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Seconda Università degli Studi di Napoli
Facoltà di Giurisprudenza
I Simboli Religiosi nella Giurisprudenza Italiana
di Erasmo Nasta
Relatore: Antonio Fuccillo
A. A. 2010-11
1
INDICE
CAPITOLO PRIMO
LA SIMBOLOGIA RELIGIOSA TRA
ANTROPOLOGIA E SOCIOLOGIA
1. L’antropologia del simbolismo religioso 3
2. Prospettive sociologiche dei simboli religiosi 9
3. I simboli nei diritti confessionali 14
CAPITOLO SECONDO
LAICITÀ DELLO STATO, PLURALISMO CONFESSIONALE E
SIMBOLI RELIGIOSI
1. Problema attuale della società 22
2. Tutela delle diversità e principio di eguaglianza 37
3. Laicità dello stato, pluralismo confessionale e simboli religiosi 40
4. Verso un codice interpretativo laico condiviso. 51
2
CAPITOLO TERZO
SIMBOLI RELIGIOSI COLLETTIVI
NEGLI SPAZI PUBBLICI
1. Brevi cenni introduttivi 53
2. L’esposizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici, in particolare:
nelle aule scolastiche 55
3. … Nei seggi elettorali 77
4. … Nelle aule giudiziarie. 89
CAPITOLO QUARTO
I SIMBOLI RELIGIOSI INDIVIDUALI
NEI LUOGHI PUBBLICI
1. Esposizione dei simboli individuali e libertà religiosa 97
2. Il caso del pugnale Sikh (cd. Kirpan) 102
3. Il caso del turbante e del velo islamico 107
4. Il caso del tatuaggio 116
Bibliografia di riferimento 120
3
CAPITOLO PRIMO
LA SIMBOLOGIA RELIGIOSA
TRA ANTROPOLOGIA E SOCIOLOGIA
SOMMARIO: 1. L‟antropologia del simbolismo religioso. 2. Prospettive sociologiche dei
simboli religiosi. 3. I simboli nei diritti confessionali.
Il simbolo religioso è un segno1 o un espressione sensibile di un og-
getto o di un‟idea non visibile, del mondo divino, spontaneamente adopera-
to tutte le volte che l‟individuo, o il gruppo, intende pensare alla sfera mi-
steriosa del sacro. Possiamo distinguere varie specie di simboli, in base alla
loro natura, sono realistici, idealistici e razionalistici; riguardo la loro
espressione, invece, sono grafici, gestiti e formulati2.
Il valore realistico si ha nell‟identificazione alla cosa cui il simbolo si
riferisce, in quanto appartenente ad un individuo o un gruppo di tipo primi-
tivo. È proprio in questa realtà, cioè quella primitiva, che c‟è una stretta re-
1 U. GALIMBERTI, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo, Milano, 2001, p. 71
ss., rileva che: C. G. Jung distingue simbolo e segno sulla circostanza che il primo rinvia a qual-
cosa di sconosciuto, e presuppone sempre che «l‟espressione scelta sia la migliore indicazione o
formulazione possibile di un dato fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è ricono-
sciuta o considerata necessaria». 2 Cfr. ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA, Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed
arti, Roma, 1936, vol.XXXI, p. 796
4
lazione tra il rappresentante ed il rappresentato, dove gli individui vedono il
vero carattere e motivo spiritico del simbolo, dietro la cosa materiale che lo
rappresenta. Esempio di questa mistificazione sono i riti simbolici di magia
imitativa3, quando nelle danze magiche, i danzatori rivestono la propria pel-
le ed indossano la maschera dell‟animale che identificano.
Oltre il suo valore realistico, il simbolo riflette la verità religiosa che
rappresenta, si pone in modo non troppo razionale per non perdere la sua
efficacia mistica basata sul senso dell‟inconcepibile e del misterioso. Non
sarà una riproduzione completa e fedele della realtà, come una fotografia di
ciò che rappresenta, in modo che possa essere immediatamente ricordato e
all‟occorrenza facilmente rappresentabile4.
Un simbolo parla per allusioni, esprime una certa esteriorità, ma vuole
dire qualcos‟altro, raggiungendo una realtà esclusa da un linguaggio più
concreto. Sembrerebbe più naturale credere che una affermazione diretta,
sia più esplicita e facile da ricordare rispetto a un‟affermazione indiretta,
che impone dei passaggi logici e verbali. In realtà, il simbolo condensa e
3 Nel mondo primitivo dei Lele, una popolazione che abita il limite meridionale della foresta
tropicale della regione del Kasai (Congo), la vita quotidiana era vissuta in base a credenze imi-
tative, ogni persona deve possedere la virtù del buhonyi, che significa vergogna, timidezza o
modestia, altrimenti corrisponde ad un animale, che non può avere tale virtù. Cfr. M. DOUGLAS,
Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita sociale, Bologna, 1985, p. 31 ss. 4 In senso contrario, un segno più misterioso e complicato, il pesce (ichthýs), simbolo di «Gesù
Cristo figlio di Dio salvatore», utilizzato dai primi cristiani come segno di riconoscimento:
quando un cristiano incontrava uno sconosciuto di cui aveva bisogno di conoscere la lealtà,
tracciava nella sabbia uno degli archi che compongono l'ichthýs. Se l'altro completava il segno, i
due individui si riconoscevano come seguaci di Cristo e sapevano di potersi fidare l'uno dell'al-
tro; J. DANIÉLOU, I simboli cristiani primitivi, (trad. a cura di A. PROIETTO), Roma, 1997.
5
contrae la verità là dove la definizione letterale costringe a dilungarsi in de-
scrizione e perifrasi, conservando suggestioni recondite che
un‟affermazione semplice può ridurre e dissolvere5.
La chiesa, fin dalle sue origini, pare avesse adottato il concetto di sim-
bolo come affermazione autorevole e formale di fede religiosa, tale da dif-
ferenziare i fedeli dai profani. In particolare il “simbolo” si riferiva alla
confessione di fede recitata dal neofito al momento del Battesimo sotto
forma del così detto Credo o “Simbolo Apostolico”6.
Il simbolo mostra infatti un architettura a doppio senso, è un segno la
cui specifica valenza rinvia ad una cosa che lascia intravedere un significa-
to, ed è l‟effetto di un processo analogico che è evocato soltanto da quel
senso primario7. Ma a differenza del segno, il simbolo non serve a conse-
guire risultati di conoscenza che siano verificabili o argomentabili, ma ad
evocare, in modo altamente sintetico sul piano cognitivo, rappresentazioni
intellettuali o immaginali.
L‟uomo usa segni astratti e convenzionali, cioè parole e simboli per
definire razionalmente il mondo e la realtà che lo costituiscono. Già
l‟artista paleolitico, che tracciava nel fondo delle caverne i graffiti che raf-
figuravano cose o animali, disegnavano il mondo organizzandolo secondo
personali esigenze logiche (magico-religiose, categoriali e funzionali) e con 5 E. WIND, L’eloquenza dei simboli, (a cura di T. ANDERSON), Milano, 1992, p. 3ss.
6 M. LUNGHI, Antropologia del simbolo religioso. Percorsi sacri a Brescia, Milano, 1997, p. 16
ss. 7 J. ROCOUER, L’interpretazione. Saggio su Freud, Milano, 1967, p. 30.
6
queste operazioni si poneva a incommensurabile distanza rispetto a tutti gli
altri animali. In seguito, scoperto il grande valore simbolico della parola, il
mondo, fino ad allora muto e silenzioso, fu interpretato dall‟uomo, che di-
venne, con le parole di Merleau-Ponty, “l‟unica prosa e poesia del cosmo”8.
Il simbolismo si manifesta attraverso due espressioni distinte: una ico-
nico-figurativa, relativa a forme materiali, e l‟altra semiotico-linguistica,
propria della comunicazione parlata. Il primo tipo rispecchia le immagini
esteriori che permettono la comprensione delle verità metafisiche, in quan-
to non esprimibili in altro modo se non per la componente sensibile della
conoscenza umana.
Il simbolismo verbale, invece, è la forma stessa del linguaggio che si
rivela capace di orientare il pensiero a superare il livello fisico della realtà
che attraverso l‟intuizione e la dialettica raggiunge la realtà sovrumana.
Tutto ciò è stato collegato dai pensatori cristiani di tutti i tempi
all‟affermazione contenuta nel prologo del Vangelo di Giovanni “In princi-
pio era il verbo… Tutto è stato fatto per mezzo di lui”. In tal modo il Cri-
stianesimo ha offerto un fondamento alla lettura simbolica del mondo dove
l‟opera del Verbo è anche la sua manifestazione considerando il creato un
linguaggio divino che va compreso in tutto ciò che vuole significare.
Commenta René Guenon «Se il verbo è il pensiero all‟interno e Parola
all‟esterno e se il mondo è l‟effetto della parola divina proferita all‟origine
8 M. MERLEAU-PONTY, L'oeil et l'esprit, Paris 1960, p.85 ss.
7
dei tempi, la natura stessa può essere presa come simbolo della realtà so-
prannaturale… Tale corrispondenza è il vero fondamento del simbolismo
ed è perciò che le leggi di un ambito inferiore possono sempre essere prese
per simboleggiare la realtà di ordine superiore, ove esse hanno la loro ori-
gine profonda, che è nello stesso tempo il loro principio e la loro fine»9.
Attraverso i secoli, l‟uso dei simboli, si è manifestato come un feno-
meno umano universale profondamente radicato nei codici di comunica-
zione e fondato sullo stesso uso del linguaggio entrando a far parte delle
prerogative dei rapporti sociali. E ciò che colpisce, anche considerando la
scena mondiale contemporanea, è la larga diffusione e l‟uso della nozione
di simbolismo per indicare soggetti, persone e avvenimenti di interesse ge-
nerale10
.
Per comporre in modo tra loro solidale le nozioni di simbolismo e di
interpretazione, sono considerati come “due versanti”, produzione e rice-
zione, dello stesso fenomeno, sicché un testo o un discorso diventa simbo-
lico11
nel momento in cui noi, attraverso un lavoro di interpretazione, sco-
priamo che esiste un senso indiretto12
.
Questo senso indiretto può essere paragonato a quel carattere sopran-
naturale del simbolo che si sostituisce ai sensi e all‟intelletto che uniti rap-
9 R. GUENON, Simboli della scienza sacra, Milano, 1990, p. 22.
10 R. FIRTH, I simboli e le mode, Bari, 1977, p. 6 ss.
11 Si noti come nel Tempio Etrusco, il quale aveva corrispondenza con l‟universo, era possibile
trarre gli auspici consultando il fegato degli animali cha a sua volta corrispondeva, nelle sue
singole parti, alle diverse zone del cosmo. 12
T. TODOROV, Simbolismo e interpretazione, Napoli, 1986, p. 16.
8
presentano la realtà, costituendo però, i nemici naturali della religione.
L‟uomo preferisce, almeno a livello immaginale, i sistemi di simboli ai si-
stemi di cose, i sistemi di significati ai sistemi di fatti, e proprio questo fa-
scino irreale rende la religione pericolosa13
.
I simboli religiosi sono stati utilizzati dall‟homo religiosus per tra-
scendere l‟ambiente temporale ed entrare in contatto con le potenze so-
prannaturali. Nel momento in cui l‟uomo prende coscienza del proprio de-
stino e della sua incapacità di dominarlo, vuole ricorrere ad una potenza
superiore a lui, misteriosa e ineffabile, che lo aiuti a mediare tra l‟oggetto
simbolico a cui tende e lui stesso. I simboli rappresentano, quindi, per
l‟homo religiosus un elemento di equilibrio, di ordine e di stabilità14
.
Non si può, però, solo puntare l‟attenzione sul significato dei simboli
ed i loro contenuti rappresentativi, i loro effetti pratici, la loro carica se-
mantica, bisogna chiedersi quali forze si nascondono dietro e per quali
meccanismi sono in grado di produrre certi effetti15
.
13
Cfr. E. DIENI, A. FERRARI, V. PACILLO, (con la collaborazione di L. L. VALLAURI) Simboli e
realizzazione, in ID., Symbolon/Diabolon. Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale,
Bologna, 2005, p. 24. 14
J. RIES, Trattato di Antropologia del sacro. Le origini e il problema dell’homo religiosus, Mi-
lano, 1989, p. 265. 15
Cfr. V. LANTERNANI, Antropologia religiosa: etnologia, storia, folklore, Bari, 1997, p. 154 ss.
9
2. Prospettive sociologiche dei simboli religiosi.
Le nostre istituzioni sociali ed economiche, la nostra cultura, la nostra
arte e musica, con molte delle nostre aspirazioni sono adesso legate a quelle
del resto del mondo, che costituiscono un villaggio globale multiculturale
pieno di promesse e di conflitti16
.
Un processo, quello verso il villaggio globale, di cui le religioni uni-
versali ne costituiscono parte integrante, in quanto hanno la capacità di ri-
spondere a domande fondamentali in modo comprensibile, creando quelle
“Verità”, che nella società multiculturale possono entrare in competizione
fra loro e generare conflitti tra i popoli che le praticano.
La società è l‟insieme di relazioni sociali che intercorrono tra gli indi-
vidui. La relazione sociale è allo stesso tempo, referenza simbolica, che ri-
ferisce qualcosa a qualcos‟altro all‟interno di un quadro di significati sim-
bolici, connessione o vincolo strutturale, cioè un legame che costituisce sia
vincolo che risorsa, e fenomeno emergente di un agire reciproco, giacché la
relazione ha una propria connotazione che trascende quella dei soggetti che
la pongono in essere17
.
L‟identità si fonda sulla relazione vissuta come appartenenza, perché
la stessa è «la capacità di elaborare ciò che la relazione sociale rileva come
16
Cfr. R. KURTZ LESTER, Le religioni nell’era della globalizzazione. Una prospettiva sociologi-
ca, Bologna, 2000, p. 14. 17
P. DONATI, Teoria relazionale della società, Milano, 1991, p. 25.
10
sua storia normativa»18
. L‟identità implica un senso di appartenenza e di
reciprocità ad un determinato ordine sociale, simbolico e relazionale.
Il simbolo è letto nella società moderna sia alla luce delle relazioni che
si costituiscono tra esso e coloro che lo utilizzano, che alla luce delle rela-
zioni che si costituiscono tra gli attori sociali che si servono di simboli; i
quali generano e documentano i legami sociali, rinsaldando le relazioni già
esistenti e consentendo di stabilire una reciprocità anche tra persone che
non si conoscono personalmente. Come osservato da Gadamer, «il simbolo
indica ciò che non vale solo per il contenuto, ma per la possibilità di essere
esibito; esso è quindi un documento attraverso il quale i membri di una co-
munità si riconoscono; sia esso un simbolo religioso, o si presenti in senso
profano, come un distintivo, un lasciapassare, una parola d‟ordine»19
.
Un altro sociologo, Durkheim, ritiene che all‟interno del sistema sim-
bolico, il simbolo ha il potere di costruzione della realtà che tende a stabili-
re un ordine gnoseologico, in una realtà conformistica, caratterizzata
dall‟omogeneità del tempo, dello spazio che rende possibile l‟accordo tra i
soggetti coinvolti. Individua così i simboli come gli strumenti per eccellen-
za dell‟integrazione sociale, poiché strumento di conoscenza, oltre che di
comunicazione, rendono possibile il consensus sul senso del mondo sociale
18
P. DONATI, Teoria relazionale della società, cit., p. 26. 19
H.G. GADAMER, Wahrheit undMethode. Tubingen, 1960, trad. it. di G. VATTIMO, Verità e
Metodo, Milano, 1983, p. 100.
11
stesso20
. Nell‟indagare sui nessi tra il simbolismo sociale e la religione,
Durkheim interpreta in modo simbolico credenze e riti totemici21
, conside-
rando la venerazione dei popoli primitivi, non rivolta agli animali ma alla
società, perché gli stessi animali sono la sua figura e il suo emblema. Da
queste proposizioni si coglie in pieno il pensiero dell‟autore che considera
la società essenzialmente simbolica e la vita sociale il fondamento
dell‟attività relazionale dell‟uomo.
Nelle relazioni sociali i simboli, se non sono imposti, assolvono una
funzione aggregante ed esprimono precisi messaggi di appartenenza alla
stessa identità del gruppo sociale. Il simbolo ha la capacità di sintetizzare i
messaggi che provengono dai membri, e di comunicarli con immediatezza,
costituendo tradizionalmente uno strumento di richiamo identitario capace
di suscitare e rafforzare appartenenze, ma al tempo stesso determinare
esclusioni rispetto al gruppo22
.
20
Cfr. P. DONATI (a cura di S. BELARDINELLI, L. ALLODI), Sociologia della cultura. Sociologia,
cambiamento e politica sociale, Milano 2006, p. 106. 21
ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA, Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti,
Roma, 1936, vol. XXXIV, p. 113-114; il totem è un oggetto materiale, un corpo celeste, un
animale o una pianta che, nelle credenze delle tribù primitive, ha dato origine ad un gruppo et-
nico, con la conseguenza di un rapporto di discendenza e parentela, che determina degli obbli-
ghi all‟interno del gruppo, talvolta di carattere religioso. Nasce così Il Totemismo, un sistema di
discendenze e di parentele fondato sul totem. Secondo le varie credenze, esso presuppone
l‟esistenza di animali-antenati, che avrebbero dato origine al gruppo, diventandone anche i pro-
tettori. Ogni gruppo etnico si identificava con un animale. E infatti, ogni membro del gruppo
non solo pensava di discendere da un determinato animale (il totem), ma pensava anche di po-
tersi appropriare, con iniziazioni particolari, delle qualità di questo animale: ad esempio, della
forza, del coraggio, della bellezza. Le caratteristiche degli animali- totem hanno una forte valen-
za simbolica. 22
Cfr. J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, 1996, trad. it. Milano,
2002, pag. 141 ss.
12
Il simbolo esprime sempre la presenza di qualcosa di assente o che è
impossibile percepire, qualcosa la cui esistenza e conoscibilità dipendono
dall‟interpretazione degli stessi segni, che possono essere visti in modo di-
verso da persone o gruppi appartenenti a tradizioni culturali e religiose dif-
ferenti. Questa dimensione di presenza/assenza favorisce il passaggio da
una considerazione delle realtà esterne come oggetti, ad una loro percezio-
ne come immagini dotate di una peculiare capacità unificante23
.
In ambito sociologico è possibile distingue tre funzioni fondamentali
dei riti, simboli religiosi secondo cui possono essere percepiti e vissuti: la
funzione espressiva, servono alla manifestazione dei sentimenti verso Dio e
mostrano il modo di concepire e realizzare i rapporti con Lui, la funzione
strumentale, viene utilizzato il simbolo per raggiungere un fine o dei valori
di natura spirituali (benefici, miracoli, ecc.), ed infine la funzione esisten-
ziale, per cui il credente cerca di raggiungere il consolidamento del proprio
standard religioso e dei rapporti con coloro che condividono le stesse cre-
denze per dare i buon esempio e testimonianza sia a coloro che vivono nel-
la fede che a chi è lontano24
.
È possibile distinguere vari livelli in cui possono essere collocati i
simboli religiosi, sul piano socio-religioso, riferendosi alla natura intrinseca
dei singoli simboli e gli effetti che essi producono da una esposizione ripe-
23
Cfr. J. VIDAL, Sacro, simbolo, creatività, 1990, trad. it. Di G. CICCANTI, Milano, 1992, p. 46. 24
Cfr. G. SCARVAGLIERI, Sociologia della religione, Roma, 2005, p. 155.
13
titiva all‟interno della società, sul piano socio-giuridico, si fa riferimento
alla obbligatorietà secondo il rispettivo disposto delle norme confessionali,
ma non è da sottovalutare l‟interpretazione culturale e la creazione sponta-
nea di pratiche e simboli che andranno a costituire nel tempo consuetudini.
Ulteriore rilevanza coglie sul piano socio-organizzativo il carattere indivi-
duale, pubblico o privato, del simbolo religioso che si intende esprimere in
una data comunità come atto sociale basato su modelli di pensiero e di
comportamento collegati con la cultura locale25
.
Molto spesso i simboli non sono utilizzati per la loro valore teologico,
ma per la loro valenza culturale o la motivazione soggettiva presente nei
singoli individui. Per cui la partecipazione delle persone alla realtà simboli-
ca ed alla sua effettiva comprensione resta piuttosto implicita e non sempre
è vissuta coscientemente, ma questo non esclude che quel soggetto non
possa sentire comunque la presenza di un “bisogno” esplicitato in altro mo-
do cosciente ed adeguato26
.
25
Cfr. G. SCARVAGLIERI, Sociologia della religione, cit., p. 156 ss. 26
Cfr. A. VERGOTE, Psicologia religiosa, Roma, 1967, p. 45 ss.
14
3. I simboli nei diritti confessionali.
Parlare di simboli religiosi, senza conoscere la loro vera natura, è im-
proprio per uno studio in tal senso. Un simbolo religioso è considerato tale
perché ha un determinato significato nella cultura di un popolo, ma anche e
soprattutto nel diritto di quella confessione religiosa che rappresenta.
L‟origine del simbolo religioso non è possibile riconoscerla, nella gran
parte dei casi, a dichiarazioni esplicite contenute nei libri Sacri, ma diven-
tano il frutto dell‟interpretazione di suddetti libri da parte dei credenti, e di
tradizioni che sono tramandate dalle origini della confessione religiosa.
Storicamente la Croce nasce come simbolo Pagano, ma viene poi fatta
propria dai primi cristiani per il suo utilizzo nella crocifissione, un‟antica
forma di punizione, che avveniva su un albero senza una forma ben distin-
ta, ed il semplice palo fu chiamato croce o crux.
È con il secondo Concilio di Nicea (787), convocato per riformare gli
abusi e terminare le dispute dell‟iconoclastia, che venne definita la venera-
zione da parte e del fedele dovuta “alla croce preziosa e vivificatrice”27
co-
sì come alle immagini o rappresentazioni di Cristo. Questa è stata una pri-
ma regolamentazione da parte della Chiesa del simbolo Croce, visto che nel
periodo antecedente era utilizzata dai primi cristiani come simbolo per ri-
27
Secondo Concilio di Nicea. Dal 24 settembre al 23 ottobre 787, 8 sessioni. Papa Adriano I
(772-795). Convocato dall'Imperatrice Irene. Significato e liceità del culto delle immagini. 20
canoni.
15
cordare la crocifissione di Gesù Cristo e la sua morte come sacrificio verso
il prossimo.
A differenza del crocifisso, il velo islamico, pur non essendo menzio-
nato in modo diretto nelle sacre scritture, è reso obbligatorio dalle varie in-
terpretazioni di alcuni passi del Corano.
Tra i vari tipi di velo hejab, è la parola che oggi indica comunemente
la copertura della donna dai capelli fino al seno, tenendo scoperto parte del
viso. Nel Corano, però, hejab indica piuttosto un'azione28
: quella di tirare
una tenda, una cortina che impedisce lo sguardo indiscreto e divide lo spa-
zio privato da quello pubblico.
Storicamente, hejab non ha mai rappresentato un dogma nell'islam,
un'obbligazione giuridica o un simbolo religioso. I giuristi dell'islam classi-
co, quelli all'origine della formulazione del diritto musulmano per le quat-
tro grandi scuole giuridiche dell'islam, non si sono mai posti il problema
del velo. Il celebre giurista Qayrawin, morto nel 996, fondatore dell'univer-
sità teologica di Fez in Marocco, parla del velo soltanto in riferimento alla
preghiera rituale, quando le donne si recano in moschea per la preghiera del
venerdì: ed utilizza il termine khimar, per indicare un velo che copre la
donna dalla testa ai piedi. Egli non usa mai la parola hijab; lo stesso avvie-
ne per gli altri autori di quel periodo. Tutto ciò ha una ragione, in quel pe- 28
Il passaggio della parola hijab dall´indicare un'azione all´indicare un oggetto avviene nel XIV
secolo con il giurista Ibn Taymiyya. Egli è il primo ad utilizzare la parola hijab per riferirsi al
velo in quanto oggetto, un velo che distingue le donne musulmane dalle non musulmane: esso
diventa segno distintivo dell'identità e dell'appartenenza.
16
riodo dell'islam classico i giuristi non avvertivano il bisogno di costruire
una teoria del diritto sul velo, perché nel medioevo la donna non aveva
rapporti con l‟esterno29
, non esce di casa, svolge la sua vita entro il perime-
tro dello spazio privato, e quando, molto raramente, esce, lo deve fare con
l'autorizzazione di una figura maschile, il padre, il marito o i fratelli, e per
motivi eccezionali come cerimonie o pellegrinaggi.
Il Libro sacro dell'Islam non entra nei dettagli sul velo: se debba copri-
re anche il volto, quanto debba essere lungo, come debba essere appuntato,
ma si limita a dichiarare che: «... Oh Profeta, dì alle tue spose, alle tue fi-
glie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere ricono-
sciute e non essere molestate...»30
, ed inoltre in un altro passo si può legge-
re: «... Dì alle credenti di abbassare i loro sguardi e di essere caste e di non
mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciare scendere
il loro velo fin sul petto e non mostrare ornamenti ad altri che ai loro mariti,
ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai
loro fratelli....»31
.
Secondo un‟interpretazione massimalista di quest‟ultimo versetto pro-
posta da Ibn Taymiyya la donna libera ha l'obbligo di velarsi, mentre la
schiava non è obbligata a farlo. Egli giustifica queste affermazioni basan-
dosi sull‟affermazione di principio del versetto di cui sopra, cui attribuisce 29
Dal Corano XXXIII. Al-Ahzâb, 33 «…Restate tranquille nelle vostre dimore e non mettetevi
in mostra come ai tempi dell'ignoranza». 30
Corano 33,59 31
Corano 24,30-31
17
valore normativo. Ma tutto ciò rimane un'interpretazione che inventa una
norma.
Sulla possibilità di indossare il velo da parte delle donne islamiche pe-
sano le interpretazioni che del corano sono state effettuate dai vari studiosi,
le quali creano un‟immagine della donna, così come intesa dal profeta
Maometto, sottomessa all‟uomo e che non deve fare nulla per guardare e
per farsi guardare, che deve nascondere le sue forme, ha fatto sì che nell'in-
conscio collettivo musulmano la femminilità sia associata al desiderio, in
modo che il sesso femminile diviene sinonimo di caos, di disordine; su di
esso incombe sempre il rischio dell'impurità. La donna inoltre, per il suo
ruolo riproduttivo è investita di un certo carattere sacrale: perciò trasgredire
il divieto di mostrarsi significa contaminare la purezza originaria.
Il carattere normativo delle interpretazioni che vengono fatte del Co-
rano viene attribuito dal testo stesso, per il quale coloro che credono
nell'unicità di Allah, non rendono l'adorazione ad altri che a Lui e Gli ob-
bediscono in tutto ciò che Egli ha ordinato: «In verità, coloro che dicono:
"Il nostro Signore è Allah" e poi si mantengono sul retto sentiero, su loro
discenderanno gli angeli dicendo: "Non temete, non affliggetevi! Ma rice-
vete la buona novella del Paradiso che vi è stato promesso!»32
.
32
Corano XLI. Fussilat, 30
18
Il simbolo religioso tipico della religione Sikh è il kirpan classificato
come articolo di fede dall‟ultimo profeta Sikh, il Guru Gobind Singh, che
lo rese obbligatorio per tutti i sikh dal 29 marzo 1699.
Un Sikh fin dalla sua iniziazione alla fede, si impegna a seguire le
“Sikh Rehat Maryada”, il codice di condotta Sikh, il quale chiede di indos-
sare il kirpan con un Gatra, una cinta, che gli permette di restare attorno al
bacino dell‟uomo. Il codice di condotta Sikh afferma che: «La persona per
essere battezzata deve aver fatto il bagno e lavato i suoi capelli e deve por-
tare le cinque K: Kesh (capelli mai tagliati), kirpan33
(spada), Kachhehra
(calzoncini stretti e corti, al di sopra del ginocchio), Kanga (pettine infilato
tra i capelli legati), Karha (bracciale in acciaio)...». Trascurare di portare
una o più delle cinque K rappresenta una grave mancanza di religione Sikh.
Nel diritto ebraico, è riconosciuto significato religioso ad una varietà
di oggetti, tempi e luoghi, salvo che per la rappresentazione materiale della
divinità vietata perché è proibito immaginare Dio nelle dimensioni fisiche,
dato che non ha corpo, forma o immagine34
.
33
GURMUKH SINGH, Kirpan: its true import & significance. Sikh review, jan 2003, p. 33 ss., Il
Kirpan era fin dall'antichità un'arma di difesa, indossata su una cintura di stoffa chiamata Gatra,
ma attualmente è più un oggetto simbolico che un'arma. Esso rappresenta l'Ahimsa (che signifi-
ca non violenza). Il principio dell'Ahimsa non è quello di stare a guardare mentre viene compiu-
ta violenza sui più deboli, ma di lottare attivamente contro quest'oppressione e ingiustizia. A tal
fine, il Kirpan è uno strumento che rappresenta l'utilizzo della forza per prevenire la violenza,
quando tutti gli altri mezzi pacifici per ostacolarla hanno fallito. Secondo un comandamento
religioso dettato da Guru Gobind Singh (il decimo Guru Sikh), tutti i Sikh devono indossare un
Kirpan in ogni momento, come se fosse una parte integrante del loro corpo.
34
Sul tema ci sono posizioni contrastanti di Maimonide e Samuel David Luzzato. Il primo ha
formulato tredici articoli di fede contenenti le verità principali della religione ebraica, tra cui il
19
Simboli tipici della religione ebraica sono per gli uomini, il cappello e
l‟abbigliamento ornato (zizith) con il numero esatto di nodi (5) e di fili
(8)35
, il quale deriva da un passo della Torah per cui Dio «parla agli Israeli-
ti e ordina loro che si facciano di generazione in generazione, fiocchi agli
angoli delle loro vesti e che mettano al fiocco di ogni angolo un cordone di
porpora viola»36
. I credenti devono ottemperare a tutti i comandi del Signo-
re, aldilà della loro ragionevolezza, per il solo fatto che hanno provenienza
divina, perché l‟obiettivo è quello di obbedire alla legge di Dio.
Il cappello serve agli uomini per coprirsi il capo, è questa una consue-
tudine, che costituisce legge per il diritto ebraico. Tale comportamento, an-
che se non è imposto dalla Bibbia, deriva dall‟utilizzo che ne è stato fatto a
Babilonia come simbolo di reverenza e rispetto nei confronti della presenza
di Dio. Tra gli studiosi non c‟è unanimità nel riconoscere questo simbolo
come obbligatorio, l‟autorevole talmudista polacco Shlomo Lurie afferma-
va di non conoscere alcun divieto di pronunciare le benedizioni a capo sco-
perto, e di stupirsi per coloro che si coprivano il capo anche quando non
terzo articolo afferma che «Dio non ha un corpo, ed è libero da qualsiasi accidente o materia, e
non ha forma alcuna». Maimonide tenta di spiegare la sua affermazione considerando i linguag-
gi biblici che si riferiscono a Dio, quali il «dito di Dio», «la mano del Signore», «le spalle de
Dio», come metafore o allegorie. Invece il professor Luzzato sostenne l‟idea che Dio ha un cor-
po perché molte persone concepivano Dio nelle persone in cui figurava incarnato. Cfr. E. DIENI,
A. FERRARI, V. PACILLO, (con la collaborazione di A. MAOZ) La luna e Maimonide. La tradi-
zione giuridica ebraica tra simboli naturali, ermeneutica dei comandi divini e Kabbalah, in ID.,
Symbolon/Diabolon. Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale, cit., p. 65. 35
Rashi trova un significato in questi numeri perché dà un valore numerico di 600 alle lettere
della parola zizith, e sommandolo al numero dei nodi e dei fili si ottiene 613, il numero dei co-
mandi divini contenuti nella Torah. RASHI, Talmud babilonese, Trattato Menachot, art. 43b. 36
Numeri, 16,39.
20
pregavano, affermando di non conoscere la fonte di tale comportamento. In
senso contrario Rabbi David HaLevi di Ostrong il quale individuò la fonte
di questa consuetudine nel passo biblico: «Non farete come si fa nel paese
di Canaan dove io vi conduco, né imiterete i loro costumi»37
. Interpreta
questo versetto come il divieto di seguire consuetudini diverse da quelle
ebraiche, cioè quelle cristiane per cui i credenti scoprivano il capo durante
le preghiere38
.
Attualmente è una consuetudine vincolante per gli ebrei ortodossi di
coprire sempre il capo, per i conservatori invece è obbligatorio solo durante
la preghiera e lo studio della Torah, a differenza di alcune comunità rifor-
mate che permettono agli uomini di tenere sempre il capo scoperto. Costi-
tuisce una consuetudine vincolante, per gli ebrei ortodossi askhenaziti, an-
che quella di indossare il lungo caffetano (kapota) e il cappello di pelliccia
(shtreimel), il quale costituiva in origine l‟abbigliamento dei nobili polac-
chi.
Altro simbolo tipico della religione ebraica è il Mezuzah, una scatola
rettangolare che include due passi della Torah, «scriverai le mie parole su-
37
Levitico, 18,3 38
Cfr. E. DIENI, A. FERRARI, V. PACILLO, (con la collaborazione di A. MAOZ) La luna e Mai-
monide. La tradizione giuridica ebraica tra simboli naturali, ermeneutica dei comandi divini e
Kabbalah, in ID., Symbolon/Diabolon. Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale, cit.,
p. 82 ss.
21
gli stipiti della tua casa e sulle tue porte»39
, posta come si rileva da queste
parole, sugli stipiti delle porte delle case dei credenti.
39
Deuteronomio, 6,9
22
CAPITOLO SECONDO
LAICITÀ DELLO STATO, PLURALISMO
CONFESSIONALE E SIMBOLI RELIGIOSI
SOMMARIO: 1. Problema attuale della società. – 2. Tutela delle diversità e principio di
eguaglianza. – 3. Laicità dello stato, pluralismo confessionale e simboli religiosi. – 4.
...Verso un codice interpretativo laico condiviso.
1. Problema attuale della società
La società post-moderna presenta un substrato multiculturale che è
stato innescato, negli ultimi anni da esperienze migratorie che hanno pro-
dotto una trasformazione antropologica degli spazi e delle strutture in cui si
svolge quotidianamente la vita di comunità, dove la composizione di diritti
e doveri reciproci, in un quadro fatto di differenze culturali, etniche e reli-
giose, si è fatta particolarmente delicata.
Oltre che dagli stimoli esterni provenienti soprattutto dal mondo isla-
mico, la profonda trasformazione dello scenario socio-religioso italiano ed
europeo è accentuata dalle nuove fasi che le tradizionali confessioni cri-
stiane vivono nei rapporti reciproci ed in quelli con gli organi statali, al
23
punto che le stesse comunità autoctone riscoprono le proprie radici religio-
se in un‟ottica di valorizzazione e di superamento delle antiche contrappo-
sizioni, chiedendo l‟introduzione di nuove regole comportamentali il cui
fattore causale è riconducibile ad elementi religiosi e culturali.
Viviamo in una società in cui non è chiaro quale sia il vero valore dei
simboli religiosi ed in che modo devono essere recepiti dal mondo esterno,
siamo a conoscenza di chi vuole perseguire «chi va in giro mascherato»40
,
chi vuole, invece, continuare a consentire il velo islamico, ed anche i veli
delle religiose cattoliche, nelle scuole; a Drezzo (Como) un vigile ha multa-
to un‟italiana di religione islamica che indossava per strada il burqa41
, a
Ivrea esiliano la maestra velata42
, a Novara si impongono nelle mense sco-
lastiche cibi rispettosi delle prescrizioni religiose.
40
Il Ministro della Giustizia Roberto Castelli (2001-2006) dichiara inoltre che: «In Italia indos-
sare il burqa è reato, passibile di multa, di denuncia»; pubblicato in Corriere della Sera del 5
giugno 2005, p. 22. 41
Il vigile ha contestato la violazione dell'articolo 85 del Regio decreto 773 del 1931, «perchè
compariva in luogo pubblico con un velo che le mascherava il viso, rendendo impossibile il ri-
conoscimento, e inoltre non ottemperava all'invito di toglierlo», per questo la donna di 34 anni
di Drezzo è stata multata due volte, una alla fermata dell‟autobus, a l‟altra in municipio. Il Sin-
daco aveva anche emesso un'ordinanza, basata su norme giuridiche già in vigore, che vietava
l'accesso ai luoghi aperti al pubblico delle persone che avevano il volto coperto in maniera tale
da impedire l'identificazione; ma il prefetto di Como ha annullato l'ordinanza rilevando «ec-
cesso di potere e duplicazione di norme esistenti». Da Il Corriere della Sera del 19 settembre
2004. 42
Una donna di origine marocchina, sposa e madre di due bambini, è stata negata la possibilità
di frequentare uno stage presso un asilo nido perché aveva il capo coperto dal chador, il velo
islamico. La motivazione addotta dalla dirigente del piccolo asilo nido e da alcuni genitori dei
bambini frequentanti è che "il fourlard che copre il capo e fascia il collo della maestra, potrebbe
spaventare i bambini e farli sentire a disagio: non è razzismo, ma una questione di stile". Da La
Repubblica del 22 marzo 2004.
24
La tutela della libertà religiosa nella nostra società pone molteplici
problemi, sia la tutela delle singole confessioni religiose (Art. 8 c. 1 Cost.
«Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge»),
che sotto il profilo dei diritti individuali e dei diritti collettivi (Art. 19 Cost.
«Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in
qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitar-
ne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al
buon costume»). Tale principio è regolato anche in ambito comunitario,
all‟Art. 9 della CEDU (Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Dirit-
ti dell‟Uomo e delle Libertà Fondamentali), il quale riconosce agli stati
membri un certo margine per valutare una possibile ingerenza nel regola-
mentare i diritti soggettivi individuali e collettivi in tema di libertà religio-
sa43
. In merito, tra le molteplici facoltà che sostanziano il diritto di libertà
religiosa assume un rilievo del tutto significativo l‟esposizione dei simboli
religiosi, attraverso la quale viene in primo luogo in considerazione il pro-
blema della qualificazione simbolica negli spazi comuni e la compatibilità
delle esternazioni culturali-religiose.
43
S. ANGELETTI, Libertà di espressione c. libertà religiosa: il difficile equilibrio nella tutela
della manifestazione del pensiero e della sensibilità dei credenti, in www.diritti-cedu.unipg.it,
p. 5, «più di una perplessità, inoltre, solleva la scelta di ricondurre la tutela del sentimento reli-
gioso dei fedeli ai parametri indicati all‟art. 9 CEDU. Alcuni anni prima, la Commissione euro-
pea dei diritti umani, chiamata a pronunciarsi sul noto caso dei “Versi satanici” di Salman Ru-
shdie, aveva espresso sul punto un parere negativo. Secondo la Commissione, dall‟art. 9 non era
possibile trarre indicazioni esplicite circa il compito dello Stato di tutelare il sentimento religio-
so dei credenti contro legittime forme di manifestazione di un pensiero critico (Choudhury v.
The United Kingdom, (ricorso n. 17439/90)».
25
Dai segni indossati ai simboli esposti nelle aule. Un solo simbolo,
quello della religione di maggioranza, oppure nessun simbolo nel rispetto
della libertà di coscienza di ciascuno, oppure, ancora, tanti simboli quante
sono le presenze confessionali?44
Etimologicamente “Simbolo” deriva
dalla parola greca symbàllò,
“mettere assieme”, unire tutti coloro che vi si riconoscono, ma allo stesso
tempo può essere inteso come diabàllò, divide e separa tutti coloro che non
si riconoscono in quel simbolo.45
Ma “simbolo” non è solo una parola, è un segno46
. Nell'antica Grecia
indicava la tavoletta con frammento di terracotta che lo straniero divideva
con il cittadino che lo ospitava costituendo la sua referenza. Ciascun pezzo
inoltre serviva da segnale di riconoscimento per identificare i forestieri
dell'epoca. Presso i primi cristiani il syn-bolon assume l'accezione di “se-
gnale di appartenenza” alla stessa comunità religiosa, di condivisione della
stessa realtà da parte di un gruppo di persone-adepti. Il segno deve essere
semplice in quanto il rapporto con la società non può che essere immediato,
univoco, altrimenti non è efficace per il suo scopo, ad esempio il simboli-
smo della croce esprime la confluenza di assi cosmici complementari con la
44
Cfr. S. BERLINGÒ, Il pendolo dell’istruzione, in Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica,
1995, p. 795. 45
Cfr. A. FUCCILLO (con la collaborazione di E. MATTU, F. SORVILLO), La querelle italiana
sulla esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, in ID., Giustizia e Religione. L’agire
religioso nella giurisprudenza civile, Torino, 2009, p. 232 46
J. CHEVALIER, A. GHEERBRANT, Dizionario dei simboli, Milano, 1989, p. XI; per l‟autore il
Segno rimanda ad una chiara e univoca individuazione del suo significato (il fumo indica il fuo-
co).
26
discesa del divino in un mondo umano, enunciando per i cristiani il ricordo
pre-vivo del sacrificio di un Dio incarnato.
Simbolo, ancora, è anche analogia47
, non solo come senso di compara-
zione, ma anche “riconduzione” a una realtà trascendente, termine che
nell'islam sufista “ta'wil” designa l'esegesi interiore del testo sacro rispetto
a una comprensione al primo stadio; e permette di far accedere l'intelligen-
za umana sublimata al mondo degli archetipi, grado intermedio nell'univer-
so sensibile e quello delle pure essenze che sono i Nomi divini48
.
Simbolo è allegoria49
, che secondo Goethe «trasforma il fenomeno in
un concetto, il concetto in un‟immagine, ma in modo che il concetto
nell‟immagine sia da considerare sempre circoscritto e completo
nell‟immagine e debba essere dato ad esprimersi attraverso di essa»50
. Ha
una funzione didattica, pedagogica, soprattutto in culture in cui l‟oralità co-
stituisce un modo privilegiato di trasmissione dei concetti da un sapere im-
plicito a un sapere illustrato.
Il simbolo è un linguaggio insostituibile, fondamentale, necessario,
non soltanto per ciò che dice, ma per il modo in cui lo dice, infatti spiegarlo
47
J. CHEVALIER, A. GHEERBRANT, Dizionario dei simboli, cit., p. XI; l‟analogia è il rapporto
che esiste fra esseri e nozioni essenzialmente divisi ma simili sotto un certo aspetto (la collera di
Dio ha un rapporto solo analogico con quella degli uomini). 48
Cfr. Y. T. MASQUELIER, La Religione. Il linguaggio simbolico, Torino, 2001, p.12 49
J. CHEVALIER, A. GHEERBRANT, Dizionario dei simboli, cit., p. XII; l‟allegoria è una raffigu-
razione sotto forma il più delle volte umana di una situazione, di una virtù o di un essere astratto
(una donna alata è l‟allegoria della vittoria). 50
Cfr. J. W. VON GOETHE, Maximen und Reflexionen (trad. It. Massime e Riflessioni, Roman
Theoria, 1983, p.283, massima n. 1112).
27
verbalmente non ne fa percepire il sapore unico, conferito dal peso
dell‟esperienza religiosa; e la sua conoscenza fa vedere tutto ciò che nes-
sun‟altra rappresentazione è capace di mostrare.
Nella società multiculturale e multireligiosa, coesistono negli stessi
spazi pubblici e privati “differenze normali” e “differenze diverse”51
la cui
coesistenza sollecita la produzione di norme dirette a tutelare e valorizzare
le reciproche diversità.
Quanto all‟esposizione dei simboli, l‟esercizio di questa, facoltà strut-
turale del diritto di libertà religiosa, sostanzia talvolta una reazione alla
«sindrome da sradicamento»52
, di chi percepisce il bisogno di ricostruire la
propria identità. È attraverso i diritti umani, che definendo una categoria
sovraordinata e comprendente rispetto ai gruppi culturali presenti nel con-
testo sociale, devono essere assunti dagli stessi come tema di confronto tra
le diverse culture. I diritti umani quindi permettono a chi è “Altro” di poter
interagire con la cultura nativa del luogo e di fargli superare la loro posi-
zione di inferiorità ed estraneità dalla comunità53
.
Le differenze culturali o religiose possono dare origine a conflitti
quando gli individui sono portatori di fede e di valori loro propri, diversi
dalla cultura della società ospitante. Pertanto la relativa conservazione e va-
51
Cfr. S. FERLITO, Le Religioni, il giurista e l’antropologo, Soveria Mannelli, 2006, p. 33. 52
Cfr. M. RICCA, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Bari, 2008, p. 124 53
Cfr. M. RICCA, Oltre Babele, Codici per una democrazia interculturale, cit., p. 125
28
lorizzazione costituisce una condizione indispensabile per la pacifica con-
vivenza in una società multireligiosa e multiculturale.
La tradizione, la religione, la cultura dell‟altro deve essere non sem-
plicemente tollerata ma promossa e valorizzata come nuova ricchezza, con
dei limiti riconducibili ai principi supremi dell‟ordinamento costituzionale,
ordinato al primato della persona e dei suoi diritti fondamentali.
Per riuscire nell‟intento di valorizzare tutte le confessioni religiose e
dare loro spazio e modo per integrarsi nel tessuto sociale, l‟ordinamento
italiano, ed anche quello europeo, sono improntati al principio di laicità
dello stato.
La relatività nel tempo e nello spazio di questo principio determina la
presenza di diversi modelli di laicità, corrispondenti alle differenti tradizio-
ni giuridiche dello stesso, distinto tra sfera politica e dimensione religiosa,
in contesti sociali contraddistinti da un alto livello di secolarizzazione ed
intrecciati con le politiche di integrazione delle popolazioni immigrate.
Nel “modello francese”, ad esempio, la laicità è esplicitamente affer-
mata nella costituzione del 1958 all'art. 2, “La Francia è una Repubblica
indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l'eguaglianza dinan-
zi alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di origine, di razza o di reli-
gione. Essa rispetta tutte le credenze”. Secondo la dottrina francese l'affer-
mazione a livello costituzionale del principio di laicità costituzionalizza i
29
“Deux blocs laics”54
, le due leggi di laicizzazione della scuola pubblica a
fine ottocento e, della legge di separazione tra lo stato e le chiese del 1905,
tuttora in vigore, le quali rappresentano i principi cardini su cui si basa
l‟attuale concezione di laicità55
. Con le prime fu soppresso ogni insegna-
mento e simbolo religioso nella scuola pubblica, fu stabilito l'affidamento a
personale esclusivamente laico dell'insegnamento e imposto a tutti i docenti
un obbligo di stretta neutralità ed il divieto di manifestare, anche solo con
segni discreti, la propria appartenenza religiosa sul posto di lavoro. Con la
legge del 1905 fu creato, inoltre, un regime di separazione giuridica tra lo
Stato e le chiese, in base al quale gli istituti ecclesiastici, in massima parte
della Chiesa cattolica, furono soppressi, i loro beni immobili espropriati
dallo Stato e tutte le confessioni religiose, poste su un piede di parità for-
male, contestualmente furono soppresse e disperse le congregazioni religio-
se. Queste norme hanno portato a concepire un concetto di laicità come
neutralità dello spazio pubblico, risultato del quale le non ultime leggi
(2004 e 2010) sul divieto di esporre qualsiasi simbolo religioso negli spazi
pubblici.
54
P. STEFANI, La laicità nell’esperienza giuridica dello Stato, Bari, 2007, p. 47. 55
Cfr. M. CARTABIA, Il crocifisso e il calamaio, in AA. VV. La laicità crocifissa? Il nodo co-
stituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Torino, 2004, p. 65, in merito dice che In
Francia, la laicità è un concetto forte, esclusivo, militante che tende ad imporre una visione
agnostica nella piazza pubblica impattando in maniera vistosa addirittura con la libertà persona-
le dei cittadini.
30
Per ragioni storiche, in Italia la situazione è del tutto diversa. Nella
nostra costituzione non ricorre mai l‟uso della parola laicità56
, ma emerge
in modo indiretto in molti articoli della prima parte dedicata ai Principi
Fondamentali (Art. 3, 7, 8) e nella seconda parte sui diritti e doveri dei cit-
tadini (Art. 19 e 20). In merito, la corte costituzionale ha evidenziato che
"l'attitudine laica dello Stato-comunità, che risponde non a postulati ideolo-
gizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona o
dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o ad un particolare credo,
ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa
dei cittadini" (Corte cost. n. 203/1989). Secondo queste premesse, quindi,
la laicità "implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma ga-
ranzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime
di pluralismo confessionale e culturale", differenziandosi notevolmente dal
modello francese in quanto sono presenti nell‟ordinamento italiano specifi-
che normative bilateralmente concordate con le singole confessioni religio- 56
Per una opinione contraria alla definizione dello Stato italiano come "laico", cfr. F. FINOC-
CHIARO, La repubblica italiana non è uno Stato laico, in Dir. Eccl., 1997, p. 36: «E' ricorrente
fra i giuristi contemporanei la considerazione secondo la quale l'idea di "laicità" si vada sempre
più appannando, che sia la stessa espressione di "laicità" ad essere ambigua, e meriti, in conse-
guenza di essere riempita di un nuovo contenuto in relazione alle mutate condizioni storiche e
alla novità dei problemi. (…) Nel caso che ci interessa l'idea di "laicità" viene in considerazione
come specificazione qualificatoria dello Stato. Una qualificazione che, a un primo e superficiale
esame, appare come antitetica a quella di "confessionista". Estendere la qualifica all'attuale or-
dinamento costituzionale è un'operazione culturale impropria, priva di valore conoscitivo, per-
ché impedisce di cogliere, in una formula sintetica, le profonde differenze esistenti tra due di-
verse stagioni del diritto. (…) Lo Stato è laico quando, come nella seconda metà dell'800, deci-
de sovranamente della situazione giuridica delle confessioni religiose, allorché persegue una
politica ecclesiastica tendente a separare le istituzioni della società civile, la scuola, l'ammini-
strazione della giustizia, il governo del Paese, in una parola le istituzioni di tutti i cittadini, dalle
ingerenze confessionali, a garanzia della libertà di coscienza e dell'uguaglianza».
31
se (concordato e intese), dirette a regolare le materie di interesse comune57
.
Con questo sistema si attua il riconoscimento di alcune specifiche esigenze
confessionali, espressione del diritto di libertà religiosa, attuando il princi-
pio di uguaglianza sia dei singoli individui (art. 3 e 19 Cost.) che delle con-
fessioni davanti alla legge (art. 8 Cost.).
Si evidenziano in Europa altri modelli di laicità, quella tedesca e
quella anglosassone, la prima di tipo neutrale, vicino alla tradizione france-
se, dove però non si è ancora intervenuti con una legge che vietasse ogni
simbolo, anzi una norma di obbligatorietà sull‟esposizione del crocifisso è
stata dischiarata incostituzionale dal tribunale federale di Karlsruhe nel
1995 perché lede la libertà religiosa vista in senso negativo della collettivi-
tà. Nei paesi anglosassoni58
, invece, la produzione giurisprudenziale, che,
dato il sistema di common law, predomina rispetto al legislatore, può anche
occuparsi di questioni riguardanti la sfera religiosa dei privati59
.
57
Cfr. P. CAVANA, Modelli e significati di laicità nelle società pluraliste, Torino, 2005, p. 2 ss. 58
Cfr. M. CARTABIA, Il crocifisso e il calamaio, in AA. VV. La laicità crocifissa? Il nodo costi-
tuzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, cit., p. 66, così in Inghilterra, il tradizionale
motto che accompagna le pubbliche apparizioni dei regnanti, God save the Queen/King, ricorda
inequivocabilmente la coincidenza (perfetta anche se assolutamente formale) tra il capo dello
Stato e quello della Chiesa anglicana. 59
Sent. 20 novembre 2008, Employment Appeal Tribunal: Eweida vs British Airways, La ricor-
rente, hostess di British Airways, lamentava di aver subito una discriminazione indiretta, poiché
il divieto di mostrare gioielli e simboli sulla divisa, applicato indistintamente a tutti, le causava
una situazione di svantaggio, impedendole di indossare il crocifisso, mentre agli appartenenti ad
altre religioni era permesso l'uso di indumenti religiosi. La corte, in base all'"Employment Equa-
lity Regulations (Religion or Belief) 2003" per cui c‟è una discriminazione indiretta se lo svan-
taggio sussiste non solo per il ricorrente, ma anche per il gruppo confessionale di appartenenza.
Nel caso di specie, il regolamento aziendale sulle divise non causa un "disparate impact" per
tutti i dipendenti cristiani della British Airways, ma solo uno svantaggio per la ricorrente: infat-
ti, a differenza dei simboli religiosi che debbono essere indossati obbligatoriamente in base ai
32
A ben vedere, in tutti i paesi il principio di laicità dello Stato riflette le
specifiche tradizioni nazionali, dando vita ad applicazioni peculiari tipiche.
La neutralità dello spazio pubblico, propria della laicità francese60
, che im-
plica l'esclusione di ogni segno religioso anche di uso personale, traduce il
forte attaccamento della Francia ad una tradizione nazionale che ha le sue
radici nella Rivoluzione francese e in un certo modo di intendere la sovra-
nità dello Stato, ostile a qualsiasi ruolo pubblico delle religioni; il separati-
smo anglosassone traduce invece la centralità del pluralismo religioso nella
tradizione storica ammettendo anche nello spazio pubblico e nei pubblici
precetti confessionali, portare un crocifisso non rappresenta un obbligo per tutti i cristiani, ma è
solo un'espressione personale del credo della ricorrente. L'obbligo di indossare una divisa, senza
mostrare oggetti di gioielleria né simboli religiosi, non costituisce una discriminazione nei con-
fronti di una dipendente che intenda indossare un crocifisso. 60
Quando si fa riferimento al principio di laicità per come è inteso negli ordinamenti di civil law
non se ne possono trascurare le origini, storicamente ascrivibili all'illuminismo e al positivismo
giuridico. Benché nell'ordinamento francese, statalista, il principio di laicità rifletteva la conce-
zione stessa dei diritti, propria di quell'ordinamento, oggi se ne da una lettura conforme alle tra-
dizioni e al complessivo assetto costituzionale e legislativo di ogni Paese. Ciò malgrado, vi sono
tratti comuni che caratterizzano questi ordinamenti giuridici, come la tutela costituzionale della
libertà religiosa e di coscienza e la natura privatistica delle confessioni religiose. Si tratta di ca-
ratteristiche che consentono l'applicazione del principio di uguaglianza, posto a presidio di un
eguale trattamento sia dei singoli che delle agenzie del sacro e delle formazioni sociali che ge-
stiscono collettivamente le differenti opzioni religiose/areligiose di coloro che vivono nel terri-
torio dello Stato. Sul punto, parzialmente, G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 74
ss., relativamente alla nozione francese di laicità: M. BARBIER, La laïcité, Paris, 1995, p. 60 ss.;
H. PENA-RUIZ, La laïcité pour l’égalité, Paris 2000, p. 30 ss.; ID., Dieu et Maianne.Philosopie
de la Laïcité, Paris 2001; Diverso l'approccio degli ordinamenti di common law che pur enun-
ciando a volte, il principio di separazione, attribuiscono alla laicità un valore relativo in quanto
essa va collocata all'interno della natura prestatale, soggettiva e giurisdizionale dei diritti e so-
prattutto non deve impedire il melting pot essenziale per una società multiculturale, multietnica
e multireligiosa come quella degli USA. Il pragmatismo americano fa così della laicità una va-
riabile dipendente, condizionata e finalizzata a consentire in un quadro istituzionale che vede
l'assenza di una religione stabilita la convivenza tra diverse fedi nel rispetto del principio del
non eccessivo coinvolgimento F. ONIDA, Il separatismo nella giurisprudenza degli Stati Uniti,
Milano, 1968; ID., Uguaglianza e libertà religiosa nel separatismo statunitense, Milano, 1970,
p. 68 ss.
33
uffici la presenza di una simbologia religiosa. La Germania invece recepi-
sce il principio di neutralità ideologica dello Stato tipico della tradizione
luterana riconoscendo da un lato uno statuto pubblicistico alle principali
confessioni, e dall‟altro tende a respingere il valore esteriore dei simboli
negli spazi pubblici.
L'ordinamento italiano è improntato ad un concetto di laicità61
, da un
lato aconfessionale con la separazione della sfera politica da quella religio-
sa (art. 7 Cost.), dall'altro nel riconoscimento del ruolo peculiare che il cat-
tolicesimo assume nell'identità storico-culturale del Paese (Art. 9 c. 2, Ac-
cordi di Villa Madama, «La Repubblica italiana, riconoscendo il valore del-
la cultura religiosa e tenendo conto che i princìpi del cattolicesimo fanno
parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare,
nel quadro delle finalità della scuola, l‟insegnamento della religione catto-
lica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado»), am-
61
W. BÖCKENFÖRDE, Lo stato secolarizzato, la sua giustificazione e si suoi problemi nel secolo
XXI, in G. E. RUSCONI (a cura di), Introduzione a: Lo Stato secolarizzato nell’età post-secolare,
Bologna, 2008, p. 34; distingue la laicità dello Stato secondo due diverse concezioni di neutrali-
tà statale: «da un lato quella distanziante, realizzata esemplarmente dalla laicité francese – non
invece nella laicità turca, che non è altro che un islam amministrato statualmente. Dall‟altra par-
te la concezione della neutralità aperta, comprensiva, che troviamo in Germania…La differenza
tra i due concetti non è semplicemente formale e si manifesta soprattutto quando elementi spiri-
tual-religiosi e politico-mondani si trovano a convivere. Essi sono presenti laddove una religio-
ne non si limita alla venerazione di Dio in forma di liturgia o di culto, ma comprende anche la
vita nel mondo e una serie di comandamenti, com‟è il caso della religione cristiana, ma pure
dell‟islam e dell‟ebraismo. La neutralità distanziante configura dunque l‟ordinamento giuridico
in modo puramente secolare e respinge gli aspetti religiosi come irrilevanti e privati; la neutrali-
tà aperta, invece, cerca una mediazione, nel momento in cui, fin dove ciò è compatibile con gli
scopi secolari dell‟ordine statale, viene assunta nell‟ordinamento giuridico la possibilità di con-
durre una vita conforme alla religione anche negli ambiti pubblici».
34
mettendo così la presenza nello spazio pubblico di un simbolo religioso cri-
stiano, il crocifisso, che esprime più di altri le peculiari tradizioni.
La laicità dello stato merita quindi di essere valutata non in astratto,
ma nel proprio contesto storico-istituzionale, dove è oggi costretta a fare i
conti con la società multietnica, deve bilanciare l'apertura a nuove realtà
culturali e confessionali, con il rispetto delle tradizioni nazionali che assi-
curano la coesione del tessuto sociale. Risulta evidente oggi il "diritto alla
differenza", che obbliga a forme di riconoscimento pubblico delle diverse
identità culturali, religiose o etniche, coesistenti all'interno dello stesso ter-
ritorio62
.
Il confronto tra l'aspetto positivo della libertà religiosa, come diritto di
manifestare pubblicamente la propria fede religiosa, e quello negativo o li-
bertà di coscienza63
, che si estrinseca invece nel diritto a non essere oggetto
da parte dello Stato dell'imposizione di fedi religiose altrui, viene risolto
nelle democrazie liberali con il primato assegnato alla libertà di coscienza,
tendente ad affiancarsi alla logica del riconoscimento, che riconsidera la
valenza identitaria dei simboli o segni religiosi come strumenti di esercizio
della libertà di espressione, individuale e collettiva, e di partecipazione
dell'individuo alla vita della comunità, contemperando quindi sia la libertà
di coscienza che la libertà di espressione in modo da non sacrificare nessu-
62
Cfr. G. DALLA TORRE, Il primato della coscienza, Roma, 1992, p. 290 63
Cfr. C. TAYLOR, La politica del riconoscimento , in J. HABERMAS - C. TAYLOR, Multicultura-
lismo. Lotte per il riconoscimento, Milano 1998, p. 9 ss.
35
na delle due componenti della laicità e considerando non solo i membri del-
le minoranze (questione del velo islamico), ma anche quelli della maggio-
ranza (problema del crocifisso), in cui si riflettono le tradizioni religiose e
l'identità storico-culturale del singolo paese64
.
In questa prospettiva la logica della stretta neutralità dello spazio pub-
blico (“la parete bianca”), risulta più discriminante della presenza dei vari
simboli religiosi, delle diverse confessioni, garantendo implicitamente a
tutti il diritto di manifestare le proprie differenti convinzioni.
A conferma di ciò, il 23 aprile del 2007 è stata emanata dal governo
italiano la Carta dei Valori della Cittadinanza e dell’Integrazione, con lo
scopo di rendere espliciti i principi fondamentali del nostro ordinamento
che regolano la moderna società multiculturale. Il documento, di natura
giuridica secondaria, si compone di sette capitoli, tra cui “Laicità e Libertà
Religiosa”, con il quale si vuole far conoscere65
a quelle popolazioni che
provengono da altre culture e professano altre religioni, il principio di laici-
tà dello Stato, la distinzione netta che c‟è tra le leggi civili e quelle di natu-
ra confessionale, nonché il diritto di Libertà Religiosa enunciato in maniera
esplicita dall‟Art. 19 della Carta Costituzionale. È da rilevare per ciò che a
noi interessa più da vicino l‟art. 25 della suddetta Carta «Movendo dalla
propria tradizione religiosa e culturale, l’Italia rispetta i simboli, e i segni,
64
Cfr. P. CAVANA, Modelli e significati di laicità nelle società pluraliste, cit., p. 1 65
Cfr. C. CARDIA, Commento alla Carta dei Valori della Cittadinanza e dell’Integrazione,
2007, p. 3.
36
di tutte le religioni. Nessuno può ritenersi offeso dai segni e dai simboli di
religioni diverse dalla sua. Come stabilito dalle Carte internazionali, è
giusto educare i giovani a rispettare le convinzioni religiose degli altri,
senza vedere in esse fattori di divisioni degli esseri umani.»; risulta eviden-
te da queste parole l‟apertura che lo Stato Italiano vuole dare
all‟esposizione dei simboli religiosi, non considerandoli come una minaccia
per la laicità dello Stato, bensì come parte integrante della crescita culturale
del paese66
.
66
Cfr. C. CARDIA, Carta dei valori e multiculturalità alla prova della costituzione, in Atti del
Convegno dei Giuristi Cattolici, 6 dicembre 2008, p. 8 ss., la Carta dei valori affronta un altro
tema sensibile della multiculturalità e lo fa nello spirito della laicità accogliente. Afferma infatti
che tutti i simboli e i segni delle religioni meritano il rispetto, ferma restando la tradizione reli-
giosa e culturale italiana, e nessuno può ritenersi offeso dai simboli e dai segni di religioni di-
versi dalla sua. In questo modo, l‟ordinamento italiano non segue la strada scelta da altri Paesi
europei che hanno proibito di portare segni religiosi che non siano di piccola misura. Emerge, in
questo modo, il valore della tradizione italiana la quale, conoscendo da sempre una tipologia
simbolico-religiosa molto ricca (a livello architettonico, culturale, di vestimenti), non avverte
ostilità verso nuovi simboli o segni religiosi. In aggiunta a questo principio la Carta dei valori
ricorda che l‟educazione dei giovani deve essere fondata sul rispetto delle convinzioni degli al-
tri, evitando di vedere in esse fattori di divisione degli esseri umani. Per i molteplici riferimenti
delle Carte internazionali sui diritti umani a questo argomento si ricorda l‟articolo 29, lett. c),
della Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, per il quale occorre “preparare il fan-
ciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di compren-
sione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi et-
nici, razionali e religiosi”. Anche la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze na-
zionali, approvata nel 1995 dal Consiglio d‟Europa chiede che “sia promosso lo spirito di tolle-
ranza e il dialogo interculturale, e siano adottate misure efficaci per favorire il rispetto e la com-
prensione reciproca e la cooperazione tra tutti coloro che vivono sul loro territorio, quale che sia
la loro identità etnica, culturale, linguistica o religiosa, specialmente nel campo dell‟educazione,
della cultura e dei media”.
In senso contrario, C. MORETTI, Carta dei Valori della cittadinanza e dell'integrazione Non ci
convince. Ribadire il vincolo alla Costituzione e alla legalità, in www.immigrazione.aduc.it, «Il
rapporto di uno Stato laico con le religioni non dovrebbe esser certo quello di concordare assie-
me i valori condivisi con entità religiose di dubbia rappresentanza, ma di deciderlo attraverso le
istituzioni parlamentari, democraticamente elette. Chi ha l'ambizione di vivere secondo la pro-
pria cultura si accerti che nel Paese prescelto essa non contrasti con l'ordinamento giuridico. E
avrà la garanzia di esser rispettato. Inoltre, la Carta riporta nominandoli (sminuendoli) come
37
2. Tutela delle diversità e principio di uguaglianza
È un idea antica, risalente alla crisi degli ordinamenti medievali, che
l‟individuo possa portare con sé un complesso di diritti differenziati rispet-
to a quelli della collettività in cui si muove ed opera67
, stessa prerogativa
che in una società multiculturale hanno i membri di una cultura e religione,
rispetto agli altri presenti nello stesso paese.
Riusciremo ad essere «Eguali e diversi»?, era la domanda posta da
Stefano Rodotà a conclusione di un repertorio di «eguaglianze e differen-
ze»68
. Per rispondere a questa domanda dobbiamo guardare in che tipo di
società viviamo. Ad esempio, dove il liberalismo intransigente è cieco ver-
so le differenze religiose e culturali, lo Stato si autodifende dal pericolo
della frammentazione sociale e teme la dissoluzione dei valori maggioritari
escludendo dalla sfera pubblica l‟esibizione vistosa dei segni particolari,
fondandosi quindi sul dogma del principio di uguaglianza formale dei culti
di fronte alla legge e che può funzionare solo sulla base di un manifesto
"valori" i principali contenuti, istituti e principi generali del nostro ordinamento giuridico. Tale
operazione, rischia tuttavia di fondarsi e fondare confusione ed equivoco, dovuti ad un buoni-
smo e ad un pericoloso relativismo culturale. Si spazia, infatti, da passi interi della Costituzione
(libertà, uguaglianza, dignità) affiancati a principi di diritto, derivazioni e corollari, previsti nel
nostro ordinamento (es. uguaglianza fra marito e moglie, libertà nella scelta matrimoniale -
chiaro riferimento al caso di Ina- il diritto all'assistenza sanitaria e sociale, all'istruzione), fino a
precetti di buon costume, proclami di amicizia, fratellanza, unione fra gli uomini». 67
Relazione presentata al Convegno Les statuts personnels en droit comparé - Evolutions ré-
centes et implications pratiques, Università Robert Schuman Strasburgo, 20- 21 Novembre
2006, in corso di pubblicazione nei relativi atti a cura di M. AOUN – Versione italiana 68
S. RODOTÀ, Repertorio di fine secolo, Roma-Bari, 1992, p. 130.
38
agnosticismo dello stato di fronte alla religione69
, tipico del modello fran-
cese di laicità.
Per altri versi invece, in un ottica differenzialistica, l‟esercizio dei di-
ritti individuali diventa possibile solo in accordo con la comunità, con leggi
generali che trattano in modo eguale casi simili, ed in modo diseguale casi
diversi, diventando così, lo stato, garante del riconoscimento delle differen-
ze e della loro inclusione giuridica. Prevedendo un riconoscimento comple-
to delle prerogative connesse all‟appartenenza ad un culto, i diritti soggetti-
vi di quei soggetti appartenenti a comunità diverse dalla tradizione cultuale
maggioritaria finiscono per aver diritto ad esprimere in tutte le loro forme,
le rispettive tradizioni70
, così come accade nell‟esperienza britannica, il che
pone problemi a dir poco singolari: dalla pretesa degli appartenenti alle
comunità sikh di non togliersi il turbante, alla pretesa delle donne musul-
mane di celarsi dietro un velo in nome della libertà religiosa, per arrivare a
forme più cruente come l‟escissione a carattere religioso.
Nel sistema costituzionale italiano emerge all‟articolo 3, il primo
comma «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
69
Cfr. A. FACCHI, I diritti nell’Europa multiculturale, Roma-Bari, 2001, p. 24 ss. 70
Esempio di tolleranza nei confronti di una diversa realtà religiosa è la questione degli Amish,
i quali vedono nell‟istruzione pubblica uno strumento di integrazione della società globale e una
minaccia alla loro identità religiosa, che intendono conservare praticando una separazione quasi
completa nei confronti di un mondo circostante che percepiscono come ostile e lo rifiutano. Il
governo americano ha tollerato questa diversità religiosa e culturale, consentendo agli Amish di
non mandare i bambini a scuola e di istruirli in famiglia, ed anche dopo le barriere poste dallo
Stato della Pennsylvania e dalla Corte Suprema federale imponendo il rientro a scuola dei ra-
gazzi Amish, il governo ha ridotto la loro frequenza scolastica con legge. Cfr. M. WALZER, Sul-
la tolleranza, trad. di R. RINI, Roma, 2003, p. 95.
39
alla legge, senza distinzione di ..., di razza, di lingua, di religione, ...»
esprime il principio di uguaglianza formale, derivante dalla tradizione fran-
cese. Ma, la caratteristica del sistema, sta nel secondo comma dello stesso
articolo ai sensi del quale «É compito della repubblica rimuovere gli osta-
coli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e
l‟eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana...», traducendo quel principio tipico della tradizione anglosassone71
che pone a punto di riferimento il trattamento in modo uguale degli uguali
e diseguale dei diversi.
Il nostro ordinamento, quindi, si pone in una situazione altalenante,
per un verso tratta tutti gli individui in modo uguale, applicando ad ognuno
le stesse regole, dall‟altro distingue le diverse prerogative, diversificando
gli interventi; ponendosi come in un sistema liberale multiculturalista, il
quale cerca di evitare la deriva del sistema individuando un percorso per
conciliare i principi liberali dell‟universalità e dell‟eguaglianza da un lato, e
le richieste di tutela delle particolarità e delle differenze dall‟altro72
.
L‟eguaglianza sostanziale tra gli individui, si assicura anche attraverso
l‟eguale accessibilità agli strumenti forniti dal diritto positivo, che siano
corrispondenti ad una società aperta ed effettivamente laica, considerato
71
Cfr. S. VOLTERRA, La tutela di minoranze etniche e razziali nel Regno Unito, in La tutela
giuridica delle minoranze, a cura di S. BARTOLE, N. OLIVETTI RASON, L. PEGORARO, Padova,
Cedam, 1998, p. 117 ss. 72
Cfr. N. COLAIANNI, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale,
Bologna, 2006, p. 20 ss.
40
come un parametro di valutazione per le singole controversie, e che costi-
tuisca la basa per risolvere tutte le questioni di natura ecclesiasticista73
.
3. Laicità dello stato, pluralismo confessionale, simboli reli-
giosi.
Gli Stati con una forte presenza di popolazioni immigrate stanno svi-
luppando politiche multiculturali, d‟integrazione sociale e religiosa, rispet-
tando il pluralismo confessionale che caratterizza gli abitanti del loro terri-
torio74
. In passato questi ordinamenti hanno affrontato già i problemi di
immigrazione avendo a che fare con popolazioni che lottavano per essere
integrate, e che pur volendo conservare molti valori propri, erano compati-
bili con la composizione della popolazione preesistente. Oggi i valori di
parte dei protagonisti del movimento migratorio sono diversi e, a volte, in
73
Cfr. A. FUCCILLO, Diritto vivente e Laicità. Percorsi di diritto ecclesiastico civile, in ID. Giu-
stizia e Religione. L’agire religioso nella giurisprudenza civile, cit., 2009, p. 4. 74
In Europa i governi hanno posto in atto strategie di riconoscimento e integrazione. In Belgio è
stata approvata una legge di riconoscimento del culto islamico, L. L. CHRISTIANS., Religion et
citoyenneté en Belgique. Un double lien à l’épreuve de la sécularisation et de la mondialisation,
Cittadini e fedeli nei paesi dell’Unione Europea, “Consorzio europeo di ricerca sui rapporti fra
Stato e confessioni religiose”, Milano, 1999, p. 138 ss. In Spagna è stata data attuazione agli
accordi di minoranza con i differenti culti. D. LLAMAZZARES FERNANDEZ, Derecho de la liber-
tad de conciencia I, Libertad de conciencia y laicitad, Madrid, 2002, p. 271 ss.. In Olanda sono
in atto politiche di integrazione attraverso il riconoscimento al culto islamico delle stesse prero-
gative accordate alle altre confessioni, soprattutto in campo scolastico. G. CIMBALO, Derecho a
la educación, educación en valores y enseñanza religiosa in el países laicos, Interculturalidad y
educación en Europa, (a cura di G. SUÁREZ PERTIERRA, J. Mª. CONTRERAS MAZARÍO), Valen-
cia, 2005, 349-394, [ed. it.] Diritto all’educazione, educazione nei valori e insegnamento reli-
gioso nei paesi laici: Paesi Bassi, Belgio, Le regioni …cit., p. 143 ss.
41
conflitto con quelli dei paesi riceventi e perciò, sia pure con strumenti loro
propri, gli ordinamenti, soprattutto di common law75
, dovranno trovare mo-
dalità e tempi di elaborazione del principio di laicità, che anche rivisitato,
sarà il punto fondamentale per la gestione del conflitto sociale. Una laicità
di tipo interculturale – pluralistica76
che bisogna iniziare a comprendere e
realizzare, consapevoli ormai che una laicità singolarmente intesa altro non
è che l‟espressione di una sola civiltà: la nostra, quella occidentale, dunque,
ancora una volta, un concetto divenuto stretto, e per questo votato al falli-
mento. Emerge in questa dimensione del principio di laicità, la capacità
dello Stato, ma di tutta la comunità occidentale, di accogliere anche il mo-
dello di laicità storicamente diverso, tipico dell‟islam e caratterizzato da
quella tendenza a considerare il fenomeno religioso implicito nella dimen-
sione giuridica e culturale statuale, ma non per questo comportante però un
intromissione delle diverse confessioni nel potere temporale che però, se-
75
I Paesi anglosassoni, per loro politiche migratorie, vedono intere parti di territorio gestite da
comunità di migranti. In questi quartieri si ricompone la percezione della realtà del migrante, il
quale vive e impone sul territorio la propria presenza, creando uno spazio all'interno del quale
operano le loro abitudini e valori. Chi appartiene a una minoranza etnica in Gran Bretagna ha il
diritto di votare e di essere eletto sia come cittadino britannico sia come cittadino del Common-
wealth. M. ANWAR, Partecipazione e rappresentanza politica delle minoranze etniche in Gran
Bretagna, Partecipazione e rappresentanza politica degli immigrati, (Atti del Convegno orga-
nizzato dal Dipartimento per gli Affari Sociali Commissione per le politiche di integrazione de-
gli immigrati – Presidenza del Consiglio dei Ministri 21 giugno, 1999), Roma, 2000. 76
N. COLAIANNI, L’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, in S. FERRARI (a cura di), Mu-
sulmani in Italia, Bologna, 2000, p. 171.
42
condo Colaianni dovrà confrontarsi ed intrecciarsi con altri modelli cultura-
li al fine di rafforzare la tutela della dignità umana77
.
La politica del separatismo non è più valida per tener lontano dalla vi-
ta sociale e politica le diverse confessioni. L‟estremizzazione di questo fe-
nomeno può comportare uno scontro di civiltà, che la classe dirigente attua-
le non sarà in grado di arginare senza i corretti strumenti giuridici, e che, a
fronte di un mercato religioso aperto, di una circolazione delle persone sui
territori sempre più incontrollabile, dello sviluppo a tutti i livelli dei pro-
cessi di globalizzazione, serve ancor di più una politica attiva per il rinno-
vamento degli ordinamenti giuridici interni agli stati ed internazionali.
L‟ordinamento italiano risponde in gran parte delle problematiche so-
pra illustrate, già nella prima parte della costituzione, all‟art. 8 c. 1 si legge
«Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge»,
dove il termine, confessioni religiose, era una novità nel periodo costituen-
te, che oggi accoglie non solo le organizzazioni confessionali conosciute ed
affermate, ma anche quelle nuove forme di religiosità organizzata, di recen-
te costituzione o diffusione sul territorio, presenti nella società. Questa
norma ed i successivi due commi, dicono che «Le confessioni religiose di-
verse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in
quanto non contrastino con l‟ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti
con lo stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rap- 77
N. COLAIANNI, L’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, in S. FERRARI (a cura di), Mu-
sulmani in Italia, cit., p. 173.
43
presentanze», ribadendo, l'esigenza per l'ordinamento dello Stato, di cono-
scere l'organizzazione, le norme, lo statuto, l'ordinamento giuridico interno.
In breve, si riconosce il "diritto dei culti" che vivono ed operano al suo in-
terno, strumento indispensabile per una corretta impostazione delle relazio-
ni reciproche, anche come elemento essenziale per garantire e promuovere
la libertà religiosa degli individui che vivono all'interno di uno Stato.
Lo stato democratico deve valorizzare tutte le esigenze individuali e
collettive, incluso quelle di natura identitaria, e per far ciò traduce nella
produzione normativa e nella relativa applicazione il principio di laicità78
.
Sul piano giurisprudenziale, ciò che caratterizza il nostro ordinamento
dagli altri europei, è il ruolo che ha assunto la Corte Costituzionale negli
ultimi venti anni, discutendo di casi riguardanti soprattutto la presenza dei
simboli religiosi nei luoghi pubblici, con l‟intento però, e questa è la diffe-
renza con le altre corti europee, di guardare la religione e l‟interesse reli-
gioso non come un elemento che divide, bensì ad un collante sociale e un
fattore di integrazione sociologica e giuridica79
. Il principio di laicità svolge
la sua funzione in sinergia con i principi pluralistico, democratico, persona-
listico e di eguaglianza.
78
Cfr. M.C. FOLLIERO, Multiculturalismo e aconfessionalità: versioni attenuate dei principi di
pluralismo e laicità, in AA. VV. Multireligiosità e reazione giuridica, a cura di A. FUCCILLO,
Torino, 2008, p. 113. 79
Cfr. F. P. CASAVOLA, Religione, scienza, politica. Laicità dello Stato, in Diritto e religioni,
nn. 1-2, p. 240-242.
44
Il pluralismo culturale e religioso è visto come il codice genetico che
decifra meglio di ogni altro concetto le credenze di valori, ed i meccanismi
della società libera80
, considerata in due valenze, aperta, cioè disponibile al
cambiamento, includendo soggetti e comunità diverse che si arricchiscono
attraverso gli scambi culturali e le relazioni varie ed inter individualistiche
che si creano tra essi. La società chiusa, invece, considera se stessa come
naturale, sacra e immutabile, ed è collettivista e fondata sulle relazioni re-
ciproche aperte, dove gli individui non godono di alcuna libertà, ma cia-
scuno conosce concretamente la propria posizione e i propri doveri senza
mutamenti di status81
.
La Consulta considera la tutela del sentimento religioso l‟elemento
cardine del principio di laicità, dove solo un inutile processo di astrattizza-
zione può concepirla come estranea o estraniabile dal contesto sociale in
cui è radicata, ed infatti, essa va vista come la risorsa assiologica, motiva-
zionale e politica delle democrazie moderne, dove esprime il suo elevato
potere coesivo e mobilitante sul piano individuale e collettivo82
.
Rispetto la dinamica dei rapporti tra Stato e confessioni religiose, artt.
72 e 8
3 Cost., la laicità, è intesa dalla Corte Costituzionale, in regime di plu-
ralismo confessionale e culturale, come l‟impegno per la salvaguardia della
libertà di religione, ponendosi al servizio di concrete istanze della coscien-
80
Cfr L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali, Roma – Bari, 2001, p. 338 ss. 81
CFR. K. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Roma, 2002, p. 235 ss. 82
Cfr. M. RICCA, Le Religioni, Roma, 2004, p. 128.
45
za civile e religiosa del cittadino, principio applicato sia nella concezione
delle Intese che del Concordato83
.
Le relazioni ecclesiastiche odierne mostrano una situazione conforme
a costituzione, con una regolamentazione diversa tra la Chiesa Cattolica e
le Confessioni con intesa, e le confessioni religiose senza intesa, i cui rap-
porti sono regolati dalla legge dei culti ammessi del 1929.
Questa diversificazione tra le varie confessioni religiose, rispetto ai lo-
ro rapporti con lo Stato Italiano, è stata affermata anche da varie pronunce
della Corte Costituzionale, (la sentenza 195/93, dichiarava incostituzionale
una legge regionale che escludeva dai contributi per l‟edilizia di culto i Te-
stimoni di Geova perché privi di intesa con lo Stato, affermando che il cri-
terio da adottare doveva essere quello della presenza sul territorio di tale
confessione religiosa e della capacità da parte della stessa di soddisfare i
bisogni). Questo è l‟orientamento ormai consolidato, anche da successive
pronunce della stessa corte, (346/2002 avente ad oggetto la disparità di trat-
tamento tra confessioni religiose collegata al requisito della mancata stipu-
83
CFR. S. BERLINGÒ, Laicità e concordato, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista
telematica (www.statoechiese.it), febbraio 2007, afferma che «L‟istituto concordatario ha una
propria storia che, caratterizzata da lunghe traversie, contraddizioni e contrasti, si è iscritta
nell‟ambito del c.d. «diritto pubblico ecclesiastico esterno», ossia in un settore del diritto cano-
nico della Chiesa latina, per sua stessa denominazione, situato alla frontiera di
quest‟ordinamento. Le frontiere, com‟è ovvio, possono essere chiuse o aperte; e le linee di de-
marcazione o i presidi di confine possono spesso tramutarsi, lo annotò Arturo Carlo Jemolo,
traendo ispirazione da un‟immagine poetica a Lui cara, in linee di comunione, oltre che in realtà
e metafore della distinzione. Di tale ambivalenza o, se si preferisce, di tale ambiguità è intriso
tutto il vissuto dei concordati, per quanto assai vari siano i tratti specifici delle diverse epoche in
cui si è andata sviluppando questa esperienza».
46
lazione dell‟intesa). Trattamenti diversificati, si sono avuti anche con le
sentenze di dichiarazione di inammissibilità delle questioni proposte, le
sentenze 178/96 e 235/97 per le quali le confessioni religiose non coperte
da intesa non possono fruire di determinati benefici, perché mancano della
disciplina posta da una legge comune84
. In questi casi è possibile verificare
l‟affermazione del principio di supremazia delle fonti di natura pattizia, in-
tese e concordato, rispetto alle fonti unilaterali.
In un sistema pluralista Stato e chiese, anche se in modo diverso e a
differente titolo, si riconoscono reciprocamente appartenenti ad uno stesso
ambito culturale, sociale e politico, hanno soggettività e rappresentatività
giuridica, e riconoscono ambedue il valore primario della laicità, perché in-
teressa settori di interesse pubblico come la cultura, l‟arte, la scienza,
l‟istruzione, dove lo stato deve essere neutrale ed imparziale rispetto al sen-
timento religioso. In riferimento a dette caratteristiche ed applicazioni, la
laicità è intesa dalla corte costituzionale come la «non indifferenza dello
stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello stato per la salvaguardia della
libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale» (sent.
203/1989), concetto della laicità positiva.
Il concetto di laicità positiva, il quale presuppone alla base il dialogo,
frutto di un confronto con le nuove culture, può essere un valido strumento
84
Cfr. M.C. FOLLIERO, Multiculturalismo e aconfessionalità: versioni attenuate dei principi di
pluralismo e laicità, cit. p. 126.
47
politico e giuridico idoneo a definire il quadro condiviso dei valori comuni
non negoziabili85
. Questo è un fattore indispensabile in una società multi-
culturale, ricca di numerose istanze di ogni genere da parte di differenti
confessioni religiose, dove il sentimento di appartenenza alla comunità di
provenienza, corrisponde ad un patrimonio da preservare e trasmettere alle
nuove generazioni, traducendo nell‟agire individuale il superiore “senti-
mento di doverosità” che scaturisce dall‟appartenenza confessionale.
La laicità negativa è stata definita, in Francia, dal Rapporto della
Commissione Stasi istituita il 3 luglio 2003 dal Presidente della Repubblica
Jacques Chirac come «la pietra angolare del patto repubblicano, riposa su
tre valori indissociabili: libertà di coscienza, eguaglianza giuridica delle
opzioni spirituali e religiose, neutralità del potere politico. La libertà di co-
scienza permette a ciascun cittadino di scegliere la sua vita spirituale o reli-
giosa. L‟eguaglianza giuridica proibisce ogni discriminazione o costrizione
e lo stato non privilegia alcuna opzione. Infine il potere politico riconosce i
suoi limiti astenendosi ad ogni interferenza nell‟ordine spirituale o religio-
so. La laicità traduce in questo modo una concezione del bene comune.
Perché ogni cittadino possa riconoscersi nella repubblica, questa sottrae il
85
Cfr. G. DAMMACCO, Multiculturalismo e mutamento delle relazioni, in Multireligiosità e rea-
zione giuridica, cit., p. 98.
48
potere politico all‟influenza dominante di qualunque opzione spirituale o
religiosa, al fine di poter vivere insieme»86
.
Tale definizione richiama più volte la garanzia della libertà di co-
scienza “laïcité-neutralité”87
affermata a partire dalla Rivoluzione francese,
ed in particolare dall‟art. 10 della Dichiarazione dei diritti dell‟uomo e del
cittadino88
. A questo punto della storia moderna finì l‟illuminismo e venne
meno l‟ancien régime che con l‟assolutismo regio faceva assumere alla
Chiesa una posizione di estremo rilievo sul piano politico, perché trovava
la sua legittimazione nel diritto divino.
La recente legge francese che ha imposto il divieto di portare “osten-
sivamente” simboli religiosi nelle scuole pubbliche89
, rispecchia il principio
di laicità dello Stato ed il diritto di libertà religiosa, così come intesi nella
tradizione culturale e giuridica d‟oltralpe, ma è vista dagli islamici come
una vera e propria minaccia alla loro identità culturale e religiosa. Questa
politica si rivela, però adatta a spezzare i vincoli di appartenenza culturale,
86
B.STASI, Rapporto della Commissione di riflessione sull‟applicazione del principio di laicità
nella Repubblica, Francia, 11 dicembre 2003. 87
Cfr. C. TAYLOR, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Milano, 1993, p. 88 ss.,
«Uno Stato cioè che “non si schiera” rispetto alle differenze e che riconosce i diritti come uni-
versali, individuali, uguali per tutti e questo indipendentemente dai valori di riferimento dei sin-
goli individui. Questa è una pretesa disattesa poiché “il liberalismo non può né deve arrogarsi
una completa neutralità culturale”». 88
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 26 agosto 1789, così l‟art. 10 «Nessuno
deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non
turbi l‟ordine pubblico stabilito dalla legge». 89
Si tratta della legge 2004/228 del 15 marzo 2004, alla quale ha fatto seguito la Circolare del
18 maggio 2004 del Ministero dell‟educazione nazionale, l‟istruzione superiore e la ricerca. So-
no riprodotte nei Quaderni di dir. E pol, eccl,, 2, 2004, p. 552 ss.
49
e nasconde l‟intolleranza della sfera pubblica nell‟accettazione delle diffe-
renze che devono essere considerate normali in una società multiculturale90
.
In rapporto al principio di neutralità può essere rilevato il principio di
precauzione, quando lo Stato vede l‟astensione, il solo modo di evitare
l‟incertezza, la pericolosità sociale o l‟oppressione individuale, che potreb-
bero essere generate da moltiplicazioni di interpretazioni soggettive del
mondo simbolico91
Ma perché deve essere solo il velo islamico a creare un clima ostico,
quasi come un attentato, nei confronti della laicità dello Stato, quando in-
vece, è già da molti decenni che la gran parte della popolazione indossa ed
introduce nei luoghi pubblici, ma anche per strada, catenine appese al collo,
con croci più o meno vistose ed ostensive? A questa domanda risponde
Sergio Ferlito osservando che la catenina con il crocifisso ha goduto di li-
bera circolazione nello spazio pubblico «non perché tollerata, ma più sem-
plicemente perché è passata inosservata». È stato considerato un caso di le-
sione della laicità della Repubblica l‟hijab, non perché sia materialmente
più visibile, come è ovvio che lo sia, ma perché ha una maggiore visibilità
culturale rispetto alle catenine, le quali invece non producono differenze
eccentriche nelle normali abitudini mentali del sistema culturale moderno92
90
Cfr. S. FERLITO, Le religioni, il giurista, l’antropologo, cit., p. 44. 91
Cfr. L. L. CHRISTIANS, Vers un principe de précaution religieuse en Europe? Risques sectai-
res et conflit des normes, in Il Diritto ecclesiastico, 2001, p. 171 ss.. 92
Cfr. S. FERLITO, Le religioni, il giurista, l’antropologo, cit., p. 46.
50
La definizione del principio di laicità su richiamato, menziona l‟unico
esempio di Stato laico, una Nazione liberale, con legislazione anticlericale
e di stampo unilaterale93
, e quindi un sistema di rapporti con le confessioni
religiose di tipo concordatario e a tutela differenziata, cioè attraverso inte-
se, che, riguardo l‟esperienza italiana, non può considerarsi uno Stato del
tutto laico94
, non può porre a base della propria esistenza valori, che anche
se diffusi, non fanno parte del patrimonio culturale di tutti gli individui, ma
solo di una maggioranza. È proprio in questo caso che lo Stato garantisce la
sua laicità, rappresentando tutti i cittadini e ponendosi su posizioni asetti-
che.
Tipico esempio italiano, una società basata su rilievi confessionali ap-
partenenti alla maggioranza dei cittadini, si rileva dall‟apposizione di sim-
boli religiosi nei tribunali e nelle scuole, dal fatto che i vescovi cattolici so-
no considerati ad un tempo autorità ecclesiastiche e dello Stato, e i parroci
celebranti il matrimonio ufficiali dello stato civile e così via95
.
In questo elemento è rintracciabile la causalità dell‟esercizio positivo
della libertà religiosa attraverso l‟esposizione dei simboli individuali e col-
lettivi.
93
Cfr. L GUERZONI, Considerazioni critiche sul principio supremo di laicità dello Stato alla
luce dell’esperienza giuridica contemporanea, in Dir. Eccl., 1992, p. 86 ss. 94
M. TEDESCHI, Manuale di diritto ecclesiastico , Torino, 2004, p. 104. 95
Cfr. A.C. JEMOLO, Le probléme de la laïcité en Italie, nel vol. La laïcité, Parigi, 1960, p. 455
ss.
51
4. … Verso un codice interpretativo laico condiviso.
Anche e soprattutto, in materia di simboli religiosi, analizzare da vici-
no gli interventi della giurisprudenza in materia religiosa, può essere lo
spunto per individuare il loro orientamento caso per caso, per la creazione
di un “codice condiviso” da utilizzare per la risoluzione delle controversie
future. Avere un codice aiuta a risolvere i problemi già nella fase preventi-
va rispetto a quella litigiosa, ed evitare quindi, quell‟enorme conflitto in
termini teorici che esiste in quest‟ambito.
Una società senza regole costituisce un insieme di persone che cerca-
no di risolvere da sole tutti i problemi, ma senza avere i giusti strumenti
giuridici, si finisce solo per creare scontri di civiltà, tensioni basate su con-
vinzioni religiose diverse, che non permettono una civile convivenza, e
comportano quindi il fallimento dello stato.
Una tale situazione di conflitto comporta una litigiosità molto frequen-
te sia sul piano dei rapporti personali, ma anche su quello patrimoniale, dei
singoli e delle confessioni religiose, ai quali lo stato, per mezzo della costi-
tuzione in primis (Art. 19), e di tutto l‟ordinamento poi, devono assicurare
52
la massima espressione della libertà religiosa96
, che ognuno può esplicare
solo se conosce e sa applicare norme adeguate e valide per tutti.
Il sistema giuridico, quindi, se non fornisce quelle risposte ricercate da
tutti, non sarà mai laico, non potranno costruirsi quei valori validi che ser-
vono per l‟interpretazione della propria vita relazionale in una società mul-
ticulturale e multireligiosa.
«La creazione, quindi, di una sorta di codice interpretativo laico con-
diviso può aiutare in modo concreto la difficile opera di mediazione e con-
siglio che i tecnici del diritto dovranno sempre più svolgere nella società
multireligiosa dell‟oggi e del prossimo ipotizzabile futuro»97
.
96
G. CATALANO, Sovranità dello Stato e autonomia della Chiesa nella Costituzione repubbli-
cana. Contributo all’interpretazione sistematica dell’articolo 7 della Costituzione, Milano,
1974, p. 6, chiarisce che la libertà religiosa «è sorta e si è affermata non come attuazione di una
ideologia religiosa, ma sul terreno della concezione dello Stato moderno e dell‟astrattismo giu-
ridico. L‟interesse individuale alla libertà in materia di credenze religiose è stato così protetto in
modo autonomo e non già per riflesso della libertà riconosciuta ad un culto». 97
A. FUCCILLO, Diritto vivente e laicità. Percorsi di diritto ecclesiastico civile, in ID. Giustizia
e Religione. L’agire religioso nella giurisprudenza civile, cit., pag. 6.
53
CAPITOLO TERZO
I SIMBOLI RELIGIOSI COLLETTIVI
NEGLI SPAZI PUBBLICI
SOMMARIO: 1. Brevi cenni introduttivi. – 2. L‟esposizione di simboli religiosi nei luoghi
pubblici, in particolare: nelle aule scolastiche. – 3. … Nei seggi elettorali. – 4. … Nelle
aule giudiziarie.
1. Brevi cenni introduttivi
È interessante iniziare questa ricerca attraverso una frase colta dal
pensiero di Jung, «una parola o un‟immagine è simbolica quando implica
qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato. Essa pos-
siede un aspetto più ampio, “inconscio”, che non è mai definito con preci-
sione o compiutamente spiegato. Né si può sperare di definirlo o spiegarlo.
Quando la mente esplora il simbolo, essa viene portata a contatto con idee
che stanno al di là delle capacità razionali»98
. I simboli collettivi, raffigu-
98
C. G. JUNG, L’uomo e i suoi simboli, Milano, 2004, p 5.
54
ranti immagini religiose, sono dotati di un profondo valore suggestivo, e
agiscono con particolare forza sul piano non razionale, determinando “as-
sunzioni di senso” non consapevoli99
.
L‟esposizione di immagini sacre (e in particolare del crocifisso) nei
luoghi pubblici può tradursi in una implicita richiesta di identificazione nei
valori religiosi proposti. In questo senso, il linguaggio simbolico si propone
come un mezzo di trasmissione delle culture, in un ambito, quello pubblico,
soggetto a pressioni di ogni genere, (neutralità o confessionalità), in grado
anche, in ambienti scolastici, di esercitare un peculiare condizionamento
culturale su soggetti minori, non ancora capaci di discernere le condizioni
esteriori del mondo100
.
Quando parliamo di luoghi pubblici dobbiamo fare alcune precisazio-
ni, distinguere quelli in senso stretto, così come inteso al terzo comma
dell‟art. 17 Cost. «Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preav-
viso alle autorità, …», ossia vie o piazze; e quelli in senso lato quali sedi
pubbliche, istituti scolastici, ospedali pubblici, seggi elettorali, ecc.101
Ri-
guardo la prima accezione, esporre i simboli significa esercitare il diritto di
libertà religiosa, comprendente la facoltà di mostrare in pubblico la propria
identità religiosa attraverso l‟uso di segni distintivi tipici del proprio credo
99
Cfr. L. ACCATI, Scacco al padre. Immagini e giochi di potere, Venezia, 2007, p. 11. 100
Cfr. F. RIMOLI, Laicità, postsecolarismo, integrazione dell’estraneo: una sfida per la demo-
crazia pluralista, in Diritto pubblico, 2006, p. 358. 101
Cfr. P. VIPIANA, Neutralità degli spazi pubblici e diritto all’identità religiosa
nell’ordinamento italiano: orientamenti giurisprudenziali, in ID. Libertà Religiosa e Laicità, a
cura di G. Rolla, Napoli, 2009, p. 134.
55
confessionale. Per i luoghi pubblici in senso lato, invece, la libertà religiosa
deve coniugarsi con la laicità dello Stato, comportanti scelte politiche, circa
la neutralità o meno, e il modo di esprimerla, degli spazi pubblici.
In riferimento all‟esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici
in senso lato, così come illustrato in precedenza, prendiamo in esame il
problema rispetto tre tipologie di uffici pubblici, le aule scolastiche delle
scuole pubbliche (nelle scuole private è ammissibile), i seggi elettorali e le
aule giudiziarie.
2. L’esposizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici, in particolare:
nelle aule scolastiche.
Nell‟ordinamento giuridico italiano sono presenti due disposti di gra-
do regolamentare risalenti agli inizi del „900 riguardante la presenza dei
simboli religiosi nelle aule scolastiche: l‟art. 118 r.d. 30 aprile 1924, n. 965
sulle scuole medie, e l‟art. 119 r.d. 26 aprile 1928, n. 1297 sulle scuole
elementari. Il primo citato, disciplina l‟arredo degli istituti di istruzione
media, e dispone: «Ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l'im-
magine del Crocifisso e il ritratto del Re»; il secondo invece si riferisce alle
scuole elementari: «Gli arredi, il materiale didattico delle varie classi e la
dotazione della scuola sono indicati nella tabella C allegata al presente re-
golamento…TABELLA C - Tabella degli arredi e del materiale occorrente
nelle varie classi e dotazione della scuola. Prima classe. 1. Il Crocifisso…»,
è evidente quindi l‟intento del legislatore dell‟epoca, di stampo statutario,
56
di arredare le aule con il simbolo religioso rappresentante la religione di
Stato.
Tali disposizioni regolamentari102
sono state incluse nel testo unico in
materia di istruzione nelle scuole di ogni ordine e grado (art. 190 e 159
d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297), il quale affida al comune l‟onere di provve-
dere alla manutenzione e rinnovamento dell‟arredo scolastico delle scuole
medie ed elementari.103
Dal 1924 ad oggi sono variati i principi fondamentali su cui si basava
la normativa dell‟arredo scolastico, e non sono mancate le pronunce giuri-
sprudenziali in merito alla questione della vigenza o meno di tali norme.
Nel 1988 è intervenuto il Consiglio di Stato, sezione II, con il parere n. 63
del 1988, chiesto dal ministero della Pubblica Istruzione, il quale ha ribadi-
to che dette norme, di rango regolamentare, «sono preesistenti ai Patti Late-
102
La natura regolamentare si desume da: «specifiche previsioni che li autoqualificano come tali
(ad es. l'art. 144 del r.d. 965/24, e la stessa intestazione per il r.d. 1297/28); nei rispettivi pream-
boli, sono richiamati atti di grado sicuramente legislativo – il testo unico delle leggi sull'istru-
zione elementare, approvato con il r.d. 5 febbraio 1928, n. 577, da una parte, ed il r.d. 6 maggio
1923, n. 1054, recante l'ordinamento della istruzione media, dall'altra rispetto ai quali sono de-
stinati ad introdurre norme attuative di dettaglio.», Consiglio di Stato, sez. II, 15 febbraio 2006,
n: 4575/2003 – 2482/2004. 103
Cfr. R. BIN, Inammissibile, ma inevitabile, in La laicità crocifissa? Il nodo costituzionale dei
simboli religiosi nei luoghi pubblici, a cura di R. BIN, G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONE-
SI, Torino, 2004, p. 40, fa una rassegna dei “problemi pratici” che i capi delle strutture scolasti-
che (e pubbliche in genere) devono affrontare per l‟acquisto dei crocifissi: “Ci deve essere una
precisa descrizione del bene da acquistare nel bando di gara: plastica o legno, con o senza il
corpo di Cristo (cattolici e protestanti si dividono), greca o latina (cattolici e ortodossi si divido-
no), ovviamente senza uncini o altri simboli più fortemente connotanti. Chi è l‟autorità pubbli-
ca, in uno Stato laico, che definisce quale sia la <vera> croce? Tutto ciò non incide sulla libertà
religiosa? Tutto ciò non taglia la pretesa universalità del simbolo?”.
57
ranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi», ed inoltre
che «Nulla, infatti, viene stabilito nei Patti Lateranensi relativamente
all‟esposizione del Crocifisso nelle scuole o, più in generale negli uffici
pubblici, nelle aule dei tribunali e negli altri luoghi nei quali il Crocifisso o
la Croce si trovano ad essere esposti». Per cui queste norme, anche alla luce
degli Accordi di Villa Madama resi esecutivi con la Legge 25 marzo 1985,
n. 121, in cui la materia non è in alcun modo contemplata, così come con i
patti «non possono influenzare, né condizionare la vigenza delle norme re-
golamentari di cui trattasi», ed in mancanza di norme sopravvenute che re-
golano l‟intera materia o che si pongano in contrasto con la precedente di-
sciplina, non si può ravvisare una forma di abrogazione della normativa
previgente. Il Consiglio di Stato si spinge anche oltre la semplice questione
giuridico-normativa, e affronta il problema del merito dell‟esposizione del
simbolo, il crocifisso, «la Costituzione repubblicana, pur assicurando pari
libertà a tutte le confessioni religiose non prescrive alcun divieto alla espo-
sizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come quello del Crocifisso,
per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio
storico. Né pare, d‟altra parte, che la presenza dell‟immagine del Crocifisso
nelle aule scolastiche104
possa costituire motivo di costrizione della libertà
104
R. TOSI, I Simboli religiosi e i paradigmi della libertà religiosa come libertà negativa, in La
laicità crocifissa? Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, Torino, 2004,
p. 308, rileva che «è una forma di estrema arroganza imporre a chi è debole ed impaurito, maga-
ri trovandosi a fronteggiare il momento più difficile di ogni vita, un simbolo che non gli appar-
tiene».
58
individuale a manifestare le proprie convinzioni in materia religiosa». Con-
clude il Consiglio affermando che i regi decreti del 1924 e del 1928, con-
cernenti l‟esposizione del Crocifisso nelle scuole, «non attengono
all‟insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli
impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, deve ritenersi che esse
siano tuttora legittimamente operanti».
Altra pronuncia, questa volta della Corte Costituzionale, del 13 di-
cembre del 2004105
, ha dichiarato l‟inammissibilità della questione riguar-
dante la legittimità costituzionale degli articoli 159 e 190 del d.lgs. 16 apri-
le 1994, n. 297, in quanto forniscono fondamento legislativo, rispettiva-
mente, all'art. 119 (e allegata tabella C) del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, e
all'art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, perché fra le menzionate disposi-
zioni legislative, da un lato, e quelle regolamentari dall‟altro, non esiste
quel rapporto di integrazione e specificazione, che avrebbe consentito la
loro impugnazione per tramite delle prime. In questo caso si sarebbe creato
«un improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo di una que-
stione di legittimità concernente le norme regolamentari richiamate: norme
prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di
legittimità costituzionale, né, conseguentemente, un intervento interpretati-
105
Corte Costituzionale, ordinanza n. 389/2004.
59
vo di questa Corte»; sono queste le parole pronunciate dalla corte e che of-
frono in pieno il senso del problema.
Sulla questione torna il Consiglio di Stato con il parere 15 febbraio
2006 n. 4575/03-2482/04 affermando nuovamente la natura regolamentare
delle norme sull‟arredo scolastico, e la loro non abrogazione ne espressa ne
tacita da parte della costituzione repubblicana e delle norme successive.106
Con questa pronuncia la corte ammette anche che: «il crocifisso non
può, oggi, essere considerato come un mero simbolo storico e culturale,
nemmeno nel contesto scolastico, ma deve essere valutato anche come un
simbolo religioso»; costituisce questa una presa di coscienza della realtà,
molto importante che fa presagire una proficua puntualizzazione del pro-
blema da parte dei giudici di merito che devono decidere su questa questio-
ne molto delicata.107
Sull‟esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche sono intervenute,
avendo a riferimento il quadro normativo e giurisprudenziale sopra descrit-
to, numerose pronunce di merito. 106
Consiglio di Stato, sez. II, 15 febbraio 2006, n: 4575/2003 – 2482/2004, «Neppure va sotta-
ciuta la circostanza che le norme sull'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche risalgono
addirittura al 1859, in un contesto storico di profonda laicità dello Stato, desumibile dal noto
aforisma cavouriano "libera Chiesa in libero Stato". Segno evidente, proprio sotto il profilo sto-
rico, che l'esposizione del simbolo cristiano era considerata all'epoca, accanto alla posizione del
ritratto del re e della bandiera, come richiamo ai valori unificanti della nazione. Va ancora ri-
cordato, per seguire l'impronta storicistica del ricorrente, che l'esposizione del crocifisso nelle
scuole é perdurata tanto a lungo, anche dopo la caduta del fascismo, che qualcuno ne ha parlato
come di una consuetudine nel senso giuridico del termine». 107
In senso contrario la sentenza del T.A.R. Veneto, n. 1110 del 22 marzo 2005, rileva che il
crocifisso costituisce un simbolo storico-culturale, facente parte del patrimonio storico del po-
polo italiano.
60
La prima pronuncia risale alla metà degli anni ‟80, il 28 aprile 1986,
quando il Pretore di Roma ha respinto la domanda di rimozione del croci-
fisso dall‟aula scolastica, dichiarando nella motivazione della sentenza che
il crocifisso è «un bene che costituisce parte del pubblico patrimonio indi-
sponibile. A ciò deve aggiungersi che la presenza di un arredo siffatto non
può costituire pregiudizio alcuno per la formazione culturale e ideologica
dell‟alunno perché, pur costituendo il crocifisso un simbolo della religione
cristiana (e non soltanto di quella cattolica), esso assume rilievo per lo Sta-
to Italiano, data la particolare importanza che la figura di Cristo ha assunto
nella nascita e nella evoluzione della civiltà occidentale, come dimostrato,
tra l‟altro, dall‟alta testimonianza di un uomo di cultura laica come Bene-
detto Croce, il quale pubblicamente riconosceva che “non possiamo non
dirci cristiani”», in senso contrario la teologa Adriana Zarri sulla presenza
del crocifisso nelle aule «Se non comprendiamo che questa collocazione è
insultante per la fede vuol dire che la nostra non è fede»108
.
Più di recente, il Tribunale dell‟Aquila in composizione monocratica
con ordinanza del 23 ottobre 2003, dopo aver dichiarato la propria giurisdi-
zione, in quanto eccezione, prevista dall‟art 33, c. 2, lett. e, del d.lgs. 31
marzo 1998 n. 80, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,
ha accolto il ricorso presentato in via d‟urgenza ex art. 700 c.p.c., da un ge-
nitore di religione islamica, di rimozione del crocifisso dall‟aula di una
108
A. ZARRI, Quel crocefisso, togliamolo, in “Il Manifesto”, 8-9 giugno 1986.
61
scuola materna ed elementare frequentate dai figli professanti la sua stessa
fede religiosa. Il giudice rileva che l‟esposizione del crocifisso nelle aule
scolastiche è criticabile perché contrasta con la libertà religiosa costituzio-
nalmente garantita, considerando che l‟Accordo di Villa Madama ha sop-
presso il principio del cattolicesimo come religione di Stato. Nel testo
dell‟ordinanza è possibile ricavare alcuni significati: afferma la tesi secon-
do cui i simboli possono rimanere in aula solo se tutti gli alunni maggio-
renni vi acconsentono109
, e se anche uno di loro è contrario, il simbolo deve
essere rimosso;110
inoltre, la stessa corte rileva che è parimenti lesiva della
libertà di religione l‟esposizione nelle aule scolastiche di simboli di altre
109
A. FUCCILLO, Il Crocifisso (e le polemiche) di Ofena tra tutela cautelare e libertà religiosa,
in «Diritto e Giustizia», n. 43, 6 dicembre 2003, p. 87 ss., nel commentare le note vicende rela-
tive all‟esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche ha notato: «È la vecchia questione dei
limiti alle proprie libertà che si riscontrano nell‟esercizio delle libertà altrui. Il rischio, altrimen-
ti, è che ci si trovi di fronte ad una società governata dal particolarismo religioso, ove gli abitan-
ti cattolici di via Lutero potrebbero chiedere il cambio di denominazione della strada, gli abitan-
ti musulmani di un palazzo ove è sita la sala del Regno dei testimoni di Geova potrebbero chie-
derne lo spostamento, oppure gli abitanti atei di un palazzo chiedere lo spostamento di una sta-
tua religiosa posta nella piazza di fronte casa loro, e così via. I brevi esempi riportati credo già
chiariscano il rischio che si corre ad interpretare in tal guisa il concetto di libertà religiosa indi-
viduale, senza miscelarlo con la giusta dose di tolleranza e buon senso». 110
In senso contrario: P. VIPIANA, Neutralità degli spazi pubblici e diritto all’identità religiosa,
in ID., Libertà religiosa e laicità, cit., p. 136, «è da respingere questa tesi in quanto è in que-
stione non solo la libertà di religione degli alunni, ma anche la neutralità di un istituzione pub-
blica, non è possibile prospettare una realizzazione del principio di laicità dello stato e, quindi,
della libertà di religione dei consociati “a richiesta”, ma piuttosto deve essere connaturato
all‟operare stesso dell‟amministrazione pubblica»; A. FUCCILLO (con la collaborazione di E.
MATTU, F. SORVILLO), La querelle italiana sulla esposizione dei simboli religiosi nei luoghi
pubblici, in ID., Giustizia e Religione. L’agire religioso nella giurisprudenza civile, cit., p. 254,
«Le giustificazione addotte per ritenere non in contrasto con libertà di religione l‟esposizione
del crocifisso delle scuole così come di ogni altra forma di costituzionalismo statale, sono dive-
nute ormai giuridicamente inconsistenti, storicamente e socialmente anacronistiche, addirittura
contrapposte alla trasformazione culturale dell‟Italia e, soprattutto, ai principi costituzionali che
impongono il rispetto per le convinzioni degli altri e la neutralità delle strutture pubbliche di
fronte ai contenuti ideologici».
62
religioni, in quanto la contemporanea presenza di più simboli religiosi eli-
derebbe la valenza confessionale dell‟esposizione solo del crocifisso, e ri-
marcherebbe l‟imparzialità dell‟istituzione scolastica pubblica di fronte al
fenomeno religioso da realizzarsi attraverso la mancata esposizione di sim-
boli religiosi piuttosto che attraverso l‟affissione di una pluralità di simbo-
li111
che potrebbe non essere esaustiva, e che comunque finirebbe per ledere
la libertà religiosa di coloro che non hanno alcun credo112
.
Circa un mese dopo, il 29 novembre 2003, lo stesso tribunale ma in
composizione collegiale, sempre con ordinanza, ha revocato la precedente
pronuncia affermando l‟incompetenza del giudice ordinario, e, senza con-
siderare l‟aspetto sostanziale della vicenda, dichiara che l‟attività svolta
111 Si pronuncia contro l‟esposizione di una pluralità di simboli religiosi C. MARTINELLI, La
laicità come neutralità, in www.statoechiese.it, aprile 2007, ritenendola non solo contraria alla
laicità come neutralità, ma anche perché «non tutte le confessioni religiose si identificano in una
simbologia che si presta all‟affissione permanente su di un muro» e perché «in questo modo non
verrebbe tutelata la sensibilità di chi, legittimamente, fosse portatore di una concezione laica
della vita». 112
F. RIMOLI, Ancora sulla laicità: ma la Corte non vuole salire sulla croce…, in dibattiti di
www.associazionedeicostitzionalisti.it, 25 gennaio 2005, « il problema di fondo, che renderà
presto non procrastinabile una vera scelta, anche da parte della Corte: l‟eguaglianza in materia
di simboli o manifestazioni religiose nei luoghi pubblici non può perseguirsi “verso l‟alto”, ri-
conoscendo, additivamente, diritti a tutti: la neutralità dell‟istituzione pubblica sarà praticamen-
te sostenibile solo in senso opposto, cioè se non sarà data ad alcuno la possibilità di occupare
tali spazi, in sé sempre limitati, di fatto escludendo altri. In questa delicata materia, la parete di
un‟aula è, in fondo, una buona metafora: la sua area non è infinita, e riempirla di simboli finisce
prima o poi col creare un inevitabile scontro per l‟ultimo angolo. Mentre un muro bianco non è
mai vuoto per chi trova la ragione della propria fede in sé, e non ha bisogno di oggetti che glie-
ne ricordino il senso»; in senso contrario: J. WEILER, La laicità non è una parete bianca, in
Crocifisso e sentenza della Corte: contributi da ilsussidiario.net, p. 136, « Non è vero che la
parete bianca è la soluzione migliore. Piuttosto, sarebbe bene cominciare a immaginare nuove
soluzioni al problema, perché l‟idea della parete bianca non è neutrale, è molto vecchia, e non
risolverebbe nulla. Piuttosto, chi ha a cuore questa questione, e tra costoro i laici, dovrebbe co-
minciare a interrogarsi anche su quali simboli vorrebbero vedere nelle scuole, e non solo su qua-
li non vorrebbero».
63
nelle aule scolastiche fa parte del “servizio della pubblica istruzione”, attri-
buito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non rientran-
do questa materia nell‟eccezione configurata dall‟art. 33, c. 2, lett. e), d.lgs.
31 marzo 1998, n. 80 come modificato dall‟art. 7, l. 21 luglio 2000, n. 205,
tra cui riguarda i “rapporti individuali di utenza con soggetti privati” poiché
le norme sull‟esposizione del crocifisso hanno effetto nei confronti di sog-
getti indifferenziati quali gli alunni di tutte le scuole, e le controversie me-
ramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o alle cose, dato
che la richiesta mossa al giudice da parte del padre dei due non bambini ri-
guardava il risarcimento del danno arrecato alla libertà religiosa degli stes-
si, ma come tutela alla misura di carattere inibitorio.
Sentenza questa che è stata poi confermata, tre anni più tardi dalla
Corte di Cassazione, che a sezioni unite civili, con l‟ordinanza 10 luglio
2006, n. 15614, ha dichiarato che la richiesta di rimozione del crocifisso
non assume carattere risarcitorio e «investe in via diretta ed immediata il
potere dell'Amministrazione in ordine all'organizzazione ed alle modalità di
prestazione del servizio scolastico». La corte non si limita solo all‟aspetto
formale ma dichiara altresì che il crocifisso non può «per il suo valore esca-
tologico e di simbolo fondamentale della religione cristiana, essere consi-
derato alla stregua di qualsiasi componente dell‟arredo scolastico», e «nella
materia dei pubblici servizi attribuisce al giudice amministrativo la giuri-
sdizione esclusiva, se in essa la pubblica amministrazione agisce esercitan-
64
do il suo potere autoritativo (ovvero si avvale della facoltà riconosciutale
dalla legge di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autori-
tativo), venendo qui in discussione provvedimenti dell'autorità scolastica
che hanno dato attuazione, all' interno dell'istituto frequentato dai figli dei
ricorrenti, a disposizioni di carattere generale adottate nell'esercizio del po-
tere amministrativo, e quindi riconducibili alla pubblica amministrazione-
autorità».
Nel tempo intercorso tra le due ultime pronunce, non sono mancate
sollecitazioni ad alcuni Tribunali Amministrativi Regionali, per dover ri-
solvere questioni inerenti all‟esposizione dei simboli religiosi nei luoghi
pubblici, prima fra tutte per i suoi sviluppi attuali e mediatici che ha avuto
questa vicenda (il caso Lautsi). Il T.A.R. Veneto con l‟ordinanza 14 gen-
naio 2004, n. 56, di rimessione alla corte costituzionale della questione di
legittimità nei confronti degli articoli 159 e 190 d.lgs. n. 297/1994, come
specificati rispettivamente dall‟art. 119 r.d. n. 1297/1928 e dall‟art 118 r.d.
n. 965/1924, e dell‟art. 676 d.lgs. n. 297/1994 per contrasto con il principio
di laicità dello Stato quale risultante dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della costi-
tuzione. La corte oltre le questioni strettamente giuridiche dichiara anche
che «1'esposizione di un simbolo venerato dal cristianesimo nelle aule sco-
lastiche, (così come lo sarebbe ogni altra disposizione che stabilisse la pre-
senza di simboli di altre fedi): non è pienamente conciliabile con la posi-
zione di equidistanza e imparzialità tra le diverse confessioni che lo Stato
65
deve comunque mantenere», ed inoltre l‟ambiente in cui si svolge questo
dibattito è peculiare in quanto riguarda gli «spazi destinati all'istruzione
pubblica, cui tutti possono accedere (anzi debbono), per ricevere l'istruzio-
ne obbligatoria (art. 34 Cost.), e che lo Stato assume tra i suoi compiti fon-
damentali, garantendo la liberta d'insegnamento (art. 33 Cost.)». In questi
luoghi «la presenza del crocifisso viene obbligatoriamente imposta agli
studenti, a coloro che esercitano la potestà sui medesimi e, inoltre agli stes-
si insegnanti», per cui una norma che prescrive tali obblighi « sembra deli-
neare una disciplina di favore per la religione cristiana, rispetto alle altre
confessioni, attribuendole una posizione di privilegio che, secondo i princi-
pi costituzionali, non può trovare giustificazione neppure nella sua indub-
bia maggiore diffusione, ciò che può semmai giustificare nelle singole
scuole, secondo specifiche valutazioni, il rispetto di tradizioni religiose,
come quelle legate al Natale o alla Pasqua, ma non la generalizzata presen-
za del crocifisso».
La risposta a questa questione da parte della Corte Costituzionale è ar-
rivata dopo non più di un anno, il 15 dicembre 2004, e, con ordinanza di-
chiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costitu-
zionale degli articoli impugnati (vedi sopra), per cui non sussiste tra quel
rapporto di specificazione e integrazione tra le disposizioni legislative del
testo unico del 1994 e le norme regolamentari rispettivamente del 1924 e
66
del 1928, sulla presenza obbligatoria del crocifisso nell‟arredo scolastico113
,
e la corte quindi non può sindacare la legittimità di norme regolamentari,
quali i regi decreti del 1924 e 1928. Questa decisione della Corte è stata da
molti criticata nella dottrina, perché senza approfondire l‟esame ed entrare
nel merito della questione, ha deciso di non decidere114
, una scelta orientata
dalla volontà di evitare le strettoie di un impegnativo giudizio di merito115
che ha solo accennato, ma a livello generale, affermando il fatto che «di-
sposizioni legislative alludano all'arredo scolastico, ricomprendente anche i
crocifissi, non comporta certo una specifica disciplina dell'uso dei medesi-
mi»116
. Con questa decisione il tentativo di eliminare le disposizioni che
prevedono l‟esposizione del crocifisso negli uffici pubblici subisce una bat-
tuta d‟arresto117
, ed inoltre lascia in piedi la questione se ci siano disposi-
113
Obbligo non sussistente, ad esempio, per F. MARGIOTTA BROGLIO, Obbligatorio o non ob-
bligatorio? Il crocifisso per ora resta appeso, in www.olir.it, dicembre 2004, il quale, commen-
tando l‟ordinanza del 2004 della Corte costituzionale, osserva che “la questione è inammissibi-
le, ma proprio in quanto non vi sarebbe un obbligo legislativo alla affissione del crocifisso”, la
cui presenza nelle scuole rimarrebbe nell‟ambito di autonomia delle singole istituzioni e delle
decisioni discrezionali degli organi direttivi delle medesime. 114
S. CECCANTI, Crocifisso: dopo l’ordinanza 389/2004. I veri problemi nascono ora, in Forum
di Quaderni costituzionali, www.forumcostituzionale.it, p. 1, la corte sceglie «di allontanare da
sé l'amaro calice, per non essere crocifissa. L'ordinanza è molto stringata: sostiene solo che si
tratta di norme regolamentari su cui la Corte è incompetente». 115
A. PUGIOTTO, Sul crocifisso la Corte costituzionale pronuncia un'ordinanza pilatesca, pub-
blicata in Diritto&Giustizia, 2005, n.3. 116
G. GEMMA, Spetta al giudice comune, non alla Corte costituzionale, disporre la rimozione
del crocifisso, in La laicità crocifissa? Il nodo costituzionale dei simboli religiosi nei luoghi
pubblici, a cura di R. BIN, G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI, Torino 2004, p. 161. 117
N. FIORITA, L. ZANNOTTI, La Corte in Croce, in www.olir.it, 2004, p. 1, in merito
«L‟ordinanza di remissione si sforzava in tutti i modi di individuare una copertura legislativa
alle norme regolamentari oggetto di impugnazione e probabilmente permetteva alla Corte anche
di comportarsi diversamente. La sensazione allora è quella che abbia prevalso la prudenza, ov-
vero abbia prevalso tra i giudici costituzionali la volontà di non adottare una decisione nel meri-
67
zioni legislative che reggono e giustificano le norme regolamentari che co-
stituiscono ad oggi, l‟unica fonte normativa, su cui si poggia la presenza
del crocifisso nelle strutture pubbliche118
.
A seguito della pronuncia della Corte Costituzionale fin qui indicata,
il T.A.R. Veneto, sez. III, ha emesso la sentenza 22 marzo 2005, n. 1110,
con la quale ha rigettato il ricorso del genitore che contestava la presenza
del crocifisso nell‟aula scolastica dei propri figli islamici perché «non solo
non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio
della laicità dello Stato repubblicano». È questo il punto centrale della sen-
tenza per la quale il giudice amministrativo giustifica la presenza del croci-
fisso nei luoghi pubblici sostenendo le ragioni storiche, culturali ed anche
religiose per cui esso sarebbe non solo non contrastante, ma addirittura
confermativo del principio di laicità dello Stato, principio, questo, che co-
stituisce «uno dei profili della forma di Stato delineato dalla Carta costitu-
zionale della Repubblica (C. Cost. 203/89) nel quale hanno da convivere, in
uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse (C. Cost.
440/1995)»119
.
La corte entra nel dettaglio della decisione, interrogandosi sul valore
polisemantico del crocifisso, il quale va osservato come esso «costituisca
anche un simbolo storico-culturale, dotato di una valenza identitaria riferita to, che avrebbe suscitato la reazione dell‟opinione pubblica e avrebbe alimentato nuove intermi-
nabili divisioni». 118
Cfr. N. FIORITA, L. ZANNOTTI, La Corte in Croce, in www.olir.it, 2004, p. 2. 119
T.A.R. VENETO, sez. III, sentenza 22 marzo 2005, n. 1110
68
al nostro popolo», riconosciuta del resto anche dal concordato (l. 25 marzo
1985, n. 121, art. 9) come «parte del patrimonio storico del popolo italia-
no», che «indubbiamente rappresenta in qualche modo il percorso storico e
culturale caratteristico del nostro Paese e in genere dell'Europa intera e ne
costituisce un'efficace sintesi». Se dunque si dovesse considerare esclusi-
vamente il valore storico del simbolo, conclude il giudice, sarebbe agevole
risolvere la questione giuridica rigettando il ricorso, in quanto «un segno
che riassume alcuni rilevanti aspetti della nostra civiltà, della nostra cultura
umanistica nonché della nostra coscienza popolare non lederebbe in alcun
modo la laicità dello Stato». Ma è chiaro che il crocifisso è un simbolo an-
che religioso, così come il cristianesimo, di cui esso è segno, non è solo un
movimento culturale ma (principalmente) un'esperienza di fede, essi hanno
dunque una valenza culturale in quanto espressivi di un'esperienza religio-
sa120
e questa dimensione rappresenta il punto nevralgico del ricorso. Del
resto, sarebbe riduttivo e semplicistico considerare, la croce quale mero se-
gno storico e culturale, e altrettanto limitativo sarebbe correlare automati-
camente e acriticamente la qualificazione di tale simbolo quale religioso
con il divieto di collocarlo in un'aula di una scuola pubblica. Per risolvere
la controversia, quindi, è necessario «approfondire la sua particolare inci-
120
M. CARTABIA, Il crocifisso e il calamaio, in AA. VV. La laicità crocifissa? Il nodo costitu-
zionale dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, cit., p. 65.
69
denza sul concetto di laicità, giuridicamente e costituzionalmente garantito,
che si intende preservare e difendere»121
.
Il T.A.R. conclude dicendo che il crocifisso «può essere legittimamen-
te collocato nelle aule della scuola pubblica, in quanto non solo non contra-
stante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità
dello Stato»122
.
La decisione del giudice sembra dunque proporre una riflessione più
ampia legata alle caratteristiche specifiche che la laicità ha assunto e assu-
me nel nostro ordinamento per meglio valutare la legittimità o illegittimità
delle norme contestate123
.
Contro la suddetta sentenza del TAR Veneto è stato proposto appello
al Consiglio di Stato, che il 13 febbraio 2006 con la decisione n. 556 ha re-
spinto il ricorso dichiarando che l‟esposizione del crocifisso nelle aule sco-
lastiche non è censurabile con riferimento al principio di laicità dello Sta-
121
In merito, V. TONDI DALLA MURA, Dei politici laici e dei giuristi chierici. Note a margine del
dibattito sull'obbligatorietà del crocefisso nelle scuole, in Forum dei Quaderni costituzionali,
17 novembre 2003; per risolvere il problema in esame non si può dunque pretestuosamente ri-
durre la laicità ad una neutralità che livella indiscriminatamente le credenze civili e religiose
salvaguardate dal costituente, ma interrogarsi a fondo sul significato che essa assume nel nostro
contesto costituzionale. 122
T.A.R. VENETO, sez. III, sentenza 22 marzo 2005, n. 1110, rileva anche che «il crocifisso in
classe presenta una valenza formativa», ed inoltre «i due regolamenti del 1924 e del 1928 non
prevedono l‟obbligo di esporre il crocifisso, ma solo il dovere per l‟amministrazione scolastica
di acquistarlo come materiale in dotazione», ma che è comunque «obbligatoria l‟esposizione del
crocifisso, anche perché non avrebbe alcun senso dotarsi di un oggetto privo di utilità pratica e
di uso unicamente simbolico senza una sua ostensione, ove cioè esso venisse riposto in un cas-
setto». 123
L. P. VANONI, Il crocifisso come simbolo della laicità dello Stato, in Quaderni Costituziona-
li, 2005, p. 2.
70
to124
. È delineata, in questa decisione, un‟idea di simbolo, quale il crocefis-
so, decontestualizzato dal suo significato religioso, sino ad assumere una
valenza differente da quella originaria e, una volta storicizzato nella sua
forza simbolica, può il essere oggetto di esposizione, senza costituire per
ciò solo motivo di discriminazione verso coloro che non intendono consi-
derare le ragioni della trascendenza, cui il simbolo stesso rinvia nella pro-
pria accezione originaria e religiosa, dice il Consiglio: «non solo il croce-
fisso è un simbolo idoneo ad esprimere l'elevato fondamento dei valori ci-
vili richiamati125
, che sono poi i valori che delineano la laicità dell'attuale
ordinamento dello Stato», ma esercita anche una funzione «altamente edu-
cativa126
, a prescindere dalla religione professata dagli alunni delle scuole
124
Cfr. V. TONDI DELLA MURA, Crocefisso e realtà sociale, in Quaderni Costituzionali, 2006,
così sulla decisione del Consiglio di Stato 556/2006: «nell'ammettere la legittimità dell'esposi-
zione del crocefisso nella scuola pubblica, il Consiglio di Stato non ha fatto riferimento ad
un'accezione delle regole formale ed avulsa dal contesto; non ha considerato "un'idea astratta di
laicità, che alla fine coincide con quella che ciascuno trova più consona con i suoi postulati
ideologici". Ha invece valutato come la "laicità non si realizza in termini costanti e uniformi nei
diversi Paesi, ma, pur all'interno di una medesima «civiltà», è relativa alla specifica organizza-
zione di ciascuno Stato, e quindi essenzialmente storica, legata com'è al divenire di questa orga-
nizzazione". In tal senso, essa segna una linea di equilibrio tra la dimensione temporale e quella
spirituale, che deve essere necessariamente commisurata "alla tradizione culturale e ai costumi
di vita di ciascun popolo". Non per nulla, la sentenza rileva come il principio di laicità sia diver-
samente disciplinato nei distinti ordinamenti; e ciò tanto sincronicamente (si pensi alle differen-
ze di regime in Inghilterra, Francia e Stati Uniti), quanto diacronicamente (si pensi alle diver-
genze di trattamento fra il passato Stato risorgimentale, confessionale ma repressivo, e l'attuale
Stato democratico pluralista). 125
Cfr. F. MERLO, Se il crocifisso nelle aule diventa simbolo di laicità, 16 febbraio 2006, in la
Repubblica: «Ebbene, il Consiglio di Stato perdoni l' impertinenza, ma sentenziare che Cristo è
laico equivale a stabilire che l´asino vola» 126
Consiglio di Stato sentenza n. 556/2006 depositata in data 13.01.2006, specifica quanto ri-
portato dicendo: «Tale sostanza educativa è intrinseca al simbolo stesso in quanto in Italia il
crocifisso è atto ad esprimere l'origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco,
di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di
71
ove è esposto». Il crocifisso è un simbolo in grado di rappresentare e di ri-
chiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile valori
civilmente rilevanti, quali sono quelli che ispirano e soggiacciono al nostro
ordinamento127
.
Ciò che manca, sia nella decisione del Consiglio di Stato sia nelle
pronunce richiamate in precedenza, è la definizione di un metodo d'inter-
pretazione dei simboli identitari, in assenza del quale la ricerca dei conte-
nuti di una configurazione simbolica tende a perdersi in una deriva seman-
tica incontrollata128
.
A seguito di tale pronuncia la ricorrente, la Sig.ra Soile Lautsi, in data
27 luglio 2006 ha investito la Corte Europea dei Diritti dell‟uomo, con il
potere attribuito dall‟art. 34 della Convenzione Europea dei diritti
dell‟uomo e delle libertà fondamentali129
, e ricorrendo alla decisione del
Consiglio di Stato, da ultimo esposta, ha addotto che «l‟esposizione del
crocefisso nell‟aula della scuola pubblica frequentata dai suoi bambini era autonomia della coscienza morale nei confronti dell'autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di
ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana. Questi valori, che hanno impregnato di
sé tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle nor-
me fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i "Principi fondamentali" e la
Parte I della stessa, e, specificamente, da quelle richiamate dalla Corte costituzionale, deli-
neanti la laicità propria dello Stato italiano. 127
V. TONDI DELLA MURA, Crocefisso e realtà sociale, cit., p. 2 128
Cfr. A. MORELLI, Un ossimoro costituzionale: il crocifisso come simbolo di laicità, in Qua-
derni Costituzionali, 2006, p. 2 129
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 34, «La Corte
può essere investita di un ricorso fatto pervenire da ogni persona fisica, ogni organizzazione non
governativa o gruppo di privati che pretenda d'essere vittima di una violazione da parte di una
delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le
Alte Parti Contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l'effettivo esercizio effi-
cace di tale diritto».
72
un‟ingerenza incompatibile con la libertà di pensiero e di religione e con il
diritto a un‟istruzione e a un insegnamento conformi alle sue convinzioni
religiose e filosofici».
La Corte ha rilevato che per il tema proposto dalla ricorrente bisogna
leggere le due frasi dell‟art. 2130
alla luce degli articoli 8, 9, e 10131
della
Convenzione stessa. Riguardo la lettura dei due commi dell‟art. 2 la Corte
ricava che «Sul diritto fondamentale all‟istruzione si innesta infatti il diritto
130
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentale, art. 2, «Il diritto
all'istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell'esercizio delle funzioni che as-
sume nel campo dell'educazione e dell'insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di
assicurare tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofi-
che». 131
Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 8, «Ogni persona
ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispon-
denza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno
che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democra-
tica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economi-
co del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute
o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui»; art. 9, «Ogni persona ha di-
ritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare
religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo indi-
vidualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le
pratiche e l'osservanza dei riti. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo
non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costitui-
scono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione
dell'ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà al-
trui»; art. 10, «Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà
d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere
ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera. Il presente arti-
colo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodif-
fusione, di cinema o di televisione. L'esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e re-
sponsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono
previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la
sicurezza nazionale, per l'integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell'ordi-
ne e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione
della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per
garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario».
73
dei genitori al rispetto delle loro convinzioni religiose e filosofiche e la
prima frase non distingue più della seconda tra l‟insegnamento pubblico e
l‟insegnamento privato». La seconda frase dello stesso articolo «mira a sal-
vaguardare la possibilità di un pluralismo educativo, essenziale alla preser-
vazione della società democratica così come la concepisce la Convenzio-
ne»; nello Stato moderno è proprio l‟istruzione pubblica a dover realizzare
tale obiettivo. Una scuola concepita dalla Corte come capace di garantire
un ambiente scolastico aperto, che favorisca l‟inclusione piuttosto che
l‟esclusione, indipendentemente dall‟origine sociale degli allievi, delle loro
credenze religiose o dalla loro origine etnica, senza tralasciare il rispetto
delle convinzioni dei genitori. A tal fine, rileva il giudice europeo dei dirit-
ti, bisogna vigilare sulle materie d‟istruzione e d‟insegnamento, «affinché
le informazioni o le conoscenze che appaiono nei programmi siano diffuse
in modo oggettivo, critico e pluralistico… senza perseguire un obiettivo di
indottrinamento anche non rispettando le convinzioni religiose e filosofiche
dei genitori». L‟art. 9 della Convenzione garantisce la libertà di credere e la
libertà non di credere, e lo Stato attraverso il dovere di neutralità e di im-
parzialità, non può valutare la legittimità delle convinzioni religiose o delle
sue modalità di espressione, perché è la neutralità che dovrebbe garantire il
pluralismo ed evitare che la scuola diventi il teatro di attività di proseliti-
smo o predicazione132
, ma il luogo di unione e confronto di varie religioni e
132
Sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, 13 ottobre 2009, tradotta in italiano e
74
convinzioni filosofiche, che permettono agli allievi di acquisire conoscenze
sulle diverse tradizioni religiose e culturali.
La Corte ritiene che il simbolo del crocifisso abbia una pluralità di si-
gnificati, ma quello religioso è tuttavia predominante, e la sua presenza nel-
le aule va al di là del semplice impiego di simboli in contesti storici speci-
fici, bensì può essere facilmente considerata da allievi di qualsiasi età un
segno religioso, con la conseguenza che questi si sentiranno istruiti in un
ambiente scolastico influenzato da una specifica religione. Questo può es-
sere gradito da alcuni, ma emotivamente sconvolgente per altri non religio-
si, soprattutto se appartenenti a gruppi di minoranza.
Seguendo il discorso motivazionale della Corte Europea dei diritti
dell‟uomo «lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nel quadro
dell‟istruzione pubblica obbligatoria dove la presenza ai corsi è richiesta
senza considerazione di religione e che deve cercare di insegnare agli allie-
vi un pensiero critico». E, per raggiungere quest‟obiettivo, lungimirante e
adeguato allo scopo tipico della scuola moderna, «l‟esposizione obbligato-
ria di un simbolo confessionale nell‟esercizio del settore pubblico…, in
particolare nelle aule, viola il diritto dei genitori di istruire i loro bambini
secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o
non di credere». Questa misura è incompatibile con il dovere che spetta allo
Stato di rispettare la neutralità nell‟esercizio del settore pubblico, in parti-
depositata il 3 novembre 2009.
75
colare nell‟istruzione, e perciò, la Corte stabilisce che «in questo caso c‟è
stata violazione dell‟articolo 2 del protocollo n. 1 e dell‟ articolo 9 della
Convenzione», e per questo ordina allo Stato Italiano di rimuovere tutti i
crocifissi dalle aule delle scuole pubbliche133
.
Avverso questa decisione il governo italiano, il 29 gennaio 2010, ha
presentato ricorso alla Grande Camera della Corte Europea dei diritti
dell‟uomo, rilevando che in materia non c‟è un‟interpretazione condivisa
del principio di laicità dello Stato; e sulla stessa i singoli stati hanno un
margine di apprezzamento per le differenze di approccio al tema religioso,
interpretata dal Governo italiano, nello sforzo volto a conciliare al meglio
le differenze religiose e non nell‟adozione di un atteggiamento agnostico.
Il Governo ha rilevato, inoltre, che la tesi accolta dalla Corte, secondo
cui l‟esposizione del crocifisso in aula può rivelarsi incoraggiante per alcu-
ni studenti che a quella religione aderiscono, ma emotivamente “inquietan-
te” per allievi che professano altre religioni o che non ne professano alcuna,
133
P. CUOMO, G. MANTOVANI, Violazione del diritto all’istruzione e garanzia della libertà di
pensiero, coscienza e religione: quale enforcement per la sentenza Lautsi c. Italia?, in
www.diritti-cedu.unipg.it, 29 marzo 2010, «la CEDU e la sua interpretazione ad opera della
Corte europea dei diritti dell‟uomo si confermano come uno strumento utile per garantire ai cit-
tadini non solo il rispetto dei loro diritti, ma anche una corretta interpretazione dinamica ed im-
parziale di essi, soprattutto in momenti di instabilità e frammentazione culturale come quello
attuale, o quanto meno come uno strumento particolarmente efficace per promuovere la discus-
sione in relazione a tali temi. Al di là del merito delle decisioni, e di come il giudizio si chiuderà
definitivamente, sembra quindi importante rimarcare come la prospettiva della Corte sia da con-
siderare sempre con interesse proprio in ragione della sua posizione privilegiata poiché innata-
mente multiculturale, fattore che si ritiene avrà sempre più valore in futuro. Accanto a ciò, ri-
mane vero come a seguito della decisione definitiva sul caso, resterà importante che lo Stato
italiano assicuri l‟enforcement delle decisioni della Corte EDU, pur con i tempi necessari, affin-
ché l‟opera di attualizzazione del diritto da questa realizzata non resti lettera morta.
76
finisce per riconoscere un diritto alla protezione di sensibilità più o meno
soggettive con relativa, grave incertezza giuridica134
.
Il TAR Lombardia, Sez. di Brescia, con la sentenza 22 maggio 2006,
n. 603 ha respinto il ricorso promosso da un insegnante che durante le pro-
prie ore di lezione aveva rimosso il crocifisso dalla parete, ed il consiglio di
interclasse aveva poi deciso di vietare tale comportamento. Secondo il
giudice amministrativo la presenza del crocifisso nell‟ambiente pubblico
non viola la laicità dello Stato data la presenza nel nostro ordinamento di
norme, di rango regolamentare, che invece la prevedono, ed inoltre precisa
che «le istituzioni pubbliche e in particolare quelle scolastiche non possono
quindi scegliere di rendersi identificabili attraverso simboli religiosi, i quali
anche quando esprimono messaggi universali appartengono pur sempre alla
sfera della coscienza e delle libere scelte individuali»; e ricorda che la reli-
gione Cattolica, così come si evince dall‟art. 9 punto 2 del suddetto accordo
tra la Santa Sede e lo Stato Italiano, è riconosciuta nel suo valore storico
come «maggioritariamente praticata nel territorio nazionale». È proprio
questo riconoscimento che giustifica l‟insegnamento della religione Catto-
lica nelle scuole pubbliche, ed è proprio questo criterio che serve «per rego-
lare quelle situazioni in cui la visibilità dei simboli religiosi all‟interno de-
gli edifici scolastici (e pubblici in genere) fa parte di consuetudini radica-
134
Ricorso alla Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell‟uomo alla decisione del 3
novembre 2009 per il caso Lautsi contro Italia - ricorso n° 30814/06.
77
te», consuetudini però, che devono essere «condivise da quanti utilizzano
gli edifici pubblici, includendo nel numero non solo i funzionari ma anche i
cittadini che abbiano un qualche collegamento con l‟attività svolta
all‟interno dei suddetti edifici», soprattutto nel mondo della scuola dove gli
alunni non sono semplici fruitori del servizio, ma componenti della comu-
nità scolastica. Per questo data la sempre maggiore autonomia riconosciuta
alle singole istituzioni scolastiche (DPR 8 marzo 1999 n. 275), «la soluzio-
ne del problema dei simboli religiosi tradizionalmente esposti deve essere
trovata all‟interno di questi ambiti attraverso il coinvolgimento (negli appo-
siti organismi collegiali) di insegnanti, studenti e genitori»; ed in questa di-
rezione ben si è espresso il consiglio di interclasse, scegliendo di mantenere
il crocifisso in aula, riconoscendolo anche come valore storico della società
in cui viviamo135
.
3. …Nei seggi elettorali.
Dopo un attento esame del tema dell‟esposizione del crocifisso nelle
aule scolastiche, è possibile ora considerare il problema della sua esposi-
zione nei seggi elettorali, sempre istituiti nelle scuola, ma aventi funzioni
diverse.
135
TAR Lombardia, sez. di Brescia, sentenza 22 maggio 2006, n. 603
78
Anche per questo aspetto la giurisprudenza si è pronunciata diverse
volte, a partire dalla seconda metà degli anni ‟90, quando il Pretore di Cu-
neo ha condannato per il reato di cui all‟art. 108 d.p.r. 30 marzo 1957, n.
361, uno scrutatore presso un seggio elettorale, perché rifiutava di assume-
re l‟ufficio senza giustificato motivo, infatti l‟imputato, ha intrapreso que-
sta decisione, anche se nella suo seggio il crocifisso non c‟era, solo per por-
re una questione di carattere generale, auspicando la rimozione del suddetto
simbolo da tutti i seggi, con la spiegazione che l‟esposizione nei seggi elet-
torali di simboli o immagini di un‟unica fede religiosa lede la libertà di co-
scienza costituzionalmente garantita.
Tale decisione è stata impugnata davanti la Corte d‟appello di Torino
che con la sentenza del 28 aprile 1999, ha assolto l‟imputato per insussi-
stenza del fatto ravvisando una correlazione tra la sua condotta e il princi-
pio costituzionale della laicità dello stato. Avverso questa sentenza, il pro-
curatore generale, ha chiamato in causa la Corte di Cassazione, sez. III pe-
nale, che con sentenza 4 gennaio 1999, n. 10, ha annullato con rinvio la
sentenza della Corte d‟appello, fissando il principio che «Il giusto motivo
che consente di rifiutare l‟esercizio del diritto di scrutatore nelle competi-
zioni elettorali deve essere manifestazione di diritti o facoltà il cui esercizio
determini un inevitabile conflitto tra la posizione individuale, legittima e
costituzionalmente garantita in modo prioritario, e l‟adempimento
dell‟incarico al cui contenuto sia collegato con vincolo di causalità imme-
79
diata». Il motivo del rinvio, invece, è da rilevare nel fatto che non era stato,
da parte della Corte d‟appello di Torino, accertata l‟esistenza del vincolo
eziologico tra il rifiuto addotto ed il contenuto dell‟ufficio di scrutatore,
(parificato al pubblico ufficiale, rappresentate dello Stato nelle operazioni
di voto), ed inoltre non era stata considerata la situazione presente nel seg-
gio elettorale, in quanto non era presente alcun simbolo religioso.
A seguito del rinvio, la Corte d‟appello di Torino ha confermato la
sentenza di condanna del Pretore di Cuneo, considerando la presenza del
crocifisso, insignificante per le operazioni di voto svolte nell‟ufficio.
Infine sul successivo ricorso dell‟imputato avverso la suddetta deci-
sione, si è pronunciata la Corte di Cassazione, sez. IV pen., che con la sen-
tenza 1 marzo 2000, n. 439, dichiara l‟annullamento della condanna da par-
te della Corte d‟appello in quanto non applicò il principio espresso nella
precedente sentenza e sopra riportato, circa un collegamento tra l‟esercizio
del ruolo di scrutatore e la manifestazione dei propri diritti, affermando che
la condotta dell‟imputato non costituisce reato perché esiste un giustificato
motivo al rifiuto di assumere l‟ufficio di componente il seggio elettorale
quale la mancanza di garanzia della libertà di coscienza del cittadino e il
principio di laicità dello stato dovuto alla mancata rimozione del crocifisso
da tutti i seggi elettorali136
.
136
Così la Corte di Cassazione, sez. IV pen., sentenza 1 marzo 2000, n. 439, «la libertà di co-
scienza… non è divisibile in modo da ritenerla esercitabile solo se riguardi il seggio di destina-
zione dell‟agente come scrutatore e non la totalità dei seggi e cioè l‟intera amministrazione.
80
La Corte rileva come gli atti normativi inerenti la presenza del croci-
fisso nei luoghi pubblici risalgono al periodo fascista e li analizza dal punto
di vista della loro legittimità sotto due profili, da un lato che tali norme so-
no espressione di un neo-confessionismo statale, ormai superato dal princi-
pio di laicità, dal momento che, «l'imparzialità della funzione di pubblico
ufficiale è strettamente correlata alla neutralità dei luoghi deputati…alle
competizioni elettorali»137
. Sotto il secondo profilo, la Corte nota come le
norme sull'esposizione del crocifisso, in quanto disposizioni di favore per la
religione cattolica, contrastano con il principio di uguaglianza, respingendo
la tesi che attribuiva al crocifisso un valore simbolico generalizzato nella
coscienza etica collettiva138
.
Accanto al principio di laicità, che implica garanzia dello Stato per la
salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale
Ogni violazione del principio di laicità nel modo indicato in qualsivoglia seggio elettorale costi-
tuito non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione
di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui avvenga, cosicché non è
possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non accada nel seggio di de-
stinazione». 137
Il primo aspetto che è messo in risalto dalla Corte è proprio quello relativo al contenuto
dell'ufficio imposto «Ma in realtà il contenuto dell'ufficio imposto consiste solo indirettamente,
per conseguenza, nei compiti o nelle prestazioni ad esso connessi, ma direttamente ed immedia-
tamente nella funzione di pubblico ufficiale che con la nomina si viene ad assumere. Una volta
designato, infatti, lo scrutatore svolge una pubblica funzione, un'attività, cioè, che è diretta ma-
nifestazione di pubbliche potestà o dell'autorità dello Stato per la presenza dei poteri tipici della
potestà amministrativa. (…) Il contenuto dell'ufficio è, quindi, quello di formare e manifestare
la volontà della pubblica amministrazione oppure esercitare poteri autoritativi, deliberativi o
certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente considerati». (Corte di Cassazione, Senten-
za, Sez. IV penale - 1 marzo 2000, n. 439). 138
Cfr. G. DI COSIMO, Simboli religiosi nei locali pubblici: le mobili frontiere dell'obiezione di
coscienza, in Giur. cost., 2000, fasc. 2, p. 1140
81
e culturale la Cassazione pone quello di libertà di coscienza139
: «La libertà
di coscienza è infatti un bene costituzionalmente rilevante e quindi deve
essere protetta in misura proporzionata alla priorità assoluta e al carattere
fondante ad essa riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla Costitu-
zione italiana, al punto che la stessa libertà religiosa ne diventa una partico-
lare declinazione: libertà di coscienza in relazione all'esperienza religiosa.
Da tutto ciò consegue che le norme relative all'esposizione del simbo-
lo religioso sono espressione di un neo-confessionismo statale ormai supe-
rato dal principio di laicità: inoltre, in relazione al principio di uguaglianza,
139
Il collegamento tra i due principi cardine della pronuncia, laicità e libertà di coscienza, è lo
scopo di fondo cui mira la condotta del Montagnana, il quale si pone due obiettivi: l'uno, quello
relativo al piano dei comportamenti, è di restare coerente alla propria coscienza; l'altro, quello
relativo al piano normativo, è di ottenere una pronuncia che dichiari l'illegittimità delle norme
relative all'esposizione del crocifisso. Sul concetto di libertà di coscienza Cfr. G. DI COSIMO,
Coscienza e Costituzione: i limiti del diritto di fronte ai convincimenti interiori della persona,
Milano, 2000, p. 67: «La rilevanza giuridica della sfera interna della persona implica il ricono-
scimento della libertà di coscienza. In linea di prima approssimazione, la libertà di coscienza è
la possibilità di restare coerente con i contenuti, liberamente formati, della propria sfera della
coscienza». Ancora sul punto Cfr. M. OLIVETTI, Crocifisso nelle scuole pubbliche: considera-
zioni non politically correct, in Forum Costituzionale, 4 dicembre 2001, «La libertà di coscien-
za non trova nella nostra Carta costituzionale una tutela esplicita. Ciononostante, tale libertà è in
qualche modo il presupposto della libertà religiosa e di altre libertà garantite dalla prima parte
della Costituzione, ma non in tutti i significati che oggi si tende a ricondurre ad essa, facendo
leva sui contorni indeterminati esibiti dalla relativa fattispecie. Problematica si rivela già l'inter-
pretazione della libertà di coscienza come pretesa di comportarsi in ogni caso secondo i dettami
della propria coscienza, eventualmente anche derogando alle leggi (che, beninteso, non ledano
altri diritti costituzionalmente garantiti). Del tutto estranea all'art. 19, ci pare invece la pretesa
del singolo alla conformazione della collettività alle proprie scelte ideologiche. In tale senso,
questo asserito diritto, anziché come una classica "libertà negativa", si manifesta quasi come un
diritto di partecipazione ed assume un volto chiaramente “imperialistico”, nel quale il singolo
non pretende che lo Stato si astenga dall‟interferire in una sfera a lui riservata (quale il domici-
lio, la corrispondenza o la scelta di porre o non porre in essere atti di culto, o di indossare o no
segni che rendano riconoscibili le proprie scelte religiose), ma che lo Stato conformi i propri
simboli nello spazio pubblico, in modo da non irritare le convinzioni interiori individuali. Si
tratta di una pretesa che misconosce la rilevanza del principio democratico, il quale pure do-
vrebbe essere tenuto in considerazione trattandosi di scelte relative non all'uomo interiore, ma
allo spazio pubblico, e che pare assumere una colorazione più anarchica che liberale».
82
poiché le norme sull'esposizione del crocifisso sono "genericamente pro-
mozionali" della religione cattolica, deve essere respinta la tesi che assegna
a esso un "valore simbolico della coscienza etica collettiva".
Le decisioni giudiziarie esposte finora riguardano l‟esposizione del
crocifisso nei seggi elettorali dal punto di vista di chi è componente del
seggio, ora si passeranno in rassegna le pronunce relative al punto di vista
dell‟elettore.
Il TAR Lazio, sez. I-ter, sentenza 22 maggio 2002, n. 4558, ha dichia-
rato inammissibile il ricorso presentato dall‟UAAR riguardo il silenzio del
ministro dell‟interno nei confronti di un‟istanza presentatagli dall‟unione
stessa, al fine di rimuovere il crocifisso dai seggi elettorali. A tale richiesta,
il ministero rispose solo con una nota, del 27 gennaio 2001, ritenendo tutto-
ra valida la normativa adottata negli anni dal 1924 al 1928 e non sussisten-
do l‟obbligo per la stessa amministrazione di rimozione del simbolo. Tale
risposta è stata considerata esaustiva dal tribunale adito, che a differenza di
quanto prospettato dall‟Unione degli Atei, ha rilevato un preciso orienta-
mento della Pubblica Amministrazione.
Ulteriore decisione, si è avuta da parte del Tribunale di Napoli – X
sez. civ., che, con ordinanza 26 marzo 2005 ha respinto il ricorso in via
d‟urgenza ex art. 700 c.p.c. per la richiesta di rimozione del crocifisso da
tutti i seggi elettorali, in occasione del referendum sulla procreazione assi-
stita. Il giudice ordinario respinge il ricorso dichiarando il difetto di giuri-
83
sdizione a favore di quella esclusiva del giudice amministrativo. Non limi-
tandosi solo a dichiarare la propria incompetenza, il giudice definisce il
crocifisso come «simbolo religioso nel quale notoriamente si identifica an-
cora oggi, sotto il profilo spirituale, la larga maggioranza dei cittadini ita-
liani», e la sua presenza nelle aule scolastiche, anche se adibite a seggi elet-
torali, «costituisce semplicemente la testimonianza di tale diffuso sentimen-
to», senza per questo, poter condizionare l‟elettore «di esprimere libera-
mente il proprio voto».
Nello stesso senso si è espresso il Tribunale di Bologna, I sez. civ.,
ordinanza 24 marzo 2005, che senza negare la propria giurisdizione, ha re-
spinto l‟istanza cautelare mirata a chiedere la rimozione del crocifisso dalle
aule dei seggi elettorali, osservando che «La presenza del crocifisso nelle
aule scolastiche destinate a sedi di seggio non rappresenta di per sé imposi-
zione di un credo religioso o di una forma di venerazione, né obbliga alcu-
no a tenere una determinata condotta di adorazione o a dichiarare la propria
posizione in materia religiosa». La presenza di tale simbolo religioso du-
rante le consultazioni elettorali o referendarie, inoltre, «non è idonea ad as-
sumere una connotazione particolare che in qualche modo condizioni, su-
bordini o influenzi la formazione dell'opinione politica o l‟espressione del
voto da parte degli elettori». Specifica a tal riguardo, a chiare lettere «per la
specifica posizione dei ricorrenti in materia religiosa, non è verosimile che
un non-simbolo, quale è il crocifisso per i non credenti ed i non cristiani,
84
possa per essi avere una qualche influenza negativa o costituire una qualche
remora psicologica riguardo all'espressione del voto ed al convincimento
religioso e men che meno provocare un turbamento dell‟animo tale da pri-
vare il soggetto delle sue capacità morali, critiche e di giudizio». È questa
una affermazione molto importante e coraggiosa da parte del giudice, che
sta ad indicare il superamento delle vecchie remore che coloro che non cre-
dono, hanno nei confronti di tutto ciò che è religione, incuranti del senti-
mento religioso della collettività. A tal fine, dichiara il giudice: «è dubitabi-
le che sussista in astratto il diritto soggettivo del privato di conseguire giu-
dizialmente l‟adeguamento dell‟ordinamento ad un principio costituzionale
(quale il principio di laicità dello Stato), in quanto ciò significherebbe attri-
buire al singolo la possibilità di indirizzare concretamente l‟azione della
P.A. al di fuori della normativa (costituzionale, primaria, secondaria e rego-
lamentare) che presiede alla formazione ed alla attuazione della volontà
della P.A., e … presupporrebbe che, a semplice richiesta di chiunque e
mancando lo specifico pregiudizio di cui appena sopra, l‟Autorità giudizia-
ria possa surrogarsi allo Stato nell‟emanazione di disposizioni normative
dirette ad attuare nell'ordinamento i principi costituzionali aventi carattere
non precettivo, ma programmatico».
In linea con le decisioni su richiamate anche il Tribunale civile
dell‟Aquila che nel 2005 si è pronunciato due volte sull‟argomento.
85
Prima l‟ordinanza del 31 marzo 2005 con la quale ha rigettato il ricor-
so ex art. 700 c.p.c. per la richiesta della rimozione del crocifisso dai seggi
elettorali di tutta Italia, o in via subordinata, da quelli dell‟Abruzzo e più
precisamente, da quello dove il ricorrente avrebbe dovuto votare. Il giudice
dichiara anzitutto la propria competenza, perché nella fattispecie «si verte
sulla lesione di un diritto assoluto», e per quanto tale la loro tutela spetta al
giudice ordinario di competenza territoriale rispetto al seggio elettorale di
destinazione del ricorrente. Il giudice dichiara che la presenza del crocifisso
nel seggio non contrasta con il principio di laicità perché lo Stato si pone,
in condizione di “neutralità” e al servizio delle concrete istanze della co-
scienza civile e religiosa dei cittadini, «per cui la laicità non è l'esclusione
dalla sfera pubblica di riferimenti religiosi»140
. Rispetto al crocifisso come
simbolo religioso, il Tribunale dichiara che «il crocifisso non può essere
considerato simbolo esclusivamente religioso», ed «in una società, come
quella italiana, correttamente definita di "antica cristianità" e per la quale è
innegabile che i principi del cristianesimo facciano parte del suo patrimo-
nio storico, non può escludersi il carattere anche culturale del crocifisso in
quanto espressione, appunto, del patrimonio storico di un popolo alla cui
identità culturale il simbolo va anche riferito» . Ed è proprio questo caratte-
re culturale del simbolo che spiega e giustifica la sua esposizione nei pub-
blici uffici anche dopo l'abrogazione del principio confessionistico da parte
140
Tribunale dell‟Aquila, Ordinanza 31 marzo 2005, in www.olir.it.
86
della costituzione italiana. Ma anche considerando il crocifisso come sim-
bolo dotato di valenza esclusivamente religiosa, al di là del suo carattere
anche culturale, bisogna ammettere, dice il giudice, che «la presenza di un
simbolo passivo come il crocifisso, di un simbolo, cioè, per il quale non è
possibile individuare una sua intrinseca forza coercitiva e che non è con-
nesso ad un comportamento attivo (giuramenti o segni) di soggetti di diver-
se convinzioni religiose, non appare circostanza atta a costringere ad atti di
fede e ad atti contrari alle proprie convinzioni religiose e tale da essere,
quindi, in contrasto con il principio di libertà religiosa».
Nei confronti di quest‟ordinanza è stato fatto reclamo che con una ul-
teriore ordinanza, del 26 maggio 2005, è stato rigettato, per gli stessi motivi
già addotti, dichiarando inoltre «un “non simbolo”, qual è il crocefisso per i
non credenti o per i non cristiani, possa interferire negativamente in modo
incisivo sulla formazione dell‟orientamento “politico” e sulla conseguente
espressione del voto elettorale o referendario», dimostrando come la pre-
senza del crocifisso non può «essere considerata come l‟espressione di una
vincolante o, comunque, impegnativa e condizionante scelta turbatrice del-
la libertà religiosa o di pensiero», perché la sua presenza «non impone al-
cuna condivisione religiosa, non vincola ad atti o comportamenti anche so-
lo di carattere gestuale, che siano anche solo indirettamente espressione di
una sintonia o di una convinzione di implicita aderenza ad una fede o culto
diversi da quelli propri, in una parola resta una presenza assolutamente
87
anodina e totalmente trascurabile per chi non vi si riconosca impossibilita-
ta, in quanto tale, a sollecitare o condizionare scelte e comportamenti per-
sonali»141
. Il Tribunale, risponde alla richiesta del ricorrente circa
l‟esposizione dei simboli di tutte le confessioni religiose dichiarando che
«Rigetta la richiesta di "rimozione" di tutti i crocifissi esposti nelle aule del
Tribunale dell‟Aquila o, in alternativa, l‟ "esposizione permanente dei
simboli-non simboli delle altre religioni" ovvero all‟ "ordine" ai convenuti
di "esporre", a spese dello Stato, nei seggi elettorali od a "consentire" al ri-
corrente l'esposizione negli stessi seggi, per tutta la durata delle operazioni
elettorali, di "...tutti i simboli religiosi ed ideologici e, comunque, il verset-
to della Sura 112 del Corano..".
In senso contrario si è espresso il Presidente della Corte d‟appello di
Perugia del 10 aprile 2006 dichiarando il non luogo a provvedere
sull‟istanza del prefetto di Terni di revocare un individuo dal ruolo di pre-
sidente del seggio elettorale per aver rimosso il crocifisso esposto nell‟aula
e non aver ottemperato alla diffida del Sindaco di ripristinare la collocazio-
ne del simbolo. Il giudice d‟appello basa la sua decisione su tre ordini di
ragione, inizia con il rilevare che «è assolutamente irrilevante, nella fatti-
specie in esame, che il seggio sia collocato in un‟aula scolastica, dovendo-
si, invece, considerare tale aula come mero spazio fisico, attualmente e per 141
Tribunale dell‟Aquila, Ordinanza 26 maggio 2005, in merito ritiene che «nella gran parte dei
casi gli elettori che accedono ai seggi non percepiscono, in genere, neppure l'esistenza dell' "ar-
redo-crocifisso" se presente, a meno che su di esso non si accentrino volontariamente soverchie
attenzioni»
88
l‟occasione, destinato a svolgere una funzione diversa da quella dell‟attività
didattica propria della scuola», prosegue affermando che «compete alla re-
sponsabile decisione del presidente del seggio accertare e verificare che la
sala destinata alle elezioni abbia le caratteristiche e gli arredi indispensabili
per la funzione che deve assolvere, nella piena osservanza di quanto pre-
scritto dall‟art. 42 del T.U. delle leggi recanti norme per l‟elezione della
Camera dei Deputati, approvato con il D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361142
, e
delle disposizioni tecniche emanate dal competente Ministero dell‟Interno.
Orbene, tra ciò che la sala delle elezioni deve avere non è per niente men-
zionato o considerato il crocefisso, il cui indubbio valore simbolico non è
peraltro in discussione in questa sede, rilevando semplicemente
l‟opportunità che la sala destinata alle elezioni sia uno spazio assolutamen-
te neutrale, privo quindi di simboli che possano, in qualsiasi modo, anche
indirettamente e/o involontariamente, creare suggestioni o influenzare
142
Art. 42 del T.U. delle leggi recanti norme per l‟elezione della Camera dei Deputati, approvato
con il D.P.R. 30 marzo 1957, n. 36; «La sala delle elezioni deve avere una sola porta d'ingresso
aperta al pubblico, salva la possibilità di assicurare un accesso separato alle donne. La sala
dev'essere divisa in due compartimenti da un solido tramezzo, con un'apertura centrale per il
passaggio. Il primo compartimento, in comunicazione diretta con la porta d'ingresso, è riservato
agli elettori, i quali possono entrare in quello riservato all'Ufficio elettorale soltanto per votare,
trattenendovisi il tempo strettamente necessario. Il tavolo dell'Ufficio dev'essere collocato in
modo che i rappresentanti di lista possano girarvi attorno, allorché sia stata chiusa la votazione.
L'urna deve essere fissata sul tavolo stesso e sempre visibile a tutti. Ogni sala, salva comprovata
impossibilità logistica, deve avere quattro cabine, di cui una destinata ai portatori di handicap.
Le cabine sono collocate in maniera da rimanere isolate e sono munite di un riparo che assicura
la segretezza del voto. Le porte e le finestre che siano nella parete adiacente ai tavoli, ad una
distanza minore di due metri dal loro spigolo più vicino, devono essere chiuse in modo da im-
pedire la vista ed ogni comunicazione dal di fuori. L'estratto delle liste degli elettori e due copie
del manifesto contenente le liste dei candidati devono essere visibilmente affissi, durante il cor-
so delle operazioni elettorali, in modo che possano essere letti dagli intervenuti.
89
l‟elettore». Il terzo aspetto menzionato da detta decisione riguarda
l‟assoluta mancanza di normativa sull‟intera materia, in quanto in nessuna
norma è ammessa o negata la presenza dei simboli religiosi nelle aule di
seggi elettorali143
.
4. … Nelle aule giudiziarie.
Al fine di comporre un quadro generale sulla materia in esame è ne-
cessario considerare l‟esposizione dei simboli collettivi anche nelle aule
giudiziarie, le cui pronunce giurisprudenziali sono molto recenti.
Partendo dal quadro normativo, esso è costituito dalla circolare del
ministro di grazia e giustizia 29 maggio 1926, n. 2134/1867 il quale pre-
scrive che «nelle aule di udienza, sopra il banco dei giudici e accanto
all‟effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocefisso, secondo la nostra
antica tradizione» ed inoltre «Il simbolo venerato sia solenne ammonimen-
to di verità e di giustizia»144
.
143
Così il decreto del Presidente della Corte d‟appello di Perugia del 10 aprile 2006 «dalla nota
prefettizia in esame non è affatto dato di ricavare che la decisione del presidente del seggio di
rimuovere il crocifisso abbia inciso negativamente sullo svolgimento delle operazioni elettorali.
Né si può sostenere il contrario sulla base della segnalata «notevole tensione all’interno del seg-
gio». Tale tensione si deve considerare come un fenomeno del tutto fisiologico, del quale si do-
vrà dare atto nel processo verbale relativo alle operazioni elettorali, come segno della normale
dialettica, verificatasi tra il presidente e gli altri componenti del seggio, su una determinazione
che potrà anche non essere condivisibile da parte di
costoro ma che, nel caso concreto, non presenta affatto i caratteri della prospettata illegittimità. 144
Circolare del ministero di grazia e giustizia 29 maggio 1926, n. 2134/1867 dispone anche che
«I Capi degli uffici giudiziari vorranno prendere accordi con le Amministrazioni comunali af-
90
La Corte di Cassazione, sez. III pen. Con ordinanza 28 settembre 2005
ha dichiarato inammissibile l‟istanza di rimessione del procedimento pena-
le, circa il reato di vilipendio della religione cattolica ex art. 403 cod. pen.,
ritenendo che l‟esposizione del crocifisso nell‟aula giudiziaria ledesse la
libera determinazione dei soggetti del processo. Risponde alla richiesta ri-
levando come la situazione denunciata abbia carattere nazionale e non loca-
le e quindi non è possibile trovare in Italia un tribunale sprovvisto di Croci-
fisso affisso alla parete. Non affronta però il problema della conformità,
della presenza del crocifisso nelle aule giudiziarie, al principio di laicità
dello Stato, perché secondo la corte «esula dal thema decidendum» in quan-
to «il giudice ordinario non può attivare il sindacato di legittimità costitu-
zionale su una questione che non sia rilevante nel processo de quo e che per
giunta riguardi una norma di rango non legislativo»145
.
Per la presenza del crocifisso nelle aule giudiziarie è intervenuto, nel
2003, un giudice in servizio presso il tribunale di Camerino, chiedendo al
presidente del tribunale la rimozione del simbolo dall‟aula giudiziaria, in
quanto contrastante con il principio di laicità dello Stato e con il diritto di
libertà religiosa. A seguito della risposta negativa del Presidente del tribu-
nale, il giudice ha presentato ricorso al TAR Marche per ottenere in via
finché quanto ho disposto sia eseguito con sollecitudine e con decoro di arte, quale si conviene
all‟altissima funzione della giustizia» 145
L‟ordinanza della Cassazione è pubblicata in Foro it., 2006, II, cc. 163 ss.: le due citazioni
sono tratte da c. 166.
91
d‟urgenza la rimozione del simbolo, e, a fronte della reiezione del tribunale
amministrativo, a maggio 2005 ha chiesto al ministro della giustizia la ri-
mozione del crocifisso da tutte le aule di giustizia italiane, oppure che fosse
esposto il simbolo della menoràh ebraica. Vista la mancata risposta alle ri-
chieste da parte del ministro, il ricorrente si è rifiutato di tenere le udienze a
partire dal 9 maggio 2005, ed a seguito di una proposta fattagli146
ha pre-
sentato ricorso al TAR Marche che con sentenza 22 marzo 2006, n. 94 ha
dichiarato inammissibile la richiesta, per difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo. Il TAR marchigiano esamina prima la domanda proposta
con i motivi aggiunti, riguardante la condanna dell‟Amministrazione a ri-
muovere il simbolo religioso del crocifisso dalle aule di tutti gli uffici giu-
diziari italiani o, a esporre a proprie spese in tutte le aule giudiziarie italia-
ne tutti gli altri simboli religiosi, atei e agnostici, e in ogni caso la menorà
ebraica, nonché, a consentirgli di esporre altri simboli religiosi, atei o agno-
stici, in qualsiasi aula giudiziaria italiana; e decide che detta domanda esula
dalla giurisdizione del giudice amministrativo in quanto, spiega il tribunale,
è «una giurisdizione di diritto soggettivo», che, a differenza di quella costi-
tuzionale e penale, incentrata al diritto oggettivo, e cioè, all‟osservanza del-
la legge, tende a «tutelare una propria situazione giuridica soggettiva rile-
vante per l‟ordinamento, che si ritenga in qualche modo incisa dalla pub- 146
Il Presidente della Corte di Appello di Ancona, con nota del 27.5.2005, ha espresso l‟avviso
che «rimedio congruo, in relazione alle istanze proposte dall‟interessato, possa essere quello di
allestire altro idoneo locale, diverso da quelli attualmente destinati ad aule di udienza, dove il
dott. T. possa tenere quanto meno le udienze civili e di lavoro»
92
blica Amministrazione, sia si verta in materia di interessi legittimi, o di di-
ritti soggettivi in senso proprio». La seconda domanda, riguardante la con-
danna del Ministero della Giustizia alla rimozione dalle aule del Tribunale
di Camerino del simbolo religioso del crocifisso, esula dalla giurisdizione
amministrativa visto che lo stesso ricorrente deduce nei propri scritti difen-
sivi che «l‟esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie lede diritti sog-
gettivi assoluti che gli sono riconosciuti dalla Costituzione, quali il diritto
soggettivo alla libertà religiosa (art. 19 Cost.) e quello all‟uguaglianza (art.
3 Cost.)», questi principi però, espone il tribunale, costituiscono alcuni di
quei «diritti fondamentali che assumono importanza, in quanto determinano
la posizione fondamentale dell‟individuo e delle formazioni sociali
nell‟ordinamento dello Stato e persino in quello internazionale, e sono in-
violabili da parte di qualunque soggetto, ivi compresa la pubblica Ammini-
strazione». Pertanto vista la natura sostanziale della pretesa del ricorrente,
dice il giudice «la presente controversia non è riconducibile alla giurisdi-
zione esclusiva del giudice amministrativo, come “ridefinita” dalla senten-
za della Corte Costituzionale 6 luglio 2004, n.204147
», per cui la pubblica
Amministrazione «non può agire in veste di autorità, esercitando poteri di-
screzionali, essendo al contrario unicamente tenuta a rispettare e garantire
la libertà degli interessati», ed ogni controversia deve quindi essere attribui-
147
Così la Corte Costituzionale, sostiene che in materia non sussiste alcuna “situazione
d‟inestricabile compenetrazione di interessi legittimi e di diritti soggettivi”
93
ta al giudice ordinario, «in quanto giudice naturale dei diritti soggettivi, an-
che nei rapporti tra privati e pubblica Amministrazione».
Per quanto riguarda questa vicenda, molto delicata perché riguardante
un conflitto d‟attribuzione, si è pronunciata la Corte Costituzionale con or-
dinanza 24 marzo 2006, n. 127 dichiarandolo inammissibile a causa del di-
fetto dei requisiti soggettivi ed oggettivi per l‟esistenza dello stesso conflit-
to148
. La Corte non entra quindi nel merito del conflitto, cioè se ci sia stata
o meno una invasione della sfera di competenza del potere giurisdizionale
da parte del potere amministrativo, il quale, secondo il ricorrente deve ap-
parire «imparziale, neutrale e equidistante nei confronti di qualsiasi cre-
do… religioso».
Nell‟arco di tempo intercorso tra le ultime due pronunce, si è pronun-
ciato il Tribunale dell‟Aquila e con la sentenza del 15 dicembre 2005, n.
622 ha riconosciuto colpevole il giudice di Camerino per il reato di rifiuto
indebito in atti d‟ufficio (art. 328, co. 1, cod. pen.). Tale reato deriva dal
comportamento reiteratamente assunto dal giudice e che ha condotto alla
sostanziale paralisi dell‟attività professionale anche dopo essere stato auto-
rizzato a tenere le udienze nel proprio ufficio e, addirittura, in aula priva di 148
Così la Corte Costituzionale: manca il requisito soggettivo perché «un organo giudiziario…
è, a causa del carattere diffuso del potere cui appartiene, legittimato a proporre conflitto tra po-
teri dello Stato, in quanto… sia attualmente investito del processo», il requisito oggettivo manca
perché il ricorrente «non prospetta in realtà alcuna menomazione delle attribuzioni costituzio-
nalmente garantite agli appartenenti all‟ordine giudiziario, ma esprime solo il personale disagio
di un lavoratore dipendente del Ministro di Giustizia per lo stato dell‟ambiente nel quale deve
svolgere la sua attività»
94
crocifisso. Così che se tutti i giudici italiani si comportassero in questo mo-
do, si determinerebbe una paralisi della giustizia italiana, per evitare questo
però, la pronuncia in discussione afferma che la tutela del diritto di libertà
religiosa ed il principio di laicità dello Stato possono trovare garanzia «nel-
la “neutralità” delle aule, in sintesi raggiungibile solo attraverso la rimozio-
ne del simbolo religioso cristiano neppure prescritto dal legislatore ma pre-
visto da un mero vecchissimo provvedimento ministeriale».
Lo stesso ricorrente, è stato sospeso dall‟esercizio delle sue funzioni
di giudice dal Consiglio Superiore della Magistratura con ordinanza 23 no-
vembre 2006, la quale dapprima ritiene non manifestamente infondata la
richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule d‟udienza, e poi pacifico che
«la circolare del ministro della giustizia del 29 maggio 1926 n. 2134/1867
sia un atto amministrativo generale, privo di fondamento normativo e quin-
di contrastante con il principio di legalità dell‟azione amministrativa»149
.
Per quanto riguarda, un‟altra domanda posta dal ricorrente, cioè quella
diretta a ottenere l‟autorizzazione ad esporre nelle aule giudiziarie la meno-
149
Continua il Consiglio Superiore della Magistratura osservando che la legalità
dell‟azione amministrativa è «desumibile dagli articoli 97 e 113 dal quale deriva che l‟attività
della pubblica amministrazione deve sempre svolgersi nel rispetto della Costituzione, delle
norme comunitarie e delle leggi, con l‟ulteriore conseguenza che ogni atto amministrativo deve
essere espressione di un potere riconosciuto all‟amministrazione da una norma»; «in conformità
con questo principio il legislatore ha disciplinato l‟esposizione dei simboli non religiosi nei luo-
ghi pubblici (legge 5 febbraio 1998, n. 22 sull‟uso della bandiera della Repubblica italiana e di
quella dell‟Unione europea; l‟art. 38 del d.lgs. n. 267 del 2000, che disciplina la stessa materia
con riferimento all‟ordinamento degli enti locali)»
95
ràh, simbolo della religione ebraica, il CSM, sulla base del vigente quadro
normativo, ritiene «manifestamente infondata la pretesa, che, per potere es-
sere accolta il legislatore deve compiere scelte discrezionali che allo stato
non sono state compiute»150
.
Avverso la decisione del Tribunale di Camerino il ricorrente ha pro-
mosso ricorso alla Corte d‟Appello dell‟Aquila, che con la sentenza del 23
maggio 2007, confermava la decisione impugnata. In ultima istanza, inve-
ce, la Corte di Cassazione, con la sentenza 10 luglio 2009, n. 28482, dichia-
ra fondato il ricorso ed accoglie la richiesta del giudice-ricorrente di Came-
rino, di annullamento delle precedenti pronunce e quindi del reato contesta-
togli di “rifiuto di atti d‟ufficio”. La Suprema Corte indica la via per sinda-
care la circolare ministeriale 29 maggio 1926, n. 2134/1867, che «non assi-
stita da una espressa previsione di legge impositiva del relativo obbligo,
implica un problema di carattere generale, che può essere fatto valere solle-
citando la Pubblica Amministrazione a rivedere la propria scelta dell'arredo
delle dette aule e, in caso di esito negativo, adendo il giudice amministrati-
150
Consiglio Superiore della Magistratura, ordinanza del 23 novembre 2006, dispone in merito
«è vero che sul piano teorico il principio di laicità è compatibile sia con un modello di equipara-
zione verso l‟alto (laicità per addizione), che consenta a ogni soggetto di vedere rappresentati
nei luoghi pubblici i simboli della propria religione, sia con un modello di equiparazione verso
il basso (laicità per sottrazione) che prevede l‟assenza di qualsiasi simbolo, la scelta tra i due
modelli esige che siano valutati una pluralità di profili, primo fra tutti quello della concreta pra-
ticabilità, ma anche quelli più delicati del bilanciamento tra l‟esercizio della libertà religiosa da
parte di alcuni utenti del luogo pubblico con l‟analogo esercizio della libertà negativa da parte
dell‟ateo o del non credente (conflitto che, come si è osservato, non può essere risolto ricorren-
do al dato quantitativo o statistico) e l‟ulteriore bilanciamento tra garanzia del pluralismo e pos-
sibili conflitti tra una pluralità di identità religiose tra loro incompatibili»
96
vo, che ha giurisdizione esclusiva al riguardo, ai sensi dell'art. 33 del d.lgs.
n. 80/1998, vertendosi in tema di contestazione della legittimità dell'eserci-
zio del potere amministrativo».
La Corte ha annullato le precedenti sentenze di grado inferiore perché
non ha rilevato il reato imputato al soggetto, vista la mancanza dei suoi ca-
ratteri costitutivi, quale rilevanza esterna dell‟azione e l‟effettivo danno
provocato151
.
151 Così la Corte di Cassazione, sentenza 10 luglio 2009, n. 28482, in merito «La sollecitata
verifica di legittimità del formulato giudizio di colpevolezza non può prescindere dal dato fat-
tuale accertato in sede di merito: il giudice T., dopo avere vista disattesa la sua richiesta di ri-
mozione del crocifisso dalle aule, aveva preannunciato la sua decisione di astenersi dalle udien-
ze, cosa che in concreto aveva fatto nell'arco temporale indicato nel capo d'imputazione; il Pre-
sidente del Tribunale di Camerino, però, informato tempestivamente della scelta del T., aveva
provveduto a sostituirlo con altri magistrati, che si erano alternati nella trattazione dei processi
fissati nelle udienze che avrebbe dovuto tenere il medesimo T., sicché l'attività giudiziaria si era
ugualmente svolta. Ciò posto, osserva la Corte che non sono ravvisabili in tale situazione gli
estremi materiali del rifiuto di atti d'ufficio». Infatti continua la Corte «La condotta addebitata si
è concretizzata nella violazione di doveri funzionali, riverberatasi esclusivamente, come la stes-
sa sentenza impugnata riconosce, sull'organizzazione interna dell'ufficio e non sull'attività di
rilevanza esterna, diretta a garantire il servizio giustizia».
97
CAPITOLO QUARTO
I SIMBOLI RELIGIOSI INDIVIDUALI
NEI LUOGHI PUBBLICI
SOMMARIO: 1. Esposizione dei simboli individuali e libertà religiosa. – 2. Il caso del
pugnale Sikh (cd. Kirpan). – 3. Il caso del turbante e del velo islamico. – 4. Il caso del
tatuaggio.
1. Esposizione dei simboli individuali e libertà religiosa.
La presenza di un determinato simbolo nello spazio pubblico, non può
non esercitare un influsso particolare sulla coscienza degli individui, dato i
valori confessionali che esercita, e per questo lo stato che vuole tutelare la
libertà di coscienza non può imporre la presenza di tali simboli.152
152
G. CASUSCELLI, Il crocifisso nelle scuole: neutralità dello Stato e «regola della precauzio-
ne», in Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose (www.olir.it), luglio 2005, p. 8.
98
L‟affermazione di Martha Nussbaum,153
“La gente ama l‟omogeneità,
ma la legge deve difendere i diritti di chi è diverso”, nella sua sinteticità,
costituisce una preziosa chiave interpretativa del tema.
L‟abbigliamento può rappresentare un modo di professare la propria
fede religiosa, come ad esempio, il velo delle donne musulmane154
o delle
suore cattoliche, il turbante degli indiani sikh155
o la kippah degli ebrei, il
copricapo maschile dei talebani o dei tuareg.156
In questa prospettiva,
l‟abbigliamento forma oggetto di un diritto riconducibile alla libertà di reli-
gione, sancita dall‟art. 19 Cost., oltre che da diverse fonti sovranazionali
153
Contenuta in un‟intervista apparsa sulla stampa quotidiana di: E. AMBROSI, Perché il velo fa
scandalo, in La Repubblica, 6 aprile 2007. 154
S. BENHABIB, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era
globale, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 132, sostiene che: «Il velo islamico è suscettibile di diver-
se interpretazioni. Più esattamente, esistono varie tipologie di veli: chador che copre la fronte, le
guance e il mento; l‟hijab lascia liberi solo gli occhi; il burqa copre tutto il corpo della donna,
compreso il volto e gli occhi, celati dietro una „grata‟ di stoffa), che assumono, all‟interno della
stessa comunità musulmana, una funzione simbolica: “attraverso l‟abbigliamento donne di paesi
diversi segnalano l‟una all‟altra le proprie origini etniche e nazionali, come pure la propria di-
stanza dalla tradizione o la propria prossimità ad essa. Più sono vivaci i colori dei soprabiti e
degli scialli (azzurro, verde, beige, lilla, colori opposti al marrone, al grigio, al blu marino e,
naturalmente, al nero), e più alla moda i loro tagli e tessuti secondo i canoni occidentali, tanto
più è possibile supporre una distanza dall‟ortodossia islamica delle donne che li portano”. Vista
dall‟esterno, tuttavia, “questa complessa semiotica dei codici di abbigliamento si riduce a uno o
due capi di vestiario, che poi assumono la funzione di simboli fondamentali di negoziazioni
complesse tra le identità religiose e culturali musulmane e le culture occidentali”». 155
A. FUCCILLO (con la collaborazione di E. MATTU, F. SORVILLO), La querelle italiana sulla
esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, in ID. Giustizia e religione. L’agire reli-
gioso nella giurisprudenza civile, cit., p. 232, «I Sikh sono tenuti ad osservare fedelmente la
regola delle cinque “K”: barba e capelli non devono essere tagliati e vanno racchiusi nel turban-
te, segno di rispetto della volontà di Dio (Kes); occorre indossare un piccolo pettine di legno per
fermare i capelli, indice di cura personale (Kanga); brache fino alle ginocchia, simbolo di forza
morale (Kach); un pugnale, emblema della resistenza al male (Kirpan) ed inoltre un bracciale di
acciaio al polso, simbolo dell‟unità con Dio (Kara)» 156
Cfr. L. MANCINI, Simboli religiosi e conflitti nelle società multiculturali, in E. DIENI, A. FER-
RARI, V. PACILLO, I simboli religiosi tra diritto e culture, Milano, 2006, p. 7 ss.
99
(art. 9 CEDU): “la libertà di religione include infatti anche il diritto di in-
dossare i simboli della religione cui si appartiene”.157
Questo costituisce la
libertà di abbigliamento religioso, che è soggetta alle medesime restrizioni
cui può andare incontro la libertà di religione, di cui ne costituisce espres-
sione.
La libertà di abbigliamento religioso non è però priva di limiti, dato
che è soggetta, al buon costume, relativo ai riti, e le cerimonie religiose, ed
anche per quel che riguarda l‟abbigliamento, non possono pertanto essere
offensive della morale o del pudore sessuale158
. Inoltre, rendendo difficol-
toso o impedendo tout court il riconoscimento della persona, pone il pro-
blema della possibilità di invocare esigenze di sicurezza o ordine pubbli-
co159
come limite implicito all‟esercizio della libertà di abbigliamento reli-
gioso.
Questi segni personali di appartenenza religiosa sono del tutto compa-
tibili con l‟interpretazione della laicità come neutralità dello spazio pubbli-
co. La Francia, ad esempio, si è discostata dal modello italiano di utilizzo
157
S. FERRARI, Le ragioni del velo, in Osservatorio delle libertà e istituzioni religiose
www.olir.it, 2004, p. 2 158
Cfr. E. VITALI , A.G. CHIZZONITI, Manuale breve di diritto ecclesiastico, Milano, 2007, p. 47 159
Cfr. G. FORTI, Delitti contro l’ordine pubblico. Nota introduttiva, in A. CRESPI, G. FORTI, G.
ZUCCALÀ, Commentario breve del codice penale, 5a ed., Padova, 2008, p. 957 ss.
«Nell‟ordinamento italiano, le nozioni di sicurezza e ordine pubblico sono notoriamente contro-
verse, e i due concetti vengono non di rado usati come sinonimi, specie quando, come anche noi
faremo, ci si riferisce all‟ordine pubblico nella sua accezione materiale, di buon assetto e rego-
lare andamento del vivere civile, cui corrispondono nella collettività l‟opinione e il senso della
tranquillità e della sicurezza».
100
dei simboli negli spazi pubblici approvando una norma sul divieto di indos-
sare il burqa in detti luoghi.
I sostenitori dello stato laico, liberale e anti-perfezionista non vogliono
che lo Stato etri nel merito delle concezioni del bene dei cittadini e ne clas-
sifichi alcune come buone, altre come meno buone, altre come da bandire,
con la conseguenza di introdurre distinzioni morali tra i cittadini”160
. A
questo proposito, è noto che uno degli argomenti principali su cui ha fatto
leva il legislatore francese riguarda il significato segregazionista del velo, il
suo essere un simbolo potente di sottomissione femminile e la necessità di
sottrarre le giovani islamiche alle pressioni tradizionaliste del gruppo fami-
liare e della comunità etnico-religiosa di appartenenza161
.
Non sono mancate critiche a questa scelta del governo francese per cui
la legislazione di uno Stato non deve chiedere agli adepti di diversi culti,
«un atteggiamento più esigente e rigoroso di quello che è normalmente usa-
to per valutare i comportamenti culturalmente familiari o, per intenderci,
160
Cfr. A. E. GALEOTTI, Genere e culture altre, in Ragion pratica, n. 23,Bologna, 2004, p. 474. 161
Secondo J. RISSET, Sulla nozione di laicità: a proposito della “legge sul foulard”, in Parole-
chiave, 2005, p. 169, nei paesi europei “il velo ha il fine di distinguere le donne che aderiscono
ai movimenti comunitari islamisti, opera una frattura tra le donne, crea difficoltà e rimorsi alle
giovani musulmane non sottomesse, manifesta un‟ubbidienza prioritaria a precetti politico-
religiosi che possono andare fino al rifiuto degli obblighi legali. Nella scuola, il velo è il primo
passo prima del rifiuto di seguire le lezioni di ginnastica, di musica, di anatomia. Negli ospedali,
introduce il rifiuto da parte di pazienti musulmane di essere curate da un medico maschio; e da
parte di infermiere quello di curare pazienti maschi ecc.”. Per ALAINE TOURAINE, intervistato su
La stampa del 18 dicembre 2003, non vanno sacrificati i nostri princìpi, e cioè “l‟uguaglianza
tra uomini e donne e il pensiero razionale”.
101
“nostri” »162
. In questo senso la richiesta rivolta alle ragazze musulmane, o
altra comunità di immigrati, non deve apparire più onerosa di quelle a cui
sono sottoposti gli altri individui. Considerare queste comunità del tutto di-
verse rispetto a quella maggioritaria-occidentale non è del tutto esatto per-
ché “anche le famiglie più democratiche e liberali determinano le scelte dei
figli minori”,163
Da una prima applicazione della nuova normativa si può ricavare che
lo Stato non deve in alcun modo “manipolare” i simboli religiosi, né per
vietarli né per imporli, altrimenti rischiando di determinare conseguenze
pratiche distorte e indesiderate.164
162
A. E. GALEOTTI, Genere e culture altre, in Ragion pratica, cit., p. 473-474. 163
A. E. GALEOTTI, Genere e culture altre, in Ragion Pratica, cit., p. 475, osserva: “le famiglie
esercitano per i minori scelte di questo tipo continuamente: li fanno battezzare e circoncidere, li
mandano o meno al catechismo, fanno fare loro comunione e cresima, li iscrivono a scuole con-
fessionali. Perché il velo dovrebbe essere diverso? 164
In base alla circolare n. 2004-084 del 18 maggio 2004 (c.d. circolare Fillon), adottata in ap-
plicazione della legge n. 228 del 2004, i segni e le tipologie di abbigliamento oggetto di divieto
sono quelli che conducono a farsi immediatamente riconoscere per la propria appartenenza reli-
giosa, come le diverse fogge di velo islamico, la kippah o una croce di dimensioni manifesta-
mente eccessive. La legge è formulata in modo da essere applicabile a tutte le religioni e da ri-
spondere alla comparsa di nuovi segni, anche in vista di eventuali tentativi di un suo aggiramen-
to. Essa non si applica ai segni religiosi discreti e non vieta gli accessori e i capi di vestiario
normalmente portati dagli allievi al di fuori di qualsiasi significato religioso. Nell‟anno scolasti-
co 2004-2005 (il primo di applicazione della legge) il numero complessivo di segni religiosi
censiti è stato di 639 (due grandi croci, undici turbanti sikh e per il resto veli islamici). In 96
casi, gli allievi hanno optato per soluzioni alternative al Consiglio di disciplina (iscrizioni alla
scuola privata, rinunce e, soprattutto, 50 iscrizioni al Centro nazionale di didattica a distanza).
Le misure disciplinari sono state 47: di cui 44 esclusioni pronunciate per il velo islamico e 3 per
il turbante sikh. Delle allieve escluse, 21 si sono poi a loro volta iscritte al Centro di didattica a
distanza. Non si è realizzata una esclusione di massa, avendo la prospettiva di applicazione della
legge determinato una sorta di effetto preventivo di autolimitazione nell‟uso di segni religiosi o
addirittura di rinuncia alla frequenza della scuola. Al di là dei dati numerici, che possono essere
variamente valutati, l’abbandono della scuola pubblica da parte di un numero comunque consi-
stente di ragazze può essere visto, infatti, come una sottrazione importante di opportunità di
emancipazione dal proprio ambiente familiare e di integrazione sociale.
102
La libertà negativa di religione comporta che lo Stato sia privo di
qualsiasi potere in merito alla definizione di ciò che sia o no religione, e
quindi anche di che cosa sia simbolo religioso o di accogliere un certo si-
gnificato del simbolo stesso, per aderirvi o per respingerlo. Ogni tentativo
in questa direzione “non può che urtare contro l‟intero elenco dei princìpi
costituzionali, a partire da quello della laicità e del pluralismo, per arrivare
a quello della tutela delle minoranze”165
.
2. Il caso del pugnale Sikh (cd. Kirpan).
Come sarà possibile notare dalle pagine che seguiranno, a differenza
che nel capitolo sui segni collettivi, le decisioni giurisprudenziali sono mol-
to recenti, riguardano gli ultimi due anni, in cui, i mass media sono inter-
venti in modo massiccio sull‟argomento, esprimendo anche commenti, fuo-
ri dal presente studio, sui casi che esaminerò di seguito dal punto di vista
giuridico.
Numerosi e non irrilevanti sono i punti critici indicati nel rapporto tra cui: le condizioni di sco-
larizzazione nella fase del dialogo, che deve necessariamente precedere l‟eventuale irrogazione
di sanzioni disciplinari. Tali condizioni variano nei diversi istituti, ma quasi sempre consistono
nell‟isolamento dell‟allievo rispetto alla propria classe, anche per evitare pubbliche rivendica-
zioni del diritto di manifestare la propria appartenenza religiosa, con appelli alla solidarietà dei
compagni, ad esempio attraverso petizioni o manifestazioni.
La circolare Fillon sottolinea la funzione pedagogica del dialogo, nel corso del quale si deve
porre particolare attenzione a non urtare le convinzioni religiose dell‟allievo e dei suoi genitori. 165
R. BIN, Libertà dalla religione, in AA. VV. I soggetti del pluralismo nella giurisprudenza
costituzionale, a cura di R. BIN e C. PINELLI, Torino, 1996, p. 43.
103
La pronuncia più risalente è la sentenza del TAR Friuli-Venezia Giu-
lia 16 ottobre 2006, n. 645, che ha rigettato il ricorso del comune di Azzano
Decimo verso il decreto del prefetto di Pordenone, che aveva annullato
l‟ordinanza con cui il sindaco aveva ordinato di adeguarsi alla normativa
vigente (art. 5, co. 1, l. 22 maggio 1975, n. 152) vietante l‟uso, in luogo
pubblico o aperto al pubblico, di caschi o di qualunque altro mezzo atto a
rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, per l‟utilizzo in detti
luoghi del velo che copre il volto.
Il giudice, nel motivare la reiezione del ricorso punta l‟attenzione pri-
ma sulla legittimità dell‟ordinanza del sindaco ritenendola un mezzo per
«effettuare una sorta di interpretazione autentica delle norme di legge e
cioè un‟ operazione che, anche quando viene effettuata dal legislatore, che
è l‟unico soggetto a ciò competente, nessun dubita avvenga con atto avente
lo stesso valore di quello interpretato». Permettere, invece, che il Sindaco
di un Comune possa farlo con un atto privo di carattere provvedimentale,
(perché l‟ordinanza non innova il diritto oggettivo) «sembra attuare un ulte-
riore ed inammissibile svilimento della funzione di fatto usurpata».
Vista poi l‟assenza di una competenza generale del Sindaco in materia
di pubblica sicurezza, è evidente che non può novare la disciplina legislati-
va riferibile all‟art. 5 primo comma della l. 152/1975, includendo altre fat-
tispecie, di non usare mezzi atti a rendere difficile il riconoscimento della
persona, quali i tradizionali veli tipici delle donne musulmane comprensivi
104
di burqa e chador, non compresi esplicitamente nella legge. Il tribunale in-
dica che «un generale divieto di circolare in pubblico indossando tali tipi di
coperture può derivare solo da una norma di legge che lo specifichi» ed
inoltre spetta ad «ogni ufficiale di pubblica sicurezza valutare caso per caso
se la norma di legge possa o meno ritenersi rispettata».
Questa sentenza considera il velo islamico come simbolo religioso, il
quale è anche un capo di abbigliamento che denota la professione di una
determinata fede religiosa, che coprendo interamente il volto, rende irrico-
noscibile chi lo indossa, costituendo un problema di ordine pubblico ed un
limite all‟esercizio della libertà religiosa. A tal fine, la pronuncia qui in
esame, permetterebbe di esporre in pubblico tutti gli altri simboli che non
siano contrari all‟ordine pubblico e buon costume, quali spille, ciondoli,
ecc.166
A seguito di tale decisione del TAR Friuli-Venezia Giulia, il comune
di Azzano Decimo, ha proposto ricorso al Consiglio di Stato, che in data 19
giugno 2008, con la sentenza n. 3076 ha rigettato la richiesta di annulla-
mento della pronuncia di primo grado, ribadendo il concetto che il sindaco,
pur avendo poteri di ufficiale di governo, e potendo in tal modo emanare
provvedimenti indispensabili per la tutela dell'ordine pubblico e della sicu-
rezza pubblica, non può interpretare la legge, e nel caso di specie estendere
166
Cfr. P. VIPIANA, Neutralità degli spazi pubblici e diritto all’identità religiosa, in Libertà re-
ligiosa e laicità. Profili di diritto costituzionale, a cura di G. ROLLA, cit., pp. 161-162
105
al “velo che copre il volto”, il concetto di «altro mezzo atto a rendere diffi-
coltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pub-
blico, senza giustificato motivo» contemplato dall‟art. 5 della legge n.
152/1975. L‟ordinanza annullata dal prefetto nel pieno delle sue funzioni,
in quanto organo superiore rispetto al sindaco per le funzioni di manteni-
mento dell‟ordine pubblico ha, quindi, carattere provvedimentale.
Il “velo che copre il volto”, o in particolare il burqa, è utilizzato gene-
ralmente non per evitare il riconoscimento, “senza un giustificato motivo”,
ma come attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture,
per cui pur costituendo un mezzo potenzialmente idoneo a rendere difficol-
toso il riconoscimento è ammesso il suo utilizzo in determinati luoghi o da
parte di specifici ordinamenti, salvo la previsione, anche in via amministra-
tiva, di regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utiliz-
zo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione
sulla base di specifiche e settoriali esigenze.167
Il 28 gennaio 2009, il Tribunale di Vicenza, ha emesso un decreto di
archiviazione, per il reato di porto di armi od oggetti atti ad offendere, per-
ché il pugnale (Kirpan) di ridotte dimensioni, circa 18 cm, ed in assenza di
lama affilata esclude la caratteristica di oggetto atto ad offendere ex art. 4
della legge 110/75, oltre alla non configurabilità dell‟art. 699 c.p.. Resta
pertanto fermo il problema della rilevanza penale del porto di quel pugnale
167
Cfr. Consiglio di Stato, sentenza del 19 giugno 2008, n. 3076
106
da parte dell‟indiano sikh: un problema la cui soluzione deve pertanto pas-
sare attraverso la valutazione della rilevanza da attribuire al motivo religio-
so che sorregge il porto del kirpan.
Caso simile è stato risolto dal Tribunale di Cremona, che con la sen-
tenza del 19 febbraio 2009 ha assolto un cittadino indiano fermato in un
centro commerciale con in dosso un coltello, professante la religione Sikh,
dal reato di “porto di armi od oggetti atti ad offendere”. Il coltello seque-
strato però, era il Kirpan, il pugnale simbolo della resistenza al male, segno
da portare sempre con se, tipico della religione Sikh professata
dall‟imputato. Il giudice ha verificato l‟esistenza di un “giustificato moti-
vo” per portare fuori dalla propria abitazione strumenti da punta o da taglio
atti ad offendere la persona, così come prescrive la l. 18 aprile 1975, n°
110. Il giudice rileva che l‟ostentazione del Kirpan, indossato in modo visi-
bile, è semplicemente circoscritta ad una finalità, di ornamento
dell‟abbigliamento con valenza intrinsecamente e coerentemente comuni-
cativa dell‟identità religiosa.168
Bisogna inevitabilmente riconoscere come l‟utilizzo di detto simbolo
sia obiettivamente collocabile all‟interno della tutela della libertà di fede
168
Corte Suprema canadese, con sentenza in data 2 marzo 2006 n° 30.322, ritiene il porto del
kirpan di per sé non vietato (addirittura) all‟interno di istituti scolastici, evidenziando come per
poter restringere un diritto tutelato dalla Carta occorra che la minaccia sia presente e reale (non
già che sia fondata sulla mera avversione o preoccupazione) e che i mezzi scelti per limitarlo
siano proporzionati all‟obiettivo perseguito. In questa importante decisione la Corte Suprema
canadese ha fatto leva proprio sulla natura simbolica del coltellino dei “sikh”, evidenziando pu-
re, sullo sfondo, il fondamentale valore canadese del multiculturalismo.
107
religiosa (art. 19 cost.), e «non può negarsi come sia proprio “in pubblico”,
e dunque “fuori della propria abitazione”, che il kirpan assume l‟ulteriore
rilevanza di esprimersi quale segno distintivo di adesione del seguace alla
religione “sikh”, così pienamente consentendogli, anche mediante
l‟affermazione della propria identità religiosa, di professare liberamente la
propria fede»169
. In merito alla libertà di religione afferma il giudice che «il
diritto a professare liberamente la propria confessione religiosa comporta,
prima ancora che il diritto a non essere eventualmente costretto a dichiarar-
la, principalmente quello di poterla volontariamente e apertamente manife-
stare con parole o atti, oltre che, finanche, quello di farne propaganda e
opera di proselitismo».
3. Il caso del turbante e del velo islamico.
Due recenti casi giurisprudenziali, riguardanti il velo femminile e il
copricapo maschile indossati da stranieri di fede musulmana all‟interno di
aule di tribunali italiani, in situazioni di potenziale pericolo per la sicurezza
e l‟ordine pubblico, vista la celebrazione di processi per terrorismo di ma-
trice c.d. islamica, hanno visto la pronuncia dei suddetti giudici su una ma-
teria molto dibattuta e con diverse prese di posizione.
169
Tribunale di Cremona, 19 febbraio 2009, n. 799
108
Il primo caso risolto dal Tribunale di Cremona, sentenza del 27 no-
vembre 2008, riguarda una musulmana che accede a un‟aula di tribunale,
per assistere al processo penale a carico del marito (un Imam), indossando
il burqa. E‟ stata denunciata per il reato di cui all‟art. 5 l. 22 maggio 1975,
n. 152, anche se ha ottemperato alla richiesta di identificazione, effettuata
dal personale femminile della Polizia giudiziaria prima di entrare nell‟aula
dell‟udienza. Nonostante il riconoscimento, viene disposta la denuncia per
il reato di “in luogo pubblico, senza giustificato motivo, indossava un velo
che, coprendole il volto, ne rendeva difficile il riconoscimento da parte del-
le forze dell‟ordine”. La norma, prevede delle sanzioni, per coloro che
“senza giustificato motivo” indossino accessori che non permettono il rico-
noscimento.170
Il Tribunale ha affermato che «il burqa non può essere ricondotto al
concetto di “altri mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della
persona” quando l‟uso di quel particolare velo, in un contesto di apprezza-
bile pericolo per la sicurezza o l’ordine pubblico, non abbia avuto in con-
creto, come nel caso di specie, l‟effetto di rendere difficoltoso il riconosci-
mento della persona che lo indossava, attesa la sua disponibilità, dietro ri-
chiesta, ad una temporanea rimozione per mostrare il volto al personale
(femminile) delle forze dell‟ordine». Questa motivazione, scaturita dalla 170
Cfr. A. BERNARDI, L’ondivaga rilevanza penale del “fattore culturale”, in Politica del dirit-
to, 2007, p. 9, il quale ricorda come un recente aumento della pena comminata per il reato in
esame, ad opera della l. 31 luglio 2005, n. 155, è stato fortemente voluto dalla “Lega per ostaco-
lare l‟uso del burqa, che gli esponenti di tale partito vorrebbero interdire”.
109
condotta collaborativa della donna, ha consentito al giudice di non valutare
l‟antigiuridicità dell‟azione di coprire il volto ed evitare il riconoscimento
senza un giustificato motivo, un controllo che avrebbe richiesto di valutare
la possibile rilevanza della motivazione religiosa della condotta in esame,
così come ha compiuto il Consiglio di Stato con la sentenza del 19 giugno
2008, n. 3076 illustrata in precedenza.
Le due sentenze ora citate, attraverso argomentazioni differenti, giun-
gono a una medesima soluzione: l‟uso del burqa, giustificato dal motivo
religioso, non costituisce di per sé un fatto che integra il reato di cui all‟art.
5 l. n. 152/1975, ma può costituirlo, solo quando effettive esigenze di ordi-
ne o sicurezza pubblica impongano di procedere all‟identificazione della
persona che indossi quell‟indumento, rifiutando di sottoporsi
all‟identificazione rimuovendo il velo per il tempo a ciò strettamente ne-
cessario. L‟uso del burqa, in questa ipotesi, non sarebbe giustificato nean-
che dalla libertà di professare la propria fede attraverso l‟abbigliamento,
perché l‟esercizio di quella libertà non deve contrastare l’esigenza di tute-
lare l’ordine o la sicurezza pubblica, interesse che va al di sopra di quello
religioso, consentendo alle forze dell‟ordine, laddove necessario, di proce-
dere al riconoscimento delle persone.171
171
G. L. GATTA, Islam, abbigliamento religioso, diritto e processo penale: brevi note a margine
di due casi giurisprudenziali, in Rivista telematica: Stato Chiese e pluralismo confessionale,
giugno 2009, Così: «La ragionevolezza di tale soluzione può essere toccata con mano ponendo
mente alla possibilità di utilizzi impropri del burqa, tutt‟altro che fantasiosi: nel recente passato
è stato sfruttato da terroristi islamici per sottrarsi alle forze dell‟ordine quando non, addirittura,
110
Sicurezza e ordine pubblico costituiscono limiti impliciti alla libertà di
religione ex art. 19 Cost., a condizione che, nel caso concreto, venga in ri-
lievo la tutela di interessi finali costituzionalmente garantiti, quali ad esem-
pio la vita e l‟incolumità individuale o pubblica, il pericolo per la sicurezza
pubblica, che ad esempio suggerisce alle forze dell‟ordine, di procedere
all‟identificazione di una persona entrata a volto coperto in un‟aula di tri-
bunale, mentre è in corso un processo per fatti di terrorismo islamico, stru-
mentale alla tutela della vita e dell‟integrità fisica delle persone presenti in
quell‟aula.172
In questa prospettiva, la libertà della donna di fede musul-
mana di indossare il burqa173
può essere limitata solo se, nel caso concreto,
il riconoscimento personale da parte delle forze dell‟ordine risulti necessa-
rio per fronteggiare un effettivo pericolo per beni individuali o collettivi di
rango costituzionale, quali ad esempio quelli suddetti.
per compiere attentati. Nel luglio del 2005, ad esempio, un islamico, presunto autore di un falli-
to attentato alla metropolitana di Londra, ha tentato di sottrarsi alle forze dell‟ordine travesten-
dosi da donna e indossando il burqa; nell‟ottobre del 2007, poi, in Pakistan un kamikaze si è
travestito da donna, ha indossato il burqa e si è fatto saltare in aria presso un posto di blocco,
uccidendo quattordici persone e ferendone altre venti». 172
Cfr. D. PULITANÒ, Problemi della sicurezza e diritto penale, Relazione provvisoria per il
convegno “Sicurezza e diritto penale”, Modena, 21 marzo 2009. 173
S. DOMIANELLO, La rappresentazione dei valori nei simboli: un’illusione che alimenta ipo-
crisia e fanatismo, in Tavola rotonda su: Crocifisso, velo e turbante simboli e comportamenti
religiosi nella società plurale, Campobasso, 21-22 aprile 2005, così sull‟obbligo di non indossa-
re il velo: «il 18 gennaio 2005, l‟Uzbekistan, è stato richiamato e messo in mora dal Comitato
per i diritti umani a causa dell‟espulsione di una studentessa velata, irrogata in applicazione di
una legge nazionale del 1998, che similmente alla legge francese, vieta a tutti i cittadini di quel-
lo stato di indossare nei luoghi pubblici abbigliamento religioso. Il Comitato ha ritenuto inam-
missibile qualsiasi compressione, persino legislativamente disposta, del diritto a manifestare
anche in pubblico la propria appartenenza religiosa (garantito dall‟art. 18 par. 2 del Protocollo
addizionale alla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici dell‟uomo), che sortisca
l‟effetto di limitare l‟accesso al godimento, all‟interno di uno stato, dei diritti riconosciuti a tut-
ti».
111
Altra decisione giudiziaria per l‟argomento qui in discussione è
l‟ordinanza del Tribunale di Milano del 26 febbraio 2009, per cui nel corso
di un processo in tema di terrorismo internazionale, si presentano in aula i
ventitré islamici imputati e in stato di detenzione indossando tutti un copri-
capo, invitati dal giudice a toglierli, tutti ottemperano tranne uno che dice:
“è un simbolo religioso, anche tu giudice porti la croce”. A questo punto il
dissenziente rinuncia a presenziare all‟udienza e abbandona l‟aula senza
essere allontanato coattivamente dal Giudice. Il proprio difensore eccepisce
la violazione del diritto di difesa che viene però respinta con l‟ordinanza
qui in oggetto.
Il Tribunale di Milano ha motivato tale decisione richiamando i “pote-
ri di disciplina dell‟udienza, ad esso attribuiti ex art. 470 c.p.p.”, tra i quali
rientra «la facoltà di adottare tutti i provvedimenti opportuni per garantire il
decoro e il rispetto nei confronti dell‟Autorità giudiziaria, funzionali
all‟ordinata celebrazione dell‟udienza». Si legge nell‟ordinanza che per
«consolidata prassi istituzionale, nessuno può presenziare in udienza a capo
coperto, ad eccezione delle Forze dell‟ordine adibite, per l‟occasione, alla
sicurezza dell‟udienza stessa, perché qualora presenti per finalità diverse da
quelle della sicurezza (ad es., assunzione di testimonianza), seppur in divi-
sa, debbano presentarsi a capo scoperto.
Il giudice nel ribadire che l‟imputato, è stato invitato a togliere il co-
pricapo, così come sarebbe avvenuto per qualsiasi altra persona in udienza,
112
ha poi accertato la mancata violazione del diritto di difesa visto
l‟allontanamento spontaneo dall‟aula da parte dell‟imputato.
La motivazione dell‟ordinanza, come si vede, risolve il problema po-
sto dal caso in esame senza affrontare e dare rilievo al motivo religioso
dell‟uso del copricapo. Accertato che si tratta effettivamente di un simbolo
religioso e per la sua conformazione (ben diversa da quella del burqa), non
impedisce l‟identificazione della persona, non è comprensibile perché il di-
ritto alla libertà religiosa di chi lo indossa debba essere sacrificato.174
Non sussistono, infatti, esigenze di sicurezza pubblica o comunque di
accertamento dell‟identità delle parti e dei soggetti processuali, che possa-
no ragionevolmente e legittimamente comprimere quel diritto. Nel caso in
esame, pertanto, la rimozione del copricapo/simbolo religioso non appare
misura in alcun modo giustificabile.
Non è possibile, come ha fatto il Tribunale, vietare l‟uso del copricapo
invocando esigenze di “decoro” e di “rispetto dell‟Autorità Giudiziaria”:
perché indossare un copricapo per motivi religiosi, non può ragionevol-
mente considerarsi né indecoroso né irrispettoso. Nessuno, nel nostro Pae-
se, considererebbe infatti indecorosa o oltraggiosa la presenza di una suora
cattolica con il velo all‟interno di un aula di Tribunale: né un giudice farà
mai valere, nei confronti di quella suora, la “consolidata prassi istituziona-
174
G. L. GATTA, Islam, abbigliamento religioso, diritto e processo penale: brevi note a margine
di due casi giurisprudenziali, in Rivista telematica: (Stato Chiese e pluralismo confessionale),
cit., p. 12.
113
le”, richiamata nell‟ordinanza in oggetto, secondo cui nessuno, al di fuori
delle Forze dell‟ordine adibite alla sicurezza dell‟udienza, potrebbe presen-
ziare in aula con un copricapo.
Della legittimità di questa “prassi istituzionale”, riferita a copricapo
indossati per motivi religiosi, è lecito dubitare per almeno due motivi: il
primo perché non sembra vero che nessuno, al di fuori delle Forze
dell‟ordine adibite alla sicurezza dell‟udienza, può presenziare in aula a ca-
po coperto: l‟art. 6 della l. 8 marzo 1989 n. 101, recante “Norme per la re-
golazione dei rapporti tra lo Stato e l‟Unione delle Comunità ebraiche ita-
liane”, stabilisce infatti al comma 1, con chiaro riferimento al giuramento
“a capo scoperto” in udienza previsto in passato dall‟art. 142 c.p.p. del
193035, che “Agli ebrei che lo richiedano è consentito prestare a capo co-
perto il giuramento previsto dalle leggi dello Stato”175
. Questa è una dispo-
sizione che per un certo verso non dovrebbe più essere in vigore perché nel
vigente sistema processuale penale non ci sono più forme di “giuramento”,
ma tuttavia, l‟anzidetta disposizione, introdotta in relazione a quel solenne
atto processuale, può trovare in via analogica un ambito di applicazione
ben più ampio, consentendo agli ebrei di indossare la kippah davanti
all‟Autorità giudiziaria in qualunque fase del processo penale (anche, cioè,
in occasione di atti privi della solennità propria del giuramento, quale la
175
Cfr. G. DISEGNI, Ebraismo e libertà religiosa in Italia. Dal diritto all’uguaglianza al diritto
alla diversità, Torino, 1983, p. 32.
114
mera presenza in udienza). Altro motivo, è la libertà di abbigliamento re-
ligioso, quale forma di manifestazione della più ampia libertà di religione
(art. 19 Cost.), ad imporre, con riferimento a tutte le confessioni religiose
(ex art. 8, comma 1 Cost.), che le disposizioni relative al processo penale,
ivi comprese quelle in materia di disciplina dell‟udienza, non comprimano
quella libertà se non negli stretti limiti (si pensi, ancora, al caso della donna
che acceda in tribunale, in occasione di un processo per terrorismo islami-
co, indossando il burqa) in cui ciò sia imposto da effettive esigenze di sicu-
rezza pubblica, strumentali alla tutela di beni di rilievo costituzionale quali
la vita o l‟incolumità pubblica, ovvero dall‟esigenza di identificare con cer-
tezza i soggetti processuali, per il corretto svolgimento dell‟attività giudi-
ziaria.176
La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell‟Uomo (CEDU)
non può essere invocata per introdurre nel nostro ordinamento un limite
generale alla libertà di religione fondato su esigenze di tutela della sicurez-
za o dell‟ordine pubblico.177
Essa ha ritenuto legittime solo le restrizioni
alla libertà di abbigliamento religioso fondate su esigenze di sicurezza pub-
blica, in casi in cui quell‟interesse si rivelava in concreto strumentale alla
tutela della vita o dell‟incolumità pubblica. Costituiscono esempi:
176
G. L. GATTA, Islam, abbigliamento religioso, diritto e processo penale: brevi note a margine
di due casi giurisprudenziali, in Rivista telematica: Stato Chiese e pluralismo confessionale,
cit., p. 13. 177
Cfr. L. ZAGATO, Il volto conteso: velo islamico e diritto internazionale dei diritti umani, in
Diritto, immigrazione e cittadinanza 2007, n. 2, p. 64 ss.
115
l‟obbligo, imposto ad una donna marocchina di fede musulmana, di rimuo-
vere il velo, non integrale, al fine di sottoporsi a un controllo di identità
prima di accedere al Consolato francese a Marrakech per richiedere un vi-
sto d‟ingresso in Francia al fine di ricongiungersi col marito178
; e l‟obbligo,
imposto dalle autorità aeroportuali francesi ad un indiano sikh, di rimuove-
re il turbante durante un controllo di sicurezza pubblica.179
In entrambi i casi, la rimozione temporanea dell‟indumento religioso è
stata motivata con l‟esigenza di procedere all‟identificazione personale in
luoghi pubblici e verosimilmente affollati in cui l‟attività di controllo costi-
tuisce routine per evitare atti terroristici che mettono a repentaglio, tra
l‟altro, la vita e l‟incolumità pubblica. Bisogna però sempre verificare caso
per caso il tipo di simbolo religioso che ci si trova di fronte, e la possibilità
di, nel caso del velo integrale o meno, di identificazione del soggetto, per-
ché nei due casi sopra illustrati, il velo ed il turbante, non coprono inte-
gralmente il volto della persona, lasciando visibili solo gli occhi o parte del
viso. Altro problema che si è riscontrato è la rimozione del velo islamico
davanti a personale maschile delle forze dell‟ordine, invece che quello
femminile, perché ad esempio non in servizio, questo può costituire una il-
legittima restrizione della libertà di religione, è da verificare però sempre la
necessarietà della misura rispetto alla tutela dell‟ordine e della sicurezza 178
Cfr. Corte Europea dei Diritti dell‟Uomo, , El Morsli c. Francia, in Osservatorio delle libertà
e istituzioni religiose (www.olir.it), 4 marzo 2008. 179
Cfr. Corte Europea dei Diritti dell‟Uomo, Phull c. Francia, in Osservatorio delle libertà e isti-
tuzioni religiose (www.olir.it), 11 gennaio 2005.
116
pubblica quando nel caso concreto, vi siano elementi per ritenere improcra-
stinabile l‟identificazione della persona, e non sia immediatamente dispo-
nibile personale femminile.
4. Il caso del tatuaggio
Anche il tatuaggio può costituire un simbolo religioso.
Nel corso della storia, risalendo fino alle origini della civiltà, si può
notare come già dal 3800 a.C. sono stati trovati reperti archeologici di
strumenti impiegati per imprimere dei segni sul corso, come si evince an-
che dalle raffigurazioni, risalenti all‟Età del Bronzo, presenti su alcune
mummie ritrovate sulle Alpi.
I tatuaggi presso le varie popolazioni avevano significati e motivazio-
ni diverse, ma tutti esprimevano “messaggi”, diretti anche a comunicare le
proprie credenze e appartenenze religiose, il proprio ceto sociale,
l‟appartenenza ad un gruppo.
Tale pratica risulta volte è proibita, a volte è ordinata dalle Sacre
Scritture, restando un‟arte sempre praticata, anche dai cristiani, alla quale è
riconducibile anche l‟usanza di tatuarsi un Tau, la figura della croce di Cri-
sto, sulla fronte, ovvero la tradizione di imprimere sulla parte sinistra del
117
petto la stessa croce, come simbolo di appartenenza al Signore, in occasio-
ne del viaggio in Terra Santa180
.
Il mondo islamico, al cap. IV del Corano, condanna il costume di uo-
mini e donne di imprimersi segni sul viso e sul corpo.
Quanto la mondo Indù, il tilak o pottu, è il simbolo religioso che di-
stingue la purezza delle donne, non è un vero e proprio tatuaggio perma-
nente, ma è un applicativo di varie forme e colori, in base alle varie caste di
appartenenza, che viene applicato sulla fronte ed è visibile come un tatuag-
gio. Questo Segno copre il punto dove risiede Ajna Chakra e mentre lo si
applica si recita la formula “Possa io ricordare il signore. Possa questo pio
sentimento pervadere tutte le mie attività. Possa io essere giusto nelle mie
azioni”. Il tilak, dunque, è una benedizione del dio ed una protezione contro
le tendenze e le forze negative. Permette la distinzione degli Indiani e li
rende riconoscibili in qualunque altro posto del mondo.
Anche in questo caso non sono mancati interventi giurisprudenziali
aventi ad oggetto questa forma di espressione dell‟appartenenza confessio-
nale comunicata attraverso un simbolo “impresso” sul corpo.
In particolare, il Consiglio di Stato con la sentenza 14 maggio del
2010, n. 2950, ha affermato che costituisce causa ostativa all‟accesso nei
ruoli di Polizia di Stato la presenza di un tatuaggio in una zona del corpo
180
In merito S. Antonio aveva un Tau tatuato sul petto, ed esistono i tatuaggi lauretani, fatti sul-
le mani, i quali hanno avuto come origine la raffigurazione delle stimmate di S. Francesco, che
secondo alcuni erano dei tatuaggi fatti al santo dai frati durante uno dei suoi sonni profondi.
118
non coperta dall‟uniforme. In tal senso il decreto ministeriale 198 del 2003,
tab. 1, punto 2, lett. b rileva che non sono idonei ad entrare nella Polizia di
Stato coloro che abbiano «tatuaggi sulle parti del corpo non coperte dall'u-
niforme o quando, per la loro sede o natura, siano deturpanti o per il loro
contenuto siano indice di personalità abnorme».
Nel caso qui in esame, il Consiglio di Stato è stato chiamato a decide-
re sull‟appello presentato verso una decisione del Tar Lazio, il quale rimar-
cava la chiara visibilità e immediata percepibilità degli ideogrammi dise-
gnati sulla caviglia sinistra della ricorrente, evidenti con l‟impiego della di-
visa ordinaria estiva femminile in cui l‟indumento della gonna non è asso-
ciato alle calze.
In sede di appello il giudice rileva che il tatuaggio della ricorrente è di
piccole dimensioni ed è costituito da un segno grafico monocromatico in
lingua araba con la traduzione del nome di battesimo, e nel caso di specie,
non assume alcuna attitudine deturpante il corpo. In questa occasione, an-
che se non è coperto dalla divisa, il tatuaggio non è, deturpante ne costitui-
sce indice, di personalità abnorme.
Nel concludere, esiste una stretta connessione tra la norma sopra citata
e l‟esposizione dei simboli religiosi individuali nei luoghi pubblici o in oc-
casione dell‟esercizio di una pubblica funzione, come nei casi aventi ad
oggetto un tatuaggio raffigurante segni della propria religione di apparte-
119
nenza, traducendo il relativo atto di scelta in proiezione della libertà reli-
giosa riconosciuta a “tutti” dall‟art. 19 della Costituzione.
120
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