con-cetto e, quindi, dai loro elementi di-stintivi, l’art. 7 St. lav. non può essere riferito solo alle sanzioni disciplinari in senso stretto e, come ha affermato in modo persuasivo la giurisprudenza, deve riguardare qualunque atto che abbia quale presupposto un addebito di responsabilità per inadempimento.Non a caso, l’art. 7 St. lav. non può essere invocato per licenziamenti ri-guardanti comportamenti del prestato-re di opere tenuti nella vita privata e, comunque, non nell’assolvimento del-le mansioni. Infatti, tali condotte non

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possono evocare le garanzie procedu-rali pensate per contestazioni concer-nenti l’attività convenuta. Però, in tale ambito, l’art. 7 St. lav. non apporta un contributo, tanto meno innovativo od originale, alla costru-zione dei lineamenti teorici del potere disciplinare e del suo nesso con la più complessiva nozione di subordinazio-ne. Anzi, la disposizione si muove in un terreno molto meno impegnativo e solleva problemi ricostruttivi più contenuti, perché non qualifica le fina-lità e le ragioni fondative del potere, ma ne regola le modalità di esercizio procedurali, per la valorizzazione del-la dignità e, quindi, della serenità e della libertà del lavoratore, in primo luogo informato in anticipo dei dubbi che l’impresa si pone sulla puntualità dell’adempimento. Se si accetta questa prospettiva, che ridimensiona il senso stesso dell’art. 7 St. lav. e ne valorizza l’effettiva por-tata garantistica, si giunge alle mede-sime conclusioni della giurisprudenza; non vi è nessuna plausibile motivazio-ne per cui, a prescindere dalla defini-zione teorica del potere disciplinare e dall’analisi sulla sua dimensione di autorità, la stessa promozione della libertà e della dignità del dipendente non debba essere garantita nel caso della massima e più intensa minaccia a tali valori e, cioè, nell’ipotesi del li-cenziamento.Le ultime indicazioni sul recesso del dirigente sono concordanti con questo disegno complessivo11. Libera di li-cenziare senza rendere note le ragioni,

salvo il diritto del lavoratore all’inden-nità supplementare, se, per escludere tale eventualità o anche per sottrarsi agli obblighi del preavviso, l’impresa addebita un inadempimento, l’art. 7 St. lav. deve essere rispettato. Proprio perché esso recepisce una più complessa idea di contraddittorio, il cui fondamento è nell’art. 2 cost., il dirigente ha diritto alla tutela dell’art. 7 St. lav.12 e, se così è, a tutti i lavora-tori devono essere assicurate le stesse forme di protezione.Per stabilire se debba operare l’art. 7 St. lav., non ci si deve chiedere se il provvedimento finale sia una sanzione, ma se, mettendo a repentaglio la digni-tà del prestatore di opere, esso invochi l’instaurazione del contraddittorio.Se così non fosse, non per tutti i lavo-ratori l’azienda diventerebbe il luogo di promozione della persona, ed a ciò può indurre solo una concezione, su-perata sul piano storico, del diritto del lavoro come strumento di protezione privilegiata di chi sia in condizioni di specifica debolezza economica.L’offesa alla dignità si può accom-pagnare anche ad una elevata retri-buzione e, soprattutto nella moderna società, la salvaguardia della persona e dei suoi valori deve prescindere da qualunque considerazione delle possi-bilità patrimoniali e delle risorse pro-fessionali13. Neppure attribuendo le massime gra-tificazioni economiche, l’impresa può acquisire il diritto a conculcare la di-gnità dei collaboratori e l’elevata retri-buzione non esonera dal rispetto delle

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procedure, necessarie qualora si discu-ta di un possibile inadempimento. Esse non sono mai uno sterile baluardo se permettono una migliore protezione dell’interesse di ciascun prestatore di opere ad essere protagonista consape-vole del suo destino14. Quindi, non è persuasiva la ricorrente affermazione per cui “il giudizio circa l’applicabi-lità al dirigente delle garanzie proce-dimentali dell’art. 7 St. lav. in caso di suo licenziamento per motivi disci-plinari involge accertamenti di fatto (coinvolgenti l’identificazione delle reali mansioni e della collocazione nell’organizzazione) diretti a stabilire se l’interessato appartiene al numero dei dirigenti di vertice, cioè con fun-zioni di respiro tale da caratterizzare la vita dell’azienda, ai quali soli non sono applicabili dette garanzie”15.Invece, poiché il contraddittorio pro-tegge la dignità e prescinde da va-lutazioni organizzative, dove vi è rimprovero vi deve essere un aperto confronto preventivo. Se esso è ricon-dotto alla sua vera ragione di promo-zione della persona, non vi può essere una appagante giustificazione per la selettiva limitazione dei destinatari di una delle garanzie che più contribui-scono a promuovere la responsabile consapevolezza del prestatore di opere sul suo destino16.

2. La nozione di licenziamento disci-plinare.

L’applicazione del criterio del contrad-dittorio è compatibile con la disciplina

legale sulla libera recedibilità, perché, come bene ha messo in luce di recente la Suprema Corte17, la mancata conte-stazione degli addebiti non determina la nullità dell’atto, ma provoca solo l’attuazione degli specifici meccani-smi sanzionatori previsti dal contratto collettivo per i dirigenti18.Tale principio è ormai consolidato con riguardo ai recessi dei lavoratori sottoposti alla cosiddetta tutela obbli-gatoria19, appunto da invocare qualo-ra l’impresa abbia violato l’art. 7 St. lav.20. Se si vede nell’art. 7 St. lav. una tutela della dignità, il licenziamento discipli-nare diventa la massima pena suscet-tibile di essere inflitta21; si deve attri-buire “al principio del contraddittorio (...) un valore di speciale canone di ga-ranzia dei diritti fondamentali dell’in-dividuo, di modo che finisce per con-figurarsi come del tutto illogica, alla luce del parametro di eguaglianza, una differenziazione legislativa che non imponga al datore di procedere alla preventiva contestazione degli addebi-ti in caso di licenziamento determinato da fatto del lavoratore”22. Se si accetta questa linea di argomen-tazione, l’operare dell’art. 7 St. lav. prescinde da una compiuta definizione sia della giusta causa, sia del giustifi-cato motivo; senza che si entri nella discussione sulla struttura di tali figu-re, il contraddittorio è garantito perché esse implicano comunque un “rimpro-vero” nei confronti del prestatore di opere o, meglio, fanno riferimento ad un suo inadempimento.

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Quindi, l’art. 7 St. lav. è colto nella sua dimensione fondativa23, di prescrizio-ne che presidia sulle implicazioni per-sonali e relazionali dell’esercizio di qualunque iniziativa di autorità del da-tore di lavoro, a prescindere dal fatto che essa preluda a misure conservative od all’estinzione del rapporto24.In questa prospettiva, non sono rile-vanti le previsioni dei contratti collet-tivi e, quindi, l’esplicita indicazione del licenziamento quale sanzione di-sciplinare. Per un verso, anche nel silenzio dei codici, i giudici possono identificare la giusta causa ed il giustificato mo-tivo soggettivo, qualora la condotta del prestatore di opere violi criteri ge-nerali di comportamento, fuori dalle specifiche ipotesi contemplate dalle intese sindacali25. Per altro verso, se l’operare dell’art. 7 St. lav. non è con-dizionato dalla configurazione specifi-ca della giusta causa e del giustificato motivo, a maggiore ragione non hanno incidenza le disposizioni convenzio-nali. Il discrimine è dato dalla compo-nente di “rimprovero” che, comunque, è insita nel licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, poiché si riprende dall’art. 7 St. lav. il prin-cipio del contraddittorio quale espres-sione di una evoluta forma di “civiltà giuridica”26. In ordine alle tecniche di tutela de-rivanti dall’applicazione dell’art. 7 St. lav., si può convenire con le più generali osservazioni secondo cui “il modulo è quello classico del diritto privato, cioè di un rapporto, che viene

a costituire il «supporto» di posizioni soggettive attive e passive, con una duplice variante, la quale contraddi-stingue il diritto del lavoro come pecu-liare. Quantitativa, la prima, data dalla ricchezza di tali posizioni, introdotte ex lege; qualitativa la seconda, rappre-sentata dalla loro tecnica «sanziona-toria»”, poiché “la ragione è al tempo stesso semplice e nota, essendo alla base della nostra materia, cioè l’impli-cazione della persona del lavoratore, che chiama in causa tutta una serie di valori costituzionalmente garantiti, destinati a «penetrare» nel rapporto attraverso una mediazione legislativa, divenuta col tempo sempre più diffusa ed intensa”27. Infatti, l’art. 7 St. lav. ha avuto la specifica funzione di in-trodurre una lunga serie di posizioni soggettive del lavoratore, inerenti non tanto all’oggetto del potere disciplina-re e, quindi, alla reazione in sé, quanto alle sue forme e, pertanto, a complessi vincoli procedurali. E’ un po’ sterile chiedersi fino a che punto abbia avuto successo il tentativo dell’art. 7 St. lav. di stemperare gli ele-menti di forte autorità dell’idea stessa di disciplina, incidendo sulle moda-lità di esercizio di tale prerogativa e, cioè, costringendo il datore di lavoro all’instaurazione del contraddittorio e, quindi, per un verso a confrontarsi con il prestatore di opere e, per altro verso, a garantire il rispetto della sua dignità. Con tutti i suoi evidenti limiti, dovuti al fatto che si colloca fuori dal cuore del potere dell’impresa e non conside-ra le fattispecie delle sanzioni conser-

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vative o del licenziamento, l’art. 7 St. lav. ha avviato un imponente dibatti-to ed una sterminata giurisprudenza, talora con risultati solo in apparenza sorprendenti. Come è per qualunque intervento sulla forma, alcune delle garanzie prefigurate dalla disposizio-ne hanno ... protetto i colpevoli e non sono riuscite a proteggere le persone più meritevoli. Tuttavia, questi rischi erano inevitabili ed un esame della ricca giurisprudenza mette in evidenza conclusioni sconta-te. Per la sua struttura, la salvaguardia di carattere formale prescinde dalla considerazione della meritevolezza sociale dei comportamenti del singolo e tocca in modo trasversale qualunque prestatore di opere.Peraltro, ciò non riduce l’importanza della “procedimentalizzazione”, a pre-scindere dal fatto che molte imprese si dimostrino incapaci di dominare pro-cedure talora sofisticate come quelle dell’art. 7 St. lav..Infatti, la forma promuove una mag-giore consapevolezza del possibile de-stinatario del procedimento, creando a suo favore posizioni soggettive attive su adempimenti del datore di lavoro prodromici all’adozione dell’atto fi-nale. L’impresa si deve destreggiare in un articolato panorama di misure prepa-ratorie all’eventuale recesso e, per-tanto, deve sfoggiare adeguata consa-pevolezza non solo della struttura del procedimento disegnato dall’art. 7 St. lav., ma anche della composita inter-pretazione giurisprudenziale.

Però, questo impatto della cosiddetta “procedimentalizzazione” è inevitabi-le, come lo è la centralità del dibattito sulla forma ai fini della valutazione della legittimità del recesso.Nonostante le passate, radicate resi-stenze a sancire l’operare dell’art. 7 St. lav. in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, resta l’importanza della protezione e della promozione del-la dignità, sottesa al riconoscimento dell’applicabilità dell’art. 7 St. lav.. Anzi, la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità hanno finito per ricomporre intorno a tale disposizione un quadro unitario di obblighi ed oneri che, imperniati sulla figura del con-traddittorio, presidiano le fattispecie di contestazione e di “rimprovero” per gli inadempimenti. A tale riguardo, il ricorso ad una pro-cedura non è un inutile appesantimen-to; invece, solo questa attenzione al procedimento promuove la coerenza fra la forma di esercizio del potere di-sciplinare per le misure conservative e quella che deve essere seguita per i licenziamenti, in relazione alla loro comune matrice e, cioè, al vertere su un inadempimento.Se esso rileva ai fini della prosecuzio-ne del rapporto o, comunque, all’ado-zione di provvedimenti sanzionatori, implica un apprezzamento che riguar-da una condotta umana e, come tale, postula una immediata considerazio-ne per le ragioni della persona sotto-posta alla critica altrui, già sulla base dell’art. 2 cost. e della valorizzazione

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della dignità, quale bene non negozia-bile e meritevole di incondizionata tu-tela, prima ancora che si dia risalto ai profili di natura patrimoniale.Se la subordinazione è il presuppo-sto teorico del potere disciplinare e di quello di licenziamento, non di meno vi sono forme da valorizzare, perché sia così difesa la consapevolezza del dipendente. Questi ha il diritto di af-frontare il recesso ... come avrebbe fatto Farinata degli Uberti.

3. Il licenziamento come sanzione disciplinare.

Questa prima osservazione pone un problema ulteriore e, cioè, di stabili-re se “il licenziamento conseguente al notevole inadempimento degli obbli-ghi del lavoratore corrisponde e, se-condo i più, riassorbe, in ambito giu-slavoristico, la risoluzione giudiziale per inadempimento dei contratti sinal-lagmatici, ma rappresenta, in relazio-ne alle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 St. lav., solo un equivalente funzionale del potere disciplinare”, perché i due poteri sarebbero diversi sul versante strutturale.Si soggiunge che il primo sarebbe “strumentale alla predisposizione del substrato aziendale che consente al lavoratore di adempiere alla sua obbli-gazione principale e si esprime, perciò, anzitutto, nella formazione del codice disciplinare”. Il potere di licenziamento per giusti-ficato motivo soggettivo e per giusta causa salvaguarda, invece, la pos-

sibilità della parte fedele a mettere in discussione la sopravvivenza del contratto in caso di inadempimento degli obblighi fissati nel regolamento contrattuale e prescinde, pertanto, dal contenuto del codice disciplinare”, per lo meno in larga parte, se si vuole se-guire la giurisprudenza.Quindi, si conclude, “la comunanza tra i due poteri, che giustifica l’applica-zione ad entrambi del principio audia-tur et altera pars, non risiede nel carat-tere sanzionatorio, che è inesistente in quello risolutorio per inadempimento. Essa va, piuttosto, cercata nel comune presupposto dell’inadempimento non-ché nel fatto che i due poteri vengono esercitati in via stragiudiziale”28. Se pone una corretta sintesi del pro-blema, la tesi è infondata, sotto più profili, a tacere dello specifico tema della rilevanza del codice disciplinare in relazione al recesso, aspetto secon-dario. In primo luogo, è persuasivo af-fermare che non occorre optare per la completa omologazione strutturale del licenziamento alle sanzioni conserva-tive per sancire l’operare dell’art. 7 St. lav.. Peraltro, più che il riferimento al “principio audiatur et altera pars”, si dovrebbe vedere nell’art. 7 St. lav. l’imposizione di un dovere di preven-tiva instaurazione del contraddittorio a tutela della consapevolezza del desti-natario (e non della ponderazione del provvedimento).Infatti, il datore di lavoro non è tenuto a considerare le difese del dipenden-te, né queste devono essere comunque presentate, né occorre una specifica

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motivazione a conclusione della sinte-tica procedura. Per altro verso, il potere di applicare le sanzioni disciplinari e quello di rece-dere per giusta causa o per giustifica-to motivo soggettivo sono diversi dal punto di vista funzionale, né potrebbe essere in modo differente, se si consi-dera come l’obbiettivo sia per natura diverso.Peraltro, a tale livello e, cioè, ad una analisi di carattere teleologico, si resta ad uno stadio estrinseco nell’appro-fondimento del tema e non si esamina il problema di fondo, dato non dalla funzione dei due poteri, ma dalla loro struttura. In difetto, si rimane ancorati a condivisibili, ma limitate conside-razioni descrittive, con una caduta in ovvie tautologie.Solo se si esamina la struttura intrinse-ca si può stabilire se si discuta di sepa-rate prerogative del datore di lavoro, o di un unico potere, che, di volta in volta, per vari illeciti e per soddisfa-re disomogenei interessi dell’impre-sa, comporta l’applicazione di misure conservative od estintive. Un errore di prospettiva risiede nell’af-fermazione per cui “la comunanza tra i due poteri, che giustifica l’applicazio-ne ad entrambi del principio audiatur et altera pars, non risiede nel caratte-re sanzionatorio, che è inesistente in quello risolutorio per inadempimen-to”. Tale osservazione è diffusa e, in qualche modo, la frase citata è una sorta di sintesi della prevalente opinio-ne comune. E’ vero il contrario; vi è un unico potere disciplinare, che inerisce

sia al licenziamento, sia ai provvedi-menti conservativi, non perché tutti gli atti siano sanzionatori, ma perché nessuno lo è.Quindi, la carenza di tali componenti è l’indice primo dell’identità del pote-re, in quanto reazione ad un inadem-pimento, con la conseguente divari-cazione rispetto al recesso per giusta o per giustificato motivo soggettivo intimati per fatti estranei al rapporto, seppure rilevanti ai fini dell’accredita-mento sociale del datore di lavoro. Si può ricordare la tesi centrale ed in-superata di chi29 ammoniva a consi-derare come la vera sanzione, quale ri-affermazione, in caso di trasgressione, dell’ordinamento violato presupponga sempre il processo e, pertanto, l’accer-tamento in sede giurisdizionale, senza il quale non si può dare ricostituzione piena del diritto oggettivo e, quindi, neppure sanzione.Dunque, fino all’intervento del giudi-ce, qualunque procedimento espletato da una parte non può portare all’ap-plicazione di una sanzione, ma solo all’adozione di un provvedimento nel quale prevalgono gli interessi (appun-to di parte) di natura ripristinatoria, a scapito di quelli di esemplare chia-rificazione del lecito o dell’illecito; questa ultima funzione compete al solo giudice, nel contraddittorio pro-cessuale. Tale considerazione vale a maggiore ragione per il datore di la-voro privato, il quale, pure nei vincoli dell’art. 7 St. lav., opera per realizzare le sue ragioni patrimoniali, e non per fini di giustizia.

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Dunque, né le misure conservative, né il licenziamento sono sanzioni e, seb-bene sia diffusa nel linguaggio comune e, ormai, ineliminabile, tale locuzione deve essere intesa in senso improprio ed atecnico, se ci si riferisce al potere disciplinare.Lungi dal cercare la verità, seppure nei limiti delle facoltà umane, l’im-presa agisce in sede disciplinare qua-le controparte del prestatore di opere, così che vi è un solo accertamento sul sussistere del preteso illecito, quello del giudice.A questi è rimessa la decisione sia sul ricorrere dell’inadempimento, sia sul-la proporzione fra questo e la misura applicata, sia sulla complessiva re-sponsabilità del dipendente.Pertanto, non vi è nessuna sanzione nei procedimenti dell’art. 7 St. lav. e, proprio sul piano strutturale, vi è un solo potere dell’impresa di reazione all’inadempimento, identico per le garanzie procedurali, ma anche per la natura della determinazione del datore di lavoro. Questi si deve interrogare sull’esisten-za di un inadempimento e sulla pos-sibilità di emanare un provvedimento, ma l’illecito può essere accertato solo dal giudice e, in tale caso, l’originaria misura può essere corroborata dalla sentenza.Se, poi, a fronte di una categoria non delimitata dal diritto positivo, come quella di sanzione, si volesse indicare un suo diverso confine e se si voles-se scolpirne i tratti secondo una altra delle possibili varianti di tale impe-

gnativa nozione, le conclusioni non cambierebbero. Ferma la contrappo-sizione teleologica e funzionale fra il licenziamento per inadempimento e le misure conservative, essi hanno iden-tica struttura in ordine all’elemento qualificante e, cioè, al nesso fra l’ana-lisi e la decisione del datore di lavoro ed il successivo sindacato del giudice. Poco importa che la giusta causa ed il giustificato motivo si distinguano dai meno gravi inadempimenti che porta-no ai richiami, alle multe ed alle so-spensioni. Comunque, in tutti questi casi, il giudice deve riscontrare il sussistere dell’inadempimento, la proporzione con il provvedimento applicato, la co-erenza nella conduzione del procedi-mento.Questi elementi fanno emergere come sia uno solo il potere di reazione all’inadempimento, né tale quadro di insieme viene meno per le differenze presenti nell’attuazione dell’art. 7, pri-mo comma, St. lav., poiché la predi-sposizione del codice disciplinare ha natura ricognitiva di condotte illecite comunque riconoscibili e connesse alla violazione di obblighi posti dalle fonti autonome o da quelle eteronome. Pertanto, il limitato incidere dell’art. 7, primo comma, St. lav. in tema di recesso non modifica la conclusione preferibile e, cioè, l’individuazione di un solo potere disciplinare. In questa logica, la disciplina non è il potere di applicare sanzioni, ma di opporre mi-sure di varia natura all’altrui inadem-pimento contrattuale.

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Se l’art. 2106 cod. civ. e l’art. 7 St. lav. sono espressione di una dimensione di autorità propria del contratto di lavo-ro ed indicativa del nucleo originario della subordinazione, lo stesso ra-gionamento vale per i provvedimenti conservativi e per quelli estintivi e, se mai, a tale ultimo riguardo, l’autorità emerge con un risalto ancora maggio-re, a prescindere dalla configurazione della giusta causa e, cioè, dal fatto che essa sia il presupposto di un potere di recesso straordinario o solo del venire meno del diritto al preavviso ed alla relativa indennità sostitutiva. Peraltro, il ricondurre il licenziamento e le cosiddette “sanzioni” conservative al medesimo potere è un profilo neutro rispetto all’identificazione del proprio della giusta causa e del giustificato motivo e, per converso, della ragio-ne della prefigurazione delle sanzioni conservative.Tali aspetti riguardano le connotazioni di ogni, singolo atto, mentre il sussi-stere di un solo potere si collega a co-muni lineamenti strutturali, vale a dire al conferimento all’impresa del potere di reagire in via diretta all’inadempi-mento, salva la piena, ma successiva cognizione del giudice.

4. Inadempimento, disciplina e li-cenziamento.

Se, ormai, non vi è quasi più discus-sione sul carattere contrattuale del po-tere disciplinare30, esso contribuisce a caratterizzare l’idea stessa della subor-dinazione, poiché il suo sorgere è uno

degli effetti qualificanti della stipula-zione del negozio31. Tale aspetto non assume spesso risalto centrale ai fini della qualificazione di un accordo, fra autonomia e subordinazione, poiché per sua natura il potere è ad esercizio sporadico e solo eventuale.Peraltro, ci si chiede “in quale misura l’interesse organizzativo del datore di lavoro, in tutte le sue complesse sfac-cettature, trovi una corrispondenza più o meno ampia nella posizione debito-ria del lavoratore che si esprime nel contratto di lavoro subordinato, e dun-que in che grado il potere disciplinare possa essere considerato strumento di tutela di interessi «contrattuali» del datore, riconducendo così al solo con-tratto di lavoro il fondamento e l’origi-ne della posizione di supremazia rico-nosciuta al capo dell’impresa”32. Il perspicuo quesito merita una rispo-sta articolata, su più piani. In primo luogo, l’affermazione può apparire scontata, il potere disciplinare trova il suo fondamento nella legge e non nel solo contratto, poiché è un effetto legale (essenziale) dell’accordo e, per-tanto, appartiene alla tipica configura-zione della fattispecie.La volontà delle parti si indirizza alla costituzione di un rapporto di lavoro subordinato, secondo la sua configura-zione, propria del nostro ordinamento, ma non si indirizza mai al potere disci-plinare quale isolata componente dei più articolati effetti che la norma ri-connette alla stipulazione del negozio. Le parti valutano nella loro autonomia una composita figura di lavoro etero-

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diretto, senza prendere in esame le sue diverse componenti e, tanto meno, il potere disciplinare, di esercizio spora-dico e rivolto a situazioni di conflitto. Se non avesse la sua matrice nella legge, il potere non potrebbe essere configurato, poiché esso rimanda ad una dimensione di autorità, comunque connessa ad una scelta del legislatore. Ciò non esclude in alcun modo che il potere derivi dal contratto33, poiché, come per qualunque altro effetto, esso è il frutto della concorde manifesta-zione di volontà, che comporta gli ef-fetti prefigurati dalla fonte eteronoma. Quindi, il fondamento del potere è ne-goziale, ma in ragione della struttura del rapporto, voluta per legge.I due profili non sono in contraddi-zione reciproca, poiché il contratto produce gli effetti programmati dagli artt. 2094 ss. cod. civ., fra cui si iscrive l’art. 2106 cod. civ34.. Per altro verso, la struttura del rapporto ed il potere che in essa si inserisce non prefigurano interessi tipici dell’impre-sa, ma rimandano alle ragioni dell’at-tività espletata e, quindi, ad una ampia gamma di aspettative produttive.Esse non sono per loro natura oggetto del contratto, ma esulano dal suo am-bito e, se mai, rinviano ai motivi delle scelte del datore di lavoro, rilevanti di volta in volta, sulla base di specifiche disposizioni, come è per il giustificato motivo oggettivo, alla stregua dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966.Il potere disciplinare e, cioè, quello di applicare misure conservative e di licenziare per giusta causa o per giu-

stificato motivo soggettivo si impernia sulla reazione ad un inadempimento e, quindi, in tale ambito, non emergono i motivi dell’atto ed il giudice si inter-roga su profili oggettivi, l’esistenza dell’inadempimento e la proporzione del provvedimento adottato. Pertanto, gli interessi in concreto per-seguiti sfuggono al paradigma dell’art. 2106 cod. civ., dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 e dell’art. 7 St. lav.. Anzi, tali esigenze non hanno alcuna implicazione sulla configurazione del potere, tutto rivolto al solo elemento dell’inadempimento.Altro è chiedersi perché, nel costruire il tipo del lavoro subordinato, la legge conceda tanto all’autorità del datore di lavoro, al punto da consentirgli di re-plicare all’altrui inadempimento o con il recesso o con misure conservative.A tale riguardo, più di considerazioni di ordine sistematico, soccorrono va-lutazioni di indole storica, se si con-sidera come, fino dai suoi primordi, il lavoro subordinato della società indu-striale sia stato immerso in una logica di autorità che ne è divenuta una com-ponente inscindibile. Peraltro, poiché sono diverse le forme di reazione, sono differenti anche le ragioni delle “sanzioni” conservative e del licenziamento e, se le prime ri-mandano all’assicurazione del fruttuo-so esercizio del potere direttivo35, il recesso implica un fatto di gravità tale da giustificare l’estinzione del rappor-to, a fronte di ipotesi riconducibili alla giusta causa od al giustificato motivo. Quindi, l’osservanza delle disposizio-

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ni relative alla disciplina è “in ogni caso comportamento che il lavoratore è chiamato a tenere in quanto obbliga-zione che nasce dal contratto e quindi la reazione disciplinare è sempre rea-zione ad un inadempimento”36, fermo il fatto che il problema si pone di fatto per le sanzioni conservative. Peraltro, tutte le misure disciplinari (che non sono sanzioni) fanno seguito ad un inadempimento37, poiché tale è la violazione di regole di comporta-mento del prestatore di opere, suscet-tibili di portare alla reazione del datore di lavoro, con il recesso o con un inter-vento conservativo.Poco importano a tali fini la gravità del fatto e la sua eventuale rilevanza ai fini di una responsabilità risarcitoria, poi-ché il concetto di inadempimento è più vasto di quello di condotta suscettibile di portare al risarcimento del danno e contempla tutte le ipotesi di imperfetta esecuzione del programma negoziale convenuto.Pertanto, qualunque illecito trova la sua giustificazione in doveri di matrice legale o contrattuale, con una codifica-zione del datore di lavoro solo riepi-logativa e volta a rendere consapevole il prestatore di opere, così che “l’in-trinseca correlazione fra prestazione lavorativa in forma subordinata, pote-ri del datore di lavoro ed inserimento del lavoro nell’impresa determina un limite interno alla possibilità di emet-tere ordini, nel senso che essi non po-trebbero in alcun caso essere esterni all’obbligazione di lavoro, dovendosi escludere in radice efficacia agli atti

di estrinsecazione del potere posti in essere eccedendo da tale delimitazione interna”38. Questa ultima considerazione riman-da alla valutazione del presupposto teorico del potere disciplinare; esso comporta comunque una reazione ad un comportamento illegittimo e, per-tanto, alla violazione di un obbligo, il quale trova il suo fondamento nel con-tratto e nella legge, che determina gli effetti del primo. Se mai, il problema è di identificare come siano stabiliti, nello svolgersi del rapporto, gli spe-cifici doveri del dipendente ed essi non possono essere tutti identificati nell’originario accordo, né nella leg-ge, ma implicano una successiva fase di precisazione e di analitica determi-nazione della collaborazione pretesa. Tuttavia, tale sviluppo non rimanda al potere disciplinare, ma a quello diret-tivo, di conformazione della condot-ta richiesta a ciascun lavoratore e, in questa logica, l’art. 7, primo comma, St. lav., a proposito della predetermi-nazione del codice, presuppone prece-denti provvedimenti di delimitazione degli obblighi. A ragione, si osserva che “funzione del contratto (...) è an-che quella di specificare il contenuto della prestazione (...) in vista del fine produttivo, nonché di coordinare tale prestazione con quella degli altri lavo-ratori”39. Questa componente dei poteri del da-tore di lavoro afferisce alla direzione, non alla disciplina, la quale ha un con-tenuto molto più circoscritto. Se vi è un obbligo e, quindi, se il prestatore di

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opere ha ricevuto un ordine legittimo e vincolante, egli cade in un inadem-pimento qualora trasgredisca a tali in-dicazioni.Quindi, se, ricevuta una prescrizione valida, il dipendente non ottempera40, la reazione ha come sua premessa tale preteso comportamento illecito e la di-sciplina si limita appunto a tale replica dell’impresa all’altrui violazione, la cui esistenza è alla fine accertata dal giudice, se del caso. In questa prospet-tiva, il potere è la risposta autoritaria alla dichiarata trasgressione a doveri. Altro è stabilire come e quando essi esistano e questo profilo sfugge al potere disciplinare ed al suo oggetto, né soccorre l’art. 7, primo comma, St. lav., per la natura riepilogativa del co-dice e delle sue indicazioni. In questa logica, non vi è alcuna di-stinzione strutturale fra le misure con-servative ed il licenziamento; seppure con diversa rilevanza, tutti tali atti hanno quale premessa l’inadempimen-to, né sulla ricostruzione del potere si riflette il meccanismo mediante il qua-le il prestatore di opere diventa titolare del dovere e, cioè, se esso trova la sua immediata ragione nel contratto od in una successiva dichiarazione. Comun-que, resta ferma la natura contrattuale dell’inadempimento, il quale, se non altro in via indiretta, rimanda all’ac-cordo costitutivo del rapporto ed alla legge, regolatrice degli effetti del ne-gozio. La stessa natura contrattuale ha il potere disciplinare, che è il riflesso dell’inadempimento e ne condivide i caratteri.

5. La proporzione, il potere del giu-dice ed i codici disciplinari.

A ragione, si osserva che l’art. 7 St. lav. prosegue “nel solco già tracciato dalla Carta del lavoro e dall’art. 2106 cod. civ. riconoscendo alla contratta-zione collettiva quel ruolo di fonte di definizione della normativa disciplina-re, già tradizionalmente e diffusamen-te assunto nel settore privato”41.In questa prospettiva si iscrive il dibat-tito sull’art. 2106 cod. civ., di pacifica applicazione al licenziamento per giu-sta causa o per giustificato motivo sog-gettivo, poiché, comunque, al giudice compete una valutazione di propor-zione fra la sanzione e la reazione42. A tale riguardo, non soccorre solo il principio di buona fede, ma si manife-sta l’elemento proprio del potere disci-plinare, aspetto che vale sia per i prov-vedimenti conservativi, sia per quelli espulsivi, vale a dire la natura dell’atto di replica ad un inadempimento. Se non vi è sanzione, perché manca l’accertamento del giudice, tale com-ponente di reazione spiega per quale ragione essa debba seguire criteri di proporzione, che costituiscono l’in-trinseco limite sostanziale della pre-rogativa autoritaria attribuita all’im-presa, soprattutto (ma non solo) se si discute della fine del rapporto.Altro è stabilire (e ciò compete all’ana-lisi della giusta causa e del giustificato motivo, non del licenziamento disci-plinare) come debba trovare applica-zione l’art. 2106 cod. civ. e, dunque, secondo quali parametri debba avere

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luogo il giudizio di proporzione43. Peraltro, tale analisi rientra per sua natura nei compiti del giudice44, al punto che le indicazioni dei contratti collettivi non hanno natura vincolan-te, perché, in questo modo, il conflitto fra il datore di lavoro ed il prestatore di opere trova la sua definizione nella complessiva decisione giudiziale. Anzi, proprio il principio di proporzio-ne è il segno del fatto che le misure conservative e quelle espulsive sono oggetto del medesimo potere, poiché fra le une e le altre prevalgono i mo-menti di continuità e non vi è un rigido iato, nel comune afferire alle forme di reazione all’altrui inadempimento.La loro legittimità presuppone la loro proporzione, con un diretto ed integra-le sindacato del giudice45, il quale, così, ripercorre tutto l’itinerario con-dotto dall’impresa nella valutazione della condotta.Anzi, il sindacato di proporzione im-plica il riferimento non a canoni di razionalità, ma a principi assiologici, come rileva la giurisprudenza, per la quale, “per stabilire in concreto l’esi-stenza di una giusta causa di licenzia-mento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essen-ziali del rapporto ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati, in relazione alla portata oggettiva e sog-gettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenziona-le, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire

se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare”46. Quindi, lungi dal limitarsi ad un con-trollo esterno della coerenza delle de-cisioni dell’impresa e dal soffermarsi sui suoi fini, di fatto il giudice si so-stituisce al datore di lavoro e penetra nell’intimo della determinazione, per chiedersi se vi sia proporzione (e, quindi, giustizia sostanziale) nel rac-cordo fra il comportamento e la misura applicata.A maggiore ragione, quella disciplina-re non è una sanzione, poiché solo il giudice punisce, decidendo sul prov-vedimento e verificandone fino nel profondo la sua legittimità. Sul pun-to, spetta al giudice l’applicazione della sanzione, previo accertamento dell’inadempimento e della respon-sabilità, e ciò rende molto meno trau-matica la dimensione di autorità insita nell’art. 2106 cod. civ. e nell’art. 7 St. lav.. In qualche modo, il potere disci-plinare soddisfa esigenze di tempe-stività dell’iniziativa dell’impresa, in grado di decidere subito, ma, per altro verso, costretta a difendere la perspi-cuità e la giustizia delle sue determina-zioni, che sono oggetto del definitivo accertamento processuale. Non a caso, si dice che “la valutazio-ne del giudice di merito, che escluda la sussistenza dei presupposti per una legittima irrogazione di una sanzio-ne estintiva nel caso di sottrazione di merce di modesto valore da parte di

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dipendente immune da precedenti ri-lievi e addetto a mansioni non fiducia-rie in senso stretto (nella specie, com-piti generici di addetto al magazzino di un supermercato), è conforme a criteri di logica e rappresenta una applicazio-ne del principio di proporzionalità”47; a prescindere dalla perspicuità della soluzione sul punto specifico, che ha causato un ricco e controverso dibat-tito48, simili orientamenti mostrano che l’autorità manifestata dall’eserci-zio del potere disciplinare è in qualche modo provvisoria, poiché il conflitto trova il suo sbocco finale nel giudizio e questo implica una revisione com-plessiva di ogni profilo rilevante ai fini dell’esercizio del potere.Anzi, è molto ridimensionata l’impor-tanza del codice disciplinare e dell’art. 7, primo comma, St. lav., se si con-sidera quanto sia ampio il sindacato del giudice, alla stregua dell’art. 2106 cod. civ..Non a caso, si riporta il problema della proporzione alla dialettica fra l’art. 4 cost. e l’art. 41 cost.49, quindi fra le ragioni dell’impresa ed i suoi interessi organizzativi e quelle del lavoro, alla continuazione del rapporto. Su tale raccordo non domina un incon-dizionato potere autoritario del datore di lavoro, ma la reazione disciplinare crea una composizione provvisoria del conflitto prodotto dall’inadempimen-to, in previsione dell’accertamento giudiziale e della connessa decisione sul comportamento, visto come fatto e, al tempo stesso, come occasione di un contrasto fra le aspettative dei la-

voratori e quelle aziendali, in cerca di una sintesi offerta dall’imparziale ap-plicazione della disciplina positiva ad opera del giudice50. Non a caso, coloro che riportano la giusta causa ad una lesione della fidu-cia sottolineano come il giudice debba valutare se, vista nelle sue componenti oggettive o soggettive, la condotta il-legittima possa ledere la fiducia stes-sa, ancora una volta con una piena sovrapposizione della sentenza alle determinazioni rese nell’esercizio del potere51.Quindi, se, talora, si afferma che il po-tere di determinazione della sanzione “è rimasto affidato al datore di lavoro, mentre al giudice è devoluto quello di controllare la legittimità”52, si do-vrebbe riconoscere quanto siano am-pie le prerogative del giudice e fino a che punto egli indaghi nel merito sulle iniziative dell’impresa e sui loro pre-supposti. In questo modo, il nesso fra autorità e difesa delle ragioni del dipenden-te trova la sua sintesi nel processo e ciò contribuisce a spiegare come il contratto possa fondare il potere di-sciplinare, se questo rimette al datore di lavoro una decisione suscettibile di immediata esecuzione, ma anche di esteso ed intenso sindacato.Peraltro, questa situazione ha un di-retto riflesso nella sostanziale e pro-gressiva “giurisdizionalizzazione” del potere disciplinare, non solo in ordine alle forme di esercizio, ma soprattutto alle modalità di specifica realizzazione della disciplina, rimessa ad una costan-

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te e penetrante analisi di proporzione. Pertanto, se l’art. 7 St. lav. protegge il dipendente nella sua dignità e gli consente di conoscere in anticipo qua-li critiche gli stiano per essere rivol-te, l’art. 2106 cod. civ. apre il potere alla cognizione del giudice ed incide sul versante sostanziale, non solo su quello formale. Quindi, con l’accer-tamento giudiziale, quelle disciplinari assumono una effettiva natura di san-zione, ma, al tempo stesso, il conflitto trova una definizione compiuta, non solo una composizione provvisoria, ri-messa alle determinazioni dell’impre-sa. L’inadempimento provoca, in via simultanea, un dialogo, spesso duro, fra il datore di lavoro ed il prestatore

di opere ed uno non meno intenso fra il primo ed il giudice, alla ricerca di una sanzione applicata in modo legit-timo, conforme a giustizia, coerente con i fatti e proporzionata all’illecito. In questi vari raccordi sta l’inevitabile complessità del potere, nella delicata mediazione di ragioni contrapposte e di difficile conciliazione e nell’ambi-zione a proteggere l’interesse del da-tore di lavoro ad una rapida risposta e quello del lavoratore ad una misura conforme a giustizia. In questa logica, il dialogo fra il giudice ed il datore di lavoro non è mediato dal contratto col-lettivo o dal codice, che si limitano a riepilogare illeciti comunque sottopo-sti ad una valutazione di proporzione.

NOTE

(1) V.: PERA, Il licenziamento come sanzione disciplinare, in Giust. civ., 1983, I, 19 ss.; LAMBERTUCCI, Il licenziamento c. d. disciplinare al vaglio della Corte costituzionale, in Giur. it., 1982, I, 1, 1040; AMOROSO, Commento all’art. 7, in AMOROSO - DI CERBO - MARESCA, Il diritto del lavoro, II, Statuto dei lavoratori e disciplina dei licenziamenti, Milano, 2001, 180 ss..

(2) V. Cass., sez. un., 1 giugno 1987, n. 4823, in Foro it., 1987, I, 2031, con nota di DE LUCA, Il licenziamento disciplinare dalla Corte costituzionale alle Sezioni unite: opzione per la tesi “ontologica”, chiara definizione dei ruoli, coerente assetto delle fonti; Cass. 20 ottobre 2000, n. 13906, in Foro it. rep., 2000, v. Lavoro (rapporto), n. 610; Cass. 20 luglio 1998, n. 7103, in Not. giur. lav., 1998, 718.

(3) V. Corte costituzionale 29 novembre 1982, n. 204, in Giust. civ., 1983, I, 19; Corte costituzionale 18 luglio 1989, n. 429; Corte costituzionale 23 no-vembre 1994, n. 398, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 3, con nota di PERA, Il licenziamento viziato nella forma da parte del piccolo datore di lavoro: una sentenza contraddittoria.

(4) V. Cass., sez. un., 30 marzo 2007, n. 7880; v. già Cass. 2 marzo 2006, n. 4614. In senso più attenuato, con riguardo all’applicazione del licenziamento del

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dirigente del principio di necessaria tempestività, v. Cass. 22 settembre 2005, n. 18620, in Guida dir., 2005, fasc. 42, 69; Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, in Gius, 2003, 1852. In precedenza, sul fatto che l’art. 7 St. lav. sarebbe stato inapplicabile al dirigente in posizione apicale, v. Cass. 13 maggio 2005, n. 10058, in Lav. giur., 2006, 290; Cass. 28 aprile 2003, n. 6606, in Lav. giur., 2003, 741, con nota di DUI; Cass. 15 novembre 2001, n. 14230, in Orient. giur. lav., 2002, I, 61. In generale, nel passato, sulla pretesa inesistenza di un licenziamento disciplinare in senso stretto nel caso dei dirigenti, v. Cass. 27 agosto 2003, n. 12652, in Gius, 2004, 531.

(5) V.: TREMOLADA, Il licenziamento disciplinare, Padova, 1993, 29 ss.. (6) MONTUSCHI, Il licenziamento disciplinare secondo il “diritto vivente”, in

Riv. it. dir. lav., 1996, I, 13 ss.; DE LUCA, La nuova disciplina dei licen-ziamenti individuali (legge 11 maggio 1990, n. 108), campo di applicazione delle “tutele” e giustificazione dei licenziamenti, in Foro it., 1990, V, 337 ss..

(7) Invece, cfr. Cass. 7 settembre 1993, n. 9390, in Mass. giur. lav., 1993, 671; Cass. 3 giugno 1992, n. 6741, in Giust. civ., 1993, I, 81; Cass. 4 marzo 1992, n. 2596, in Dir. e prat. lav., 1992, 1148; Cass. 5 dicembre 1991, n. 13097, in Giust. civ., 1992, I, 2403; Cass. 25 settembre 1991, n. 9993, in Not. giur. lav., 1992, 254.

(8) Cfr. Cass. 22 gennaio 1991, n. 542, in Foro it., 1992, I, 1142, con nota di DE LUCA; Cass., sez. un., 26 aprile 1994, n. 3965 e n. 3966, ibid., 1994, I, 1708, con nota di AMOROSO, Nuovo intervento delle Sezioni unite in tema di licenziamento disciplinare; Cass. 18 maggio 1994, n. 4844, ibid., 1994, I, 2976, con nota di MAZZOTTA, “La terra è piatta?” “Forse ...” (A propo-sito di licenziamento disciplinare illegittimo e sanzioni conseguenti).

(9) V. Cass. 9 giugno 1993, n. 6410, in Mass. giur. lav., 1993, 467; Cass. 4 marzo 1993, n. 2596, in Dir. prat. lav., 1993, 1203; Cass. 24 febbraio 1993, n. 249, in Foro it., 1993, I, 1848.

(10) Cfr. Cass., sez. un., 29 maggio 1995, n. 6041, in Nuova giur. civ. comm., 1996, I, 204, con nota di P. SCOGNAMIGLIO, Licenziamento disciplinare del dirigente ed applicabilità delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 St. lav., per cui “gli obblighi della preventiva contestazione e della attribu-zione di un termine a difesa non riguardano il licenziamento del dirigente di aziende industriali e, cioè, del prestatore di lavoro che, collocato al vertice dell’organizzazione aziendale, svolge mansioni tali da caratterizzare la vita dell’azienda con scelte di respiro globale, e si pone in un rapporto di col-laborazione fiduciaria con il datore di lavoro dal quale si limita a ricevere direttive di carattere generale, per la cui realizzazione si avvale di ampia autonomia, ed anzi esercita i poteri propri dell’imprenditore (del quale è un

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alter ego) assumendone, anche se non sempre, la rappresentanza esterna. La suddetta esclusione non si estende anche al cosiddetto pseudo - dirigente o dirigente convenzionale, relativamente al quale le mansioni attribuite ed esercitate non hanno le caratteristiche tipiche del rapporto dirigenziale”. In senso critico sulla contrapposizione fra dirigenti con responsabilità api-cali e pseudo - dirigenti, ai fini della disciplina del recesso disciplinare, cfr. PAPALEONI, La frontiera mobile del licenziamento del dirigente e la persi-stente incertezza del versante sanzionatorio, nota a Cass. 11 febbraio 1998, n. 1434 ed altre, in Mass. giur. lav., 1998, 266 ss.. Sulle implicazioni di que-sta nota pronuncia, v. PERA, Non esiste il licenziamento c. d. disciplinare del dirigente?, in Giust. civ., 1995, I, 1760 ss.; PILEGGI, Le Sezioni Unite promuovono un contrasto di giurisprudenza sul licenziamento disciplinare del dirigente, in Dir. lav., 1996, I, 156 ss.; AMOROSO, Le Sezioni Unite non ammettono il licenziamento disciplinare del dirigente, in Dir. lav., 1995, II, 89 ss..

(11) Sull’alternativa teorica posta dalla giurisprudenza in ordine alla configura-zione del recesso del dirigente, v. DE ANGELIS, Il licenziamento disciplina-re del dirigente. Essere dell’ontologia o non essere del potere disciplinare?, in Riv. giur. lav., 1997, I, 17 ss.. V. anche TREGLIA, Licenziamento del dirigente: negata l’applicabilità dell’art. 7 St. lav., in Lav. giur., 1995, 1009 ss..

(12) V. Trib. Milano 10 settembre 1997, in Riv. crit. dir. lav., 1998, 190, per cui non è “giustificato il licenziamento del dirigente che non sia sorretto da mo-tivi di una certa consistenza e ragionevolezza, tenendo conto delle posizioni e dei contrapposti interessi delle parti. In particolare, non può ritenersi con-testabile il modo in cui il dirigente perviene a un risultato utile all’azienda, a meno che non gli si imputi di avere agito o in modo scorretto od illecito; nemmeno è censurabile l’avere posto all’azienda l’alternativa fra le proprie dimissioni e la risoluzione del rapporto con un consulente, perché il diri-gente può disporre del proprio rapporto di lavoro e può e deve esprimere i propri giudizi e convinzioni nelle questioni sulle quali è chiamato a operare e rispondere”.

(13) Cfr. Pret. Milano 15 aprile 1996, in Lav. giur., 1996, 761, per cui “non inte-gra gli estremi della giusta causa e neppure del giustificato motivo di licen-ziamento una serie di azioni od omissioni continuate, non tempestivamente contestate ad un dirigente ed indicate in modo molto generico, dispiegatesi nell’arco di tempo di un anno prima del recesso, riassumibili nel non essersi adoperato a sufficienza nell’impulso e controllo della nuova attività di pe-netrazione in un mercato estero intrapresa dalla società datrice di lavoro, posto che gli scarsi risultati della nuova attività intrapresa dalla società

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hanno molto a che vedere col normale rischio imprenditoriale, piuttosto che con una pretesa incapacità del dirigente al quale non sono stati contestati comportamenti precisi e circostanziati con sicura efficacia concausale nella verificazione del lamentato insuccesso”.

(14) V.: ROMAGNOLI, Per una rilettura dell’art. 2086 cod. civ., in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, 1059 ss..

(15) V. Cass. 21 luglio 2001, n. 9950, in Not. giur. lav., 2001, 675. (16) Sulle varie posizioni della giurisprudenza, cfr. R. MAGNANI, Recenti

orientamenti della Corte di cassazione in materia di licenziamento del diri-gente, in Dir. lav., 1997, I, 410 ss.; TOFFOLI, Il licenziamento disciplinare dei dirigenti, ibid., 1995, I, 175 ss..

(17) V. Cass. 3 aprile 2003, n. 5213, cit.. (18) V.: TOSI, La questione del licenziamento c. d. disciplinare del dirigente

d’azienda, in Questioni attuali di diritto del lavoro, Suppl. Not. giur. lav., 1989, 187 ss..

(19) Cfr. Cass., sez. un., 26 aprile 1994, n. 3966, cit.; Cass., sez. un., 18 maggio 1994, n. 4844, cit.. In senso critico, v. PERA, Il licenziamento viziato nella forma da parte del piccolo datore di lavoro: una sentenza contraddittoria, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, 4 ss..

(20) V. anche TIRABOSCHI, Area di libera recedibilità, licenziamento disci-plinare e violazione di regole procedurali: un’importante pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite sulla struttura causale del negozio di recesso, in Orient. giur. lav., 1994, 602 ss..

(21) V.: MONTUSCHI, Potere disciplinare e rapporto di lavoro privato, in Quad. dir. lav. e rel. ind., 1991, 9 ss..

(22) Cfr. FERRANTE, Forma e procedura del licenziamento. Il licenziamento disciplinare, in AA. VV., Il lavoro subordinato, a cura di F. CARINCI, tm. III, Il rapporto individuale di lavoro: estinzione e garanzie dei diritti, a cura di MAINARDI, Torino, 2007, 209 ss., che, in senso adesivo a questa tesi, ripresa dalla giurisprudenza costituzionale, sottolinea che “l’esaltazione del principio del contraddittorio come diritto fondamentale di rilievo primario, del resto, è già contenuta nella storia normativa dell’art. 7, nel quale non è difficile intravedere non solo la trasposizione in ambito privatistico del diritto disciplinare, comune alla regolazione dell’impiego pubblico di tutta la tradizione continentale, ma altresì una epifania di quel principio del giu-sto processo, che costituisce uno dei cardini dell’ordinamento statunitense, quale emanazione del c. d. «due process clause»”.

(23) In senso critico sulle indicazioni della giurisprudenza, v. SUPPIEJ, La Corte costituzionale legifera sui licenziamenti disciplinari?, nota a Corte costitu-zionale 20 novembre 1982, n. 204, in Riv. it. dir. lav., 1983, II, 214 ss..

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(24) Invece, in senso opposto, v. Cass., sez. un., 28 marzo 1981, n. 1781, in Riv. giur. lav., 1982, II, 132, con nota di FRATTINI, Il licenziamento disciplinare come sanzione e l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori: alcune considerazioni.

(25) V.: PISANI, Licenziamento e fiducia, Milano, 2004, 37 ss.. (26) Sulla scorta della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, v. FER-

RANTE, Forma e procedura del licenziamento. Il licenziamento disciplina-re, loc. cit., 211 ss., il quale, peraltro (v. pag. 213), riferisce l’art. 7 St. lav. anche all’ipotesi del licenziamento per giusta causa dovuta a fatti estranei all’esecuzione delle mansioni, mentre questa ultima affermazione non è per-suasiva, perché in tale ipotesi non si discute di un “rimprovero”, ma di fatti lesivi dell’interesse dell’impresa alla sua immagine sul mercato e della sua fiducia sulla credibilità del prestatore di opere.

(27) Cfr. F. CARINCI, Diritto privato e diritto del lavoro: uno sguardo dal pon-te, in AA. VV., Il lavoro subordinato, a cura di F. CARINCI, tm. I, Il diritto sindacale, a cura di PROIA, Torino, 2007, LXXXVII ss..

(28) V.: NOGLER, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bi-lanciamento tra i “principi” costituzionali, testo provvisorio, 2007, 9 ss..

(29) V.: F. BENVENUTI, Le sanzioni amministrative come mezzo dell’azione amministrativa, in AA. VV., Le sanzioni amministrative, Atti del XXVI Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Milano, 1982, 42 ss..

(30) V.: BUONCRISTIANO, Profili della tutela civile contro i poteri privati, Pa-dova, 1986, 282 ss., e, dello stesso A., I poteri del datore di lavoro, in Tratt. dir. priv., diretto da P. RESCIGNO, ed. I, vol. XV, tm. I, Torino, 1986, 573 ss.; R. PESSI, Il potere direttivo dell’imprenditore e i suoi nuovi limiti dopo la legge 20 maggio 1970, n. 300, in Dir. lav., 1973, I, 60 ss.; MAGRINI, Lavoro (contratto individuale), in Enc. dir., vol. XXIII, 369 ss.; PERULLI, Il potere direttivo dell’imprenditore, Milano, 1992, 110 ss.; ZOLI, Subordi-nazione e poteri dell’imprenditore tra organizzazione, contratto e contropo-tere, in Lav. dir., 1997, 240 ss..

(31) V.: MENGONI, Il contratto di lavoro nel diritto italiano, in AA. VV., Il contratto di lavoro nel diritto dei Paesi membri della Ceca, Milano, 1965, 59 ss..

(32) Cfr. MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, in Comm. cod. civ., a cura di SCHLESINGER - BUSNELLI, Milano, 2002, 16 ss..

(33) Invece, v. SUPPIEJ, La struttura del rapporto di lavoro, Padova, 1963, vol. I, 79 ss..

(34) V.: BUONCRISTIANO, I poteri del datore di lavoro, loc. cit., 19 ss.. (35) Cfr. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, 1966, 149

ss..

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(36) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., 23 ss., con espresso rinvio a MENGONI, Le modificazioni del rapporto di la-voro alla luce dello Statuto dei lavoratori, in AA. VV., L’applicazione dello Statuto dei lavoratori, Milano, 1974, 24 ss..

(37) Sulla distinzione fra la responsabilità disciplinare e quella per inadempi-mento, v. G. F. MANCINI, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, 26 ss.; ZOLI, Inadempimento e responsabilità per col-pa del prestatore di lavoro, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1983, 1269 ss..

(38) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., 36 ss..

(39) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., 36 ss..

(40) Cfr. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, cit., 197; BUONCRI-STIANO, I poteri del datore di lavoro, loc. cit., 575 ss.; MARAZZA, Saggio sull’organizzazione del lavoro, Padova, 2001, 348 ss..

(41) V.: MAINARDI, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., 36 ss..

(42) Cfr. Cass. 7 agosto 2006, n. 17799; Cass. 13 aprile 2006, n. 8679; Cass. 21 aprile 2005, n. 8303, in Mass. giur. lav., 2005, 634.

(43) Ad esempio, v. Cass. 19 agosto 2004, n. 16260, in Lav. giur., 2005, 845, con nota di BELLUMAT, per cui, “in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non già l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli ob-blighi assunti”.

(44) Cfr. Cass. 7 aprile 2004, n. 6823, in Lav. giur., 2004, 1198. (45) V. Cass. 11 marzo 2004, n. 5013, in Gius, 2004, 2996. (46) V. Cass. 19 agosto 2003, n. 12161, in Gius, 2004, 364. (47) Cfr. Cass. 15 febbraio 2003, n. 2336, in Mass. giur. lav., 2004, 110. (48) Per sua natura, la soluzione del problema dipende dalla ricostruzione della

categoria della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo. (49) Cfr. Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208, in Lav. giur., 2003, 344, con nota di

MANNACIO.

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ProgrammaRelatori

Temi trattati

Sintesi degli argomenti sviluppati

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I giornata - 19 gennaio 2007

Relatori: Dott. Tommaso Colajacovo, Dott. Daniele Quadrelli, Dott. Francesco Siniscalco, Dott. Valentino Cattani.

Temi trattati: Introduzione e logiche di sistema.

Sintesi degli argomenti sviluppati

Introduzione: logiche, sistema e ruolo; il sistema di relazioni sindacali nel Cre-dito Cooperativo; il ruolo di Federcasse e delle Federazioni locali; l'Area risor-se umane della Federazione e i servizi diponibili per le Bcc: ruoli e responsabi-lità nella gestione del personale in Bcc; Consigli d'amministrazione, Direttori, capi intermedi, Responsabili aree risorse umane.Le strumentazioni di gestione delle risorse umane.La valutazione delle competenze: rilevare il patrimonio di esperienze, capacità e conoscenze di successo da riconoscere, remunerare e sviluppare per assi-curare la crescita dell'organizzazione. L'ambito di rilevazione riguarda sia i comportamenti ma anche tipologie di conoscenze tecniche.Le stratificazioni retributive.I sistemi incentivanti o premianti, il premio di risultato, la negoziazione collet-tiva tra nazionale, regionale e aziendale.Le risposte organizzative.Cambiamenti rapidi e ricorrenti. La flessibilità. La modificazione dei ruoli. Carriere meno lineari, oblique, a scatti.Il monitoraggio del patrimonio di competenze. L'orientamento dell'azione del personale in senso strategico, la razionalizzazione dei costi. La mappa delle risorse.

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II giornata - 5 febbraio 2007

Relatori: Avv. Luca Zaccarelli

Temi trattati: Le retribuzioni.

Sintesi degli argomenti sviluppati

Il prospetto di paga, visto che si trattano le tematiche relative all’amministrazio-ne del personale, disciplinato dalla Legge 4/1953.La busta paga: che cos’è, quando va consegnata e cosa deve contenere.La retribuzione sotto il profilo civilistico, cioè come corrispettivo della presta-zione di lavoro e quale obbligazione del datore di lavoro nei confronti del lavo-ratore.Le assenze come possibile deroga al principio di corrispettività della prestazione conto/retribuzione.Gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali disciplinati per lo più da un Testo Unico che è il D.P.R. 30 giugno 1965 n°1124.Reddito da lavoro dipendente ai fini previdenziali e ai fini fiscali, è quel reddito che deriva da rapporti aventi ad oggetto la prestazione di lavoro con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione altrui.I buoni pasto quale buono di lavoro e l’effettivo utilizzo ad essi correlato.

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III giornata - 12 febbraio 2007

Relatori: Avv. Luca Zaccarelli

Temi trattati: Le sanzioni Le ispezioni

Sintesi degli argomenti sviluppati

Le sanzioni: sanzioni penali e sanzioni amministrative.Hanno un carattere affittivo, intendono cioè affliggere, punire, sanzionare. La stragrande maggioranza delle sanzioni amministrative, che trovano il loro riferi-mento nella Legge 689 del 1981, in materia di rapporti di lavoro è di carattere pe-cuniario. Le stesse, secondo il principio di legalità, si possono applicare soltanto quando sono previste da una legge che sia entrata in vigore prima della commis-sione del fatto illecito, come avviene anche per le sanzioni penali. Hanno natura strettamente personale e individuale. Le sanzioni penali: delitti e contravven-zioni. In materia di rapporti di lavoro la stragrande maggioranza dei reati sono contravvenzioni. La distinzione dipende dal tipo di sanzione: se il reato è punito con l’arresto o l’ammenda è una contravvenzione; se è punito con la multa, la reclusione o l’ergastolo è un delitto. Le sanzioni penali vengono applicate da un’Autorità Giudiziaria, quelle amministrative da un’Autorità Amministrativa.Le ispezioniHanno l’obiettivo della lotta all’evasione e/o all’elusione contributiva. Possono essere di 2 tipi: l’ispezione generale amministrativa e l’ispezione a “commes-sa limitata”. Possono essere svolte da funzionari di Enti diversi (INPS, INAIL, Direzione Provinciale del Lavoro), ed essere “singole”, di due o più enti, coor-dinate o integrate. Il compito dell’ispettore del lavoro è quello di vigilare sull’os-servanza delle leggi in materia di lavoro mentre quelli previdenziali vigilano sull’osservanza degli obblighi previdenziali e contributivi di competenza. Potere di fondamentale importanza degli Ispettori del Lavoro è quello di accesso, ov-vero la possibilità di accedere nei luoghi di lavoro in qualsiasi ora del giorno e della notte, quando vi sia fondato motivo di ritenere in essere una violazione di legge.

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IV giornata - 20 febbraio 2007

Relatori: Prof. Avv. Alberto Pizzoferrato

Temi trattati: L'instaurazione del rapporto di lavoro subordinato

Sintesi degli argomenti sviluppati

Aspetti di novità legati al tema del collocamento e agli adempimenti da attuare in materia di assunzioni. Tema, quello della mediazione tra domanda e offerta di lavoro, sul quale c’è stata un’evoluzione normativa importante. Fino agli anni 90’ era in vigore la Legge 264 del ‘49 che prevedeva il monopolio esclusivo del collocamento da parte dei soggetti pubblici, nessun altro soggetto privato poteva interferire nell’attività di mediazione e nel procedimento di avviamento al lavoro, che aveva natura vincolistica prima di giungere alla vera e propria assunzione. In sostanza solo passando attraverso l’ufficio di collocamento si poteva procedere all’assunzione; era una gestione rigidamente ancorata nelle mani dello stato.Sistema che viene smantellato dall’evoluzione normativa, ad opera della Legge 223 del ‘91, della 608 del ‘96, della 196 del ‘97, per passare al collocamento come servizio pubblico, quindi attività che non richiede l’esercizio di pubblici poteri autoritativi e può essere svolta anche da soggetti privati. Viene meno il monopolio esclusivo nell’intermediazione e viene meno anche la gestione stata-le, perché viene decentrata secondo un modello amministrativo introdotto dalla prima Legge Bassanini, cioè la 56 del ‘97, in base alle quale poi interverrà il decreto legislativo 469 del ‘97. Attraverso tale decreto si realizza il passaggio di funzione amministrativa del lavoro, dal versante ministeriale, statale, a quello regionale.Adempimenti necessari e connessi alla fase di assunzione: i testi normativi di riferimento sono da un lato il Dlgs. 181 del 2000 e dall’altro il Dlgs. 297 del 2002 e da ultimo, prima del Decreto Bersani, la Legge 248 del 2006 e poi della Legge Finanziaria per il 2007, la Legge 296 del 2006.

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V giornata - 27 febbraio 2007

Relatori: Prof. Avv. Enrico Gragnoli

Temi trattati: La risoluzione del rapporto di lavoro

Sintesi degli argomenti sviluppati

La disciplina del licenziamento rappresenta il tema più complesso dal punto di vista pratico.Si prenderanno poi in considerazione il problema delle dimissioni, il problema del preavviso, che è comune alle dimissioni e al licenziamento, e i casi di licen-ziamento in cui si deroga al principio generale su cosiddetto principio di giusti-ficazione, cioè sulla necessità per lo stesso di essere sorretto da un giustificato motivo, l’art.3 della Legge 604 del ‘67. I principali casi che saranno presi in con-siderazione riguardano i rapporti di lavoro che si estinguono per licenziamenti non dovuti a giustificato motivo soggettivo o oggettivo, ovvero i casi in cui il datore di lavoro estingue un rapporto senza doverlo motivare: il licenziamento del lavoratore anziano, del lavoratore in prova, del dirigente e dell’apprendista.Il licenziamento dell’apprendista:durante il periodo di apprendistato, il rapporto di lavoro è equiparato ad un qualsiasi rapporto di un qualunque lavoratore. Nel momento in cui il periodo di apprendistato giunge al termine, il lavoratore diven-ta licenziabile, senza che il datore debba spiegare il perché e senza che il giudice possa porre il problema di vedere se lo stesso è giustificato o ingiustificato.Il licenziamento del lavoratore in prova: non deve essere motivato, o meglio non succede niente se non è presente la motivazione. Se invece è presente è molto più facile per il lavoratore poter attaccare il licenziamento stesso. L’unico caso in cui si richiede la motivazione è quello della donna in stato interessante che abbia preventivamente presentato il certificato. Le ipotesi che il lavoratore ha per protestare tale forma di licenziamento sono sostanzialmente 3: il licenziamento discriminatorio, il positivo superamento della prova (da dimostrare) e la troppo breve durata del periodo di provaIl licenziamento del lavoratore anziano: ad una determinata età, se il lavoratore non si dimette, il datore acquista il potere di intimare un licenziamento libero. E l’età sono i 65 anni, secondo la giurisprudenza dominante, sia per l’uomo che per la donna, prorogabili a 67. questo perché si presume che tutti i lavoratori abbiano acquisito il diritto alla pensione di vecchiaia.

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Il licenziamento del dirigente: ha 2 forme di tutela, un periodo di preavviso molto lungo (intorno all’anno) e l’indennità supplementare a cui ha diritto il lavoratore laddove si accerti che il licenziamento intimato dal datore è ingiustificato. A pre-scindere però che ci sia o non ci sia giustificato motivo soggettivo o oggettivo, il rapporto di lavoro con il dirigente si estingue per la volontà del datore di intimare il licenziamento.Dimissioni: atto unilaterale con cui il lavoratore pone termine al rapporto. Si ve-rificano in 2 casi: si estingue il rapporto senza addebitare alcun comportamento illecito al datore di lavoro (dimissioni), oppure la scelta è provocata da un com-portamento illecito del datore di lavoro (dimissioni per giusta causa).Preavviso: si parla di preavviso in caso di dimissioni, perché in realtà, nei casi di licenziamento, è rarissimo. O si raggiunge un accordo e in questo caso parliamo di risoluzione consensuale differita, oppure il datore intima il licenziamento per una giusta causa e allora il preavviso non è dovuto; altra situazione si verifica laddove il datore paga l’indennità sostitutiva e manda fuori da subito il lavora-tore.La Giurisprudenza non rinuncia però alla teoria dell’efficacia reale del preavvi-so: il preavviso va fatto e va fatto in modo completo.

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VI giornata - 23 marzo 2007

Relatori: Prof. Avv. Germano Dondi Avv. Annalisa Nicoli Dott.ssa Anna Montanari Prof.ssa Susanna Palladini

Temi trattati: La riforma del sistema pensionistico

Sintesi degli argomenti sviluppati

Prima fase: D.lsg n°503/1992 (cd. Riforma Amato). Obiettivo di stabilizzare il rapporto tra spesa previdenziale e prodotto interno lordo, garantendo trattamenti pensionistici obbligatori omogenei. Si eleva l’età pensionabile da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini (in modo graduale tra il ‘94 e il ‘99). Viene elevata la contribuzione minima per la pensione di vecchiaia da 15 a 20 anni (tra il 1993 e il 2000). Il divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro, prima in vigore solo per i redditi da lavoro dipendente, è esteso anche al lavoro autonomo (eccetto che per i lavoratori pensionati al 31 Dicembre 1993).Seconda fase: Legge n° 335/1995 (cd. Riforma Dini). Da un sistema di calcolo delle pensioni di tipo retributivo (imperniato sulla media delle retribuzioni degli ultimi 10 anni lavorativi), si passa, dopo un periodo transitorio, al sistema con-tributivo (basato sull’ammontare dei contributi versati in tutta la vita lavorativa). L’età pensionabile varia ora in base all’anzianità contributiva posseduta, cioè al numero di contributi accreditati. Le pensioni di anzianità sono destinate a scom-parire con effetto dal 2009; nel periodo 1996-2008 si attua un regime transitorio con la modifica dei requisiti già vigenti al 31 Dicembre 1995. Relativamente alla previdenza complementare, viene garantito il decollo dei fondi pensione discipli-nati dal D.lgs n°124 del 1993.Terza fase: Legge n°449/1997 (cd. Riforma Prodi). Riforme giustificate dall’esi-genza di mantenere i parametri per l’ingresso in Europa. Inasprimento dei re-quisiti di età per conseguire, nel periodo transitorio fino al 2008, la pensione di anzianità. Aumento dell’onere contributivo a carico dei lavoratori autonomi. Eliminazione, o comunque sensibile riduzione, della perequazione automatica per le pensioni di importo elevato.Quarta fase: Legge n° 243/2004. Ha l’obiettivo di assicurare la sostenibilità fi-nanziaria del sistema pensionistico e di completare il processo di separazione tra

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assistenza e previdenza pubblica. I punti principali di tale riforma riguardano la certificazione, da parte dell’ente previdenziale di appartenenza, del diritto alla pensione di anzianità ed alla pensione nel sistema contributivo al raggiungimen-to, al 31 Dicembre 2007, dei requisiti previsti dalla normativa previdente. Si potenzia la previdenza complementare, con il conferimento automatico, salva diversa esplicita volontà espressa dal lavoratore, del trattamento di fine rapporto maturando, alle forme pensionistiche complementari (delega attuata con D.lgs n°252/2005). Incentivo al posticipo del pensionamento tra il 2004 e il 2007 (cd. Bonus). Dal 1 Gennaio 2008 la pensione di vecchiaia sarà liquidata esclusiva-mente con il sistema contributivo e, fermo restando il requisito di anzianità con-tributiva di almeno 35 anni, si accederà alla pensione di anzianità con requisiti anagrafici più elevati. Inoltre, ampliamento progressivo della possibilità di som-mare periodi assicurativi presso enti diversi (D.lgs n°42/2006) ed eliminazione dei divieti di cumulo ancora esistenti tra pensioni e redditi da lavoro.

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VII - VIII giornata - 28-29 marzo 2007

Relatore: Dott. Angelo Contessa

Temi trattati: La Programmazione Neuro Linguistica (PNL)

Sintesi degli argomenti sviluppati

La P.N.L è una neuroscienza nata negli anni ‘70 in California ad opera di due studiosi: Richard Bandler (matematico e cibernetico) e John Grinder (professore di semantica), i quali si chiesero come mai gli allievi di uomini di successo non ottenevano gli stessi ottimi risultati. Bandler e Grinder decodificarono un metodo che oggi consente a chiunque di ottenere ottimi risultati in molteplici campi di applicazione. La P.N.L, infatti, è una metodologia che insegna alle persone il come educare la propria mente, invece che sul cosa educarla.Programmazione: perché durante la nostra esistenza ci programmiamo costruen-do, dopo aver elaborato le informazioni. Se stabiliamo un’analogia con l’in-formatica, riteniamo che per tutta la vita il cervello, ossia l’hardware, rimanga grosso modo uguale. Ciò che invece possono cambiare sono le programmazioni subite o prodotte: cioè il nostro software.Neuro: perché tale capacità di programmarci dipende dalla nostra attività neuro-logica; la P.N.L. agisce, quindi, direttamente sulla nostra organizzazione neurolo-gica, analizzando il modo di pensare di ogni individuo, per ottenere informazioni riguardanti il suo modo di costruire biologicamente le esperienze del mondo.Linguistica: in quanto la programmazione si determina attraverso il linguaggio, il quale struttura ed esplica il nostro modo di pensare.

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IX giornata - 16 aprile 2007

Relatori: Prof. Avv. Enrico Gragnoli Avv. Luca Zaccarelli

Temi trattati: Obblighi e diritti dei lavoratori

Sintesi degli argomenti sviluppati

Obbligo di fedeltà: art. 2015 del Codice Civile. Ha contenuti molto specifici e settoriali che sono essenzialmente tre: non fare concorrenza al datore di lavoro, non divulgare informazioni del datore di lavoro, non usare le informazioni riser-vate del datore di lavoro. Molto importanti all’intesto del sistema bancario sono il divieto di usare l’informazione acquisita durante lo svolgimento dell’attività lavorativa e quello di divulgarla, trasferendo a terzi informazioni in cambio di denaro o di altre utilità economiche. L’articolo non distingue tra comportamenti dovuti a dolo o a colpa, tra comportamenti dovuti a trascuratezza o a desiderio di arricchirsi, tra comportamenti fatti per diverse motivazioni, è di per se illegittimo il divulgare o l’utilizzare le informazioni.Trattamento dei dati personaliPosta elettronica. I messaggi di posta elettronica inviati ad una persona fisica an-che all’interno dell’impresa sull’indirizzo che identifica una persona fisica, sono corrispondenze e non possono essere aperti dal datore di lavoro.Verifica impronte digitali. In nessun caso può essere sottoposto a verifica dei dati biometrici il dipendente. E quindi in nessun caso e per nessuna ragione ci possono essere dei meccanismi di controllo delle presenze, di ammissione agli interni della banca, di registrazione che presuppongano un controllo dei dati bio-metrici.I problemi di amministrazione del personale.Il curriculum: presenta un solo vincolo,ed è l’unica cosa che conta, è che non si può dare a terzi.Dati sensibili dei lavoratori: il fatto di essere assente per malattia, senza che sia specificata la diagnosi non rappresenta dato sensibile. Diversa è la situazione in cu ci sia la diagnosi. Il caso più facile è quello di infortunio da malattia pro-fessionale e l’altro è quello in cui il lavoratore che è ammalato, dichiara la sua malattia e per sue ragioni inserisce la diagnosi. In queste situazioni occorre che i documenti siano custoditi con un livello più alto di riservatezza.Note di qualifica: tutte le relazioni del capo ufficio, del capo servizio e dei supe-

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riori gerarchici preparatorie all’audizione del giudizio finale sulla nota di qualifi-ca sono pubbliche. Il lavoratore ha diritto di averne copia, può esercitare il diritto di accesso.Il libro di matricola.Art. 24 e seguenti del d.p.r. 1124 del 1965. In origine e cioè nel testo unico dell’INAIL del 1965, quando fu concepito e approvato, lo scopo del libro di matricola e del libro di paga, era prevalentemente uno scopo con finalità assi-curative, cioè il controllo dei soggetti che erano assicurati all’INAIL. Il libro di matricola è uno per il datore di lavoro dove vanno registrati tutti i dipendenti e, da quando è stato previsto l’obbligo INAIL con l’entrata in vigore del D.Lgs n°38/2000, anche tutti i collaboratori coordinati e continuativi.

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X giornata - 17 aprile 2007

Relatore: Avv. Tommaso Tommesani

Temi trattati: I poteri del datore di lavoro

Sintesi degli argomenti sviluppati

I poteri e limiti del datore nella gestione del rapporto. Il datore di lavoro è capo dell’impresa e da lui dipendono i collaboratori che lui stesso organizza in una scala gerarchica, in questo senso si parla del potere gerarchico che altro non è che una faccia del potere direttivo o meglio, il potere di organizzare in una struttura piramidale i dipendenti in modo da ottenere il risultato produttivo. Il lavorato-re viene descritto come soggetto che collabora all’attività dell’impresa, inserito all’interno di un’organizzazione altrui e lavora alle dipendenze (art. 2094 c.c.) e sotto la direzione dell’imprenditore. La dottrina parla di poteri giuridici in senso proprio, cioè di posizioni giuridiche di vantaggio esercitate discrezionalmente e nell’interesse proprio del titolare, cioè funzionarie al raggiungimento degli obiet-tivi che il titolare si è prefisso: il raggiungimento degli scopi produttivi. Ai poteri si contrappongono i limiti, dettati anch’essi dal codice civile. Anzitutto la tutela della salute del lavoratore e dei lavoratori in generale, cioè la tutela delle condizioni di lavoro, prevista dall’articolo 2087 del codice civile, come tutela dell’integrità fisica e anche della personalità morale del lavoratore. La limita-zione al potere di recesso, riguarda il tempo entro il quale il recesso stesso deve avere efficacia salvo che non ci sia una giusta causa. Terzo limite essenziale pre-visto dal codice è la modifica definitiva delle condizioni del contratto di lavoro subordinato per quello che concerne la mansione e il luogo di svolgimento della prestazione. C’è però anche un limite di carattere generale, che si aggiunge a questi che sono i più specifici ed è dato dai principi generali in tema di obbliga-zioni contratti, cioè i principi della correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto. Principi inseriti in due norme del codice civile: art. 1175 e art. 1375.Per quel che riguarda la discriminazione, la base testuale di tutta la normativa è il motivo illecito. Mentre per motivo illecito che vede in particolare il caso di licenziamento si parla di “unico e determinante”, nel caso dei divieti di discrimi-nazione, invece, la normativa è riferita ad un aspetto oggettivo purchè ci sia la violazione in sostanza. Il potere direttivo è il primo e il fondamentale dei poteri del datore di lavoro. Si manifesta attraverso una serie di atti: gli ordini di servizio che riguardano lo

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svolgimento dell’attività lavorativa, le note di qualifica che riguardano il sistema di valutazione della prestazione professionale, il regolamento aziendale cioè la regolamentazione del comportamento in azienda del lavoratore.Il potere disciplinare. La regolamentazione sta in due norme: l’art. 2106 del c.c. per quello che riguarda l’aspetto sostanziale e l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori per quello che riguarda l’aspetto procedurale. L’articolo 2106 individua come delazione sanzionabile l’inottemperanza agli obblighi previsti a carico del datore di lavoro dai due articoli precedenti (artt. 2104-2105 c.c.) e fissa anche il princi-pio di proporzionalità tra sanzione e violazione.Il potere di vigilanza e di controllo. Il contratto di lavoro subordinato prevede che ad una parte spetti il potere di dettare direttive e all’altra di eseguire queste disposizioni, che hanno risvolti di carattere disciplinare e risarcitorio. Il datore ha la possibilità di eseguire un controllo sia sull’adempimento dell’obbligo di prestazione, sia sul comportamento che il lavoratore tiene in azienda. L’osser-vanza delle disposizioni costituisce l’oggetto del controllo esercitato dal datore di lavoro.

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XI giornata - 23 aprile 2007

Relatore: Prof. Avv. Enrico Gragnoli

Temi trattati: Le sanzioni e il licenziamento disciplinare

Sintesi degli argomenti sviluppati

La predeterminazione nel codice disciplinare degli illeciti e delle sanzioni è ri-portata ad una logica di garanzia del prestatore di opere, nonostante si sia rilevata la ampia sfera di discrezionalità dell’impresa. La previsione del codice ha la du-plice funzione di cristallizzare il momento precettivo attinente alla disciplina e di temperare la portata intimidatoria intrinseca ai contenuti del codice, con un crite-rio complessivo che trova una rilevante eccezione in tema di licenziamento.L’onere di redazione e di affissione del codice disciplinare non si può estendere a quei fatti il cui divieto risiede non già nelle fonti collettive o nelle determinazioni del datore di lavoro, ma nella coscienza sociale, quale minimo etico. Dunque, nell’ipotesi di violazione di doveri basilari, non occorre la pubblicità di alcun testo di tipizzazione del comportamento illecito. La prova di avere dato adeguata pubblicità al codice, risulta necessaria quando il recesso sia fondato anche sul codice stesso.La necessaria predisposizione del codice disciplinare, rientra nella disciplina sul-la procedura, poiché l’obiettivo dell’art. 7, primo comma, St. lav. non è una sorte di definizione dell’oggetto del contratto e degli obblighi relativi. La consolidata giurisprudenza sul licenziamento smentisce la tesi di chi vede nella compilazione e nella pubblicità del codice una sorta di requisito costitutivo dello stesso potere disciplinare. Le indicazioni del codice non incidono sul ricorrere della condotta illegittima, ma sul legittimo esercizio del potere, che, in tema di licenziamento, può avere luogo a prescindere dall’osservanza dell’art. 7, primo comma, St. lav.Il codice disciplinare si limita a collegare la sanzione corrispondente ad un fatto di per sé illecito. Il collegamento tra condotta e sanzione è governato dal criterio di proporzione voluto dall’art. 2106 cod. civ. Quindi, le implicazioni innovative della dichiarazione del datore di lavoro sono contenute e sovrastate dalle indica-zioni legali cogenti, in specie da quelle del citato art. 2106 c.c. Ne derivano due conseguenze: per un verso l’art. 7, primo comma, St. lav. regola la procedura e, cioè i modi di esercizio del potere, per altro verso, nel codice prevalgono le componenti informative su quelle negoziali.Il licenziamento è ritenuto un negozio unilaterale e recettizio, la dichiarazione

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si perfeziona nel momento nel quale giunge a conoscenza del destinatario , nel rispetto dell’art.2 Legge n°604/1996. Non a caso, la comunicazione fa scattare il termine di decadenza per l’impugnazione . Come ogni atto per il quale sia prevista la forma scritta ad substantiam, il licenziamento deve essere firmato dal titolare del potere e, quindi, da persona che possa impegnare la società e, comun-que, il datore di lavoro.La contestazione presuppone la sola descrizione, precisa, dei fatti addebitati, non la loro qualificazione dal punto di vista giuridico. Il celere esercizio del potere dell’art. 7 St. lav. è in sintonia con i principi di correttezza, poiché l’impresa non può procrastinare le sue iniziative, in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto. Il lavoratore, da par suo, in nessun modo ha l’obbligo di difesa nell’ambito del procedimento disciplinare, ne deve collaborare con informazioni od allegazioni all’esercizio dell’iniziativa del datore di lavoro, in particolare dopo la contestazione, così che la mancata risposta od una replica formale, senza affermazioni sul merito degli addebiti, non possono comportare alcuna conseguenza pregiudizievole, ne pos-sono assumere rilievo nel successivo giudizio, nell’ambito del quale il dipenden-te licenziato ha ogni possibilità di agire.

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XII giornata - 30 aprile 2007

Relatore: Prof. Avv. Enrico Gragnoli

Temi trattati: Licenziamento per giusta causa e conversione L'impugnazione stragiudiziale e quella giudiziale

Sintesi degli argomenti sviluppati

Il favore della giurisprudenza per la conversione del licenziamento per giusta causa in uno per giustificato motivo soggettivo si basa spesso su ragionevoli mo-tivazioni equitative; la gravità delle conseguenze patrimoniali derivanti dall’il-legittimità del recesso, induce il giudice a chiedersi se, esclusa l’esistenza di fati riconducibili alla giusta causa, non si possa riconoscere al dipendente il diritto all’indennità sostituiva del preavviso, senza l’applicazione di più incisive forme di tutela. Si cerca un punto di equilibrio fra i differenti interessi sostanziali e si ritiene possibile la conversione del licenziamento intimato per giusta causa in uno per giustificato motivo soggettivo, salvo il rispetto della regola generale dell’immutabilità della contestazione.Il dibattito sulle motivazioni della conversione, evoca quello sulla natura della giusta causa e sul suo raccordo con il giustificato motivo. Qualora sia applica-bile l’art. 18 delle Legge n°300/1970, l’intensità della sanzione induce a trovare nella conversione un equilibrato contemperamento di fronte ad inadempimenti dei lavoratori di gravità non drammatica, non costitutivi di una giusta causa, ma che non rendono neppure pretestuoso il recesso. La conversione dei recessi in-dividuali non può essere paragonata all’eventuale conversione dei licenziamenti collettivi in quelli per giustificato motivo oggettivo.Se si nega che il licenziamento per giusta causa costituisca una fattispecie di recesso straordinario e la giusta causa, lungi dal configurarsi come fattispecie costitutiva del potere di recesso, nel rapporto a tempo indeterminato, influisce sul diritto al preavviso e non sulla legittimità del recesso, non presenta particolari difficoltà la spiegazione dell’istituto della conversione. Al lavoratore che non ha eseguito le sue prestazioni per il periodo di preavviso e rivendica la correspon-sione di tutti i diritti derivanti dall’inerenza reale della clausola di preavviso, il datore oppone un’eccezione, sostenendo che il rapporto si è estinto all’atto della dichiarazione di recesso per l’esistenza di una giusta causa idonea a paralizzare l’efficacia differita del negozio di recesso.Se la giusta causa è connessa al preavviso piuttosto che al recesso, non si pone un

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problema di conversione, ma si deve considerare in via prioritaria la legittimità del licenziamento e, poi, in relazione al più limitato aspetto del preavviso, si deve ricercare l’esistenza della giusta causa. Tuttavia, se si riconduce la giusta causa a mera condizione del venir meno di ogni pretesa sul preavviso, il licenziamento non necessita di alcuna conversione. La giusta causa ed il giustificato motivo di licenziamento costituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugual-mente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’una con effetto immediato, l’altra con preavviso.L’atto di impugnazione stragiudiziale è recettizio; è un atto singolare idoneo ad impedire la decadenza. Deve pervenire nel termine previsto e deve essere scritto. Basta rendere nota la volontà di reagire, senza la necessità di esporre tutte le censure.Per l’impugnazione giudiziale, in linea di massima, per la giurisprudenza sa-rebbe insufficiente il deposito del ricorso in cancelleria, ma, nel termine fissato, occorrerebbe la notificazione. Solo questa realizzerebbe la conoscenza del ricor-so da parte del convenuto e l’impugnazione giudiziale dovrebbe avere le stesse connotazioni di quella stragiudiziale, nel rispetto di una comune natura recetti-zia. È stata peraltro considerata sufficiente, la notificazione di un ricorso ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., recante a margine la procura del difensore.

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XIII giornata - 4 maggio 2007

Relatori: Prof. Avv. Germano Dondi Avv. Annalisa Nicoli Dott.ssa Anna Montanari Dott.ssa Augusta Alesse

Temi trattati: La responsabilità del lavoratore e dell'aziendaObblighi fondamentali• Obblighi per il personale di cassa• Responsabilità civile verso terzi• Comportamento negligente e comportamento omissivo•

Il luogo della prestazioneIl trasferimento del lavoratore• Missioni e mobilità• Le modalità di trasferimento della prestazione• I motivi leciti ed illeciti• I rimedi nei casi di trasferimento illegittimo•

Sintesi degli argomenti sviluppati

Le modificazioni del luogo di adempimento dell’obbligazione di lavoro.Il tema è disciplinato da norme risalenti nel tempo, in particolare norme dello Statuto dei lavoratori, che ha avuto interventi anche recenti nel DLG. 276 del ‘93 con riguardo all’istituto cosiddetto del “comando”.Gli argomenti che sono oggetto sono: lo spostamento del lavoratore nell’ambito dell’unità produttiva, il trasferimento del lavoratore, il comando del lavoratore.Lo spostamento del lavoratore all’interno della unità produttiva.Il potere del datore di lavoro di effettuare questi spostamenti interni trova dei limiti? La risposta la troviamo nell’art. 15, lett. b dello Statuto dei lavoratori. Lo Statuto dei lavoratori ha avuto il compito di affermare l’applicabilità di principi costituzionali all’interno dei luoghi di lavoro.Le esigenze aziendali possono giustificare degli spostamenti, questi spostamenti possono comportare la conservazione delle mansioni o mansioni equivalenti, ma lo spostamento non deve essere basato su ragioni di discriminazione variamente intese e non può essere contrario a principi di correttezza.La nozione di trasferimento.Non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra. Abbiamo la dif-

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ferenza concettuale tra trasferimento e spostamento. Il trasferimento è quello esterno all’unità produttiva, da una unità produttiva a un’altra. Lo spostamento è quello interno.Differenza tra trasferta e trasferimento: la differenza sta nella temporaneità del mutamento del luogo dell’adempimento dell’obbligazione di lavoro. C’è trasfer-ta quando è previsto il rientro; viceversa il trasferimento è tendenzialmente dura-turo, non è previsto un rientro; non necessariamente il trasferimento deve essere definitivo, può esserlo potenzialmente.In sostanza la differenza sta nella temporaneità secondo la dichiarazione che il datore di lavoro decide di assumere.Differenza tra trasferimento e comando. Il comando ha caratteristiche autonome. Ha caratteristiche di temporaneità. Il comando comporta che il luogo di adempi-mento è di un terzo, quindi la prestazione viene resa a favore di un terzo.Nel caso della trasferta, il vincolo organizzativo del lavoratore resta forte con il datore di lavoro che l’ha mandato in trasferta presso terzi.Il trasferimento collettivo.Il trasferimento collettivo non esiste in sé come negozio unitario, esiste una serie di trasferimenti individuali e una serie di licenziamenti. Il trasferimento colletti-vo che coincide con l’insieme dei lavoratori di una unità produttiva esula dall’art. 2103. Se il trasferimento riguarda più lavoratori ma non la totalità dell’unità produttiva, l’art. 2103 si applica come se si trattasse di un trasferimento indivi-duale.Il trasferimento disciplinare.Il trasferimento non può essere un provvedimento disciplinare.Sanzioni per motivi illeciti.Se le ragioni tecniche, organizzative, produttive non ci sono, o c’è un motivo il-lecito unico determinante, il trasferimento è illegittimo ed è nullo per violazione di legge. Norme relative al contratto collettivo.Vengono trattate le specifiche normative agli argomenti in oggetto, con specifico riferimento a quanto contenuto nel contratto collettivo del settore.

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XIV giornata - 7 maggio 2007

Relatore: Prof. Avv. Enrico Gragnoli

Temi trattati: Sicurezza e salute nei luoghi di lavoro

Sintesi degli argomenti sviluppati

Controllo a distanza dei lavoratori.L’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, norma molto combattuta e problematica, vieta l’introduzione di strumenti di videosorveglianza. La norma in questione si riferisce agli impianti audiovisivi di controllo, quindi agli impianti che consento-no a distanza di vedere e di sentire quello che fa il lavoratore, mentre in nessun modo fa riferimento al computer. Ma come si applica la norma? È possibile in-stallare impianti audiovisivi di controllo purchè essi abbiano finalità organizzati-ve diverse dal controllo sui lavoratori.Le telecamere devono essere comunque autorizzate e tale autorizzazione può essere concessa in alternativa tra due soggetti: o dalla rappresentanza sindacale aziendale, o dalla rappresentanza sindacale unitaria, oppure dai servizi ispettivi della direzione provinciale del lavoro. Inoltre, così come previsto dal Decreto Legislativo 196/2003, i lavoratori sottoposti devono essere preventivamente in-formati.Tutela della sicurezza del lavoratore.La norma di riferimento è l’art. 2087 del codice civile, secondo la quale il lavora-tore ha diritto che sia tutelata la sua integrità fisica e la sua integrità morale, e per converso il datore di lavoro ha l’obbligo di proteggere l’integrità fisica e il be-nessere morale del prestatore d’opera, adottando ogni misura volta a raggiungere questo scopo. È responsabile anche per la colpa generica, cioè qualora non violi alcuna norma specifica, ma abbia mancato di porre in essere una regola cautelare, una regola di tutela del lavoratore, una regola di prudenza, che avrebbe dovuto identificare sulla base della sua normale prudenza.Molestie sessuali.Tale aspetto sta a metà strada tra il danno fisico e il danno morale. Solitamente risponde il datore di lavoro per le molestie sessuali commesse ai danni di una dipendente; risponde ai sensi dell’art. 2049 del codice civile per il solo fatto che il comportamento è stato tenuto da un suo dipendente (responsabilità per fatto altrui). Naturalmente il datore avrà il diritto di rivalersi sul suo dipendente, in prima battuta sul trattamento di fine rapporto e poi se il danno è molto grave e il

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trattamento di fine rapporto non sufficiente, potrà agire in via esecutiva.Mobbing. Tipica forma di violazione al benessere morale che ciascun lavoratore ha nel luogo di lavoro. L’art. 2087 del codice civile impone al datore di tutelare l’integrità fisica ma anche l’integrità morale intesa come tutela di condizioni di normale andamento relazionale dei rapporti in cui ciascun lavoratore possa esprimere il suo saper fare, la sua personalità in modo sereno. La tipica forma di trasgressione a questo dovere è il mobbing, l’antitesi del dovere di tutelare il benessere morale del lavoratore. Costituisce una serie di comportamenti illeciti in cui vi è un dolo di rendere danno al lavoratore.

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XV giornata - 9 maggio 2007

Relatore: Prof. Avv. Alberto Pizzoferrato

Temi trattati: I contratti di lavoro

Sintesi degli argomenti sviluppati

I contratti di somministrazione.Contratti commerciali con cui l’impresa si assicura la disponibilità di uno o più lavoratori per una certa attività a tempo indeterminato o determinato. Un profi-lo fondamentale in tema di somministrazione è quello comune dell’indicazione specifica dei motivi tecnico, organizzativi, produttivi e sostitutivi che legittimano il ricorso alla somministrazione a tempo determinato. Non basta che nella so-stanza ricorra una tale ragione per essere legittimo il contratto, è necessario che questa ragione sia all’inizio del rapporto di lavoro, specificatamente indicata ed individuata nel contratto di somministrazione, che lega l’impresa utilizzatrice con l’agenzia di lavoro somministrato. Ci deve essere questa specificazione dei motivi, deve essere contestualizzata rispetto alla situazione interna aziendale, quindi, nel momento in cui si sigla un contratto di somministrazione a tempo determinato, bisogna specificare quali di queste ragioni produttive ricorrono nel caso concreto. Ragioni che devono essere di carattere temporaneo eccezionale, limitate ad un determinato progetto temporalmente pre-definibile. Non esistono limiti quantitativi previsti dalla legge al ricorso alla somministrazione a tempo determinato, tali limiti sono rinviati dal legislatore alla contrattazione collettiva.Nell’ambito della somministrazione a tempo indeterminato invece ci sono delle restrizioni che non sono di tipo soggettivo, cioè che riguardano i singoli rapporti, ma si tratta di restrizioni di tipo oggettivo, cioè che riguardano l’attività sommi-nistrata. C’è la possibilità di recedere dal rapporto da parte dell’impresa utiliz-zatrice, il problema è che tale facoltà solitamente è soggetta da un lato ad una penale, dall’altro ad un preavviso minimo che le imprese fornitrici ovviamente tendono ad estendere.Appalto di servizi.Non si può ricorrere per il lavoro somministrato a soggetti non autorizzati, ma se ragioniamo in termini di servizio autonomo reso da un soggetto imprendito-riale, è evidente che nessun vincolo sussiste. In alcuni settori poi, tali soggetti rivestono la duplice veste di fornitori di lavoro somministrato e di appaltatori di servizio: classico caso sono le cooperative sociali che sono contestualmente

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anche accreditate per la somministrazione.L’apprendistato. Ridisciplinato dalla Legge Biagi, prevede tre tipologie: a) quello per l’espleta-mento del diritto-dovere di istruzione e formazione (praticamente assente nel nostro panorama applicativo), b) l’apprendistato professionalizzante, c) quello per il conseguimento di un diploma di formazione superiore. Essendo un contrat-to a termine, scade alla scadenza del termine stesso, non in maniera automatica, ma solo in forza di un atto di recesso esplicito, anteriore alla scadenza. Relativa-mente al concorso delle fonti sulla disciplina c’è stato prima un rinvio alla sola legge regionale, cioè si è detto che per gli aspetti legati alla formazione, esterna o interna all’azienda, spetta la definizione di questi elementi, cioè la durata, l’ar-ticolazione, le modalità di svolgimento, alla stessa legge regionale, perché la for-mazione professionale ricade in materia esclusiva di competenza delle Regioni. Quindi lo Stato, attraverso gli artt. 47 e seguenti del Decreto Legislativo 276, pone la normativa di cornice sulla disciplina del contratto e le Regioni quella più specifica in dettaglio, sugli aspetti legati alla formazione.

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XVI giornata - 28 maggio 2007

Relatore: Dott. Angelo Contessa

Temi trattati: Il concetto di persona nell'analisi transazionale, la comunicazione e le relazioni interpersonali, le transazioni e le regole della comunicazione, l'evoluzione umana tra adattamento e attaccamento.

Sintesi degli argomenti sviluppati

Teorie della personalità e psicoterapie sistematiche per la crescita e il cambia-mento della persona.L’Analisi transazionale come potente strumento nell’addestramento alla dire-zione e all’analisi delle organizzazioni per comprendere le persone, i rapporti e la comunicazione.Il modello degli stati dell’Io: il genitore, il Genitore normativo, il Genitore affet-tivo, il Bambino adattato, il Bambino libero, l’Adulto.Le transazioni: semplici, parallele, incrociate, ulteriori.La svalutazione come incapacità di considerare informazioni che permetterebbe-ro di risolvere un problema.Anatomia come insieme di tre capacità: la consapevolezza, la spontaneità e l’in-timità.Come stimolare l’autonomia nostra e altrui attraverso i nostri comportamenti.

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XVII giornata - 29 maggio 2007

Relatore: Dott. Angelo Contessa

Temi trattati: Il Copione, Il Sistema Ricatto, I Giochi, Il Sentimento e i Sentimenti Ricatto, La Tratto-Tipologia Analitico Transazionale.

Sintesi degli argomenti sviluppati

L’emozione come fenomeno complesso che riguarda l’uomo e che avviene su diversi piani: attivazione fisiologica, vissuto esperienziale e modelli comporta-mentali. Le quattro emozioni: paura, rabbia, tristezza e gioia.La competenza emotiva. Emozioni funzionali o disfunzionali.Il bisogno di stimoli quale meccanismo di sviluppo umano.Il bisogno di carezze: verbali/non verbali, positive/negative, condizionate/incon-dizionate, autentiche/di plastica.Le emozioni parassite e il racket, quale insieme di comportamenti messi in atto al di fuori di uno stato adulto di consapevolezza.I giochi psicologici, il triangolo drammatico tra salvatore, persecutore e vittima. Esseri umani quali vittime e beneficiari dei condizionamenti socio-culturali.Ingiunzioni, divieti che stabiliscono dei limiti sull’essere, sull’evolversi, sul fare e sul socializzare.Gli stati imposti dell’essere:non esistere, non essere se stessi, non star bene, non essere dei bambini, non crescere, non sentire, non pensare.Gli stati del fare: non, non riuscire, non essere importante.Gli stati del socializzare: non entrare in intimità, non far parte. Autoanalisi.La “Matrice di copione”.

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XVIII giornata - 5 luglio 2007

Relatore: Avv. Luca Zaccarelli

Temi trattati: L'orario di lavoro (Decreto Legislativo n. 66 del 2003 in vigore dal 1° settembre 2004 - Circolare del Ministero del Lavoro n. 8 del 2005).

Sintesi degli argomenti sviluppati

La nuova definizione di orario di lavoro, i tempi di viaggio, l’orario “normale” di lavoro, straordinari e deroghe alla durata settimanale, i contratti collettivi di lavoro (validità e limiti), periodi di ferie, di malattia, le assenze legate allo stato invalidante (infortuni, gravidanze ecc.),l’organizzazione del lavoro per i contratti di formazione/lavoro, per gli apprendisti,i tirocinanti, i cococo, i lavoratori a domicilio, il personale viaggiante.Il riposo giornaliero, riposi e frazionamenti d’orario, riposo compensativo, prote-zione “adeguata”, le compensazioni economiche, gli obblighi di comunicazione, indennità per ferie non godute in caso di risoluzione del rapporto di lavoro.Il lavoro notturno.

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XIX giornata - 18 settembre 2007

Relatore: Dott.ssa Maria Rosa Gheido

Temi trattati: Valutazione di adeguatezza patrimoniale delle banche: primi commenti alle nuove disposizioni; budget del personale; contratto di inserimento lavorativo.

Sintesi degli argomenti sviluppati

Le caratteristiche essenziali del Secondo pilastro di Basilea 2 e le norme di attua-zione contenute nelle Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche (titolo terzo) emanate dalla Vigilanza, con commenti alle possibili interpretazio-ni; la progressiva maturazione della percezione dei rischi all’interno delle banche italiane.La determinazione del costo del personale: rilevazione e controllo dei costi; ti-pologie contrattuali, fringe benefits. Il budget: scostamenti e correttivi. La re-tribuzione: aspetti fiscali e contributivi; retribuzioni in natura e fringe benefit; la forfetizzazione, i buoni pasto, i viaggi, l’alloggio in uso ai dipendenti; l’uso personale dell’auto aziendale, prestiti ai dipendenti, i contributi alla presidenza complementare; i premi per polizze assicurative e contributi per l’assistenza sa-nitaria, le tipologie contrattuali.Il contratto di inserimento lavorativo.Definizione delle aree per gli incentivi. Contratto di apprendistato. Lavorato-ri disoccupati o sospesi, collocati in Cassa Integrazione Guadagni Straordinari, iscritti nelle liste di mobilità, contratto di solidarietà, ricollocazione incentivata dei dirigenti, la sicurezza e gli sgravi per la formazione. Riduzione del costo del lavoro e bonus assunzione, la fidelizzazione del lavoratore, le clausole retributive nelle lettere di assunzione, le politiche incentivanti.

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XX giornata - 27 settembre 2007

Relatore: Dott.ssa Maria Rosa Gheido

Temi trattati: La determinazione del costo del personale: profili retributivi e assicurativi.

Sintesi degli argomenti sviluppati

Le maggiori e più significative voci di retribuzione. Obblighi contributivi. L’IRAP con le novità per l’alleggerimento del costo del lavoro per la maggiore deducibilità dalla base imponibile delle voci relative al personale.I contratti di inserimento lavorativo. La valutazione del datore di lavoro sulle capacità tecnico-organizzative e produttive.I contratti a termine tra vincoli e flessibilità. I presupposti per le cause di licen-ziamento. Organizzazione aziendale e esigenze del lavoratore.Maternità, malattia e calcolo delle indennità. Lavoro a progetto. Collaborazione coordinata e continuativa.La flessibilità. Luogo e orario di lavoro. L’ufficio paghe e la gestione dei colla-boratori.

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XXI - XXII giornata - 2 - 3 ottobre 2007

Relatori: Dott. Silvio De Tommaso Dott. Domenico Ruggeri

Temi trattati: La contrattazione di categoria La contrattazione di II° livello Gli accordi aziendali: opportunità e rischi La costituzione delle RSA La struttura delle OO:SS. regionale e nazionale Le agibilità sindacali Costituzione e diritti delle RSA

CCNL BCCSpecificità del CCNL BCC• Accordo del 27.09.2005 e nuove ipotesi di rinnovo•

contrattualeAccordo Regionale Emilia Romagna, sviluppo•

ed evoluzione CCNL BCC - parte speciale

Declaratoria generale• Quadri direttivi - profili, fungibilità,sostituzioni• Quadri direttivi - trattamento economico ed altre•

provvidenze, art. 98Aree Professionali - preposti a succursale,•

inquadramento minimoAree Professionali - assegnazione a mansioni superiori•

Sintesi degli argomenti sviluppati

Si tratta degli aspetti relativi alla parte sindacale lavoristica e della contrattazione di secondo livello, della contrattazione di primo livello, ma anche di tutte quelle parti relative appunto a tutte le libertà sindacali, quindi una disamina piuttosto diffusa e profonda di quello che sono le norme relative appunto alle libertà sin-dacali della legge 300 del ‘70, il famoso Statuto dei Lavoratori.I nostri referenti normalmente sono le Federazioni Regionali, ma lo sono anche al tempo stesso le Banche di Credito Cooperativo, che normalmente dovrebbero però rivolgersi alla propria Federazione ove sono associate, per poi, in termini di

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assoluta sussidiarietà, intervenire noi come Federcasse.Oggi come oggi si parla esclusivamente di una disciplina contrattuale per i di-rigenti con un unico livello di riferimento e auspichiamo che nel tempo questi livelli di riferimento per i dirigenti rimanga tale, cioè rimanga soltanto un livello e che quindi a livello aziendale non si realizzino distribuzioni articolate di livelli di dirigenza, come pure per quanto riguarda l’altra disciplina contrattuale si ha appunto il contratto collettivo nazionale di lavoro per quadri direttivi ed aree professionali.Attualmente sono in vigore due discipline contrattuali: quella per quadri direttivi ed aree professionali e quella del 27 settembre del 2005, quella disciplina con-trattuale è scaduta il 31 dicembre del 2005. L’altro contratto collettivo nazionale di lavoro è quello per il personale dirigente ed è quello stipulato in data 19 feb-braio 2002. Anch’esso scaduto il 31 dicembre del 2005. Ciò significa che i nostri trattamenti da un punto di vista economico e normativo sono fermi a quella data, 31 dicembre del 2005, per tutte le categorie di personale all’interno del sistema del credito cooperativo.È la prima volta nella storia del nostro sistema che assistiamo ad un tavolo sin-dacale assolutamente ricomposto, omogeneo ed unificato, che vede la presenza di tutte le organizzazioni sindacali dei lavoratori presenti nell’ambito del Credito Cooperativo. Per quanto riguarda invece il contratto collettivo nazionale di lavoro del perso-nale dirigente, ancorché sia scaduto al 31 dicembre 2005, non è stata presentata da parte delle organizzazioni sindacali alcuna piattaforma rivendicativa per il rinnovo dello stesso.Per quadri direttivi ripeto ed aree professionali abbiamo cercato di mettere in-sieme delle linee guida all’interno delle quali potrà muoversi questo rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro, nell’assoluta consapevolezza, quanto meno la parte normativa del C.C.N.L. del 27 settembre del 2005 non abbia biso-gno di una grandissima manutenzione.Non ci saranno molti spazi da parte nostra da un punto di vista di modifiche normative, anche perché con estrema sincerità e trasparenza, noi non potremmo peraltro alle organizzazioni sindacali chiedere ulteriori sensibili flessibilità da un punto di vista contrattuale, perché di flessibilità la nostra attuale disciplina contrattuale né ha tantissime.Alcune considerazioni sulla contrattazione di secondo livello.Questa contrattazione di secondo livello è una tornata contrattuale assolutamente atipica, si innesta su un rinnovo di contratto nazionale dove tiene in considera-zione tutta una serie di richieste che troviamo già nelle piattaforme rivendicati-ve dei contratti di secondo livello, in modo assolutamente omogeneo su tutto il territorio di riferimento, leggasi: mercato del lavoro, diarie, trasferte, indennità

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di abbandono, stanno sul contratto nazionale, stanno nei contratti di secondo livello. Quindi assolutamente fuori dal tempo.Siamo in una situazione assolutamente atipica, ci accingiamo a rinnovare un con-tratto nazionale con grande anticipo nella sua complessità e ci accingiamo a rin-novare dei contratti di secondo livello che scadono il 31 dicembre 2007. L’uno, primo livello nazionale, con grandissimo anticipo, l’altro, secondo livello, tavolo locale, con grandissimo ritardo. I nostri assetti contrattuali, per quanto riguarda il Credito Cooperativo, non fanno altro che riprodurre il modello del protocollo del 23 luglio del 93 in fin dei conti, e tengono in considerazione un primo livello di contrattazione a livello nazionale e un secondo livello di contrattazione radicato a livello regionale.Poi esiste anche in alternativa al livello regionale una contrattazione radicata a livello aziendale per quelle destinatarie della contrattazione di secondo livello quali: Iccrea Banca S.p.A., Iccrea Holding, Aureo Gestioni, Agrileasing, Iside, e quindi aziende per le quali sia prevista la contrattazione di secondo livello radicata a livello aziendale, però normalmente per noi il secondo livello di con-trattazione è a livello regionale. Quindi come si diceva per tutti gli ambiti di applicazione in questo contesto ovviamente la Federazione regionale di concerto con le organizzazioni sindacali locali, dovrà pervenire ad un equilibrio comples-sivo affinché il risultato prodotto possa essere fruibile da tutte le BCC associate a questo territorio di riferimento, dalla più piccola alla più grande.Le libertà sindacali. La fonte normativa principe di riferimento che è la legge 20 maggio del 1970 n. 300, cosiddetta Statuto dei lavoratori. All’articolo 19 del titolo terzo della legge 300 si parla di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali.Nell’ambito del Credito Cooperativo l’unica norma di riferimento per la costi-tuzione della rappresentanza sindacale aziendale è appunto costituita dalla legge 300.

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XXIII giornata - 23 ottobre 2007

Relatori: Dott. Oliviero Bernardi Dott. Tommaso Colajacovo Dott.ssa Isabella Covili Faggioli Prof. Enrico Gragnoli Dott. Daniele Quadrelli Dott. Giuseppe Alai

Temi trattati: Gestione e sviluppo delle risorse umane nel rapporto di lavoro subordinato in BCC Sintesi degli argomenti sviluppati

La gestione del personale nei contesti aziendali: esperienze e testimonianze. Mo-delli di gestione e sviluppo delle risorse umane nel settore bancario cooperativo: esperienze e testimonianze. Federcasse, Federazioni Regionali, BCC: sinergie, competenze e responsabilità nella gestione del personale. Il sistema delle relazioni sindacali nel Credito Cooperativo: analisi e competen-za.L’associarsi alla Federazione regionale da parte delle BCC e alla Federazione Italiana da parte delle Federazioni locali e degli altri organismi di sistema com-porta, nell’ambito di quelle che sono le regole del diritto sindacale,il conferimen-to di un mandato di rappresentanza sindacale. Ciò fa sì che quello che si decide in questi ambiti diventa efficace direttamente sulle Associate.Se oggi il Contratto Collettivo Nazionale per talune realtà finisce per calarsi in una regolamentazione che molto spesso è di dettaglio mentre invece la tendenza è quella di andare a realizzare una contrattazione di cornice o “leggera” che serva a definire gli istituti fondamentali che devono essere regolati in maniera unifor-me per tutti gli appartenenti a quella categoria lasciando alla contrattazione di secondo livello gli ambiti, gli spazi che meglio riescono a definire una disciplina secondo le esigenze locali, aziendali e territoriali, in vicinanza a dove si produce il bene, il servizio, a dove si svolge l’attività lavorativa.La funzione Risorse Umane nel gruppo bancario Iccrea.I temi affrontati riguardano l’integrazione, le modalità operative delle società, i contratti integrativi, il sistema incentivante. L’integrazione è logistica, normativa e culturale.Il ruolo della Funzione Risorse Umane è impegnato a favorire i processi di inte-

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grazione, ad armonizzare i comportamenti normativi e regolamentari nelle diver-se aziende, a creare consenso su un comune sistema di valori. Dall’unificazione logistica i processi di integrazione si allargano alla formazione e allo sviluppo avviando progetti di alta formazione, individuando le “risorse chiave” attraverso indagini sul capitale manageriale, unificando i sistemi di incentivazione. La gestione e lo sviluppo del personale in azienda.I valori sono importanti perché, se c’è aderenza tra i valori dell’individuo e i va-lori dell’azienda, il matrimonio lavorativo funziona meglio. Bisogna considerare ogni persona come un cliente interno perché normalmente il lavoro che si porta avanti arriva da qualcuno e va a qualcun altro. Bisogna far lavorare bene le per-sone, senza troppe difficoltà. Stiamo parlando di integrazione e quindi di come trattenere le persone chiave, i talenti.

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IN CONCLUSIONE

Giuseppe Alai Presidente Commissione Formazione Federazione BCC Emilia Romagna

L’iniziativa che abbiamo riassunto in questo “Quaderno” è di grande rilievo sia dal punto di vista della ricerca di soluzioni nuove sia nelle ottiche imprenditoria-le e motivazionale.In qualità di Vice Presidente della Federazione, delegato a coordinare questo set-tore, ho potuto acquisire notevoli esperienze sulle dinamiche che ruotano intorno al mondo della formazione.Spesse volte la formazione viene sbandierata in termini di numeri e in termini di importi; è la cosa che serve di meno, nel senso che la formazione, il saper fare non è sufficiente in sé, lo abbiamo già detto tante volte; conta anche il voler fare e conta nel mondo imprenditoriale mettere nelle condizioni di poter fare chi sa fare e può fare le cose che ha appreso. Oggi, a fronte di una realtà che pone nel mondo del lavoro una quantità enorme di persone, siamo nell’era del sapere per-ché chi lavora alla produzione è inferiore numericamente a chi lavora nei servizi o negli uffici. Oggi nel mondo della nostra scuola un diploma di ragioniere o di geometra o di perito non si nega a nessuno. Dobbiamo essere molto chiari; oggi, con un po’ di impegno, si consegue anche una laurea. Però noi sappiamo che nel mondo del lavoro i valori che si vanno ad esprimere, le motivazioni, la capacità di espressione delle proprie aspettative di vita, sono altra cosa. Credo che, dopo il saper fare, il poter fare, il voler fare, debba essere valutata anche la volontà di essere, nel proprio ambiente. E questo non è secondario, perché oggi la coopera-zione viene attaccata sul fronte fiscale, con alcune denunce presso la Comunità Economica Europea che stiamo affrontando con grande difficoltà. Io penso che, dopo il libro “Falce e carrello”, uscirà anche il libro “Falce e sportello”, perché le agevolazioni fiscali che stanno ricevendo le cooperative sono presentate in modo ambiguo e la risposta migliore è quella di dotarci di quelle responsabilità e di quelle capacità critiche capaci di tradursi in comportamenti che facciano percepire una cultura adeguata nel nostro modo di lavorare. Lavorare in coope-razione è difficile, occorre più senso del dovere, occorre più senso del capire, ma soprattutto occorre più autonomia propositiva.Questa è la grande differenza, questo è il paradosso cooperativo; nella stessa impresa c’è il cliente, il socio, l’azionista, il lavoratore. Troppi ruoli, dice qualcuno. La conciliazione di questi ruoli è difficile, poiché siamo dentro ad un’ampia complessità, lo sappiamo, sono stressanti da un lato ma appassionanti , avvincenti dall’altro. Per noi non è soltanto una questione di

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prezzo stare sul mercato, ma è questione di servizio, di far percepire l’utilità di esistere; se no siamo una banca come tutte le altre.Alla fine credo che la cosa più importante sia la spiegazione che ogni persona dà a se stesso quando ha finito una propria giornata di lavoro. E’ la forza attraverso la quale nello stesso ambiente di lavoro, a parità di condizioni, c’è chi si dà da fare come un dannato e c’è qualcuno invece che cerca di non fare un tubo. E’ lo stesso ambiente, sono gli stessi dirigenti, si vive la stessa situazione e c’è qualcu-no che ha dentro di sé una forza spaventosa per dare il doppio, il triplo di un altro. Da cosa salta fuori questa forza? Qual è il meccanismo interiore che fa scattare queste volontà? Io credo che sia prima di tutto la soddisfazione di se stessi, la ricerca di dare una spiegazione a se stessi del proprio lavoro, una ragione della propria condizione che spesse volte non è tanto nel fatto di arrivare allo stipendio a fine mese oppure nel vedersi collocati dal punto di vista gerarchico, ma sta nella capacità di dare valore a se stessi del proprio lavoro, della capacità di essere obiettivi con se stessi, di essere critici con se stessi. Queste opportunità credo che in una Banca di Credito Cooperativo siano maggiori rispetto a qualsiasi altra realtà. Ed è dunque, in conclusione, nella possibilità di individuare un metodo di formazione, di cultura del saper essere collaboratori in un Banca di Credito Coo-perativo, che si traduce tutto lo sforzo che stiamo compiendo in questi anni.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2008idea grafica: Marco BugamelliRedazione: Roberto Zalambani, Alessandro TrombettiRealizzazione editoriale e stampa: Edistudio di G. Forlani - Molinella (Bo)

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