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Jean-Jacques Rousseau Il Contratto Sociale www.liberliber.it Jean-Jacques Rousseau Il Contratto Sociale www.liberliber.it

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Jean-Jacques RousseauIl Contratto Sociale

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il Contratto SocialeAUTORE: Rousseau, Jean-Jacques <1712-1778>TRADUTTORE:CURATORE:NOTE:CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Il contratto sociale / di G. G. Rousseau.- Venezia : Tip. di Giacomo Stude, 1862. - 143 p. ;16 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

la EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 17 ottobre 2018

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona

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TITOLO: Il Contratto SocialeAUTORE: Rousseau, Jean-Jacques <1712-1778>TRADUTTORE:CURATORE:NOTE:CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

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COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Il contratto sociale / di G. G. Rousseau.- Venezia : Tip. di Giacomo Stude, 1862. - 143 p. ;16 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

la EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 17 ottobre 2018

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona

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3: affidabilità ottima

SOGGETTO:PHI019000 FILOSOFIA / Politica

DIGITALIZZAZIONE:Umberto Corradini, [email protected]

REVISIONE:Ruggero Volpes, [email protected]

IMPAGINAZIONE:Umberto Corradini, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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3: affidabilità ottima

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REVISIONE:Ruggero Volpes, [email protected]

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Liber Liber

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Indice generale

Liber Liber........................................................................4LIBRO PRIMO................................................................9

CAPITOLO I Soggetto di questo primo libro..............9CAPITOLO II Delle prime società............................10CAPITOLO III Pel diritto del più forte.....................14CAPITOLO IV Della schiavitù..................................15CAPITOLO V Del bisogno di salir sempre ad un pri-mo patto......................................................................21CAPITOLO VI Del patto sociale...............................22CAPITOLO VII Del sovrano.....................................25CAPITOLO VIII Dello stato civile............................28CAPITOLO IX Del vero dominio..............................30

LIBRO SECONDO........................................................34CAPITOLO I La sovranità è inalienabile..................34CAPITOLO II La sovranità è indivisibile..................35CAPITOLO III Se la volontà generale possa errare.38CAPITOLO IV Dei limiti del potere sovrano............40CAPITOLO V Del diritto di vita e di morte..............45CAPITOLO VI Della legge.......................................47CAPITOLO VII Del legislatore.................................51CAPITOLO VIII Del popolo.....................................56CAPITOLO IX Continuazione...................................59CAPITOLO X Continuazione....................................62CAPITOLO XI Dei vari sistemi di legislazione........66CAPITOLO XII Divisione delle leggi.......................68

LIBRO TERZO..............................................................71

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Indice generale

Liber Liber........................................................................4LIBRO PRIMO................................................................9

CAPITOLO I Soggetto di questo primo libro..............9CAPITOLO II Delle prime società............................10CAPITOLO III Pel diritto del più forte.....................14CAPITOLO IV Della schiavitù..................................15CAPITOLO V Del bisogno di salir sempre ad un pri-mo patto......................................................................21CAPITOLO VI Del patto sociale...............................22CAPITOLO VII Del sovrano.....................................25CAPITOLO VIII Dello stato civile............................28CAPITOLO IX Del vero dominio..............................30

LIBRO SECONDO........................................................34CAPITOLO I La sovranità è inalienabile..................34CAPITOLO II La sovranità è indivisibile..................35CAPITOLO III Se la volontà generale possa errare.38CAPITOLO IV Dei limiti del potere sovrano............40CAPITOLO V Del diritto di vita e di morte..............45CAPITOLO VI Della legge.......................................47CAPITOLO VII Del legislatore.................................51CAPITOLO VIII Del popolo.....................................56CAPITOLO IX Continuazione...................................59CAPITOLO X Continuazione....................................62CAPITOLO XI Dei vari sistemi di legislazione........66CAPITOLO XII Divisione delle leggi.......................68

LIBRO TERZO..............................................................71

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CAPITOLO I Del governo in generale......................71CAPITOLO II Del principio che costituisce le varieforme di governo........................................................78CAPITOLO III Divisione dei governi........................81CAPITOLO IV Della democrazia.............................83CAPITOLO V Dell'aristocrazia................................85CAPITOLO VI Della monarchia...............................88CAPITOLO VII Dei governi misti.............................96CAPITOLO VIII Ogni forma di governo non è sempreadatta a ogni paese....................................................97CAPITOLO IX Dei segni di un buon governo........104CAPITOLO X Dell'abuso del governo e della sua ten-denza a degenerare..................................................106CAPITOLO XI Della morte del corpo politico.......110CAPITOLO XII Come si mantenga l'autorità sovrana...................................................................................112CAPITOLO XIII Continuazione..............................113CAPITOLO XIV Continuazione..............................115CAPITOLO XV Dei deputati, ossia rappresentanti...................................................................................116CAPITOLO XVI Che l'instituzione del governo non èun contratto..............................................................121CAPITOLO XVII Della instituzione del governo.. .122CAPITOLO XVIII Mezzi di prevenire le usurpazionidel governo...............................................................124

LIBRO QUARTO........................................................127CAPITOLO I Che la volontà generale è indistruttibi-le...............................................................................127CAPITOLO II Dei suffragi......................................130CAPITOLO III Delle elezioni..................................134

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CAPITOLO I Del governo in generale......................71CAPITOLO II Del principio che costituisce le varieforme di governo........................................................78CAPITOLO III Divisione dei governi........................81CAPITOLO IV Della democrazia.............................83CAPITOLO V Dell'aristocrazia................................85CAPITOLO VI Della monarchia...............................88CAPITOLO VII Dei governi misti.............................96CAPITOLO VIII Ogni forma di governo non è sempreadatta a ogni paese....................................................97CAPITOLO IX Dei segni di un buon governo........104CAPITOLO X Dell'abuso del governo e della sua ten-denza a degenerare..................................................106CAPITOLO XI Della morte del corpo politico.......110CAPITOLO XII Come si mantenga l'autorità sovrana...................................................................................112CAPITOLO XIII Continuazione..............................113CAPITOLO XIV Continuazione..............................115CAPITOLO XV Dei deputati, ossia rappresentanti...................................................................................116CAPITOLO XVI Che l'instituzione del governo non èun contratto..............................................................121CAPITOLO XVII Della instituzione del governo.. .122CAPITOLO XVIII Mezzi di prevenire le usurpazionidel governo...............................................................124

LIBRO QUARTO........................................................127CAPITOLO I Che la volontà generale è indistruttibi-le...............................................................................127CAPITOLO II Dei suffragi......................................130CAPITOLO III Delle elezioni..................................134

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CAPITOLO IV Dei comizi romani..........................136CAPITOLO V Del tribunato....................................150CAPITOLO VI Della dittatura................................152CAPITOLO VII Della censura................................156CAPITOLO VIII Della religione civile...................158CAPITOLO IX Conclusione....................................172

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CAPITOLO IV Dei comizi romani..........................136CAPITOLO V Del tribunato....................................150CAPITOLO VI Della dittatura................................152CAPITOLO VII Della censura................................156CAPITOLO VIII Della religione civile...................158CAPITOLO IX Conclusione....................................172

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ILCONTRATTO SOCIALE

DI

G. G. ROUSSEAU

VENEZIATipografia di Giacomo Stude edit.

1862

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ILCONTRATTO SOCIALE

DI

G. G. ROUSSEAU

VENEZIATipografia di Giacomo Stude edit.

1862

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LIBRO PRIMO

Voglio indagare se, nell'ordine civile, possa esisterequalche norma d'amministrazione legittima e sicura, pi-gliando gli uomini come sono e le leggi quali possono es-sere. In questa indagine io farò d'accoppiare quanto il di-ritto permette con quanto l'interesse prescrive, affinchènon vadano l'utilità e la giustizia disgiunte.

Entro in materia senza provare l'importanza del miooggetto. Mi si domanderà se io, per farmi a scrivere sullapolitica, sia principe o legislatore, ed io rispondo negati-vamente, e per ciò appunto discorrere su tale argomento.Se fossi principe o legislatore, non isprecherei il tempo adir quello che bisogna fare, ma lo farei o tacerei.

Nato cittadino di uno stato libero, e membro della so-vranità, per quanto poca influenza esercitar possa il miovoto nei pubblici negozi, il diritto di votare basta per im-pormi il dovere di istruirmene. Me beato, ogni qualvoltami fo a meditare sui governi, di trovar sempre nelle mieindagini nuovi motivi di amar quello del mio paese!

CAPITOLO ISoggetto di questo primo libro.

L'uomo nacque libero, e da per tutto è in ceppi. Talunostimasi padrone degli altri, ed è più schiavo di essi. Come

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LIBRO PRIMO

Voglio indagare se, nell'ordine civile, possa esisterequalche norma d'amministrazione legittima e sicura, pi-gliando gli uomini come sono e le leggi quali possono es-sere. In questa indagine io farò d'accoppiare quanto il di-ritto permette con quanto l'interesse prescrive, affinchènon vadano l'utilità e la giustizia disgiunte.

Entro in materia senza provare l'importanza del miooggetto. Mi si domanderà se io, per farmi a scrivere sullapolitica, sia principe o legislatore, ed io rispondo negati-vamente, e per ciò appunto discorrere su tale argomento.Se fossi principe o legislatore, non isprecherei il tempo adir quello che bisogna fare, ma lo farei o tacerei.

Nato cittadino di uno stato libero, e membro della so-vranità, per quanto poca influenza esercitar possa il miovoto nei pubblici negozi, il diritto di votare basta per im-pormi il dovere di istruirmene. Me beato, ogni qualvoltami fo a meditare sui governi, di trovar sempre nelle mieindagini nuovi motivi di amar quello del mio paese!

CAPITOLO ISoggetto di questo primo libro.

L'uomo nacque libero, e da per tutto è in ceppi. Talunostimasi padrone degli altri, ed è più schiavo di essi. Come

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avvenne questo cambiamento? Lo ignoro. Qual cosa puòrenderlo legittimo? Io credo di poter isciogliere questoquesito.

Se non considerassi altro che la forza e l'effetto che nederiva, io direi: Fintantochè un popolo è costretto ad ub-bidire ed ubbidisce, fa bene; ma appena può scuotere ilgiogo e lo scuote, fa ancora meglio; imperciocchè, ricu-perando la sua libertà con lo stesso diritto per cui gli futolta, o è giusto che se la ripigli, o non era giusto chegliela togliessero. Ma l'ordine sociale è un diritto sacroche serve di base a tutti gli altri. Questo diritto però nonviene dalla natura, ma fondasi su certe convenzioni. Trat-tasi di sapere quali sieno queste convenzioni. Ma anzitutto fa d'uopo ch'io stabilisca quanto dissi più sopra.

CAPITOLO IIDelle prime società.

La più antica di tutte le società e la sola naturale èquella della famiglia, sebbene anche i figli non rimanga-no stretti al padre se non pel tempo che loro abbisognaper la propria conservazione. Appena cessa questo biso-gno, il vincolo naturale si rompe. I figli, sciolti dall'ubbi-dienza che dovevano al padre, il padre, sgravato dallecure dovute ai figliuoli, tornano tutti egualmente allo sta-to d'indipendenza. Se continuano a restare uniti, ciò e'fanno volontariamente e non più naturalmente; e la fami-glia stessa non si mantiene se non per convenzione.

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avvenne questo cambiamento? Lo ignoro. Qual cosa puòrenderlo legittimo? Io credo di poter isciogliere questoquesito.

Se non considerassi altro che la forza e l'effetto che nederiva, io direi: Fintantochè un popolo è costretto ad ub-bidire ed ubbidisce, fa bene; ma appena può scuotere ilgiogo e lo scuote, fa ancora meglio; imperciocchè, ricu-perando la sua libertà con lo stesso diritto per cui gli futolta, o è giusto che se la ripigli, o non era giusto chegliela togliessero. Ma l'ordine sociale è un diritto sacroche serve di base a tutti gli altri. Questo diritto però nonviene dalla natura, ma fondasi su certe convenzioni. Trat-tasi di sapere quali sieno queste convenzioni. Ma anzitutto fa d'uopo ch'io stabilisca quanto dissi più sopra.

CAPITOLO IIDelle prime società.

La più antica di tutte le società e la sola naturale èquella della famiglia, sebbene anche i figli non rimanga-no stretti al padre se non pel tempo che loro abbisognaper la propria conservazione. Appena cessa questo biso-gno, il vincolo naturale si rompe. I figli, sciolti dall'ubbi-dienza che dovevano al padre, il padre, sgravato dallecure dovute ai figliuoli, tornano tutti egualmente allo sta-to d'indipendenza. Se continuano a restare uniti, ciò e'fanno volontariamente e non più naturalmente; e la fami-glia stessa non si mantiene se non per convenzione.

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Codesta libertà comune è una conseguenza della natu-ra dell'uomo. Sua prima legge è di vegliare alla propriaconservazione, le sue prime cure sono quelle dovute a sèstesso; e non appena entra nell'età della ragione che, sen-do egli solo giudice de' mezzi capaci di conservarla, di-venta quindi il proprio padrone.

La famiglia è dunque, se vuolsi, il primo modello dellesocietà politiche: il capo è l'immagine del padre, il popo-lo è l'immagine dei figli; e tutti, essendo nati uguali e li-beri, non alienano la libertà se non per l'utile proprio.Tutta la differenza consiste, che nella famiglia l'amor delpadre pei figliuoli è bastevole ricompensa per le cure adessi prodigate, e nello stato il piacere di comandare sup-plisce a quell'amore che il capo non ha per i suoi popoli.

Grozio niega che ogni potere umano sia stabilito in fa-vore di quelli che sono governati, e cita la schiavitù inesempio. Il suo modo più costante di ragionare è quellodi stabilir sempre il diritto per via del fatto1. Potrebbesiadoperare un metodo più conseguente, ma non più favo-revole ai tiranni.

Egli è dunque dubbioso, secondo Grozio, se il genereumano appartenga ad un centinaio d'uomini, ovvero sequesto centinaio d'uomini appartenga al genere umano;ma in tutto il suo libro egli sembra essere del primo pare-

1 “Le dotte ricerche intorno al diritto pubblico spesso non sonoche l'istoria degli antichi abusi; e molto male a proposito altri siè preoccupato nel darsi la pena di studiar troppo”. Trattato ma-noscritto degli interessi della Francia co' suoi vicini, del Mar-chese d'Argenson (stampato da Rey in Amsterdam). Groziofece precisamente così.

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Codesta libertà comune è una conseguenza della natu-ra dell'uomo. Sua prima legge è di vegliare alla propriaconservazione, le sue prime cure sono quelle dovute a sèstesso; e non appena entra nell'età della ragione che, sen-do egli solo giudice de' mezzi capaci di conservarla, di-venta quindi il proprio padrone.

La famiglia è dunque, se vuolsi, il primo modello dellesocietà politiche: il capo è l'immagine del padre, il popo-lo è l'immagine dei figli; e tutti, essendo nati uguali e li-beri, non alienano la libertà se non per l'utile proprio.Tutta la differenza consiste, che nella famiglia l'amor delpadre pei figliuoli è bastevole ricompensa per le cure adessi prodigate, e nello stato il piacere di comandare sup-plisce a quell'amore che il capo non ha per i suoi popoli.

Grozio niega che ogni potere umano sia stabilito in fa-vore di quelli che sono governati, e cita la schiavitù inesempio. Il suo modo più costante di ragionare è quellodi stabilir sempre il diritto per via del fatto1. Potrebbesiadoperare un metodo più conseguente, ma non più favo-revole ai tiranni.

Egli è dunque dubbioso, secondo Grozio, se il genereumano appartenga ad un centinaio d'uomini, ovvero sequesto centinaio d'uomini appartenga al genere umano;ma in tutto il suo libro egli sembra essere del primo pare-

1 “Le dotte ricerche intorno al diritto pubblico spesso non sonoche l'istoria degli antichi abusi; e molto male a proposito altri siè preoccupato nel darsi la pena di studiar troppo”. Trattato ma-noscritto degli interessi della Francia co' suoi vicini, del Mar-chese d'Argenson (stampato da Rey in Amsterdam). Groziofece precisamente così.

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re, che è pur quello di Hobbes. Ecco adunque l'umanaspecie divisa in bestiame d'armenti, ciascun dei quali hail suo capo che lo guarda per divorarlo2.

Siccome un pastore è d'una natura superiore a quelladel suo gregge, così i pastori d'uomini, che sono i lorocapi, sono pure d'una natura superiore a quella dei loropopoli. Così ragionava, al dire di Filone, l'imperatore Ca-ligola, conchiudendo assai bene da questa analogia che ire erano dii, e che i popoli erano bestie.3

Il ragionamento di Caligola si confà con quello diHobbes e di Grozio. Aristotile, innanzi tutti, aveva pur

2 Grozio, celebre pubblicista olandese, morto nel 1745, ha stam-pato un gran numero d'opere, la più stimata delle quali è il trat-tato de jure belli et pacis, tradotto e commentato in tutte le lin-gue d'Europa. – Hobbes, filosofo inglese non meno celebre,morto nel 1679, è specialmente noto pel suo trattato de Cive.

3 Filone, scrittore ebraico d'Alessandria, pieno di bei pensieri, eautore di parecchie opere sulla morale e sulla religione, che glimeritarono il soprannome di Platone ebraico. Mandato amba-sciatore a Caligola, e da questo non avendo ottenuto niente, sene vendicò scrivendo sotto il titolo di Ambasciata a Caio unaspecie di relazione che giunse infino a noi. Ecco il passo di cuitrattiamo nello stile schietto imprestato a Filone da un anticotraduttore: “Caio volendo per forza farsi credere Dio, dicesi chein sul nascere di questa folle albagia, sia uscito in questi termi-ni: – Siccome i guardiani degli animali, come bifolchi, caprai,pastori, non sono nè buoi nè capre nè agnelli, ma sono uominidi una condizione e qualità migliore, così bisogna credere cheio, governatore di questo buonissimo armento d'uomini, sia di-verso degli altri, e che non abbia niente dell'uomo, ma appar-tenga ad una natura più grande e più divina. – Dopo che gli sor-se nella mente questa opinione, ecc.” Opere di Filone, traduzio-ne di P. Bellier, in 8.º Parigi, 1598.

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re, che è pur quello di Hobbes. Ecco adunque l'umanaspecie divisa in bestiame d'armenti, ciascun dei quali hail suo capo che lo guarda per divorarlo2.

Siccome un pastore è d'una natura superiore a quelladel suo gregge, così i pastori d'uomini, che sono i lorocapi, sono pure d'una natura superiore a quella dei loropopoli. Così ragionava, al dire di Filone, l'imperatore Ca-ligola, conchiudendo assai bene da questa analogia che ire erano dii, e che i popoli erano bestie.3

Il ragionamento di Caligola si confà con quello diHobbes e di Grozio. Aristotile, innanzi tutti, aveva pur

2 Grozio, celebre pubblicista olandese, morto nel 1745, ha stam-pato un gran numero d'opere, la più stimata delle quali è il trat-tato de jure belli et pacis, tradotto e commentato in tutte le lin-gue d'Europa. – Hobbes, filosofo inglese non meno celebre,morto nel 1679, è specialmente noto pel suo trattato de Cive.

3 Filone, scrittore ebraico d'Alessandria, pieno di bei pensieri, eautore di parecchie opere sulla morale e sulla religione, che glimeritarono il soprannome di Platone ebraico. Mandato amba-sciatore a Caligola, e da questo non avendo ottenuto niente, sene vendicò scrivendo sotto il titolo di Ambasciata a Caio unaspecie di relazione che giunse infino a noi. Ecco il passo di cuitrattiamo nello stile schietto imprestato a Filone da un anticotraduttore: “Caio volendo per forza farsi credere Dio, dicesi chein sul nascere di questa folle albagia, sia uscito in questi termi-ni: – Siccome i guardiani degli animali, come bifolchi, caprai,pastori, non sono nè buoi nè capre nè agnelli, ma sono uominidi una condizione e qualità migliore, così bisogna credere cheio, governatore di questo buonissimo armento d'uomini, sia di-verso degli altri, e che non abbia niente dell'uomo, ma appar-tenga ad una natura più grande e più divina. – Dopo che gli sor-se nella mente questa opinione, ecc.” Opere di Filone, traduzio-ne di P. Bellier, in 8.º Parigi, 1598.

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detto4 che gli uomini non sono naturalmente eguali, mache gli uni nascono per vivere schiavi e gli altri per do-minare.

Aristotile aveva ragione, ma prendeva l'effetto per lacausa. Ogni uomo nato nella schiavitù nasce per la schia-vitù, nulla di più certo. Gli schiavi perdono tutto ne' cep-pi, perfino il desiderio di liberarsene; amavano il loro ab-brutimento5. Se vi hanno dunque schiavi per natura, èperchè sonvi schiavi contro natura. La forza ha fatto i pri-mi schiavi, e la loro viltà li ha perpetuati.

Io non dissi nulla nè del re Adamo, nè dell'imperatoreNoè, padre di tre grandi monarchi che si divisero l'uni-verso, come fecero i figli di Saturno, da taluno scambiatiper quelli. Spero che mi si saprà grado di questa mia mo-derazione; imperciocchè, discendendo io direttamente dauno di quei principi, e fors'anche dal ramo primogenito,chi sa se, nella verificazione de' titoli, io non mi venissi ariconoscere il legittimo re del genere umano?

Checchè ne sia, non si può disconvenire che Adamonon sia stato il sovrano del mondo, come Robinson lo eradella sua isola, fintantochè ne fu il solo abitante, ed inquell'impero eravi questo di comodo, che il monarca, si-curo sul suo trono, non aveva a paventare nè ribellioni,nè guerre, nè cospiratori.

4 Politic, lib. I, cap. 5.5 Vedi un piccolo trattato di Plutarco intitolato: Le bestie usano

della ragione.

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detto4 che gli uomini non sono naturalmente eguali, mache gli uni nascono per vivere schiavi e gli altri per do-minare.

Aristotile aveva ragione, ma prendeva l'effetto per lacausa. Ogni uomo nato nella schiavitù nasce per la schia-vitù, nulla di più certo. Gli schiavi perdono tutto ne' cep-pi, perfino il desiderio di liberarsene; amavano il loro ab-brutimento5. Se vi hanno dunque schiavi per natura, èperchè sonvi schiavi contro natura. La forza ha fatto i pri-mi schiavi, e la loro viltà li ha perpetuati.

Io non dissi nulla nè del re Adamo, nè dell'imperatoreNoè, padre di tre grandi monarchi che si divisero l'uni-verso, come fecero i figli di Saturno, da taluno scambiatiper quelli. Spero che mi si saprà grado di questa mia mo-derazione; imperciocchè, discendendo io direttamente dauno di quei principi, e fors'anche dal ramo primogenito,chi sa se, nella verificazione de' titoli, io non mi venissi ariconoscere il legittimo re del genere umano?

Checchè ne sia, non si può disconvenire che Adamonon sia stato il sovrano del mondo, come Robinson lo eradella sua isola, fintantochè ne fu il solo abitante, ed inquell'impero eravi questo di comodo, che il monarca, si-curo sul suo trono, non aveva a paventare nè ribellioni,nè guerre, nè cospiratori.

4 Politic, lib. I, cap. 5.5 Vedi un piccolo trattato di Plutarco intitolato: Le bestie usano

della ragione.

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CAPITOLO IIIPel diritto del più forte.

Il più forte non è mai forte abbastanza per esser sem-pre il padrone, se non trasforma la sua forza in diritto el'ubbidienza in dovere. Quindi il diritto del più forte; di-ritto preso ironicamente in apparenza, e realmente stabili-to in principio. Ma non ci verrà mai spiegata questa paro-la? La forza è una potenza fisica, ed io non vedo qualemoralità possa derivare da' suoi effetti. Il cedere alla for-za è un atto di necessità, non di volontà; è tutt'al più unatto di prudenza; ma in qual senso mai potrebbe essereun dovere?

Ammettiamo per un istante questo preteso diritto. Iodico che non ne risulta se non un guazzabuglio inesplica-bile, imperciocchè dal momento che la forza costituisce ildiritto, l'effetto cambia colla causa: ogni forza che pre-valga alla prima succede al suo diritto. Appena si può di-subbidire impunemente, lo si può legittimamente, e poi-chè il più forte ha sempre ragione, non si tratta se non difar in modo di essere il più forte. Ora, che è mai un dirit-to che perisce quando cessa la forza? Se bisogna ubbidireper forza, non è mestieri ubbidire per dovere, e se non siè più costretti ad ubbidire, non avvene più l'obbligo. Èchiaro dunque che questa parola di diritto non aggiugnenulla alla forza; e qui non significa nulla affatto.

Ubbidite alle potestà. Se ciò vuol dire: cedete alla for-za, il precetto è buono, ma superfluo, ed io rispondo chenon verrà mai violato. Confesso che ogni potestà viene

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CAPITOLO IIIPel diritto del più forte.

Il più forte non è mai forte abbastanza per esser sem-pre il padrone, se non trasforma la sua forza in diritto el'ubbidienza in dovere. Quindi il diritto del più forte; di-ritto preso ironicamente in apparenza, e realmente stabili-to in principio. Ma non ci verrà mai spiegata questa paro-la? La forza è una potenza fisica, ed io non vedo qualemoralità possa derivare da' suoi effetti. Il cedere alla for-za è un atto di necessità, non di volontà; è tutt'al più unatto di prudenza; ma in qual senso mai potrebbe essereun dovere?

Ammettiamo per un istante questo preteso diritto. Iodico che non ne risulta se non un guazzabuglio inesplica-bile, imperciocchè dal momento che la forza costituisce ildiritto, l'effetto cambia colla causa: ogni forza che pre-valga alla prima succede al suo diritto. Appena si può di-subbidire impunemente, lo si può legittimamente, e poi-chè il più forte ha sempre ragione, non si tratta se non difar in modo di essere il più forte. Ora, che è mai un dirit-to che perisce quando cessa la forza? Se bisogna ubbidireper forza, non è mestieri ubbidire per dovere, e se non siè più costretti ad ubbidire, non avvene più l'obbligo. Èchiaro dunque che questa parola di diritto non aggiugnenulla alla forza; e qui non significa nulla affatto.

Ubbidite alle potestà. Se ciò vuol dire: cedete alla for-za, il precetto è buono, ma superfluo, ed io rispondo chenon verrà mai violato. Confesso che ogni potestà viene

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da Dio, ma da Dio è pur mandato ogni malore; e per que-sto sarà vietato di chiamare il medico? Se un ladro mi as-sale in un bosco, è d'uopo per forza che gli dia la borsa;ma se per avventura potessi sottrarla, sarei obbligato incoscienza di dargliela? Chè la pistola infine nelle di luimani è pure una potestà!

Meco adunque si convenga che la forza non forma ildiritto, e che non si è obbligati di ubbidire se non alle po-testà legittime. E così torna sempre in campo il mio pri-mo quesito.

CAPITOLO IVDella schiavitù.

Poichè nessun uomo non ha un'autorità naturale sulsuo simile, e poichè la forza non genera nessun diritto, ri-mangono adunque le convenzioni per base d'ogni autoritàlegittima infra gli uomini.

Se un individuo, dice Grozio, può alienare la proprialibertà e rendersi schiavo d'un padrone, perchè non po-trebbe un intero popolo alienare la sua ed assoggettarsiad un re? In tale dimanda si trova più d'una parola equi-voca che abbisognerebbe di spiegazione; ma appigliamo-ci soltanto a quella di alienare. Alienare significa donareo vendere. Ora, un uomo che si fa schiavo d'un altrouomo non si dona, si vende almeno almeno per la propriasussistenza: ma perchè vendesi un popolo? Un re, benlungi dal provvedere a' suoi sudditi il sostentamento, ne

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da Dio, ma da Dio è pur mandato ogni malore; e per que-sto sarà vietato di chiamare il medico? Se un ladro mi as-sale in un bosco, è d'uopo per forza che gli dia la borsa;ma se per avventura potessi sottrarla, sarei obbligato incoscienza di dargliela? Chè la pistola infine nelle di luimani è pure una potestà!

Meco adunque si convenga che la forza non forma ildiritto, e che non si è obbligati di ubbidire se non alle po-testà legittime. E così torna sempre in campo il mio pri-mo quesito.

CAPITOLO IVDella schiavitù.

Poichè nessun uomo non ha un'autorità naturale sulsuo simile, e poichè la forza non genera nessun diritto, ri-mangono adunque le convenzioni per base d'ogni autoritàlegittima infra gli uomini.

Se un individuo, dice Grozio, può alienare la proprialibertà e rendersi schiavo d'un padrone, perchè non po-trebbe un intero popolo alienare la sua ed assoggettarsiad un re? In tale dimanda si trova più d'una parola equi-voca che abbisognerebbe di spiegazione; ma appigliamo-ci soltanto a quella di alienare. Alienare significa donareo vendere. Ora, un uomo che si fa schiavo d'un altrouomo non si dona, si vende almeno almeno per la propriasussistenza: ma perchè vendesi un popolo? Un re, benlungi dal provvedere a' suoi sudditi il sostentamento, ne

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ritrae da essi il proprio, e, al dir di Rabelais, un re non sicontenta di poco. I sudditi donano dunque la loro personacon patto che si torrà loro anco i beni? Allora io non veg-go ciò che ad essi rimanga a conservare.

Dirassi che il despota assicura a' suoi sudditi la tran-quillità civile, e sia; ma che ci guadagnano essi, se sonodesolati dalle guerre suscitate dalla sua ambizione, e dal-la insaziabile avidità e dalle vessazioni del suo ministero,più che nol sarebbero pei loro dissidj? Che ci guadagna-no essi, se questa tranquillità stessa è una delle loro mise-rie? Pur nelle carceri si vive tranquillo, ma basta ciò perdire che vi si sta bene? I Greci rinchiusi nella caverna delCiclope ci vivevano tranquilli, aspettando però che venis-se la lor volta d'essere divorati.

Dire che un uomo si dona gratuitamente, è dire unacosa assurda ed inconcepibile: un tale atto è illegittimo enullo per ciò solo, che chi il fa ha smarrito il senno. Direla medesima cosa d'un popolo intero, gli è supporre unpopolo di matti, e la pazzia non forma diritti.

Quand'anche poi ciascuno individualmente potessealienare sè stesso, ei non potrebbe alienare i suoi figli:essi nascono uomini e liberi, la loro libertà appartiene adessi, e niuno ha il diritto di disporne fuorchè eglino stes-si. Prima che siano entrati nell'età della ragione, il padrepuò in lor nome stipulare patti per la conservazione loro,pel loro benessere, ma non donarli irrevocabilmente esenza condizione, avvegnachè un tal dono sia contrario aifini della natura, ed oltrepassi i diritti della paternità. Ac-ciocchè un governo arbitrario fosse legittimo, bisogne-rebbe dunque che ad ogni generazione il popolo fosse pa-

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ritrae da essi il proprio, e, al dir di Rabelais, un re non sicontenta di poco. I sudditi donano dunque la loro personacon patto che si torrà loro anco i beni? Allora io non veg-go ciò che ad essi rimanga a conservare.

Dirassi che il despota assicura a' suoi sudditi la tran-quillità civile, e sia; ma che ci guadagnano essi, se sonodesolati dalle guerre suscitate dalla sua ambizione, e dal-la insaziabile avidità e dalle vessazioni del suo ministero,più che nol sarebbero pei loro dissidj? Che ci guadagna-no essi, se questa tranquillità stessa è una delle loro mise-rie? Pur nelle carceri si vive tranquillo, ma basta ciò perdire che vi si sta bene? I Greci rinchiusi nella caverna delCiclope ci vivevano tranquilli, aspettando però che venis-se la lor volta d'essere divorati.

Dire che un uomo si dona gratuitamente, è dire unacosa assurda ed inconcepibile: un tale atto è illegittimo enullo per ciò solo, che chi il fa ha smarrito il senno. Direla medesima cosa d'un popolo intero, gli è supporre unpopolo di matti, e la pazzia non forma diritti.

Quand'anche poi ciascuno individualmente potessealienare sè stesso, ei non potrebbe alienare i suoi figli:essi nascono uomini e liberi, la loro libertà appartiene adessi, e niuno ha il diritto di disporne fuorchè eglino stes-si. Prima che siano entrati nell'età della ragione, il padrepuò in lor nome stipulare patti per la conservazione loro,pel loro benessere, ma non donarli irrevocabilmente esenza condizione, avvegnachè un tal dono sia contrario aifini della natura, ed oltrepassi i diritti della paternità. Ac-ciocchè un governo arbitrario fosse legittimo, bisogne-rebbe dunque che ad ogni generazione il popolo fosse pa-

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drone di accettarlo o di respingerlo: ma allora questo go-verno non sarebbe più arbitrario.

Rinunziare alla propria libertà gli è come rinunziarealla qualità d'uomo, ai diritti dell'umanità, persino a' pro-pri doveri. Non vi ha risarcimento possibile per chiunquerinunzi a tutto. Una tale rinunzia è incompatibile collanatura dell'uomo, e chi toglie al suo toglie al suo volereogni libertà, toglie ogni moralità alle sue azioni. Final-mente è una convenzione vana e contraddittoria lo stipu-lare da una parte un'autorità assoluta, e dall'altra un'ubbi-dienza illimitata. Non è egli chiaro, che non si è impe-gnati per niente verso colui dal quale si ha il diritto diesigere tutto? E questa sola condizione, senza equivalen-te, senza permuta, non trae seco forse la nullità dell'atto?Imperciocchè qual diritto avrebbe il mio schiavo su dime, se tutto ciò ch'egli possiede m'appartiene, e se il suodiritto essendo il mio, questo diritto di me contro mestesso è una parola priva di senso?

Grozio e gli altri traggono dalla guerra un'altra originedel preteso diritto di schiavitù. Secondo essi, il vincitoreavendo il diritto di ammazzare il vinto, questi può riscat-tare la sua vita a spese della libertà; convenzione tantopiù legittima in quanto che torna a vantaggio di ambedue.

Ma è chiaro che questo preteso diritto di uccidere ivinti non risulta in nessun modo dallo stato di guerra. Perciò solo che gli uomini, vivendo nella loro primitiva indi-pendenza, non hanno tra sè relazioni abbastanza durevoliper costituire nè lo stato di pace, nè lo stato di guerra, e'non sono naturalmente nemici. Il rapporto solo delle cosee non degli uomini costituisce la guerra, e lo stato di

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drone di accettarlo o di respingerlo: ma allora questo go-verno non sarebbe più arbitrario.

Rinunziare alla propria libertà gli è come rinunziarealla qualità d'uomo, ai diritti dell'umanità, persino a' pro-pri doveri. Non vi ha risarcimento possibile per chiunquerinunzi a tutto. Una tale rinunzia è incompatibile collanatura dell'uomo, e chi toglie al suo toglie al suo volereogni libertà, toglie ogni moralità alle sue azioni. Final-mente è una convenzione vana e contraddittoria lo stipu-lare da una parte un'autorità assoluta, e dall'altra un'ubbi-dienza illimitata. Non è egli chiaro, che non si è impe-gnati per niente verso colui dal quale si ha il diritto diesigere tutto? E questa sola condizione, senza equivalen-te, senza permuta, non trae seco forse la nullità dell'atto?Imperciocchè qual diritto avrebbe il mio schiavo su dime, se tutto ciò ch'egli possiede m'appartiene, e se il suodiritto essendo il mio, questo diritto di me contro mestesso è una parola priva di senso?

Grozio e gli altri traggono dalla guerra un'altra originedel preteso diritto di schiavitù. Secondo essi, il vincitoreavendo il diritto di ammazzare il vinto, questi può riscat-tare la sua vita a spese della libertà; convenzione tantopiù legittima in quanto che torna a vantaggio di ambedue.

Ma è chiaro che questo preteso diritto di uccidere ivinti non risulta in nessun modo dallo stato di guerra. Perciò solo che gli uomini, vivendo nella loro primitiva indi-pendenza, non hanno tra sè relazioni abbastanza durevoliper costituire nè lo stato di pace, nè lo stato di guerra, e'non sono naturalmente nemici. Il rapporto solo delle cosee non degli uomini costituisce la guerra, e lo stato di

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guerra non potendo nascere dalle semplici relazioni per-sonali, ma solo dalle relazioni reali, la guerra privata od'uomo ad uomo non può esistere, nè nello stato di natu-ra, in cui non ha proprietà costante, nè nello stato sociale,in cui tutto è sottoposto all'autorità delle leggi.

Le tenzoni singolari, i duelli, gli scontri sono atti chenon costituiscono uno stato, e riguardo alle guerre priva-te, autorizzate dalle istituzioni di Luigi IX re di Francia, esospese dalla così detta pace di Dio, sono abusi del go-verno feudale: sistema assurdo se mai ve ne fu, contrarioal principj del diritto naturale e ad ogni buona politica.

La guerra non è dunque una relazione tra uomo eduomo, ma relazione tra stato e stato, nella quale gli indi-vidui non sono nemici se non accidentalmente, non giàcome uomini, e nemmeno come cittadini6, ma come sol-

6 I Romani, che meglio d'ogni altra nazione del mondo intesero erispettarono il diritto della guerra, spingevano a tal proposito loscrupolo al punto che non era permesso ad un cittadino di mili-tare qual volontario senza essersi prima impegnato contra l'ini-mico, e nominatamente contra il tal nemico. Una legione, in cuiil figlio di Catone faceva le sue prime gesta sotto Popilio, es-sendo stata riformata, Catone padre scrisse a Popilio, che se vo-leva che il figlio continuasse a militare sotto di lui, gli facesseprestare un nuovo giuramento guerresco, perchè il primo essen-do stato annullato, ei non poteva più portare le armi contro ilnemico. E nello stesso tempo Catone scrisse al figliuolo chebadasse bene di presentarsi in battaglia prima d'aver prestato ilnuovo giuramento. Io so che mi si potrà opporre l'assedio diClusio ed altri fatti particolari; ma io cito leggi e usanze. I Ro-mani sono coloro che hanno meno trasgredito le proprie leggi,e sono i soli ben anco che ne abbiano avute di così belle. Pelgiuramento voluto da Catone padre, vedi Cic., de Offic. l. 1, c.

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guerra non potendo nascere dalle semplici relazioni per-sonali, ma solo dalle relazioni reali, la guerra privata od'uomo ad uomo non può esistere, nè nello stato di natu-ra, in cui non ha proprietà costante, nè nello stato sociale,in cui tutto è sottoposto all'autorità delle leggi.

Le tenzoni singolari, i duelli, gli scontri sono atti chenon costituiscono uno stato, e riguardo alle guerre priva-te, autorizzate dalle istituzioni di Luigi IX re di Francia, esospese dalla così detta pace di Dio, sono abusi del go-verno feudale: sistema assurdo se mai ve ne fu, contrarioal principj del diritto naturale e ad ogni buona politica.

La guerra non è dunque una relazione tra uomo eduomo, ma relazione tra stato e stato, nella quale gli indi-vidui non sono nemici se non accidentalmente, non giàcome uomini, e nemmeno come cittadini6, ma come sol-

6 I Romani, che meglio d'ogni altra nazione del mondo intesero erispettarono il diritto della guerra, spingevano a tal proposito loscrupolo al punto che non era permesso ad un cittadino di mili-tare qual volontario senza essersi prima impegnato contra l'ini-mico, e nominatamente contra il tal nemico. Una legione, in cuiil figlio di Catone faceva le sue prime gesta sotto Popilio, es-sendo stata riformata, Catone padre scrisse a Popilio, che se vo-leva che il figlio continuasse a militare sotto di lui, gli facesseprestare un nuovo giuramento guerresco, perchè il primo essen-do stato annullato, ei non poteva più portare le armi contro ilnemico. E nello stesso tempo Catone scrisse al figliuolo chebadasse bene di presentarsi in battaglia prima d'aver prestato ilnuovo giuramento. Io so che mi si potrà opporre l'assedio diClusio ed altri fatti particolari; ma io cito leggi e usanze. I Ro-mani sono coloro che hanno meno trasgredito le proprie leggi,e sono i soli ben anco che ne abbiano avute di così belle. Pelgiuramento voluto da Catone padre, vedi Cic., de Offic. l. 1, c.

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dati; non come membri della patria, ma come suoi difen-sori. Infine ogni stato non può avere a nemici se non altristati e non degli uomini, poichè tra cose di diverse naturenon puossi fissare nessun vero rapporto.

Questo principio è anche conforme alle massime stabi-lile in tutti i tempi ed alla costante pratica di tutti i popolicivili. Le dichiarazioni di guerra sono piuttosto avverti-menti dati ai sudditi che non ai potentati. Lo straniero, siaesso re, privato o popolo, che ruba, uccide ed imprigionai sudditi senza dichiarare la guerra al principe, non è unnemico, ma un assassino. Anche in piena guerra, un prin-cipe giusto s'insignorisce bensì in paese nemico di tuttociò che spetta al pubblico, ma rispetta la persona ed ibeni dei privati, rispetta de' diritti sui quali si fondano isuoi propri. Il fine della guerra essendo quello di distrug-gere lo stato nemico, si ha diritto di ucciderne i difensorifintantochè tengono impugnate le armi; ma non appena ledepongono e si arrendono, cessando d'essere nemici odistrumenti del nemico, tornano semplicemente uomini, enon si ha più nessun diritto sulla loro vita. Talvolta si puòuccidere lo stato senza uccidere un solo de' suoi membri:or la guerra non dà nessun diritto che non sia necessarioalla sua fine. Questi principj non sono quelli di Grozio;non si fondano sovra autorità di poeti, ma derivano dallanatura delle cose, e sono fondati sulla ragione.

Riguardo al diritto di conquista, ei non ha altro fonda-mento fuorchè la legge del più forte. Se la guerra non dàal vincitore il diritto di menar strage dei popoli vinti, que-

2. Circa il fatto relativo all'assedio di Clusio, vedi Tito Livio,lib. 5, cap. 35-37.

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dati; non come membri della patria, ma come suoi difen-sori. Infine ogni stato non può avere a nemici se non altristati e non degli uomini, poichè tra cose di diverse naturenon puossi fissare nessun vero rapporto.

Questo principio è anche conforme alle massime stabi-lile in tutti i tempi ed alla costante pratica di tutti i popolicivili. Le dichiarazioni di guerra sono piuttosto avverti-menti dati ai sudditi che non ai potentati. Lo straniero, siaesso re, privato o popolo, che ruba, uccide ed imprigionai sudditi senza dichiarare la guerra al principe, non è unnemico, ma un assassino. Anche in piena guerra, un prin-cipe giusto s'insignorisce bensì in paese nemico di tuttociò che spetta al pubblico, ma rispetta la persona ed ibeni dei privati, rispetta de' diritti sui quali si fondano isuoi propri. Il fine della guerra essendo quello di distrug-gere lo stato nemico, si ha diritto di ucciderne i difensorifintantochè tengono impugnate le armi; ma non appena ledepongono e si arrendono, cessando d'essere nemici odistrumenti del nemico, tornano semplicemente uomini, enon si ha più nessun diritto sulla loro vita. Talvolta si puòuccidere lo stato senza uccidere un solo de' suoi membri:or la guerra non dà nessun diritto che non sia necessarioalla sua fine. Questi principj non sono quelli di Grozio;non si fondano sovra autorità di poeti, ma derivano dallanatura delle cose, e sono fondati sulla ragione.

Riguardo al diritto di conquista, ei non ha altro fonda-mento fuorchè la legge del più forte. Se la guerra non dàal vincitore il diritto di menar strage dei popoli vinti, que-

2. Circa il fatto relativo all'assedio di Clusio, vedi Tito Livio,lib. 5, cap. 35-37.

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sto diritto ch'egli non ha, non può fondare quello di as-soggettarli. Non si ha il diritto di uccidere il nemico senon quando non lo si può rendere schiavo; il diritto difarlo schiavo non conseguita dunque dal diritto di ucci-derlo; è dunque un cambio iniquo quello di fargli com-prare a prezzo della libertà la vita, su cui non si ha dirittodi sorta. Stabilendo il diritto di vita e di morte sul dirittodi schiavitù, e il diritto di schiavitù su quello di vita e dimorte, non è egli evidente che si cade nel circolo vizio-so?

Pur supponendo questo terribile diritto di uccidere tut-to, io dico che uno schiavo fatto in guerra, od un popoloconquistato non ha verun obbligo verso il suo padrone, senon quello di ubbidirgli finchè vi è costretto. Il vincitore,prendendosi un equivalente alla di lui vita, non glie ne hafatto grazia: invece di ucciderlo senza frutto, l'uccise util-mente. Lungi adunque dall'avere acquistato su luiun'autorità congiunta alla forza, lo stato di guerra sussistetra loro come prima; anche la loro relazione ne è l'effetto,e l'uso del diritto della guerra non suppone nessun tratta-to di pace. Eglino han fatto una convenzione, sia pure:ma questa convenzione, lungi del distruggere lo stato diguerra, ne suppone la continuità.

Dimodochè, da qualunque lato si considerino le cose,il diritto di schiavitù è nullo, non solo perchè illegittimo,ma perchè assurdo, e non significa nulla.

Queste parole, schiavo e diritto, sono contraddittorie, esi escludono reciprocamente. Sia che si riferisca tra uomoe uomo, sia tra un uomo ed un popolo, questo discorsosarà sempre egualmente insensato: “Io fo teco un patto

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sto diritto ch'egli non ha, non può fondare quello di as-soggettarli. Non si ha il diritto di uccidere il nemico senon quando non lo si può rendere schiavo; il diritto difarlo schiavo non conseguita dunque dal diritto di ucci-derlo; è dunque un cambio iniquo quello di fargli com-prare a prezzo della libertà la vita, su cui non si ha dirittodi sorta. Stabilendo il diritto di vita e di morte sul dirittodi schiavitù, e il diritto di schiavitù su quello di vita e dimorte, non è egli evidente che si cade nel circolo vizio-so?

Pur supponendo questo terribile diritto di uccidere tut-to, io dico che uno schiavo fatto in guerra, od un popoloconquistato non ha verun obbligo verso il suo padrone, senon quello di ubbidirgli finchè vi è costretto. Il vincitore,prendendosi un equivalente alla di lui vita, non glie ne hafatto grazia: invece di ucciderlo senza frutto, l'uccise util-mente. Lungi adunque dall'avere acquistato su luiun'autorità congiunta alla forza, lo stato di guerra sussistetra loro come prima; anche la loro relazione ne è l'effetto,e l'uso del diritto della guerra non suppone nessun tratta-to di pace. Eglino han fatto una convenzione, sia pure:ma questa convenzione, lungi del distruggere lo stato diguerra, ne suppone la continuità.

Dimodochè, da qualunque lato si considerino le cose,il diritto di schiavitù è nullo, non solo perchè illegittimo,ma perchè assurdo, e non significa nulla.

Queste parole, schiavo e diritto, sono contraddittorie, esi escludono reciprocamente. Sia che si riferisca tra uomoe uomo, sia tra un uomo ed un popolo, questo discorsosarà sempre egualmente insensato: “Io fo teco un patto

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tutto a tuo carico e tutto a mio profitto, ch'io osserveròfinchè a me piacerà, e che tu osserverai finchè piacerà ame.”

CAPITOLO VDel bisogno di salir sempre ad un primo patto.

Quand'anco ammettessi tutto ciò che venni fin qui con-futando, i fautori del despotismo non ne sarebbero guaripiù avanzati. Correrà sempre gran differenza fra il sotto-mettere e il reggere una società. Che uomini sparsi qua elà vengano successivamente assoggettati ad un solo, perquanto ne possa essere il numero, io non vedo in ciò senon un padrone e schiavi, ma non ci vedo un popolo e ilsuo capo; è una aggregazione, se così vuolsi, ma non giàun'associazione; ivi non c'è nè bene pubblico, nè corpopolitico. Cotest'uomo, quand'anche s'avesse assoggettatomezzo il mondo, non sarebbe mai altro che un privato; edil suo interesse, diviso dall'altrui, non è mai che un'inte-resse privato. Se questo stesso uomo perisse, il suo impe-ro dopo di lui rimarrebbe sparso e disunito, come unaquercia consumata dal fuoco si dissolve e cade in unmucchio di cenere.

Un popolo, dice Grozio, può darsi ad un re. SecondoGrozio un popolo è dunque un popolo prima di darsi adun re. Questo dono istesso è un atto civile, poichè suppo-ne una deliberazione pubblica. Prima dunque di esamina-re l'atto col quale un popolo elegge un re, sarebbe ottima

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tutto a tuo carico e tutto a mio profitto, ch'io osserveròfinchè a me piacerà, e che tu osserverai finchè piacerà ame.”

CAPITOLO VDel bisogno di salir sempre ad un primo patto.

Quand'anco ammettessi tutto ciò che venni fin qui con-futando, i fautori del despotismo non ne sarebbero guaripiù avanzati. Correrà sempre gran differenza fra il sotto-mettere e il reggere una società. Che uomini sparsi qua elà vengano successivamente assoggettati ad un solo, perquanto ne possa essere il numero, io non vedo in ciò senon un padrone e schiavi, ma non ci vedo un popolo e ilsuo capo; è una aggregazione, se così vuolsi, ma non giàun'associazione; ivi non c'è nè bene pubblico, nè corpopolitico. Cotest'uomo, quand'anche s'avesse assoggettatomezzo il mondo, non sarebbe mai altro che un privato; edil suo interesse, diviso dall'altrui, non è mai che un'inte-resse privato. Se questo stesso uomo perisse, il suo impe-ro dopo di lui rimarrebbe sparso e disunito, come unaquercia consumata dal fuoco si dissolve e cade in unmucchio di cenere.

Un popolo, dice Grozio, può darsi ad un re. SecondoGrozio un popolo è dunque un popolo prima di darsi adun re. Questo dono istesso è un atto civile, poichè suppo-ne una deliberazione pubblica. Prima dunque di esamina-re l'atto col quale un popolo elegge un re, sarebbe ottima

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cosa l'esaminare l'atto pel quale un popolo è un popolo;imperciocchè quest'atto, essendo necessariamente ante-riore all'altro, è il vero fondamento della società.

Infatti, se non vi fosse nessuna convenzione anteriore,dove sarebbe, ammenochè l'elezione non fosse unanime,l'obbligo del piccolo numer di sottoporsi alla scelta delmaggiore? e donde mai cento che vogliono un padronehanno il diritto di votare per dieci che lo rifiutano? Lalegge della pluralità dei suffragi è anche ella uno statutodi convenzione, e suppone, una volta almeno, l'unanimi-tà.

CAPITOLO VIDel patto sociale.

Io suppongo gli uomini pervenuti a quel punto, in cuigli ostacoli nocivi alla loro conservazione nello stato dinatura, vincono per la loro resistenza le forze che ciascunindividuo può adoperare per mantenersi in tale stato. Al-lora questo stato primitivo non può più sussistere, el'uman genere perirebbe se non cambiasse modo di esi-stere.

Or, siccome gli uomini non possono generare forze no-velle, ma soltanto unire e dirigere le esistenti, così non ri-mane loro più altra via per conservarsi se non quella diformare per aggregazione una somma di forze che possavincere la resistenza, metterle in moto per mezzo d'unsolo movente, e di farle agire d'accordo.

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cosa l'esaminare l'atto pel quale un popolo è un popolo;imperciocchè quest'atto, essendo necessariamente ante-riore all'altro, è il vero fondamento della società.

Infatti, se non vi fosse nessuna convenzione anteriore,dove sarebbe, ammenochè l'elezione non fosse unanime,l'obbligo del piccolo numer di sottoporsi alla scelta delmaggiore? e donde mai cento che vogliono un padronehanno il diritto di votare per dieci che lo rifiutano? Lalegge della pluralità dei suffragi è anche ella uno statutodi convenzione, e suppone, una volta almeno, l'unanimi-tà.

CAPITOLO VIDel patto sociale.

Io suppongo gli uomini pervenuti a quel punto, in cuigli ostacoli nocivi alla loro conservazione nello stato dinatura, vincono per la loro resistenza le forze che ciascunindividuo può adoperare per mantenersi in tale stato. Al-lora questo stato primitivo non può più sussistere, el'uman genere perirebbe se non cambiasse modo di esi-stere.

Or, siccome gli uomini non possono generare forze no-velle, ma soltanto unire e dirigere le esistenti, così non ri-mane loro più altra via per conservarsi se non quella diformare per aggregazione una somma di forze che possavincere la resistenza, metterle in moto per mezzo d'unsolo movente, e di farle agire d'accordo.

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Questa somma di forze non può nascere che dal con-corso di parecchi; ma la forza e la libertà di ciascunuomo essendo i primi strumenti di sua conservazione,come le impegnerà egli senza nuocersi e trascurar le curedovute a sè stesso? Questa difficoltà, ricondotta al miosoggetto, può esprimersi in questi termini: “Trovare unaforma di associazione, che difenda e protegga con tutta laforza comune la persona ed i beni di ogni associato, e perla quale ciascuno unendosi a tutti non ubbidisca cionnon-dimeno se non a sè stesso, e rimanga libero come prima.”Tale è il problema fondamentale di cui il Contratto so-ciale dà lo scioglimento.

Le clausole di questo contratto sono talmente determi-nate dalla natura dell'atto, che la menoma modificazionele renderebbe vane e di nessuno effetto; di guisa che,quantunque non siano forse mai state formalmenteespresse, tuttavia sono dovunque le medesime, dovunquetacitamente ammesse e riconosciute, fintantochè il pattosociale essendo violato, ciascuno rientra allora ne' suoiprimi diritti, e ripiglia la sua libertà naturale, perdendo lalibertà convenzionale per cui a quella rinunziò.

Queste clausole, bene intese, compendiansi tutte inuna sola, nella piena alienazione cioè di ciaschedun asso-ciato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità; perchè inprimo luogo ciascuno dandosi per intiero, la condizione èeguale per tutti, e la condizione essendo uguale per tutti,niuno ha interesse di renderla onerosa agli altri.

Poi, l'alienazione facendosi restrizione di sorta, l'unio-ne è per quanto può esserlo perfetta, e nessun associatonon ha più nulla da reclamare; imperciocchè, se rimanes-

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Questa somma di forze non può nascere che dal con-corso di parecchi; ma la forza e la libertà di ciascunuomo essendo i primi strumenti di sua conservazione,come le impegnerà egli senza nuocersi e trascurar le curedovute a sè stesso? Questa difficoltà, ricondotta al miosoggetto, può esprimersi in questi termini: “Trovare unaforma di associazione, che difenda e protegga con tutta laforza comune la persona ed i beni di ogni associato, e perla quale ciascuno unendosi a tutti non ubbidisca cionnon-dimeno se non a sè stesso, e rimanga libero come prima.”Tale è il problema fondamentale di cui il Contratto so-ciale dà lo scioglimento.

Le clausole di questo contratto sono talmente determi-nate dalla natura dell'atto, che la menoma modificazionele renderebbe vane e di nessuno effetto; di guisa che,quantunque non siano forse mai state formalmenteespresse, tuttavia sono dovunque le medesime, dovunquetacitamente ammesse e riconosciute, fintantochè il pattosociale essendo violato, ciascuno rientra allora ne' suoiprimi diritti, e ripiglia la sua libertà naturale, perdendo lalibertà convenzionale per cui a quella rinunziò.

Queste clausole, bene intese, compendiansi tutte inuna sola, nella piena alienazione cioè di ciaschedun asso-ciato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità; perchè inprimo luogo ciascuno dandosi per intiero, la condizione èeguale per tutti, e la condizione essendo uguale per tutti,niuno ha interesse di renderla onerosa agli altri.

Poi, l'alienazione facendosi restrizione di sorta, l'unio-ne è per quanto può esserlo perfetta, e nessun associatonon ha più nulla da reclamare; imperciocchè, se rimanes-

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se qualche diritto ai privati, siccome non sarebbevi nis-sun superiore comune che potesse pronunziare tra essi edil pubblico, ciascuno essendo in qualche punto il suo pro-prio giudice, pretenderebbe in breve esserlo in tutti; lostato di natura sussisterebbe, e l'associazione diverrebbenecessariamente tirannica o vana.

Finalmente, ciascuno dandosi a tutti, non si dà a nessu-no; e siccome non avvi associato, su cui non si acquisti ilmedesimo diritto che gli si cede sopra di sè, così guada-gnasi l'equivalente di tutto ciò che si perde, e maggiorforza per conservare ciò che si possiede.

Se adunque si scarti dal patto sociale ciò che non èdella sua essenza, lo si vedrà ridotto nei seguenti termini:“Ciascuno di noi mette in comune la propria persona, edogni suo potere sotto la suprema direzione della volontàgenerale; e noi riceviamo in corpo ogni membro comeparte indivisibile del tutto.”

Quest'atto di associazione, invece della persona parti-colare di ciaschedun contraente, produce all'istante uncorpo morale e collettivo, composto di tanti membriquanti ha voti l'assemblea, il qual corpo riceve daquest'atto medesimo la sua unità, il suo io comune, la suavita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che for-masi così per via dell'unione di tutti gli altri, prendevauna volta il nome di comune (cité)7, ed ora appellasi re-

7 Il vero senso di questa parola andò quasi intieramente perdutopresso i moderni; la massima parte prende una città per un co-mune, ed un borghese per un cittadino. Nè sanno essi che lecase formano la città, ma che i cittadini fanno il comune. Il me-desimo sbaglio costò un tempo assai caro ai Cartaginesi. Non

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se qualche diritto ai privati, siccome non sarebbevi nis-sun superiore comune che potesse pronunziare tra essi edil pubblico, ciascuno essendo in qualche punto il suo pro-prio giudice, pretenderebbe in breve esserlo in tutti; lostato di natura sussisterebbe, e l'associazione diverrebbenecessariamente tirannica o vana.

Finalmente, ciascuno dandosi a tutti, non si dà a nessu-no; e siccome non avvi associato, su cui non si acquisti ilmedesimo diritto che gli si cede sopra di sè, così guada-gnasi l'equivalente di tutto ciò che si perde, e maggiorforza per conservare ciò che si possiede.

Se adunque si scarti dal patto sociale ciò che non èdella sua essenza, lo si vedrà ridotto nei seguenti termini:“Ciascuno di noi mette in comune la propria persona, edogni suo potere sotto la suprema direzione della volontàgenerale; e noi riceviamo in corpo ogni membro comeparte indivisibile del tutto.”

Quest'atto di associazione, invece della persona parti-colare di ciaschedun contraente, produce all'istante uncorpo morale e collettivo, composto di tanti membriquanti ha voti l'assemblea, il qual corpo riceve daquest'atto medesimo la sua unità, il suo io comune, la suavita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che for-masi così per via dell'unione di tutti gli altri, prendevauna volta il nome di comune (cité)7, ed ora appellasi re-

7 Il vero senso di questa parola andò quasi intieramente perdutopresso i moderni; la massima parte prende una città per un co-mune, ed un borghese per un cittadino. Nè sanno essi che lecase formano la città, ma che i cittadini fanno il comune. Il me-desimo sbaglio costò un tempo assai caro ai Cartaginesi. Non

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pubblica o corpo politico, detto da' suoi membri statoquando è passivo, sovrano quando è attivo, potenza para-gonandolo a' suoi simili. Riguardo agli associati, questiprendono collettivamente il nome di popolo, e nomansiin particolare cittadini, come partecipi all'autorità sovra-na, e sudditi come sottomessi alle leggi dello Stato. Maquesti vocaboli si confondono spesso e si scambiano l'unper l'altro; basta che saperli distinguere quando sono usa-ti in tutta la loro precisione.

CAPITOLO VIIDel sovrano.

Da questa formula si scorge che l'atto di associazioneracchiude un pegno reciproco del pubblico verso i priva-

ho mai letto che il titolo di cives sia stato mai dato ai sudditi diverun principe, nemmeno anticamente ai Macedoni, nè ai dìnostri agl'Inglesi, benchè siano quelli che più di tutti gli altri siaccostino alla libertà. I soli Francesi prendono con tanta fami-gliarità il nome di cittadini, perchè ei non ne hanno alcuna veraidea, come si può vedere dai loro dizionari, altrimenti cadreb-bero, usurpandolo, nel delitto di lesa maestà: questo nome daloro esprime una virtù, e non un diritto. Quando Badin volleparlare de' nostri cittadini e borghesi, pigliò un solenne gran-chio scambiando gli uni per gli altri. D'Alembert non prese giàabbaglio, e distinse benissimo, nel suo articolo di Ginevra, iquattro ordini d'uomini (anzi cinque, contando i semplici fore-stieri) che esistono nella nostra città, e de' quali due soli com-pongono la Repubblica. Nessun altro autore francese, ch'io sap-pia, non ha compreso il vero senso della parola cittadino.

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pubblica o corpo politico, detto da' suoi membri statoquando è passivo, sovrano quando è attivo, potenza para-gonandolo a' suoi simili. Riguardo agli associati, questiprendono collettivamente il nome di popolo, e nomansiin particolare cittadini, come partecipi all'autorità sovra-na, e sudditi come sottomessi alle leggi dello Stato. Maquesti vocaboli si confondono spesso e si scambiano l'unper l'altro; basta che saperli distinguere quando sono usa-ti in tutta la loro precisione.

CAPITOLO VIIDel sovrano.

Da questa formula si scorge che l'atto di associazioneracchiude un pegno reciproco del pubblico verso i priva-

ho mai letto che il titolo di cives sia stato mai dato ai sudditi diverun principe, nemmeno anticamente ai Macedoni, nè ai dìnostri agl'Inglesi, benchè siano quelli che più di tutti gli altri siaccostino alla libertà. I soli Francesi prendono con tanta fami-gliarità il nome di cittadini, perchè ei non ne hanno alcuna veraidea, come si può vedere dai loro dizionari, altrimenti cadreb-bero, usurpandolo, nel delitto di lesa maestà: questo nome daloro esprime una virtù, e non un diritto. Quando Badin volleparlare de' nostri cittadini e borghesi, pigliò un solenne gran-chio scambiando gli uni per gli altri. D'Alembert non prese giàabbaglio, e distinse benissimo, nel suo articolo di Ginevra, iquattro ordini d'uomini (anzi cinque, contando i semplici fore-stieri) che esistono nella nostra città, e de' quali due soli com-pongono la Repubblica. Nessun altro autore francese, ch'io sap-pia, non ha compreso il vero senso della parola cittadino.

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ti, e che ciascuno individuo, contrattando, per dir così,con sè stesso, trovasi impegnato in due maniere: cioècome membro del sovrano verso i privati, e come mem-bro dello stato in verso il sovrano. Ma qui non puossi ap-plicare la massima del diritto civile, che niuno è tenutoagl'impegni presi seco stesso; perchè ben diverso èl'obbligarsi verso di sè o verso un tutto di cui si fa parte.

Bisogna ancora notare, che la pubblica deliberazione,la quale può obbligare tutti i sudditi verso il sovrano, incausa dei due diversi rapporti sotto cui ciascuno d'essi èconsiderato, non può, per la ragione contraria, obbligareil sovrano verso sè stesso, e che per conseguenza è controla natura del corpo politico, che il sovrano impongasi unalegge cui non possa infrangere. Non potendo considerarsifuorchè sotto un solo e medesimo aspetto, trovasi egli al-lora nel caso d'un privato contraente con sè stesso; dondesi vede che non avvi, nè può esservi nessuna sorta di leg-ge fondamentale obbligatoria pel corpo del popolo, nem-manco il Contratto sociale. Il che non significa già chequesto corpo non possa benissimo impegnarsi verso al-trui, in quanto non derogasse a questo contratto; perchè,rispetto allo straniero, ei diventa un ente semplice, un in-dividuo.

Ma il corpo politico, ossia il sovrano, non derivando ilsuo essere se non dalla santità del contratto, non può maiobbligarsi, anche inverso altrui, a nulla che deroghi aquest'atto primitivo, come sarebbe d'alienare qualche par-te di sè stesso, o di sottomettersi ad un altro sovrano.Violando l'atto pel quale esiste si annienterebbe, ed ilnulla genera nulla.

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ti, e che ciascuno individuo, contrattando, per dir così,con sè stesso, trovasi impegnato in due maniere: cioècome membro del sovrano verso i privati, e come mem-bro dello stato in verso il sovrano. Ma qui non puossi ap-plicare la massima del diritto civile, che niuno è tenutoagl'impegni presi seco stesso; perchè ben diverso èl'obbligarsi verso di sè o verso un tutto di cui si fa parte.

Bisogna ancora notare, che la pubblica deliberazione,la quale può obbligare tutti i sudditi verso il sovrano, incausa dei due diversi rapporti sotto cui ciascuno d'essi èconsiderato, non può, per la ragione contraria, obbligareil sovrano verso sè stesso, e che per conseguenza è controla natura del corpo politico, che il sovrano impongasi unalegge cui non possa infrangere. Non potendo considerarsifuorchè sotto un solo e medesimo aspetto, trovasi egli al-lora nel caso d'un privato contraente con sè stesso; dondesi vede che non avvi, nè può esservi nessuna sorta di leg-ge fondamentale obbligatoria pel corpo del popolo, nem-manco il Contratto sociale. Il che non significa già chequesto corpo non possa benissimo impegnarsi verso al-trui, in quanto non derogasse a questo contratto; perchè,rispetto allo straniero, ei diventa un ente semplice, un in-dividuo.

Ma il corpo politico, ossia il sovrano, non derivando ilsuo essere se non dalla santità del contratto, non può maiobbligarsi, anche inverso altrui, a nulla che deroghi aquest'atto primitivo, come sarebbe d'alienare qualche par-te di sè stesso, o di sottomettersi ad un altro sovrano.Violando l'atto pel quale esiste si annienterebbe, ed ilnulla genera nulla.

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Appena questa moltitudine è così riunita in un corpo,non si può offendere uno del membri senza ledere il cor-po; e meno ancora offendere il corpo senza che i membrise ne risentano. Così il dovere e l'interesse obbliganougualmente le due parti contraenti a prestarsi un vicende-vole appoggio, e gli stessi uomini debbono studiare diriunire sotto questo duplice aspetto tutti i vantaggi che neconseguitano.

Ora, il sovrano non essendo formato se non de' privatiche lo compongono, non ha e non può avere interessicontrari ai loro; per conseguenza, il potere sovrano nonha bisogno di guarentigia verso i sudditi, essendo impos-sibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri, enoi vedremo più sotto com'ei non possa nuocere a nessu-no in particolare. Il sovrano, per ciò solo che è, è sempretutto quello che debb'essere.

Altrimenti avviene dei sudditi verso il sovrano, al qua-le, malgrado il comune interesse, nulla risponderebbe deiloro impegni, se ei non trovasse modo di assicurarsi dellaloro fedeltà.

Infatti, ciascuno individuo può, come uomo, avere unavolontà particolare, contraria o dissimile dalla volontàgenerale ch'egli ha quale cittadino. Il suo particolare inte-resse può consigliargli ben diversamente dall'interessecomune; la sua esistenza assoluta e naturalmente indipen-dente può fargli ravvisare ciò ch'ei deve alla causa comu-ne come una contribuzione gratuita, la cui perdita saràmen nociva agli altri di quel che non ne sia oneroso perlui il pagamento; e, considerando la persona morale checostituisce lo stato come un ente di ragione, perchè non è

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Appena questa moltitudine è così riunita in un corpo,non si può offendere uno del membri senza ledere il cor-po; e meno ancora offendere il corpo senza che i membrise ne risentano. Così il dovere e l'interesse obbliganougualmente le due parti contraenti a prestarsi un vicende-vole appoggio, e gli stessi uomini debbono studiare diriunire sotto questo duplice aspetto tutti i vantaggi che neconseguitano.

Ora, il sovrano non essendo formato se non de' privatiche lo compongono, non ha e non può avere interessicontrari ai loro; per conseguenza, il potere sovrano nonha bisogno di guarentigia verso i sudditi, essendo impos-sibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri, enoi vedremo più sotto com'ei non possa nuocere a nessu-no in particolare. Il sovrano, per ciò solo che è, è sempretutto quello che debb'essere.

Altrimenti avviene dei sudditi verso il sovrano, al qua-le, malgrado il comune interesse, nulla risponderebbe deiloro impegni, se ei non trovasse modo di assicurarsi dellaloro fedeltà.

Infatti, ciascuno individuo può, come uomo, avere unavolontà particolare, contraria o dissimile dalla volontàgenerale ch'egli ha quale cittadino. Il suo particolare inte-resse può consigliargli ben diversamente dall'interessecomune; la sua esistenza assoluta e naturalmente indipen-dente può fargli ravvisare ciò ch'ei deve alla causa comu-ne come una contribuzione gratuita, la cui perdita saràmen nociva agli altri di quel che non ne sia oneroso perlui il pagamento; e, considerando la persona morale checostituisce lo stato come un ente di ragione, perchè non è

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un uomo, ei godrebbe de' diritti del cittadino senza volersoddisfare ai doveri del suddito: ingiustizia il cui pro-gresso cagionerebbe la rovina del corpo politico.

Affinchè dunque il patto sociale non sia un vano for-mulario, deve contenere tacitamente questo impegno, chesolo può dar forza agli altri, che chiunque cioè ricuseràd'ubbidire alla volontà generale, vi sarà costretto da tuttoil corpo: lo che non significa altro se non che sarà obbli-gato a viver libero. Imperocchè tale è la condizione che,dando ciascun cittadino alla patria, lo guarentisce da ognipersonale dipendenza; condizione che forma il congegnoe l'azione della macchina politica, e che sola rende legit-timi gli impegni civili, i quali, diversamente, sarebbonoassurdi, tirannici, e soggetti ai più enormi abusi.

CAPITOLO VIIIDello stato civile.

Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile pro-duce nell'uomo un cambiamento notevolissimo, sosti-tuendo nella sua condotta la giustizia all'istinto, e dandoalle sue azioni quella moralità, di cui difettavano prima.Allora soltanto, la voce del dovere succedendo al fisicoimpulso, ed il diritto alla cupidigia, l'uomo, che dianzinon aveva mai guardato che sè stesso, vedesi costretto adagire con altri principj, ed a consultare la ragione primad'ascoltare le inclinazioni. E benchè in questo stato egli siprivi di vantaggi parecchi concessigli dalla natura, ne ri-

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un uomo, ei godrebbe de' diritti del cittadino senza volersoddisfare ai doveri del suddito: ingiustizia il cui pro-gresso cagionerebbe la rovina del corpo politico.

Affinchè dunque il patto sociale non sia un vano for-mulario, deve contenere tacitamente questo impegno, chesolo può dar forza agli altri, che chiunque cioè ricuseràd'ubbidire alla volontà generale, vi sarà costretto da tuttoil corpo: lo che non significa altro se non che sarà obbli-gato a viver libero. Imperocchè tale è la condizione che,dando ciascun cittadino alla patria, lo guarentisce da ognipersonale dipendenza; condizione che forma il congegnoe l'azione della macchina politica, e che sola rende legit-timi gli impegni civili, i quali, diversamente, sarebbonoassurdi, tirannici, e soggetti ai più enormi abusi.

CAPITOLO VIIIDello stato civile.

Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile pro-duce nell'uomo un cambiamento notevolissimo, sosti-tuendo nella sua condotta la giustizia all'istinto, e dandoalle sue azioni quella moralità, di cui difettavano prima.Allora soltanto, la voce del dovere succedendo al fisicoimpulso, ed il diritto alla cupidigia, l'uomo, che dianzinon aveva mai guardato che sè stesso, vedesi costretto adagire con altri principj, ed a consultare la ragione primad'ascoltare le inclinazioni. E benchè in questo stato egli siprivi di vantaggi parecchi concessigli dalla natura, ne ri-

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cupera altri così grandi, le sue facoltà si esercitano e cre-scono, si estendono le sue idee, si nobilitano i suoi senti-menti, tutta l'anima sua s'innalza ad un punto tale, che segli abusi di questa condizione novella non lo degradasse-ro spesso al di sotto di quella dalla quale è uscito, ei do-vrebbe benedire del continuo il fortunato istante che ne lostrappò per sempre, e che d'un animale stupido e limitatone fece un essere intelligente ed un uomo.

Ristringiamo il fin qui detto in termini facili a parago-narsi: per via del contratto sociale l'uomo perde la sua li-bertà naturale ed un diritto illimitato a tutto ciò che lotenta e cui può conseguire; guadagna invece la libertà ci-vile e la proprietà di quanto possiede. Per non ingannarsiin questi compensi, uopo è ben distinguere la libertà na-turale, che non ha altro confine fuorchè le forze dell'indi-viduo, dalla libertà civile, che è limitata dalla volontà ge-nerale; il possesso, che non è altro se non l'effetto dellaforza, ossia il diritto del primo occupante, dalla proprietà,la quale non può fondarsi se non sovra un titolo positivo.

Oltre a quanto si disse, potrebbesi aggiugnereall'acquisto dello stato civile la libertà morale, che solarende l'uomo veramente padrone di sè; perchè l'impulsodel solo appetito è schiavitù, e l'obbedienza alla legge de-scrittasi è libertà. Ma intorno a questo argomento troppogià discorsi, ed il senso filosofico della parola libertà nonentra nel mio soggetto.

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cupera altri così grandi, le sue facoltà si esercitano e cre-scono, si estendono le sue idee, si nobilitano i suoi senti-menti, tutta l'anima sua s'innalza ad un punto tale, che segli abusi di questa condizione novella non lo degradasse-ro spesso al di sotto di quella dalla quale è uscito, ei do-vrebbe benedire del continuo il fortunato istante che ne lostrappò per sempre, e che d'un animale stupido e limitatone fece un essere intelligente ed un uomo.

Ristringiamo il fin qui detto in termini facili a parago-narsi: per via del contratto sociale l'uomo perde la sua li-bertà naturale ed un diritto illimitato a tutto ciò che lotenta e cui può conseguire; guadagna invece la libertà ci-vile e la proprietà di quanto possiede. Per non ingannarsiin questi compensi, uopo è ben distinguere la libertà na-turale, che non ha altro confine fuorchè le forze dell'indi-viduo, dalla libertà civile, che è limitata dalla volontà ge-nerale; il possesso, che non è altro se non l'effetto dellaforza, ossia il diritto del primo occupante, dalla proprietà,la quale non può fondarsi se non sovra un titolo positivo.

Oltre a quanto si disse, potrebbesi aggiugnereall'acquisto dello stato civile la libertà morale, che solarende l'uomo veramente padrone di sè; perchè l'impulsodel solo appetito è schiavitù, e l'obbedienza alla legge de-scrittasi è libertà. Ma intorno a questo argomento troppogià discorsi, ed il senso filosofico della parola libertà nonentra nel mio soggetto.

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CAPITOLO IXDel vero dominio.

Ogni membro della comunità donasi ad essa nel mo-mento che si forma, tal quale si trova attualmente, lui etutte le sue forze, di cui i beni ch'ei possiede fanno parte.Non è già che per via di quest'atto il possesso cambi na-tura cambiando di mano, e diventi proprietà nelle manidel sovrano; ma siccome le forze del comune sono in-comparabilmente maggiori di quelle d'un privato, così ilpossesso pubblico è pure nel fatto più forte e più irrevo-cabile senza essere più legittimo, almeno per gli stranieri:imperocchè lo stato, riguardo a' suoi membri, è padronedi tutti i loro beni per via del contratto sociale, che nellostato serve di base a tutti i diritti; ma riguardo alle altrepotenze non lo è se non pel diritto di primo occupante,ch'ei trae dai particolari.

Il diritto di primo occupante, quantunque più reale diquello del più forte, non diventa tuttavia un vero dirittose non dopo stabilito quello di proprietà. Ogni uomo hanaturalmente diritto a tutto ciò che gli è necessario; mal'atto positivo, che lo rende proprietario di qualche bene,lo esclude da tutto il resto. Ottenuta la sua parte, ei develimitarvisi, nè ha più nessun diritto alla comunità. Eccoperchè il diritto di primo occupante, così debole nellostato di natura, è rispettabile presso ogni uomo civile. Inquesto diritto si rispetta meno altrui, che quello che non èproprio.

In generale, per autorizzare il diritto di primo occupan-

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CAPITOLO IXDel vero dominio.

Ogni membro della comunità donasi ad essa nel mo-mento che si forma, tal quale si trova attualmente, lui etutte le sue forze, di cui i beni ch'ei possiede fanno parte.Non è già che per via di quest'atto il possesso cambi na-tura cambiando di mano, e diventi proprietà nelle manidel sovrano; ma siccome le forze del comune sono in-comparabilmente maggiori di quelle d'un privato, così ilpossesso pubblico è pure nel fatto più forte e più irrevo-cabile senza essere più legittimo, almeno per gli stranieri:imperocchè lo stato, riguardo a' suoi membri, è padronedi tutti i loro beni per via del contratto sociale, che nellostato serve di base a tutti i diritti; ma riguardo alle altrepotenze non lo è se non pel diritto di primo occupante,ch'ei trae dai particolari.

Il diritto di primo occupante, quantunque più reale diquello del più forte, non diventa tuttavia un vero dirittose non dopo stabilito quello di proprietà. Ogni uomo hanaturalmente diritto a tutto ciò che gli è necessario; mal'atto positivo, che lo rende proprietario di qualche bene,lo esclude da tutto il resto. Ottenuta la sua parte, ei develimitarvisi, nè ha più nessun diritto alla comunità. Eccoperchè il diritto di primo occupante, così debole nellostato di natura, è rispettabile presso ogni uomo civile. Inquesto diritto si rispetta meno altrui, che quello che non èproprio.

In generale, per autorizzare il diritto di primo occupan-

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te sovra un terreno qualsiasi, ci vogliono le condizioniseguenti: primieramente che questo terreno non sia anco-ra abitato; in secondo luogo, che non se ne occupi se nonla quantità necessaria per sussistere; da ultimo, che se neprenda possesso, non con una cerimonia vana, ma col la-voro e la coltura, unico segno di proprietà, che, in man-canza di titoli giuridici, debb'essere rispettato dagli altri.

Infatti, l'accordare al bisogno ed al lavoro il diritto diprimo occupante, non è egli un ampliarlo per quanto siapossibile? Non si ponno forse impor limiti a questo dirit-to? Basterà egli mettere il piede sovra un terreno comuneper pretendersene subito padrone? Basterà egli avere laforza d'allontanarne un istante gli altri uomini, per toglierloro il diritto di ritornarci mai più?

Come mai un uomo od un popolo può impadronirsi diun territorio immenso e privarne tutto il genere umano senon per mezzo d'una usurpazione meritevole di castigo,poichè toglie al resto degli uomini il soggiorno e gli ali-menti dati loro in comune dalla natura? Quando NunezBalbao prendeva sul lido possesso del mare del Sud e ditutta l'America meridionale in nome della corona di Ca-stiglia8, bastava ciò per ispossessarne tutti gli abitanti edescluderne tutti i principi del mondo? In tal modo codestecerimonie moltiplicavansi assai vanamente, ed il re catto-lico dal suo gabinetto avrebbe potuto in un sol colpoprender possesso di tutto l'universo, salvo a levar quindi

8 Questa occupazione ebbe luogo in virtù d'una bolla di Alessan-dro VI (Borgia) in data del 1493. Dopo non si ebbe più bisognodi bolle. Questa formalità non dava guari forza al diritto, anzilo affievoliva.

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te sovra un terreno qualsiasi, ci vogliono le condizioniseguenti: primieramente che questo terreno non sia anco-ra abitato; in secondo luogo, che non se ne occupi se nonla quantità necessaria per sussistere; da ultimo, che se neprenda possesso, non con una cerimonia vana, ma col la-voro e la coltura, unico segno di proprietà, che, in man-canza di titoli giuridici, debb'essere rispettato dagli altri.

Infatti, l'accordare al bisogno ed al lavoro il diritto diprimo occupante, non è egli un ampliarlo per quanto siapossibile? Non si ponno forse impor limiti a questo dirit-to? Basterà egli mettere il piede sovra un terreno comuneper pretendersene subito padrone? Basterà egli avere laforza d'allontanarne un istante gli altri uomini, per toglierloro il diritto di ritornarci mai più?

Come mai un uomo od un popolo può impadronirsi diun territorio immenso e privarne tutto il genere umano senon per mezzo d'una usurpazione meritevole di castigo,poichè toglie al resto degli uomini il soggiorno e gli ali-menti dati loro in comune dalla natura? Quando NunezBalbao prendeva sul lido possesso del mare del Sud e ditutta l'America meridionale in nome della corona di Ca-stiglia8, bastava ciò per ispossessarne tutti gli abitanti edescluderne tutti i principi del mondo? In tal modo codestecerimonie moltiplicavansi assai vanamente, ed il re catto-lico dal suo gabinetto avrebbe potuto in un sol colpoprender possesso di tutto l'universo, salvo a levar quindi

8 Questa occupazione ebbe luogo in virtù d'una bolla di Alessan-dro VI (Borgia) in data del 1493. Dopo non si ebbe più bisognodi bolle. Questa formalità non dava guari forza al diritto, anzilo affievoliva.

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dal suo impero tutto ciò che fosse prima posseduto daglialtri principi.

Si capisce come le terre dei privati riunite e contiguediventino il territorio pubblico, e come il diritto di sovra-nità, estendendosi dai sudditi al terreno che occupano, di-venti al tempo stesso reale e personale; lo che mette ipossessori in una maggiore dipendenza, e fa le stesse loroforze mallevadrici di loro fedeltà. Vantaggio che pare nonessere stato ben conosciuto dagli antichi monarchi, i qua-li, appellandosi soltanto re dei Persi, degli Sciti, dei Ma-cedoni, sembravan riguardarsi più i capi degli uomini checome i padroni del paese. Quelli d'oggidì chiamansi piùaccortamente re di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, ecc.Possedendo così il terreno, sono certi di signoreggiarnegli abitanti.

In questa alienazione avvi ciò di singolare, che accet-tando i beni dei privati, la comunità, ben lungi dallo spo-gliarneli, non fa altro che assicurarne loro il legittimopossesso, e mutare l'usurpazione in un vero diritto, ed ilgodimento in proprietà. Allora i possessori venendo con-siderati come depositari del bene pubblico, e i loro dirittivenendo rispettati da tutti i membri dello stato e mante-nuti da tutte le sue forze contro lo straniero, mediante unacessione vantaggiosa al pubblico e più ancora a sè stessi,hanno, per così dire, acquistato tutto ciò che donarono:paradosso che facilmente si spiega per mezzo della di-stinzione dei diritti che il sovrano ed il proprietario hannosul medesimo fondo, come si vedrà più sotto.

Può eziandio accadere che gli uomini comincino adunirsi prima di possedere qualche cosa, e che, impadroni-

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dal suo impero tutto ciò che fosse prima posseduto daglialtri principi.

Si capisce come le terre dei privati riunite e contiguediventino il territorio pubblico, e come il diritto di sovra-nità, estendendosi dai sudditi al terreno che occupano, di-venti al tempo stesso reale e personale; lo che mette ipossessori in una maggiore dipendenza, e fa le stesse loroforze mallevadrici di loro fedeltà. Vantaggio che pare nonessere stato ben conosciuto dagli antichi monarchi, i qua-li, appellandosi soltanto re dei Persi, degli Sciti, dei Ma-cedoni, sembravan riguardarsi più i capi degli uomini checome i padroni del paese. Quelli d'oggidì chiamansi piùaccortamente re di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, ecc.Possedendo così il terreno, sono certi di signoreggiarnegli abitanti.

In questa alienazione avvi ciò di singolare, che accet-tando i beni dei privati, la comunità, ben lungi dallo spo-gliarneli, non fa altro che assicurarne loro il legittimopossesso, e mutare l'usurpazione in un vero diritto, ed ilgodimento in proprietà. Allora i possessori venendo con-siderati come depositari del bene pubblico, e i loro dirittivenendo rispettati da tutti i membri dello stato e mante-nuti da tutte le sue forze contro lo straniero, mediante unacessione vantaggiosa al pubblico e più ancora a sè stessi,hanno, per così dire, acquistato tutto ciò che donarono:paradosso che facilmente si spiega per mezzo della di-stinzione dei diritti che il sovrano ed il proprietario hannosul medesimo fondo, come si vedrà più sotto.

Può eziandio accadere che gli uomini comincino adunirsi prima di possedere qualche cosa, e che, impadroni-

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tisi poscia d'un terreno bastante per tutti, lo godano in co-mune, o se lo dividano in parti eguali o dietro proporzio-ni stabilite dal sovrano. In qualsiasi modo avvenga que-sto acquisto, il diritto che ciascun particolare ha sul pro-prio fondo è sempre subordinato al diritto della comunitàsopra di tutti; altrimenti non vi sarebbe nè solidità nelvincolo sociale, nè forza reale nell'esercizio della sovra-nità.

Porrò fine a questo capitolo ed a questo libro conun'osservazione che deve servir di base a tutto il sistemasociale; ed è, che invece di distruggere l'eguaglianza na-turale, il patto fondamentale sostituisce al contrarioun'eguaglianza morale e legittima all'ineguaglianza fisicache la natura avesse potuto introdurre tra gli uomini, eche, potendo essere disuguali in forza ed in genio, diven-tano tutti uguali per convenzione e di diritto9.

9 Nei governi cattivi questa eguaglianza è apparente ed illusoria,e non giova se non a mantenere il povero nella sua miseria ed ilricco nella sua usurpazione. Nel fatto le leggi sono sempre utilia chi possiede, e nocive a chi non ha nulla: d'onde avviene chelo stato sociale non è vantaggioso agli uomini se non in quantoabbiano tutti qualche cosa, e che nessun di essi possieda trop-po.

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tisi poscia d'un terreno bastante per tutti, lo godano in co-mune, o se lo dividano in parti eguali o dietro proporzio-ni stabilite dal sovrano. In qualsiasi modo avvenga que-sto acquisto, il diritto che ciascun particolare ha sul pro-prio fondo è sempre subordinato al diritto della comunitàsopra di tutti; altrimenti non vi sarebbe nè solidità nelvincolo sociale, nè forza reale nell'esercizio della sovra-nità.

Porrò fine a questo capitolo ed a questo libro conun'osservazione che deve servir di base a tutto il sistemasociale; ed è, che invece di distruggere l'eguaglianza na-turale, il patto fondamentale sostituisce al contrarioun'eguaglianza morale e legittima all'ineguaglianza fisicache la natura avesse potuto introdurre tra gli uomini, eche, potendo essere disuguali in forza ed in genio, diven-tano tutti uguali per convenzione e di diritto9.

9 Nei governi cattivi questa eguaglianza è apparente ed illusoria,e non giova se non a mantenere il povero nella sua miseria ed ilricco nella sua usurpazione. Nel fatto le leggi sono sempre utilia chi possiede, e nocive a chi non ha nulla: d'onde avviene chelo stato sociale non è vantaggioso agli uomini se non in quantoabbiano tutti qualche cosa, e che nessun di essi possieda trop-po.

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LIBRO SECONDO

CAPITOLO ILa sovranità è inalienabile.

La prima e più importante conseguenza dei principjsuesposti è: che la volontà generale può sola dirigere leforze dello stato secondo il fine della sua istituzione, cheè il bene comune. Imperocchè se l'opposizione degli inte-ressi particolari rese necessario lo stabilimento delle so-cietà, fu l'accordo di questi medesimi interessi che lo resepossibile. Questo è quanto vi ha di comune nei diversi in-teressi i quali formano il vincolo sociale; e se non vi fos-se qualche punto in cui tutti gli interessi andasserod'accordo, nessuna società potrebbe sussistere. Ora, la so-cietà debb'essere governata unicamente su questo comu-ne interesse.

Io dico adunque che la sovranità non essendo altrofuorchè l'esercizio* della volontà generale, non puossialienare mai, e che il sovrano, il quale non è se non unente collettivo, non può venire rappresentato se non dalui stesso. Il potere puossi bensì trasmettere, ma non lavolontà.

Infatti, se non è impossibile che una volontà particola-

* Nell'originale cartaceo: l'esercito [nota per l'ed. Manuzio].

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LIBRO SECONDO

CAPITOLO ILa sovranità è inalienabile.

La prima e più importante conseguenza dei principjsuesposti è: che la volontà generale può sola dirigere leforze dello stato secondo il fine della sua istituzione, cheè il bene comune. Imperocchè se l'opposizione degli inte-ressi particolari rese necessario lo stabilimento delle so-cietà, fu l'accordo di questi medesimi interessi che lo resepossibile. Questo è quanto vi ha di comune nei diversi in-teressi i quali formano il vincolo sociale; e se non vi fos-se qualche punto in cui tutti gli interessi andasserod'accordo, nessuna società potrebbe sussistere. Ora, la so-cietà debb'essere governata unicamente su questo comu-ne interesse.

Io dico adunque che la sovranità non essendo altrofuorchè l'esercizio* della volontà generale, non puossialienare mai, e che il sovrano, il quale non è se non unente collettivo, non può venire rappresentato se non dalui stesso. Il potere puossi bensì trasmettere, ma non lavolontà.

Infatti, se non è impossibile che una volontà particola-

* Nell'originale cartaceo: l'esercito [nota per l'ed. Manuzio].

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re vada d'accordo in qualche punto colla volontà genera-le, impossibile almeno è che quest'accordo sia durevole ecostante, perchè la volontà particolare per sua natura in-clina alle preferenze, e la volontà generale all'eguaglian-za. È ancora più impossibile avere un mallevadore diquesto accordo, quand'anco dovesse sempre esistere; e'non sarebbe un effetto dell'arte, ma del caso. Il sovranopuò benissimo dire: Io voglio attualmente ciò che vuoleTizio, od almeno ciò che dice di volere; ma non può dire:Ciò che vorrà Tizio domani il vorrò anch'io; essendo as-surdo che la volontà impongasi catene per l'avvenire, enon dipendendo da nessuna volontà l'acconsentire a cosacontraria al bene dell'ente che vuole. Se il popolo adun-que promette semplicemente d'ubbidire, ei si dissolvecon quest'atto, perde la sua qualità di popolo: dal mo-mento che avvi un padrone, non vi è più sovrano, e daquel punto il corpo politico è distrutto.

Non vorrà già dire che gli ordini dei capi non possanopassare per le volontà generali, fintantochè il sovrano, li-bero d'opporvisi, non lo fa. In tal caso, dal silenzio uni-versale si deve presumere il consenso del popolo. Ma ciòsi spiegherà più a lungo.

CAPITOLO IILa sovranità è indivisibile.

Per la medesima ragione che la sovranità è inalienabi-

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re vada d'accordo in qualche punto colla volontà genera-le, impossibile almeno è che quest'accordo sia durevole ecostante, perchè la volontà particolare per sua natura in-clina alle preferenze, e la volontà generale all'eguaglian-za. È ancora più impossibile avere un mallevadore diquesto accordo, quand'anco dovesse sempre esistere; e'non sarebbe un effetto dell'arte, ma del caso. Il sovranopuò benissimo dire: Io voglio attualmente ciò che vuoleTizio, od almeno ciò che dice di volere; ma non può dire:Ciò che vorrà Tizio domani il vorrò anch'io; essendo as-surdo che la volontà impongasi catene per l'avvenire, enon dipendendo da nessuna volontà l'acconsentire a cosacontraria al bene dell'ente che vuole. Se il popolo adun-que promette semplicemente d'ubbidire, ei si dissolvecon quest'atto, perde la sua qualità di popolo: dal mo-mento che avvi un padrone, non vi è più sovrano, e daquel punto il corpo politico è distrutto.

Non vorrà già dire che gli ordini dei capi non possanopassare per le volontà generali, fintantochè il sovrano, li-bero d'opporvisi, non lo fa. In tal caso, dal silenzio uni-versale si deve presumere il consenso del popolo. Ma ciòsi spiegherà più a lungo.

CAPITOLO IILa sovranità è indivisibile.

Per la medesima ragione che la sovranità è inalienabi-

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le, essa è indivisibile, perchè o la volontà è generale10, onon lo è; o è quella del corpo del popolo, o d'una partesoltanto. Nel primo caso, questa volontà dichiarata è unatto di sovranità, e fa legge; nel secondo, non è se nonuna volontà particolare od un atto di magistratura; ètutt'al più un decreto.

Ma i nostri politici, non potendo dividere la sovranitànel suo principio, la dividono nel suo oggetto; la divido-no in forza ed in volontà, in potere legislativo ed in pote-re esecutivo; in diritti d'imposta, di giustizia e di guerra,in amministrazione interna, ed in potere di trattare collostraniero; talora confondono tutte queste parti, e talora leseparano. E' fanno del sovrano un ente fantastico e for-mato di brani rappiccicati; gli è come se componesserol'uomo di parecchi corpi, dei quali uno avesse gli occhi,un altro le braccia, un altro i piedi, e nulla più. Dicesi chei ciarlatani del Giappone facciano in pezzi un bimbo inpresenza degli spettatori, e che, dopo averne gittato inaria tutti i membri un dopo l'altro, facciano ricadere ilbambino vivo ed intero. Così press'a poco fanno i nostriciurmadori politici, i quali, dopo avere smembrato il cor-po sociale con un prestigio degno della piazza, riunisco-no le parti non si sa come.

Questo errore procede dal non essersi fatte nozioniesatte dell'autorità sovrana, e dall'avere preso quai partidi codesta autorità quanto non erane se non delle emana-zioni. Così, per esempio, si considerò l'atto di dichiarare

10 Affinchè una volontà sia generale non fa sempre d'uopo che siaunanime, ma è necessario che si numerino tutti i voti; qualun-que esclusione formale rompe la generalità.

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le, essa è indivisibile, perchè o la volontà è generale10, onon lo è; o è quella del corpo del popolo, o d'una partesoltanto. Nel primo caso, questa volontà dichiarata è unatto di sovranità, e fa legge; nel secondo, non è se nonuna volontà particolare od un atto di magistratura; ètutt'al più un decreto.

Ma i nostri politici, non potendo dividere la sovranitànel suo principio, la dividono nel suo oggetto; la divido-no in forza ed in volontà, in potere legislativo ed in pote-re esecutivo; in diritti d'imposta, di giustizia e di guerra,in amministrazione interna, ed in potere di trattare collostraniero; talora confondono tutte queste parti, e talora leseparano. E' fanno del sovrano un ente fantastico e for-mato di brani rappiccicati; gli è come se componesserol'uomo di parecchi corpi, dei quali uno avesse gli occhi,un altro le braccia, un altro i piedi, e nulla più. Dicesi chei ciarlatani del Giappone facciano in pezzi un bimbo inpresenza degli spettatori, e che, dopo averne gittato inaria tutti i membri un dopo l'altro, facciano ricadere ilbambino vivo ed intero. Così press'a poco fanno i nostriciurmadori politici, i quali, dopo avere smembrato il cor-po sociale con un prestigio degno della piazza, riunisco-no le parti non si sa come.

Questo errore procede dal non essersi fatte nozioniesatte dell'autorità sovrana, e dall'avere preso quai partidi codesta autorità quanto non erane se non delle emana-zioni. Così, per esempio, si considerò l'atto di dichiarare

10 Affinchè una volontà sia generale non fa sempre d'uopo che siaunanime, ma è necessario che si numerino tutti i voti; qualun-que esclusione formale rompe la generalità.

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la guerra e quello di fare la pace quali atti di sovranità, loche non è; avvegnachè ciascuno di questi atti non sia unalegge, ma soltanto un'applicazione della legge, un attoparticolare che determina il caso della legge, come lo sivedrà chiaramente quando l'idea annessa alla parola leg-ge sarà fissata.

Così tenendo dietro alle altre divisioni, si vedrebbe cheogniqualvolta credesi vedere la sovranità condivisa, si èin errore; che i diritti i quali si pigliano quai parti di quel-la sovranità le sono tutti subordinati, e sempre suppongo-no volontà supreme, la cui esecuzione vien procacciatasolo da questi diritti.

Dire non si potrebbe quanta oscurità abbia gittato que-sto difetto d'esattezza sulle decisioni degli autori in mate-ria di diritto politico, allorchè vollero giudicare dei dirittirispettivi dei re e dei popoli sui principj da essi stabiliti.Ciascuno può vedere, nei capitoli III e IV del primo librodi Grozio, come questo dotto ed il suo traduttore Barbey-rac si avviluppino e s'imbroglino nei loro sofismi, pertema di dir troppo o troppo poco, secondo le lor viste, edi offendere gl'interessi che si proponevano di conciliare.Grozio, rifugiato in Francia, malcontento della sua patria,e volendo far la corte a Luigi XIII, cui dedicò il suo libro,non risparmia nulla per ispogliare i popoli di tutti i lorodiritti e rivestirne i re con tutta l'arte possibile. Sarebbestato pure il desiderio di Barbeyrac, il quale dedicava lasua traduzione al re d'Inghilterra Giorgio I. Ma disgrazia-tamente la cacciata di Giacomo II, ch'ei chiama abdica-zione, lo costringeva ad usare riguardi, a cavillare, a ter-giversare, per non far di Guglielmo un usurpatore. Se

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la guerra e quello di fare la pace quali atti di sovranità, loche non è; avvegnachè ciascuno di questi atti non sia unalegge, ma soltanto un'applicazione della legge, un attoparticolare che determina il caso della legge, come lo sivedrà chiaramente quando l'idea annessa alla parola leg-ge sarà fissata.

Così tenendo dietro alle altre divisioni, si vedrebbe cheogniqualvolta credesi vedere la sovranità condivisa, si èin errore; che i diritti i quali si pigliano quai parti di quel-la sovranità le sono tutti subordinati, e sempre suppongo-no volontà supreme, la cui esecuzione vien procacciatasolo da questi diritti.

Dire non si potrebbe quanta oscurità abbia gittato que-sto difetto d'esattezza sulle decisioni degli autori in mate-ria di diritto politico, allorchè vollero giudicare dei dirittirispettivi dei re e dei popoli sui principj da essi stabiliti.Ciascuno può vedere, nei capitoli III e IV del primo librodi Grozio, come questo dotto ed il suo traduttore Barbey-rac si avviluppino e s'imbroglino nei loro sofismi, pertema di dir troppo o troppo poco, secondo le lor viste, edi offendere gl'interessi che si proponevano di conciliare.Grozio, rifugiato in Francia, malcontento della sua patria,e volendo far la corte a Luigi XIII, cui dedicò il suo libro,non risparmia nulla per ispogliare i popoli di tutti i lorodiritti e rivestirne i re con tutta l'arte possibile. Sarebbestato pure il desiderio di Barbeyrac, il quale dedicava lasua traduzione al re d'Inghilterra Giorgio I. Ma disgrazia-tamente la cacciata di Giacomo II, ch'ei chiama abdica-zione, lo costringeva ad usare riguardi, a cavillare, a ter-giversare, per non far di Guglielmo un usurpatore. Se

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questi due scrittori avessero adottato i veri principj, ognidifficoltà svaniva, ed eglino sarebbero stati sempre con-seguenti: ma avrebbono tristamente detta la verità, e nonavrebbono fatta la corte se non al popolo. Or, la veritànon adduce alla fortuna, ed il popolo non conferisce nèambascerie, nè cattedre, nè pensioni.

CAPITOLO IIISe la volontà generale possa errare.

Dal fin qui detto ne consegue, che la volontà generaleè sempre giusta, e tende ognora alla pubblica utilità; manon ne consegue che le deliberazioni del popolo abbianosempre la stessa rettitudine. Si vuol sempre il propriobene, ma non lo si vede sempre: non si corrompe mai ilpopolo, ma bene lo s'inganna, ed allora soltanto sembrach'egli voglia ciò ch'è male.

Sovente passa grande differenza tra la volontà di tutti ela volontà generale; questa non riguarda se non all'inte-resse comune, e l'altra intende all'interesse privato, ned èche una somma di volontà particolari: ma togliete da que-ste volontà stesse i più ed i meno che si distruggono a vi-cenda11, e rimane per somma delle differenze la volontà

11 “Ciascun interesse, dice il marchese d'Argenson, ha principj di-versi. L'accordo di due interessi particolari formarsi per opposi-zione a quello di un terzo.” Consideraz. sul governo di Fran-cia, cap. 2. Avrebbe potuto aggiugnere che l'accordo di tutti gliinteressi formasi per opposizione di quello di cadauno. Se nonvi fossero interessi diversi, appena sentirebbesi l'interesse co-

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questi due scrittori avessero adottato i veri principj, ognidifficoltà svaniva, ed eglino sarebbero stati sempre con-seguenti: ma avrebbono tristamente detta la verità, e nonavrebbono fatta la corte se non al popolo. Or, la veritànon adduce alla fortuna, ed il popolo non conferisce nèambascerie, nè cattedre, nè pensioni.

CAPITOLO IIISe la volontà generale possa errare.

Dal fin qui detto ne consegue, che la volontà generaleè sempre giusta, e tende ognora alla pubblica utilità; manon ne consegue che le deliberazioni del popolo abbianosempre la stessa rettitudine. Si vuol sempre il propriobene, ma non lo si vede sempre: non si corrompe mai ilpopolo, ma bene lo s'inganna, ed allora soltanto sembrach'egli voglia ciò ch'è male.

Sovente passa grande differenza tra la volontà di tutti ela volontà generale; questa non riguarda se non all'inte-resse comune, e l'altra intende all'interesse privato, ned èche una somma di volontà particolari: ma togliete da que-ste volontà stesse i più ed i meno che si distruggono a vi-cenda11, e rimane per somma delle differenze la volontà

11 “Ciascun interesse, dice il marchese d'Argenson, ha principj di-versi. L'accordo di due interessi particolari formarsi per opposi-zione a quello di un terzo.” Consideraz. sul governo di Fran-cia, cap. 2. Avrebbe potuto aggiugnere che l'accordo di tutti gliinteressi formasi per opposizione di quello di cadauno. Se nonvi fossero interessi diversi, appena sentirebbesi l'interesse co-

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generale.Quando il popolo sufficientemente informato delibera,

se i cittadini non avessero veruna comunicazione tra loro,dal gran numero di piccole differenze risulterebbe sem-pre la volontà generale, e la deliberazione sarebbe sem-pre buona. Ma quando si fanno brogli, od associazioniparziali a scapito della grande, la volontà di ciascuna diqueste associazioni diventa generale per rapporto a' suoimembri, e particolare rispetto allo stato; allora si può direche non vi sono più tanti votanti quanti son gli uomini,ma solo quante le associazioni. Le differenze si fannomen numerose, e danno un risultato men generale. Final-mente, quando una di queste associazioni è così grandeche la vinca su tutte le altre, voi non avete più per risulta-to una somma di piccole differenze, ma una differenzaunica; allora non c'è più volontà generale, ed il parereche vince è un parere particolare.

Per ottenere adunque la vera espressione della volontàgenerale, importa che non vi sia nello stato società par-ziale, e che ciascun cittadino opini a sua posta12: tale ful'unica e sublime istituzione del grande Licurgo. Chè sevi fossero società parziali, bisognerebbe moltiplicarne il

mune, che non troverebbe mai ostacoli; tutto andrebbe da sè, ela politica cesserebbe di essere un'arte.

12 “Vera cosa è, dice Macchiavelli, che alcune divisioni nuoconoalle repubbliche, e alcune giovano: quelle nuocono che sonodalle sette e da partigiani accompagnate: quelle giovano chesenza sette, senza partigiani si mantengono. Non potendo dun-que provvedere un fondatore d'una repubblica che non siano ni-micizie in quella, ha da provvedere almeno che non vi sianosette”. Storie Fiorent., lib. 7.

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generale.Quando il popolo sufficientemente informato delibera,

se i cittadini non avessero veruna comunicazione tra loro,dal gran numero di piccole differenze risulterebbe sem-pre la volontà generale, e la deliberazione sarebbe sem-pre buona. Ma quando si fanno brogli, od associazioniparziali a scapito della grande, la volontà di ciascuna diqueste associazioni diventa generale per rapporto a' suoimembri, e particolare rispetto allo stato; allora si può direche non vi sono più tanti votanti quanti son gli uomini,ma solo quante le associazioni. Le differenze si fannomen numerose, e danno un risultato men generale. Final-mente, quando una di queste associazioni è così grandeche la vinca su tutte le altre, voi non avete più per risulta-to una somma di piccole differenze, ma una differenzaunica; allora non c'è più volontà generale, ed il parereche vince è un parere particolare.

Per ottenere adunque la vera espressione della volontàgenerale, importa che non vi sia nello stato società par-ziale, e che ciascun cittadino opini a sua posta12: tale ful'unica e sublime istituzione del grande Licurgo. Chè sevi fossero società parziali, bisognerebbe moltiplicarne il

mune, che non troverebbe mai ostacoli; tutto andrebbe da sè, ela politica cesserebbe di essere un'arte.

12 “Vera cosa è, dice Macchiavelli, che alcune divisioni nuoconoalle repubbliche, e alcune giovano: quelle nuocono che sonodalle sette e da partigiani accompagnate: quelle giovano chesenza sette, senza partigiani si mantengono. Non potendo dun-que provvedere un fondatore d'una repubblica che non siano ni-micizie in quella, ha da provvedere almeno che non vi sianosette”. Storie Fiorent., lib. 7.

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numero e prevenirne la disuguaglianza, come fecero So-lone, Numa, Servio. Queste precauzioni soltanto farannosì che la volontà generale sia sempre illuminata, e che ilpopolo non s'inganni.

CAPITOLO IVDei limiti del potere sovrano.

Se lo stato od il comune non è altro fuorchè una perso-na morale, la cui vita consiste nell'unione de' suoi mem-bri, e se la propria conservazione è la suprema delle suecure, ha bisogno di una forza universale e compulsiva permuovere e disporre ciascuna parte nel modo più conve-nevole al tutto. Siccome la natura dà ad ogni uomo unpotere assoluto su tutti i suoi membri, così il patto socialedà al corpo politico un potere assoluto su tutti i suoi; ed èquesto potere istesso che, diretto dalla volontà generale,piglia, come già dissi, il nome di sovranità.

Ma, oltre alla persona pubblica, noi dobbiamo consi-derare le persone private che la compongono, e la cui vitae libertà sono naturalmente indipendenti da essa. Quitrattasi adunque di distinguere bene i diritti rispettivi deicittadini e del sovrano13, e i doveri che debbono adempie-re i primi in qualità di sudditi, dal diritto naturale delquale debbono godere in qualità di uomini.

13 Attento lettore, non ti prema tanto di accusarmi qui di contrad-dizione, io ten prego. Io non l'ho potuta evitare ne' termini, perla povertà della lingua, ma aspetta.

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numero e prevenirne la disuguaglianza, come fecero So-lone, Numa, Servio. Queste precauzioni soltanto farannosì che la volontà generale sia sempre illuminata, e che ilpopolo non s'inganni.

CAPITOLO IVDei limiti del potere sovrano.

Se lo stato od il comune non è altro fuorchè una perso-na morale, la cui vita consiste nell'unione de' suoi mem-bri, e se la propria conservazione è la suprema delle suecure, ha bisogno di una forza universale e compulsiva permuovere e disporre ciascuna parte nel modo più conve-nevole al tutto. Siccome la natura dà ad ogni uomo unpotere assoluto su tutti i suoi membri, così il patto socialedà al corpo politico un potere assoluto su tutti i suoi; ed èquesto potere istesso che, diretto dalla volontà generale,piglia, come già dissi, il nome di sovranità.

Ma, oltre alla persona pubblica, noi dobbiamo consi-derare le persone private che la compongono, e la cui vitae libertà sono naturalmente indipendenti da essa. Quitrattasi adunque di distinguere bene i diritti rispettivi deicittadini e del sovrano13, e i doveri che debbono adempie-re i primi in qualità di sudditi, dal diritto naturale delquale debbono godere in qualità di uomini.

13 Attento lettore, non ti prema tanto di accusarmi qui di contrad-dizione, io ten prego. Io non l'ho potuta evitare ne' termini, perla povertà della lingua, ma aspetta.

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Si conviene che ciascuno aliena per via del patto so-ciale quella parte soltanto del suo potere, de' suoi beni edella libertà, il cui uso importa alla comunità; ma bisognapur convenire che il sovrano solo è giudice di questa im-portanza.

Tutti i servigi che un cittadino può rendere allo stato,ei glieli deve appena il sovrano li domanda; ma il sovra-no dal proprio canto non può gravare i sudditi di nessunacatena inutile alla comunità; non può nemmeno volerlo,perchè sotto la legge di ragione non si fa nulla senza cau-sa, come neppure sotto la legge di natura.

Gli impegni che ci legano al corpo sociale non sonoobbligatorj se non perchè sono reciproci, e tale è la loronatura che, soddisfacendo ad essi, non puossi lavorareper gli altri senza lavorare per sè. Perchè mai la volontàgenerale è sempre giusta, e perchè tutti vogliono costan-temente la felicità di ciascuno di loro, se non perchè niu-no avvi che non si appropri questa parola ciascuno, e nonpensi a sè stesso votando per tutti? Ciò prova che l'ugua-glianza di diritto e la nozione di giustizia ch'essa produ-ce, derivano dalla preferenza che ciascuno si dà, e perconseguenza dalla natura dell'uomo; che la volontà gene-rale, per essere veramente tale, dev'esserlo e nel suo ob-bietto e nella sua essenza; ch'essa deve partire da tutti perapplicarsi a tutti, e che perde la sua rettitudine naturaleallorquando tende a qualche oggetto individuale e deter-minato, perchè allora, giudicando di ciò che ci è estraneo,non abbiamo nessun vero principio d'equità che ci guidi.

Infatti, non appena trattisi d'un fatto o d'un diritto par-ticolare, sopra un punto che non fu regolato da una con-

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Si conviene che ciascuno aliena per via del patto so-ciale quella parte soltanto del suo potere, de' suoi beni edella libertà, il cui uso importa alla comunità; ma bisognapur convenire che il sovrano solo è giudice di questa im-portanza.

Tutti i servigi che un cittadino può rendere allo stato,ei glieli deve appena il sovrano li domanda; ma il sovra-no dal proprio canto non può gravare i sudditi di nessunacatena inutile alla comunità; non può nemmeno volerlo,perchè sotto la legge di ragione non si fa nulla senza cau-sa, come neppure sotto la legge di natura.

Gli impegni che ci legano al corpo sociale non sonoobbligatorj se non perchè sono reciproci, e tale è la loronatura che, soddisfacendo ad essi, non puossi lavorareper gli altri senza lavorare per sè. Perchè mai la volontàgenerale è sempre giusta, e perchè tutti vogliono costan-temente la felicità di ciascuno di loro, se non perchè niu-no avvi che non si appropri questa parola ciascuno, e nonpensi a sè stesso votando per tutti? Ciò prova che l'ugua-glianza di diritto e la nozione di giustizia ch'essa produ-ce, derivano dalla preferenza che ciascuno si dà, e perconseguenza dalla natura dell'uomo; che la volontà gene-rale, per essere veramente tale, dev'esserlo e nel suo ob-bietto e nella sua essenza; ch'essa deve partire da tutti perapplicarsi a tutti, e che perde la sua rettitudine naturaleallorquando tende a qualche oggetto individuale e deter-minato, perchè allora, giudicando di ciò che ci è estraneo,non abbiamo nessun vero principio d'equità che ci guidi.

Infatti, non appena trattisi d'un fatto o d'un diritto par-ticolare, sopra un punto che non fu regolato da una con-

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venzione generale ed anteriore, l'affare diviene conten-zioso. È un processo in cui tutti i particolari interessatiformano una delle parti ed il pubblico l'altra, ma in cui ionon vedo nè la legge da seguirsi, nè il giudice che devepronunziare. Sarebbe difficile allora il volersi rimetteread un'espressa decisione della volontà generale, che nonpuò essere se non la conclusione di una delle parti, e che,per conseguenza, non è per l'altra se non una volontàestranea, particolare, proclive in quest'occasioneall'ingiustizia e soggetta all'errore. Nel modo stesso cheuna volontà particolare non può rappresentare la volontàgenerale, così questa a sua volta cambia natura avendoun oggetto particolare, e non può, come generale, pronun-ziare nè sopra un uomo, nè sopra un fatto. Quando il po-polo di Atene, per esempio, nominava o dimetteva i suoicapi, conferiva onori ad uno, infliggeva pene all'altro, econ una moltitudine di decreti particolari esercitava indi-stintamente tutti gli atti del governo, il popolo allora nonavea più volontà generale propriamente detta, non agivapiù come sovrano, ma qual magistrato. Ciò parrà contra-rio alle idee comuni, ma fa d'uopo lasciarmi il tempo diesporre le mie.

Debbesi quindi concepire che quanto generalizza lavolontà non è tanto il numero de' voti, quanto il comuneinteresse che li unisce, perchè in questa istituzione cia-scuno sottomettesi necessariamente alle condizioni cuiimpone agli altri: mirabile accordo dell'interesse e dellagiustizia, che alle deliberazioni comuni dà un carattered'equità, che svanisce nella discussione d'ogni bisognaparticolare, per mancanza d'un interesse comune che uni-

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venzione generale ed anteriore, l'affare diviene conten-zioso. È un processo in cui tutti i particolari interessatiformano una delle parti ed il pubblico l'altra, ma in cui ionon vedo nè la legge da seguirsi, nè il giudice che devepronunziare. Sarebbe difficile allora il volersi rimetteread un'espressa decisione della volontà generale, che nonpuò essere se non la conclusione di una delle parti, e che,per conseguenza, non è per l'altra se non una volontàestranea, particolare, proclive in quest'occasioneall'ingiustizia e soggetta all'errore. Nel modo stesso cheuna volontà particolare non può rappresentare la volontàgenerale, così questa a sua volta cambia natura avendoun oggetto particolare, e non può, come generale, pronun-ziare nè sopra un uomo, nè sopra un fatto. Quando il po-polo di Atene, per esempio, nominava o dimetteva i suoicapi, conferiva onori ad uno, infliggeva pene all'altro, econ una moltitudine di decreti particolari esercitava indi-stintamente tutti gli atti del governo, il popolo allora nonavea più volontà generale propriamente detta, non agivapiù come sovrano, ma qual magistrato. Ciò parrà contra-rio alle idee comuni, ma fa d'uopo lasciarmi il tempo diesporre le mie.

Debbesi quindi concepire che quanto generalizza lavolontà non è tanto il numero de' voti, quanto il comuneinteresse che li unisce, perchè in questa istituzione cia-scuno sottomettesi necessariamente alle condizioni cuiimpone agli altri: mirabile accordo dell'interesse e dellagiustizia, che alle deliberazioni comuni dà un carattered'equità, che svanisce nella discussione d'ogni bisognaparticolare, per mancanza d'un interesse comune che uni-

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sca e identifichi la regola del giudice con quella dellapàrte.

Da qualunque lato si risalga al principio, si arriva sem-pre alla medesima conclusione, cioè che il patto socialestabilisce fra i cittadini una tale eguaglianza, che tuttis'impegnano sotto le stesse condizioni, e tutti debbonogodere dei medesimi diritti. Così, per la natura del patto,ogni atto di sovranità, vale a dire ogni atto autentico dellavolontà generale, obbliga o favorisce ugualmente tutti icittadini, di modo che il sovrano conosce solamente ilcorpo della nazione, e non distingue nessuno di quanti lacompongono. Dunque che cosa è propriamente un atto disovranità? Non è una convenzione del superiore coll'infe-riore, ma una convenzione del corpo con cadauno de'suoi membri: convenzione legittima, perchè ha per baseil contratto seciale; equa, perchè comune a tutti; utile,perchè non può avere altro oggetto che il bene generale;e salda, perchè guarentita della forza pubblica e dal pote-re supremo. Finchè i sudditi non sono sottoposti se non asimili convenzioni, non ubbidiscono ad altri fuorchè allavolontà propria; e chiedere fin dove si estendano i dirittirispettivi del sovrano e dei cittadini è chiedere fino a qualpunto questi possano impegnarsi seco stessi, ciascunoverso tutti, e tutti verso ciascuno.

Quindi si vede che il potere sovrano, per quanto asso-luto, sacro ed inviolabile esso sia, non varca nè può var-care i limiti delle convenzioni generali, e che ogni uomopuò disporre pienamente di quei beni e di quella libertàche si ebbe per via di queste convenzioni; dimodochè ilsovrano non ha mai il diritto d'aggravare un suddito più

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sca e identifichi la regola del giudice con quella dellapàrte.

Da qualunque lato si risalga al principio, si arriva sem-pre alla medesima conclusione, cioè che il patto socialestabilisce fra i cittadini una tale eguaglianza, che tuttis'impegnano sotto le stesse condizioni, e tutti debbonogodere dei medesimi diritti. Così, per la natura del patto,ogni atto di sovranità, vale a dire ogni atto autentico dellavolontà generale, obbliga o favorisce ugualmente tutti icittadini, di modo che il sovrano conosce solamente ilcorpo della nazione, e non distingue nessuno di quanti lacompongono. Dunque che cosa è propriamente un atto disovranità? Non è una convenzione del superiore coll'infe-riore, ma una convenzione del corpo con cadauno de'suoi membri: convenzione legittima, perchè ha per baseil contratto seciale; equa, perchè comune a tutti; utile,perchè non può avere altro oggetto che il bene generale;e salda, perchè guarentita della forza pubblica e dal pote-re supremo. Finchè i sudditi non sono sottoposti se non asimili convenzioni, non ubbidiscono ad altri fuorchè allavolontà propria; e chiedere fin dove si estendano i dirittirispettivi del sovrano e dei cittadini è chiedere fino a qualpunto questi possano impegnarsi seco stessi, ciascunoverso tutti, e tutti verso ciascuno.

Quindi si vede che il potere sovrano, per quanto asso-luto, sacro ed inviolabile esso sia, non varca nè può var-care i limiti delle convenzioni generali, e che ogni uomopuò disporre pienamente di quei beni e di quella libertàche si ebbe per via di queste convenzioni; dimodochè ilsovrano non ha mai il diritto d'aggravare un suddito più

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d'un altro, perchè in tal caso l'affare diventando particola-re, il suo potere non è più competente.

Una volta ammesse queste distinzioni, è così falso chenel contratto sociale siavi, dal lato de' particolari, alcunavera rinunzia, che la loro situazione, per l'effetto di que-sto contratto, trovasi realmente preferibile a quella ante-riore, e che invece d'una alienazione, ei non han fatto senon un cambio vantaggioso di un modo d'essere incerto eprecario con un altro migliore e più sicuro, dell'indipen-denza naturale colla libertà, del potere di nuocere altruicolla propria sicurezza, e della loro forza che altri avreb-bono potuto superare, con un diritto reso invincibile dallaunione sociale. La loro vita medesima, cui hanno consa-crata allo stato, ne è continuamente protetta; e quando lamettono a repentaglio per difenderlo, che fanno essi allo-ra se non rendergli quanto ne ricevettero? Che cosa fannoeglino che già non facessero più frequentemente e conmaggior pericolo nello stato di natura, allorchè dandoinevitabili battaglie, difendevano con pericolo della vita,quanto lor giova a conservarla? È vero che tutti, ove oc-corra, hanno da combattere per la patria, ma è vero altresìche niuno ha mai da combattere per sè. E non si guada-gna forse ancora a correre, per ciò che forma la nostra si-curezza, una parte dei rischi, ai quali si dovrebbe pur an-dare incontro per noi stessi non appena dessa ci fosse tol-ta?

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d'un altro, perchè in tal caso l'affare diventando particola-re, il suo potere non è più competente.

Una volta ammesse queste distinzioni, è così falso chenel contratto sociale siavi, dal lato de' particolari, alcunavera rinunzia, che la loro situazione, per l'effetto di que-sto contratto, trovasi realmente preferibile a quella ante-riore, e che invece d'una alienazione, ei non han fatto senon un cambio vantaggioso di un modo d'essere incerto eprecario con un altro migliore e più sicuro, dell'indipen-denza naturale colla libertà, del potere di nuocere altruicolla propria sicurezza, e della loro forza che altri avreb-bono potuto superare, con un diritto reso invincibile dallaunione sociale. La loro vita medesima, cui hanno consa-crata allo stato, ne è continuamente protetta; e quando lamettono a repentaglio per difenderlo, che fanno essi allo-ra se non rendergli quanto ne ricevettero? Che cosa fannoeglino che già non facessero più frequentemente e conmaggior pericolo nello stato di natura, allorchè dandoinevitabili battaglie, difendevano con pericolo della vita,quanto lor giova a conservarla? È vero che tutti, ove oc-corra, hanno da combattere per la patria, ma è vero altresìche niuno ha mai da combattere per sè. E non si guada-gna forse ancora a correre, per ciò che forma la nostra si-curezza, una parte dei rischi, ai quali si dovrebbe pur an-dare incontro per noi stessi non appena dessa ci fosse tol-ta?

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CAPITOLO VDel diritto di vita e di morte.

Si domanda come mai i privati, non avendo il diritto didisporre della propria vita, possano trasmettere al sovra-no quel diritto stesso ch'eglino non hanno. Questo quesi-to non sembra difficile a sciogliere, se non perchè è malposto. Ogni uomo ha il diritto di arrischiare la propriavita per conservarla. Si è mai detto che chi si butta giù dauna finestra per campare da un incendio sia colpevole disuicidio? Si è forse imputato mai questo delitto a chi pe-risce in una tempesta, di cui, imbarcandosi, non ignora ilpericolo?

Il trattato sociale ha per fine la conservazione dei con-traenti. Chi vuole il fine vuole eziandio i mezzi, e questisono inseparabili da alcuni rischi; ed anche da qualcheperdita. Chi vuole conservare la vita a spese altrui, devepure donare la propria per essi ove faccia d'uopo. Ora ilcittadino non è più giudice del pericolo cui la legge vuoleche si esponga; e quando il principe gli ha detto: È neces-sario allo stato che tu muoia, ei deve morire, non essendose non a questa condizione ch'egli visse sicuro fin allora,e che la sua vita non è più soltanto un benefizio della na-tura, ma un dono condizionale dello stato.

La pena di morte, inflitta ai delinquenti, può conside-rarsi press'a poco sotto il medesimo punto di vista; è pernon esser la vittima d'un assassino che l'uomo acconsentea morire, ove tale diventi. In questo trattato, lungi dal di-sporre della propria vita, si pensa solo a guarentirla, nè si

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CAPITOLO VDel diritto di vita e di morte.

Si domanda come mai i privati, non avendo il diritto didisporre della propria vita, possano trasmettere al sovra-no quel diritto stesso ch'eglino non hanno. Questo quesi-to non sembra difficile a sciogliere, se non perchè è malposto. Ogni uomo ha il diritto di arrischiare la propriavita per conservarla. Si è mai detto che chi si butta giù dauna finestra per campare da un incendio sia colpevole disuicidio? Si è forse imputato mai questo delitto a chi pe-risce in una tempesta, di cui, imbarcandosi, non ignora ilpericolo?

Il trattato sociale ha per fine la conservazione dei con-traenti. Chi vuole il fine vuole eziandio i mezzi, e questisono inseparabili da alcuni rischi; ed anche da qualcheperdita. Chi vuole conservare la vita a spese altrui, devepure donare la propria per essi ove faccia d'uopo. Ora ilcittadino non è più giudice del pericolo cui la legge vuoleche si esponga; e quando il principe gli ha detto: È neces-sario allo stato che tu muoia, ei deve morire, non essendose non a questa condizione ch'egli visse sicuro fin allora,e che la sua vita non è più soltanto un benefizio della na-tura, ma un dono condizionale dello stato.

La pena di morte, inflitta ai delinquenti, può conside-rarsi press'a poco sotto il medesimo punto di vista; è pernon esser la vittima d'un assassino che l'uomo acconsentea morire, ove tale diventi. In questo trattato, lungi dal di-sporre della propria vita, si pensa solo a guarentirla, nè si

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dee presumere che alcuno dei contraenti premediti alloradi farsi impiccare.

Altronde, ogni malfattore, attaccando il diritto sociale,diventa pe' suoi misfatti ribelle e traditore della patria;cessa d'esserne membro violando le sue leggi, anzi lemuove guerra. Allora la conservazione dello stato divie-ne incompatibile colla sua; bisogna che uno dei due peri-sca; e quando si fa morire il reo, è meno come cittadinoche come inimico. Le procedure, il giudizio sono le pro-ve e la dichiarazione ch'egli infranse il trattato sociale, eper conseguenza non è più membro dello stato. Ora, sic-come ei si riconobbe tale, almeno almeno col suo sog-giorno, così dev'esserne tolto coll'esiglio quale violatoredel patto, o colla morte, quale nemico pubblico; imper-ciocchè un tale nemico non è una persona morale, è unuomo, ed allora il diritto della guerra è d'uccidere il vin-to.

Ma, ci direte voi, la condanna d'un delinquente è unatto particolare. Sia; epperò questa condanna non ispettaal sovrano; è un diritto cui può conferire senza poterloesercitare egli stesso. Tutte le mie idee si collegano, manon saprei esporle tutte in una volta.

Del resto, la frequenza dei supplizi è sempre un segnodi debolezza o d'infingardaggine nel governo. Non vi èuomo malvagio che non si possa render buono a qualchecosa. Non si ha diritto di far morire, nemmeno perl'esempio, se non chi non si può conservare senza perico-lo.

Riguardo al diritto di far grazia o di esentuare un reodalla pena inflittagli dalla legge e pronunciata dal giudi-

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dee presumere che alcuno dei contraenti premediti alloradi farsi impiccare.

Altronde, ogni malfattore, attaccando il diritto sociale,diventa pe' suoi misfatti ribelle e traditore della patria;cessa d'esserne membro violando le sue leggi, anzi lemuove guerra. Allora la conservazione dello stato divie-ne incompatibile colla sua; bisogna che uno dei due peri-sca; e quando si fa morire il reo, è meno come cittadinoche come inimico. Le procedure, il giudizio sono le pro-ve e la dichiarazione ch'egli infranse il trattato sociale, eper conseguenza non è più membro dello stato. Ora, sic-come ei si riconobbe tale, almeno almeno col suo sog-giorno, così dev'esserne tolto coll'esiglio quale violatoredel patto, o colla morte, quale nemico pubblico; imper-ciocchè un tale nemico non è una persona morale, è unuomo, ed allora il diritto della guerra è d'uccidere il vin-to.

Ma, ci direte voi, la condanna d'un delinquente è unatto particolare. Sia; epperò questa condanna non ispettaal sovrano; è un diritto cui può conferire senza poterloesercitare egli stesso. Tutte le mie idee si collegano, manon saprei esporle tutte in una volta.

Del resto, la frequenza dei supplizi è sempre un segnodi debolezza o d'infingardaggine nel governo. Non vi èuomo malvagio che non si possa render buono a qualchecosa. Non si ha diritto di far morire, nemmeno perl'esempio, se non chi non si può conservare senza perico-lo.

Riguardo al diritto di far grazia o di esentuare un reodalla pena inflittagli dalla legge e pronunciata dal giudi-

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ce, questo diritto non appartiene se non a chi sta sopra algiudice ed alla legge, cioè al sovrano; e nemmanco que-sto suo diritto è ben determinato, e rarissimi sono i casiin cui debba farne uso. In uno stato ben governato succe-dono poche pene, non perchè si faccia sovente grazia, maperchè vi sono pochi delinquenti: la moltiplicità dei delit-ti ne assicura la impunità, quando lo stato deperisce. Nel-la romana repubblica, nè il senato nè i consoli tentaronomai di far grazia: il popolo stesso non ne faceva, quan-tunque alcuna volta rivocasse il proprio giudizio. Le gra-zie frequenti annunziano che tra breve i misfatti non neavranno più bisogno, e ciascuno vede dove ciò conduca.Ma io sento che il cuore mormora e raffrena la mia pen-na: lasciamo discutere queste cose all'uomo giusto chenon ha peccato, nè che ebbe mai bisogno di grazia.

CAPITOLO VIDella legge.

Col patto sociale noi abbiamo dato l'esistenza e la vitaal corpo politico: ora trattasi di dargli il moto e la volontàmediante la legislazione. Imperocchè l'atto primitivo, pelquale questo corpo si forma e s'unisce, non determinanulla ancora di ciò ch'ei deve fare per conservarsi.

Ciò che è buono e conforme all'ordine, è tale per la na-tura delle cose ed indipendentemente dalle convenzioniumane. Ogni giustizia viene da Dio, ei solo ne è la fonte:ma se noi sapessimo riceverla da sì alto, non abbisogne-

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ce, questo diritto non appartiene se non a chi sta sopra algiudice ed alla legge, cioè al sovrano; e nemmanco que-sto suo diritto è ben determinato, e rarissimi sono i casiin cui debba farne uso. In uno stato ben governato succe-dono poche pene, non perchè si faccia sovente grazia, maperchè vi sono pochi delinquenti: la moltiplicità dei delit-ti ne assicura la impunità, quando lo stato deperisce. Nel-la romana repubblica, nè il senato nè i consoli tentaronomai di far grazia: il popolo stesso non ne faceva, quan-tunque alcuna volta rivocasse il proprio giudizio. Le gra-zie frequenti annunziano che tra breve i misfatti non neavranno più bisogno, e ciascuno vede dove ciò conduca.Ma io sento che il cuore mormora e raffrena la mia pen-na: lasciamo discutere queste cose all'uomo giusto chenon ha peccato, nè che ebbe mai bisogno di grazia.

CAPITOLO VIDella legge.

Col patto sociale noi abbiamo dato l'esistenza e la vitaal corpo politico: ora trattasi di dargli il moto e la volontàmediante la legislazione. Imperocchè l'atto primitivo, pelquale questo corpo si forma e s'unisce, non determinanulla ancora di ciò ch'ei deve fare per conservarsi.

Ciò che è buono e conforme all'ordine, è tale per la na-tura delle cose ed indipendentemente dalle convenzioniumane. Ogni giustizia viene da Dio, ei solo ne è la fonte:ma se noi sapessimo riceverla da sì alto, non abbisogne-

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remmo nè di governo, nè di leggi. Senza dubbio avvi unagiustizia universale emanata dalla ragione sola; ma que-sta giustizia, per venire ammessa tra noi, debb'essere re-ciproca. A considerare umanamente le cose, le leggi dellagiustizia, per difetto di sanzion naturale, sono vane fra gliuomini; esse fanno solo il bene del malvagio ed il maledel giusto, quando questi le osserva con tutti, senza cheniuno le osservi con lui. Voglionsi adunque convenzionie leggi per unire i diritti ai doveri, e ricondurre la giusti-zia al suo oggetto. Nello stato di natura, in cui tutto è co-mune, io non debbo nulla a coloro ai quali non promisinulla: io non riconosco per essere d'altri se non quelloch'è inutile a me. Così non avviene nello stato civile, incui tutti i diritti sono fissati dalla legge.

Ma alla fin fine che è adunque una legge? Finchè sistarà sol paghi di attaccare a questa parola idee metafisi-che, si continuerà a ragionare senza intendersi; e quandosi sarà detto che cos'è una legge della natura, non si sapràmeglio che cosa sia una legge dello stato.

Io dissi già non esservi volontà generale sovra un og-getto particolare. Infatti, questo oggetto particolare è nel-lo stato o fuori dello stato. Se è fuori dello stato, una vo-lontà che gli sia estranea non è generale rispetto a lui; ese quest'oggetto è nello stato, ne fa parte: allora formasifra il tutto e la sua parte un rapporto che ne fa due esseridistinti, dei quali l'uno è la parte, e l'altro è il tutto, menoquesta parte stessa. Ma il tutto meno una parte non è iltutto, e fintantochè questo rapporto sussiste, non avvi piùun tutto, ma due parti disuguali; donde viene che la vo-lontà dell'una non è neppur più generale riguardo

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remmo nè di governo, nè di leggi. Senza dubbio avvi unagiustizia universale emanata dalla ragione sola; ma que-sta giustizia, per venire ammessa tra noi, debb'essere re-ciproca. A considerare umanamente le cose, le leggi dellagiustizia, per difetto di sanzion naturale, sono vane fra gliuomini; esse fanno solo il bene del malvagio ed il maledel giusto, quando questi le osserva con tutti, senza cheniuno le osservi con lui. Voglionsi adunque convenzionie leggi per unire i diritti ai doveri, e ricondurre la giusti-zia al suo oggetto. Nello stato di natura, in cui tutto è co-mune, io non debbo nulla a coloro ai quali non promisinulla: io non riconosco per essere d'altri se non quelloch'è inutile a me. Così non avviene nello stato civile, incui tutti i diritti sono fissati dalla legge.

Ma alla fin fine che è adunque una legge? Finchè sistarà sol paghi di attaccare a questa parola idee metafisi-che, si continuerà a ragionare senza intendersi; e quandosi sarà detto che cos'è una legge della natura, non si sapràmeglio che cosa sia una legge dello stato.

Io dissi già non esservi volontà generale sovra un og-getto particolare. Infatti, questo oggetto particolare è nel-lo stato o fuori dello stato. Se è fuori dello stato, una vo-lontà che gli sia estranea non è generale rispetto a lui; ese quest'oggetto è nello stato, ne fa parte: allora formasifra il tutto e la sua parte un rapporto che ne fa due esseridistinti, dei quali l'uno è la parte, e l'altro è il tutto, menoquesta parte stessa. Ma il tutto meno una parte non è iltutto, e fintantochè questo rapporto sussiste, non avvi piùun tutto, ma due parti disuguali; donde viene che la vo-lontà dell'una non è neppur più generale riguardo

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all'altra.Ma quando tutto il popolo statuisce su tutto il popolo,

ei non considera se non sè stesso; e se formasi allora unrapporto, gli è dell'oggetto intero sotto un altro punto divista, senza veruna distinzione del tutto. Allora la materiasu cui si statuisce è generale come la volontà statuente. Equest'atto io lo chiamo una legge.

Quando dico che l'oggetto delle leggi è sempre genera-le, intendo che la legge considera i soggetti in corpo e leazioni come astratte, non mai un uomo come individuo,nè un'azione particolare. Così la legge può benissimo sta-tuire che vi saranno privilegi, ma non può conferirne no-minativamente a niuno: la legge può formare parecchieclassi di cittadini, assegnare anzi le qualità che darannodiritto a queste classi, ma non può nominare nè Tizio, nèCaio ad esservi ammessi; può stabilire un governo regioed una successione ereditaria, ma non può eleggere un re,nè nominare una famiglia reale; in una parola, qualsiasiuffizio che riferiscasi ad un oggetto individuale, non ap-partiene al potere legislativo.

Da ciò si scorge subito che non fa più mestieri di chie-dere a chi spetti la formazione delle leggi, poichè essesono atti della volontà generale; nè se il principe stia al disopra delle leggi, poichè è membro dello stato; nè se lalegge può essere ingiusta, poichè niuno è ingiusto versodi sè; nè come si è liberi e sottomessi alle leggi, poichèqueste non sono altro che i registri delle nostre volontà.

Oltracciò si scorge che, la legge riunendo l'universalitàdella volontà e quella dell'oggetto, gli ordini dispoticid'un uomo qualsiasi non sono una legge; nè legge sono

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all'altra.Ma quando tutto il popolo statuisce su tutto il popolo,

ei non considera se non sè stesso; e se formasi allora unrapporto, gli è dell'oggetto intero sotto un altro punto divista, senza veruna distinzione del tutto. Allora la materiasu cui si statuisce è generale come la volontà statuente. Equest'atto io lo chiamo una legge.

Quando dico che l'oggetto delle leggi è sempre genera-le, intendo che la legge considera i soggetti in corpo e leazioni come astratte, non mai un uomo come individuo,nè un'azione particolare. Così la legge può benissimo sta-tuire che vi saranno privilegi, ma non può conferirne no-minativamente a niuno: la legge può formare parecchieclassi di cittadini, assegnare anzi le qualità che darannodiritto a queste classi, ma non può nominare nè Tizio, nèCaio ad esservi ammessi; può stabilire un governo regioed una successione ereditaria, ma non può eleggere un re,nè nominare una famiglia reale; in una parola, qualsiasiuffizio che riferiscasi ad un oggetto individuale, non ap-partiene al potere legislativo.

Da ciò si scorge subito che non fa più mestieri di chie-dere a chi spetti la formazione delle leggi, poichè essesono atti della volontà generale; nè se il principe stia al disopra delle leggi, poichè è membro dello stato; nè se lalegge può essere ingiusta, poichè niuno è ingiusto versodi sè; nè come si è liberi e sottomessi alle leggi, poichèqueste non sono altro che i registri delle nostre volontà.

Oltracciò si scorge che, la legge riunendo l'universalitàdella volontà e quella dell'oggetto, gli ordini dispoticid'un uomo qualsiasi non sono una legge; nè legge sono

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gli ordini del sovrano stesso intorno ad un oggetto parti-colare, ma bensì un decreto; non sono un atto di sovranitàma di magistratura.

Io chiamo dunque repubblica ogni stato retto da leggi,e ciò sotto qualsiasi forma d'amministrazione: imperoc-chè allora solamente il pubblico interesse governa, e lacosa pubblica è qualche cosa. Ogni governo legittimo èrepubblicano14: spiegherò più sotto che cosa sia governo.

Propriamente le leggi non sono altro, che le condizionidell'associazione civile. Il popolo, sottomesso alle leggi,debb'esserne l'autore: il regolare le condizioni della so-cietà non ispetta se non a quelli che si associano. Macome le regoleranno essi? Sarà di comune accordo, peruna subitanea ispirazione? Il corpo politico ha egli un or-gano per esprimere i suoi voleri? Chi gli darà la necessa-ria previdenza per formarne gli atti e pubblicarli anticipa-tamente, o come pronuncerà egli nel momento del biso-gno? Come mai una moltitudine cieca, che spesso non sache cosa si voglia, perchè di rado sa ciò ciò le conviene,compirebbe da sè una impresa così grande e difficile qualè un sistema di legislazione? Di per sè il popolo vuolesempre il bene, ma non sempre di per sè lo vede. La vo-lontà generale è sempre equa, ma non sempre illuminatoil giudizio che la guida. Bisogna farle vedere gli oggetti

14 Con questa parola intendo non solo un'aristocrazia od una de-mocrazia, ma in generale ogni governo guidato dalla volontàgenerale, che è la legge. Perchè sia legittimo, non bisogna cheil governo si confonda col sovrano, ma ne sia il ministro: allorala stessa monarchia è repubblica. Ciò sarà chiarito nel libro se-guente.

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gli ordini del sovrano stesso intorno ad un oggetto parti-colare, ma bensì un decreto; non sono un atto di sovranitàma di magistratura.

Io chiamo dunque repubblica ogni stato retto da leggi,e ciò sotto qualsiasi forma d'amministrazione: imperoc-chè allora solamente il pubblico interesse governa, e lacosa pubblica è qualche cosa. Ogni governo legittimo èrepubblicano14: spiegherò più sotto che cosa sia governo.

Propriamente le leggi non sono altro, che le condizionidell'associazione civile. Il popolo, sottomesso alle leggi,debb'esserne l'autore: il regolare le condizioni della so-cietà non ispetta se non a quelli che si associano. Macome le regoleranno essi? Sarà di comune accordo, peruna subitanea ispirazione? Il corpo politico ha egli un or-gano per esprimere i suoi voleri? Chi gli darà la necessa-ria previdenza per formarne gli atti e pubblicarli anticipa-tamente, o come pronuncerà egli nel momento del biso-gno? Come mai una moltitudine cieca, che spesso non sache cosa si voglia, perchè di rado sa ciò ciò le conviene,compirebbe da sè una impresa così grande e difficile qualè un sistema di legislazione? Di per sè il popolo vuolesempre il bene, ma non sempre di per sè lo vede. La vo-lontà generale è sempre equa, ma non sempre illuminatoil giudizio che la guida. Bisogna farle vedere gli oggetti

14 Con questa parola intendo non solo un'aristocrazia od una de-mocrazia, ma in generale ogni governo guidato dalla volontàgenerale, che è la legge. Perchè sia legittimo, non bisogna cheil governo si confonda col sovrano, ma ne sia il ministro: allorala stessa monarchia è repubblica. Ciò sarà chiarito nel libro se-guente.

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quali sono, talvolta tai quali debbono apparirle; insegnar-le la buona via che cerca, schermirla dalla seduzione del-le volontà particolari, accostarle agli occhi i luoghi ed itempi, equilibrare l'attrattiva dei vantaggi presenti e sen-sibili col pericolo dei mali lontani e nascosti. I privati ve-dono il bene cui rigettano, il pubblico vuole il bene cuinon vede. Tutti hanno ugualmente bisogno di guide: bi-sogna costringere gli uni a conformare le loro volontàalla loro ragione; bisogna insegnare all'altro a conoscereciò che vuole. Allora, dai pubblici lumi nasce l'unionedell'intendimento e della volontà nel corpo sociale, l'esat-to concorso delle parti, e finalmente la maggior forza deltutto. Ecco d'onde sorge la necessità di un legislatore.

CAPITOLO VIIDel legislatore.

Per trovare le regole migliori di società che alle nazio-ni convengano, ci vorrebbe un intelletto superiore, chevedesse tutte le passioni degli uomini e non ne sentissenessuna: che non avesse relazione di sorta colla nostranatura, eppure la conoscesse a fondo: ci vorrebbe unuomo la cui felicità fosse da noi indipendente, e che tut-tavia volesse occuparsi della nostra; un uomo finalmente,che, nel progresso dei tempi, riserbandosi una gloria lon-tana, potesse lavorare in un secolo e godere in un altro15.

15 Un popolo non diventa celebre se non quando la sua legislazio-ne comincia a decadere. Ignorasi per quanti secoli l'istituzione

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quali sono, talvolta tai quali debbono apparirle; insegnar-le la buona via che cerca, schermirla dalla seduzione del-le volontà particolari, accostarle agli occhi i luoghi ed itempi, equilibrare l'attrattiva dei vantaggi presenti e sen-sibili col pericolo dei mali lontani e nascosti. I privati ve-dono il bene cui rigettano, il pubblico vuole il bene cuinon vede. Tutti hanno ugualmente bisogno di guide: bi-sogna costringere gli uni a conformare le loro volontàalla loro ragione; bisogna insegnare all'altro a conoscereciò che vuole. Allora, dai pubblici lumi nasce l'unionedell'intendimento e della volontà nel corpo sociale, l'esat-to concorso delle parti, e finalmente la maggior forza deltutto. Ecco d'onde sorge la necessità di un legislatore.

CAPITOLO VIIDel legislatore.

Per trovare le regole migliori di società che alle nazio-ni convengano, ci vorrebbe un intelletto superiore, chevedesse tutte le passioni degli uomini e non ne sentissenessuna: che non avesse relazione di sorta colla nostranatura, eppure la conoscesse a fondo: ci vorrebbe unuomo la cui felicità fosse da noi indipendente, e che tut-tavia volesse occuparsi della nostra; un uomo finalmente,che, nel progresso dei tempi, riserbandosi una gloria lon-tana, potesse lavorare in un secolo e godere in un altro15.

15 Un popolo non diventa celebre se non quando la sua legislazio-ne comincia a decadere. Ignorasi per quanti secoli l'istituzione

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Ci vorrebbero iddii per dar leggi agli uomini.Il medesimo ragionamento che faceva Caligola circa il

fatto, lo faceva Platone circa il diritto per definire l'uomocivile o reale, ch'ei cerca nel suo libro del Regno. Ma se èvero che un gran principe sia un uomo raro, che dovremodire di un grande legislatore? Il primo non ha se non daimitare il modello che il secondo deve proporre. Questi èil meccanico che inventa la macchina, e l'altro è l'operaioche l'assetta e la fa agire. “Nell'origine delle società, diceMontesquieu, i capi delle repubbliche formano l'istituzio-ne, e l'instituzione poscia forma i capi delle repubbli-che16”

Chi osa assumersi l'incarico di instituire un popolo,deve sentirsi capace di cambiare, per così dire, l'umananatura; di trasformare ciascun individuo, che per sè stes-so è un tutto perfetto e solitario, in parte d'un tutto piùgrande, da cui quest'individuo riceva in certo qual modola vita e l'essere; d'alterare la costituzione dell'uomo perrinforzarla; di sostituire un'esistenza parziale e moraleall'esistenza fisica ed indipendente che noi abbiamo rice-vuta dalla natura. Bisogna, in una parola, che tolgaall'uomo le sue forze proprie per dargliene di estranee, edelle quali non possa far uso senza l'aiuto altrui. Più que-ste forze naturali sono morte e distrutte, più le acquisitediventan grandi e durevoli, e più eziandio l'instituzione èsalda e perfetta; di guisa che, se ciascun cittadino non ènulla, non può nulla se non col mezzo di tutti gli altri, e

di Licurgo abbia formato la felicità degli Spartani prima che siparlasse di loro nel resto della Grecia.

16 Grandezza e decadenza dei Romani, cap. I.

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Ci vorrebbero iddii per dar leggi agli uomini.Il medesimo ragionamento che faceva Caligola circa il

fatto, lo faceva Platone circa il diritto per definire l'uomocivile o reale, ch'ei cerca nel suo libro del Regno. Ma se èvero che un gran principe sia un uomo raro, che dovremodire di un grande legislatore? Il primo non ha se non daimitare il modello che il secondo deve proporre. Questi èil meccanico che inventa la macchina, e l'altro è l'operaioche l'assetta e la fa agire. “Nell'origine delle società, diceMontesquieu, i capi delle repubbliche formano l'istituzio-ne, e l'instituzione poscia forma i capi delle repubbli-che16”

Chi osa assumersi l'incarico di instituire un popolo,deve sentirsi capace di cambiare, per così dire, l'umananatura; di trasformare ciascun individuo, che per sè stes-so è un tutto perfetto e solitario, in parte d'un tutto piùgrande, da cui quest'individuo riceva in certo qual modola vita e l'essere; d'alterare la costituzione dell'uomo perrinforzarla; di sostituire un'esistenza parziale e moraleall'esistenza fisica ed indipendente che noi abbiamo rice-vuta dalla natura. Bisogna, in una parola, che tolgaall'uomo le sue forze proprie per dargliene di estranee, edelle quali non possa far uso senza l'aiuto altrui. Più que-ste forze naturali sono morte e distrutte, più le acquisitediventan grandi e durevoli, e più eziandio l'instituzione èsalda e perfetta; di guisa che, se ciascun cittadino non ènulla, non può nulla se non col mezzo di tutti gli altri, e

di Licurgo abbia formato la felicità degli Spartani prima che siparlasse di loro nel resto della Grecia.

16 Grandezza e decadenza dei Romani, cap. I.

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che la forza acquistata dal tutto sia uguale o superiorealla somma delle forze naturali di tutti gli individui, sipuò dire che la legislazione è giunta al più alto grado diperfezione cui possa aspirare.

Il legislatore è per ogni riguardo un uomo straordinarionello stato. Se dev'esserlo pel suo ingegno, non lo è menopel suo ufficio, che non è magistratura, non è sovranità.Questo ufficio, che costituisce la repubblica, non entranella sua costituzione; è una funzione particolare e supe-riore che non ha nulla di comune coll'imperio umano;imperocchè chi comanda agli uomini non deve comanda-re alle leggi, nè chi comanda alle leggi deve comandareagli uomini; altrimenti queste leggi, ministre delle suepassioni, spesso non farebbero che perpetuare le sue in-giustizie, ed egli non potrebbe mai evitare che particolaririguardi non alterassero la santità dell'opera sua.

Quando Licurgo diede leggi alla sua patria, cominciòcoll'abdicare al monarcato. La maggior parte delle cittàgreche usavano affidare l'instituzione delle loro leggi astranieri. Le moderne repubbliche dell'Italia imitaronospesso quest'uso; e quella di Ginevra fece altrettanto, e sene trovò contenta17. Roma, ne' suoi più bei tempi, vide ri-nascere nel suo seno tutti i delitti della tirannide, e videsiin procinto di perire, per avere riunito ne' medesimi indi-17 Coloro che considerano Calvino soltanto come teologo, cono-

scono male la vastità del suo genio. La compilazione dei nostrisavi editti, cui prese gran parte, gli fece tanto onore quanto lasua instituzione. Qualunque rivoluzione possa col tempo nasce-re nel nostro culto, finchè l'amor della patria e della libertà nonsarà spento in noi, la memoria di quel grand'uomo non verràmai abbastanza benedetta.

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che la forza acquistata dal tutto sia uguale o superiorealla somma delle forze naturali di tutti gli individui, sipuò dire che la legislazione è giunta al più alto grado diperfezione cui possa aspirare.

Il legislatore è per ogni riguardo un uomo straordinarionello stato. Se dev'esserlo pel suo ingegno, non lo è menopel suo ufficio, che non è magistratura, non è sovranità.Questo ufficio, che costituisce la repubblica, non entranella sua costituzione; è una funzione particolare e supe-riore che non ha nulla di comune coll'imperio umano;imperocchè chi comanda agli uomini non deve comanda-re alle leggi, nè chi comanda alle leggi deve comandareagli uomini; altrimenti queste leggi, ministre delle suepassioni, spesso non farebbero che perpetuare le sue in-giustizie, ed egli non potrebbe mai evitare che particolaririguardi non alterassero la santità dell'opera sua.

Quando Licurgo diede leggi alla sua patria, cominciòcoll'abdicare al monarcato. La maggior parte delle cittàgreche usavano affidare l'instituzione delle loro leggi astranieri. Le moderne repubbliche dell'Italia imitaronospesso quest'uso; e quella di Ginevra fece altrettanto, e sene trovò contenta17. Roma, ne' suoi più bei tempi, vide ri-nascere nel suo seno tutti i delitti della tirannide, e videsiin procinto di perire, per avere riunito ne' medesimi indi-17 Coloro che considerano Calvino soltanto come teologo, cono-

scono male la vastità del suo genio. La compilazione dei nostrisavi editti, cui prese gran parte, gli fece tanto onore quanto lasua instituzione. Qualunque rivoluzione possa col tempo nasce-re nel nostro culto, finchè l'amor della patria e della libertà nonsarà spento in noi, la memoria di quel grand'uomo non verràmai abbastanza benedetta.

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vidui l'autorità legislativa ed il potere sovrano.Però i decemviri stessi non si arrogarono mai il diritto

di far passare nessuna legge di loro propria autorità.“Niente di ciò che vi proponiamo, dicevano al popolo,può convertirsi in legge senza vostro consenso. Romani,siate voi medesimi gli autori delle leggi che debbono for-mare la vostra felicità”.

Chi compila le leggi non ha adunque, o non deve averenessun diritto legislativo, ed il popolo stesso, quand'ancoil volesse, non può spogliarsi di questo diritto incomuni-cabile; perchè, secondo il patto fondamentale, la sola vo-lontà generale è quella che obbliga i particolari, e non sipuò mai esser certi che una volontà particolare sia confu-sa colla volontà generale, se non dopo averla sottomessaai liberi suffragi del popolo: lo dissi già un'altra volta, manon è inutile il ripeterlo.

Così incontransi ad un tempo nell'opera della legisla-zione due cose che sembrano incompatibili: un'impresasuperiore alla forza umana, e, per eseguirla, un'autoritàche non è nulla.

Altra difficoltà che merita attenzione. I savi, che vo-gliono parlare al volgo il loro linguaggio invece del suo,non verrebbero intesi. Or vi sono mille specie d'idee im-possibili a tradursi nella lingua del popolo. Le mire trop-po generali e gli oggetti troppo lontani sono ugualmentefuor della sua capacità: ciascun individuo, non approvan-do altra forma di governo fuor quella che riguarda il suoparticolare interesse, avvisa difficilmente ai vantaggi cuideve ritrarre dalle continue privazioni che impongono lebuone leggi. Affinchè un popolo nascente gustar possa le

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vidui l'autorità legislativa ed il potere sovrano.Però i decemviri stessi non si arrogarono mai il diritto

di far passare nessuna legge di loro propria autorità.“Niente di ciò che vi proponiamo, dicevano al popolo,può convertirsi in legge senza vostro consenso. Romani,siate voi medesimi gli autori delle leggi che debbono for-mare la vostra felicità”.

Chi compila le leggi non ha adunque, o non deve averenessun diritto legislativo, ed il popolo stesso, quand'ancoil volesse, non può spogliarsi di questo diritto incomuni-cabile; perchè, secondo il patto fondamentale, la sola vo-lontà generale è quella che obbliga i particolari, e non sipuò mai esser certi che una volontà particolare sia confu-sa colla volontà generale, se non dopo averla sottomessaai liberi suffragi del popolo: lo dissi già un'altra volta, manon è inutile il ripeterlo.

Così incontransi ad un tempo nell'opera della legisla-zione due cose che sembrano incompatibili: un'impresasuperiore alla forza umana, e, per eseguirla, un'autoritàche non è nulla.

Altra difficoltà che merita attenzione. I savi, che vo-gliono parlare al volgo il loro linguaggio invece del suo,non verrebbero intesi. Or vi sono mille specie d'idee im-possibili a tradursi nella lingua del popolo. Le mire trop-po generali e gli oggetti troppo lontani sono ugualmentefuor della sua capacità: ciascun individuo, non approvan-do altra forma di governo fuor quella che riguarda il suoparticolare interesse, avvisa difficilmente ai vantaggi cuideve ritrarre dalle continue privazioni che impongono lebuone leggi. Affinchè un popolo nascente gustar possa le

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sane massime della politica, e seguire le regole fonda-mentali della ragion di stato, bisognerebbe che l'effettopotesse diventar la causa, che lo spirito sociale, chedebb'essere l'opera dell'instituzione, presiedesse alla in-stituzione medesima, e che gli uomini prima delle leggifossero quali debbono diventare per mezzo di esse. Cosìdunque il legislatore non potendo usare nè la forza, nè ilraziocinio, deve per necessità ricorrere ad un'autoritàd'ordine diverso, che possa attrarre senza violenza e per-suadere senza convincere.

Ecco il motivo per cui i padri delle nazioni furono co-stretti in tutti i tempi di ricorrere all'intervento del cielo,ed onorare gli dei della loro propria sapienza, affinchè ipopoli, sottomessi alle leggi dello stato come a quelledella natura, e riconoscendo il medesimo potere nella for-mazione dell'uomo ed in quella del comune, ubbidisserocon libertà e portassero docilmente il giogo della felicitàpubblica.

Questa ragione sublime, che s'innalza oltre la capacitàdegli uomini volgari, è quella di cui il legislatore mette ledecisioni in bocca agli immortali, per trascinare col mez-zo della divina autorità coloro che l'umana prudenza nonsaprebbe* muovere18. Ma non ispetta ad ogni uomo il farparlare gli dei, nè d'esserne creduto, quando si annunzia* Nell'originale cartaceo: saprebbero [nota per l'ed. Manuzio].18 "E veramente, dice Macchiavelli, mai non fu alcuno ordinatore

di leggi straordinarie in un popolo che non ricorresse a Dio,perchè altrimenti non sarebbero accettate; perchè sono moltibeni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sè ragionievidenti da potergli persuadere ad altrui". Discorsi sopra T. Li-vio, lib. 1, cap. XI.

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sane massime della politica, e seguire le regole fonda-mentali della ragion di stato, bisognerebbe che l'effettopotesse diventar la causa, che lo spirito sociale, chedebb'essere l'opera dell'instituzione, presiedesse alla in-stituzione medesima, e che gli uomini prima delle leggifossero quali debbono diventare per mezzo di esse. Cosìdunque il legislatore non potendo usare nè la forza, nè ilraziocinio, deve per necessità ricorrere ad un'autoritàd'ordine diverso, che possa attrarre senza violenza e per-suadere senza convincere.

Ecco il motivo per cui i padri delle nazioni furono co-stretti in tutti i tempi di ricorrere all'intervento del cielo,ed onorare gli dei della loro propria sapienza, affinchè ipopoli, sottomessi alle leggi dello stato come a quelledella natura, e riconoscendo il medesimo potere nella for-mazione dell'uomo ed in quella del comune, ubbidisserocon libertà e portassero docilmente il giogo della felicitàpubblica.

Questa ragione sublime, che s'innalza oltre la capacitàdegli uomini volgari, è quella di cui il legislatore mette ledecisioni in bocca agli immortali, per trascinare col mez-zo della divina autorità coloro che l'umana prudenza nonsaprebbe* muovere18. Ma non ispetta ad ogni uomo il farparlare gli dei, nè d'esserne creduto, quando si annunzia* Nell'originale cartaceo: saprebbero [nota per l'ed. Manuzio].18 "E veramente, dice Macchiavelli, mai non fu alcuno ordinatore

di leggi straordinarie in un popolo che non ricorresse a Dio,perchè altrimenti non sarebbero accettate; perchè sono moltibeni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sè ragionievidenti da potergli persuadere ad altrui". Discorsi sopra T. Li-vio, lib. 1, cap. XI.

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per loro interprete. La grand'anima del legislatore è ilvero miracolo che deve provare la sua missione. Qualun-que uomo può incider tavole di pietra, o comprare unoracolo, o fingere un segreto commercio con qualche di-vinità, od ammaestrare un uccello per parlargli all'orec-chio, o trovar altri mezzi grossolani d'imporre al popolo.Chi non saprà far altro, potrà bensì ragunare per avventu-ra una banda di stolti, ma non fonderà mai un imperio, el'opera sua stravagante perirà in breve con lui. Alcunivani prestigi formano un vincolo temporaneo; la sola sa-viezza lo rende durevole. La legge giudaica viva tuttavia,quella del figlio d'Ismaele, che dopo dieci secoli regge lametà del mondo, annunziano anche oggidì i grandi uomi-ni che le dettarono; e mentre la superba filosofia od ilcieco spirito di parte non vede in essi se non avventurosiimpostori, il vero politico ammira nelle loro instituzioniquel grande e possente genio che presiede ai durevoli sta-tuti.

Da tutto ciò non si deve concludere con Warburton19

che la politica e la religione abbiano fra noi un oggettocomune, ma che nell'origine delle nazioni l'una serve distrumento all'altra.

19 Celebre teologo inglese morto nel 1779, principalmente notoper un trattato intilolato: La divina missione di Mosè, 2 vol.

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per loro interprete. La grand'anima del legislatore è ilvero miracolo che deve provare la sua missione. Qualun-que uomo può incider tavole di pietra, o comprare unoracolo, o fingere un segreto commercio con qualche di-vinità, od ammaestrare un uccello per parlargli all'orec-chio, o trovar altri mezzi grossolani d'imporre al popolo.Chi non saprà far altro, potrà bensì ragunare per avventu-ra una banda di stolti, ma non fonderà mai un imperio, el'opera sua stravagante perirà in breve con lui. Alcunivani prestigi formano un vincolo temporaneo; la sola sa-viezza lo rende durevole. La legge giudaica viva tuttavia,quella del figlio d'Ismaele, che dopo dieci secoli regge lametà del mondo, annunziano anche oggidì i grandi uomi-ni che le dettarono; e mentre la superba filosofia od ilcieco spirito di parte non vede in essi se non avventurosiimpostori, il vero politico ammira nelle loro instituzioniquel grande e possente genio che presiede ai durevoli sta-tuti.

Da tutto ciò non si deve concludere con Warburton19

che la politica e la religione abbiano fra noi un oggettocomune, ma che nell'origine delle nazioni l'una serve distrumento all'altra.

19 Celebre teologo inglese morto nel 1779, principalmente notoper un trattato intilolato: La divina missione di Mosè, 2 vol.

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CAPITOLO VIIIDel popolo.

Siccome l'architetto, prima d'innalzare un grande edifi-zio, osserva il terreno per vedere se possa sostenerne ilpeso, così il savio istitutore non comincia col compilareleggi buone in sè stesse, ma esamina prima se il popolocui sono destinate sia capace di sopportarle. È per questomotivo che Platone ricusò di dar leggi agli Arcadi ed aiCirenesi, sapendo che que' due popoli erano ricchi e nonpotevano soffrire l'uguaglianza: per questo motivo furonoin Creta buone leggi e uomini cattivi, poichè Minossenon avea disciplinato che un popolo pieno di vizi.

Mille nazioni brillarono sulla terra, che non avrebberopotuto soffrire buone leggi; e quelle stesse che l'avrebbe-ro potuto, non ebbero in tutta la loro durata se non untempo brevissimo a ciò. I popoli al par degli uomini nonsono docili se non nella loro gioventù; invecchiando di-ventano incorregibili. Una volta che i costumi sono stabi-liti, e radicati i pregiudizi, è impresa pericolosa e vana ilvolerli riformare: il popolo non può nemmeno soffrireche si tocchino i suoi mali per distruggerli, simile a que-gli ammalati stupidi e pusillanimi che fremono alla vistadel medico.

Non è già che, come certe malattie turbano la mentedegli uomini e tolgon loro la memoria del passato, cosìnon si diano talvolta nella durata degli stati epoche vio-lente, in cui le rivoluzioni fanno sui popoli ciò che certecrisi fanno sugli individui, in cui l'orrore del passato tien

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CAPITOLO VIIIDel popolo.

Siccome l'architetto, prima d'innalzare un grande edifi-zio, osserva il terreno per vedere se possa sostenerne ilpeso, così il savio istitutore non comincia col compilareleggi buone in sè stesse, ma esamina prima se il popolocui sono destinate sia capace di sopportarle. È per questomotivo che Platone ricusò di dar leggi agli Arcadi ed aiCirenesi, sapendo che que' due popoli erano ricchi e nonpotevano soffrire l'uguaglianza: per questo motivo furonoin Creta buone leggi e uomini cattivi, poichè Minossenon avea disciplinato che un popolo pieno di vizi.

Mille nazioni brillarono sulla terra, che non avrebberopotuto soffrire buone leggi; e quelle stesse che l'avrebbe-ro potuto, non ebbero in tutta la loro durata se non untempo brevissimo a ciò. I popoli al par degli uomini nonsono docili se non nella loro gioventù; invecchiando di-ventano incorregibili. Una volta che i costumi sono stabi-liti, e radicati i pregiudizi, è impresa pericolosa e vana ilvolerli riformare: il popolo non può nemmeno soffrireche si tocchino i suoi mali per distruggerli, simile a que-gli ammalati stupidi e pusillanimi che fremono alla vistadel medico.

Non è già che, come certe malattie turbano la mentedegli uomini e tolgon loro la memoria del passato, cosìnon si diano talvolta nella durata degli stati epoche vio-lente, in cui le rivoluzioni fanno sui popoli ciò che certecrisi fanno sugli individui, in cui l'orrore del passato tien

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luogo d'obblio, ed in cui lo stato, sconvolto dalle guerrecivili, risorge, per così dire, dalle sue ceneri, e ripiglia ilvigore della gioventù uscendo dal seno della morte, Talefu Sparta ai tempi di Licurgo, tale fu Roma dopo i Tar-quini, e tali furono tra noi l'Olanda e la Svizzera dopo lacacciata dei tiranni.

Ma sono eventi rari; sono eccezioni, la cui ragione tro-vasi sempre nella particolare costituzione dello stato ec-cettuato. Tali eccezioni non succederebbero nemmenodue volte ad un medesimo popolo, perchè ei può rendersilibero finchè sia solamente barbaro, ma nol può piùquando la molla civile è guasta. Allora le turbolenze pos-sono distruggerlo senza che le rivoluzioni possano re-staurarlo, e non appena i suoi ceppi sono infranti, cadesmembrato e non esiste più: abbisogna piuttosto d'un pa-drone che d'un liberatore. Popoli liberi, rammentatevi diquesta massima: – Si può acquistare la libertà, ma nonmai ricuperarla.

Evvi per le nazioni come per gli uomini un tempo dimaturità, che bisogna aspettare prima di sottometterlealle leggi; ma la maturità d'un popolo non è sempre facilea conoscere, e se la si previene l'opera fallisce. Un popo-lo è disciplinabile nascendo, un altro non lo è in dieci se-coli. I Russi non saranno mai veramente inciviliti, perchèlo furono troppo presto. Pietro aveva il genio imitativo,ma non aveva il vero genio, quello che crea e fa tutto connulla. Alcune cose da lui operate eran buone, ma la mas-sima parte fuori di tempo. Vide che il suo popolo era bar-baro, ma non vide che non era maturo per la civiltà: lovolle incivilire, quando non bisognava far altro che ag-

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luogo d'obblio, ed in cui lo stato, sconvolto dalle guerrecivili, risorge, per così dire, dalle sue ceneri, e ripiglia ilvigore della gioventù uscendo dal seno della morte, Talefu Sparta ai tempi di Licurgo, tale fu Roma dopo i Tar-quini, e tali furono tra noi l'Olanda e la Svizzera dopo lacacciata dei tiranni.

Ma sono eventi rari; sono eccezioni, la cui ragione tro-vasi sempre nella particolare costituzione dello stato ec-cettuato. Tali eccezioni non succederebbero nemmenodue volte ad un medesimo popolo, perchè ei può rendersilibero finchè sia solamente barbaro, ma nol può piùquando la molla civile è guasta. Allora le turbolenze pos-sono distruggerlo senza che le rivoluzioni possano re-staurarlo, e non appena i suoi ceppi sono infranti, cadesmembrato e non esiste più: abbisogna piuttosto d'un pa-drone che d'un liberatore. Popoli liberi, rammentatevi diquesta massima: – Si può acquistare la libertà, ma nonmai ricuperarla.

Evvi per le nazioni come per gli uomini un tempo dimaturità, che bisogna aspettare prima di sottometterlealle leggi; ma la maturità d'un popolo non è sempre facilea conoscere, e se la si previene l'opera fallisce. Un popo-lo è disciplinabile nascendo, un altro non lo è in dieci se-coli. I Russi non saranno mai veramente inciviliti, perchèlo furono troppo presto. Pietro aveva il genio imitativo,ma non aveva il vero genio, quello che crea e fa tutto connulla. Alcune cose da lui operate eran buone, ma la mas-sima parte fuori di tempo. Vide che il suo popolo era bar-baro, ma non vide che non era maturo per la civiltà: lovolle incivilire, quando non bisognava far altro che ag-

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guerrirlo. Ei volle dapprima fare Tedeschi ed Inglesi,quando doveva cominciare col far de' Russi; impedì isudditi dal divenir mai quello che potrebbono essere, fa-cendoli persuasi d'esser quel che non sono. Così un pre-cettore francese educa il suo allievo in modo da brillareun momento nell'infanzia, e poi non esser mai nulla. L'impero russo vorrà soggiogare l'Europa, e sarà soggioga-to esso stesso. I Tartari, suoi sudditi o suoi vicini, diver-ranno i suoi padroni ed i nostri: questa rivoluzione parmicerta. Tutti i re d'Europa fanno a gara per accelerarla.

CAPITOLO IXContinuazione.

Siccome la natura ha dato un termine alla statura d'unuomo ben costituito, oltre il quale non fa più che gigantio nani, così, riguardo alla migliore costituzione d'uno sta-to, sonvi eziandio limiti all'estensione che può avere, af-finchè non diventi nè troppo grande per poter essere bengovernato, nè troppo piccolo onde poter mantenersi dasè. In ogni corpo politico evvi un maximum di forza chenon può oltrepassare, e da cui sovente si allontana a forzad'ampliarsi. Più il vincolo sociale s'estende* e più s'allen-ta; ed in generale uno stato piccolo è proporzionatamentepiù forte di uno grande.

Mille ragioni provano ad evidenza questa massima. Inprimo luogo, l'amministrazione si fa più difficile nelle

* Nell'originale cartaceo: s'intende [nota per l'ed. Manuzio].

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guerrirlo. Ei volle dapprima fare Tedeschi ed Inglesi,quando doveva cominciare col far de' Russi; impedì isudditi dal divenir mai quello che potrebbono essere, fa-cendoli persuasi d'esser quel che non sono. Così un pre-cettore francese educa il suo allievo in modo da brillareun momento nell'infanzia, e poi non esser mai nulla. L'impero russo vorrà soggiogare l'Europa, e sarà soggioga-to esso stesso. I Tartari, suoi sudditi o suoi vicini, diver-ranno i suoi padroni ed i nostri: questa rivoluzione parmicerta. Tutti i re d'Europa fanno a gara per accelerarla.

CAPITOLO IXContinuazione.

Siccome la natura ha dato un termine alla statura d'unuomo ben costituito, oltre il quale non fa più che gigantio nani, così, riguardo alla migliore costituzione d'uno sta-to, sonvi eziandio limiti all'estensione che può avere, af-finchè non diventi nè troppo grande per poter essere bengovernato, nè troppo piccolo onde poter mantenersi dasè. In ogni corpo politico evvi un maximum di forza chenon può oltrepassare, e da cui sovente si allontana a forzad'ampliarsi. Più il vincolo sociale s'estende* e più s'allen-ta; ed in generale uno stato piccolo è proporzionatamentepiù forte di uno grande.

Mille ragioni provano ad evidenza questa massima. Inprimo luogo, l'amministrazione si fa più difficile nelle

* Nell'originale cartaceo: s'intende [nota per l'ed. Manuzio].

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grandi distanze, come un peso divien più grave in cimad'una leva più grande. Si fa eziandio più onerosa manmano che si moltiplicano i gradi, imperocchè ogni cittàha dapprima la sua pagata dal popolo; ogni distretto lasua ancor pagata del popolo, poi ciascuna provincia,quindi i grandi governi, le satrapie, i vicereami, che biso-gna pagar sempre più caro man mano che si sale; e sem-pre a spese del povero popolo; finalmente viene l'ammi-nistrazione suprema che schiaccia tutto. Tanti carichi dis-sanguano continuamente i sudditi, i quali, lungi dall'esse-re governati meglio da tutti questi diversi ordini, lo sonomen bene che se ne avessero un solo superiore ad essi.Frattanto, appena appena rimangono rimedi per i casistraordinari, e quando è mestieri ricorrervi, lo stato èsempre all'orlo della sua rovina.

Ned è tutto: non solo il governo ha minor vigore e ce-lerità per far osservare le leggi, impedire le vessazioni,correggere gli abusi, prevenire i tentativi sediziosi chepossono farsi in luoghi lontani; ma il popolo ha meno af-fezione pe' suoi capi, che non vede mai, per la patria, chea' suoi occhi è come il mondo, e pe' suoi concittadini, lamaggior parte dei quali gli sono stranieri. Le medesimeleggi non possono convenire a tante provincie diverseche hanno costumi diversi, che vivono sotto climi oppo-sti, e non ponno soffrire la medesima forma di governo.Leggi diverse non generano se non discordia e confusio-ne fra popoli che, vivendo sotto i medesimi capi ed inuna continua comunione, passano o si accasano gli unipresso gli altri, e, soggetti ad altri costumi, non sannomai se il loro patrimonio appartenga proprio ad essi.

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grandi distanze, come un peso divien più grave in cimad'una leva più grande. Si fa eziandio più onerosa manmano che si moltiplicano i gradi, imperocchè ogni cittàha dapprima la sua pagata dal popolo; ogni distretto lasua ancor pagata del popolo, poi ciascuna provincia,quindi i grandi governi, le satrapie, i vicereami, che biso-gna pagar sempre più caro man mano che si sale; e sem-pre a spese del povero popolo; finalmente viene l'ammi-nistrazione suprema che schiaccia tutto. Tanti carichi dis-sanguano continuamente i sudditi, i quali, lungi dall'esse-re governati meglio da tutti questi diversi ordini, lo sonomen bene che se ne avessero un solo superiore ad essi.Frattanto, appena appena rimangono rimedi per i casistraordinari, e quando è mestieri ricorrervi, lo stato èsempre all'orlo della sua rovina.

Ned è tutto: non solo il governo ha minor vigore e ce-lerità per far osservare le leggi, impedire le vessazioni,correggere gli abusi, prevenire i tentativi sediziosi chepossono farsi in luoghi lontani; ma il popolo ha meno af-fezione pe' suoi capi, che non vede mai, per la patria, chea' suoi occhi è come il mondo, e pe' suoi concittadini, lamaggior parte dei quali gli sono stranieri. Le medesimeleggi non possono convenire a tante provincie diverseche hanno costumi diversi, che vivono sotto climi oppo-sti, e non ponno soffrire la medesima forma di governo.Leggi diverse non generano se non discordia e confusio-ne fra popoli che, vivendo sotto i medesimi capi ed inuna continua comunione, passano o si accasano gli unipresso gli altri, e, soggetti ad altri costumi, non sannomai se il loro patrimonio appartenga proprio ad essi.

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Gl'ingegni sono sopiti, ignorate le virtù, impuniti i vizi,in cosiffatta moltitudine d'uomini ignoti gli uni agli altri,ammassati in un medesimo luogo dalla sede della supre-ma amministrazione. I capi oppressi d'affari non vedono·nulla cogli occhi propri, governan lo stato delegati. Fi-nalmente le misure necessarie per mantenere l'autoritàgenerale, alla quale tanti uffiziali lontani vogliono sot-trarsi od imporre, assorbono tutte le cure pubbliche, lequali non si possono più indirizzare alla felicità del popo-lo, restandone appena quanto basta per difenderlo in casodi bisogno; ed è di tal guisa che un corpo troppo grandeper la sua costituzione, s'accascia e perisce schiacciatosotto il proprio peso.

Inoltre, lo stato deve darsi una certa base per esser so-lido, per resistere alle scosse cui non mancherà di prova-re, ed agli sforzi che sarà costretto fare per sostenersi:perchè tutti i popoli hanno una specie di forza centrifuga,per la quale agiscono continuamente gli uni contro gli al-tri, e tendono ad ingrandirsi a spese dei vicini, come ivortici di Cartesio. Così i fiacchi arrischiano di vedersi inbreve inghiottiti, e niuno può quasi conservarsi se nonmettendosi con tutti in una specie d'equilibrio, che rendala compressione dappertutto press'a poco uguale.

Da ciò si scorge che v'hanno motivo di ampliarsi e mo-tivo di restringersi, e non poco ingegno dimostra quel po-litico il quale trova tra l'uno e l'altro la proporzione piùvantaggiosa alla conservazione dello stato. In generale sipuò dire, che il primo non essendo se non esterno e rela-tivo, debb'essere subordinato all'altro, ch'è interno ed as-soluto. La prima cosa da ricercarsi è una sana e forte co-

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Gl'ingegni sono sopiti, ignorate le virtù, impuniti i vizi,in cosiffatta moltitudine d'uomini ignoti gli uni agli altri,ammassati in un medesimo luogo dalla sede della supre-ma amministrazione. I capi oppressi d'affari non vedono·nulla cogli occhi propri, governan lo stato delegati. Fi-nalmente le misure necessarie per mantenere l'autoritàgenerale, alla quale tanti uffiziali lontani vogliono sot-trarsi od imporre, assorbono tutte le cure pubbliche, lequali non si possono più indirizzare alla felicità del popo-lo, restandone appena quanto basta per difenderlo in casodi bisogno; ed è di tal guisa che un corpo troppo grandeper la sua costituzione, s'accascia e perisce schiacciatosotto il proprio peso.

Inoltre, lo stato deve darsi una certa base per esser so-lido, per resistere alle scosse cui non mancherà di prova-re, ed agli sforzi che sarà costretto fare per sostenersi:perchè tutti i popoli hanno una specie di forza centrifuga,per la quale agiscono continuamente gli uni contro gli al-tri, e tendono ad ingrandirsi a spese dei vicini, come ivortici di Cartesio. Così i fiacchi arrischiano di vedersi inbreve inghiottiti, e niuno può quasi conservarsi se nonmettendosi con tutti in una specie d'equilibrio, che rendala compressione dappertutto press'a poco uguale.

Da ciò si scorge che v'hanno motivo di ampliarsi e mo-tivo di restringersi, e non poco ingegno dimostra quel po-litico il quale trova tra l'uno e l'altro la proporzione piùvantaggiosa alla conservazione dello stato. In generale sipuò dire, che il primo non essendo se non esterno e rela-tivo, debb'essere subordinato all'altro, ch'è interno ed as-soluto. La prima cosa da ricercarsi è una sana e forte co-

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stituzione, e si deve tener più conto del vigore che nasceda un buon governo, che non dei mezzi procacciati da ungrande territorio.

Del resto, furon visti stati talmente costituiti, che la ne-cessità delle conquiste entrava nella loro stessa costitu-zione, ed i quali, per mantenersi, eran costretti a conti-nuamente ampliarsi. Forse compiacevansi assai diquest'avventurosa necessità, la quale però additava loro,col termine di loro grandezza, l'inevitabile istante dellacaduta.

CAPITOLO XContinuazione.

Si può misurare un corpo politico in due maniere, cioèdall'estensione del territorio e dal numero del popolo; etra l'una e l'altra di queste misure evvi un rapporto conve-nevole per dare allo stato la sua vera grandezza. Gli uo-mini formano lo stato, ed il terreno nutrisce gli uomini:questo rapporto è dunque che la terra basti al manteni-mento de' suoi abitanti, e che vi siano tanti abitanti quantipuò nutrirne la terra. In questa proporzione trovasi il ma-ximum di forza d'un dato numero di popolo: impercioc-chè se evvi soverchio terreno, onerosa ne diviene la cu-stodia, insufficiente la cultura, superfluo il prodotto, ed èla causa prossima delle guerre difensive; se non avveneabbastanza, lo stato per supplirvi trovasi in balia all'arbi-trio de' vicini, ed è la causa prossima delle guerre offensi-

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stituzione, e si deve tener più conto del vigore che nasceda un buon governo, che non dei mezzi procacciati da ungrande territorio.

Del resto, furon visti stati talmente costituiti, che la ne-cessità delle conquiste entrava nella loro stessa costitu-zione, ed i quali, per mantenersi, eran costretti a conti-nuamente ampliarsi. Forse compiacevansi assai diquest'avventurosa necessità, la quale però additava loro,col termine di loro grandezza, l'inevitabile istante dellacaduta.

CAPITOLO XContinuazione.

Si può misurare un corpo politico in due maniere, cioèdall'estensione del territorio e dal numero del popolo; etra l'una e l'altra di queste misure evvi un rapporto conve-nevole per dare allo stato la sua vera grandezza. Gli uo-mini formano lo stato, ed il terreno nutrisce gli uomini:questo rapporto è dunque che la terra basti al manteni-mento de' suoi abitanti, e che vi siano tanti abitanti quantipuò nutrirne la terra. In questa proporzione trovasi il ma-ximum di forza d'un dato numero di popolo: impercioc-chè se evvi soverchio terreno, onerosa ne diviene la cu-stodia, insufficiente la cultura, superfluo il prodotto, ed èla causa prossima delle guerre difensive; se non avveneabbastanza, lo stato per supplirvi trovasi in balia all'arbi-trio de' vicini, ed è la causa prossima delle guerre offensi-

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ve. Ogni popolo che per la sua posizione non ha altra al-ternativa fuorchè il commercio o la guerra, è debole in sèstesso, poichè dipende da' suoi vicini, dipende dagli av-venimenti, ed ha sempre una esistenza precaria e breve.Egli soggioga e cambia di posizione; od è soggiogato, enon è più niente. Ei non può serbarsi libero se non benpiccolo o ben grande.

Non si può dare in calcolo un rapporto fisso tra l'esten-sione di terra ed il numero d'uomini l'una all'altro baste-vole; sia per le differenze che s'incontrano nelle qualitàdel terreno, ne' suoi prodotti, nella influenza dei climi, siaper quelle che si osservano nei temperamenti degli uomi-ni che li abitano, dei quali taluni consumano poco in unpaese fertile, e molto gli altri in terreno ingrato. Bisognaancora aver riguardo alla maggiore o minore feconditàdelle donne, a quello che può avere il paese di più o menfavorevole alla popolazione, alla quantità della quale illegislatore può sperare di concorrervi per mezzo dellesue istituzioni: di modo ch'ei non deve fondare il suo giu-dizio su ciò che vede, ma su ciò che prevede, nè soffer-marsi tanto allo stato attuale della popolazione, quanto aquello cui essa deve naturalmente giugnere. Finalmentevi sono mille occasioni in cui gli accidenti particolari delluogo esigono o permettono che si abbracci più terreno diquanto non sembri necessario. Così dilaterassi molto inun paese montuoso, in cui i prodotti naturali, cioè i bo-schi, i pascoli, richiedano minor lavoro, in cui l'esperien-za insegna che le donne sono più feconde che nel piano,ed in cui un gran suolo inclinato non dà che una piccolabase orizzontale, la sola di cui bisogna tener conto per la

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ve. Ogni popolo che per la sua posizione non ha altra al-ternativa fuorchè il commercio o la guerra, è debole in sèstesso, poichè dipende da' suoi vicini, dipende dagli av-venimenti, ed ha sempre una esistenza precaria e breve.Egli soggioga e cambia di posizione; od è soggiogato, enon è più niente. Ei non può serbarsi libero se non benpiccolo o ben grande.

Non si può dare in calcolo un rapporto fisso tra l'esten-sione di terra ed il numero d'uomini l'una all'altro baste-vole; sia per le differenze che s'incontrano nelle qualitàdel terreno, ne' suoi prodotti, nella influenza dei climi, siaper quelle che si osservano nei temperamenti degli uomi-ni che li abitano, dei quali taluni consumano poco in unpaese fertile, e molto gli altri in terreno ingrato. Bisognaancora aver riguardo alla maggiore o minore feconditàdelle donne, a quello che può avere il paese di più o menfavorevole alla popolazione, alla quantità della quale illegislatore può sperare di concorrervi per mezzo dellesue istituzioni: di modo ch'ei non deve fondare il suo giu-dizio su ciò che vede, ma su ciò che prevede, nè soffer-marsi tanto allo stato attuale della popolazione, quanto aquello cui essa deve naturalmente giugnere. Finalmentevi sono mille occasioni in cui gli accidenti particolari delluogo esigono o permettono che si abbracci più terreno diquanto non sembri necessario. Così dilaterassi molto inun paese montuoso, in cui i prodotti naturali, cioè i bo-schi, i pascoli, richiedano minor lavoro, in cui l'esperien-za insegna che le donne sono più feconde che nel piano,ed in cui un gran suolo inclinato non dà che una piccolabase orizzontale, la sola di cui bisogna tener conto per la

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vegetazione. Al contrario, si può ristringersi in riva almare, anche in mezzo a rupi ed a sabbie quasi sterili, per-chè la pesca può supplirvi in gran parte al prodotto dellaterra, perchè gli uomini debbono essere più riuniti per re-spingere i pirati, e perchè così è più facile, per mezzodelle colonie, di liberare il paese dal soverchio numerodegli abitanti.

A queste condizioni, per istituire un popolo, uopo è ag-giugnerne ancor una che non può supplire a nessun'altra,ma senza la quale tutte le altre sono inutili, ed è che siabbia pace ed abbondanza; imperciocchè il tempo in cuisi ordina uno stato, è, come quello in cui formasi un bat-taglione, l'istante in cui il corpo è men capace di resisten-za e più facile a distruggere. Si resisterebbe meglio in undisordine assoluto, che in un momento di fermentazione,in cui ciascuno occupasi della sua fila, e non del pericolo.Se sopravvenisse in quel tempo di crisi una guerra, unacarestia, una sedizione, lo stato è inevitabilmente rove-sciato.

Non è già che durante queste burrasche non sianvimolti governi stabiliti, ma allora i distruttori dello statosono questi governi stessi. Gli usurpatori fanno semprenascere o scelgono questi tempi da turbolenza per farpassare, la mercè del pubblico spavento, leggi distruttiveche il popolo non adotterebbe mai in tempo di calma. Lascelta del momento dell'istituzione è uno dei caratteri ipiù sicuri, d'onde si può distinguere l'opera del legislatoreda quella del tiranno.

Qual popolo è dunque adatto alla legislazione? Coluiche, trovandosi già legato da qualche unione d'origine,

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vegetazione. Al contrario, si può ristringersi in riva almare, anche in mezzo a rupi ed a sabbie quasi sterili, per-chè la pesca può supplirvi in gran parte al prodotto dellaterra, perchè gli uomini debbono essere più riuniti per re-spingere i pirati, e perchè così è più facile, per mezzodelle colonie, di liberare il paese dal soverchio numerodegli abitanti.

A queste condizioni, per istituire un popolo, uopo è ag-giugnerne ancor una che non può supplire a nessun'altra,ma senza la quale tutte le altre sono inutili, ed è che siabbia pace ed abbondanza; imperciocchè il tempo in cuisi ordina uno stato, è, come quello in cui formasi un bat-taglione, l'istante in cui il corpo è men capace di resisten-za e più facile a distruggere. Si resisterebbe meglio in undisordine assoluto, che in un momento di fermentazione,in cui ciascuno occupasi della sua fila, e non del pericolo.Se sopravvenisse in quel tempo di crisi una guerra, unacarestia, una sedizione, lo stato è inevitabilmente rove-sciato.

Non è già che durante queste burrasche non sianvimolti governi stabiliti, ma allora i distruttori dello statosono questi governi stessi. Gli usurpatori fanno semprenascere o scelgono questi tempi da turbolenza per farpassare, la mercè del pubblico spavento, leggi distruttiveche il popolo non adotterebbe mai in tempo di calma. Lascelta del momento dell'istituzione è uno dei caratteri ipiù sicuri, d'onde si può distinguere l'opera del legislatoreda quella del tiranno.

Qual popolo è dunque adatto alla legislazione? Coluiche, trovandosi già legato da qualche unione d'origine,

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d'interesse o di convenzione, non ha ancora portato ilvero giogo delle leggi; quello che non ha nè costumi, nèsuperstizioni ben radicate; quello che non teme d'essereoppresso da un'improvvisa invasione; che, senza immi-schiarsi nelle quistioni de' vicini, può resistere solo a cia-scuno di essi o valersi dell'uno per respingere l'altro;quello del quale ogni membro può essere conosciuto datutti, ed in cui non si è costretti d'imporre ad un uomouna soma più grave di quella che un uomo possa portare;quello che può far senza degli altri popoli, e così ogni al-tro popolo di lui20; quello che non è ricco, nè povero, epuò bastare a sè stesso; quello finalmente che riunisce lasolidità d'un popolo antico colla docilità d'un popolo no-vello. Non è tanto quello che si ha da stabilire, quanto ciòche bisogna distruggere, che rende malagevole l'operadella legislazione; e ciò che rende così rara la riuscita, èl'impossibilità di trovare la semplicità della natura con-giunta ai bisogni della società. È vero che tutte questecondizioni trovansi difficilmente accoppiate; epperò po-chi sono gli stati bene costituiti.

In Europa evvi ancora un paese capace di legislazione,

20 Se di due popoli vicini l'uno non potesse fare senza l'altro, sa-rebbe questa una posizione durissima pel primo, e pericolosis-sima pel secondo. Qualunque nazione savia in simil caso saràsollecita di liberar l'altra da una tale dipendenza. La repubblicadi Thlascala, incorporata nell'impero del Messico, amò piutto-sto far senza sale che comprarne dai Messicani, ed anche accet-tarne gratuitamente. I savj Thlascalani conobbero l'insidia na-scosta sotto quella liberalità. Conservaronsi liberi, e quel picco-lo stato, chiuso in quel grande imperio, fu alla per fine lo stru-mento di sua rovina.

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d'interesse o di convenzione, non ha ancora portato ilvero giogo delle leggi; quello che non ha nè costumi, nèsuperstizioni ben radicate; quello che non teme d'essereoppresso da un'improvvisa invasione; che, senza immi-schiarsi nelle quistioni de' vicini, può resistere solo a cia-scuno di essi o valersi dell'uno per respingere l'altro;quello del quale ogni membro può essere conosciuto datutti, ed in cui non si è costretti d'imporre ad un uomouna soma più grave di quella che un uomo possa portare;quello che può far senza degli altri popoli, e così ogni al-tro popolo di lui20; quello che non è ricco, nè povero, epuò bastare a sè stesso; quello finalmente che riunisce lasolidità d'un popolo antico colla docilità d'un popolo no-vello. Non è tanto quello che si ha da stabilire, quanto ciòche bisogna distruggere, che rende malagevole l'operadella legislazione; e ciò che rende così rara la riuscita, èl'impossibilità di trovare la semplicità della natura con-giunta ai bisogni della società. È vero che tutte questecondizioni trovansi difficilmente accoppiate; epperò po-chi sono gli stati bene costituiti.

In Europa evvi ancora un paese capace di legislazione,

20 Se di due popoli vicini l'uno non potesse fare senza l'altro, sa-rebbe questa una posizione durissima pel primo, e pericolosis-sima pel secondo. Qualunque nazione savia in simil caso saràsollecita di liberar l'altra da una tale dipendenza. La repubblicadi Thlascala, incorporata nell'impero del Messico, amò piutto-sto far senza sale che comprarne dai Messicani, ed anche accet-tarne gratuitamente. I savj Thlascalani conobbero l'insidia na-scosta sotto quella liberalità. Conservaronsi liberi, e quel picco-lo stato, chiuso in quel grande imperio, fu alla per fine lo stru-mento di sua rovina.

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ed è l'isola di Corsica. Il valore e la costanza con cui quelprode popolo seppe ricuperare e difendere la sua libertà,meriterebbero che qualche uomo savio gl'insegnasse ilmodo di conservarla. Io nutro il presentimento che ungiorno quella piccola isola farà stupire l'Europa.

CAPITOLO XIDei vari sistemi di legislazione.

Se si ricerchi in che cosa consista precisamente il mas-simo dei beni, che debb'essere lo scopo di ogni sistemalegislativo, si troverà ch'ei si riduce in questi due precipuioggetti, la libertà e l'eguaglianza: la libertà, perchè ogniparticolare dipendenza è altrettanta forza tolta al corpodello stato; l'eguaglianza, perchè la libertà non può sussi-stere senz'essa.

Ho già detto che cosa sia libertà civile: riguardo poiall'uguaglianza, non bisogna intendere con questa parolache i gradi di potere e ricchezza siano assolutamenteuguali, ma solo che, quanto al potere, esso stia al di sottodi ogni violenza*, e non mai si eserciti se non in virtùdell'ordine e delle leggi; e, quanto alla ricchezza, chenessun cittadino sia talmente dovizioso da poterne com-prare un altro, e niuno talmente povero da esser costrettoa vendersi21: il che suppone, dal lato dei potenti, modera-

* Nell'originale cartaceo: quanto a potere, essa stia al di sotto diogni violenza [nota per l'ed. Manuzio].

21 Volete solido lo stato? ravvicinate i gradi estremi per quanto

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ed è l'isola di Corsica. Il valore e la costanza con cui quelprode popolo seppe ricuperare e difendere la sua libertà,meriterebbero che qualche uomo savio gl'insegnasse ilmodo di conservarla. Io nutro il presentimento che ungiorno quella piccola isola farà stupire l'Europa.

CAPITOLO XIDei vari sistemi di legislazione.

Se si ricerchi in che cosa consista precisamente il mas-simo dei beni, che debb'essere lo scopo di ogni sistemalegislativo, si troverà ch'ei si riduce in questi due precipuioggetti, la libertà e l'eguaglianza: la libertà, perchè ogniparticolare dipendenza è altrettanta forza tolta al corpodello stato; l'eguaglianza, perchè la libertà non può sussi-stere senz'essa.

Ho già detto che cosa sia libertà civile: riguardo poiall'uguaglianza, non bisogna intendere con questa parolache i gradi di potere e ricchezza siano assolutamenteuguali, ma solo che, quanto al potere, esso stia al di sottodi ogni violenza*, e non mai si eserciti se non in virtùdell'ordine e delle leggi; e, quanto alla ricchezza, chenessun cittadino sia talmente dovizioso da poterne com-prare un altro, e niuno talmente povero da esser costrettoa vendersi21: il che suppone, dal lato dei potenti, modera-

* Nell'originale cartaceo: quanto a potere, essa stia al di sotto diogni violenza [nota per l'ed. Manuzio].

21 Volete solido lo stato? ravvicinate i gradi estremi per quanto

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zione di beni e di credito, e dal lato dei deboli, modera-zione d'avarizia e di cupidigia.

Quest'uguaglianza, dicono essi, è un'utopia speculativada non potersi mettere in pratica. Ma se l'abuso è inevita-bile, non lo si dovrà forse almeno regolare? È appuntoperchè la forza delle cose tende sempre a distruggerel'eguaglianza, che la forza della legislazione deve sempretendere a mantenerla.

Ma questi oggetti generali di ogni buona istituzionedebbono modificarsi in ciascun paese secondo i rapportiche nascono, sia dalla situazione locale, sia dal caratteredegli abitanti, e dietro questi rapporti uopo è assegnare aciascun popolo un particolare sistema d'istituzione, chesia migliore, non già forse in sè stesso, ma per lo statocui si destina. Per esempio, il suolo è egli ingrato e steri-le, od il paese troppo angusto per gli abitanti? ebbene,datevi all'industria ed alle arti, i cui prodotti voi cambie-rete colle derrate che vi mancano. Occupate voi all'incon-tro ubertose pianure e fertili colline? In un terreno buonosiete voi poveri di abitanti? ebbene, prodigate ogni curavostra all'agricoltura, che moltiplica gli uomini, e caccia-te le arti che non farebbero se non se finir di spopolare ilpaese, accumulando in alcuni punti del territorio i pochiabitanti che ha22. Occupate voi i lidi estesi e comodi? co-

possibile; non soffrite nè opulenti, nè straccioni. Questi due sta-ti, naturalmente inseparabili, sono egualmente funesti al benecomune; dall'uno escono i fautori della tirannide, dall'altro i ti-ranni. Il traffico della pubblica libertà si fa sempre tra essi;l'uno la compra e l'altro la vende.

22 Qualche ramo di commercio estero, dice d'Argenson, non dif-fonde guari se non una falsa utilità per un reame in generale:

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zione di beni e di credito, e dal lato dei deboli, modera-zione d'avarizia e di cupidigia.

Quest'uguaglianza, dicono essi, è un'utopia speculativada non potersi mettere in pratica. Ma se l'abuso è inevita-bile, non lo si dovrà forse almeno regolare? È appuntoperchè la forza delle cose tende sempre a distruggerel'eguaglianza, che la forza della legislazione deve sempretendere a mantenerla.

Ma questi oggetti generali di ogni buona istituzionedebbono modificarsi in ciascun paese secondo i rapportiche nascono, sia dalla situazione locale, sia dal caratteredegli abitanti, e dietro questi rapporti uopo è assegnare aciascun popolo un particolare sistema d'istituzione, chesia migliore, non già forse in sè stesso, ma per lo statocui si destina. Per esempio, il suolo è egli ingrato e steri-le, od il paese troppo angusto per gli abitanti? ebbene,datevi all'industria ed alle arti, i cui prodotti voi cambie-rete colle derrate che vi mancano. Occupate voi all'incon-tro ubertose pianure e fertili colline? In un terreno buonosiete voi poveri di abitanti? ebbene, prodigate ogni curavostra all'agricoltura, che moltiplica gli uomini, e caccia-te le arti che non farebbero se non se finir di spopolare ilpaese, accumulando in alcuni punti del territorio i pochiabitanti che ha22. Occupate voi i lidi estesi e comodi? co-

possibile; non soffrite nè opulenti, nè straccioni. Questi due sta-ti, naturalmente inseparabili, sono egualmente funesti al benecomune; dall'uno escono i fautori della tirannide, dall'altro i ti-ranni. Il traffico della pubblica libertà si fa sempre tra essi;l'uno la compra e l'altro la vende.

22 Qualche ramo di commercio estero, dice d'Argenson, non dif-fonde guari se non una falsa utilità per un reame in generale:

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prite il mare di vascelli, coltivate il commercio e la navi-gazione, e voi otterrete un'esistenza splendida, ma breve.Sui vostri lidi il mare non bagna se non rupi quasi inac-cessibili? rimanete barbari ed ittiofagi, e voi vivrete piùtranquilli, migliori forse, e certo più felici. In una parola,oltre alle massime comuni a tutti, ogni popolo contiene insè qualche causa che lo ordina in un modo particolare, erende la sua legislazione propria a lui solo. Così un tem-po gli ebrei, e recentemente gli arabi, ebbero per oggettoprincipale la religione, gli Ateniesi le lettere, Cartagine eTiro il commercio, Rodi la marina, Sparta la guerra eRoma la virtù. L'autore dello spirito delle leggi mostrò inmoltissimi esempi con qual arte il legislatore dirigal'instituzione verso ciascuno di questi obbietti.

La costituzione di uno stato è veramente soda e dure-vole, quando le convenienze sono talmente osservate, chei rapporti naturali e le leggi vanno sempre d'accordo suimedesimi punti, e queste non fanno altro se non assicura-re, per dir così, accompagnare e rettificare quelli. Ma seil legislatore, ingannandosi nel suo oggetto, prendesse unprincipio diverso da quello che nasce dalla natura dellecose; che l'uno tenda alla servitù, l'altro alla libertà, l'unoalle ricchezze, l'altro alla popolazione, l'uno alla pace,l'altro alle conquiste, allora vedrebbonsi le leggi insensi-bilmente indebolirsi, la costituzione alterarsi, e lo statonon cesserà d'essere agitato finchè non sia distrutto ocambiato, e l'invincibile natura non abbia ripreso il suoimperio.

può arricchire alcuni privati, anche alcune città, ma l'intera na-zione non ci guadagna nulla, ed il popolo non istà meglio.

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prite il mare di vascelli, coltivate il commercio e la navi-gazione, e voi otterrete un'esistenza splendida, ma breve.Sui vostri lidi il mare non bagna se non rupi quasi inac-cessibili? rimanete barbari ed ittiofagi, e voi vivrete piùtranquilli, migliori forse, e certo più felici. In una parola,oltre alle massime comuni a tutti, ogni popolo contiene insè qualche causa che lo ordina in un modo particolare, erende la sua legislazione propria a lui solo. Così un tem-po gli ebrei, e recentemente gli arabi, ebbero per oggettoprincipale la religione, gli Ateniesi le lettere, Cartagine eTiro il commercio, Rodi la marina, Sparta la guerra eRoma la virtù. L'autore dello spirito delle leggi mostrò inmoltissimi esempi con qual arte il legislatore dirigal'instituzione verso ciascuno di questi obbietti.

La costituzione di uno stato è veramente soda e dure-vole, quando le convenienze sono talmente osservate, chei rapporti naturali e le leggi vanno sempre d'accordo suimedesimi punti, e queste non fanno altro se non assicura-re, per dir così, accompagnare e rettificare quelli. Ma seil legislatore, ingannandosi nel suo oggetto, prendesse unprincipio diverso da quello che nasce dalla natura dellecose; che l'uno tenda alla servitù, l'altro alla libertà, l'unoalle ricchezze, l'altro alla popolazione, l'uno alla pace,l'altro alle conquiste, allora vedrebbonsi le leggi insensi-bilmente indebolirsi, la costituzione alterarsi, e lo statonon cesserà d'essere agitato finchè non sia distrutto ocambiato, e l'invincibile natura non abbia ripreso il suoimperio.

può arricchire alcuni privati, anche alcune città, ma l'intera na-zione non ci guadagna nulla, ed il popolo non istà meglio.

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CAPITOLO XIIDivisione delle leggi.

Per ordinare il tutto, o dare la miglior forma possibilealla cosa pubblica, sonovi diverse relazioni da conside-rarsi. Prima, l'azione del corpo intiero agente su sè stesso,vale a dire il rapporto del tutto al tutto, o del sovrano allostato, e questo rapporto è composto di quello dei terminiintermedj, come vedremo qui appresso.

Le leggi che regolano questo rapporto appellansi leggipolitiche, ed eziandio leggi fondamentali, e non senza ra-gione, ove siano savie; perchè se in uno stato non vi ha senon una maniera buona d'ordinarlo, il popolo che l'ha tro-vata deve attenervisi: ma se l'ordine stabilito è cattivo,perchè si piglieranno per fondamentali leggi che gl'impe-discono d'esser buono? D'altra parte, in ogni stato di cau-sa, un popolo è sempre padrone di cambiare le sue leggi,anche le migliori; imperocchè, se a lui piaccia di farsi delmale da per sè, chi ha il diritto d'impedirnelo?

La seconda relazione è quella dei membri tra sè o colcorpo intiero; e questo rapporto debb'essere al primo ri-guardo piccolo ed al secondo grande per quant'è possibi-le; in guisa che ogni cittadino sia in una perfetta indipen-denza da tutti gli altri, ed in una dipendenza eccessiva dalcomune: il che si ottiene sempre co' medesimi mezzi, im-perocchè sola la forza dello stato formi la libertà de' suoimembri. Da questo secondo rapporto nascono le leggi ci-vili.

Si può considerare una terza sorta di relazione tra

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CAPITOLO XIIDivisione delle leggi.

Per ordinare il tutto, o dare la miglior forma possibilealla cosa pubblica, sonovi diverse relazioni da conside-rarsi. Prima, l'azione del corpo intiero agente su sè stesso,vale a dire il rapporto del tutto al tutto, o del sovrano allostato, e questo rapporto è composto di quello dei terminiintermedj, come vedremo qui appresso.

Le leggi che regolano questo rapporto appellansi leggipolitiche, ed eziandio leggi fondamentali, e non senza ra-gione, ove siano savie; perchè se in uno stato non vi ha senon una maniera buona d'ordinarlo, il popolo che l'ha tro-vata deve attenervisi: ma se l'ordine stabilito è cattivo,perchè si piglieranno per fondamentali leggi che gl'impe-discono d'esser buono? D'altra parte, in ogni stato di cau-sa, un popolo è sempre padrone di cambiare le sue leggi,anche le migliori; imperocchè, se a lui piaccia di farsi delmale da per sè, chi ha il diritto d'impedirnelo?

La seconda relazione è quella dei membri tra sè o colcorpo intiero; e questo rapporto debb'essere al primo ri-guardo piccolo ed al secondo grande per quant'è possibi-le; in guisa che ogni cittadino sia in una perfetta indipen-denza da tutti gli altri, ed in una dipendenza eccessiva dalcomune: il che si ottiene sempre co' medesimi mezzi, im-perocchè sola la forza dello stato formi la libertà de' suoimembri. Da questo secondo rapporto nascono le leggi ci-vili.

Si può considerare una terza sorta di relazione tra

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l'uomo e la legge, cioè quella della disubbidienza allapena; e questa dà origine alle leggi criminali, che in fon-do sono piuttosto la sanzione di tutte le altre, che non unaspecie particolare di leggi.

A queste tre sorta di leggi se ne aggiugne una quarta,la più importante di tutte, che non s'incide nè sul marmo,nè sul bronzo, ma si scolpisce nel cuore dei cittadini; cheforma la vera costituzione dello stato; che piglia tutti igiorni novella forza, rianima o supplisce le altre leggiquando invecchiano o si spengono, conserva un popolonello spirito di sua istituzione, e sostituisce insensibil-mente la forza dell'abitudine a quella dell'autorità. Io par-lo degli usi, dei costumi, e soprattutto dell'opinione, parteignota ai nostri politici, ma da cui dipende il successo ditutte le altre; parte, della quale il grande legislatore si oc-cupa in segreto, mentre sembra limitarsi a particolari re-golamenti, i quali non sono altro fuorchè l'armadura dellavôlta, di cui i costumi, più lenti a nascere, formano alfinela saldissima chiave.

Fra queste diverse classi, le leggi politiche che costi-tuiscono la forma del governo, sono le sole relative almio soggetto.

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l'uomo e la legge, cioè quella della disubbidienza allapena; e questa dà origine alle leggi criminali, che in fon-do sono piuttosto la sanzione di tutte le altre, che non unaspecie particolare di leggi.

A queste tre sorta di leggi se ne aggiugne una quarta,la più importante di tutte, che non s'incide nè sul marmo,nè sul bronzo, ma si scolpisce nel cuore dei cittadini; cheforma la vera costituzione dello stato; che piglia tutti igiorni novella forza, rianima o supplisce le altre leggiquando invecchiano o si spengono, conserva un popolonello spirito di sua istituzione, e sostituisce insensibil-mente la forza dell'abitudine a quella dell'autorità. Io par-lo degli usi, dei costumi, e soprattutto dell'opinione, parteignota ai nostri politici, ma da cui dipende il successo ditutte le altre; parte, della quale il grande legislatore si oc-cupa in segreto, mentre sembra limitarsi a particolari re-golamenti, i quali non sono altro fuorchè l'armadura dellavôlta, di cui i costumi, più lenti a nascere, formano alfinela saldissima chiave.

Fra queste diverse classi, le leggi politiche che costi-tuiscono la forma del governo, sono le sole relative almio soggetto.

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LIBRO TERZO

Prima di parlare delle varie forme di governo, cer-chiam di fissare il senso preciso di questa parola, che finqui non è stata bene spiegata ancora.

CAPITOLO IDel governo in generale.

Avverto il lettore che questo capitolo debb'essere lettoposatamente, perchè io non conosco l'arte d'esser chiaroper chi non vuole stare attento.

Ogni libera azione viene prodotta da due cagioni: l'unamorale, cioè la volontà che determina l'atto; l'altra fisica,cioè il potere che l'eseguisce. Quando cammino verso unoggetto, bisogna prima ch'io ci voglia ire, e poi che i mieipiedi mi vi portino. Se un paralitico volesse correre, edun uomo lesto nol volesse, rimarranno tutti e due al loroposto. Il corpo politico ha i medesimi motori: vi si distin-guono pure la forza e la volontà, questa sotto il nome dipotere legislativo, l'altra sotto il nome di potere esecuti-vo. Senza il loro concorso nulla vi si fa o vi si deve fare.

Abbiamo visto che il potere legislativo spetta al popo-lo, e non può spettare se non a lui. All'incontro si vedefacilmente, dai principj qui sopra stabiliti, che il potereesecutivo non può appartenere alla generalità come legi-

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LIBRO TERZO

Prima di parlare delle varie forme di governo, cer-chiam di fissare il senso preciso di questa parola, che finqui non è stata bene spiegata ancora.

CAPITOLO IDel governo in generale.

Avverto il lettore che questo capitolo debb'essere lettoposatamente, perchè io non conosco l'arte d'esser chiaroper chi non vuole stare attento.

Ogni libera azione viene prodotta da due cagioni: l'unamorale, cioè la volontà che determina l'atto; l'altra fisica,cioè il potere che l'eseguisce. Quando cammino verso unoggetto, bisogna prima ch'io ci voglia ire, e poi che i mieipiedi mi vi portino. Se un paralitico volesse correre, edun uomo lesto nol volesse, rimarranno tutti e due al loroposto. Il corpo politico ha i medesimi motori: vi si distin-guono pure la forza e la volontà, questa sotto il nome dipotere legislativo, l'altra sotto il nome di potere esecuti-vo. Senza il loro concorso nulla vi si fa o vi si deve fare.

Abbiamo visto che il potere legislativo spetta al popo-lo, e non può spettare se non a lui. All'incontro si vedefacilmente, dai principj qui sopra stabiliti, che il potereesecutivo non può appartenere alla generalità come legi-

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slatrice o sovrana; perchè questo potere non consiste senon in atti particolari, che non sono di competenza dellalegge, nè per conseguenza di quella del sovrano, i cui attinon ponno essere altro fuorchè leggi.

È dunque necessario alla forza pubblica un agente pro-prio che la riunisca e la metta in opera secondo le dire-zioni della volontà generale, che serva alla comunicazio-ne dello stato e del sovrano, che faccia in certa qual guisanella persona pubblica ciò che fa nell'uomo l'unionedell'anima e del corpo. Ecco qual è nello stato la ragionedel governo, male a proposito confuso col sovrano, di cuiè solo il ministro.

Che cos'è adunque il governo? Un corpo intermediostabilito tra i sudditi ed il sovrano per la loro reciprocacorrispondenza, incaricato della esecuzione delle leggi, edel mantenimento della libertà, civile o politica.

I membri di questo corpo appellansi magistrati o re,vale a dire governatori, ed i corpo intero porta il nome diprincipe23. Così, coloro che pretendono che l'atto col qua-le un popolo si sottomette ad alcuni capi non sia un con-tratto, hanno grande ragione. Non è assolutamente se nonuna commissione, un impiego, nel quale, semplici uffi-ziali del sovrano, essi esercitano in suo nome il potereonde li ha fatti depositari, e ch'ei può limitare, modificaree riprendere quando gli piace; l'alienazione di un tale di-ritto essendo incompatibile colla natura del corpo sociale,e contrario allo scopo d'associazione.

Io chiamo dunque governo o suprema amministrazio-

23 Così a Venezia si dava al collegio il nome di serenissimo prin-cipe anche quando non eravi presente il doge.

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slatrice o sovrana; perchè questo potere non consiste senon in atti particolari, che non sono di competenza dellalegge, nè per conseguenza di quella del sovrano, i cui attinon ponno essere altro fuorchè leggi.

È dunque necessario alla forza pubblica un agente pro-prio che la riunisca e la metta in opera secondo le dire-zioni della volontà generale, che serva alla comunicazio-ne dello stato e del sovrano, che faccia in certa qual guisanella persona pubblica ciò che fa nell'uomo l'unionedell'anima e del corpo. Ecco qual è nello stato la ragionedel governo, male a proposito confuso col sovrano, di cuiè solo il ministro.

Che cos'è adunque il governo? Un corpo intermediostabilito tra i sudditi ed il sovrano per la loro reciprocacorrispondenza, incaricato della esecuzione delle leggi, edel mantenimento della libertà, civile o politica.

I membri di questo corpo appellansi magistrati o re,vale a dire governatori, ed i corpo intero porta il nome diprincipe23. Così, coloro che pretendono che l'atto col qua-le un popolo si sottomette ad alcuni capi non sia un con-tratto, hanno grande ragione. Non è assolutamente se nonuna commissione, un impiego, nel quale, semplici uffi-ziali del sovrano, essi esercitano in suo nome il potereonde li ha fatti depositari, e ch'ei può limitare, modificaree riprendere quando gli piace; l'alienazione di un tale di-ritto essendo incompatibile colla natura del corpo sociale,e contrario allo scopo d'associazione.

Io chiamo dunque governo o suprema amministrazio-

23 Così a Venezia si dava al collegio il nome di serenissimo prin-cipe anche quando non eravi presente il doge.

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ne il legittimo esercizio del potere esecutivo, e principe omagistrato l'uomo od il corpo incaricato di questa ammi-nistrazione.

Nel governo trovansi le forze intermedie, i cui rapportiformano quello del tutto al tutto o del sovrano allo stato.Quest'ultimo rapporto può essere rappresentato da quellodegli estremi di una proporzione continua, la cui mediaproporzionale è il governo. Il governo riceve dal sovranogli ordini e li trasmette al popolo; ed affinchè lo stato siabene equilibrato, bisogna che vi sia, tutto compensato,uguaglianza tra il prodotto o il potere del governo presoin sè stesso, ed il prodotto o il potere dei cittadini, che daun lato sono sovrani e sudditi dall'altro.

Inoltre, non si potrebbe alterare nessuno dei tre terminisenza rompere all'istante la proporzione. Se il sovranovuole governare, od il magistrato emanar leggi, o se isudditi ricusano di ubbidire, all'ordine succede lo scom-piglio, la forza e la volontà non agiscono più d'accordo, elo stato disciolto cade così nel despotismo o nell'anar-chia. Finalmente, siccome vi ha una sola media propor-zionale tra ciascun rapporto, così vi ha un solo governobuono possibile in uno stato. Ma, come mille eventi pos-sono mutare i rapporti di un popolo, non solo diversi go-verni possono esser buoni a diversi popoli, ma al medesi-mo popolo in tempi diversi.

Per cercar di dare un'idea dei vari rapporti che regnarpossono infra questi due estremi, io prenderò ad esempioil numero del popolo, siccome un rapporto più facile adesprimersi.

Supponiamo che lo stato sia composto di diecimila cit-

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ne il legittimo esercizio del potere esecutivo, e principe omagistrato l'uomo od il corpo incaricato di questa ammi-nistrazione.

Nel governo trovansi le forze intermedie, i cui rapportiformano quello del tutto al tutto o del sovrano allo stato.Quest'ultimo rapporto può essere rappresentato da quellodegli estremi di una proporzione continua, la cui mediaproporzionale è il governo. Il governo riceve dal sovranogli ordini e li trasmette al popolo; ed affinchè lo stato siabene equilibrato, bisogna che vi sia, tutto compensato,uguaglianza tra il prodotto o il potere del governo presoin sè stesso, ed il prodotto o il potere dei cittadini, che daun lato sono sovrani e sudditi dall'altro.

Inoltre, non si potrebbe alterare nessuno dei tre terminisenza rompere all'istante la proporzione. Se il sovranovuole governare, od il magistrato emanar leggi, o se isudditi ricusano di ubbidire, all'ordine succede lo scom-piglio, la forza e la volontà non agiscono più d'accordo, elo stato disciolto cade così nel despotismo o nell'anar-chia. Finalmente, siccome vi ha una sola media propor-zionale tra ciascun rapporto, così vi ha un solo governobuono possibile in uno stato. Ma, come mille eventi pos-sono mutare i rapporti di un popolo, non solo diversi go-verni possono esser buoni a diversi popoli, ma al medesi-mo popolo in tempi diversi.

Per cercar di dare un'idea dei vari rapporti che regnarpossono infra questi due estremi, io prenderò ad esempioil numero del popolo, siccome un rapporto più facile adesprimersi.

Supponiamo che lo stato sia composto di diecimila cit-

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tadini. Il sovrano non può considerarsi se non collettiva-mente ed in corpo, ma ciascun particolare, in qualità disuddito, è considerato come individuo: così il sovrano staal suddito come diecimila sta ad uno, vale a dire che cia-scun membro dello stato non ha per sua parte la diecimil-lesima parte dell'autorità sovrana, benchè le stia tutt'affat-to sottomesso. Che il popolo sia composto di centomilauomini, lo stato dei sudditi non cambia, e ciascuno portaegualmente tutto l'imperio delle leggi, mentre il suo suf-fragio, ristretto ad un centimillesimo, ha dieci volte menod'influenza nella loro compilazione. Allora il suddito ri-manendo sempre uno, il rapporto del sovrano aumenta inragione del numero dei cittadini. D'onde ne viene che piùlo stato si amplia, e più diminuisce la libertà.

Quando io dico che il rapporto aumenta, intendo ches'allontana dall'uguaglianza. Così, più il rapporto è gran-de nel senso dei geometri, e minor rapporto evvi nel sen-so comune; nel primo, il rapporto, considerato secondo laquantità, si misura dall'esponente; e nell'altro, considera-to secondo l'identità, si valuta dalla similitudine.

Ora, meno le volontà particolari si riferiscono alla vo-lontà generale, vale a dire i costumi alle leggi, e più laforza reprimente deve aumentare. Dunque il governo, peresser buono, debb'essere relativamente più forte a misurache il popolo è più numeroso.

D'altra parte, l'ingrandimento dello stato dando ai de-positari della pubblica autorità maggiori tentazioni emezzi di abusare del loro potere, più il governo deve averforza per contenere d popolo, e più il sovrano deve aver-ne a sua volta per frenare i governo. Qui non parlo di una

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tadini. Il sovrano non può considerarsi se non collettiva-mente ed in corpo, ma ciascun particolare, in qualità disuddito, è considerato come individuo: così il sovrano staal suddito come diecimila sta ad uno, vale a dire che cia-scun membro dello stato non ha per sua parte la diecimil-lesima parte dell'autorità sovrana, benchè le stia tutt'affat-to sottomesso. Che il popolo sia composto di centomilauomini, lo stato dei sudditi non cambia, e ciascuno portaegualmente tutto l'imperio delle leggi, mentre il suo suf-fragio, ristretto ad un centimillesimo, ha dieci volte menod'influenza nella loro compilazione. Allora il suddito ri-manendo sempre uno, il rapporto del sovrano aumenta inragione del numero dei cittadini. D'onde ne viene che piùlo stato si amplia, e più diminuisce la libertà.

Quando io dico che il rapporto aumenta, intendo ches'allontana dall'uguaglianza. Così, più il rapporto è gran-de nel senso dei geometri, e minor rapporto evvi nel sen-so comune; nel primo, il rapporto, considerato secondo laquantità, si misura dall'esponente; e nell'altro, considera-to secondo l'identità, si valuta dalla similitudine.

Ora, meno le volontà particolari si riferiscono alla vo-lontà generale, vale a dire i costumi alle leggi, e più laforza reprimente deve aumentare. Dunque il governo, peresser buono, debb'essere relativamente più forte a misurache il popolo è più numeroso.

D'altra parte, l'ingrandimento dello stato dando ai de-positari della pubblica autorità maggiori tentazioni emezzi di abusare del loro potere, più il governo deve averforza per contenere d popolo, e più il sovrano deve aver-ne a sua volta per frenare i governo. Qui non parlo di una

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forza assoluta, ma della forza relativa delle diverse partidello stato.

Da questo duplice rapporto ne consegue che la propor-zione continua tra il sovrano, il principe ed il popolo nonè un'idea arbitraria, ma una necessaria conseguenza dellanatura del corpo politico. Ne segue ancora, che l'uno de-gli estremi, cioè il popolo come suddito, essendo fisso erappresentato dall'unità, ogniqualvolta la ragione raddop-piata aumenta o diminuisce, la ragion semplice aumentao diminuisce parimente, e per conseguenza, il terminemedio è cambiato. Il che dimostra non esservi una costi-tuzione di governo unica ed assoluta, ma potervi esseretanti governi diversi in natura quanti stati diversi in gran-dezza.

Se, mettendo in ridicolo questo sistema, si dicesse, cheper trovare questa media proporzionale e formare il cor-po del governo, non bisogna far altro, secondo me, cheestrarre la radice quadrata del numero del popolo, io ri-sponderei che qui non prendo questo numero se non perun esempio; che i rapporti di cui parlo non si misuranosoltanto dal numero degli uomini, ma in generale dallaquantità d'azione, la quale si combina per via d'un'infinitàdi cause; che, del resto, se, per esprimermi più breve,adopero per poco alcuni termini di geometria, io nonignoro tuttavia non potersi ottenere la precisione geome-trica nelle quantità morali.

Il governo è in piccolo ciò che è in grande il corpo po-litico che lo contiene. È una persona morale dotata di cer-te facoltà, attiva come il sovrano, passiva come lo stato,la quale può scomporsi in altri simili rapporti; d'onde na-

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forza assoluta, ma della forza relativa delle diverse partidello stato.

Da questo duplice rapporto ne consegue che la propor-zione continua tra il sovrano, il principe ed il popolo nonè un'idea arbitraria, ma una necessaria conseguenza dellanatura del corpo politico. Ne segue ancora, che l'uno de-gli estremi, cioè il popolo come suddito, essendo fisso erappresentato dall'unità, ogniqualvolta la ragione raddop-piata aumenta o diminuisce, la ragion semplice aumentao diminuisce parimente, e per conseguenza, il terminemedio è cambiato. Il che dimostra non esservi una costi-tuzione di governo unica ed assoluta, ma potervi esseretanti governi diversi in natura quanti stati diversi in gran-dezza.

Se, mettendo in ridicolo questo sistema, si dicesse, cheper trovare questa media proporzionale e formare il cor-po del governo, non bisogna far altro, secondo me, cheestrarre la radice quadrata del numero del popolo, io ri-sponderei che qui non prendo questo numero se non perun esempio; che i rapporti di cui parlo non si misuranosoltanto dal numero degli uomini, ma in generale dallaquantità d'azione, la quale si combina per via d'un'infinitàdi cause; che, del resto, se, per esprimermi più breve,adopero per poco alcuni termini di geometria, io nonignoro tuttavia non potersi ottenere la precisione geome-trica nelle quantità morali.

Il governo è in piccolo ciò che è in grande il corpo po-litico che lo contiene. È una persona morale dotata di cer-te facoltà, attiva come il sovrano, passiva come lo stato,la quale può scomporsi in altri simili rapporti; d'onde na-

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sce, per conseguenza, una nuova proporzione, un'altraancora in questa, secondo l'ordine dei tribunali, fintanto-chè si giunga ad un mezzo termine indivisibile, vale adire ad un solo capo o magistrato supremo, che si puòrappresentarsi in mezzo a questa progressione comel'unità fra la serie delle frazioni e quella dei numeri.

Senza darci fastidio di questa moltiplicazione di termi-ni, contentiamoci di considerare il governo come un nuo-vo corpo nello stato, distinto dal popolo e dal sovrano, eintermediario tra l'uno e l'altro.

Fra questi due corpi corre questa essenziale differenza,che lo stato esiste da sè, ed il governo non esiste se nonpel sovrano. Così la volontà dominante del principe nonè, o non deve essere se non la volontà generale o la leg-ge; la sua forza non è che la forza pubblica in lui concen-trata: non appena vuole desumere da sè stesso qualcheatto assoluto ed indipendente, il vincolo del tutto comin-cia ad allentarsi. Se finalmente avvenisse che il principeavesse una volontà particolare più attiva di quella del so-vrano, e che, per ubbidire a cotesta volontà particolare,facesse uso della forza pubblica che sta nelle sue mani, inguisa che si avessero, per così dire, due sovrani, l'uno didiritto e l'altro di fatto, l'unione sociale ad un tratto scom-parirebbe, e il corpo politico sarebbe disciolto.

Perciò, affinchè il corpo del governo abbia un'esisten-za, una vita reale che lo distingua dal corpo dello stato;affinchè tutti i suoi membri possano agire d'accordo e ri-spondere al fine per cui venne istituito, gli abbisogna unio particolare, una sensibilità comune ai suoi membri,una forza, una volontà propria che tenda alla sua conser-

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sce, per conseguenza, una nuova proporzione, un'altraancora in questa, secondo l'ordine dei tribunali, fintanto-chè si giunga ad un mezzo termine indivisibile, vale adire ad un solo capo o magistrato supremo, che si puòrappresentarsi in mezzo a questa progressione comel'unità fra la serie delle frazioni e quella dei numeri.

Senza darci fastidio di questa moltiplicazione di termi-ni, contentiamoci di considerare il governo come un nuo-vo corpo nello stato, distinto dal popolo e dal sovrano, eintermediario tra l'uno e l'altro.

Fra questi due corpi corre questa essenziale differenza,che lo stato esiste da sè, ed il governo non esiste se nonpel sovrano. Così la volontà dominante del principe nonè, o non deve essere se non la volontà generale o la leg-ge; la sua forza non è che la forza pubblica in lui concen-trata: non appena vuole desumere da sè stesso qualcheatto assoluto ed indipendente, il vincolo del tutto comin-cia ad allentarsi. Se finalmente avvenisse che il principeavesse una volontà particolare più attiva di quella del so-vrano, e che, per ubbidire a cotesta volontà particolare,facesse uso della forza pubblica che sta nelle sue mani, inguisa che si avessero, per così dire, due sovrani, l'uno didiritto e l'altro di fatto, l'unione sociale ad un tratto scom-parirebbe, e il corpo politico sarebbe disciolto.

Perciò, affinchè il corpo del governo abbia un'esisten-za, una vita reale che lo distingua dal corpo dello stato;affinchè tutti i suoi membri possano agire d'accordo e ri-spondere al fine per cui venne istituito, gli abbisogna unio particolare, una sensibilità comune ai suoi membri,una forza, una volontà propria che tenda alla sua conser-

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vazione. Questa esistenza particolare suppone assemblee,consigli, un potere di deliberare, di risolvere, diritti, titoli,privilegi che spettano esclusivamente al principe, e ren-dono la condizione del magistrato più onorevole a pro-porzione ch'è più penosa. Le difficoltà stanno nel mododi ordinare, nel tutto, quel tutto subalterno, in guisach'egli non alteri la costituzione generale rinvigorendo lasua; distingua sempre la sua forza particolare destinataalla sua propria conservazione dalla forza pubblica desti-nata alla conservazione dello stato; in una parola, siasempre pronto a sacrificare il governo al popolo, e non ilpopolo al governo.

Del resto, benchè il corpo artificiale del governo sial'opera di un altro corpo artificiale, e non abbia in certamaniera se non una vita tolta a prestito e subordinata, ciònon impedisce che non possa agire con maggiore o minorvigore o celerità, e godere, per così dire, d'una salute piùo men robusta. In fine, senza allontanarsi direttamentedallo scopo di sua instituzione, ei può sviarsene più omeno, secondo il modo ond'è costituito.

Da tutte codeste differenze nascono i diversi rapportiche deve avere il governo col corpo dello stato, secondo irapporti accidentali e particolari per cui questo medesimostato è modificato. Imperocchè spesso il governo miglio-re in sè diverrà il più vizioso, se i suoi rapporti non sonoalterati secondo i difetti del corpo politico, al quale ap-partiene.

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vazione. Questa esistenza particolare suppone assemblee,consigli, un potere di deliberare, di risolvere, diritti, titoli,privilegi che spettano esclusivamente al principe, e ren-dono la condizione del magistrato più onorevole a pro-porzione ch'è più penosa. Le difficoltà stanno nel mododi ordinare, nel tutto, quel tutto subalterno, in guisach'egli non alteri la costituzione generale rinvigorendo lasua; distingua sempre la sua forza particolare destinataalla sua propria conservazione dalla forza pubblica desti-nata alla conservazione dello stato; in una parola, siasempre pronto a sacrificare il governo al popolo, e non ilpopolo al governo.

Del resto, benchè il corpo artificiale del governo sial'opera di un altro corpo artificiale, e non abbia in certamaniera se non una vita tolta a prestito e subordinata, ciònon impedisce che non possa agire con maggiore o minorvigore o celerità, e godere, per così dire, d'una salute piùo men robusta. In fine, senza allontanarsi direttamentedallo scopo di sua instituzione, ei può sviarsene più omeno, secondo il modo ond'è costituito.

Da tutte codeste differenze nascono i diversi rapportiche deve avere il governo col corpo dello stato, secondo irapporti accidentali e particolari per cui questo medesimostato è modificato. Imperocchè spesso il governo miglio-re in sè diverrà il più vizioso, se i suoi rapporti non sonoalterati secondo i difetti del corpo politico, al quale ap-partiene.

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CAPITOLO IIDel principio che costituisce le varie forme di

governo.

Per esporre la causa generale di queste differenze, bi-sogna distinguere qui il principe ed il governo, come giàdistinsi più sopra lo stato ed il sovrano.

Il corpo del magistrato può essere composto di unmaggiore o minor numero di membri. Abbiamo detto cheil rapporto del sovrano coi sudditi era tanto più grandequanto più numeroso il popolo, e per una evidente analo-gia lo stesso si può dire del governo rispetto ai magistrati.

Ora, la forza totale del governo essendo sempre quelladello stato, non varia punto: d'onde ne segue che quantopiù egli adopra di questa forza sovra i propri membri,tanto men gliene rimane per agire su tutto il popolo.

Dunque, più i magistrati sono numerosi, e più il gover-no è debole. Questa massima essendo fondamentale, fac-ciamoci a chiarirla meglio.

Noi possiamo distinguere nella persona del magistratotre volontà essenzialmente diverse: prima, la volontà pro-pria dell'individuo. che solo intende al suo particolarevantaggio; secondariamente, la volontà comune dei ma-gistrati che si riferisce unicamente al vantaggio del prin-cipe, e che si può chiamare volontà di corpo, la quale ègenerale rispetto al governo e particolare rispetto allo sta-to, di cui il governo fa parte; in terzo luogo, la volontàdel popolo, ossia la volontà sovrana, che è generale, tantoriguardo allo stato considerato come il tutto, quanto ri-

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CAPITOLO IIDel principio che costituisce le varie forme di

governo.

Per esporre la causa generale di queste differenze, bi-sogna distinguere qui il principe ed il governo, come giàdistinsi più sopra lo stato ed il sovrano.

Il corpo del magistrato può essere composto di unmaggiore o minor numero di membri. Abbiamo detto cheil rapporto del sovrano coi sudditi era tanto più grandequanto più numeroso il popolo, e per una evidente analo-gia lo stesso si può dire del governo rispetto ai magistrati.

Ora, la forza totale del governo essendo sempre quelladello stato, non varia punto: d'onde ne segue che quantopiù egli adopra di questa forza sovra i propri membri,tanto men gliene rimane per agire su tutto il popolo.

Dunque, più i magistrati sono numerosi, e più il gover-no è debole. Questa massima essendo fondamentale, fac-ciamoci a chiarirla meglio.

Noi possiamo distinguere nella persona del magistratotre volontà essenzialmente diverse: prima, la volontà pro-pria dell'individuo. che solo intende al suo particolarevantaggio; secondariamente, la volontà comune dei ma-gistrati che si riferisce unicamente al vantaggio del prin-cipe, e che si può chiamare volontà di corpo, la quale ègenerale rispetto al governo e particolare rispetto allo sta-to, di cui il governo fa parte; in terzo luogo, la volontàdel popolo, ossia la volontà sovrana, che è generale, tantoriguardo allo stato considerato come il tutto, quanto ri-

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guardo al governo considerato come parte del tutto.In una legislazione perfetta la volontà particolare od

individuale dev'essere nulla; la volontà di corpo propriaal governo subordinatissima, e per conseguenza la volon-tà generale o sovrana sempre dominante, e la regola uni-ca di tutte le altre.

Secondo l'ordine naturale, al contrario, queste differen-ti volontà divengono più attive man mano che si concen-trano. Così, la volontà generale è sempre la più debole, lavolontà di corpo tiene il secondo posto, e la volontà parti-colare il primo; di maniera che nel governo ogni membroè primieramente sè stesso, poi magistrato, quindi cittadi-no: gradazione direttamente opposta a quella volutadall'ordine sociale.

Ciò posto, che tutto il governo sia nelle mani di unosolo, ed ecco la volontà particolare e la volontà di corpoperfettamente unite, e per conseguenza questa qui al piùalto grado d'intensità che possa avere. Or, dal grado dellavolontà dipendendo l'uso della forza, e la forza assolutadel governo punto non variando, ne segue che il più atti-vo de' governi è quello d'un solo.

All'incontro, uniamo il governo all'autorità legislativa,convertiamo il sovrano in principe; e tutti i cittadini in al-trettanti magistrati; allora la volontà di corpo, confusacolla volontà generale, non avrà maggiore attività di que-sta, e lascerà la volontà particolare in tutta la sua forza.Così il governo, sempre colla medesima forza assoluta,sarà nel suo minimum di forza relativa o d'attività.

Questi rapporti sono incontestabili, ed altre considera-zioni servono ancora a confermarli. Per esempio, si vede

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guardo al governo considerato come parte del tutto.In una legislazione perfetta la volontà particolare od

individuale dev'essere nulla; la volontà di corpo propriaal governo subordinatissima, e per conseguenza la volon-tà generale o sovrana sempre dominante, e la regola uni-ca di tutte le altre.

Secondo l'ordine naturale, al contrario, queste differen-ti volontà divengono più attive man mano che si concen-trano. Così, la volontà generale è sempre la più debole, lavolontà di corpo tiene il secondo posto, e la volontà parti-colare il primo; di maniera che nel governo ogni membroè primieramente sè stesso, poi magistrato, quindi cittadi-no: gradazione direttamente opposta a quella volutadall'ordine sociale.

Ciò posto, che tutto il governo sia nelle mani di unosolo, ed ecco la volontà particolare e la volontà di corpoperfettamente unite, e per conseguenza questa qui al piùalto grado d'intensità che possa avere. Or, dal grado dellavolontà dipendendo l'uso della forza, e la forza assolutadel governo punto non variando, ne segue che il più atti-vo de' governi è quello d'un solo.

All'incontro, uniamo il governo all'autorità legislativa,convertiamo il sovrano in principe; e tutti i cittadini in al-trettanti magistrati; allora la volontà di corpo, confusacolla volontà generale, non avrà maggiore attività di que-sta, e lascerà la volontà particolare in tutta la sua forza.Così il governo, sempre colla medesima forza assoluta,sarà nel suo minimum di forza relativa o d'attività.

Questi rapporti sono incontestabili, ed altre considera-zioni servono ancora a confermarli. Per esempio, si vede

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che ogni magistrato è più attivo nel suo corpo che cia-scun cittadino nel suo; e per conseguenza la volontà par-ticolare ha una influenza assai maggiore negli atti del go-verno, che non in quelli del sovrano; imperocchè ognimagistrato è quasi sempre incaricato di qualche incom-benza del governo, invece che ogni cittadino, preso a par-te, non ha nessuna funzione della sovranità. D'altronde,più lo stato si estende, e più la sua forza reale aumenta,quantunque essa non aumenti in ragione dell'estensione;ma lo stato rimanendo il medesimo, per quanto si molti-plichino i magistrati, il governo non acquisterà una mag-gior forza reale, perchè questa forza è forza dello stato, lacui misura è sempre uguale. Così la forza relativa o l'atti-vità del governo scema senza che la sua forza assoluta oreale possa aumentare.

Egli è certo ancora che la spedizione degli affari divie-ne più lenta quanto più persone ne hanno l'incarico; chetroppo concedendo alla prudenza non si concede abba-stanza alla fortuna; che si lascia sfuggire l'occasione, eche a forza di deliberare si perde spesso il frutto della de-liberazione.

Ho testè provato che il governo si allenta allorchè simoltiplicano i magistrati, e provai più sopra che quantopiù il popolo è numeroso, tanto più la forza reprimentedeve aumentare. Da ciò ne viene che il rapporto dei ma-gistrati col governo debb'essere in ragione inversa delrapporto dei sudditi col sovrano; che cioè più lo stato siestende e più il governo deve ristringersi; talmente che ilnumero dei capi diminuisca in ragione dell'aumento delpopolo.

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che ogni magistrato è più attivo nel suo corpo che cia-scun cittadino nel suo; e per conseguenza la volontà par-ticolare ha una influenza assai maggiore negli atti del go-verno, che non in quelli del sovrano; imperocchè ognimagistrato è quasi sempre incaricato di qualche incom-benza del governo, invece che ogni cittadino, preso a par-te, non ha nessuna funzione della sovranità. D'altronde,più lo stato si estende, e più la sua forza reale aumenta,quantunque essa non aumenti in ragione dell'estensione;ma lo stato rimanendo il medesimo, per quanto si molti-plichino i magistrati, il governo non acquisterà una mag-gior forza reale, perchè questa forza è forza dello stato, lacui misura è sempre uguale. Così la forza relativa o l'atti-vità del governo scema senza che la sua forza assoluta oreale possa aumentare.

Egli è certo ancora che la spedizione degli affari divie-ne più lenta quanto più persone ne hanno l'incarico; chetroppo concedendo alla prudenza non si concede abba-stanza alla fortuna; che si lascia sfuggire l'occasione, eche a forza di deliberare si perde spesso il frutto della de-liberazione.

Ho testè provato che il governo si allenta allorchè simoltiplicano i magistrati, e provai più sopra che quantopiù il popolo è numeroso, tanto più la forza reprimentedeve aumentare. Da ciò ne viene che il rapporto dei ma-gistrati col governo debb'essere in ragione inversa delrapporto dei sudditi col sovrano; che cioè più lo stato siestende e più il governo deve ristringersi; talmente che ilnumero dei capi diminuisca in ragione dell'aumento delpopolo.

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Del resto, io qui non parlo che della forza relativa delgoverno, e non della sua rettitudine; imperciocchè, alcontrario, più il magistrato è numeroso, e più la sua vo-lontà di corpo si approssima alla volontà generale; inveceche, sotto un magistrato unico, questa medesima volontàdi corpo non è, come già dissi, se non una volontà parti-colare. Così perdesi dall'un lato ciò che guadagnare sipuò dall'altro, ed è arte del legislatore il saper fissare ilpunto in cui la forza e la volontà del governo, sempre inproporzione reciproca, si combinino nel rapporto il piùvantaggioso allo stato.

CAPITOLO IIIDivisione dei governi.

Abbiamo veduto nel precedente capitolo il perchè sidistinguano le diverse specie o forme di governi dal nu-mero dei membri che li compongono; resta a vedere nelpresente come tale distinzione si faccia.

In primo luogo, il sovrano può affidare il deposito delgoverno a tutto il popolo od alla maggior parte del popo-lo, in guisa che vi siano più cittadini magistrati, che nonsemplici cittadini privati. A questa forma di governo si dàil nome di democrazia.

Ovvero può restringere il governo nelle mani di unpicciol numero, in modo che vi siano più semplici citta-dini che magistrati, e questa forma appellasi aristocrazia.

Può finalmente concentrare tutto il governo nelle mani

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Del resto, io qui non parlo che della forza relativa delgoverno, e non della sua rettitudine; imperciocchè, alcontrario, più il magistrato è numeroso, e più la sua vo-lontà di corpo si approssima alla volontà generale; inveceche, sotto un magistrato unico, questa medesima volontàdi corpo non è, come già dissi, se non una volontà parti-colare. Così perdesi dall'un lato ciò che guadagnare sipuò dall'altro, ed è arte del legislatore il saper fissare ilpunto in cui la forza e la volontà del governo, sempre inproporzione reciproca, si combinino nel rapporto il piùvantaggioso allo stato.

CAPITOLO IIIDivisione dei governi.

Abbiamo veduto nel precedente capitolo il perchè sidistinguano le diverse specie o forme di governi dal nu-mero dei membri che li compongono; resta a vedere nelpresente come tale distinzione si faccia.

In primo luogo, il sovrano può affidare il deposito delgoverno a tutto il popolo od alla maggior parte del popo-lo, in guisa che vi siano più cittadini magistrati, che nonsemplici cittadini privati. A questa forma di governo si dàil nome di democrazia.

Ovvero può restringere il governo nelle mani di unpicciol numero, in modo che vi siano più semplici citta-dini che magistrati, e questa forma appellasi aristocrazia.

Può finalmente concentrare tutto il governo nelle mani

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di un magistrato unico, dal quale tutti gli altri desumonoil loro potere. Questa terza forma è la più comune, e dice-si monarchia o governo regale.

Uopo è osservare che tutte queste forme, od almeno ledue prime, sono suscettive d'una maggior o minore, edhanno anzi una certa qual latitudine; imperciocchè la de-mocrazia può abbracciare tutto il popolo, o ristringersifino alla metà. L'aristocrazia può, a sua volta, dalla metàdel popolo ristringersi fino al più piccolo numero indeter-minatamente. La monarchia stessa è suscettiva di qualchesuddivisione. Sparta ebbe costantemente due re per la suacostituzione, e nell'imperio romano si videro fin otto im-peratori in una volta, senza che dir si potesse esserel'imperio diviso. Così avvi un punto in cui ciascuna for-ma di governo si confonde colla successiva, e si vede chesotto tre sole denominazioni il governo è realmente su-scettivo di tante forme diverse quanti cittadini ha lo stato.

Inoltre, questo stesso governo potendo, a certi riguardi,suddividersi in altre parti, l'una amministrata in un modoe l'altra in un altro; da queste tre forme combinate insie-me può risultare una moltitudine di forme miste, ciascunadelle quali è moltiplicabile per tutte le forme semplici.

In tutti i tempi si è molto disputato sulla miglior formadi governo, senza considerare che ciascuna di esse è lamigliore in certi casi, e la peggiore in altri.

Se, nei diversi stati, il numero dei magistrati supremidebb'essere in ragione inversa di quello dei cittadini, neviene che in generale il governo democratico convieneagli stati piccoli, l'aristocratico ai mediocri, ed il monar-chico ai grandi. Questa regola si desume immediatamen-

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di un magistrato unico, dal quale tutti gli altri desumonoil loro potere. Questa terza forma è la più comune, e dice-si monarchia o governo regale.

Uopo è osservare che tutte queste forme, od almeno ledue prime, sono suscettive d'una maggior o minore, edhanno anzi una certa qual latitudine; imperciocchè la de-mocrazia può abbracciare tutto il popolo, o ristringersifino alla metà. L'aristocrazia può, a sua volta, dalla metàdel popolo ristringersi fino al più piccolo numero indeter-minatamente. La monarchia stessa è suscettiva di qualchesuddivisione. Sparta ebbe costantemente due re per la suacostituzione, e nell'imperio romano si videro fin otto im-peratori in una volta, senza che dir si potesse esserel'imperio diviso. Così avvi un punto in cui ciascuna for-ma di governo si confonde colla successiva, e si vede chesotto tre sole denominazioni il governo è realmente su-scettivo di tante forme diverse quanti cittadini ha lo stato.

Inoltre, questo stesso governo potendo, a certi riguardi,suddividersi in altre parti, l'una amministrata in un modoe l'altra in un altro; da queste tre forme combinate insie-me può risultare una moltitudine di forme miste, ciascunadelle quali è moltiplicabile per tutte le forme semplici.

In tutti i tempi si è molto disputato sulla miglior formadi governo, senza considerare che ciascuna di esse è lamigliore in certi casi, e la peggiore in altri.

Se, nei diversi stati, il numero dei magistrati supremidebb'essere in ragione inversa di quello dei cittadini, neviene che in generale il governo democratico convieneagli stati piccoli, l'aristocratico ai mediocri, ed il monar-chico ai grandi. Questa regola si desume immediatamen-

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te dal principio; ma come mai contare l'infinità di circo-stanze che possono fornire eccezioni?

CAPITOLO IVDella democrazia.

Chi fa la legge, sa meglio di ogni altro come debbaeseguirsi ed interpretarsi. Sembra adunque che non si po-trebbe avere una costituzione migliore di quella, in cui ilpotere esecutivo vada congiunto col legislativo; ma ciòappunto rende un tale governo insufficiente sotto certi ri-guardi, perchè le cose che debbono essere distinte non losono, ed il principe e il sovrano* non essendo che la me-desima persona, non formano, per così dire, che un go-verno senza governo.

Non è buono che chi fa le leggi le eseguisca, nè che ilcorpo del popolo distolga la sua attenzione dalle viste ge-nerali, per applicarla agli oggetti particolari. Non avvicosa più pericolosa nelle pubbliche bisogne della influen-za degl'interessi privati, e l'abuso delle leggi dal lato delgoverno è un male minore della corruzione del legislato-re, conseguenza infallibile delle viste particolari; allora lostato essendo alterato nella sua sostanza, ogni riforma di-viene impossibile. Un popolo che non abusasse mai delgoverno, non abuserebbe nemmeno dell'indipendenza; unpopolo che governasse sempre bene, non avrebbe biso-

* Nell'originale cartaceo: il principe o il sovrano [nota per l'ed.Manuzio].

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te dal principio; ma come mai contare l'infinità di circo-stanze che possono fornire eccezioni?

CAPITOLO IVDella democrazia.

Chi fa la legge, sa meglio di ogni altro come debbaeseguirsi ed interpretarsi. Sembra adunque che non si po-trebbe avere una costituzione migliore di quella, in cui ilpotere esecutivo vada congiunto col legislativo; ma ciòappunto rende un tale governo insufficiente sotto certi ri-guardi, perchè le cose che debbono essere distinte non losono, ed il principe e il sovrano* non essendo che la me-desima persona, non formano, per così dire, che un go-verno senza governo.

Non è buono che chi fa le leggi le eseguisca, nè che ilcorpo del popolo distolga la sua attenzione dalle viste ge-nerali, per applicarla agli oggetti particolari. Non avvicosa più pericolosa nelle pubbliche bisogne della influen-za degl'interessi privati, e l'abuso delle leggi dal lato delgoverno è un male minore della corruzione del legislato-re, conseguenza infallibile delle viste particolari; allora lostato essendo alterato nella sua sostanza, ogni riforma di-viene impossibile. Un popolo che non abusasse mai delgoverno, non abuserebbe nemmeno dell'indipendenza; unpopolo che governasse sempre bene, non avrebbe biso-

* Nell'originale cartaceo: il principe o il sovrano [nota per l'ed.Manuzio].

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gno d'essere governato.Se si prenda il termine nel suo rigoroso significato,

non esistette mai vera democrazia, nè mai esisterà. Gli ècontro l'ordine naturale, che il maggior numero governi,ed il minore sia governato. Non è possibile figurarsi cheil popolo stia continuamente raunato per curare a' pubbli-ci negozi, e facilmente si vede ch'ei non saprebbe per ciòstabilire commissioni, senza che la forma della ammini-strazione mutasse.

Infatti, io credo poter porre in principio, che, quandogli uffizi del governo sono divisi fra parecchi tribunali, imen numerosi acquistano tosto o tardi la massima autori-tà, non foss'altro per la facilità di sbrigare gli affari cheve li tragge naturalmente.

D'altra parte, quante cose difficili da riunire non sup-pone tale governo? Prima di tutto, uno stato piccolissimoin cui il popolo sia facile a ragunare, ed in cui ciascuncittadino possa agevolmente conoscere tutti gli altri; se-condariamente, una grande semplicità di costumi, cheprevenga l'infinità d'affari e le discussioni spinose; poimolta eguaglianza nelle cariche e ne' patrimoni, senza dicui l'uguaglianza non potrebbe a lungo sussistere nei di-ritti e nell'autorità; finalmente poco o nessun lusso: per-chè, o il lusso è l'effetto delle ricchezze, o le rende neces-sarie; corrompe a un tempo il ricco ed il povero, l'uno colpossesso e l'altro colla cupidigia; vende la patria allamollezza, alla vanità, e toglie allo stato tutti i suoi cittadi-ni per assoggettarli gli uni agli altri, e tutti all'opinione.

Ecco perchè un autore celebre diede per principio alla

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gno d'essere governato.Se si prenda il termine nel suo rigoroso significato,

non esistette mai vera democrazia, nè mai esisterà. Gli ècontro l'ordine naturale, che il maggior numero governi,ed il minore sia governato. Non è possibile figurarsi cheil popolo stia continuamente raunato per curare a' pubbli-ci negozi, e facilmente si vede ch'ei non saprebbe per ciòstabilire commissioni, senza che la forma della ammini-strazione mutasse.

Infatti, io credo poter porre in principio, che, quandogli uffizi del governo sono divisi fra parecchi tribunali, imen numerosi acquistano tosto o tardi la massima autori-tà, non foss'altro per la facilità di sbrigare gli affari cheve li tragge naturalmente.

D'altra parte, quante cose difficili da riunire non sup-pone tale governo? Prima di tutto, uno stato piccolissimoin cui il popolo sia facile a ragunare, ed in cui ciascuncittadino possa agevolmente conoscere tutti gli altri; se-condariamente, una grande semplicità di costumi, cheprevenga l'infinità d'affari e le discussioni spinose; poimolta eguaglianza nelle cariche e ne' patrimoni, senza dicui l'uguaglianza non potrebbe a lungo sussistere nei di-ritti e nell'autorità; finalmente poco o nessun lusso: per-chè, o il lusso è l'effetto delle ricchezze, o le rende neces-sarie; corrompe a un tempo il ricco ed il povero, l'uno colpossesso e l'altro colla cupidigia; vende la patria allamollezza, alla vanità, e toglie allo stato tutti i suoi cittadi-ni per assoggettarli gli uni agli altri, e tutti all'opinione.

Ecco perchè un autore celebre diede per principio alla

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repubblica la virtù24, senza la quale tutte quelle condizio-ni non potrebbero durare; ma, per non aver fatto le neces-sarie distinzioni, quel bello ingegno difettò spesso di pre-cisione, qualche volta di chiarezza, e non vide che la so-vrana autorità essendo dappertutto la medesima, il mede-simo principio deve radicarsi in ogni stato ben costituito,più o meno, egli è vero, secondo la forma del governo.

Arrogi, non esservi governo così facile alle guerre ci-vili ed ai moti intestini quanto il democratico o popolare,perchè non avvene veruno che tenda sì fortemente e con-tinuamente a cambiare di forma, nè che richieda maggiorvigilanza e coraggio per essere mantenuto nella sua. Intale costituzione massimamente il cittadino deve armarsidi forza e costanza, e dire ogni giorno di sua vita nell'inti-mo del cuore ciò che diceva un virtuoso palatino25 nelladieta di Polonia; Malo periculosam libertatem quamquietum servitium.

Se vi fosse un popolo di dii, si governerebbe democra-ticamente. Un governo così perfetto non conviene ad uo-mini.

CAPITOLO VDell'aristocrazia.

Qui abbiamo due persone morali distintissime, cioè ilgoverno ed il sovrano, e per conseguenza due volontà ge-

24 Spirito delle leggi, lib. 3, cap. 3.25 Il palatino di Posnania, padre del re di Polonia, duca di Lorena.

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repubblica la virtù24, senza la quale tutte quelle condizio-ni non potrebbero durare; ma, per non aver fatto le neces-sarie distinzioni, quel bello ingegno difettò spesso di pre-cisione, qualche volta di chiarezza, e non vide che la so-vrana autorità essendo dappertutto la medesima, il mede-simo principio deve radicarsi in ogni stato ben costituito,più o meno, egli è vero, secondo la forma del governo.

Arrogi, non esservi governo così facile alle guerre ci-vili ed ai moti intestini quanto il democratico o popolare,perchè non avvene veruno che tenda sì fortemente e con-tinuamente a cambiare di forma, nè che richieda maggiorvigilanza e coraggio per essere mantenuto nella sua. Intale costituzione massimamente il cittadino deve armarsidi forza e costanza, e dire ogni giorno di sua vita nell'inti-mo del cuore ciò che diceva un virtuoso palatino25 nelladieta di Polonia; Malo periculosam libertatem quamquietum servitium.

Se vi fosse un popolo di dii, si governerebbe democra-ticamente. Un governo così perfetto non conviene ad uo-mini.

CAPITOLO VDell'aristocrazia.

Qui abbiamo due persone morali distintissime, cioè ilgoverno ed il sovrano, e per conseguenza due volontà ge-

24 Spirito delle leggi, lib. 3, cap. 3.25 Il palatino di Posnania, padre del re di Polonia, duca di Lorena.

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nerali, l'una che risguarda tutti i cittadini, l'altra solamen-te ai membri dell'amministrazione. Così, sebbene il go-verno possa regolare la sua interna polizia come gli talen-ta, non può mai parlare al popolo se non in nome del so-vrano, vale a dire in nome del popolo stesso; cosa chenon debbesi mai dimenticare.

Le prime società governaronsi aristocraticamente. Icapi delle famiglie deliberavano fra sè delle pubbliche bi-sogne. I giovani cedevano di buon grado alla autorità del-la esperienza. Quindi i nomi di preti, di anziani, di sena-to, di geronti. I selvaggi dell'America settentrionale go-vernansi ancora oggidì in questo modo, e sono benissimogovernati.

Ma man mano che la disparità d'instituzione soverchiòla disparità naturale, la ricchezza od il potere furon prefe-riti all'età26, e l'aristocrazia divenne elettiva. Finalmente ilpotere trasmesso in un coi beni paterni ai figliuoli ren-dendo le famiglie patrizie, rese il governo ereditario, efuron visti senatori di vent'anni.

Sonvi adunque tre sorta di aristocrazia: naturale, eletti-va, ereditaria. La prima non conviene se non ai popolisemplici, la terza è il peggiore di tutti i governi; la secon-da è il migliore, ed è l'aristocrazia propriamente detta.

Oltre al vantaggio della distinzione dei due poteri, essaha pur quello della scelta de' suoi membri; imperciocchènel governo popolare tutti i cittadini nascono magistrati,e nell'aristocratico propriamente detto sono ristretti ad un

26 Egli è chiaro che la parola OTTIMATI presso gli antichi non signi-fica i migliori, ma i più potenti.

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nerali, l'una che risguarda tutti i cittadini, l'altra solamen-te ai membri dell'amministrazione. Così, sebbene il go-verno possa regolare la sua interna polizia come gli talen-ta, non può mai parlare al popolo se non in nome del so-vrano, vale a dire in nome del popolo stesso; cosa chenon debbesi mai dimenticare.

Le prime società governaronsi aristocraticamente. Icapi delle famiglie deliberavano fra sè delle pubbliche bi-sogne. I giovani cedevano di buon grado alla autorità del-la esperienza. Quindi i nomi di preti, di anziani, di sena-to, di geronti. I selvaggi dell'America settentrionale go-vernansi ancora oggidì in questo modo, e sono benissimogovernati.

Ma man mano che la disparità d'instituzione soverchiòla disparità naturale, la ricchezza od il potere furon prefe-riti all'età26, e l'aristocrazia divenne elettiva. Finalmente ilpotere trasmesso in un coi beni paterni ai figliuoli ren-dendo le famiglie patrizie, rese il governo ereditario, efuron visti senatori di vent'anni.

Sonvi adunque tre sorta di aristocrazia: naturale, eletti-va, ereditaria. La prima non conviene se non ai popolisemplici, la terza è il peggiore di tutti i governi; la secon-da è il migliore, ed è l'aristocrazia propriamente detta.

Oltre al vantaggio della distinzione dei due poteri, essaha pur quello della scelta de' suoi membri; imperciocchènel governo popolare tutti i cittadini nascono magistrati,e nell'aristocratico propriamente detto sono ristretti ad un

26 Egli è chiaro che la parola OTTIMATI presso gli antichi non signi-fica i migliori, ma i più potenti.

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picciol numero, e non divengono tali se non per elezio-ne27; modo pel quale la probità, i lumi, l'esperienza, e tut-ti gli altri motivi di preferenza e di pubblica stima sonoaltrettante nuove guarentige, che si sarà saviamente go-vernati.

Inoltre, più si fanno comodamente le assemblee, si di-scutono meglio gli affari e si spediscono con più ordine ediligenza, il credito dello stato è meglio sostenutoall'estero da venerabili senatori che non da una moltitudi-ne oscura o disprezzata.

In una parola, è l'ordine migliore e più naturale, che isaggi governino la moltitudine, quando si è certi che lagoverneranno a suo vantaggio e non pel proprio. Non bi-sogna moltiplicare indarno le giurisdizioni, nè fare conventimila uomini ciò che cento uomini scelti ponno fareancor meglio. Ma d'uopo è notare che l'interesse di corpocomincia qui a diriger meno la forza pubblica sulla rego-la della volontà generale, e che un'altra inevitabile ten-denza toglie alle leggi una parte del potere esecutivo.

Riguardo poi alle particolari convenienze, non ci vuolenè uno stato così piccolo, nè un popolo così semplice egiusto, che l'esecuzione delle leggi conseguiti immediata-mente dalla volontà pubblica, come in una buona demo-crazia. E neppur ci vuole una nazione talmente grande,27 È cosa di grande momento il regolare mediante leggi la forma

dell'elezione dei magistrati; perchè abbandonandola alla volon-tà del principe non si può evitare di cadere nell'aristocrazia ere-ditaria, come avvenne alle repubbliche di Venezia e di Berna.Epperò, la prima è da lunga pezza uno stato morto, ma la se-conda si mantiene per l'estrema saviezza del suo senato, ecce-zione onorevolissima e pericolosissima.

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picciol numero, e non divengono tali se non per elezio-ne27; modo pel quale la probità, i lumi, l'esperienza, e tut-ti gli altri motivi di preferenza e di pubblica stima sonoaltrettante nuove guarentige, che si sarà saviamente go-vernati.

Inoltre, più si fanno comodamente le assemblee, si di-scutono meglio gli affari e si spediscono con più ordine ediligenza, il credito dello stato è meglio sostenutoall'estero da venerabili senatori che non da una moltitudi-ne oscura o disprezzata.

In una parola, è l'ordine migliore e più naturale, che isaggi governino la moltitudine, quando si è certi che lagoverneranno a suo vantaggio e non pel proprio. Non bi-sogna moltiplicare indarno le giurisdizioni, nè fare conventimila uomini ciò che cento uomini scelti ponno fareancor meglio. Ma d'uopo è notare che l'interesse di corpocomincia qui a diriger meno la forza pubblica sulla rego-la della volontà generale, e che un'altra inevitabile ten-denza toglie alle leggi una parte del potere esecutivo.

Riguardo poi alle particolari convenienze, non ci vuolenè uno stato così piccolo, nè un popolo così semplice egiusto, che l'esecuzione delle leggi conseguiti immediata-mente dalla volontà pubblica, come in una buona demo-crazia. E neppur ci vuole una nazione talmente grande,27 È cosa di grande momento il regolare mediante leggi la forma

dell'elezione dei magistrati; perchè abbandonandola alla volon-tà del principe non si può evitare di cadere nell'aristocrazia ere-ditaria, come avvenne alle repubbliche di Venezia e di Berna.Epperò, la prima è da lunga pezza uno stato morto, ma la se-conda si mantiene per l'estrema saviezza del suo senato, ecce-zione onorevolissima e pericolosissima.

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che i capi sparsi per governarla possano farla da sovranociascuno nel suo dipartimento, e cominciare a rendersiindipendenti per diventare alla fin fine padroni.

Ma se l'aristocrazia esige alcune virtù di meno del go-verno popolare, ne esige altresì altre che le sono proprie;come la moderazione nei ricchi, ed il contento nei poveri,perchè sembra che un'eguaglianza rigorosa vi sarebbefuor di luogo; dessa non fu nemmeno osservata a Sparta.

Del resto, è bene che quella forma comporti una certadisuguaglianza di fortuna, affinchè in generale l'ammini-strazione dei pubblici negozi sia affidata a coloro chepossono meglio consecrarvi il tempo, ma non già, comepretende Aristotile, perchè i ricchi siano sempre preferiti.Al contrario, importa che una scelta opposta insegniqualche volta al popolo, che nel merito degli uomini visono ragioni di preferenza più importanti della ricchezza.

CAPITOLO VIDella monarchia.

Fin qui abbiamo considerato il principe come una per-sona morale e collettiva, unita per la forza delle leggi, edepositaria nello stato del potere esecutivo. Ora abbiamoda considerare questo potere raccolto nelle mani d'unapersona naturale, d'un uomo reale, che solo abbia dirittodi disporne secondo le leggi, e che appellasi monarca,ossia re.

Ben al contrario delle altre amministrazioni, in cui un

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che i capi sparsi per governarla possano farla da sovranociascuno nel suo dipartimento, e cominciare a rendersiindipendenti per diventare alla fin fine padroni.

Ma se l'aristocrazia esige alcune virtù di meno del go-verno popolare, ne esige altresì altre che le sono proprie;come la moderazione nei ricchi, ed il contento nei poveri,perchè sembra che un'eguaglianza rigorosa vi sarebbefuor di luogo; dessa non fu nemmeno osservata a Sparta.

Del resto, è bene che quella forma comporti una certadisuguaglianza di fortuna, affinchè in generale l'ammini-strazione dei pubblici negozi sia affidata a coloro chepossono meglio consecrarvi il tempo, ma non già, comepretende Aristotile, perchè i ricchi siano sempre preferiti.Al contrario, importa che una scelta opposta insegniqualche volta al popolo, che nel merito degli uomini visono ragioni di preferenza più importanti della ricchezza.

CAPITOLO VIDella monarchia.

Fin qui abbiamo considerato il principe come una per-sona morale e collettiva, unita per la forza delle leggi, edepositaria nello stato del potere esecutivo. Ora abbiamoda considerare questo potere raccolto nelle mani d'unapersona naturale, d'un uomo reale, che solo abbia dirittodi disporne secondo le leggi, e che appellasi monarca,ossia re.

Ben al contrario delle altre amministrazioni, in cui un

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ente collettivo rappresenta un individuo, in questa un in-dividuo rappresenta un ente collettivo; dimodochè l'unitàmorale che costituisce il principe, è nel tempo stessoun'unità fisica, nella quale trovansi naturalmente riunitetutte le facoltà, che nell'altra riunisce la legge con tantisforzi.

Così la volontà del popolo e la volontà del principe, laforza pubblica dello stato e la forza particolare del gover-no, tutto risponde al medesimo impulso, tutte le molledella macchina stanno nella medesima mano, tutto cam-mina verso lo stesso scopo; non vi sono moti contrari chea vicenda si distruggano, e non si può immaginare nessu-na sorta di costituzione, in cui un menomo sforzo produ-ca un'azione di maggiore momento. Archimede, tranquil-lamente seduto a riva, e traente a galla senza difficoltàuna grossa nave, mi rappresenta un monarca che dal suogabinetto governa i suoi vasti stati, e fa tutto muoveresembrando immobile.

Ma se avvi governo più vigoroso di questo, non avve-ne nemmeno un altro, in cui la volontà particolare abbiamaggiore imperio, e domini più facilmente le altre: tuttoincede verso il medesimo scopo, è vero; ma questo scoponon è punto quello della pubblica felicità, e la forza stes-sa dell'amministrazione è continuamente vôlta a pregiu-dizio dello stato.

I re vogliono essere assoluti, e si grida loro di lontanoche il miglior modo di essere tali è di farsi amare dai po-poli: massima bellissima, ed anche verissima sotto certirispetti. Disgraziatamente nelle corti se ne faranno sem-pre le grasse risa. Il potere che deriva dall'amore dei po-

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ente collettivo rappresenta un individuo, in questa un in-dividuo rappresenta un ente collettivo; dimodochè l'unitàmorale che costituisce il principe, è nel tempo stessoun'unità fisica, nella quale trovansi naturalmente riunitetutte le facoltà, che nell'altra riunisce la legge con tantisforzi.

Così la volontà del popolo e la volontà del principe, laforza pubblica dello stato e la forza particolare del gover-no, tutto risponde al medesimo impulso, tutte le molledella macchina stanno nella medesima mano, tutto cam-mina verso lo stesso scopo; non vi sono moti contrari chea vicenda si distruggano, e non si può immaginare nessu-na sorta di costituzione, in cui un menomo sforzo produ-ca un'azione di maggiore momento. Archimede, tranquil-lamente seduto a riva, e traente a galla senza difficoltàuna grossa nave, mi rappresenta un monarca che dal suogabinetto governa i suoi vasti stati, e fa tutto muoveresembrando immobile.

Ma se avvi governo più vigoroso di questo, non avve-ne nemmeno un altro, in cui la volontà particolare abbiamaggiore imperio, e domini più facilmente le altre: tuttoincede verso il medesimo scopo, è vero; ma questo scoponon è punto quello della pubblica felicità, e la forza stes-sa dell'amministrazione è continuamente vôlta a pregiu-dizio dello stato.

I re vogliono essere assoluti, e si grida loro di lontanoche il miglior modo di essere tali è di farsi amare dai po-poli: massima bellissima, ed anche verissima sotto certirispetti. Disgraziatamente nelle corti se ne faranno sem-pre le grasse risa. Il potere che deriva dall'amore dei po-

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poli è senza dubbio il più grande, ma è precario e condi-zionale, ed i principi non se ne terranno mai soddisfatti. Ire migliori vogliono poter essere cattivi ove lor piacciasenza cessare d'essere padroni. Un sermoneggiatore poli-tico farà bel dir loro che la forza del popolo essendo laforza loro, hanno un interesse grandissimo di procurareche florido sia il popolo, numeroso, formidabile; ei sannobenissimo che ciò non è vero. È loro primiero interessepersonale che il popolo sia debole, misero, e non mai ca-pace di resistenza. Io confesso che, supponendo i sudditisempre perfettamente sottomessi, sarebbe allora interessedel principe che il popolo fosse potente, perchè questapotenza, essendo pur la sua, lo rendesse formidabile a' vi-cini; ma siccome questo interesse non è se non seconda-rio e subordinato, e le due supposizioni sono incompati-bili, così è naturale che i principi diano sempre la prefe-renza alla massima, ch'è più immediatamente utile adessi. Questa cosa metteva spesso davanti agli occhi delpopolo ebreo Samuele, e questa cosa pose assai in chiaroMachiavelli. Fingendo di dar lezioni al re, ne diede digrandi ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro deirepubblicani28.

28 Machiavelli era un galantuomo ed un buon cittadino: ma legatoalla casa de' Medici nella oppressione della sua patria, era co-stretto di mascherare il suo amore per la libertà. La sola sceltadel suo nefando eroe, Cesare Borgia, palesa abbastanza la suasegreta intenzione; e le massime del suo libro Il principe, oppo-ste a quelle de' suoi Discorsi su Tito Livio e delle Storie Fio-rentine, danno a divedere che questo profondo politico non haavuto fin qui se non lettori superficiali o corrotti. La corte diRoma ha severamente proibito il suo libro, ed io lo capisco be-

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poli è senza dubbio il più grande, ma è precario e condi-zionale, ed i principi non se ne terranno mai soddisfatti. Ire migliori vogliono poter essere cattivi ove lor piacciasenza cessare d'essere padroni. Un sermoneggiatore poli-tico farà bel dir loro che la forza del popolo essendo laforza loro, hanno un interesse grandissimo di procurareche florido sia il popolo, numeroso, formidabile; ei sannobenissimo che ciò non è vero. È loro primiero interessepersonale che il popolo sia debole, misero, e non mai ca-pace di resistenza. Io confesso che, supponendo i sudditisempre perfettamente sottomessi, sarebbe allora interessedel principe che il popolo fosse potente, perchè questapotenza, essendo pur la sua, lo rendesse formidabile a' vi-cini; ma siccome questo interesse non è se non seconda-rio e subordinato, e le due supposizioni sono incompati-bili, così è naturale che i principi diano sempre la prefe-renza alla massima, ch'è più immediatamente utile adessi. Questa cosa metteva spesso davanti agli occhi delpopolo ebreo Samuele, e questa cosa pose assai in chiaroMachiavelli. Fingendo di dar lezioni al re, ne diede digrandi ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro deirepubblicani28.

28 Machiavelli era un galantuomo ed un buon cittadino: ma legatoalla casa de' Medici nella oppressione della sua patria, era co-stretto di mascherare il suo amore per la libertà. La sola sceltadel suo nefando eroe, Cesare Borgia, palesa abbastanza la suasegreta intenzione; e le massime del suo libro Il principe, oppo-ste a quelle de' suoi Discorsi su Tito Livio e delle Storie Fio-rentine, danno a divedere che questo profondo politico non haavuto fin qui se non lettori superficiali o corrotti. La corte diRoma ha severamente proibito il suo libro, ed io lo capisco be-

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Noi abbiamo trovato, per via delle relazioni generali,che la monarchia non conviene se non agli stati ampli, eciò vedremo ancora esaminandola in sè stessa. Piùl'amministrazione pubblica è numerosa, più il rapportodel principe coi sudditi scema e si accosta all'uguaglian-za; di modo che questo rapporto è uno, ossia l'uguaglian-za anche nella democrazia. Questo medesimo rapportoaumenta a misura che il governo si ristringe, ed è nel suomaximum quando il governo trovasi nelle mani di unsolo. Allora corre troppa distanza tra il principe ed il po-polo, e lo stato manca di connessione. Per formarla ci vo-gliono adunque ordini intermedi; ci vogliono principi,grandi, nobiltà per compierli. Ora, nulla di tutto ciò con-viene ad un piccolo stato, il quale da tutti questi gradi sa-rebbe rovinato.

Ma se è difficile che un grande stato sia ben governato,difficilissimo è che sia governato bene da un sol uomo,ed ognuno sa ciò che capita quando il re si mette de' so-stituti.

Un difetto essenziale ed inevitabile che porrà sempre ilgoverno monarchico al disotto del repubblicano, consistein ciò che nel repubblicano la voce pubblica non levaquasi mai alle prime cariche se non uomini illuminati ecapaci di disimpegnarsene con onore, e nel monarchicoquelli che occupano i primi posti non sono spesso se nonse accattabrighe, guidoni ed intriganti, cui la pochezzad'ingegno, che nelle corti apre la via alle grandi cariche,non giova ad altro che a dimostrare al pubblico la loroinettitudine non appena vi sono pervenuti. Nel fare una

nissimo, perchè la dipinse al vivo.

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Noi abbiamo trovato, per via delle relazioni generali,che la monarchia non conviene se non agli stati ampli, eciò vedremo ancora esaminandola in sè stessa. Piùl'amministrazione pubblica è numerosa, più il rapportodel principe coi sudditi scema e si accosta all'uguaglian-za; di modo che questo rapporto è uno, ossia l'uguaglian-za anche nella democrazia. Questo medesimo rapportoaumenta a misura che il governo si ristringe, ed è nel suomaximum quando il governo trovasi nelle mani di unsolo. Allora corre troppa distanza tra il principe ed il po-polo, e lo stato manca di connessione. Per formarla ci vo-gliono adunque ordini intermedi; ci vogliono principi,grandi, nobiltà per compierli. Ora, nulla di tutto ciò con-viene ad un piccolo stato, il quale da tutti questi gradi sa-rebbe rovinato.

Ma se è difficile che un grande stato sia ben governato,difficilissimo è che sia governato bene da un sol uomo,ed ognuno sa ciò che capita quando il re si mette de' so-stituti.

Un difetto essenziale ed inevitabile che porrà sempre ilgoverno monarchico al disotto del repubblicano, consistein ciò che nel repubblicano la voce pubblica non levaquasi mai alle prime cariche se non uomini illuminati ecapaci di disimpegnarsene con onore, e nel monarchicoquelli che occupano i primi posti non sono spesso se nonse accattabrighe, guidoni ed intriganti, cui la pochezzad'ingegno, che nelle corti apre la via alle grandi cariche,non giova ad altro che a dimostrare al pubblico la loroinettitudine non appena vi sono pervenuti. Nel fare una

nissimo, perchè la dipinse al vivo.

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tal scelta il popolo s'inganna meno del principe, ed unuomo di vero merito è quasi altrettanto raro nel ministe-ro, quanto è raro uno stolido alla testa di un governo re-pubblicano. Perciò, quando, per qualche caso avventuro-so, uno di quegli uomini nati per governare, afferra il ti-mone degli affari in una monarchia quasi precipitata daimolti guastamestieri suoi antecessori, si rimane stupefattiai rimedi ch'ei sa trovare, e ciò fa epoca in un paese.

Affinchè uno stato monarchico potesse essere gover-nato bene, bisognerebbe che lo sua grandezza o la suaestensione fosse pari alle facoltà di chi governa. È più fa-cile conquistare, che reggere. Per mezzo d'una leva suffi-ciente, con un dito si può smuovere il mondo, ma per sor-reggerlo ci vogliono le spalle di Ercole. Per poco siagrande uno stato, il principe è quasi sempre troppo picco-lo. Al contrario, quando avviene che lo stato è troppopiccolo pel suo capo, il che è rarissimo, è ancora mal go-vernato, perchè il capo, seguendo sempre la grandezzadelle sue viste, dimentica gl'interessi dei popoli, e perl'abuso del soverchio ingegno non li rende meno infelicid'un capo limitato che ne patisca difetto. Bisognerebbe,per così dire, che un reame si ampliasse o si ristringessead ogni regno secondo la capacità del principe; inveceche la sapienza d'un senato, avendo una misura più fissa,lo stato può avere limiti costanti, e l'amministrazione nonire men bene.

Il più sensibile inconveniente del governo di un solo èla mancanza di quella successione continua, che formanegli altri due una non interrotta catena. Morto un re, cene vuole un altro: le elezioni lasciano intervalli pericolo-

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tal scelta il popolo s'inganna meno del principe, ed unuomo di vero merito è quasi altrettanto raro nel ministe-ro, quanto è raro uno stolido alla testa di un governo re-pubblicano. Perciò, quando, per qualche caso avventuro-so, uno di quegli uomini nati per governare, afferra il ti-mone degli affari in una monarchia quasi precipitata daimolti guastamestieri suoi antecessori, si rimane stupefattiai rimedi ch'ei sa trovare, e ciò fa epoca in un paese.

Affinchè uno stato monarchico potesse essere gover-nato bene, bisognerebbe che lo sua grandezza o la suaestensione fosse pari alle facoltà di chi governa. È più fa-cile conquistare, che reggere. Per mezzo d'una leva suffi-ciente, con un dito si può smuovere il mondo, ma per sor-reggerlo ci vogliono le spalle di Ercole. Per poco siagrande uno stato, il principe è quasi sempre troppo picco-lo. Al contrario, quando avviene che lo stato è troppopiccolo pel suo capo, il che è rarissimo, è ancora mal go-vernato, perchè il capo, seguendo sempre la grandezzadelle sue viste, dimentica gl'interessi dei popoli, e perl'abuso del soverchio ingegno non li rende meno infelicid'un capo limitato che ne patisca difetto. Bisognerebbe,per così dire, che un reame si ampliasse o si ristringessead ogni regno secondo la capacità del principe; inveceche la sapienza d'un senato, avendo una misura più fissa,lo stato può avere limiti costanti, e l'amministrazione nonire men bene.

Il più sensibile inconveniente del governo di un solo èla mancanza di quella successione continua, che formanegli altri due una non interrotta catena. Morto un re, cene vuole un altro: le elezioni lasciano intervalli pericolo-

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si, e sono tempestose; ed a meno che i cittadini siano d'undisinteresse ed integrità, che questo governo non com-porta, l'intrigo e la corruzione se ne immischiano. È diffi-cile che colui al quale lo stato si è venduto, non lo vendaa sua volta, e non si risarcisca sui deboli dell'oro che ipotenti gli strapparono. Tosto o tardi tutto si fa venalesotto una tale amministrazione, e la pace che si gode allo-ra sotto i re, è peggiore del disordine degl'interregni.

Per prevenire simili mali, che si è fatto? Si resero lecorone ereditarie in certe famiglie, e si stabilì un ordinedi successione, che toglie ogni litigio alla morte dei re;vale a dire che, sostituendo l'inconveniente delle reggen-ze a quello delle elezioni, si preferì una tranquillità appa-rente ad una amministrazione prudente, e si preferì corre-re il rischio d'avere per capi de' bambini, de' mostri,degl'imbecilli, che d'avere a disputare sulla scelta di rebuoni. Non si considerò che, esponendosi in questo modoai rischi dall'alternativa, si ha quasi tutte le probabilitàavverse. Stupenda parola fu quella di Dionigi il giovane,cui suo padre, rimproverandolo d'un'azione vergognosa,diceva: «Te ne diedi io l'esempio? ― Ah! rispose il fi-gliuolo; vostro padre non era re29».

Tutto concorre a privar di giustizia e ragione un uomoallevato per comandare agli altri. È fama sia molta fatical'insegnare ai giovani principi l'arte di regnare, ma nonsembra che giovi loro gran fatto cotesta educazione. Sifarebbe meglio assai cominciando ad insegnar loro l'arted'ubbidire. I più gran re celebrati dalla storia non venneroallevati per regnare, poichè il regnare è una scienza che

29 Plutarco, Detti memorandi dei re e dei grandi capitani, § 22.

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si, e sono tempestose; ed a meno che i cittadini siano d'undisinteresse ed integrità, che questo governo non com-porta, l'intrigo e la corruzione se ne immischiano. È diffi-cile che colui al quale lo stato si è venduto, non lo vendaa sua volta, e non si risarcisca sui deboli dell'oro che ipotenti gli strapparono. Tosto o tardi tutto si fa venalesotto una tale amministrazione, e la pace che si gode allo-ra sotto i re, è peggiore del disordine degl'interregni.

Per prevenire simili mali, che si è fatto? Si resero lecorone ereditarie in certe famiglie, e si stabilì un ordinedi successione, che toglie ogni litigio alla morte dei re;vale a dire che, sostituendo l'inconveniente delle reggen-ze a quello delle elezioni, si preferì una tranquillità appa-rente ad una amministrazione prudente, e si preferì corre-re il rischio d'avere per capi de' bambini, de' mostri,degl'imbecilli, che d'avere a disputare sulla scelta di rebuoni. Non si considerò che, esponendosi in questo modoai rischi dall'alternativa, si ha quasi tutte le probabilitàavverse. Stupenda parola fu quella di Dionigi il giovane,cui suo padre, rimproverandolo d'un'azione vergognosa,diceva: «Te ne diedi io l'esempio? ― Ah! rispose il fi-gliuolo; vostro padre non era re29».

Tutto concorre a privar di giustizia e ragione un uomoallevato per comandare agli altri. È fama sia molta fatical'insegnare ai giovani principi l'arte di regnare, ma nonsembra che giovi loro gran fatto cotesta educazione. Sifarebbe meglio assai cominciando ad insegnar loro l'arted'ubbidire. I più gran re celebrati dalla storia non venneroallevati per regnare, poichè il regnare è una scienza che

29 Plutarco, Detti memorandi dei re e dei grandi capitani, § 22.

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non si possiede mai così poco, come quando fu imparatatroppo, e che si acquista meglio ubbidendo che coman-dando. Nam utilissimus idem ac brevissimus bonarummalarumque rerum delectus, cogitare quid aut noluerissub alio principe aut volueris30.

Da tale difetto di coerenza ne viene l'incostanza delgoverno regio, che regolandosi ora sovra un disegno edor sovra un altro, secondo il carattere del principe che re-gna, o delle persone che regnano per lui, non può averelungo tempo un oggetto fisso, nè una condotta conse-guente: variazione che rende sempre lo stato tentennantedi massima in massima, di progetto in progetto, cosa chenon avviene negli altri governi, in cui il principe è sem-pre lo stesso. Per cui, vedesi in generale che se in unacorte avvi maggiore astuzia, in un senato evvi più saviez-za, e le repubbliche conseguono il loro fine per via di vi-ste più costanti e meglio continuate: invece che ogni ri-voluzione nel ministero ne produce una nello stato, es-sendo massima comune a tutti i ministri, e quasi a tutti ire, di fare in ogni cosa il contrario del predecessore.

Da questa medesima incoerenza si desume eziandio lasoluzione d'un sofisma famigliarissimo ai politici regi, edè di paragonare non solo il governo civile al governo do-mestico, ed il principe al padre di famiglia, errore giàconfutato; ma anche di prodigare liberalmente a quel ma-gistrato tutte le virtù di cui abbisognerebbe, e di supporresempre che il principe sia quello che dovrebb'essere: sup-posizione, mercè la quale il governo regio è evidente-mente preferibile ad ogni altro, perchè incontrastabilmen-

30 Tacito, Stor. lib. I.

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non si possiede mai così poco, come quando fu imparatatroppo, e che si acquista meglio ubbidendo che coman-dando. Nam utilissimus idem ac brevissimus bonarummalarumque rerum delectus, cogitare quid aut noluerissub alio principe aut volueris30.

Da tale difetto di coerenza ne viene l'incostanza delgoverno regio, che regolandosi ora sovra un disegno edor sovra un altro, secondo il carattere del principe che re-gna, o delle persone che regnano per lui, non può averelungo tempo un oggetto fisso, nè una condotta conse-guente: variazione che rende sempre lo stato tentennantedi massima in massima, di progetto in progetto, cosa chenon avviene negli altri governi, in cui il principe è sem-pre lo stesso. Per cui, vedesi in generale che se in unacorte avvi maggiore astuzia, in un senato evvi più saviez-za, e le repubbliche conseguono il loro fine per via di vi-ste più costanti e meglio continuate: invece che ogni ri-voluzione nel ministero ne produce una nello stato, es-sendo massima comune a tutti i ministri, e quasi a tutti ire, di fare in ogni cosa il contrario del predecessore.

Da questa medesima incoerenza si desume eziandio lasoluzione d'un sofisma famigliarissimo ai politici regi, edè di paragonare non solo il governo civile al governo do-mestico, ed il principe al padre di famiglia, errore giàconfutato; ma anche di prodigare liberalmente a quel ma-gistrato tutte le virtù di cui abbisognerebbe, e di supporresempre che il principe sia quello che dovrebb'essere: sup-posizione, mercè la quale il governo regio è evidente-mente preferibile ad ogni altro, perchè incontrastabilmen-

30 Tacito, Stor. lib. I.

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te il più forte, e per essere eziandio il migliore, non glimanca se non una volontà di corpo più conforme alla vo-lontà generale.

Ma se, giusta Platone (In Civili) il re, per natura, è unpersonaggio sì raro, quante volte la natura e la fortunaconcorreranno a coronarlo? E se l'educazione regia cor-rompe necessariamente coloro che la ricevono, cosa do-vrassi sperare da una serie d'uomini allevati per regnare?Gli è dunque un volersi ingannare a gran partito, confon-dendo il governo regio con quello di un re buono. Per ve-dere che cosa sia quel governo in sè stesso, bisogna con-siderarlo sotto principi limitati o cattivi: imperocchè essigiugneranno tali al trono, od il trono li renderà tali.

Codeste difficoltà non isfuggirono ai nostri autori; maeglino non se ne diedero fastidio. Il rimedio, dicono essi,consiste nell'ubbidire senza trar fiato: Iddio dà i re mal-vagi nella sua collera, e bisogna sopportarli quali castighidel cielo. Questo discorso, senza dubbio, è edificante, maparmi suonerebbe meglio su di un pulpito che in un librodi politica. Che dire d'un medico, il quale prometta mira-coli, e poi faccia consistere tutta l'arte sua nell'esortare ilmalato alla pazienza? Si sa che quando si ha un governocattivo, bisogna sopportarlo; ma si tratterebbe di trovarneuno buono.

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te il più forte, e per essere eziandio il migliore, non glimanca se non una volontà di corpo più conforme alla vo-lontà generale.

Ma se, giusta Platone (In Civili) il re, per natura, è unpersonaggio sì raro, quante volte la natura e la fortunaconcorreranno a coronarlo? E se l'educazione regia cor-rompe necessariamente coloro che la ricevono, cosa do-vrassi sperare da una serie d'uomini allevati per regnare?Gli è dunque un volersi ingannare a gran partito, confon-dendo il governo regio con quello di un re buono. Per ve-dere che cosa sia quel governo in sè stesso, bisogna con-siderarlo sotto principi limitati o cattivi: imperocchè essigiugneranno tali al trono, od il trono li renderà tali.

Codeste difficoltà non isfuggirono ai nostri autori; maeglino non se ne diedero fastidio. Il rimedio, dicono essi,consiste nell'ubbidire senza trar fiato: Iddio dà i re mal-vagi nella sua collera, e bisogna sopportarli quali castighidel cielo. Questo discorso, senza dubbio, è edificante, maparmi suonerebbe meglio su di un pulpito che in un librodi politica. Che dire d'un medico, il quale prometta mira-coli, e poi faccia consistere tutta l'arte sua nell'esortare ilmalato alla pazienza? Si sa che quando si ha un governocattivo, bisogna sopportarlo; ma si tratterebbe di trovarneuno buono.

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CAPITOLO VIIDei governi misti.

Propriamente parlando non vi ha governo semplice.Bisogna che un capo unico abbia magistrati subalterni,uopo è che un governo popolare abbia un capo. Così nel-la divisione del potere esecutivo avvi sempre una grada-zione dal numero maggiore al minore, colla differenza,che ora il numero maggiore dipende dal minore, ed ora ilminore dal maggiore.

Talvolta evvi partizione uguale; sia quando le parti co-stitutive trovansi in una reciproca dipendenza, come nelgoverno d'Inghilterra; sia quando l'autorità di ciascunaparte è indipendente, ma imperfetta, come in Polonia.Quest'ultima forma è cattiva perchè non vi è unità nel go-verno, e lo stato manca di connessione.

Quale dei due governi vale meglio, il semplice od ilmisto? La è questa una quistione agitatissima presso i po-litici, ed alla quale bisogna fare la medesima risposta giàda me data intorno ad ogni forma di governo.

Il governo semplice è il migliore in sè, soltanto perchèsemplice. Ma quando il potere esecutivo non dipende ab-bastanza dal legislativo, cioè quando evvi maggior rap-porto del principe al sovrano, che del popolo al principe,bisogna rimediare a questo difetto di proporzione divi-dendo il governo; chè allora tutte le sue parti non hannominore autorità sopra i sudditi, e la loro divisione le ren-de tutte insieme men forti contro il sovrano.

Il medesimo inconveniente si previene ancora collo

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CAPITOLO VIIDei governi misti.

Propriamente parlando non vi ha governo semplice.Bisogna che un capo unico abbia magistrati subalterni,uopo è che un governo popolare abbia un capo. Così nel-la divisione del potere esecutivo avvi sempre una grada-zione dal numero maggiore al minore, colla differenza,che ora il numero maggiore dipende dal minore, ed ora ilminore dal maggiore.

Talvolta evvi partizione uguale; sia quando le parti co-stitutive trovansi in una reciproca dipendenza, come nelgoverno d'Inghilterra; sia quando l'autorità di ciascunaparte è indipendente, ma imperfetta, come in Polonia.Quest'ultima forma è cattiva perchè non vi è unità nel go-verno, e lo stato manca di connessione.

Quale dei due governi vale meglio, il semplice od ilmisto? La è questa una quistione agitatissima presso i po-litici, ed alla quale bisogna fare la medesima risposta giàda me data intorno ad ogni forma di governo.

Il governo semplice è il migliore in sè, soltanto perchèsemplice. Ma quando il potere esecutivo non dipende ab-bastanza dal legislativo, cioè quando evvi maggior rap-porto del principe al sovrano, che del popolo al principe,bisogna rimediare a questo difetto di proporzione divi-dendo il governo; chè allora tutte le sue parti non hannominore autorità sopra i sudditi, e la loro divisione le ren-de tutte insieme men forti contro il sovrano.

Il medesimo inconveniente si previene ancora collo

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stabilire magistrati intermedi, i quali, lasciando il gover-no nella sua interezza, servano solo a bilanciare i due po-teri, e a mantenere i loro rispettivi diritti. Allora il gover-no non è misto, ma temperato.

Si può rimediare con mezzi simiglianti all'inconve-niente opposto, e quando il governo è troppo molle, eri-ger tribunali per concentrarlo, e ciò si pratica in tutte ledemocrazie. Nel primo caso si divide il governo per inde-bolirlo, e nel secondo per rafforzarlo; imperciocchè i ma-ximum di forza e di debolezza trovansi ugualmente neigoverni semplici, invece che le forme miste danno unaforza media.

CAPITOLO VIIIOgni forma di governo non è sempre adatta a

ogni paese

La libertà non essendo un frutto di tutti i climi, non siaddice nemmeno a tutti i popoli. Più si medita questoprincipio stabilito da Montesquieu, e più si riconoscevero; più viene oppugnato, e piu si ha occasione di con-fermarlo per mezzo di novelle prove.

In tutti i governi del mondo la persona pubblica consu-ma e non produce. Da che trae dunque la sostanza consu-mata? Dal lavoro de' suoi membri. Il superfluo del priva-to produce il necessario del pubblico. D'onde ne vieneche lo stato civile non può sussistere se non per quel tan-to che il lavoro degli uomini frutta al di là dei loro biso-

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stabilire magistrati intermedi, i quali, lasciando il gover-no nella sua interezza, servano solo a bilanciare i due po-teri, e a mantenere i loro rispettivi diritti. Allora il gover-no non è misto, ma temperato.

Si può rimediare con mezzi simiglianti all'inconve-niente opposto, e quando il governo è troppo molle, eri-ger tribunali per concentrarlo, e ciò si pratica in tutte ledemocrazie. Nel primo caso si divide il governo per inde-bolirlo, e nel secondo per rafforzarlo; imperciocchè i ma-ximum di forza e di debolezza trovansi ugualmente neigoverni semplici, invece che le forme miste danno unaforza media.

CAPITOLO VIIIOgni forma di governo non è sempre adatta a

ogni paese

La libertà non essendo un frutto di tutti i climi, non siaddice nemmeno a tutti i popoli. Più si medita questoprincipio stabilito da Montesquieu, e più si riconoscevero; più viene oppugnato, e piu si ha occasione di con-fermarlo per mezzo di novelle prove.

In tutti i governi del mondo la persona pubblica consu-ma e non produce. Da che trae dunque la sostanza consu-mata? Dal lavoro de' suoi membri. Il superfluo del priva-to produce il necessario del pubblico. D'onde ne vieneche lo stato civile non può sussistere se non per quel tan-to che il lavoro degli uomini frutta al di là dei loro biso-

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gni.Ora, questo soprappiù non è lo stesso in tutti i paesi

del mondo. In parecchi è vistosissimo, in altri mediocre,in altri nullo, in altri negativo. Questo rapporto dipendedalla fertilità del clima, dalla specie di lavoro voluto dal-la terra, dalla natura de' suoi prodotti, dalla forza de' suoiabitanti, dal maggiore o minor consumo ad essi necessa-rio, e da parecchi altri simili rapporti ond'è composto.

D'altra parte, non tutti i governi sono della medesimanatura; avvene di quelli più o meno voraci; e le differen-ze sono fondate su quest'altro principio, che, più le con-tribuzioni pubbliche si scostano dalla loro sorgente, e piùriescono onerose. Una tale gravezza non deve misurarsisulla quantità delle imposte, ma sulla via che debbonoqueste percorrere per tornare nelle mani d'onde uscirono.Quando tale circolazione è facile e bene stabilita, si paghipoco o molto non importa, perchè il popolo è sempre ric-co e le finanze vanno sempre bene. All'incontro, per pocoche doni il popolo, quando questo poco non gli ritorna, esempre dona, in breve si rifinisce; lo stato non è mai ric-co, ed il popolo è sempre pitocco.

Da ciò ne viene che più la distanza dal popolo al go-verno aumenta, e più i balzelli divengono onerosi: perciònella democrazia il popolo è il meno aggravato, nell'ari-stocrazia lo è di più, e nella monarchia sopporta il mag-gior peso. La monarchia non conviene dunque se non allenazioni opulenti, l'aristocrazia agli stati mediocri in ric-chezza ed in grandezza, la democrazia agli stati piccoli epoveri.

Infatti, più si riflette e più si trova in ciò una differenza

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gni.Ora, questo soprappiù non è lo stesso in tutti i paesi

del mondo. In parecchi è vistosissimo, in altri mediocre,in altri nullo, in altri negativo. Questo rapporto dipendedalla fertilità del clima, dalla specie di lavoro voluto dal-la terra, dalla natura de' suoi prodotti, dalla forza de' suoiabitanti, dal maggiore o minor consumo ad essi necessa-rio, e da parecchi altri simili rapporti ond'è composto.

D'altra parte, non tutti i governi sono della medesimanatura; avvene di quelli più o meno voraci; e le differen-ze sono fondate su quest'altro principio, che, più le con-tribuzioni pubbliche si scostano dalla loro sorgente, e piùriescono onerose. Una tale gravezza non deve misurarsisulla quantità delle imposte, ma sulla via che debbonoqueste percorrere per tornare nelle mani d'onde uscirono.Quando tale circolazione è facile e bene stabilita, si paghipoco o molto non importa, perchè il popolo è sempre ric-co e le finanze vanno sempre bene. All'incontro, per pocoche doni il popolo, quando questo poco non gli ritorna, esempre dona, in breve si rifinisce; lo stato non è mai ric-co, ed il popolo è sempre pitocco.

Da ciò ne viene che più la distanza dal popolo al go-verno aumenta, e più i balzelli divengono onerosi: perciònella democrazia il popolo è il meno aggravato, nell'ari-stocrazia lo è di più, e nella monarchia sopporta il mag-gior peso. La monarchia non conviene dunque se non allenazioni opulenti, l'aristocrazia agli stati mediocri in ric-chezza ed in grandezza, la democrazia agli stati piccoli epoveri.

Infatti, più si riflette e più si trova in ciò una differenza

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tra gli stati liberi ed i monarchici: nei primi tutto s'impie-ga pel vantaggio comune; negli altri le forze pubbliche eparticolari sono reciproche; e l'una cresce per l'indeboli-mento dell'altra: finalmente, il despotismo, invece di go-vernare i sudditi per renderli felici, li rende miserabili pergovernarli.

Ecco adunque, in ogni clima, cause naturali, dietro lequali si può indicare la forza di governo verso cui la for-za de clima lo sospinge, e dire eziandio quale specied'abitanti debba avere. I luoghi ingrati e sterili, in cui ilprodotto non equivale al lavoro, debbono rimanere incol-ti e deserti o popolati di selvaggi: i luoghi in cui il lavorodegli uomini non frutta esattamente se non il necessario,debbono venire abitati da popoli barbari, essendovi im-possibile ogni incivilimento: i luoghi in cui l'eccesso delprodotto sul lavoro è mediocre, convengono ai popoli li-beri: i luoghi in cui il terreno abbondante e fertile, benchèpoco lavorato, frutta assai, vogliono essere governati mo-narchicamente onde consumare col lusso del principel'eccesso del superfluo dei sudditi; imperocchè è meglioche quest'eccesso venga assorbito dal governo, che scia-lacquato dai privati. Vi sono eccezioni, il so; ma questeeccezioni stesse confermano la regola, nel senso ch'elle-no generano tosto o tardi rivoluzioni, le quali riconduco-no le cose all'ordine della natura.

Distinguiamo sempre le leggi generali dalle cause par-ticolari che ne possono modificare l'effetto. Quando an-che tutto il Mezzodì fosse pieno di repubbliche, e tutto ilSettentrione di stati despotici, non sarebbe men vero che,per l'effetto del clima, il despotismo conviene ai paesi

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tra gli stati liberi ed i monarchici: nei primi tutto s'impie-ga pel vantaggio comune; negli altri le forze pubbliche eparticolari sono reciproche; e l'una cresce per l'indeboli-mento dell'altra: finalmente, il despotismo, invece di go-vernare i sudditi per renderli felici, li rende miserabili pergovernarli.

Ecco adunque, in ogni clima, cause naturali, dietro lequali si può indicare la forza di governo verso cui la for-za de clima lo sospinge, e dire eziandio quale specied'abitanti debba avere. I luoghi ingrati e sterili, in cui ilprodotto non equivale al lavoro, debbono rimanere incol-ti e deserti o popolati di selvaggi: i luoghi in cui il lavorodegli uomini non frutta esattamente se non il necessario,debbono venire abitati da popoli barbari, essendovi im-possibile ogni incivilimento: i luoghi in cui l'eccesso delprodotto sul lavoro è mediocre, convengono ai popoli li-beri: i luoghi in cui il terreno abbondante e fertile, benchèpoco lavorato, frutta assai, vogliono essere governati mo-narchicamente onde consumare col lusso del principel'eccesso del superfluo dei sudditi; imperocchè è meglioche quest'eccesso venga assorbito dal governo, che scia-lacquato dai privati. Vi sono eccezioni, il so; ma questeeccezioni stesse confermano la regola, nel senso ch'elle-no generano tosto o tardi rivoluzioni, le quali riconduco-no le cose all'ordine della natura.

Distinguiamo sempre le leggi generali dalle cause par-ticolari che ne possono modificare l'effetto. Quando an-che tutto il Mezzodì fosse pieno di repubbliche, e tutto ilSettentrione di stati despotici, non sarebbe men vero che,per l'effetto del clima, il despotismo conviene ai paesi

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caldi, la barbarie ai paesi freddi, ed il buono incivilimen-to alle regioni intermedie. Io vedo eziandio che, ammet-tendo il principio, si potrà disputare intorno all'applica-zione: si potrà dire che vi sono paesi freddi fertilissimi, epaesi meridionali ingratissimi. Ma simile difficoltà non ètale se non per quelli che non esaminano la cosa in tuttele sue relazioni. Come già dissi, bisogna tener conto diquelle del lavoro, delle forze, del consumo, ecc.

Supponiamo che di due terreni uguali, l'uno producacinque, l'altro dieci. Se gli abitanti del primo consumanoquattro, e quelli del secondo nove, l'eccedente del primoprodotto sarà un terzo, e quello del secondo un decimo.La relazione di questi due eccedenti essendo dunque inragione inversa di quella dei prodotti, il terreno che frut-terà appena cinque darà un superfluo doppio di quello delterreno che frutterà dieci.

Ma qui non si tratta di un prodotto doppio, ed io credonon siavi chi osi mettere in generale la fertilità dei paesifreddi uguale a quella dei paesi caldi. Tuttavia supponia-mo questa eguaglianza; lasciamo, se vuolsi, l'Inghilterrapari alla Sicilia, e la Polonia all'Egitto: più verso a mez-zodì avremo l'Africa e le Indie, più a settentrione nonavremo più nulla. Per questa parità di prodotto, quale dif-ferenza nella coltura! In Sicilia basta razzolare la terra, inInghilterra quante cure per lavorarla! Or, laddove ci vuo-le un numero maggiore di braccia per dare il medesimoprodotto, il superfluo dev'essere necessariamente minore.

Si consideri inoltre, che la medesima quantità d'uominiconsuma assai meno nei paesi caldi. Per istarvi bene, ilclima richiede un viver sobrio: gli Europei, che vogliono

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caldi, la barbarie ai paesi freddi, ed il buono incivilimen-to alle regioni intermedie. Io vedo eziandio che, ammet-tendo il principio, si potrà disputare intorno all'applica-zione: si potrà dire che vi sono paesi freddi fertilissimi, epaesi meridionali ingratissimi. Ma simile difficoltà non ètale se non per quelli che non esaminano la cosa in tuttele sue relazioni. Come già dissi, bisogna tener conto diquelle del lavoro, delle forze, del consumo, ecc.

Supponiamo che di due terreni uguali, l'uno producacinque, l'altro dieci. Se gli abitanti del primo consumanoquattro, e quelli del secondo nove, l'eccedente del primoprodotto sarà un terzo, e quello del secondo un decimo.La relazione di questi due eccedenti essendo dunque inragione inversa di quella dei prodotti, il terreno che frut-terà appena cinque darà un superfluo doppio di quello delterreno che frutterà dieci.

Ma qui non si tratta di un prodotto doppio, ed io credonon siavi chi osi mettere in generale la fertilità dei paesifreddi uguale a quella dei paesi caldi. Tuttavia supponia-mo questa eguaglianza; lasciamo, se vuolsi, l'Inghilterrapari alla Sicilia, e la Polonia all'Egitto: più verso a mez-zodì avremo l'Africa e le Indie, più a settentrione nonavremo più nulla. Per questa parità di prodotto, quale dif-ferenza nella coltura! In Sicilia basta razzolare la terra, inInghilterra quante cure per lavorarla! Or, laddove ci vuo-le un numero maggiore di braccia per dare il medesimoprodotto, il superfluo dev'essere necessariamente minore.

Si consideri inoltre, che la medesima quantità d'uominiconsuma assai meno nei paesi caldi. Per istarvi bene, ilclima richiede un viver sobrio: gli Europei, che vogliono

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menarvi vita all'europea, periscono tutti di dissenteria ed'indigestione. “Noi siamo,” dice Chardin, “bestie carni-vore, lupi in paragone degli Asiatici. Alcuni attribuisconola sobrietà dei Persiani alla poca coltivazione del loropaese, ed io invece credo che il loro paese abbondi menoin derrate, perchè gli abitanti ne abbisognano meno... ―Se la loro frugalità, continua egli, fosse un effetto dellapenuria dei paese, mangerebbero poco i poveri soltanto,ed invece mangiano poco generalmente tutti; e si mange-rebbe più o meno in ciascuna provincia secondo la fertili-tà del paese, invece che incontrasi la medesima sobrietàper tutto il regno. Lodansi eglino assai del proprio mododi vivere, dicendo che basta osservare la loro carnagioneper confessare quanto sia migliore di quella dei cristiani.Infatti, la carnagione dei Persiani è unita, la loro pelle èbella, fina e liscia: invece la carnagione degli Armeniloro sudditi, che vivono all'europea, è ruvida, bitorzolata,ed hanno corpi grossi e pesanti”.

Più ci avviciniamo alla linea, e più i popoli vivono so-briamente. Non mangiano quasi mai carne; il riso, il for-mentone, il cuzcuz, il miglio, la cassava sono i loro ordi-nari alimenti. Nelle Indie sonvi milioni d' uomini il cuinutrimento non costa un soldo al giorno. Anche in Euro-pa noi vediamo differenze notevoli circa l'appetito tra ipopoli nordici ed i meridionali. Col desinare di un Tede-sco, uno Spagnuolo vive otto giorni. Nei paesi in cui gliuomini sono più voraci, il lusso rivolgesi eziandio versole cose di consumo: in Inghilterra si palesa sopra unamensa coperta di carni, in Italia vi trattano a zucchero efiori.

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menarvi vita all'europea, periscono tutti di dissenteria ed'indigestione. “Noi siamo,” dice Chardin, “bestie carni-vore, lupi in paragone degli Asiatici. Alcuni attribuisconola sobrietà dei Persiani alla poca coltivazione del loropaese, ed io invece credo che il loro paese abbondi menoin derrate, perchè gli abitanti ne abbisognano meno... ―Se la loro frugalità, continua egli, fosse un effetto dellapenuria dei paese, mangerebbero poco i poveri soltanto,ed invece mangiano poco generalmente tutti; e si mange-rebbe più o meno in ciascuna provincia secondo la fertili-tà del paese, invece che incontrasi la medesima sobrietàper tutto il regno. Lodansi eglino assai del proprio mododi vivere, dicendo che basta osservare la loro carnagioneper confessare quanto sia migliore di quella dei cristiani.Infatti, la carnagione dei Persiani è unita, la loro pelle èbella, fina e liscia: invece la carnagione degli Armeniloro sudditi, che vivono all'europea, è ruvida, bitorzolata,ed hanno corpi grossi e pesanti”.

Più ci avviciniamo alla linea, e più i popoli vivono so-briamente. Non mangiano quasi mai carne; il riso, il for-mentone, il cuzcuz, il miglio, la cassava sono i loro ordi-nari alimenti. Nelle Indie sonvi milioni d' uomini il cuinutrimento non costa un soldo al giorno. Anche in Euro-pa noi vediamo differenze notevoli circa l'appetito tra ipopoli nordici ed i meridionali. Col desinare di un Tede-sco, uno Spagnuolo vive otto giorni. Nei paesi in cui gliuomini sono più voraci, il lusso rivolgesi eziandio versole cose di consumo: in Inghilterra si palesa sopra unamensa coperta di carni, in Italia vi trattano a zucchero efiori.

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Il lusso delle vesti presenta ancora simili differenze.Nei climi in cui i cambiamenti delle stagioni sono facili eviolenti, si portan abiti migliori e più semplici; in quelliin cui non si veste se non per far pompa, vi si ricerca piùlo splendore che l'utilità; gli abiti stessi sono un lusso. ANapoli vedrete ogni giorno passeggiare uomini a Posilipoin veste dorata e senza calze. Lo stesso avviene negli edi-fizi; quando non si ha nulla a temere dalle ingiuriedell'aria si consacra tutto alla magnificenza. A Parigi ed aLondra si vuole essere alloggiati caldamente e comoda-mente: a Madrid vi sono saloni superbi, e non finestre dachiudere, e si dorme in topaie.

I cibi sono assai più sostanziosi e succulenti nei paesicaldi, e questa terza differenza non può mancar d'influiresulla seconda. Perchè in Italia si mangiano tanti legumi?perchè costì sono buoni, nutrienti e d'ottimo sapore. InFrancia, in cui sono soltanto gonfi d'acqua, non nudrisco-no, e sulle mense son tenuti a vile, eppure non occupanomen terreno e costano almeno almeno una pena uguale acoltivarli. Si è fatta l'esperienza che il frumento di Barba-ria, inferiore però a quello di Francia, rende assai più infarina, e quello di Francia a sua volta rende più del granodi settentrione. Dal che si può inferire che una simile gra-dazione osservasi generalmente nella medesima direzio-ne dalla linea al polo. Or non è egli un vantaggio visibilel'avere in un prodotto uguale minore quantità di alimenti?

A tutte queste diverse considerazioni posso aggiugner-ne ancora una, che ne deriva e le rafforza, ed è che i paesicaldi hanno meno bisogno d'abitanti dei paesi freddi, epotrebbero alimentarne assai di più; la qual cosa produce

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Il lusso delle vesti presenta ancora simili differenze.Nei climi in cui i cambiamenti delle stagioni sono facili eviolenti, si portan abiti migliori e più semplici; in quelliin cui non si veste se non per far pompa, vi si ricerca piùlo splendore che l'utilità; gli abiti stessi sono un lusso. ANapoli vedrete ogni giorno passeggiare uomini a Posilipoin veste dorata e senza calze. Lo stesso avviene negli edi-fizi; quando non si ha nulla a temere dalle ingiuriedell'aria si consacra tutto alla magnificenza. A Parigi ed aLondra si vuole essere alloggiati caldamente e comoda-mente: a Madrid vi sono saloni superbi, e non finestre dachiudere, e si dorme in topaie.

I cibi sono assai più sostanziosi e succulenti nei paesicaldi, e questa terza differenza non può mancar d'influiresulla seconda. Perchè in Italia si mangiano tanti legumi?perchè costì sono buoni, nutrienti e d'ottimo sapore. InFrancia, in cui sono soltanto gonfi d'acqua, non nudrisco-no, e sulle mense son tenuti a vile, eppure non occupanomen terreno e costano almeno almeno una pena uguale acoltivarli. Si è fatta l'esperienza che il frumento di Barba-ria, inferiore però a quello di Francia, rende assai più infarina, e quello di Francia a sua volta rende più del granodi settentrione. Dal che si può inferire che una simile gra-dazione osservasi generalmente nella medesima direzio-ne dalla linea al polo. Or non è egli un vantaggio visibilel'avere in un prodotto uguale minore quantità di alimenti?

A tutte queste diverse considerazioni posso aggiugner-ne ancora una, che ne deriva e le rafforza, ed è che i paesicaldi hanno meno bisogno d'abitanti dei paesi freddi, epotrebbero alimentarne assai di più; la qual cosa produce

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un doppio superfluo sempre a vantaggio del despotismo.Più il medesimo numero di abitanti occupa una grandesuperficie, e più le ribellioni diventano difficili, perchènon si può concertarsi nè prontamente, nè di straforo, eriesce sempre facile al governo di sventare le trame etroncare le comunicazioni. Ma più un popolo numerososi avvicina, e meno il governo può usurpare sovra il so-vrano: i capi deliberano tranquilli nelle loro stanze quan-to il principe nel suo consiglio, e la folla ragunasi prestoin sulle piazze, quanto le truppe nei loro quartieri. Il van-taggio adunque di un governo tirannico in questo è di po-ter agire a grandi distanze. Mercè i punti d'appoggio chesi piglia, la sua forza cresce da lontano come quella delleleve31. Quella del popolo invece non agisce se non con-centrata: dilatandosi svapora e si perde, come l'effettodella polvere sparsa per terra, la quale non si accende senon granello per granello. Per la qual cosa i paesi menpopolosi sono i più adatti alla tirannide; le belve ferocinon regnano se non nei deserti.

31 Ciò non contraddice quello che dissi più sopra, lib. 2, cap. 9,intorno agli inconvenienti dei grandi stati; perchè ivi trattavasidell'autorità del governo sui suoi membri, e qui si tratta dellasua forza contro i sudditi. I suoi membri sparsi gli servono dipunto d'appoggio per agire da lontano sul popolo; ma non hanessun punto d'appoggio per agire direttamente su questi mede-simi membri. Così nell'un caso la lunghezza della leva ne for-ma la debolezza, e nell'altro la forza.

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un doppio superfluo sempre a vantaggio del despotismo.Più il medesimo numero di abitanti occupa una grandesuperficie, e più le ribellioni diventano difficili, perchènon si può concertarsi nè prontamente, nè di straforo, eriesce sempre facile al governo di sventare le trame etroncare le comunicazioni. Ma più un popolo numerososi avvicina, e meno il governo può usurpare sovra il so-vrano: i capi deliberano tranquilli nelle loro stanze quan-to il principe nel suo consiglio, e la folla ragunasi prestoin sulle piazze, quanto le truppe nei loro quartieri. Il van-taggio adunque di un governo tirannico in questo è di po-ter agire a grandi distanze. Mercè i punti d'appoggio chesi piglia, la sua forza cresce da lontano come quella delleleve31. Quella del popolo invece non agisce se non con-centrata: dilatandosi svapora e si perde, come l'effettodella polvere sparsa per terra, la quale non si accende senon granello per granello. Per la qual cosa i paesi menpopolosi sono i più adatti alla tirannide; le belve ferocinon regnano se non nei deserti.

31 Ciò non contraddice quello che dissi più sopra, lib. 2, cap. 9,intorno agli inconvenienti dei grandi stati; perchè ivi trattavasidell'autorità del governo sui suoi membri, e qui si tratta dellasua forza contro i sudditi. I suoi membri sparsi gli servono dipunto d'appoggio per agire da lontano sul popolo; ma non hanessun punto d'appoggio per agire direttamente su questi mede-simi membri. Così nell'un caso la lunghezza della leva ne for-ma la debolezza, e nell'altro la forza.

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CAPITOLO IXDei segni di un buon governo.

Quando adunque si chiede assolutamente qual sia ilgoverno migliore, si chiede una cosa insolubile ed inde-terminata; o, se vuolsi, sono tante le buone soluzioni,quante le combinazioni possibili nelle posizioni assolutee relative dei popoli.

Ma se si chiedesse a qual segno si possa conoscere,che un dato popolo è bene o mal governato, ben diversasarebbe la cosa, e la questione di fatto potrebbesi risolve-re.

Eppure niuno la scioglie, perchè ciascuno vuole scio-glierla a suo modo. I sudditi vantano la pubblica tranquil-lità, i cittadini la libertà dei privati; uno preferisce la sicu-rezza dei possessi, l'altro quella delle persone; uno vuoleche il governo migliore sia il più severo, sostiene l'altroche sia il più dolce; altri vuole che si puniscano i delitti,ed altri si prevengano: chi stima bello l'esser temuto daivicini, e chi preferisce rimanerne ignoto; uno è contentoquando circola il danaro, l'altro esige che il popolo abbiapane. Quand'anco si andasse d'accordo intorno a questipunti ed altri simili, saremmo forse iti più innanzi? Lequantità morali mancando di precisa misura, se fossimoanche d'accordo intorno al segno, come il saremmo intor-no alla estimazione?

Per me, io stupisco sempre che si disconosca un segnocosì semplice, o che si abbia la mala fede di non conve-nirne. Qual è il fine della politica associazione? è la con-

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CAPITOLO IXDei segni di un buon governo.

Quando adunque si chiede assolutamente qual sia ilgoverno migliore, si chiede una cosa insolubile ed inde-terminata; o, se vuolsi, sono tante le buone soluzioni,quante le combinazioni possibili nelle posizioni assolutee relative dei popoli.

Ma se si chiedesse a qual segno si possa conoscere,che un dato popolo è bene o mal governato, ben diversasarebbe la cosa, e la questione di fatto potrebbesi risolve-re.

Eppure niuno la scioglie, perchè ciascuno vuole scio-glierla a suo modo. I sudditi vantano la pubblica tranquil-lità, i cittadini la libertà dei privati; uno preferisce la sicu-rezza dei possessi, l'altro quella delle persone; uno vuoleche il governo migliore sia il più severo, sostiene l'altroche sia il più dolce; altri vuole che si puniscano i delitti,ed altri si prevengano: chi stima bello l'esser temuto daivicini, e chi preferisce rimanerne ignoto; uno è contentoquando circola il danaro, l'altro esige che il popolo abbiapane. Quand'anco si andasse d'accordo intorno a questipunti ed altri simili, saremmo forse iti più innanzi? Lequantità morali mancando di precisa misura, se fossimoanche d'accordo intorno al segno, come il saremmo intor-no alla estimazione?

Per me, io stupisco sempre che si disconosca un segnocosì semplice, o che si abbia la mala fede di non conve-nirne. Qual è il fine della politica associazione? è la con-

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servazione e la prosperità de' suoi membri. E qual è il piùsicuro indizio, ch'essi si conservano e prosperano? è illoro numero e la popolazione. Non ite adunque a cercarealtrove questo indizio così conteso. Pareggiata altrondeogni cosa, il governo migliore è infallantemente quellosotto cui, senza mezzi estranei, senza naturalizzazione,senza colonie, i cittadini popolano e moltiplicano di più.Il peggiore è quello sotto il quale un popolo scema e de-perisce. Calcolatori, ora tocca a voi: contate, misurate,paragonate32.

32 Nel medesimo principio dêssi giudicare dei secoli che meritanola preferenza per la prosperità del genere umano. Troppo si am-mirano quelli, in cui vidersi fiorire le lettere e le arti, senza pe-netrare l'oggetto segreto di loro coltura, senza considerarne ilfunesto effetto: Idque apud imperitos humanitas vocabatur,cum pars servitutis esset (Tacit., Agric., 21). Non vedremo noimai nelle massime dei libri i grossolani interessi che fa parlaregli autori? No, checchè ne dicano, quando un paese si spopola,malgrado il suo splendore, non è vero che tutto vada bene, enon basta che un poeta abbia centomila franchi di rendita perfar sì che il suo secolo sia il migliore di tutti. Non bisogna tantopor mente all'apparente quiete ed alla tranquillità dei capi,quanto al benessere delle intiere nazioni, e specialmente deglistati più numerosi. La grandine flagella qualche cantone, maporta di rado carestia. Le ribellioni, le guerre civili sgomentanoi capi, ma non formano la vera disgrazia dei popoli, che posso-no pur pigliare fiato mentre si lotta a chi li tiranneggerà. Leloro prosperità o calamità reali nascono dal loro stato perma-nente: quando tutto rimane schiacciato sotto il giogo, allora tut-to deperisce, ed i capi distruggono a loro agio, ubi solitudinemfaciunt, pacem appellant (Tacit., Agric., 31). Quando le contesedei grandi agitavano il reame di Francia, e il coadiutore di Pari-gi portava al parlamento un pugnale in tasca, non fu tolto al po-

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servazione e la prosperità de' suoi membri. E qual è il piùsicuro indizio, ch'essi si conservano e prosperano? è illoro numero e la popolazione. Non ite adunque a cercarealtrove questo indizio così conteso. Pareggiata altrondeogni cosa, il governo migliore è infallantemente quellosotto cui, senza mezzi estranei, senza naturalizzazione,senza colonie, i cittadini popolano e moltiplicano di più.Il peggiore è quello sotto il quale un popolo scema e de-perisce. Calcolatori, ora tocca a voi: contate, misurate,paragonate32.

32 Nel medesimo principio dêssi giudicare dei secoli che meritanola preferenza per la prosperità del genere umano. Troppo si am-mirano quelli, in cui vidersi fiorire le lettere e le arti, senza pe-netrare l'oggetto segreto di loro coltura, senza considerarne ilfunesto effetto: Idque apud imperitos humanitas vocabatur,cum pars servitutis esset (Tacit., Agric., 21). Non vedremo noimai nelle massime dei libri i grossolani interessi che fa parlaregli autori? No, checchè ne dicano, quando un paese si spopola,malgrado il suo splendore, non è vero che tutto vada bene, enon basta che un poeta abbia centomila franchi di rendita perfar sì che il suo secolo sia il migliore di tutti. Non bisogna tantopor mente all'apparente quiete ed alla tranquillità dei capi,quanto al benessere delle intiere nazioni, e specialmente deglistati più numerosi. La grandine flagella qualche cantone, maporta di rado carestia. Le ribellioni, le guerre civili sgomentanoi capi, ma non formano la vera disgrazia dei popoli, che posso-no pur pigliare fiato mentre si lotta a chi li tiranneggerà. Leloro prosperità o calamità reali nascono dal loro stato perma-nente: quando tutto rimane schiacciato sotto il giogo, allora tut-to deperisce, ed i capi distruggono a loro agio, ubi solitudinemfaciunt, pacem appellant (Tacit., Agric., 31). Quando le contesedei grandi agitavano il reame di Francia, e il coadiutore di Pari-gi portava al parlamento un pugnale in tasca, non fu tolto al po-

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CAPITOLO XDell'abuso del governo e della sua tendenza a

degenerare.

Siccome la volontà particolare continuamente agiscecontra la volontà generale, così il governo fa uno sforzocontinuo contro la sovranità. Più aumenta questo sforzo,e più si altera la costituzione; e siccome non evvi costì al-tra volontà di corpo che, resistendo a quella del principe,la tenga in equilibrio, così tardi o tosto deve avvenire cheil principe opprima alla fin fine il sovrano, e rompa iltrattato sociale. È questo il vizio inerente ed inevitabile,che, fin dal nascere del corpo politico, tende del continuoa distruggerlo, come la vecchiaia e la morte distruggonofinalmente il corpo dell'uomo.

Sonvi due vie generali, per cui un governo degenera,quando cioè si restringe o quando lo stato si discioglie.

Il governo si ristringe quando passa dal gran numero alpiccolo, cioè dalla democrazia all'aristocrazia, e dall'ari-stocrazia alla monarchia. È questa la sua naturale inclina-

polo francese di vivere per ciò men felice e numeroso inun'onesta e libera agiatezza. Una volta la Grecia fioriva in pre-da alle più crudeli guerre, il sangue si versava a torrenti, e tulioil paese era coverto d'uomini. “Pareva, dice Machiavelli, chefra le stragi, le proscrizioni e le guerre civili la nostra repubbli-ca divenisse più potente: la virtù de' suoi cittadini, i loro costu-mi e la loro indipendenza erano più efficaci per rinvigorirla,che non tutti i suoi dissidi per farla debole.” Un po' di agitazio-ne dà elasticità alle anime, ed è la libertà e non la pace che fac-cia veramente prosperare la specie.

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CAPITOLO XDell'abuso del governo e della sua tendenza a

degenerare.

Siccome la volontà particolare continuamente agiscecontra la volontà generale, così il governo fa uno sforzocontinuo contro la sovranità. Più aumenta questo sforzo,e più si altera la costituzione; e siccome non evvi costì al-tra volontà di corpo che, resistendo a quella del principe,la tenga in equilibrio, così tardi o tosto deve avvenire cheil principe opprima alla fin fine il sovrano, e rompa iltrattato sociale. È questo il vizio inerente ed inevitabile,che, fin dal nascere del corpo politico, tende del continuoa distruggerlo, come la vecchiaia e la morte distruggonofinalmente il corpo dell'uomo.

Sonvi due vie generali, per cui un governo degenera,quando cioè si restringe o quando lo stato si discioglie.

Il governo si ristringe quando passa dal gran numero alpiccolo, cioè dalla democrazia all'aristocrazia, e dall'ari-stocrazia alla monarchia. È questa la sua naturale inclina-

polo francese di vivere per ciò men felice e numeroso inun'onesta e libera agiatezza. Una volta la Grecia fioriva in pre-da alle più crudeli guerre, il sangue si versava a torrenti, e tulioil paese era coverto d'uomini. “Pareva, dice Machiavelli, chefra le stragi, le proscrizioni e le guerre civili la nostra repubbli-ca divenisse più potente: la virtù de' suoi cittadini, i loro costu-mi e la loro indipendenza erano più efficaci per rinvigorirla,che non tutti i suoi dissidi per farla debole.” Un po' di agitazio-ne dà elasticità alle anime, ed è la libertà e non la pace che fac-cia veramente prosperare la specie.

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zione33. Se retrogradasse dal piccol numero al grande, dirsi potrebbe ch'ei si rilassa; ma questo progresso inverso èimpossibile.

Infatti, il governo non cambia mai forma, se non quan-do, guastatasi ogni sua molla, trovasi talmente debole danon poter conservare la sua. Ora, se si allentasse ancora

33 La formazione lenta ed il progresso della repubblica di Venezianelle sue lagune offrono un esempio notabile di tale successio-ne; e fa stupire assai, che da più di mille e dugent'anni, i Vene-ziani non sembrino ancora giunti se non al secondo stadio, ilquale cominciò al serrar di consiglio nel 1198. In quanto agliantichi duchi, che loro si rimproverano, checchè possa dire loSquittinio della libertà veneta, è provato ch'ei non furono lorosovrani.

Non si tralascerà di oppormi la repubblica romana, la quale tenne,dirassi, un progresso affatto contrario passando dalla monar-chia all'aristocrazia, e dall'aristocrazia alla democrazia. Io sonoben lontano dal pensarla così.

Il primo instituto di Romolo fu un governo misto che degenerò su-bito in dispotismo. Per cagioni particolari, lo Stato perì innanzitempo, come vedesi a morire un neonato prima d'avere attintol'età d'uomo. La cacciata dei Tarquini fu la vera epoca dell'ori-gine della repubblica. Ma essa non pigliò subito una forma co-stante, perchè non si fece l'opera se non a mezzo non abolendoil patriziato. Imperciocchè, in quella maniera l'aristocrazia ere-ditaria, ch'è la peggiore delle amministrazioni legittime, rima-nendo in conflitto colla democrazia, la forma del governo, sem-pre incerta ed oscillante, non fu fissa, come lo provò Machia-velli, se non alla instituzione dei tribuni; allora soltanto fuvviun vero governo ed una vera democrazia. Infatti, il popolo allo-ra non era solamente sovrano, ma anche magistrato e giudice; ilsenato non era se non un tribunale di sott'ordine, per temperareo concentrare il governo; e gli stessi consoli, benchè patrizi,

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zione33. Se retrogradasse dal piccol numero al grande, dirsi potrebbe ch'ei si rilassa; ma questo progresso inverso èimpossibile.

Infatti, il governo non cambia mai forma, se non quan-do, guastatasi ogni sua molla, trovasi talmente debole danon poter conservare la sua. Ora, se si allentasse ancora

33 La formazione lenta ed il progresso della repubblica di Venezianelle sue lagune offrono un esempio notabile di tale successio-ne; e fa stupire assai, che da più di mille e dugent'anni, i Vene-ziani non sembrino ancora giunti se non al secondo stadio, ilquale cominciò al serrar di consiglio nel 1198. In quanto agliantichi duchi, che loro si rimproverano, checchè possa dire loSquittinio della libertà veneta, è provato ch'ei non furono lorosovrani.

Non si tralascerà di oppormi la repubblica romana, la quale tenne,dirassi, un progresso affatto contrario passando dalla monar-chia all'aristocrazia, e dall'aristocrazia alla democrazia. Io sonoben lontano dal pensarla così.

Il primo instituto di Romolo fu un governo misto che degenerò su-bito in dispotismo. Per cagioni particolari, lo Stato perì innanzitempo, come vedesi a morire un neonato prima d'avere attintol'età d'uomo. La cacciata dei Tarquini fu la vera epoca dell'ori-gine della repubblica. Ma essa non pigliò subito una forma co-stante, perchè non si fece l'opera se non a mezzo non abolendoil patriziato. Imperciocchè, in quella maniera l'aristocrazia ere-ditaria, ch'è la peggiore delle amministrazioni legittime, rima-nendo in conflitto colla democrazia, la forma del governo, sem-pre incerta ed oscillante, non fu fissa, come lo provò Machia-velli, se non alla instituzione dei tribuni; allora soltanto fuvviun vero governo ed una vera democrazia. Infatti, il popolo allo-ra non era solamente sovrano, ma anche magistrato e giudice; ilsenato non era se non un tribunale di sott'ordine, per temperareo concentrare il governo; e gli stessi consoli, benchè patrizi,

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ampliandosi, la sua forza diverrebbe affatto nulla, e sus-sisterebbe ancor meno. Bisogna dunque rimontare estringere la molla a misura che cede, altrimenti lo statocui sostiene cadrebbe in rovina.

Il caso della dissoluzione dello stato può capitare indue modi.

Primieramente, quando il principe non amministra piùlo stato secondo le leggi ed usurpa il potere sovrano. Al-lora si fa un cambiamento notevole, ed è che non si re-stringe il governo, sibbene lo stato: io vuo' dire che ilgrande stato si discioglie, e se ne forma un altro in quel-lo, composto solamente dei membri del governo, e chenon è più nulla al resto del popolo che suo padrone e ti-ranno. Di modo che, allorquando il governo usurpa la so-vranità, il patto sociale è rotto, e tutti i semplici cittadini,rientrati di diritto nella loro libertà naturale, sono costret-

benchè primi magistrati, benchè generali assoluti in guerra, aRoma non erano altro fuorchè i presidenti del popolo.

Fin d'allora videsi pure il governo prendere la sua china naturale, etendere fortemente all'aristocrazia. Il patriziato abolendosi qua-si da sè, l'aristocrazia non era più nel corpo dei patrizi com'è aVenezia ed a Genova, ma nel corpo del senato composto di pa-trizi e di plebei, ed eziandio nel corpo dei tribuni quando co-minciarono ad usurpare un potere attivo: imperocchè le parolenon fanno nulla alle cose; e quando il popolo ha i capi che go-vernano per lui, qualunque nome portino questi capi, è sempreun'aristocrazia.

Dall'abuso dell'aristocrazia nacquero le guerre civili ed il triumvi-rato. Silla, Giulio Cesare, Augusto diventarono in fatto verimonarchi; e finalmente, sotto il dispotismo di Tiberio, lo Statosi disciolse. La storia romana non ismentisce dunque il mioprincipio, ma lo conferma.

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ampliandosi, la sua forza diverrebbe affatto nulla, e sus-sisterebbe ancor meno. Bisogna dunque rimontare estringere la molla a misura che cede, altrimenti lo statocui sostiene cadrebbe in rovina.

Il caso della dissoluzione dello stato può capitare indue modi.

Primieramente, quando il principe non amministra piùlo stato secondo le leggi ed usurpa il potere sovrano. Al-lora si fa un cambiamento notevole, ed è che non si re-stringe il governo, sibbene lo stato: io vuo' dire che ilgrande stato si discioglie, e se ne forma un altro in quel-lo, composto solamente dei membri del governo, e chenon è più nulla al resto del popolo che suo padrone e ti-ranno. Di modo che, allorquando il governo usurpa la so-vranità, il patto sociale è rotto, e tutti i semplici cittadini,rientrati di diritto nella loro libertà naturale, sono costret-

benchè primi magistrati, benchè generali assoluti in guerra, aRoma non erano altro fuorchè i presidenti del popolo.

Fin d'allora videsi pure il governo prendere la sua china naturale, etendere fortemente all'aristocrazia. Il patriziato abolendosi qua-si da sè, l'aristocrazia non era più nel corpo dei patrizi com'è aVenezia ed a Genova, ma nel corpo del senato composto di pa-trizi e di plebei, ed eziandio nel corpo dei tribuni quando co-minciarono ad usurpare un potere attivo: imperocchè le parolenon fanno nulla alle cose; e quando il popolo ha i capi che go-vernano per lui, qualunque nome portino questi capi, è sempreun'aristocrazia.

Dall'abuso dell'aristocrazia nacquero le guerre civili ed il triumvi-rato. Silla, Giulio Cesare, Augusto diventarono in fatto verimonarchi; e finalmente, sotto il dispotismo di Tiberio, lo Statosi disciolse. La storia romana non ismentisce dunque il mioprincipio, ma lo conferma.

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ti, ma non obbligati ad ubbidire.Lo stesso caso avviene eziandio quando i membri del

governo usurpano separatamente il potere cui non devo-no esercitare se non in corpo; il che non è una piccola in-frazione delle leggi, e produce ancora un maggior disor-dine. Allora si hanno, per dir così, tanti principi quantisono i magistrati, e lo stato, non meno diviso del gover-no, perisce o cambia forma.

Quando lo stato si scioglie, l'abuso del governo, qua-lunque sia, piglia il nome comune d'anarchia. Facendopoi una distinzione, la democrazia degenera in oclocra-zia, l'aristocrazia in oligarchia, ed io aggiugnerei che lamonarchia degenera in tirannia; ma questa ultima parolaè equivoca, e richiede spiegazione.

Nel senso volgare, un tiranno è un re che governa conviolenza e senza riguardo alla giustizia ed alle leggi. Nelsenso preciso, un tiranno è un privato che si arrogal'autorità regia senza avervi diritto. Così interpretavano laparola tiranno i greci, ed eglino la davano indifferente-mente ai buoni ed ai cattivi principi, la cui autorità nonera legittima34. Così tiranno ed usurpatore sono due pa-

34 Omnes enim et habentur et dicuntur tyranni, qui potestateutuntur perpetua in ea civitate quae libertate usa est. CORN.NEP. in Miltiad., cap. 8. – È vero, che Aristotile (Mor. Nicom.,lib. 8, cap. 10) distingue il tiranno dal re per via che il primogoverna per sua propria utilità, ed il secondo solo per l'utilitàde' sudditi; ma oltre che generalmente tutti gli autori greci pi-gliarono la parola tiranno in altro senso, come appare massima-mente dal Gerone di Senofonte, giusta la distinzione di Aristo-tile ne verrebbe, che dal principio del mondo non sarebbe esi-stito ancora un solo re.

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ti, ma non obbligati ad ubbidire.Lo stesso caso avviene eziandio quando i membri del

governo usurpano separatamente il potere cui non devo-no esercitare se non in corpo; il che non è una piccola in-frazione delle leggi, e produce ancora un maggior disor-dine. Allora si hanno, per dir così, tanti principi quantisono i magistrati, e lo stato, non meno diviso del gover-no, perisce o cambia forma.

Quando lo stato si scioglie, l'abuso del governo, qua-lunque sia, piglia il nome comune d'anarchia. Facendopoi una distinzione, la democrazia degenera in oclocra-zia, l'aristocrazia in oligarchia, ed io aggiugnerei che lamonarchia degenera in tirannia; ma questa ultima parolaè equivoca, e richiede spiegazione.

Nel senso volgare, un tiranno è un re che governa conviolenza e senza riguardo alla giustizia ed alle leggi. Nelsenso preciso, un tiranno è un privato che si arrogal'autorità regia senza avervi diritto. Così interpretavano laparola tiranno i greci, ed eglino la davano indifferente-mente ai buoni ed ai cattivi principi, la cui autorità nonera legittima34. Così tiranno ed usurpatore sono due pa-

34 Omnes enim et habentur et dicuntur tyranni, qui potestateutuntur perpetua in ea civitate quae libertate usa est. CORN.NEP. in Miltiad., cap. 8. – È vero, che Aristotile (Mor. Nicom.,lib. 8, cap. 10) distingue il tiranno dal re per via che il primogoverna per sua propria utilità, ed il secondo solo per l'utilitàde' sudditi; ma oltre che generalmente tutti gli autori greci pi-gliarono la parola tiranno in altro senso, come appare massima-mente dal Gerone di Senofonte, giusta la distinzione di Aristo-tile ne verrebbe, che dal principio del mondo non sarebbe esi-stito ancora un solo re.

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role perfettamente sinonime.Per dare diversi nomi a cose differenti, io chiamo ti-

ranno l'usurpatore dell'autorità regia, e despota l'usurpa-tore del potere sovrano. Il tiranno è quegli che si ingeri-sce, contro le leggi, a governare secondo le leggi; il de-spota è quegli che si pone al di sopra delle leggi medesi-me. Così il tiranno può non esser despota, ma il despota èsempre tiranno.

CAPITOLO XIDella morte del corpo politico.

Tale è la tendenza naturale ed inevitabile dei governimeglio costituiti. Se perirono Sparta e Roma, quale statopuò sperare di durar sempre? Se vogliamo formare unistituto durevole, non pensiamo a renderlo eterno. Perriuscirvi non bisogna tentare l'impossibile, nè vantarsi didare all'opera degli uomini una solidità, che le umanecose non comportano.

Il corpo politico, al par del corpo umano, comincia amorire fin dal nascere, e porta in sè stesso i germi di suadistruzione. Ma possono l'uno e l'altro avere una costitu-zione più o meno robusta, e atta a conservarli per più omeno tempo. La costituzione dell'uomo è l'opera dellanatura, quella dello stato è opera dell'arte. Non dipendedagli uomini il prolungare la loro vita, ma da essi dipen-de il prolungar quella dello stato per quanto sia possibile,dandogli la migliore costituzione possibile. Il meglio co-

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role perfettamente sinonime.Per dare diversi nomi a cose differenti, io chiamo ti-

ranno l'usurpatore dell'autorità regia, e despota l'usurpa-tore del potere sovrano. Il tiranno è quegli che si ingeri-sce, contro le leggi, a governare secondo le leggi; il de-spota è quegli che si pone al di sopra delle leggi medesi-me. Così il tiranno può non esser despota, ma il despota èsempre tiranno.

CAPITOLO XIDella morte del corpo politico.

Tale è la tendenza naturale ed inevitabile dei governimeglio costituiti. Se perirono Sparta e Roma, quale statopuò sperare di durar sempre? Se vogliamo formare unistituto durevole, non pensiamo a renderlo eterno. Perriuscirvi non bisogna tentare l'impossibile, nè vantarsi didare all'opera degli uomini una solidità, che le umanecose non comportano.

Il corpo politico, al par del corpo umano, comincia amorire fin dal nascere, e porta in sè stesso i germi di suadistruzione. Ma possono l'uno e l'altro avere una costitu-zione più o meno robusta, e atta a conservarli per più omeno tempo. La costituzione dell'uomo è l'opera dellanatura, quella dello stato è opera dell'arte. Non dipendedagli uomini il prolungare la loro vita, ma da essi dipen-de il prolungar quella dello stato per quanto sia possibile,dandogli la migliore costituzione possibile. Il meglio co-

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stituito finirà, ma più tardi di un altro, se nessun acciden-te imprevisto non ne cagioni anzi tempo la rovina.

Il principio della vita politica sta nell'autorità sovrana.Il potere legislativo è il cuore dello stato, il potere esecu-tivo ne è il cervello, che dà il moto a tutte le parti. Il cer-vello può cadere in paralisia, e l'individuo vivere ancora.Un uomo resta imbecille e vive; ma appena il cuore hacessato di battere, l'animale è morto.

Lo stato non sussiste per le leggi, ma per via del poterelegislativo. La legge di ieri non obbliga oggi: ma il tacitoconsenso si presume dal silenzio, ed il sovrano pare con-fermar sempre le leggi cui non abroga, potendolo. Tuttociò che ha dichiarato di volere una volta, lo vuole farsempre, a meno che non lo revochi.

Perchè dunque si porta tanto rispetto alle antiche leg-gi? È per questo appunto. Si deve credere non esservi senon l'eccellenza delle volontà antiche che le abbia potutoconservare tanto tempo: se il sovrano non le avesse rico-nosciute costantemente salutari, mille volte le avrebbe re-vocate. Ecco perchè le leggi, ben lungi dall'indebolirsi,acquistano del continuo una nuova forza in ogni stato bencostituito; il pregiudizio dell'antichità le rende ogni dì piùvenerabili; in vece che, dovunque le leggi s'indebolisco-no invecchiando, è una prova non esservi più potere legi-slativo, e che lo stato non vive più.

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stituito finirà, ma più tardi di un altro, se nessun acciden-te imprevisto non ne cagioni anzi tempo la rovina.

Il principio della vita politica sta nell'autorità sovrana.Il potere legislativo è il cuore dello stato, il potere esecu-tivo ne è il cervello, che dà il moto a tutte le parti. Il cer-vello può cadere in paralisia, e l'individuo vivere ancora.Un uomo resta imbecille e vive; ma appena il cuore hacessato di battere, l'animale è morto.

Lo stato non sussiste per le leggi, ma per via del poterelegislativo. La legge di ieri non obbliga oggi: ma il tacitoconsenso si presume dal silenzio, ed il sovrano pare con-fermar sempre le leggi cui non abroga, potendolo. Tuttociò che ha dichiarato di volere una volta, lo vuole farsempre, a meno che non lo revochi.

Perchè dunque si porta tanto rispetto alle antiche leg-gi? È per questo appunto. Si deve credere non esservi senon l'eccellenza delle volontà antiche che le abbia potutoconservare tanto tempo: se il sovrano non le avesse rico-nosciute costantemente salutari, mille volte le avrebbe re-vocate. Ecco perchè le leggi, ben lungi dall'indebolirsi,acquistano del continuo una nuova forza in ogni stato bencostituito; il pregiudizio dell'antichità le rende ogni dì piùvenerabili; in vece che, dovunque le leggi s'indebolisco-no invecchiando, è una prova non esservi più potere legi-slativo, e che lo stato non vive più.

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CAPITOLO XIICome si mantenga l'autorità sovrana.

Il sovrano, non avendo altra forza fuorchè il potere le-gislativo, non agisce se non per mezzo delle leggi, e leleggi non essendo altro fuorchè atti autentici della volon-tà generale, il sovrano non saprebbe agire se non quandoil popolo è ragunato. Il popolo raunato! si dirà; quale chi-mera! È una chimera oggi, ma non la era due mill'anni fa.Gli uomini cambiarono forse natura?

I confini del possibile nelle cose morali sono meno an-gusti di quello che noi pensiamo, ma sono ristretti dallenostre debolezze, da' nostri vizi, da' nostri pregiudizi. Leanime basse non credono ai grandi uomini: de' vili schia-vi sorridono beffardi a questa parola di libertà.

Da quanto fu fatto, consideriamo ciò che può farsi. Ionon parlerò delle antiche repubbliche della Grecia; maparmi che la repubblica romana fosse uno stato grande, ela città di Roma una grande città. L'ultimo censo diede inRoma quattrocentomila cittadini atti a portar l'armi, el'ultima enumerazione dell'impero più di quattro milionidi cittadini, senza contare i sudditi stranieri, le donne, ifanciulli, gli schiavi.

Quale difficoltà non sarebbe per certuni il convocarefrequentemente l'immenso popolo di quella capitale e de'suoi dintorni! Eppure, poche settimane passavano senzache il popolo romano fosse convocato, ed anche parec-chie volte. Non solo esercitava i diritti della sovranità,ma parte di quelli del governo. Trattava egli certi affari,

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CAPITOLO XIICome si mantenga l'autorità sovrana.

Il sovrano, non avendo altra forza fuorchè il potere le-gislativo, non agisce se non per mezzo delle leggi, e leleggi non essendo altro fuorchè atti autentici della volon-tà generale, il sovrano non saprebbe agire se non quandoil popolo è ragunato. Il popolo raunato! si dirà; quale chi-mera! È una chimera oggi, ma non la era due mill'anni fa.Gli uomini cambiarono forse natura?

I confini del possibile nelle cose morali sono meno an-gusti di quello che noi pensiamo, ma sono ristretti dallenostre debolezze, da' nostri vizi, da' nostri pregiudizi. Leanime basse non credono ai grandi uomini: de' vili schia-vi sorridono beffardi a questa parola di libertà.

Da quanto fu fatto, consideriamo ciò che può farsi. Ionon parlerò delle antiche repubbliche della Grecia; maparmi che la repubblica romana fosse uno stato grande, ela città di Roma una grande città. L'ultimo censo diede inRoma quattrocentomila cittadini atti a portar l'armi, el'ultima enumerazione dell'impero più di quattro milionidi cittadini, senza contare i sudditi stranieri, le donne, ifanciulli, gli schiavi.

Quale difficoltà non sarebbe per certuni il convocarefrequentemente l'immenso popolo di quella capitale e de'suoi dintorni! Eppure, poche settimane passavano senzache il popolo romano fosse convocato, ed anche parec-chie volte. Non solo esercitava i diritti della sovranità,ma parte di quelli del governo. Trattava egli certi affari,

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giudicava certe cause, e tutto quel popolo era sulla pub-blica piazza più spesso magistrato che cittadino.

Risalendo ai primi tempi delle nazioni, si troverebbeche la massima parte degli antichi governi, anche monar-chici, come quelli dei Macedoni e dei Franchi, avevanosimili consigli. Checchè ne sia, questo solo fatto inconte-stabile risponde a tutte le difficoltà: dall'esistente al pos-sibile, la conseguenza mi par buona.

CAPITOLO XIIIContinuazione.

Non basta che il popolo radunato abbia una volta fissa-to la costituzione dello stato, sanzionando un corpo dileggi; non basta che abbia stabilito un governo perpetuo,o ch'abbia provveduto una volta per sempre alla elezionedei magistrati. Oltre alle assemblee straordinarie, voluteda imprevisti casi, uopo è che ve ne siano di fisse e perio-diche, le quali per nessun motivo si possano abolire nèprorogare, talmente che al giorno fissato il popolo sia le-gittimamente convocato dalla legge, senza che facciad'uopo per ciò di nessun'altra formale convocazione.

Ma, fuori di queste assemblee giuridiche per la lorosolo data, ogni assemblea del popolo, che non fosse stataconvocata dai magistrati preposti a questo uopo e secon-do le forme prescritte, dev'essere tenuta per illegittima, equanto vi si fa di nessuna efficacia, perchè l'ordine stessodelle assemblee deve emanare dalla legge.

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giudicava certe cause, e tutto quel popolo era sulla pub-blica piazza più spesso magistrato che cittadino.

Risalendo ai primi tempi delle nazioni, si troverebbeche la massima parte degli antichi governi, anche monar-chici, come quelli dei Macedoni e dei Franchi, avevanosimili consigli. Checchè ne sia, questo solo fatto inconte-stabile risponde a tutte le difficoltà: dall'esistente al pos-sibile, la conseguenza mi par buona.

CAPITOLO XIIIContinuazione.

Non basta che il popolo radunato abbia una volta fissa-to la costituzione dello stato, sanzionando un corpo dileggi; non basta che abbia stabilito un governo perpetuo,o ch'abbia provveduto una volta per sempre alla elezionedei magistrati. Oltre alle assemblee straordinarie, voluteda imprevisti casi, uopo è che ve ne siano di fisse e perio-diche, le quali per nessun motivo si possano abolire nèprorogare, talmente che al giorno fissato il popolo sia le-gittimamente convocato dalla legge, senza che facciad'uopo per ciò di nessun'altra formale convocazione.

Ma, fuori di queste assemblee giuridiche per la lorosolo data, ogni assemblea del popolo, che non fosse stataconvocata dai magistrati preposti a questo uopo e secon-do le forme prescritte, dev'essere tenuta per illegittima, equanto vi si fa di nessuna efficacia, perchè l'ordine stessodelle assemblee deve emanare dalla legge.

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Riguardo al raunarsi più o meno frequente delle as-semblee legittime, esso dipende da tante considerazioni,che non si potrebbero dare norme precise. Si può diresoltanto in generale, che più il governo è forte, e più ilsovrano deve mostrarsi frequentemente.

Mi si dirà che ciò può esser buono per una sola città;ma che fare quando lo stato ne contiene parecchie? Si di-viderà forse l'autorità sovrana, oppure la si dovrà concen-trare in una città sola ed assoggettare tutto il resto?

Io rispondo, che non si deve fare nè l'uno nè l'altro.Primieramente, l'autorità sovrana è semplice ed una, enon si può dividerla senza distruggerla. In secondo luo-go, una città, come una nazione, non può essere legitti-mamente suddita di un'altra, perchè l'essenza del corpopolitico sta nell'armonia dell'ubbidienza e della libertà, equeste parole di suddito e sovrano sono correlazioniidentiche la cui idea si riunisce nella sola parola di citta-dino.

Rispondo ancora essere sempre un male l'unire parec-chie città in un solo comune, e volendo fare questa unio-ne, non doversi mai menar vanto di evitarne i naturali in-convenienti. Non bisogna obbiettare l'abuso de' grandistati a chi non ne voglia se non di piccoli. Ma come dareai piccoli stati forza bastante per resistere ai grandi, comeun tempo le città greche resistettero al gran re, e comepiù recentemente l'Olanda e la Svizzera resistettero acasa d'Austria?

Tuttavolta, se non si può ridurre lo stato a giusti limiti,rimane ancora un rimedio, ed è di non soffrirvi capitale,di far risiedere il governo alternamente in ciascuna città,

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Riguardo al raunarsi più o meno frequente delle as-semblee legittime, esso dipende da tante considerazioni,che non si potrebbero dare norme precise. Si può diresoltanto in generale, che più il governo è forte, e più ilsovrano deve mostrarsi frequentemente.

Mi si dirà che ciò può esser buono per una sola città;ma che fare quando lo stato ne contiene parecchie? Si di-viderà forse l'autorità sovrana, oppure la si dovrà concen-trare in una città sola ed assoggettare tutto il resto?

Io rispondo, che non si deve fare nè l'uno nè l'altro.Primieramente, l'autorità sovrana è semplice ed una, enon si può dividerla senza distruggerla. In secondo luo-go, una città, come una nazione, non può essere legitti-mamente suddita di un'altra, perchè l'essenza del corpopolitico sta nell'armonia dell'ubbidienza e della libertà, equeste parole di suddito e sovrano sono correlazioniidentiche la cui idea si riunisce nella sola parola di citta-dino.

Rispondo ancora essere sempre un male l'unire parec-chie città in un solo comune, e volendo fare questa unio-ne, non doversi mai menar vanto di evitarne i naturali in-convenienti. Non bisogna obbiettare l'abuso de' grandistati a chi non ne voglia se non di piccoli. Ma come dareai piccoli stati forza bastante per resistere ai grandi, comeun tempo le città greche resistettero al gran re, e comepiù recentemente l'Olanda e la Svizzera resistettero acasa d'Austria?

Tuttavolta, se non si può ridurre lo stato a giusti limiti,rimane ancora un rimedio, ed è di non soffrirvi capitale,di far risiedere il governo alternamente in ciascuna città,

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e ragunarvi pure a vicenda gli stati del paese.Popolate ugualmente il territorio; propagatevi dapper-

tutto i medesimi diritti, e l'abbondanza e la vita; in questaguisa lo stato diverrà a un tempo il più forte ed il megliogovernato che sia possibile. Rammentatevi che le muradelle città non si formano se non degli avanzi delle casecampestri. Ad ogni palazzo ch'io vedo sorgere nella capi-tale, parmi veder diroccare tutto un paese.

CAPITOLO XIVContinuazione.

Dal punto che il popolo è legittimamente ragunato incorpo sovrano, ogni giurisdizione del governo cessa, ri-mane sospeso il potere esecutivo, e la persona dell'ultimocittadino è sacra ed inviolabile quanto quella del primomagistrato, imperocchè dove trovasi il rappresentato, nonsiavi più rappresentante. La maggior parte dei tumultiche sorsero a Roma nei comizi accaddero per essersiignorata o negletta questa regola. I consoli allora non era-no se non i presidenti del popolo, i tribuni semplici orato-ri35, ed il senato niente affatto.

Quegli intervalli di sospensione, in cui il principe rico-nosce o deve riconoscere un superiore attuale, furono

35 Press'a poco nel senso che si dà a questo nome nel parlamentoinglese. La somiglianza di quelle cariche avrebbe messo inconflitto i consoli ed i tribuni, quand'anco fosse stata sospesaogni giurisdizione.

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e ragunarvi pure a vicenda gli stati del paese.Popolate ugualmente il territorio; propagatevi dapper-

tutto i medesimi diritti, e l'abbondanza e la vita; in questaguisa lo stato diverrà a un tempo il più forte ed il megliogovernato che sia possibile. Rammentatevi che le muradelle città non si formano se non degli avanzi delle casecampestri. Ad ogni palazzo ch'io vedo sorgere nella capi-tale, parmi veder diroccare tutto un paese.

CAPITOLO XIVContinuazione.

Dal punto che il popolo è legittimamente ragunato incorpo sovrano, ogni giurisdizione del governo cessa, ri-mane sospeso il potere esecutivo, e la persona dell'ultimocittadino è sacra ed inviolabile quanto quella del primomagistrato, imperocchè dove trovasi il rappresentato, nonsiavi più rappresentante. La maggior parte dei tumultiche sorsero a Roma nei comizi accaddero per essersiignorata o negletta questa regola. I consoli allora non era-no se non i presidenti del popolo, i tribuni semplici orato-ri35, ed il senato niente affatto.

Quegli intervalli di sospensione, in cui il principe rico-nosce o deve riconoscere un superiore attuale, furono

35 Press'a poco nel senso che si dà a questo nome nel parlamentoinglese. La somiglianza di quelle cariche avrebbe messo inconflitto i consoli ed i tribuni, quand'anco fosse stata sospesaogni giurisdizione.

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sempre da lui temuti, e quelle assemblee del popolo, chesono l'egida del corpo politico ed il freno del governo,furono in ogni tempo l'orrore dei capi; epperò non rispar-miano mai nè cure, nè obbiezioni, nè difficoltà, nè pro-messe per distorne i cittadini. Quando questi sono avari,vili, pusillanimi, più amanti del riposo che della libertà,non durano un pezzo contro i pertinaci sforzi del gover-no, e così la forza esistente crescendo del continuo, allaperfine l'autorità sovrana svanisce, e la maggior parte de'comuni cadono e periscono anzi tempo.

Ma tra l'autorità sovrana ed il governo arbitrario intro-mettesi talvolta un potere medio, del quale bisogna farparola.

CAPITOLO XVDei deputati, ossia rappresentanti.

Appena il pubblico servizio cessa d'essere la principalebisogna dei cittadini e questi amano meglio servire collaborsa, che colla persona, lo stato è già in procinto di rovi-nare. Hanno da correre alla guerra? pagano truppe e ri-mangono a casa; hanno da ire al consiglio? nominano de-putati e restano in casa. A furia di pigrizia e di denaro,riesce loro d'aver soldati per soggiogare la patria, e rap-presentanti per venderla.

Le cure del commercio e delle arti, l'avido interessedel guadagno, la mollezza e l'amore degli agi mutano iservigi personali in denaro. Si cede una parte del profitto

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sempre da lui temuti, e quelle assemblee del popolo, chesono l'egida del corpo politico ed il freno del governo,furono in ogni tempo l'orrore dei capi; epperò non rispar-miano mai nè cure, nè obbiezioni, nè difficoltà, nè pro-messe per distorne i cittadini. Quando questi sono avari,vili, pusillanimi, più amanti del riposo che della libertà,non durano un pezzo contro i pertinaci sforzi del gover-no, e così la forza esistente crescendo del continuo, allaperfine l'autorità sovrana svanisce, e la maggior parte de'comuni cadono e periscono anzi tempo.

Ma tra l'autorità sovrana ed il governo arbitrario intro-mettesi talvolta un potere medio, del quale bisogna farparola.

CAPITOLO XVDei deputati, ossia rappresentanti.

Appena il pubblico servizio cessa d'essere la principalebisogna dei cittadini e questi amano meglio servire collaborsa, che colla persona, lo stato è già in procinto di rovi-nare. Hanno da correre alla guerra? pagano truppe e ri-mangono a casa; hanno da ire al consiglio? nominano de-putati e restano in casa. A furia di pigrizia e di denaro,riesce loro d'aver soldati per soggiogare la patria, e rap-presentanti per venderla.

Le cure del commercio e delle arti, l'avido interessedel guadagno, la mollezza e l'amore degli agi mutano iservigi personali in denaro. Si cede una parte del profitto

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per crescerlo a suo comodo. Date denaro, ed in breveavrete catene. La parola finanza è parola da schiavo, ed èignorata nel comune. In un paese veramente libero, i cit-tadini fanno tutto colle proprie braccia, e nulla col dena-ro: lungi dal pagare per esentuarsi dai loro doveri, paghe-ranno per soddisfarli eglino stessi. Io sono ben lontanodalle idee comuni, e credo le servitù men contrarie alla li-bertà delle tasse.

Quanto meglio costituito è lo stato, tanto più i pubblicinegozi hanno il sopravvento sui privati nello spirito deicittadini. Vi sarà anzi un minor numero d'affari privati,perchè la somma della comune felicità dando una porzio-ne più considerevole a quella di ciascun individuo, glienerimane meno a cercare nelle cure particolari. In una re-pubblica bene retta ognuno vola alle assemblee; sotto ungoverno cattivo nessuno ama fare un passo per recarvisi,perchè nessuno piglia interesse a quanto vi si opra, per-chè si prevede che non vi dominerà la volontà generale, eperchè infine le cure domestiche assorbono tutto. Le leg-gi buone ne producono di migliori, e le cattive delle peg-giori. Non appena qualcuno dirà degli affari dello stato:Che m'importa? si deve riguardare lo stato come perduto.

Lo scemamento dell'amore della patria, l'attività delprivato interesse, l'immensità degli stati, le conquiste,l'abuso del governo suggerirono l'idea dei deputati o rap-presentanti del popolo nelle assemblee della nazione, iquali in certi paesi si osò chiamare terzo stato. Così ilparticolare interesse di due classi è messo al primo e se-cond'ordine, l'interesse pubblico solo al terzo.

La sovranità non può rappresentarsi per la stessa ragio-

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per crescerlo a suo comodo. Date denaro, ed in breveavrete catene. La parola finanza è parola da schiavo, ed èignorata nel comune. In un paese veramente libero, i cit-tadini fanno tutto colle proprie braccia, e nulla col dena-ro: lungi dal pagare per esentuarsi dai loro doveri, paghe-ranno per soddisfarli eglino stessi. Io sono ben lontanodalle idee comuni, e credo le servitù men contrarie alla li-bertà delle tasse.

Quanto meglio costituito è lo stato, tanto più i pubblicinegozi hanno il sopravvento sui privati nello spirito deicittadini. Vi sarà anzi un minor numero d'affari privati,perchè la somma della comune felicità dando una porzio-ne più considerevole a quella di ciascun individuo, glienerimane meno a cercare nelle cure particolari. In una re-pubblica bene retta ognuno vola alle assemblee; sotto ungoverno cattivo nessuno ama fare un passo per recarvisi,perchè nessuno piglia interesse a quanto vi si opra, per-chè si prevede che non vi dominerà la volontà generale, eperchè infine le cure domestiche assorbono tutto. Le leg-gi buone ne producono di migliori, e le cattive delle peg-giori. Non appena qualcuno dirà degli affari dello stato:Che m'importa? si deve riguardare lo stato come perduto.

Lo scemamento dell'amore della patria, l'attività delprivato interesse, l'immensità degli stati, le conquiste,l'abuso del governo suggerirono l'idea dei deputati o rap-presentanti del popolo nelle assemblee della nazione, iquali in certi paesi si osò chiamare terzo stato. Così ilparticolare interesse di due classi è messo al primo e se-cond'ordine, l'interesse pubblico solo al terzo.

La sovranità non può rappresentarsi per la stessa ragio-

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ne onde non può essere alienata: essa consiste essenzial-mente nella volontà generale, e la volontà non si rappre-senta: od è la stessa, od è un'altra, non vi ha punto dimezzo. I deputati del popolo non sono dunque, nè posso-no essere suoi rappresentanti, sono soltanto suoi commis-sari, e non ponno conchiuder nulla definitivamente.Qualsiasi legge che non sia stata ratificata dal popolo inpersona, è nulla, non è una legge. Il popolo inglese pensad'esser libero; ei s'inganna a partito; e non è libero se nondurante l'elezione dei membri del parlamento: non appe-na li ha eletti, che torna schiavo e non è più niente. Neibrevi istanti di sua libertà, per l'uso che ne fa, merita diperderla.

L'idea dei rappresentanti è moderna; è un'eredità delgoverno feudale, di quell'iniquo ed assurdo governo, incui l'umana schiatta è degradata, ed il nome d'uomo diso-norato. Nelle antiche repubbliche ed anche nelle monar-chie, il popolo non ebbe mai rappresentanti; questa paro-la non era conosciuta. È singolarissimo che a Roma, incui i tribuni erano così sacri, non siasi pur pensato ch'essipotessero usurpare gli uffizi del popolo, e che in mezzo atanta moltitudine non abbiano mai tentato di passare dipropria autorità un solo plebiscito. Si giudichi nonpertan-to dell'imbarazzo cagionato talvolta dalla folla da ciò cheavvenne al tempo dei Gracchi, in cui una parte dei citta-dini dava il suo suffragio dal sommo dei tetti.

Dove il diritto e la libertà sono tutto, gl'inconvenientinon sono nulla. Presso quel popolo savio ogni cosa era alsuo posto; ei lasciava fare a' suoi littori quello che nonavrebbero osato fare i suoi tribuni: ei non temeva che i

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ne onde non può essere alienata: essa consiste essenzial-mente nella volontà generale, e la volontà non si rappre-senta: od è la stessa, od è un'altra, non vi ha punto dimezzo. I deputati del popolo non sono dunque, nè posso-no essere suoi rappresentanti, sono soltanto suoi commis-sari, e non ponno conchiuder nulla definitivamente.Qualsiasi legge che non sia stata ratificata dal popolo inpersona, è nulla, non è una legge. Il popolo inglese pensad'esser libero; ei s'inganna a partito; e non è libero se nondurante l'elezione dei membri del parlamento: non appe-na li ha eletti, che torna schiavo e non è più niente. Neibrevi istanti di sua libertà, per l'uso che ne fa, merita diperderla.

L'idea dei rappresentanti è moderna; è un'eredità delgoverno feudale, di quell'iniquo ed assurdo governo, incui l'umana schiatta è degradata, ed il nome d'uomo diso-norato. Nelle antiche repubbliche ed anche nelle monar-chie, il popolo non ebbe mai rappresentanti; questa paro-la non era conosciuta. È singolarissimo che a Roma, incui i tribuni erano così sacri, non siasi pur pensato ch'essipotessero usurpare gli uffizi del popolo, e che in mezzo atanta moltitudine non abbiano mai tentato di passare dipropria autorità un solo plebiscito. Si giudichi nonpertan-to dell'imbarazzo cagionato talvolta dalla folla da ciò cheavvenne al tempo dei Gracchi, in cui una parte dei citta-dini dava il suo suffragio dal sommo dei tetti.

Dove il diritto e la libertà sono tutto, gl'inconvenientinon sono nulla. Presso quel popolo savio ogni cosa era alsuo posto; ei lasciava fare a' suoi littori quello che nonavrebbero osato fare i suoi tribuni: ei non temeva che i

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suoi littori volessero rappresentarlo.Per ispiegare nonpertanto come i tribuni lo rappresen-

tassero qualche volta, basta immaginarsi come il governorappresenta il sovrano. La legge non essendo altro che ladichiarazione della volontà generale, è chiaro che nel po-tere legislativo il popolo non può essere rappresentato;ma può e dev'esserlo nel potere esecutivo, il quale non èaltro che la forza applicata alla legge. Ciò dimostra che,esaminando bene le cose, si troverebbe che pochissimenazioni hanno leggi. Checchè ne sia, egli è certo che i tri-buni, non partecipando al potere esecutivo, non poteronomai rappresentare il popolo romano pei diritti delle lorocariche, ma solamente usurpando quelli del senato.

Presso i Greci, il popolo faceva da sè tutto ciò che ave-va da fare: era continuamente raccolto in piazza. Essoabitava un clima dolce, non era avido, i lavori erano di-simpegnati dagli schiavi; il suo più grande affare era lalibertà. Non avendo più i medesimi vantaggi, come ser-bare i medesimi diritti? I vostri climi più aspri vi cagio-nano maggiori bisogni36; sei mesi dell'anno la pubblicapiazza non è frequentabile; le vostre lingue sorde nonponno farsi intendere in pieno cielo, vi date più al guada-gno che alla libertà, e temete più la miseria che la schia-vitù.

Come! la libertà non si mantiene se non coll'appoggiodella servitù? può darsi. I due estremi si toccano. Tuttociò che non è nella natura, ha i suoi inconvenienti, e la

36 L'adottare nei paesi freddi il lusso e la mollezza degli orientali,è un volersi imporre le loro catene, e sottomettervisi ancor piùnecessariamente di quelli.

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suoi littori volessero rappresentarlo.Per ispiegare nonpertanto come i tribuni lo rappresen-

tassero qualche volta, basta immaginarsi come il governorappresenta il sovrano. La legge non essendo altro che ladichiarazione della volontà generale, è chiaro che nel po-tere legislativo il popolo non può essere rappresentato;ma può e dev'esserlo nel potere esecutivo, il quale non èaltro che la forza applicata alla legge. Ciò dimostra che,esaminando bene le cose, si troverebbe che pochissimenazioni hanno leggi. Checchè ne sia, egli è certo che i tri-buni, non partecipando al potere esecutivo, non poteronomai rappresentare il popolo romano pei diritti delle lorocariche, ma solamente usurpando quelli del senato.

Presso i Greci, il popolo faceva da sè tutto ciò che ave-va da fare: era continuamente raccolto in piazza. Essoabitava un clima dolce, non era avido, i lavori erano di-simpegnati dagli schiavi; il suo più grande affare era lalibertà. Non avendo più i medesimi vantaggi, come ser-bare i medesimi diritti? I vostri climi più aspri vi cagio-nano maggiori bisogni36; sei mesi dell'anno la pubblicapiazza non è frequentabile; le vostre lingue sorde nonponno farsi intendere in pieno cielo, vi date più al guada-gno che alla libertà, e temete più la miseria che la schia-vitù.

Come! la libertà non si mantiene se non coll'appoggiodella servitù? può darsi. I due estremi si toccano. Tuttociò che non è nella natura, ha i suoi inconvenienti, e la

36 L'adottare nei paesi freddi il lusso e la mollezza degli orientali,è un volersi imporre le loro catene, e sottomettervisi ancor piùnecessariamente di quelli.

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società civile più di tutto il resto. Sonvi tali posizionisciagurate, in cui non può conservarsi la libertà se non adiscapito di quella altrui, ed in cui il cittadino non puòessere perfettamente libero se lo schiavo non è estrema-mente schiavo. Tale era la condizione di Sparta. Per voi,o popoli moderni, voi non avete schiavi, ma lo siete voistessi; voi pagate la loro libertà colla vostra propria. Ave-te un bel vantarvi di tale preferenza, ma io ci trovo piùviltà che umanità.

Con tutto questo, io non intendo che sia necessarioavere schiavi, nè che il diritto di schiavitù sia legittimo,giacchè provai il contrario: io dico soltanto i motivi percui i popoli moderni, che si credon liberi, hanno rappre-sentanti, ed i popoli antichi non ne aveano. Checchè nesia, dal punto che il popolo s'impone dei rappresentanti,ei non è più libero: non è più.

Esaminata ogni cosa per bene, io non vedo che sia or-mai passibile al sovrano di serbare fra noi l'esercizio de'suoi diritti, se la repubblica non sia piccolissima. Ma se èpiccolissima, non sarà soggiogata? No. Farò vedere quiappresso37 come si possa riunire la potenza esterna di ungran popolo con la polizia agevole ed il buon ordine diun piccolo stato.

37 Io mi era proposto di far ciò nella continuazione di quest'opera,allorchè parlando delle relazioni estere fossi venuto a parlaredelle confederazioni: materia nuovissima, e priva ancor di prin-cipj.

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società civile più di tutto il resto. Sonvi tali posizionisciagurate, in cui non può conservarsi la libertà se non adiscapito di quella altrui, ed in cui il cittadino non puòessere perfettamente libero se lo schiavo non è estrema-mente schiavo. Tale era la condizione di Sparta. Per voi,o popoli moderni, voi non avete schiavi, ma lo siete voistessi; voi pagate la loro libertà colla vostra propria. Ave-te un bel vantarvi di tale preferenza, ma io ci trovo piùviltà che umanità.

Con tutto questo, io non intendo che sia necessarioavere schiavi, nè che il diritto di schiavitù sia legittimo,giacchè provai il contrario: io dico soltanto i motivi percui i popoli moderni, che si credon liberi, hanno rappre-sentanti, ed i popoli antichi non ne aveano. Checchè nesia, dal punto che il popolo s'impone dei rappresentanti,ei non è più libero: non è più.

Esaminata ogni cosa per bene, io non vedo che sia or-mai passibile al sovrano di serbare fra noi l'esercizio de'suoi diritti, se la repubblica non sia piccolissima. Ma se èpiccolissima, non sarà soggiogata? No. Farò vedere quiappresso37 come si possa riunire la potenza esterna di ungran popolo con la polizia agevole ed il buon ordine diun piccolo stato.

37 Io mi era proposto di far ciò nella continuazione di quest'opera,allorchè parlando delle relazioni estere fossi venuto a parlaredelle confederazioni: materia nuovissima, e priva ancor di prin-cipj.

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CAPITOLO XVIChe l'instituzione del governo non è un

contratto.

Una volta stabilito per bene il potere legislativo, biso-gna stabilir pure il potere esecutivo, perchè quest'ultimo,il quale non opera se non per via d'atti particolari, non es-sendo l'essenza dell'altro, ne è naturalmente distinto. Sefosse possibile che il sovrano, considerato come tale,avesse il potere esecutivo, il diritto ed il fatto sarebbonotalmente confusi, che non si saprebbe più che cosa sialegge e che cosa nol sia; ed il corpo politico, così snatu-rato, sarebbe tosto preda della violenza, contro la qualevenne istituito.

Tutti i cittadini essendo uguali per via del contratto so-ciale, tutti possono prescrivere ciò che tutti debbono fare,invece che nessuno ha diritto di esigere che altri facciaciò che non fa egli medesimo. Ora, il sovrano istituendoil governo, dà al principe propriamente questo diritto, in-dispensabile per far vivere e muovere il corpo politico.

Parecchi hanno preteso che l'atto di un tale statuto fos-se un contratto tra il popolo ed i capi che si impone; con-tratto per mezzo del quale si stipulassero fra le due particondizioni tali, per cui l'una si obbligherebbe a comanda-re e l'altra ad ubbidire. Si converrà, ne son certo, esserequesta una strana maniera di contrattare; ma vediamo seuna tale opinione possa reggere.

Primieramente, l'autorità suprema non può più modifi-carsi nè alienarsi; limitandola è un volerla distruggere. È

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CAPITOLO XVIChe l'instituzione del governo non è un

contratto.

Una volta stabilito per bene il potere legislativo, biso-gna stabilir pure il potere esecutivo, perchè quest'ultimo,il quale non opera se non per via d'atti particolari, non es-sendo l'essenza dell'altro, ne è naturalmente distinto. Sefosse possibile che il sovrano, considerato come tale,avesse il potere esecutivo, il diritto ed il fatto sarebbonotalmente confusi, che non si saprebbe più che cosa sialegge e che cosa nol sia; ed il corpo politico, così snatu-rato, sarebbe tosto preda della violenza, contro la qualevenne istituito.

Tutti i cittadini essendo uguali per via del contratto so-ciale, tutti possono prescrivere ciò che tutti debbono fare,invece che nessuno ha diritto di esigere che altri facciaciò che non fa egli medesimo. Ora, il sovrano istituendoil governo, dà al principe propriamente questo diritto, in-dispensabile per far vivere e muovere il corpo politico.

Parecchi hanno preteso che l'atto di un tale statuto fos-se un contratto tra il popolo ed i capi che si impone; con-tratto per mezzo del quale si stipulassero fra le due particondizioni tali, per cui l'una si obbligherebbe a comanda-re e l'altra ad ubbidire. Si converrà, ne son certo, esserequesta una strana maniera di contrattare; ma vediamo seuna tale opinione possa reggere.

Primieramente, l'autorità suprema non può più modifi-carsi nè alienarsi; limitandola è un volerla distruggere. È

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cosa assurda e contradditoria che il sovrano si impongaun superiore; l'obbligarsi di obbedire ad un padrone, gli èun rimettersi in piena libertà,

Inoltre, è evidente che questo contratto del popolo col-le tali o tal altre persone sarebbe un atto privato; dal cheviene che quel contratto non potrebb'essere nè una legge,nè un atto di sovranità, e per conseguenza sarebbe illegit-timo.

Si vede ancora che le parti contraenti sarebbero tra sèsotto la sola legge di natura, e senza alcun mallevadoredei loro reciproci impegni, lo che in ogni maniera ripu-gna allo stato civile; chi ha la forza in mano essendosempre il padrone dell'esecuzione, tanto varrebbe dare ilnome di contratto all'atto d'un uomo che dicesse ad un al-tro:

«Io vi do tutti i miei beni, a patto che me ne restituiretequel tanto che vi piacerà».

Nello stato vi è un contratto solo, ed è quello dell'asso-ciazione: e questo solo ne escludeva ogni altro. Non sipotrebbe ideare nessun contratto pubblico che non fosseuna violazione del primo.

CAPITOLO XVIIDella instituzione del governo.

Sotto quale idea bisogna dunque concepire l'atto percui il governo venne istituito? Anzi tutto osserverò chequest'atto è complesso, ossia composto di due altri, cioè

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cosa assurda e contradditoria che il sovrano si impongaun superiore; l'obbligarsi di obbedire ad un padrone, gli èun rimettersi in piena libertà,

Inoltre, è evidente che questo contratto del popolo col-le tali o tal altre persone sarebbe un atto privato; dal cheviene che quel contratto non potrebb'essere nè una legge,nè un atto di sovranità, e per conseguenza sarebbe illegit-timo.

Si vede ancora che le parti contraenti sarebbero tra sèsotto la sola legge di natura, e senza alcun mallevadoredei loro reciproci impegni, lo che in ogni maniera ripu-gna allo stato civile; chi ha la forza in mano essendosempre il padrone dell'esecuzione, tanto varrebbe dare ilnome di contratto all'atto d'un uomo che dicesse ad un al-tro:

«Io vi do tutti i miei beni, a patto che me ne restituiretequel tanto che vi piacerà».

Nello stato vi è un contratto solo, ed è quello dell'asso-ciazione: e questo solo ne escludeva ogni altro. Non sipotrebbe ideare nessun contratto pubblico che non fosseuna violazione del primo.

CAPITOLO XVIIDella instituzione del governo.

Sotto quale idea bisogna dunque concepire l'atto percui il governo venne istituito? Anzi tutto osserverò chequest'atto è complesso, ossia composto di due altri, cioè

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dello stabilimento della legge e dell'esecuzione della leg-ge.

Per mezzo del primo, il sovrano statuisce che vi saràun corpo di governo stabilito sotto la tale o tal forma; egliè chiaro che quest'atto è una legge.

Per mezzo del secondo, il popolo nomina i capi che sa-ranno incaricati del governo stabilito. Ora, questa nominaessendo un atto particolare, non è una seconda legge, masolo una conseguenza della prima, ed una funzione delgoverno.

La difficoltà sta nel capire come si possa avere un attodi governo prima che il governo esista, e come il popolo,il quale non è se non sovrano o suddito, possa diventarprincipe o magistrato in certe circostanze.

E qui eziandio scopresi una di quelle stupende proprie-tà del corpo politico, per cui si conciliano operazionicontradditorie in apparenza; il che avviene per una subi-tanea conversione della sovranità in democrazia, in guisache senza nessun cambiamento sensibile, e solamente peruna nuova relazione di tutti a tutti, i cittadini, divenutimagistrati, passano dagli atti generali agli atti particolari,e dalla legge alla esecuzione.

Un tale cambiamento di relazione non è una sottigliez-za di speculazione senza esempio nella pratica, ma acca-de tutti i giorni nel parlamento d'Inghilterra, in cui la ca-mera bassa, in certe occasioni, si trasmuta in grande co-mitato, per meglio discutere gli affari, e così diventasemplice commissione, da corte sovrana ch'era poco pri-ma; di guisa che fa poscia la relazione a sè stessa, comecamera dei comuni, di ciò che statuiva testè in grande co-

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dello stabilimento della legge e dell'esecuzione della leg-ge.

Per mezzo del primo, il sovrano statuisce che vi saràun corpo di governo stabilito sotto la tale o tal forma; egliè chiaro che quest'atto è una legge.

Per mezzo del secondo, il popolo nomina i capi che sa-ranno incaricati del governo stabilito. Ora, questa nominaessendo un atto particolare, non è una seconda legge, masolo una conseguenza della prima, ed una funzione delgoverno.

La difficoltà sta nel capire come si possa avere un attodi governo prima che il governo esista, e come il popolo,il quale non è se non sovrano o suddito, possa diventarprincipe o magistrato in certe circostanze.

E qui eziandio scopresi una di quelle stupende proprie-tà del corpo politico, per cui si conciliano operazionicontradditorie in apparenza; il che avviene per una subi-tanea conversione della sovranità in democrazia, in guisache senza nessun cambiamento sensibile, e solamente peruna nuova relazione di tutti a tutti, i cittadini, divenutimagistrati, passano dagli atti generali agli atti particolari,e dalla legge alla esecuzione.

Un tale cambiamento di relazione non è una sottigliez-za di speculazione senza esempio nella pratica, ma acca-de tutti i giorni nel parlamento d'Inghilterra, in cui la ca-mera bassa, in certe occasioni, si trasmuta in grande co-mitato, per meglio discutere gli affari, e così diventasemplice commissione, da corte sovrana ch'era poco pri-ma; di guisa che fa poscia la relazione a sè stessa, comecamera dei comuni, di ciò che statuiva testè in grande co-

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mitato, e delibera di nuovo sotto un titolo intorno a ciòche ha già risoluto sotto ad un altro.

Tale è il vantaggio proprio del governo democratico, dipotere cioè essere stabilito in fatto per mezzo di un sem-plice atto della volontà generale. Dopo la qual cosa quelgoverno provvisorio rimane al potere, se tale è la formaadottata, o stabilisce a nome del sovrano il governo pre-scritto dalla legge; e così tutto trovasi in regola. Non èpossibile l'instituire il governo in nessun'altra maniera le-gittima, e senza rinunziare ai principj dianzi stabiliti.

CAPITOLO XVIIIMezzi di prevenire le usurpazioni del governo.

Da tali schiarimenti risulta, in conferma del capitoloXVI, che l'atto il quale instituisce il governo non è uncontratto, ma una legge; che i depositari del potere esecu-tivo non sono i padroni del popolo, ma suoi uffiziali; cheegli può eleggerli e destituirli ogniqualvolta gli piaccia;che per essi non è questione di contrattare, ma d'ubbidire;e che incaricandosi degli uffizi loro imposti dallo stato,non fanno altro che compiere al loro dovere di cittadini,senza avere in nessun modo il diritto di disputare intornoalle condizioni.

Quando avviene dunque che il popolo instituisce ungoverno ereditario, sia monarchico in una famiglia, siaaristocratico in un ordine di cittadini, non è già un impe-gno ch'egli assume, ma è una forma provvisoria che dà

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mitato, e delibera di nuovo sotto un titolo intorno a ciòche ha già risoluto sotto ad un altro.

Tale è il vantaggio proprio del governo democratico, dipotere cioè essere stabilito in fatto per mezzo di un sem-plice atto della volontà generale. Dopo la qual cosa quelgoverno provvisorio rimane al potere, se tale è la formaadottata, o stabilisce a nome del sovrano il governo pre-scritto dalla legge; e così tutto trovasi in regola. Non èpossibile l'instituire il governo in nessun'altra maniera le-gittima, e senza rinunziare ai principj dianzi stabiliti.

CAPITOLO XVIIIMezzi di prevenire le usurpazioni del governo.

Da tali schiarimenti risulta, in conferma del capitoloXVI, che l'atto il quale instituisce il governo non è uncontratto, ma una legge; che i depositari del potere esecu-tivo non sono i padroni del popolo, ma suoi uffiziali; cheegli può eleggerli e destituirli ogniqualvolta gli piaccia;che per essi non è questione di contrattare, ma d'ubbidire;e che incaricandosi degli uffizi loro imposti dallo stato,non fanno altro che compiere al loro dovere di cittadini,senza avere in nessun modo il diritto di disputare intornoalle condizioni.

Quando avviene dunque che il popolo instituisce ungoverno ereditario, sia monarchico in una famiglia, siaaristocratico in un ordine di cittadini, non è già un impe-gno ch'egli assume, ma è una forma provvisoria che dà

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all'amministrazione, fintantochè gli piaccia di ordinarealtramente.

Vero è, che questi cambiamenti sono sempre pericolo-si, e che non bisogna mai toccare il governo stabilito senon quando diventi incompatibile col bene pubblico; macodesta circospezione è una massima di politica, e nonuna regola di diritto; e lo stato non è tenuto maggiormen-te di lasciare l'autorità civile a' suoi capi, che l'autoritàmilitare a' suoi generali.

Vero è ancora che in simile caso non si saprebbonocon soverchia diligenza osservare tutte le formalità volu-te per distinguere un atto regolare e legittimo da un tu-multo sedizioso, e la volontà di tutto un popolo dalle gri-da di una fazione. In questa circostanza soprattutto nonbisogna concedere al caso odioso se non ciò che non glisi può negare in tutto il rigore del diritto; ed è pure da co-dest'obbligo che il principe trae un grande vantaggio perconservare il suo potere, malgrado il popolo, senza che sipossa dire che l'abbia usurpato; imperocchè, mentre sem-bra far uso soltanto de' suoi diritti, gli è facilissimol'ampliarli, ed impedire, col pretesto della pubblica quie-te, le assemblee destinate a ristabilire il buon ordine; dimodo che si prevale d'un silenzio cui impedisce di rom-pere, o delle irregolarità che fa commettere, per supporrea sè favorevole il consenso di quelli che tacciono per ti-more, e per punire quelli che osano parlare. Di tal guisa idecemviri, eletti in principio per un anno, poi continuan-do per un altr'anno, tentarono di ritenere in perpetuo ilpotere, non permettendo più ai comizi di ragunarsi; ed èin tal modo facilissimo che tutti i governi del mondo, ri-

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all'amministrazione, fintantochè gli piaccia di ordinarealtramente.

Vero è, che questi cambiamenti sono sempre pericolo-si, e che non bisogna mai toccare il governo stabilito senon quando diventi incompatibile col bene pubblico; macodesta circospezione è una massima di politica, e nonuna regola di diritto; e lo stato non è tenuto maggiormen-te di lasciare l'autorità civile a' suoi capi, che l'autoritàmilitare a' suoi generali.

Vero è ancora che in simile caso non si saprebbonocon soverchia diligenza osservare tutte le formalità volu-te per distinguere un atto regolare e legittimo da un tu-multo sedizioso, e la volontà di tutto un popolo dalle gri-da di una fazione. In questa circostanza soprattutto nonbisogna concedere al caso odioso se non ciò che non glisi può negare in tutto il rigore del diritto; ed è pure da co-dest'obbligo che il principe trae un grande vantaggio perconservare il suo potere, malgrado il popolo, senza che sipossa dire che l'abbia usurpato; imperocchè, mentre sem-bra far uso soltanto de' suoi diritti, gli è facilissimol'ampliarli, ed impedire, col pretesto della pubblica quie-te, le assemblee destinate a ristabilire il buon ordine; dimodo che si prevale d'un silenzio cui impedisce di rom-pere, o delle irregolarità che fa commettere, per supporrea sè favorevole il consenso di quelli che tacciono per ti-more, e per punire quelli che osano parlare. Di tal guisa idecemviri, eletti in principio per un anno, poi continuan-do per un altr'anno, tentarono di ritenere in perpetuo ilpotere, non permettendo più ai comizi di ragunarsi; ed èin tal modo facilissimo che tutti i governi del mondo, ri-

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vestiti una volta della pubblica forza, usurpano tosto otardi la sovrana autorità. Le assemblee periodiche, dellequali feci più sopra parola, sono atte a prevenire o differi-re tale sventura, massime quando non abbisognano diformale convocazione: imperocchè allora il principe nonsaprebbe impedirle, senza dichiararsi apertamente infrat-tore delle leggi e nemico dello stato.

L'apertura di queste assemblee, che non hanno altrooggetto se non il mantenimento del trattato sociale, devesempre farsi per mezzo di due proposizioni, che non sipossono mai sopprimere, e passino separatamente ai voti.

La prima: se piaccia al sovrano di conservare la pre-sente forma di governo.

La seconda: se piaccia al popolo di lasciarne l'ammi-nistrazione a quelli che ne sono attualmente incaricati.

Io qui suppongo ciò che credo d'avere dimostrato; cioèche non vi sia nello stato nessuna legge fondamentale chenon si possa rivocare, non eccettuato il patto sociale; per-chè se tutti i cittadini si ragunassero per rompere questopatto di comune accordo, non v'ha dubbio che sarebbe le-gittimamente rotto. Grozio opina pure che ciascuno possarinunciare allo stato di cui è membro, e ripigliare la suanaturale libertà ed i suoi beni, uscendo dal paese38. Orasarebbe assurda cosa che tutti i cittadini riuniti non potes-sero ciò che può separatamente ciascun di loro.

38 Purchè non lo si abbandoni per eludere il proprio dovere e di-spensarsi dal servire la patria quand'essa ha bisogno di noi. Intale circostanza, la fuga sarebbe colpevole e punibile, perchèsarebbe non un ritiro, ma una diserzione.

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vestiti una volta della pubblica forza, usurpano tosto otardi la sovrana autorità. Le assemblee periodiche, dellequali feci più sopra parola, sono atte a prevenire o differi-re tale sventura, massime quando non abbisognano diformale convocazione: imperocchè allora il principe nonsaprebbe impedirle, senza dichiararsi apertamente infrat-tore delle leggi e nemico dello stato.

L'apertura di queste assemblee, che non hanno altrooggetto se non il mantenimento del trattato sociale, devesempre farsi per mezzo di due proposizioni, che non sipossono mai sopprimere, e passino separatamente ai voti.

La prima: se piaccia al sovrano di conservare la pre-sente forma di governo.

La seconda: se piaccia al popolo di lasciarne l'ammi-nistrazione a quelli che ne sono attualmente incaricati.

Io qui suppongo ciò che credo d'avere dimostrato; cioèche non vi sia nello stato nessuna legge fondamentale chenon si possa rivocare, non eccettuato il patto sociale; per-chè se tutti i cittadini si ragunassero per rompere questopatto di comune accordo, non v'ha dubbio che sarebbe le-gittimamente rotto. Grozio opina pure che ciascuno possarinunciare allo stato di cui è membro, e ripigliare la suanaturale libertà ed i suoi beni, uscendo dal paese38. Orasarebbe assurda cosa che tutti i cittadini riuniti non potes-sero ciò che può separatamente ciascun di loro.

38 Purchè non lo si abbandoni per eludere il proprio dovere e di-spensarsi dal servire la patria quand'essa ha bisogno di noi. Intale circostanza, la fuga sarebbe colpevole e punibile, perchèsarebbe non un ritiro, ma una diserzione.

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LIBRO QUARTO

CAPITOLO IChe la volontà generale è indistruttibile.

Finattantochè parecchi uomini riuniti si consideranocome un sol corpo, eglino hanno una volontà sola, che siriferisce alla comune conservazione ed al benessere ge-nerale. Allora tutte le suste dello stato sono vigorose esemplici, le sue massime chiare e luminose, non ha inte-ressi intricati e contraddittori; il bene comune si palesa daper tutto con evidenza, nè richiede se non un po' di buonsenso per essere scorto. La pace, l'unione, l'uguaglianzasono nemiche delle politiche sottigliezze. Gli uomini savie semplici difficilmente s'ingannano a causa della lorosemplicità; le allucinazioni, i pretesti raffinati loro nonimpongono, e' non sono nemmeno abbastanza accorti peressere gabbati. Quando presso il popolo più felice delmondo vedonsi bande di contadini regolar gli affari distato sotto una quercia, e sempre reggerlo saviamente, sipuò forse fare a meno di sprezzare i raffinamenti delle al-tre nazioni, che si rendono illustri e dispregevoli contant'arte e tanto mistero?

Uno stato governato così abbisogna di pochissime leg-gi, e man mano ch'è necessario di promulgarne di nuove,

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LIBRO QUARTO

CAPITOLO IChe la volontà generale è indistruttibile.

Finattantochè parecchi uomini riuniti si consideranocome un sol corpo, eglino hanno una volontà sola, che siriferisce alla comune conservazione ed al benessere ge-nerale. Allora tutte le suste dello stato sono vigorose esemplici, le sue massime chiare e luminose, non ha inte-ressi intricati e contraddittori; il bene comune si palesa daper tutto con evidenza, nè richiede se non un po' di buonsenso per essere scorto. La pace, l'unione, l'uguaglianzasono nemiche delle politiche sottigliezze. Gli uomini savie semplici difficilmente s'ingannano a causa della lorosemplicità; le allucinazioni, i pretesti raffinati loro nonimpongono, e' non sono nemmeno abbastanza accorti peressere gabbati. Quando presso il popolo più felice delmondo vedonsi bande di contadini regolar gli affari distato sotto una quercia, e sempre reggerlo saviamente, sipuò forse fare a meno di sprezzare i raffinamenti delle al-tre nazioni, che si rendono illustri e dispregevoli contant'arte e tanto mistero?

Uno stato governato così abbisogna di pochissime leg-gi, e man mano ch'è necessario di promulgarne di nuove,

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questa necessità viene riconosciuta universalmente. Ilprimo che le propone non fa che dire ciò che tutti gli altrihanno già sentito, e non trattasi nè di brogli, nè di elo-quenza per far passare in legge quanto ognuno ha già ri-soluto di fare, non appena sarà sicuro che gli altri lo fa-ranno al par di lui.

I ragionatori s'ingannano* pel motivo, che, non veden-do se non se stati mal costituiti fin dall'origine, rimango-no colpiti dall'impossibilità di mantenervi una simile po-lizia; essi ridono d'immaginare tutte le stoltezze che unfurbo sagace, un parlatore insinuante, potrebbe persuade-re al popolo di Parigi o di Londra. E' non sanno cheCromvello sarebbe stato messo in berlina dal popolo diBerna, ed il duca di Beaufort dannato alla disciplina daiGinevrini.

Ma quando il nodo sociale comincia ad allentarsi, e lostato ad indebolirsi; quando cominciano a farsi sentire gliinteressi privati, e le piccole società ad insinuarsi sullagrande, il comune interesse si altera e trova oppositori;nelle leggi non regna più l'unanimità; la volontà generalenon è più la volontà di tutti; insorgono contraddizioni edibattimenti, ed il miglior parere non passa senza dispute.

Finalmente, quando lo stato presso a rovina, non sussi-ste più se non per una forma illusoria e vana, quando ilvincolo sociale è rotto in tutti i cuori, ed il più vile inte-resse adornasi sfacciatamente del sacro nome del benepubblico, allora la volontà generale ammutolisce; tutti,guidati da motivi secreti, non opinano più quai cittadini,come se lo stato non avesse mai esistito, e si fanno passa-

* Nell'originale cartaceo: c'ingannano [nota per l'ed. Manuzio].

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questa necessità viene riconosciuta universalmente. Ilprimo che le propone non fa che dire ciò che tutti gli altrihanno già sentito, e non trattasi nè di brogli, nè di elo-quenza per far passare in legge quanto ognuno ha già ri-soluto di fare, non appena sarà sicuro che gli altri lo fa-ranno al par di lui.

I ragionatori s'ingannano* pel motivo, che, non veden-do se non se stati mal costituiti fin dall'origine, rimango-no colpiti dall'impossibilità di mantenervi una simile po-lizia; essi ridono d'immaginare tutte le stoltezze che unfurbo sagace, un parlatore insinuante, potrebbe persuade-re al popolo di Parigi o di Londra. E' non sanno cheCromvello sarebbe stato messo in berlina dal popolo diBerna, ed il duca di Beaufort dannato alla disciplina daiGinevrini.

Ma quando il nodo sociale comincia ad allentarsi, e lostato ad indebolirsi; quando cominciano a farsi sentire gliinteressi privati, e le piccole società ad insinuarsi sullagrande, il comune interesse si altera e trova oppositori;nelle leggi non regna più l'unanimità; la volontà generalenon è più la volontà di tutti; insorgono contraddizioni edibattimenti, ed il miglior parere non passa senza dispute.

Finalmente, quando lo stato presso a rovina, non sussi-ste più se non per una forma illusoria e vana, quando ilvincolo sociale è rotto in tutti i cuori, ed il più vile inte-resse adornasi sfacciatamente del sacro nome del benepubblico, allora la volontà generale ammutolisce; tutti,guidati da motivi secreti, non opinano più quai cittadini,come se lo stato non avesse mai esistito, e si fanno passa-

* Nell'originale cartaceo: c'ingannano [nota per l'ed. Manuzio].

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re falsamente, sotto il nome di leggi, iniqui decreti, i qua-li non hanno altro scopo fuor del privato interesse.

Ne segue forse da ciò che la volontà generale sia an-nientata o corrotta? No: essa è sempre costante, inaltera-bile e pura, ma è subordinata ad altre che la vincono su dilei. Ciascuno, staccando il suo dal comune interesse,vede benissimo che non può separarnelo tutt'affatto; mala sua parte del male pubblico sembragli nulla in parago-ne del bene esclusivo, ch'ei pretende appropriarsi. Eccet-tuato questo bene particolare, ei vuole il bene generalepel proprio interesse, e fortemente al pari di ogni altro.Anche vendendo il suo suffragio a prezzo d'oro, ei nonestingue in sè la volontà generale, ma la elude. Commetteil fallo di cambiare lo stato della quistione, e di risponde-re diversamente da quanto gli si domanda; dimodochè,invece di dire, col suo suffragio, è vantaggioso allo stato,ei dice: è vantaggioso al tal uomo o al tale partito, che iltale o tal avviso passi. Per la qual cosa, la legge dell'ordi-ne pubblico nelle assemblee non consiste tanto nel man-tenervi la volontà generale, quanto nel far sì che sia inter-rogata e ch'essa risponda sempre.

Molte osservazioni avrei qui a fare intorno al semplicediritto di votare in ogni atto di sovranità, diritto che innessun modo non si può togliere ai cittadini; e intorno aldiritto d'opinare, di proporre, dividere, discutere, dirittoche il governo ha sempre gran cura di non lasciare se nona' suoi membri; ma questa importante materia richiede-rebbe un trattato a parte, ed io non posso dir tutto nel pre-sente.

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re falsamente, sotto il nome di leggi, iniqui decreti, i qua-li non hanno altro scopo fuor del privato interesse.

Ne segue forse da ciò che la volontà generale sia an-nientata o corrotta? No: essa è sempre costante, inaltera-bile e pura, ma è subordinata ad altre che la vincono su dilei. Ciascuno, staccando il suo dal comune interesse,vede benissimo che non può separarnelo tutt'affatto; mala sua parte del male pubblico sembragli nulla in parago-ne del bene esclusivo, ch'ei pretende appropriarsi. Eccet-tuato questo bene particolare, ei vuole il bene generalepel proprio interesse, e fortemente al pari di ogni altro.Anche vendendo il suo suffragio a prezzo d'oro, ei nonestingue in sè la volontà generale, ma la elude. Commetteil fallo di cambiare lo stato della quistione, e di risponde-re diversamente da quanto gli si domanda; dimodochè,invece di dire, col suo suffragio, è vantaggioso allo stato,ei dice: è vantaggioso al tal uomo o al tale partito, che iltale o tal avviso passi. Per la qual cosa, la legge dell'ordi-ne pubblico nelle assemblee non consiste tanto nel man-tenervi la volontà generale, quanto nel far sì che sia inter-rogata e ch'essa risponda sempre.

Molte osservazioni avrei qui a fare intorno al semplicediritto di votare in ogni atto di sovranità, diritto che innessun modo non si può togliere ai cittadini; e intorno aldiritto d'opinare, di proporre, dividere, discutere, dirittoche il governo ha sempre gran cura di non lasciare se nona' suoi membri; ma questa importante materia richiede-rebbe un trattato a parte, ed io non posso dir tutto nel pre-sente.

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CAPITOLO IIDei suffragi.

Dal capitolo antecedente si rileva che dal modo in cuitrattavansi gli affari generali si può avere un indizio ab-bastanza certo dello stato attuate dei costumi e della salu-te del corpo politico. Più nelle assemblee regna l'armo-nia, vale a dire più i pareri si accostano all'unanimità, epiù la volontà generale è dominante; ma i lunghi dibatti-menti, le dissensioni, il tumulto annunziano l'ascendentedegl'interessi privati ed il declinare dello Stato.

Ciò appare meno evidente quando due o parecchi ordi-ni entrano nella sua costituzione, come a Roma i patrizi ela plebe, i cui piati turbarono spesso i comizi, anche ne'più bei tempi della repubblica; ma tale eccezione è piùapparente che reale: imperciocchè allora, pel vizio ine-rente al corpo politico, si hanno, per così dire, due Statiin uno; ciò che non è vero in due assieme, è vero di cia-scuno distintamente. Ed infatti, anche nei tempi più bur-rascosi, quando il senato non se ne immischiava, i plebi-sciti del popolo passavano sempre tranquillamente ed agrande pluralità di suffragi; i cittadini avendo un solo in-teresse, il popolo aveva una sola volontà.

All'altra estremità del circolo, l'unanimità ritorna, cioèquando i cittadini, caduti nella schiavitù, non hanno piùnè libertà, nè volontà. Allora il timore e l'adulazionecambiano in acclamazioni i suffragi; non si delibera più,ma si adora o si maledisce. Tale era la vil maniera d'opi-nare del senato sotto gli imperatori. Qualche volta ciò fa-

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CAPITOLO IIDei suffragi.

Dal capitolo antecedente si rileva che dal modo in cuitrattavansi gli affari generali si può avere un indizio ab-bastanza certo dello stato attuate dei costumi e della salu-te del corpo politico. Più nelle assemblee regna l'armo-nia, vale a dire più i pareri si accostano all'unanimità, epiù la volontà generale è dominante; ma i lunghi dibatti-menti, le dissensioni, il tumulto annunziano l'ascendentedegl'interessi privati ed il declinare dello Stato.

Ciò appare meno evidente quando due o parecchi ordi-ni entrano nella sua costituzione, come a Roma i patrizi ela plebe, i cui piati turbarono spesso i comizi, anche ne'più bei tempi della repubblica; ma tale eccezione è piùapparente che reale: imperciocchè allora, pel vizio ine-rente al corpo politico, si hanno, per così dire, due Statiin uno; ciò che non è vero in due assieme, è vero di cia-scuno distintamente. Ed infatti, anche nei tempi più bur-rascosi, quando il senato non se ne immischiava, i plebi-sciti del popolo passavano sempre tranquillamente ed agrande pluralità di suffragi; i cittadini avendo un solo in-teresse, il popolo aveva una sola volontà.

All'altra estremità del circolo, l'unanimità ritorna, cioèquando i cittadini, caduti nella schiavitù, non hanno piùnè libertà, nè volontà. Allora il timore e l'adulazionecambiano in acclamazioni i suffragi; non si delibera più,ma si adora o si maledisce. Tale era la vil maniera d'opi-nare del senato sotto gli imperatori. Qualche volta ciò fa-

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cevasi con ridicole precauzioni. Tacito osserva39 che, sot-to Ottone, i senatori, coprendo Vitellio di esecrazioni, af-fettavano di fare nel tempo stesso un baccano spavente-vole, affinchè, se mai per caso ei fosse diventato il padro-ne, non potesse sapere quanto ciascun di loro aveva det-to.

Da queste varie considerazioni risultano le norme concui si deve regolare il modo di contare i voti e confronta-re i pareri, secondo che la volontà generale è più o menofacile a conoscersi, e lo stato più o meno in decadenza.

Evvi una legge sola, la quale, per la sua natura, esigeun consenso unanime; è il patto sociale, perchè l'associa-zione civile è l'atto più volontario del mondo. Ogni uomoessendo nato libero e padrone di sè, niuno può, sottoqualsiasi pretesto, assoggettarlo senza di lui consenso.Decidere che il figlio d'uno schiavo nasce schiavo, è de-cidere che non nasce uomo.

Se dunque nel tempo del patto sociale trovinsi op-posi-tori, la loro opposizione non invalida il contratto, ma im-pedisce soltanto ch'ei non vi siano compresi: sono stra-nieri fra i cittadini. Quando lo stato è instituito, il consen-so sta nella residenza; chi abita il territorio, si sottomettealla sovranità40.

Fuori di quel contratto primitivo, la voce del numero

39 Ist., 1., 85.40 Questa cosa deve sempre intendersi di uno Stato libero; perchè

altronde la famiglia, i beni, la mancanza di asilo, la necessità,la violenza possono ritenere un abitante nel paese suo malgra-do, ed allora il solo suo soggiorno non suppone più il di luiconsenso al contratto od alla violazione del contratto.

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cevasi con ridicole precauzioni. Tacito osserva39 che, sot-to Ottone, i senatori, coprendo Vitellio di esecrazioni, af-fettavano di fare nel tempo stesso un baccano spavente-vole, affinchè, se mai per caso ei fosse diventato il padro-ne, non potesse sapere quanto ciascun di loro aveva det-to.

Da queste varie considerazioni risultano le norme concui si deve regolare il modo di contare i voti e confronta-re i pareri, secondo che la volontà generale è più o menofacile a conoscersi, e lo stato più o meno in decadenza.

Evvi una legge sola, la quale, per la sua natura, esigeun consenso unanime; è il patto sociale, perchè l'associa-zione civile è l'atto più volontario del mondo. Ogni uomoessendo nato libero e padrone di sè, niuno può, sottoqualsiasi pretesto, assoggettarlo senza di lui consenso.Decidere che il figlio d'uno schiavo nasce schiavo, è de-cidere che non nasce uomo.

Se dunque nel tempo del patto sociale trovinsi op-posi-tori, la loro opposizione non invalida il contratto, ma im-pedisce soltanto ch'ei non vi siano compresi: sono stra-nieri fra i cittadini. Quando lo stato è instituito, il consen-so sta nella residenza; chi abita il territorio, si sottomettealla sovranità40.

Fuori di quel contratto primitivo, la voce del numero

39 Ist., 1., 85.40 Questa cosa deve sempre intendersi di uno Stato libero; perchè

altronde la famiglia, i beni, la mancanza di asilo, la necessità,la violenza possono ritenere un abitante nel paese suo malgra-do, ed allora il solo suo soggiorno non suppone più il di luiconsenso al contratto od alla violazione del contratto.

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maggiore obbliga sempre tutte le altre; è una conseguen-za del contratto medesimo. Ma si chiede come un uomopossa esser libero, e costretto a conformarsi a volontà chenon sono le sue, in qual modo gli oppositori sono liberi esottomessi a leggi alle quali non diedero il loro consen-so?

Io rispondo che la questione è messa male. Il cittadinoannuisce a tutte le leggi, a quelle ben anco passate suomalgrado, ed a quelle pure che lo puniscono ov'egli osiviolarne qualcuna. La costante volontà di tutti i membridello stato è la volontà generale: per essa sono cittadini eliberi41. Quando si propone una legge nell'assemblea delpopolo, non si chiede loro precisamente se approvino laproposizione o se la respingano, ma se sia conforme omeno alla volontà generale, che è la loro; ciascuno dandoil suo suffragio, dice il suo parere intorno a ciò, e dal cal-colo dei voti si desume la dichiarazione della volontà ge-nerale. Quando adunque il parere contrario al mio la vin-ce, ciò non prova altro se non ch'io mi era ingannato, eche quant'io opinava essere la volontà generale, non eratale. Se l'avesse vinta il mio avviso particolare, io avreifatto diversamente da quello che aveva voluto, ed alloranon sarei stato libero.

Ciò suppone, è vero, che tutti i caratteri della volontà

41 A Genova si legge sulle carceri e sulle catene dei galeotti la pa-rola Libertas. Una tale applicazione del motto è bella e giusta.Infatti, non v'hanno se non i malfattori di tutti gli Stati che im-pediscano il cittadino d'esser libero. In un paese, in cui tuttaquella sorta di gente fosse in galera, si godrebbe della più per-fetta libertà.

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maggiore obbliga sempre tutte le altre; è una conseguen-za del contratto medesimo. Ma si chiede come un uomopossa esser libero, e costretto a conformarsi a volontà chenon sono le sue, in qual modo gli oppositori sono liberi esottomessi a leggi alle quali non diedero il loro consen-so?

Io rispondo che la questione è messa male. Il cittadinoannuisce a tutte le leggi, a quelle ben anco passate suomalgrado, ed a quelle pure che lo puniscono ov'egli osiviolarne qualcuna. La costante volontà di tutti i membridello stato è la volontà generale: per essa sono cittadini eliberi41. Quando si propone una legge nell'assemblea delpopolo, non si chiede loro precisamente se approvino laproposizione o se la respingano, ma se sia conforme omeno alla volontà generale, che è la loro; ciascuno dandoil suo suffragio, dice il suo parere intorno a ciò, e dal cal-colo dei voti si desume la dichiarazione della volontà ge-nerale. Quando adunque il parere contrario al mio la vin-ce, ciò non prova altro se non ch'io mi era ingannato, eche quant'io opinava essere la volontà generale, non eratale. Se l'avesse vinta il mio avviso particolare, io avreifatto diversamente da quello che aveva voluto, ed alloranon sarei stato libero.

Ciò suppone, è vero, che tutti i caratteri della volontà

41 A Genova si legge sulle carceri e sulle catene dei galeotti la pa-rola Libertas. Una tale applicazione del motto è bella e giusta.Infatti, non v'hanno se non i malfattori di tutti gli Stati che im-pediscano il cittadino d'esser libero. In un paese, in cui tuttaquella sorta di gente fosse in galera, si godrebbe della più per-fetta libertà.

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generale sono ancora nella pluralità: quando cessano diesservi, qualunque partito si pigli, non vi ha più libertà.

Nel dimostrare più sopra come alla volontà generale sisostituissero nelle pubbliche deliberazioni volontà priva-te, ho sufficientemente indicato i modi praticabili ondeprevenire tale abuso, ma ne parlerò ancora in appresso.Riguardo al numero proporzionato dei suffragi per di-chiarare questa volontà, ho pur dato principj, mediante iquali lo si può determinare. La differenza di un solo votorompe l'uguaglianza, un solo opponente rompe l'unanimi-tà: ma tra l'unanimità e l'uguaglianza sonvi parecchie di-visioni ineguali, a ciascuna delle quali si può fissare quelnumero secondo lo stato ed i bisogni del corpo politico.

Due massime generali ponno servire a regolare questirapporti; una è, che più le deliberazioni sono importanti egravi, e più l'avviso che vince deve accostarsi alla unani-mità; l'altra è, che più l'affare agitato richiede prestezza, epiù si deve ristringere la differenza prescritta nella divi-sione dei pareri: nelle deliberazioni da terminarsi subito,l'eccedente d'un solo voto deve bastare. La prima di talimassime sembra più conveniente alle leggi, la secondaagli affari. Checchè ne sia, le migliori relazioni che dar sipossano alla pluralità per pronunciare, si stabiliscono sul-la combinazione di esse.

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generale sono ancora nella pluralità: quando cessano diesservi, qualunque partito si pigli, non vi ha più libertà.

Nel dimostrare più sopra come alla volontà generale sisostituissero nelle pubbliche deliberazioni volontà priva-te, ho sufficientemente indicato i modi praticabili ondeprevenire tale abuso, ma ne parlerò ancora in appresso.Riguardo al numero proporzionato dei suffragi per di-chiarare questa volontà, ho pur dato principj, mediante iquali lo si può determinare. La differenza di un solo votorompe l'uguaglianza, un solo opponente rompe l'unanimi-tà: ma tra l'unanimità e l'uguaglianza sonvi parecchie di-visioni ineguali, a ciascuna delle quali si può fissare quelnumero secondo lo stato ed i bisogni del corpo politico.

Due massime generali ponno servire a regolare questirapporti; una è, che più le deliberazioni sono importanti egravi, e più l'avviso che vince deve accostarsi alla unani-mità; l'altra è, che più l'affare agitato richiede prestezza, epiù si deve ristringere la differenza prescritta nella divi-sione dei pareri: nelle deliberazioni da terminarsi subito,l'eccedente d'un solo voto deve bastare. La prima di talimassime sembra più conveniente alle leggi, la secondaagli affari. Checchè ne sia, le migliori relazioni che dar sipossano alla pluralità per pronunciare, si stabiliscono sul-la combinazione di esse.

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CAPITOLO IIIDelle elezioni.

Riguardo alle elezioni del principe e dei magistrati,che sono, come già dissi, atti complessi, vi sono due vieda tenere, cioè la scelta e la sorte. L'una e l'altra si ado-prarono in varie repubbliche, ed anche oggidì vedesi unmisto complicatissimo delle due nell'elezione del doge diVenezia.

Il suffragio per sorte, dice Montesquieu42, si addicealla natura della democrazia. Io ne convengo, ma comemai? La sorte, continua egli, è una maniera di eleggereche non offende nessuno; lascia a ciascun cittadino unasperanza ragionevole di servire la patria. Queste nonsono ragioni.

Se si ponga mente che l'elezione dei capi è un ufficiodel governo e non della sovranità, si vedrà perchè la viadella sorte si addica più alla natura della democrazia, incui l'amministrazione è tanto migliore, quanto men molti-plicati ne sono gli atti.

In ogni vera democrazia, la magistratura non è un van-taggio, ma un incarico oneroso, che giustamente non sipuò imporre ad un privato piuttosto che ad un altro. Lalegge soltanto può imporre un tale incarico a quello sucui la sorte cadrà. Imperciocchè allora, la condizione es-sendo uguale per tutti, e la scelta non dipendendo da ve-runa volontà umana, non vi ha particolare applicazioneche alteri l'universalità della legge.

42 Spirito delle leggi, lib. 2,. cap. 2.

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CAPITOLO IIIDelle elezioni.

Riguardo alle elezioni del principe e dei magistrati,che sono, come già dissi, atti complessi, vi sono due vieda tenere, cioè la scelta e la sorte. L'una e l'altra si ado-prarono in varie repubbliche, ed anche oggidì vedesi unmisto complicatissimo delle due nell'elezione del doge diVenezia.

Il suffragio per sorte, dice Montesquieu42, si addicealla natura della democrazia. Io ne convengo, ma comemai? La sorte, continua egli, è una maniera di eleggereche non offende nessuno; lascia a ciascun cittadino unasperanza ragionevole di servire la patria. Queste nonsono ragioni.

Se si ponga mente che l'elezione dei capi è un ufficiodel governo e non della sovranità, si vedrà perchè la viadella sorte si addica più alla natura della democrazia, incui l'amministrazione è tanto migliore, quanto men molti-plicati ne sono gli atti.

In ogni vera democrazia, la magistratura non è un van-taggio, ma un incarico oneroso, che giustamente non sipuò imporre ad un privato piuttosto che ad un altro. Lalegge soltanto può imporre un tale incarico a quello sucui la sorte cadrà. Imperciocchè allora, la condizione es-sendo uguale per tutti, e la scelta non dipendendo da ve-runa volontà umana, non vi ha particolare applicazioneche alteri l'universalità della legge.

42 Spirito delle leggi, lib. 2,. cap. 2.

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Nell'aristocrazia, il principe sceglie il principe, il go-verno si conserva da per sè, e quivi i suffragi stannobene.

L'esempio dell'elezione del doge di Venezia, ben lungidal distruggere tale distinzione, la conferma; quella for-ma mista conviene in un governo misto. Imperciocchèerra chi crede il governo di Venezia essere una vera ari-stocrazia. Se il popolo non vi partecipa per nulla al go-verno, ivi è popolo la nobiltà stessa. Una moltitudine dipoveri barnaboti non si appressò mai a nessuna magistra-tura, e di sua nobiltà non le resta altro fuorchè il vano ti-tolo di eccellenza e il diritto di assistere al gran consiglio.Essendo questo numeroso al par del nostro consiglio ge-nerale a Ginevra, i suoi membri illustri non vi hannomaggiori privilegi de' nostri semplici cittadini. Gli è certoche, togliendo l'estrema disparità delle due repubbliche,la borghesia di Ginevra rappresenta esattamente il patri-ziato veneziano; i nostri nativi ed abitanti rappresentano icittadini ed il popolo di Venezia; i nostri contadini rap-presentano i sudditi di terraferma: finalmente, in qualsia-si modo si consideri quella repubblica, astrazion fattadella sua grandezza, il suo governo non è più aristocrati-co del nostro. Tutta la differenza consiste in ciò che noi,non avendo nessun capo a vita, non abbiamo lo stesso bi-sogno della sorte.

Le elezioni per sorte incontrerebbono pochi inconve-nienti in una vera democrazia, in cui tutto essendo ugua-le, tanto pei costumi e per l'ingegno, quanto per le massi-me e la fortuna, la scelta diverrebbe quasi indifferente.Ma ho già detto non esservi vera democrazia.

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Nell'aristocrazia, il principe sceglie il principe, il go-verno si conserva da per sè, e quivi i suffragi stannobene.

L'esempio dell'elezione del doge di Venezia, ben lungidal distruggere tale distinzione, la conferma; quella for-ma mista conviene in un governo misto. Imperciocchèerra chi crede il governo di Venezia essere una vera ari-stocrazia. Se il popolo non vi partecipa per nulla al go-verno, ivi è popolo la nobiltà stessa. Una moltitudine dipoveri barnaboti non si appressò mai a nessuna magistra-tura, e di sua nobiltà non le resta altro fuorchè il vano ti-tolo di eccellenza e il diritto di assistere al gran consiglio.Essendo questo numeroso al par del nostro consiglio ge-nerale a Ginevra, i suoi membri illustri non vi hannomaggiori privilegi de' nostri semplici cittadini. Gli è certoche, togliendo l'estrema disparità delle due repubbliche,la borghesia di Ginevra rappresenta esattamente il patri-ziato veneziano; i nostri nativi ed abitanti rappresentano icittadini ed il popolo di Venezia; i nostri contadini rap-presentano i sudditi di terraferma: finalmente, in qualsia-si modo si consideri quella repubblica, astrazion fattadella sua grandezza, il suo governo non è più aristocrati-co del nostro. Tutta la differenza consiste in ciò che noi,non avendo nessun capo a vita, non abbiamo lo stesso bi-sogno della sorte.

Le elezioni per sorte incontrerebbono pochi inconve-nienti in una vera democrazia, in cui tutto essendo ugua-le, tanto pei costumi e per l'ingegno, quanto per le massi-me e la fortuna, la scelta diverrebbe quasi indifferente.Ma ho già detto non esservi vera democrazia.

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Quando la scelta e la sorte trovansi frammiste, la pri-ma si addice ai posti che richiedono un ingegno proprio,come gli impieghi militari, e l'altra a quelli, per cui basta-no il buon senso, la giustizia, l'integrità, come gli impie-ghi di giudicatura, perchè in uno stato ben costituito, lesono qualità comuni a tutti i cittadini.

Nè la sorte, nè i suffragi non hanno luogo nel governomonarchico. Essendo il monarca di diritto solo principe emagistrato unico, la scelta de' suoi luogotenenti non ap-partiene che a lui. Quando l'abate di Saint-Pierre propo-neva di moltiplicare i consigli del re di Francia, e d'eleg-gerne i membri per iscrutinio, ei non s'avvedeva comeproponesse di cambiar la forma di governo.

Mi rimarrebbe a parlar del modo di dare e raccogliere ivoti nell'assemblea del popolo; ma facendo la storia dellaromana polizia a questo proposito, spiegherò forse piùsensibilmente tutte le massime ch'io potrei stabilire. Nonè cosa indegna d'un lettore giudizioso il vedere minuta-mente come si trattassero gli affari pubblici e privati inun consiglio di duecentomila uomini.

CAPITOLO IVDei comizi romani.

Noi non abbiamo monumenti ben certi de' primi tempidi Roma, ed avvi anzi grande probabilità che la massimaparte delle cose che si spacciano siano favole43; ed in ge-

43 Il nome di Roma, che si vuole far derivare da Romolo, è parola

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Quando la scelta e la sorte trovansi frammiste, la pri-ma si addice ai posti che richiedono un ingegno proprio,come gli impieghi militari, e l'altra a quelli, per cui basta-no il buon senso, la giustizia, l'integrità, come gli impie-ghi di giudicatura, perchè in uno stato ben costituito, lesono qualità comuni a tutti i cittadini.

Nè la sorte, nè i suffragi non hanno luogo nel governomonarchico. Essendo il monarca di diritto solo principe emagistrato unico, la scelta de' suoi luogotenenti non ap-partiene che a lui. Quando l'abate di Saint-Pierre propo-neva di moltiplicare i consigli del re di Francia, e d'eleg-gerne i membri per iscrutinio, ei non s'avvedeva comeproponesse di cambiar la forma di governo.

Mi rimarrebbe a parlar del modo di dare e raccogliere ivoti nell'assemblea del popolo; ma facendo la storia dellaromana polizia a questo proposito, spiegherò forse piùsensibilmente tutte le massime ch'io potrei stabilire. Nonè cosa indegna d'un lettore giudizioso il vedere minuta-mente come si trattassero gli affari pubblici e privati inun consiglio di duecentomila uomini.

CAPITOLO IVDei comizi romani.

Noi non abbiamo monumenti ben certi de' primi tempidi Roma, ed avvi anzi grande probabilità che la massimaparte delle cose che si spacciano siano favole43; ed in ge-

43 Il nome di Roma, che si vuole far derivare da Romolo, è parola

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nerale la parte la più istruttiva degli annali dei popoli,ch'è la storia del loro stabilimento, è quella che ci mancadi più. L'esperienza ogni dì ci insegna da quali cause na-scano le rivoluzioni degl'imperi; ma siccome or più nonsi formano popoli, ci resta solo da far congetture perispiegare come siansi formati.

Gli usi che si trovano stabiliti attestano per lo menoch'ebbero un origine. Alcune tradizioni che risalgono aqueste origini, quelle appoggiate dalle maggiori autorità,e confermate da più forti ragioni ancora, debbono passareper le più certe. Ecco le massime che io tentai seguirenell'indagare in qual modo il più libero e potente popolodella terra esercitasse il suo supremo potere.

Dopo la fondazione di Roma, la nascente repubblica,cioè l'esercito del fondatore, composto d'Albani, Sabini edi stranieri, venne partita in tre classi, che, da quella par-tizione, pigliarono il nome di tribù. Ciascuna di questetribù fu suddivisa in dieci curie, ed ogni curia in decurie,alle quali furon preposti capi, che si appellarono curionie decurioni.

Oltracciò, da ciascuna tribù si trasse un corpo di centocavalieri, che si chiamò centuria; cosicchè si vede chequelle divisioni, poco necessarie in un borgo, in principioerano soltanto militari. Ma sembra che un istinto di gran-dezza spingesse la piccola città di Roma a darsi anticipa-tamente una polizia convenevole alla capitale del mondo.

greca che significa forza; greco pure è il nome di Numa, e si-gnifica legge. Quale probabilità che i due primi re di quella cit-tà abbiano portato anticipatamente nomi così ben relativi aquant'essi fecero?

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nerale la parte la più istruttiva degli annali dei popoli,ch'è la storia del loro stabilimento, è quella che ci mancadi più. L'esperienza ogni dì ci insegna da quali cause na-scano le rivoluzioni degl'imperi; ma siccome or più nonsi formano popoli, ci resta solo da far congetture perispiegare come siansi formati.

Gli usi che si trovano stabiliti attestano per lo menoch'ebbero un origine. Alcune tradizioni che risalgono aqueste origini, quelle appoggiate dalle maggiori autorità,e confermate da più forti ragioni ancora, debbono passareper le più certe. Ecco le massime che io tentai seguirenell'indagare in qual modo il più libero e potente popolodella terra esercitasse il suo supremo potere.

Dopo la fondazione di Roma, la nascente repubblica,cioè l'esercito del fondatore, composto d'Albani, Sabini edi stranieri, venne partita in tre classi, che, da quella par-tizione, pigliarono il nome di tribù. Ciascuna di questetribù fu suddivisa in dieci curie, ed ogni curia in decurie,alle quali furon preposti capi, che si appellarono curionie decurioni.

Oltracciò, da ciascuna tribù si trasse un corpo di centocavalieri, che si chiamò centuria; cosicchè si vede chequelle divisioni, poco necessarie in un borgo, in principioerano soltanto militari. Ma sembra che un istinto di gran-dezza spingesse la piccola città di Roma a darsi anticipa-tamente una polizia convenevole alla capitale del mondo.

greca che significa forza; greco pure è il nome di Numa, e si-gnifica legge. Quale probabilità che i due primi re di quella cit-tà abbiano portato anticipatamente nomi così ben relativi aquant'essi fecero?

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Da quella prima ripartizione nacque in breve un incon-veniente; la tribù degli Albani44 e quella dei Sabini45 ri-manendo sempre nel medesimo stato, mentre quella deglistranieri46 cresceva continuamente pel concorso perpetuodi quelli, quest'ultima non tardò guari a superare le altredue. Servio rimediò al pericoloso abuso, cambiando ladivisione, ed alla schiatta che abolì sostituendoneun'altra, derivata dai luoghi della città occupati da ciascu-na tribù. Invece di tre tribù, egli ne fece quattro, ciascunadelle quali occupava uno de' colli di Roma e ne assumevail nome. Di tal guisa, rimediando alla disuguaglianza pre-sente, la prevenne eziandio per l'avvenire; ed affinchèquesta divisione non fosse solamente di luoghi, mad'uomini, vietò agli abitanti d'un quartiere di passare inun altro; il che impedì alle stirpi di confondersi.

Raddoppiò eziandio le tre antiche centurie di cavalle-ria, e ve ne aggiunse altre due, ma sempre sotto gli anti-chi nomi; mezzo semplice e giudizioso, per cui finì di di-stinguere il corpo dei cavalieri da quello del popolo, sen-za far mormorare quest'ultimo.

A queste quattro tribù urbane, Servio ne aggiunse altrequindici, dette tribù rustiche, perchè formate dagli abi-tanti della campagna, divisi in altrettanti cantoni.Coll'andar del tempo se ne fecero altrettante di nuove, edil popolo romano si trovò alla perfine diviso in trentacin-que tribù: numero cui non si oltrepassò più finchè durò larepubblica.

44 Ramnenses.45 Talienses.46 Luceres.

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Da quella prima ripartizione nacque in breve un incon-veniente; la tribù degli Albani44 e quella dei Sabini45 ri-manendo sempre nel medesimo stato, mentre quella deglistranieri46 cresceva continuamente pel concorso perpetuodi quelli, quest'ultima non tardò guari a superare le altredue. Servio rimediò al pericoloso abuso, cambiando ladivisione, ed alla schiatta che abolì sostituendoneun'altra, derivata dai luoghi della città occupati da ciascu-na tribù. Invece di tre tribù, egli ne fece quattro, ciascunadelle quali occupava uno de' colli di Roma e ne assumevail nome. Di tal guisa, rimediando alla disuguaglianza pre-sente, la prevenne eziandio per l'avvenire; ed affinchèquesta divisione non fosse solamente di luoghi, mad'uomini, vietò agli abitanti d'un quartiere di passare inun altro; il che impedì alle stirpi di confondersi.

Raddoppiò eziandio le tre antiche centurie di cavalle-ria, e ve ne aggiunse altre due, ma sempre sotto gli anti-chi nomi; mezzo semplice e giudizioso, per cui finì di di-stinguere il corpo dei cavalieri da quello del popolo, sen-za far mormorare quest'ultimo.

A queste quattro tribù urbane, Servio ne aggiunse altrequindici, dette tribù rustiche, perchè formate dagli abi-tanti della campagna, divisi in altrettanti cantoni.Coll'andar del tempo se ne fecero altrettante di nuove, edil popolo romano si trovò alla perfine diviso in trentacin-que tribù: numero cui non si oltrepassò più finchè durò larepubblica.

44 Ramnenses.45 Talienses.46 Luceres.

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Da tale distinzione delle tribù della città e delle tribùcampestri risultò un effetto degno di essere osservato,perchè non avvene altro esempio, e perchè Roma gli do-vette a un tempo e la conservazione de' costumi el'ampliamento dell'imperio. Si crederebbe che le tribù ur-bane si arrogassero tosto il potere e gli onori, ed avvilis-sero le tribù rustiche: invece avvenne il contrario. È notoil gusto dei primi Romani per la vita campestre. Questogusto venne in essi instillato dal savio istitutore, che unìalla libertà le fatiche rustiche e militari, e rilegò, per cosìdire, nella città le arti, i mestieri, l'intrigo, la ricchezza ela schiavitù.

Per la qual cosa, tutto ciò che Roma aveva di illustrevivendo in campagna e coltivando le terre, invalse il co-stume di cercar sempre costì i sostenitori della repubbli-ca. Quello stato essendo comune a tutti i più degni patri-zi, fu onorato da tutti; la vita semplice e laboriosa deicontadini venne preferita alla vita oziosa e molle dei bor-ghesi di Roma, e taluno che in città non sarebbe stato senon un disgraziato proletario, lavorando alla campagnadiventò cittadino rispettato. Non senza ragione, dicevaVarrone, i nostri magnanimi antenati stabilirono nel vil-laggio il semenzaio di quei robusti e prodi uomini, che lidifendevano in tempo di guerra, e li nutrivano in tempodi pace. Plinio dice positivamente che le tribù dei campierano in onore, a motivo degli uomini ond'erano compo-ste; invece che si trasferivano, per ignominia, in quelledella città i codardi cui si voleva avvilire. Il sabino AppioClaudio essendo ito a stabilirsi in Roma, vi fu colmatod'onori ed inscritto in una tribù rustica, che prese poscia

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Da tale distinzione delle tribù della città e delle tribùcampestri risultò un effetto degno di essere osservato,perchè non avvene altro esempio, e perchè Roma gli do-vette a un tempo e la conservazione de' costumi el'ampliamento dell'imperio. Si crederebbe che le tribù ur-bane si arrogassero tosto il potere e gli onori, ed avvilis-sero le tribù rustiche: invece avvenne il contrario. È notoil gusto dei primi Romani per la vita campestre. Questogusto venne in essi instillato dal savio istitutore, che unìalla libertà le fatiche rustiche e militari, e rilegò, per cosìdire, nella città le arti, i mestieri, l'intrigo, la ricchezza ela schiavitù.

Per la qual cosa, tutto ciò che Roma aveva di illustrevivendo in campagna e coltivando le terre, invalse il co-stume di cercar sempre costì i sostenitori della repubbli-ca. Quello stato essendo comune a tutti i più degni patri-zi, fu onorato da tutti; la vita semplice e laboriosa deicontadini venne preferita alla vita oziosa e molle dei bor-ghesi di Roma, e taluno che in città non sarebbe stato senon un disgraziato proletario, lavorando alla campagnadiventò cittadino rispettato. Non senza ragione, dicevaVarrone, i nostri magnanimi antenati stabilirono nel vil-laggio il semenzaio di quei robusti e prodi uomini, che lidifendevano in tempo di guerra, e li nutrivano in tempodi pace. Plinio dice positivamente che le tribù dei campierano in onore, a motivo degli uomini ond'erano compo-ste; invece che si trasferivano, per ignominia, in quelledella città i codardi cui si voleva avvilire. Il sabino AppioClaudio essendo ito a stabilirsi in Roma, vi fu colmatod'onori ed inscritto in una tribù rustica, che prese poscia

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il nome di sua famiglia. Finalmente, i liberti entravanotutti nelle tribù urbane, e non mai nelle rurali; e non vi è,in tutto il tempo della repubblica, un solo esempio chequalcuno di questi liberti sia pervenuto ad una magistra-tura, benchè cittadino.

Tal massima era ottima, ma venne spinta tant'oltre, chene risultò finalmente un cambiamento e certo un abusonella polizia.

In primo luogo, i censori, dopo essersi arrogato lungapezza il diritto di trasferire arbitrariamente i cittadini dauna in altra tribù, permisero alla maggior parte di farsi in-scrivere in quella che più loro talentasse, permesso che dicerto non valeva a nulla e distruggeva una delle grandimolle della censura. E poi, i grandi ed i potenti facendositutti inscrivere nelle tribù della campagna, ed i liberti di-venuti cittadini rimanendo colla plebe in quelle della cit-tà, le tribù, in generale, non ebbero più luogo nè territo-rio, ma si trovarono tutte talmente confuse, che i membridi ciascuna non si potevano più discernere se non permezzo dei registri; di modo che l'idea della parola tribùpassò dal reale al personale, o piuttosto divenne quasiuna chimera.

Avvenne inoltre che le tribù della città, essendo più vi-cine, trovaronsi spesso le più forti nei comizi, e vendette-ro lo stato a quelli che degnavansi comprare i suffragidella plebaglia ond'erano composte.

Riguardo alle curie, l'institutore avendone fatte dieci inogni tribù, tutto il popolo romano, allora rinchiuso nellemura della città, si trovò composto di trenta curie, ciascu-na delle quali aveva i suoi templi, i suoi dei, i suoi uffi-

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il nome di sua famiglia. Finalmente, i liberti entravanotutti nelle tribù urbane, e non mai nelle rurali; e non vi è,in tutto il tempo della repubblica, un solo esempio chequalcuno di questi liberti sia pervenuto ad una magistra-tura, benchè cittadino.

Tal massima era ottima, ma venne spinta tant'oltre, chene risultò finalmente un cambiamento e certo un abusonella polizia.

In primo luogo, i censori, dopo essersi arrogato lungapezza il diritto di trasferire arbitrariamente i cittadini dauna in altra tribù, permisero alla maggior parte di farsi in-scrivere in quella che più loro talentasse, permesso che dicerto non valeva a nulla e distruggeva una delle grandimolle della censura. E poi, i grandi ed i potenti facendositutti inscrivere nelle tribù della campagna, ed i liberti di-venuti cittadini rimanendo colla plebe in quelle della cit-tà, le tribù, in generale, non ebbero più luogo nè territo-rio, ma si trovarono tutte talmente confuse, che i membridi ciascuna non si potevano più discernere se non permezzo dei registri; di modo che l'idea della parola tribùpassò dal reale al personale, o piuttosto divenne quasiuna chimera.

Avvenne inoltre che le tribù della città, essendo più vi-cine, trovaronsi spesso le più forti nei comizi, e vendette-ro lo stato a quelli che degnavansi comprare i suffragidella plebaglia ond'erano composte.

Riguardo alle curie, l'institutore avendone fatte dieci inogni tribù, tutto il popolo romano, allora rinchiuso nellemura della città, si trovò composto di trenta curie, ciascu-na delle quali aveva i suoi templi, i suoi dei, i suoi uffi-

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ziali, i suoi preti e le sue feste, chiamate compitalia, simi-li alle paganalia, ch'ebbero coll'andar del tempo le tribùrustiche.

Nella nuova divisione di Servio, quel numero di trentanon potendo ripartirsi ugualmente in quelle quattro tribù,ei non volle toccarle; e le curie, indipendenti dalle tribù,diventarono un'altra divisione degli abitanti di Roma; manon si trattò di curie nè nelle tribù rustiche, nè nel popoloche le componeva, perchè le tribù essendo divenute uninstituto puramente civile, ed essendo stata introdotta perla leva delle truppe un'altra polizia, le divisioni militari diRomolo trovaronsi superflue. Così, quantunque ogni cit-tadino fosse inscritto in una tribù, era tuttavia ben lonta-no dall'esserlo in una curia.

Servio fece ancora una terza divisione, che non avevanessuna relazione colle due precedenti, e diventò, per isuoi effetti, la più importante di tutte. Egli distribuì tuttoil popolo romano in sei classi, cui non distinse nè pel luo-go, nè per gli uomini, ma pe' beni, di modo che le primeclassi erano occupate e empite dai ricchi, le ultime daipoveri, e le medie da quelli che godevano di mediocrefortuna. Queste sei classi erano suddivise in centonovan-tatrè altri corpi, detti centurie; e questi corpi erano distri-buiti in guisa, che la sola prima classe ne comprendevapiù della metà, e l'ultima ne formava uno solo appena.Per la qual cosa avvenne che la classe men numerosa inuomini lo era di più in centurie, e l'ultima classe interanon era contata se non per una suddivisione, benchè essasola contenesse più della metà degli abitanti di Roma.

Affinchè il popolo badasse meno alle conseguenze di

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ziali, i suoi preti e le sue feste, chiamate compitalia, simi-li alle paganalia, ch'ebbero coll'andar del tempo le tribùrustiche.

Nella nuova divisione di Servio, quel numero di trentanon potendo ripartirsi ugualmente in quelle quattro tribù,ei non volle toccarle; e le curie, indipendenti dalle tribù,diventarono un'altra divisione degli abitanti di Roma; manon si trattò di curie nè nelle tribù rustiche, nè nel popoloche le componeva, perchè le tribù essendo divenute uninstituto puramente civile, ed essendo stata introdotta perla leva delle truppe un'altra polizia, le divisioni militari diRomolo trovaronsi superflue. Così, quantunque ogni cit-tadino fosse inscritto in una tribù, era tuttavia ben lonta-no dall'esserlo in una curia.

Servio fece ancora una terza divisione, che non avevanessuna relazione colle due precedenti, e diventò, per isuoi effetti, la più importante di tutte. Egli distribuì tuttoil popolo romano in sei classi, cui non distinse nè pel luo-go, nè per gli uomini, ma pe' beni, di modo che le primeclassi erano occupate e empite dai ricchi, le ultime daipoveri, e le medie da quelli che godevano di mediocrefortuna. Queste sei classi erano suddivise in centonovan-tatrè altri corpi, detti centurie; e questi corpi erano distri-buiti in guisa, che la sola prima classe ne comprendevapiù della metà, e l'ultima ne formava uno solo appena.Per la qual cosa avvenne che la classe men numerosa inuomini lo era di più in centurie, e l'ultima classe interanon era contata se non per una suddivisione, benchè essasola contenesse più della metà degli abitanti di Roma.

Affinchè il popolo badasse meno alle conseguenze di

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quest'ultima forma, Servio affettò di darle un aspetto mi-litare: inserì nella seconda classe due centurie di arma-iuoli, e due di strumenti da guerra nella quarta; in ogniclasse, eccettuata l'ultima, distinse i giovani ed i vecchi,cioè quelli ch'erano obbligati a portare l'armi, e quelliche, giusta le leggi, ne andavano esenti per l'età; distin-zione che, più di quella dei beni, produsse la necessità diricominciare spesso il censo ossia enumerazione; in fine,volle che l'assemblea si tenesse al Campo di Marte, e tut-ti quelli ch'erano in età di militare vi andassero collearmi.

Il motivo per cui nell'ultima classe non fece quella me-desima divisione dei giovani e dei vecchi, è che non siconcedeva alla plebe, ond'essa era composta, l'onore diportare le armi per la patria; bisognava aver focolari perottenere il diritto di difenderli; e di quelle innumerevolitorme di pittocchi, onde riboccano oggidì gli eserciti de're, non accene forse uno che non fosse stato cacciato di-sdegnosamente da una coorte romana, quando i soldatierano i difensori della libertà.

Nell'ultima classe, si distinsero però anche i proletarida quelli che appellavansi capitecensi. I primi, non ridottiaffatto a niente, davano almeno cittadini allo stato, e tal-volta pure soldati ne' bisogni urgenti. Quelli poi che nonavean nulla e non potevansi enumerare se non dalle teste,erano ritenuti come nulli, e Mario fu il primo che si de-gnò di arrolarli.

Senza decidere qui se questa terza enumerazione fossebuona o cattiva in sè stessa, io credo poter affermare nonesservi altro che potesse renderla praticabile se non i co-

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quest'ultima forma, Servio affettò di darle un aspetto mi-litare: inserì nella seconda classe due centurie di arma-iuoli, e due di strumenti da guerra nella quarta; in ogniclasse, eccettuata l'ultima, distinse i giovani ed i vecchi,cioè quelli ch'erano obbligati a portare l'armi, e quelliche, giusta le leggi, ne andavano esenti per l'età; distin-zione che, più di quella dei beni, produsse la necessità diricominciare spesso il censo ossia enumerazione; in fine,volle che l'assemblea si tenesse al Campo di Marte, e tut-ti quelli ch'erano in età di militare vi andassero collearmi.

Il motivo per cui nell'ultima classe non fece quella me-desima divisione dei giovani e dei vecchi, è che non siconcedeva alla plebe, ond'essa era composta, l'onore diportare le armi per la patria; bisognava aver focolari perottenere il diritto di difenderli; e di quelle innumerevolitorme di pittocchi, onde riboccano oggidì gli eserciti de're, non accene forse uno che non fosse stato cacciato di-sdegnosamente da una coorte romana, quando i soldatierano i difensori della libertà.

Nell'ultima classe, si distinsero però anche i proletarida quelli che appellavansi capitecensi. I primi, non ridottiaffatto a niente, davano almeno cittadini allo stato, e tal-volta pure soldati ne' bisogni urgenti. Quelli poi che nonavean nulla e non potevansi enumerare se non dalle teste,erano ritenuti come nulli, e Mario fu il primo che si de-gnò di arrolarli.

Senza decidere qui se questa terza enumerazione fossebuona o cattiva in sè stessa, io credo poter affermare nonesservi altro che potesse renderla praticabile se non i co-

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stumi semplici dei primi Romani, il loro disinteresse, illoro gusto per l'agricoltura, il loro sprezzo pel commercioe per la bramosia del lucro. Dov'è il popolo moderno, lacui divorante avidità, lo spirito inquieto, l'intrigo, i conti-nui spostamenti, le perpetue rivoluzioni de' patrimonipossano lasciar durare vent'anni un simile istituto senzascompaginare tutto lo stato? Uopo è ancora osservarbene, che i costumi e la censura, più forti di quella insti-tuzione, ne corressero il vizio a Roma, e furon visti ricchirelegati nella classe dei poveri per aver fatto troppa pom-pa di loro dovizie.

Da tutto ciò si può agevolmente comprendere perchènon si faccia quasi mai menzione se non di cinque classi,quantunque ve ne fossero realmente sei. La sesta nonmandando nè soldati all'esercito, nè votanti al Campo diMarte47, e non essendo quasi di nessun uso nella repub-blica, era di rado calcolata per qualcosa.

Tali furono le varie divisioni del popolo romano. Ve-diamo adesso l'effetto che producevano nelle assemblee.Queste assemblee, legittimamente convocate, appella-vansi comizi, e tenevansi di consueto nel foro di Roma,od al Campo di Marte, e si distinguevano in comizi percurie, comizi per centurie e comizi per tribù, secondoquella di tali tre forme nella quale venivano ordinate. Icomizi per curie erano d'instituzione di Romolo; quelliper centurie, di Servio; quelli per tribù, dei tribuni del po-

47 Io dico al Campo di Marte, perchè quivi si ragunavano i comiziper centurie: nelle altre due forme il popolo conveniva nel forood altrove, ed allora i capitecensi avevano influenza ed autoritàpari ai primi cittadini.

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stumi semplici dei primi Romani, il loro disinteresse, illoro gusto per l'agricoltura, il loro sprezzo pel commercioe per la bramosia del lucro. Dov'è il popolo moderno, lacui divorante avidità, lo spirito inquieto, l'intrigo, i conti-nui spostamenti, le perpetue rivoluzioni de' patrimonipossano lasciar durare vent'anni un simile istituto senzascompaginare tutto lo stato? Uopo è ancora osservarbene, che i costumi e la censura, più forti di quella insti-tuzione, ne corressero il vizio a Roma, e furon visti ricchirelegati nella classe dei poveri per aver fatto troppa pom-pa di loro dovizie.

Da tutto ciò si può agevolmente comprendere perchènon si faccia quasi mai menzione se non di cinque classi,quantunque ve ne fossero realmente sei. La sesta nonmandando nè soldati all'esercito, nè votanti al Campo diMarte47, e non essendo quasi di nessun uso nella repub-blica, era di rado calcolata per qualcosa.

Tali furono le varie divisioni del popolo romano. Ve-diamo adesso l'effetto che producevano nelle assemblee.Queste assemblee, legittimamente convocate, appella-vansi comizi, e tenevansi di consueto nel foro di Roma,od al Campo di Marte, e si distinguevano in comizi percurie, comizi per centurie e comizi per tribù, secondoquella di tali tre forme nella quale venivano ordinate. Icomizi per curie erano d'instituzione di Romolo; quelliper centurie, di Servio; quelli per tribù, dei tribuni del po-

47 Io dico al Campo di Marte, perchè quivi si ragunavano i comiziper centurie: nelle altre due forme il popolo conveniva nel forood altrove, ed allora i capitecensi avevano influenza ed autoritàpari ai primi cittadini.

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polo. Niuna legge veniva sanzionata, nessun magistratoeletto se non nei comizi, e siccome non eravi cittadinoche non fosse inscritto in una curia, in una centuria od inuna tribù, così nessun cittadino era escluso dal diritto disuffragio, ed il popolo romano era veramente sovrano didiritto e di fatto.

Affinchè i comizi fossero legittimamente ragunati, equanto vi si deliberava avesse forza di legge, ci volevanotre condizioni; la prima, che il corpo od il magistrato chelo convocava fosse rivestito dell'autorità necessaria; laseconda, che l'assemblea si tenesse in uno dei giorni per-messi dalla legge: la terza, che gli augurj fossero favore-voli.

La ragione del primo regolamento non ha d'uopo dispiegazione; il secondo è un affare di polizia: così nonera permesso di tenere i comizi ne' giorni di feria e dimercato, in cui la gente di campagna venendo a Romaper le sue faccende, non aveva il tempo di passare lagiornata nella pubblica piazza. Per mezzo del terzo rego-lamento, il senato teneva in freno un popolo fiero e tur-bolento, e temperava a proposito l'ardore dei tribuni sedi-ziosi; ma questi trovarono più d'un mezzo di liberarsi diquest'impaccio.

Le leggi dell'elezione dei capi non erano i soli argo-menti che si sottoponessero al giudizio dei comizi: il po-polo romano avendo usurpato i più importanti uffizi delgoverno, si può dire che le sorti dell'Europa si regolavanoin quelle assemblee. Siffatta varietà d'oggetti dava luogoalle diverse forme che assumevano queste assemblee, se-condo le materie intorno alle quali ei dovea pronunciare.

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polo. Niuna legge veniva sanzionata, nessun magistratoeletto se non nei comizi, e siccome non eravi cittadinoche non fosse inscritto in una curia, in una centuria od inuna tribù, così nessun cittadino era escluso dal diritto disuffragio, ed il popolo romano era veramente sovrano didiritto e di fatto.

Affinchè i comizi fossero legittimamente ragunati, equanto vi si deliberava avesse forza di legge, ci volevanotre condizioni; la prima, che il corpo od il magistrato chelo convocava fosse rivestito dell'autorità necessaria; laseconda, che l'assemblea si tenesse in uno dei giorni per-messi dalla legge: la terza, che gli augurj fossero favore-voli.

La ragione del primo regolamento non ha d'uopo dispiegazione; il secondo è un affare di polizia: così nonera permesso di tenere i comizi ne' giorni di feria e dimercato, in cui la gente di campagna venendo a Romaper le sue faccende, non aveva il tempo di passare lagiornata nella pubblica piazza. Per mezzo del terzo rego-lamento, il senato teneva in freno un popolo fiero e tur-bolento, e temperava a proposito l'ardore dei tribuni sedi-ziosi; ma questi trovarono più d'un mezzo di liberarsi diquest'impaccio.

Le leggi dell'elezione dei capi non erano i soli argo-menti che si sottoponessero al giudizio dei comizi: il po-polo romano avendo usurpato i più importanti uffizi delgoverno, si può dire che le sorti dell'Europa si regolavanoin quelle assemblee. Siffatta varietà d'oggetti dava luogoalle diverse forme che assumevano queste assemblee, se-condo le materie intorno alle quali ei dovea pronunciare.

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Per giudicare di queste forme, basta confrontarle. Ro-molo instituiva le curie coll'intenzione di contenere il se-nato per mezzo del popolo ed il popolo per mezzo del se-nato, dominando ugualmente su tutti. Per mezzo di que-sta forma egli diede adunque al popolo tutta l'autorità delnumero per contrabbilanciare quella del potere e dellericchezze lasciata ai patrizi. Ma, secondo lo spirito dellamonarchia, lasciò tuttavia maggior vantaggio ai patrizicoll'influenza dei loro clienti sulla pluralità dei suffragi.Quella mirabile instituzione dei patroni e dei clienti fu uncapolavoro di politica e d'umanità, senza cui il patriziato,così contrario allo spirito della repubblica, non avrebbepotuto sussistere. Roma sola ebbe l'onore di dare al mon-do questo bell'esempio, dal quale non risultò mai un abu-so, e che ciò nondimeno non venne mai imitato.

Quella medesima forma delle curie avendo sussistitosotto i re fino a Servio, ed il regno dell'ultimo Tarquinionon essendo tenuto per legittimo, le leggi regie furonogeneralmente distinte col nome di leges curiatae.

Sotto la repubblica, le curie, limitate sempre alle quat-tro tribù urbane, e non contenendo più se non il popolac-cio di Roma, non potevano convenire nè al senato, ch'eraalla testa dei patrizi, nè ai tribuni, i quali, quantunqueplebei, erano alla testa dei cittadini agiati. Caddero dun-que in discredito, e tale fu il loro avvilimento, che i lorotrenta littori raunati facevano quello che i comizi avreb-bono dovuto fare per curie.

La divisione per centurie era così favorevole all'aristo-crazia, che non si capisce a prima vista come il senatonon la vincesse sempre nei comizi che portavano questo

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Per giudicare di queste forme, basta confrontarle. Ro-molo instituiva le curie coll'intenzione di contenere il se-nato per mezzo del popolo ed il popolo per mezzo del se-nato, dominando ugualmente su tutti. Per mezzo di que-sta forma egli diede adunque al popolo tutta l'autorità delnumero per contrabbilanciare quella del potere e dellericchezze lasciata ai patrizi. Ma, secondo lo spirito dellamonarchia, lasciò tuttavia maggior vantaggio ai patrizicoll'influenza dei loro clienti sulla pluralità dei suffragi.Quella mirabile instituzione dei patroni e dei clienti fu uncapolavoro di politica e d'umanità, senza cui il patriziato,così contrario allo spirito della repubblica, non avrebbepotuto sussistere. Roma sola ebbe l'onore di dare al mon-do questo bell'esempio, dal quale non risultò mai un abu-so, e che ciò nondimeno non venne mai imitato.

Quella medesima forma delle curie avendo sussistitosotto i re fino a Servio, ed il regno dell'ultimo Tarquinionon essendo tenuto per legittimo, le leggi regie furonogeneralmente distinte col nome di leges curiatae.

Sotto la repubblica, le curie, limitate sempre alle quat-tro tribù urbane, e non contenendo più se non il popolac-cio di Roma, non potevano convenire nè al senato, ch'eraalla testa dei patrizi, nè ai tribuni, i quali, quantunqueplebei, erano alla testa dei cittadini agiati. Caddero dun-que in discredito, e tale fu il loro avvilimento, che i lorotrenta littori raunati facevano quello che i comizi avreb-bono dovuto fare per curie.

La divisione per centurie era così favorevole all'aristo-crazia, che non si capisce a prima vista come il senatonon la vincesse sempre nei comizi che portavano questo

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nome, e dai quali venivano eletti i consoli, i censori e glialtri magistrati curuli. Infatti, di centonovantatrè centurieond'erano formate le sei classi di tutto il popolo romano,la prima classe contenendone novantotto, e i voti noncontandosi se non per centuria, questa sola prima classesuperava in numero di voti tutte le altre. Quando tutte lecenturie andavano d'accordo, non si continuava nemme-no a raccogliere i suffragi; ciò che aveva deciso il nume-ro minore passava per una decisione della moltitudine; esi può dire che, nei comizi per centurie, gli affari si rego-lavano alla pluralità degli scudi assai più che a quella de'voti.

Ma questa estrema autorità temperavasi in due modi:primieramente, i tribuni, e sempre un gran numero di ple-bei, trovandosi d'ordinario nella classe dei ricchi, con-trabbilanciavano il credito dei patrizi in questa ultimaclasse.

Il secondo mezzo consisteva in ciò che invece di farvotare anzitutto le centurie secondo il loro ordine, per cuisi sarebbe sempre cominciato dalla prima, se ne traevauna a sorte, e questa48 procedeva sola all'elezione; dopodi che, tutte le centurie chiamate un altro giorno, secondol'ordine loro, ripetevano la medesima elezione, e ordina-riamente la confermavano. Così toglievasi l'autoritàdell'esempio all'ordine, per darla alla sorte, secondo ilprincipio della democrazia.

Da codesto uso nasceva ancora un altro vantaggio; i

48 Questa centuria tratta così a sorte chiamavasi praerogativa, amotivo ch'era la prima cui si domandasse il suffragio; e da ciòderivò la parola prerogativa.

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nome, e dai quali venivano eletti i consoli, i censori e glialtri magistrati curuli. Infatti, di centonovantatrè centurieond'erano formate le sei classi di tutto il popolo romano,la prima classe contenendone novantotto, e i voti noncontandosi se non per centuria, questa sola prima classesuperava in numero di voti tutte le altre. Quando tutte lecenturie andavano d'accordo, non si continuava nemme-no a raccogliere i suffragi; ciò che aveva deciso il nume-ro minore passava per una decisione della moltitudine; esi può dire che, nei comizi per centurie, gli affari si rego-lavano alla pluralità degli scudi assai più che a quella de'voti.

Ma questa estrema autorità temperavasi in due modi:primieramente, i tribuni, e sempre un gran numero di ple-bei, trovandosi d'ordinario nella classe dei ricchi, con-trabbilanciavano il credito dei patrizi in questa ultimaclasse.

Il secondo mezzo consisteva in ciò che invece di farvotare anzitutto le centurie secondo il loro ordine, per cuisi sarebbe sempre cominciato dalla prima, se ne traevauna a sorte, e questa48 procedeva sola all'elezione; dopodi che, tutte le centurie chiamate un altro giorno, secondol'ordine loro, ripetevano la medesima elezione, e ordina-riamente la confermavano. Così toglievasi l'autoritàdell'esempio all'ordine, per darla alla sorte, secondo ilprincipio della democrazia.

Da codesto uso nasceva ancora un altro vantaggio; i

48 Questa centuria tratta così a sorte chiamavasi praerogativa, amotivo ch'era la prima cui si domandasse il suffragio; e da ciòderivò la parola prerogativa.

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cittadini, cioè, della campagna avevano il tempo, infra ledue elezioni, d'informarsi del merito del candidato prov-visoriamente nominato, onde non dare il loro voto se noncon cognizione di causa. Ma col pretesto della celerità, siriescì ad abolire tale usanza, e le due elezioni si feceronello stesso giorno.

I comizi per tribù erano propriamente il consiglio delpopolo romano. Venivano convocati soltanto dai tribuni;in essi si eleggevano i tribuni, e passavano i loro plebisci-ti. Non solo il senato non ci avea posto, ma non aveanemmeno il diritto di assistervi; ed i senatori, costretti adubbidire a leggi alle quali non avevano potuto votare, atale riguardo erano men liberi degli ultimi cittadini. Taleingiustizia era malissimo intesa, e bastava essa sola perinvalidare i decreti d'un corpo, ove tutti i suoi membrinon erano ammessi. Quando tutti i patrizi avessero assi-stito a quei comizi secondo il diritto che ne avevano quaicittadini, divenuti allora semplici privati, non avrebberoguari influito sovra una forma di suffragi che raccoglie-vansi per testa, ed in cui l'infimo proletario poteva al paridel principe del senato.

Si vede dunque che, oltre all'ordine derivante da que-ste diverse distribuzioni pel raccoglimento dei suffragi diun sì gran popolo, tali distribuzioni non riducevansi aforme indifferenti in sè stesse, ma che ciascuna avea ef-fetti relativi alle viste che la facea preferire.

Senza entrare in maggiori particolarità intorno al finqui detto, appare dai precedenti schiarimenti che i comiziper tribù erano i più favorevoli al governo popolare, ed icomizi per centurie all'aristocrazia. Riguardo ai comizi

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cittadini, cioè, della campagna avevano il tempo, infra ledue elezioni, d'informarsi del merito del candidato prov-visoriamente nominato, onde non dare il loro voto se noncon cognizione di causa. Ma col pretesto della celerità, siriescì ad abolire tale usanza, e le due elezioni si feceronello stesso giorno.

I comizi per tribù erano propriamente il consiglio delpopolo romano. Venivano convocati soltanto dai tribuni;in essi si eleggevano i tribuni, e passavano i loro plebisci-ti. Non solo il senato non ci avea posto, ma non aveanemmeno il diritto di assistervi; ed i senatori, costretti adubbidire a leggi alle quali non avevano potuto votare, atale riguardo erano men liberi degli ultimi cittadini. Taleingiustizia era malissimo intesa, e bastava essa sola perinvalidare i decreti d'un corpo, ove tutti i suoi membrinon erano ammessi. Quando tutti i patrizi avessero assi-stito a quei comizi secondo il diritto che ne avevano quaicittadini, divenuti allora semplici privati, non avrebberoguari influito sovra una forma di suffragi che raccoglie-vansi per testa, ed in cui l'infimo proletario poteva al paridel principe del senato.

Si vede dunque che, oltre all'ordine derivante da que-ste diverse distribuzioni pel raccoglimento dei suffragi diun sì gran popolo, tali distribuzioni non riducevansi aforme indifferenti in sè stesse, ma che ciascuna avea ef-fetti relativi alle viste che la facea preferire.

Senza entrare in maggiori particolarità intorno al finqui detto, appare dai precedenti schiarimenti che i comiziper tribù erano i più favorevoli al governo popolare, ed icomizi per centurie all'aristocrazia. Riguardo ai comizi

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per curie, in cui la sola plebaglia di Roma formava lamaggioranza, siccome essi non giovavano se non a favo-rire la tirannide ed i malvagi disegni, dovettero cadere indiscredito, astenendosi i sediziosi stessi da un mezzo chetroppo in chiaro metteva i loro disegni. È certo che tuttala maestà del popolo romano non appariva se non nei co-mizi per centurie, i quali soli erano completi; attesochènei comizi per curie mancavano le tribù rustiche, e neicomizi per tribù mancavano il senato ed i patrizi.

Il modo poi di raccogliere i suffragi era presso i primiRomani semplice al par dei loro costumi, quantunquemeno semplice ancora che a Sparta. Ciascuno dava il suosuffragio a voce alta, ed un cancelliere lo scriveva manmano che si pronunciava: la maggioranza de' voti in ognitribù determinava il suffragio della tribù: la maggioranzade' voti fra le tribù determinava il suffragio del popolo, ecosì dicasi delle curie e centurie. Questa usanza era buo-na, fintantochè regnava fra i cittadini l'onestà, e ognunovergognavasi di dare pubblicamente il suo suffragio adun'opinione ingiusta o ad un individuo indegno; maquando il popolo si corruppe, e si comprarono i voti, con-venne darli in segreto onde frenare i compratori colla dif-fidenza, e dare ai bricconi il mezzo di non diventar tradi-tori.

Io so che Cicerone biasima tale cambiamento, e gli at-tribuisce in parte la ruina della repubblica. Ma per quantograve sia in questa cosa l'autorità di Cicerone, io nonposso essere del suo parere; penso invece che si acceleròla perdita dello stato per non aver fatto abbastanza di si-mili cambiamenti. Nella guisa stessa che il regime delle

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per curie, in cui la sola plebaglia di Roma formava lamaggioranza, siccome essi non giovavano se non a favo-rire la tirannide ed i malvagi disegni, dovettero cadere indiscredito, astenendosi i sediziosi stessi da un mezzo chetroppo in chiaro metteva i loro disegni. È certo che tuttala maestà del popolo romano non appariva se non nei co-mizi per centurie, i quali soli erano completi; attesochènei comizi per curie mancavano le tribù rustiche, e neicomizi per tribù mancavano il senato ed i patrizi.

Il modo poi di raccogliere i suffragi era presso i primiRomani semplice al par dei loro costumi, quantunquemeno semplice ancora che a Sparta. Ciascuno dava il suosuffragio a voce alta, ed un cancelliere lo scriveva manmano che si pronunciava: la maggioranza de' voti in ognitribù determinava il suffragio della tribù: la maggioranzade' voti fra le tribù determinava il suffragio del popolo, ecosì dicasi delle curie e centurie. Questa usanza era buo-na, fintantochè regnava fra i cittadini l'onestà, e ognunovergognavasi di dare pubblicamente il suo suffragio adun'opinione ingiusta o ad un individuo indegno; maquando il popolo si corruppe, e si comprarono i voti, con-venne darli in segreto onde frenare i compratori colla dif-fidenza, e dare ai bricconi il mezzo di non diventar tradi-tori.

Io so che Cicerone biasima tale cambiamento, e gli at-tribuisce in parte la ruina della repubblica. Ma per quantograve sia in questa cosa l'autorità di Cicerone, io nonposso essere del suo parere; penso invece che si acceleròla perdita dello stato per non aver fatto abbastanza di si-mili cambiamenti. Nella guisa stessa che il regime delle

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persone sane non si addice agli infermi, così non bisognavoler governare un popolo corrotto colle medesime leggiche convengono ad un popolo buono. Nulla prova megliotale massima, quanto la durata della repubblica di Vene-zia, della quale esiste ancora il simulacro, unicamenteperchè le sue leggi non convengono se non ad uominicattivi.

Si distribuirono adunque ai cittadini tabelle, per mezzodelle quali ciascuno poteva votare senza che si sapessequal fosse il suo parere; si stabilirono pure nuove forma-lità per raccogliere le tabelle, contare i voti, confrontare inumeri ecc.: il che non tolse che la fedeltà degl'incaricatia quell'uffizio non fosse sovente sospetta49. Finalmente,per impedire i brogli ed il traffico dei suffragi, si emana-rono editti, la cui inutilità si chiarisce dal loro gran nume-ro.

Verso gli ultimi tempi, era spesso necessario ricorrerea straordinari espedienti per supplire alla insufficienzadelle leggi: ora si supponevano prodigi; ma questo mez-zo, che poteva imporre al popolo, non ne imponeva a chilo governava: ora si convocava bruscamente un'assem-blea prima che i candidati avessero avuto il tempo di bro-gliare, ed ora spendevasi un'intiera seduta a parlare,quando vedevasi il popolo guadagnato, pronto a prendereun cattivo partito. Ma finalmente l'ambizione eluse tutto:l'incredibile è che in mezzo a tanti abusi, quel popolo im-menso, la mercè di quegli antichi regolamenti, non trala-sciava d'eleggere i magistrati di votare le leggi, di giudi-care le cause, di sbrigare gli affari privati e pubblici, qua-

49 Custodes, diribitores, rogatores suffragiorum.

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persone sane non si addice agli infermi, così non bisognavoler governare un popolo corrotto colle medesime leggiche convengono ad un popolo buono. Nulla prova megliotale massima, quanto la durata della repubblica di Vene-zia, della quale esiste ancora il simulacro, unicamenteperchè le sue leggi non convengono se non ad uominicattivi.

Si distribuirono adunque ai cittadini tabelle, per mezzodelle quali ciascuno poteva votare senza che si sapessequal fosse il suo parere; si stabilirono pure nuove forma-lità per raccogliere le tabelle, contare i voti, confrontare inumeri ecc.: il che non tolse che la fedeltà degl'incaricatia quell'uffizio non fosse sovente sospetta49. Finalmente,per impedire i brogli ed il traffico dei suffragi, si emana-rono editti, la cui inutilità si chiarisce dal loro gran nume-ro.

Verso gli ultimi tempi, era spesso necessario ricorrerea straordinari espedienti per supplire alla insufficienzadelle leggi: ora si supponevano prodigi; ma questo mez-zo, che poteva imporre al popolo, non ne imponeva a chilo governava: ora si convocava bruscamente un'assem-blea prima che i candidati avessero avuto il tempo di bro-gliare, ed ora spendevasi un'intiera seduta a parlare,quando vedevasi il popolo guadagnato, pronto a prendereun cattivo partito. Ma finalmente l'ambizione eluse tutto:l'incredibile è che in mezzo a tanti abusi, quel popolo im-menso, la mercè di quegli antichi regolamenti, non trala-sciava d'eleggere i magistrati di votare le leggi, di giudi-care le cause, di sbrigare gli affari privati e pubblici, qua-

49 Custodes, diribitores, rogatores suffragiorum.

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si con altrettanta facilità quanto avrebbe potuto farlo ilmedesimo senato.

CAPITOLO VDel tribunato.

Quando non si può stabilire una proporzione esatta trale parti costitutive dello stato, o quando cagioni indistrut-tibili ne alterano del continuo i rapporti, allora si institui-sce una magistratura particolare, che non fa corpo coglialtri, rimette ogni termine nel suo vero rapporto, e formaun legame od un mezzo termine, sia tra il principe ed ilpopolo, come tra il principe ed il sovrano, o fra le dueparti a un tempo ove faccia d'uopo.

Questo corpo, che io chiamerò tribunato, è il conser-vatore delle leggi e del potere legislativo. Qualche voltaserve a proteggere il sovrano contro il governo, come fa-cevano a Roma i tribuni del popolo; qualche volta a so-stenere il governo contro il popolo, come fa a Venezia ilconsiglio dei Dieci, e qualche volta a mantenere l'equili-brio da ambo i lati, come facevano gli efori a Sparta.

Il tribunato non è una parte costitutiva del comune, enon deve partecipar guari nè del potere legislativo, nèdell'esecutivo; ma appunto perciò il suo potere è piùgrande, perchè, non potendo far nulla, può impedir tutto.Egli, qual difensore delle leggi, è più sacro e riverito delprincipe che le eseguisce, e del sovrano che le fa. Il chevidesi chiarissimamente a Roma, quando que' superbi pa-

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si con altrettanta facilità quanto avrebbe potuto farlo ilmedesimo senato.

CAPITOLO VDel tribunato.

Quando non si può stabilire una proporzione esatta trale parti costitutive dello stato, o quando cagioni indistrut-tibili ne alterano del continuo i rapporti, allora si institui-sce una magistratura particolare, che non fa corpo coglialtri, rimette ogni termine nel suo vero rapporto, e formaun legame od un mezzo termine, sia tra il principe ed ilpopolo, come tra il principe ed il sovrano, o fra le dueparti a un tempo ove faccia d'uopo.

Questo corpo, che io chiamerò tribunato, è il conser-vatore delle leggi e del potere legislativo. Qualche voltaserve a proteggere il sovrano contro il governo, come fa-cevano a Roma i tribuni del popolo; qualche volta a so-stenere il governo contro il popolo, come fa a Venezia ilconsiglio dei Dieci, e qualche volta a mantenere l'equili-brio da ambo i lati, come facevano gli efori a Sparta.

Il tribunato non è una parte costitutiva del comune, enon deve partecipar guari nè del potere legislativo, nèdell'esecutivo; ma appunto perciò il suo potere è piùgrande, perchè, non potendo far nulla, può impedir tutto.Egli, qual difensore delle leggi, è più sacro e riverito delprincipe che le eseguisce, e del sovrano che le fa. Il chevidesi chiarissimamente a Roma, quando que' superbi pa-

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trizi, i quali sprezzarono sempre l'intero popolo, furonocostretti ad inchinarsi davanti ad un semplice officialedel popolo, che non aveva nè auspicj, nè giurisdizione.

Il tribunato saviamente temperato è il più saldo appog-gio di una buona costituzione; ma per poco sovrabbondiin forza, ei rovescia tutto. La debolezza non si addice allasua natura, e purchè ei sia qualche cosa, non è mai dameno di quanto occorre.

Degenera in tirannide quando usurpa il potere esecuti-vo, del quale non è se non il moderatore, e quando vuoldispensare le leggi, cui deve soltanto proteggere. L'enor-me potere degli efori, che durò senza pericolo fintantochèSparta conservò i suoi costumi, ne accelerò la incomin-ciata corruzione. Il sangue d'Agide, scannato da quei ti-ranni, fu vendicato dal suo successore: il delitto ed il ca-stigo degli efori affrettarono ugualmente la perdita dellarepubblica, e dopo Cleomene, Sparta non fu più nulla.Roma perì eziandio per l'istesso motivo, e l'eccessivo po-tere dei tribuni a poco a poco usurpato, servì in fine, lamercè di leggi fatte per la libertà, di salvaguardiaagl'imperatori che la distrussero.

Il consiglio dei Dieci a Venezia è un tribunale di san-gue, ugualmente orribile ai patrizi ed al popolo, e che,lungi dal proteggere altamente le leggi, non giova più,dopo il loro avvilimento, se non a vibrar colpi nelle tene-bre, cui niuno osa indagare.

Il tribunato, come il governo, s'indebolisce per la mol-tiplicità de' suoi membri. Quando i tribuni del popolo ro-mano, dapprincipio in numero di due, poi di cinque, vol-lero raddoppiare questo numero, il senato li lasciò fare,

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trizi, i quali sprezzarono sempre l'intero popolo, furonocostretti ad inchinarsi davanti ad un semplice officialedel popolo, che non aveva nè auspicj, nè giurisdizione.

Il tribunato saviamente temperato è il più saldo appog-gio di una buona costituzione; ma per poco sovrabbondiin forza, ei rovescia tutto. La debolezza non si addice allasua natura, e purchè ei sia qualche cosa, non è mai dameno di quanto occorre.

Degenera in tirannide quando usurpa il potere esecuti-vo, del quale non è se non il moderatore, e quando vuoldispensare le leggi, cui deve soltanto proteggere. L'enor-me potere degli efori, che durò senza pericolo fintantochèSparta conservò i suoi costumi, ne accelerò la incomin-ciata corruzione. Il sangue d'Agide, scannato da quei ti-ranni, fu vendicato dal suo successore: il delitto ed il ca-stigo degli efori affrettarono ugualmente la perdita dellarepubblica, e dopo Cleomene, Sparta non fu più nulla.Roma perì eziandio per l'istesso motivo, e l'eccessivo po-tere dei tribuni a poco a poco usurpato, servì in fine, lamercè di leggi fatte per la libertà, di salvaguardiaagl'imperatori che la distrussero.

Il consiglio dei Dieci a Venezia è un tribunale di san-gue, ugualmente orribile ai patrizi ed al popolo, e che,lungi dal proteggere altamente le leggi, non giova più,dopo il loro avvilimento, se non a vibrar colpi nelle tene-bre, cui niuno osa indagare.

Il tribunato, come il governo, s'indebolisce per la mol-tiplicità de' suoi membri. Quando i tribuni del popolo ro-mano, dapprincipio in numero di due, poi di cinque, vol-lero raddoppiare questo numero, il senato li lasciò fare,

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certo com'era di frenare gli uni per mezzo degli altri, ilche non mancò di succedere.

Il miglior modo di prevenire le usurpazioni d'un corpocosì formidabile, modo non avvisato fin qui da nessungoverno, sarebbe di non rendere questo corpo permanen-te, ma di regolare gl'intervalli, nei quali rimarrebbe sop-presso. Questi intervalli, che non debbono durar tanto dalasciare il tempo agli abusi di rassodarsi, possono venirfissati dalla legge, in modo che riesca facile abbreviarliall'uopo per via di commissioni straordinarie.

Questo modo mi pare senza inconveniente, perchè,come già dissi, il tribunato, non facendo parte della costi-tuzione, può esser tolto senza che questa ne soffra; e mipare efficace, perchè un magistrato nuovamente ristabili-to non parte dal potere che aveva il suo antecessore, mada quello che gli dà la legge.

CAPITOLO VIDella dittatura.

L'inflessibilità delle leggi, che le impedisce di cedereagli eventi, può in certi casi renderle perniciose, e cagio-nare così la perdita dello Stato nella sua crisi. L'ordine ela lentezza delle forme richiedono uno spazio di tempo,talvolta dalle circostanze negato. Possono accadere millecasi, ai quali il legislatore non abbia provveduto, ed è unaprevidenza necessarissima il sentire che tutto non si puòprevedere.

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certo com'era di frenare gli uni per mezzo degli altri, ilche non mancò di succedere.

Il miglior modo di prevenire le usurpazioni d'un corpocosì formidabile, modo non avvisato fin qui da nessungoverno, sarebbe di non rendere questo corpo permanen-te, ma di regolare gl'intervalli, nei quali rimarrebbe sop-presso. Questi intervalli, che non debbono durar tanto dalasciare il tempo agli abusi di rassodarsi, possono venirfissati dalla legge, in modo che riesca facile abbreviarliall'uopo per via di commissioni straordinarie.

Questo modo mi pare senza inconveniente, perchè,come già dissi, il tribunato, non facendo parte della costi-tuzione, può esser tolto senza che questa ne soffra; e mipare efficace, perchè un magistrato nuovamente ristabili-to non parte dal potere che aveva il suo antecessore, mada quello che gli dà la legge.

CAPITOLO VIDella dittatura.

L'inflessibilità delle leggi, che le impedisce di cedereagli eventi, può in certi casi renderle perniciose, e cagio-nare così la perdita dello Stato nella sua crisi. L'ordine ela lentezza delle forme richiedono uno spazio di tempo,talvolta dalle circostanze negato. Possono accadere millecasi, ai quali il legislatore non abbia provveduto, ed è unaprevidenza necessarissima il sentire che tutto non si puòprevedere.

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Non bisogna dunque voler rassodare le politiche istitu-zioni fino al punto di togliersi il potere di sospendernel'effetto. La stessa Sparta lasciò dormire le sue leggi.

Ma i maggiori pericoli soltanto possono contrabbilan-ciare quello d'alterare l'ordine pubblico, e non si devemai fermare il sacro potere delle leggi, se non quando sitratti della salvezza della patria. In cotesti casi rari e ma-nifesti si provvede alla pubblica sicurezza mediante unatto particolare, che ne rimette l'incarico al più degno.Tale commissione può conferirsi in due modi, secondo laspecie del pericolo.

Se, per rimediarvi, basta accrescere l'attività del gover-no, lo si concentra in uno o due de' suoi membri; di talguisa non si altera l'autorità delle leggi, ma solamente laforma della loro amministrazione. Se poi il pericolo ètale, che l'apparecchio delle leggi sia solo d'ostacolo perguarentirsene, allora si nomina un capo supremo che im-ponga silenzio a tutte le leggi, e sospenda un istante lasovrana autorità. In simile caso, la volontà generale non èdubbia, ed è evidente essere prima intenzione del popoloche lo stato non perisca. In tal modo la sospensionedell'autorità legislativa non la abolisce; il magistrato chela fa tacere, non può farla parlare, la domina senza poter-la rappresentare. Ei può far tutto, fuorchè leggi.

Il primo modo adopravasi dal senato romano, quandoincaricava i consoli, per mezzo d'una formola consacrata,di provvedere alla salvezza della repubblica. Il secondosuccedeva quando uno dei due consoli nominava un dit-tatore50; uso del quale Alba aveva dato l'esempio a Roma.

50 Questa nomina facevasi di notte ed in segreto, come se si aves-

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Non bisogna dunque voler rassodare le politiche istitu-zioni fino al punto di togliersi il potere di sospendernel'effetto. La stessa Sparta lasciò dormire le sue leggi.

Ma i maggiori pericoli soltanto possono contrabbilan-ciare quello d'alterare l'ordine pubblico, e non si devemai fermare il sacro potere delle leggi, se non quando sitratti della salvezza della patria. In cotesti casi rari e ma-nifesti si provvede alla pubblica sicurezza mediante unatto particolare, che ne rimette l'incarico al più degno.Tale commissione può conferirsi in due modi, secondo laspecie del pericolo.

Se, per rimediarvi, basta accrescere l'attività del gover-no, lo si concentra in uno o due de' suoi membri; di talguisa non si altera l'autorità delle leggi, ma solamente laforma della loro amministrazione. Se poi il pericolo ètale, che l'apparecchio delle leggi sia solo d'ostacolo perguarentirsene, allora si nomina un capo supremo che im-ponga silenzio a tutte le leggi, e sospenda un istante lasovrana autorità. In simile caso, la volontà generale non èdubbia, ed è evidente essere prima intenzione del popoloche lo stato non perisca. In tal modo la sospensionedell'autorità legislativa non la abolisce; il magistrato chela fa tacere, non può farla parlare, la domina senza poter-la rappresentare. Ei può far tutto, fuorchè leggi.

Il primo modo adopravasi dal senato romano, quandoincaricava i consoli, per mezzo d'una formola consacrata,di provvedere alla salvezza della repubblica. Il secondosuccedeva quando uno dei due consoli nominava un dit-tatore50; uso del quale Alba aveva dato l'esempio a Roma.

50 Questa nomina facevasi di notte ed in segreto, come se si aves-

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Nei primordi della repubblica si ricorse soventi voltealla dittatura, perchè lo stato non era ben saldo ancora dapotersi sostenere colla sola forza di sua costituzione. Al-lora i costumi rendendo superflue molte precauzioni chein altri tempi sarebbero state necessarie, non si temeva nèche un dittatore abusasse della sua autorità, nè che tentas-se di serbarla oltre il termine prefisso. Al contrario, sem-brava che un potere sì grande fosse di peso a chi n'era ri-vestito, tanto affrettavasi a deporlo, come se fosse statoun posto troppo difficile e pericoloso quello di stare invece delle leggi.

Per la qual cosa non è il pericolo dell'abuso che mispinga a biasimare l'uso indiscreto di quella suprema ma-gistratura nei primi tempi, ma il pericolo d'avvilirlo; im-perciocchè mentre la si prodigava ad elezioni, a dedica-zioni, a cose di pura formalità, era da temersi che non di-ventasse men formidabile in caso di bisogno, e che non siavvezzassero a considerare qual titolo vano quello chenon si adoprava se non per vane cerimonie.

Verso la fine della repubblica, i Romani, fattisi più cir-cospetti, furono altrettanto ritrosi nel conferire la dittatu-ra quanto n'erano stati prodighi in altri tempi. Era facilevedere che il loro timore era mal fondato; che la debolez-za della capitale formava allora la sua sicurezza contro imagistrati ch'essa avevasi in seno; che un dittatore pote-va, in certi casi, difendere la libertà pubblica, senza po-tervi giammai attentare; e che i ceppi di Roma non sareb-bero fabbricati in Roma stessa, ma in mezzo a suoi eser-citi. La poca resistenza fatta da Mario a Silla, e da Pom-

se avuto vergogna di porre un uomo al di sopra delle leggi.

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Nei primordi della repubblica si ricorse soventi voltealla dittatura, perchè lo stato non era ben saldo ancora dapotersi sostenere colla sola forza di sua costituzione. Al-lora i costumi rendendo superflue molte precauzioni chein altri tempi sarebbero state necessarie, non si temeva nèche un dittatore abusasse della sua autorità, nè che tentas-se di serbarla oltre il termine prefisso. Al contrario, sem-brava che un potere sì grande fosse di peso a chi n'era ri-vestito, tanto affrettavasi a deporlo, come se fosse statoun posto troppo difficile e pericoloso quello di stare invece delle leggi.

Per la qual cosa non è il pericolo dell'abuso che mispinga a biasimare l'uso indiscreto di quella suprema ma-gistratura nei primi tempi, ma il pericolo d'avvilirlo; im-perciocchè mentre la si prodigava ad elezioni, a dedica-zioni, a cose di pura formalità, era da temersi che non di-ventasse men formidabile in caso di bisogno, e che non siavvezzassero a considerare qual titolo vano quello chenon si adoprava se non per vane cerimonie.

Verso la fine della repubblica, i Romani, fattisi più cir-cospetti, furono altrettanto ritrosi nel conferire la dittatu-ra quanto n'erano stati prodighi in altri tempi. Era facilevedere che il loro timore era mal fondato; che la debolez-za della capitale formava allora la sua sicurezza contro imagistrati ch'essa avevasi in seno; che un dittatore pote-va, in certi casi, difendere la libertà pubblica, senza po-tervi giammai attentare; e che i ceppi di Roma non sareb-bero fabbricati in Roma stessa, ma in mezzo a suoi eser-citi. La poca resistenza fatta da Mario a Silla, e da Pom-

se avuto vergogna di porre un uomo al di sopra delle leggi.

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peo a Cesare, chiaro dimostrò che cosa aspettar si potessedall'autorità interna contro la forza esteriore.

Quest'errore fe' lor commettere gravi falli, come fu,per esempio, quello di non avere nominato un dittatorenell'affare di Catilina; imperocchè, non trattandosi se nondell'interno della città, e tutt'al più di qualche provinciad'Italia, con l'illimitata autorità che davano le leggi al dit-tatore, avrebbe facilmente dissipata la congiura, la qualenon fu spenta se non per l'intervento di casi avventurosi,che non mai l'umana prudenza doveva aspettare.

Invece il senato si appagò di affidare tutto il suo potereai consoli, per la qual cosa avvenne che Cicerone,ond'agire efficacemente, fu costretto di oltrepassare quelpotere in un punto capitale, e che, se nei primi trasporti digioia venne approvata la sua condotta, con giustizia poigli venne chiesto conto del sangue dei cittadini versatocontro le leggi, rimprovero che non si sarebbe potuto faread un dittatore. Ma l'eloquenza del console tutto vinse; edegli stesso, quantunque Romano, più amante della pro-pria gloria che della patria, non cercava tanto il modo piùlegittimo e sicuro di salvare lo Stato, quanto quello diavere tutto l'onore di quella bisogna51. Perciò venne ono-rato giustamente quale liberatore di Roma, e giustamentepunito come infrattore delle leggi. Per quanto sia statobrillante il suo richiamo, certo è che fu una grazia.

Del resto, in qualsiasi modo una sì importante com-missione sia conferita, importa fissarne la durata ad un

51 Ciò non poteva egli ripromettersi proponendo un dittatore, nonosando nominare sè stesso, e non potendo esser certo che il suocollega lo nominasse.

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peo a Cesare, chiaro dimostrò che cosa aspettar si potessedall'autorità interna contro la forza esteriore.

Quest'errore fe' lor commettere gravi falli, come fu,per esempio, quello di non avere nominato un dittatorenell'affare di Catilina; imperocchè, non trattandosi se nondell'interno della città, e tutt'al più di qualche provinciad'Italia, con l'illimitata autorità che davano le leggi al dit-tatore, avrebbe facilmente dissipata la congiura, la qualenon fu spenta se non per l'intervento di casi avventurosi,che non mai l'umana prudenza doveva aspettare.

Invece il senato si appagò di affidare tutto il suo potereai consoli, per la qual cosa avvenne che Cicerone,ond'agire efficacemente, fu costretto di oltrepassare quelpotere in un punto capitale, e che, se nei primi trasporti digioia venne approvata la sua condotta, con giustizia poigli venne chiesto conto del sangue dei cittadini versatocontro le leggi, rimprovero che non si sarebbe potuto faread un dittatore. Ma l'eloquenza del console tutto vinse; edegli stesso, quantunque Romano, più amante della pro-pria gloria che della patria, non cercava tanto il modo piùlegittimo e sicuro di salvare lo Stato, quanto quello diavere tutto l'onore di quella bisogna51. Perciò venne ono-rato giustamente quale liberatore di Roma, e giustamentepunito come infrattore delle leggi. Per quanto sia statobrillante il suo richiamo, certo è che fu una grazia.

Del resto, in qualsiasi modo una sì importante com-missione sia conferita, importa fissarne la durata ad un

51 Ciò non poteva egli ripromettersi proponendo un dittatore, nonosando nominare sè stesso, e non potendo esser certo che il suocollega lo nominasse.

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termine brevissimo, il quale non mai possa protrarsi. Nel-le crisi che le danno origine, lo Stato è in breve tempo di-strutto o salvato; e, passato il bisogno urgente, la dittaturadiventa tirannica od inutile. I dittatori a Roma, non du-rando più di sei mesi, la massima parte abdicarono primadi quel termine. Se il termine fosse stato più luogo, forsesi sarebbero lasciati tentare di protrarlo ancora, come fe-cero i decemviri di quello d'un anno. Il dittatore avevaappena il tempo di provvedere al bisogno che l'aveva fat-to eleggere, e non di pensare ad altri progetti.

CAPITOLO VIIDella censura.

Del par che la dichiarazione della volontà generale sifa per mezzo della legge, così la dichiarazione del pub-blico giudizio si fa colla censura. L'opinione pubblica èla specie di legge, di cui il censore è il ministro, e la qua-le ei non fa che applicare ai casi particolari, ad esempiodel principe.

Ben lungi adunque dell'essere l'arbitro della opinionedel popolo, il tribunale censurale non ne è se non il di-chiaratore, e non appena se ne allontana le sue denunziesono irrite e nulle.

È inutile distinguere i costumi di una nazione dagli og-getti di sua stima; perchè tutto ciò si attiene al medesimoprincipio, e necessariamente si confonde. Presso tutti ipopoli del mondo, non è la natura, ma l'opinione che de-

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termine brevissimo, il quale non mai possa protrarsi. Nel-le crisi che le danno origine, lo Stato è in breve tempo di-strutto o salvato; e, passato il bisogno urgente, la dittaturadiventa tirannica od inutile. I dittatori a Roma, non du-rando più di sei mesi, la massima parte abdicarono primadi quel termine. Se il termine fosse stato più luogo, forsesi sarebbero lasciati tentare di protrarlo ancora, come fe-cero i decemviri di quello d'un anno. Il dittatore avevaappena il tempo di provvedere al bisogno che l'aveva fat-to eleggere, e non di pensare ad altri progetti.

CAPITOLO VIIDella censura.

Del par che la dichiarazione della volontà generale sifa per mezzo della legge, così la dichiarazione del pub-blico giudizio si fa colla censura. L'opinione pubblica èla specie di legge, di cui il censore è il ministro, e la qua-le ei non fa che applicare ai casi particolari, ad esempiodel principe.

Ben lungi adunque dell'essere l'arbitro della opinionedel popolo, il tribunale censurale non ne è se non il di-chiaratore, e non appena se ne allontana le sue denunziesono irrite e nulle.

È inutile distinguere i costumi di una nazione dagli og-getti di sua stima; perchè tutto ciò si attiene al medesimoprincipio, e necessariamente si confonde. Presso tutti ipopoli del mondo, non è la natura, ma l'opinione che de-

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cide della scelta dei loro piaceri. Raddrizzate le opinionidegli uomini, ed i loro costumi si appureranno di per sè.Si ama sempre ciò ch'è bello, o tale si crede; ma intorno aquesto giudizio si prende abbaglio: si tratta dunque didare una norma a questo giudizio. Chi giudica dei costu-mi, giudica dell'onore, e chi giudica dell'onore, piglia lasua legge dall'opinione.

Le opinioni di un popolo nascono dalla sua costituzio-ne. Quantunque la legge non regoli i costumi, la legisla-zione li fa nascere: quando la legislazione s'indebolisce, icostumi degenerano; ma allora il giudizio dei censori nonfarà quello che non ottenne la forza delle leggi.

Ne viene quindi che la censura può esser utile per con-servare i costumi, non mai per rassettarli. Stabilite censo-ri durante il vigore delle leggi: non appena lo avrannoperduto, tutto è disperato; niuna cosa legittima non avràpiù forza, quando non ne han più le leggi.

La censura mantiene i costumi coll'impedire alle opi-nioni di corrompersi serbandone l'equità per mezzo di sa-vie applicazioni, e talvolta pur fissandole quando pendo-no tuttora incerte. L'usanza dei padrini nei duelli, spintafino al furore nel regno di Francia, vi fu abolita da quellesole parole d'un editto del re: Quanto a quelli che fannola viltà di chiamare padrini. Quel giudizio prevenendo ilgiudizio del pubblico, lo determinò d'improvviso. Maquando i medesimi editti vollero pronunciare esser pureuna vigliaccheria il battersi in duello, il che è verissimo,ma contrario all'opinione comune, il pubblico rise di taledecisione, intorno alla quale aveva già formato il suo giu-dizio.

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cide della scelta dei loro piaceri. Raddrizzate le opinionidegli uomini, ed i loro costumi si appureranno di per sè.Si ama sempre ciò ch'è bello, o tale si crede; ma intorno aquesto giudizio si prende abbaglio: si tratta dunque didare una norma a questo giudizio. Chi giudica dei costu-mi, giudica dell'onore, e chi giudica dell'onore, piglia lasua legge dall'opinione.

Le opinioni di un popolo nascono dalla sua costituzio-ne. Quantunque la legge non regoli i costumi, la legisla-zione li fa nascere: quando la legislazione s'indebolisce, icostumi degenerano; ma allora il giudizio dei censori nonfarà quello che non ottenne la forza delle leggi.

Ne viene quindi che la censura può esser utile per con-servare i costumi, non mai per rassettarli. Stabilite censo-ri durante il vigore delle leggi: non appena lo avrannoperduto, tutto è disperato; niuna cosa legittima non avràpiù forza, quando non ne han più le leggi.

La censura mantiene i costumi coll'impedire alle opi-nioni di corrompersi serbandone l'equità per mezzo di sa-vie applicazioni, e talvolta pur fissandole quando pendo-no tuttora incerte. L'usanza dei padrini nei duelli, spintafino al furore nel regno di Francia, vi fu abolita da quellesole parole d'un editto del re: Quanto a quelli che fannola viltà di chiamare padrini. Quel giudizio prevenendo ilgiudizio del pubblico, lo determinò d'improvviso. Maquando i medesimi editti vollero pronunciare esser pureuna vigliaccheria il battersi in duello, il che è verissimo,ma contrario all'opinione comune, il pubblico rise di taledecisione, intorno alla quale aveva già formato il suo giu-dizio.

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Dissi altrove52, che l'opinione pubblica non essendosottomessa alla violenza, non ve ne doveva essere neppurl'ombra nel tribunale stabilito per rappresentarla. Non sipuò ammirare abbastanza l'arte, con cui questa molla,perduta presso i moderni, era posta in azione presso i Ro-mani, e meglio ancora presso i Laconi.

Un uomo di pessimi costumi avendo proposto un buonparere nel consiglio di Sparta, gli efori, senza tenerneconto, fecero proporre il medesimo avviso da un cittadi-no virtuoso. Quale onore per l'uno, qual vergogna perl'altro, senza aver dato nè lode, nè biasimo a niuno deidue! Certi ubbriaconi di Samo53 insudiciarono il tribunaledegli efori: all'indomani, con pubblico editto, fu permes-so a quei di Samo d'essere villani. Un vero castigo sareb-be stato men severo di simile impunità. Quando Spartaha pronunciato intorno a ciò che è o meno onesto, la Gre-cia non si appella de' suoi giudizi.

CAPITOLO VIIIDella religione civile.

Gli uomini in principio non ebbero altri re fuorchè glidei, nè altro governo fuor del teocratico. Eglino fecero ilragionamento di Caligola, ed allora ragionavan giusto. Ci

52 In questo capitolo non indico altro se non ciò che trattai più alungo nella Lettera a D'Alembert.

53 Erano d'un'altra isola, che la delicatezza di nostra lingua nonpermette qui nominare.

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Dissi altrove52, che l'opinione pubblica non essendosottomessa alla violenza, non ve ne doveva essere neppurl'ombra nel tribunale stabilito per rappresentarla. Non sipuò ammirare abbastanza l'arte, con cui questa molla,perduta presso i moderni, era posta in azione presso i Ro-mani, e meglio ancora presso i Laconi.

Un uomo di pessimi costumi avendo proposto un buonparere nel consiglio di Sparta, gli efori, senza tenerneconto, fecero proporre il medesimo avviso da un cittadi-no virtuoso. Quale onore per l'uno, qual vergogna perl'altro, senza aver dato nè lode, nè biasimo a niuno deidue! Certi ubbriaconi di Samo53 insudiciarono il tribunaledegli efori: all'indomani, con pubblico editto, fu permes-so a quei di Samo d'essere villani. Un vero castigo sareb-be stato men severo di simile impunità. Quando Spartaha pronunciato intorno a ciò che è o meno onesto, la Gre-cia non si appella de' suoi giudizi.

CAPITOLO VIIIDella religione civile.

Gli uomini in principio non ebbero altri re fuorchè glidei, nè altro governo fuor del teocratico. Eglino fecero ilragionamento di Caligola, ed allora ragionavan giusto. Ci

52 In questo capitolo non indico altro se non ciò che trattai più alungo nella Lettera a D'Alembert.

53 Erano d'un'altra isola, che la delicatezza di nostra lingua nonpermette qui nominare.

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vuole una lunga alterazione di sentimenti e d'idee ondepotersi risolvere a pigliare il suo simile per padrone, e lu-singarsi di trovarsene contenti.

Solo perchè ponevasi Iddio alla testa di ogni societàpolitica, ne venne che vi furono altrettanti dei quanti i po-poli. Due popoli estranei l'uno all'altro, e quasi semprenemici, non poterono lunga pezza riconoscere un medesi-mo padrone: due eserciti che stian per venire alle maninon potrebbero ubbidire al medesimo capo. Così dalle di-visioni nazionali nacque il politeismo, e quindi l'intolle-ranza teologica e civile, che naturalmente è la medesima,come si dirà in appresso.

La fantasia, ch'ebbero i Greci di rinvenire i loro iddiipresso i popoli barbari, nacque pur da quella che aveanodi considerarsi come i sovrani naturali di quei popoli. Maè ben ridicola a' nostri tempi un'erudizione la quale versiintorno all'identità degli dei di diverse nazioni: come seMoloch, Saturno e Crono potessero essere il medesimodio! Come se il Baal dei Fenici, il Zeus dei greci ed il Ju-piter dei Latini potessero essere una medesima cosa!Come se potesse rimanere qualcosa di comune ad entichimerici che hanno nomi diversi!

Che se mi si chiede perchè nel paganesimo, in cui ognistato aveva il suo culto ed i suoi dii, non vi fossero guerrereligiose, io rispondo che, appunto perchè ogni stato ave-va il suo culto proprio come il proprio governo, non di-stingueva i suoi iddii dalle sue leggi.

La guerra politica era pur teologica; i dipartimenti de-gli dei erano, per così dire, fissati dai confini delle nazio-ni. Il dio d'un popolo non aveva nessun diritto sugli altri

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vuole una lunga alterazione di sentimenti e d'idee ondepotersi risolvere a pigliare il suo simile per padrone, e lu-singarsi di trovarsene contenti.

Solo perchè ponevasi Iddio alla testa di ogni societàpolitica, ne venne che vi furono altrettanti dei quanti i po-poli. Due popoli estranei l'uno all'altro, e quasi semprenemici, non poterono lunga pezza riconoscere un medesi-mo padrone: due eserciti che stian per venire alle maninon potrebbero ubbidire al medesimo capo. Così dalle di-visioni nazionali nacque il politeismo, e quindi l'intolle-ranza teologica e civile, che naturalmente è la medesima,come si dirà in appresso.

La fantasia, ch'ebbero i Greci di rinvenire i loro iddiipresso i popoli barbari, nacque pur da quella che aveanodi considerarsi come i sovrani naturali di quei popoli. Maè ben ridicola a' nostri tempi un'erudizione la quale versiintorno all'identità degli dei di diverse nazioni: come seMoloch, Saturno e Crono potessero essere il medesimodio! Come se il Baal dei Fenici, il Zeus dei greci ed il Ju-piter dei Latini potessero essere una medesima cosa!Come se potesse rimanere qualcosa di comune ad entichimerici che hanno nomi diversi!

Che se mi si chiede perchè nel paganesimo, in cui ognistato aveva il suo culto ed i suoi dii, non vi fossero guerrereligiose, io rispondo che, appunto perchè ogni stato ave-va il suo culto proprio come il proprio governo, non di-stingueva i suoi iddii dalle sue leggi.

La guerra politica era pur teologica; i dipartimenti de-gli dei erano, per così dire, fissati dai confini delle nazio-ni. Il dio d'un popolo non aveva nessun diritto sugli altri

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popoli. I dii dei pagani non erano dii gelosi, ma si divide-vano l'imperio del mondo: Mosè stesso ed il popoloebreo propendevano talvolta a codesta idea parlando delDio d'Israello. È vero che tenevano per nulli gl'iddii de'Cananei, popoli proscritti, sacri alla distruzione, e de'quali dovevano essi occupare il posto; ma osservate,come parlavano delle divinità de' popoli vicini, che avea-no divieto di assalire: «Il possesso di ciò che spetta aChamos vostro Dio, diceva Jefte agli Ammoniti, non vi èlegittimamente dovuto? Noi possediamo col medesimotitolo le terre che acquistò il nostro Dio vincitore54.» Par-mi che questa sia una parità ben riconosciuta tra i dirittidi Chamos e quelli del Dio d'Israele.

Ma quando gii Ebrei, sottoposti ai re di Babilonia, eposcia ai re della Siria, vollero ostinarsi a non riconosce-re altro Dio fuor del loro, quel rifiuto, considerato comeuna rivolta contro il vincitore, attirò ad essi persecuzioniche si leggono nella storia, e di cui non si vede altroesempio prima del cristianesimo55.

Ciascuna religione essendo adunque unicamente adat-tata alle leggi dello stato che la prescriveva, non eravi al-

54 Nonne ea quae possides Chamos, Deus tuus, tibi jure deben-tur? Tale è il testo della Volgata. Il padre Carrières ha tradotto:“Non credete voi avere diritto di possedere ciò che spetta aChamos vostro Dio?” Io ignoro la forza del testo ebraico; mavedo che, nella Volgata, Jefte riconosce positivamente il dirittodel Dio Chamos, e che il traduttore francese indebolisce questoriconoscimento con un secondo voi che non trovasi nel latino.

55 È cosa evidentissima che la guerra dei Focesi, detta guerrasanta, non era una guerra di religione. Avea per iscopo di puni-re de' sacrileghi, e non di sottomettere de' miscredenti.

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popoli. I dii dei pagani non erano dii gelosi, ma si divide-vano l'imperio del mondo: Mosè stesso ed il popoloebreo propendevano talvolta a codesta idea parlando delDio d'Israello. È vero che tenevano per nulli gl'iddii de'Cananei, popoli proscritti, sacri alla distruzione, e de'quali dovevano essi occupare il posto; ma osservate,come parlavano delle divinità de' popoli vicini, che avea-no divieto di assalire: «Il possesso di ciò che spetta aChamos vostro Dio, diceva Jefte agli Ammoniti, non vi èlegittimamente dovuto? Noi possediamo col medesimotitolo le terre che acquistò il nostro Dio vincitore54.» Par-mi che questa sia una parità ben riconosciuta tra i dirittidi Chamos e quelli del Dio d'Israele.

Ma quando gii Ebrei, sottoposti ai re di Babilonia, eposcia ai re della Siria, vollero ostinarsi a non riconosce-re altro Dio fuor del loro, quel rifiuto, considerato comeuna rivolta contro il vincitore, attirò ad essi persecuzioniche si leggono nella storia, e di cui non si vede altroesempio prima del cristianesimo55.

Ciascuna religione essendo adunque unicamente adat-tata alle leggi dello stato che la prescriveva, non eravi al-

54 Nonne ea quae possides Chamos, Deus tuus, tibi jure deben-tur? Tale è il testo della Volgata. Il padre Carrières ha tradotto:“Non credete voi avere diritto di possedere ciò che spetta aChamos vostro Dio?” Io ignoro la forza del testo ebraico; mavedo che, nella Volgata, Jefte riconosce positivamente il dirittodel Dio Chamos, e che il traduttore francese indebolisce questoriconoscimento con un secondo voi che non trovasi nel latino.

55 È cosa evidentissima che la guerra dei Focesi, detta guerrasanta, non era una guerra di religione. Avea per iscopo di puni-re de' sacrileghi, e non di sottomettere de' miscredenti.

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tro modo di convertire un popolo fuorchè soggiogandolo,nè altri missionari fuor dei conquistatori; ed essendo leg-ge dei vinti l'obbligo di cambiar culto, bisognava comin-ciare a vincere prima di parlarne. Ben lungi adunque chegli uomini si battessero per gli dei, era, come in Omerogli dei che combattevano per gli uomini; ciascuno implo-rava dal suo la vittoria, e la pagava con novelle are. I Ro-mani, prima di prendere d'assalto una piazza, intimavanoa' suoi dii d'abbandonarla; e quando lasciavano ai Taren-tini i loro dei indignati, è perchè allora riguardavano que-gli dei come sottomessi ai propri, e costretti di far loroomaggio. Essi lasciavano ai vinti i loro dii, come lascia-vano loro le leggi. Il solo tributo che imponessero eraspesso una corona al Giove Capitolino.

Finalmente i Romani avendo esteso, in un coll'impe-rio, il culto ed i loro dii, ed avendo sovente adottato egli-no stessi quelli dei vinti, agli uni ed agli altri accordandoil diritto di cittadinanza, i popoli di sì vasto impero fini-rono col trovarsi insensibilmente un'infinità di dii e diculti, press'a poco i medesimi dappertutto: ed ecco inqual modo il paganesimo non fu in fine nel mondo cono-sciuto se non una sola e medesima religione.

In tali circostanze venne Gesù a fondare sulla terra unregno spirituale, che dividendo il sistema teologico dalsistema politico, fece sì che lo stato cessò d'essere uno, ecagionò le intestine discordie, le quali non cessarono maidi agitare i popoli cristiani. Ora, questa idea nuova di unregno dell'altro mondo non avendo mai potuto penetrarein testa ai pagani, questi risguardarono sempre i cristianicome veri ribelli, che sotto una sommissione ipocrita,

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tro modo di convertire un popolo fuorchè soggiogandolo,nè altri missionari fuor dei conquistatori; ed essendo leg-ge dei vinti l'obbligo di cambiar culto, bisognava comin-ciare a vincere prima di parlarne. Ben lungi adunque chegli uomini si battessero per gli dei, era, come in Omerogli dei che combattevano per gli uomini; ciascuno implo-rava dal suo la vittoria, e la pagava con novelle are. I Ro-mani, prima di prendere d'assalto una piazza, intimavanoa' suoi dii d'abbandonarla; e quando lasciavano ai Taren-tini i loro dei indignati, è perchè allora riguardavano que-gli dei come sottomessi ai propri, e costretti di far loroomaggio. Essi lasciavano ai vinti i loro dii, come lascia-vano loro le leggi. Il solo tributo che imponessero eraspesso una corona al Giove Capitolino.

Finalmente i Romani avendo esteso, in un coll'impe-rio, il culto ed i loro dii, ed avendo sovente adottato egli-no stessi quelli dei vinti, agli uni ed agli altri accordandoil diritto di cittadinanza, i popoli di sì vasto impero fini-rono col trovarsi insensibilmente un'infinità di dii e diculti, press'a poco i medesimi dappertutto: ed ecco inqual modo il paganesimo non fu in fine nel mondo cono-sciuto se non una sola e medesima religione.

In tali circostanze venne Gesù a fondare sulla terra unregno spirituale, che dividendo il sistema teologico dalsistema politico, fece sì che lo stato cessò d'essere uno, ecagionò le intestine discordie, le quali non cessarono maidi agitare i popoli cristiani. Ora, questa idea nuova di unregno dell'altro mondo non avendo mai potuto penetrarein testa ai pagani, questi risguardarono sempre i cristianicome veri ribelli, che sotto una sommissione ipocrita,

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non aspettavano se non il momento di rendersi indipen-denti e padroni, e d'usurpare accortamente l'autorità cuifingevano di rispettare nella loro debolezza. Tale fu l'ori-gine delle persecuzioni.

Ciò che i pagani temevano arrivò. Allora tutto cambiòaspetto: gli umili cristiani mutarono linguaggio, e guarinon andò che fu visto quel preteso regno dell'altro mondodiventare, sotto un capo visibile, il più violento dispoti-smo in questo.

Frattanto, siccome vi furono sempre un principe e leg-gi civili, da quel doppio potere sorse un perpetuo conflit-to di giurisdizione, che rese impossibile ogni buona poli-tica negli stati cristiani; e non si potè mai venir a capo disapere a quale dei due si fosse obbligati d'ubbidire, se alpadrone od al prete.

Parecchi popoli tuttavia, anche in Europa o poco lonta-no, vollero conservare o ristabilire l'antico sistema, masenza successo; lo spirito del cristianesimo invase tutto.Il culto sacro è sempre rimasto o tornato indipendente dalsovrano, e senza vincolo necessario col corpo dello stato.Maometto ebbe viste giustissime, legò bene il suo siste-ma politico; e fintantochè la forma del suo governo duròsotto i califfi suoi successori, quel governo fu esattamen-te uno e buono in ciò. Ma gli Arabi, divenuti fiorenti, let-terati, civili, molli e codardi, furono soggiogati dai barba-ri; allora cominciò di nuovo la divisione tra i due poteri.Quantunque essa sia meno apparente presso i Maometta-ni che presso i Cristiani, ei è nonpertanto, massime nellasetta d'Alì; e vi sono stati, come la Persia, in cui non ces-sa di farsi sentire.

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non aspettavano se non il momento di rendersi indipen-denti e padroni, e d'usurpare accortamente l'autorità cuifingevano di rispettare nella loro debolezza. Tale fu l'ori-gine delle persecuzioni.

Ciò che i pagani temevano arrivò. Allora tutto cambiòaspetto: gli umili cristiani mutarono linguaggio, e guarinon andò che fu visto quel preteso regno dell'altro mondodiventare, sotto un capo visibile, il più violento dispoti-smo in questo.

Frattanto, siccome vi furono sempre un principe e leg-gi civili, da quel doppio potere sorse un perpetuo conflit-to di giurisdizione, che rese impossibile ogni buona poli-tica negli stati cristiani; e non si potè mai venir a capo disapere a quale dei due si fosse obbligati d'ubbidire, se alpadrone od al prete.

Parecchi popoli tuttavia, anche in Europa o poco lonta-no, vollero conservare o ristabilire l'antico sistema, masenza successo; lo spirito del cristianesimo invase tutto.Il culto sacro è sempre rimasto o tornato indipendente dalsovrano, e senza vincolo necessario col corpo dello stato.Maometto ebbe viste giustissime, legò bene il suo siste-ma politico; e fintantochè la forma del suo governo duròsotto i califfi suoi successori, quel governo fu esattamen-te uno e buono in ciò. Ma gli Arabi, divenuti fiorenti, let-terati, civili, molli e codardi, furono soggiogati dai barba-ri; allora cominciò di nuovo la divisione tra i due poteri.Quantunque essa sia meno apparente presso i Maometta-ni che presso i Cristiani, ei è nonpertanto, massime nellasetta d'Alì; e vi sono stati, come la Persia, in cui non ces-sa di farsi sentire.

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In Europa, i re d'Inghilterra si fecero capi della Chiesa,e gli czar altrettanto; ma con questo titolo se ne reseropiuttosto i ministri che i padroni, acquistarono piuttosto ilpotere di mantenerla, che il diritto di mutarla: essi non visono legislatori, ma solo principi. In qualsiasi parte il cle-ro formi un corpo56, esso è padrone e legislatore nella suapatria. In Inghilterra e in Russia come altrove vi sonodunque due poteri, due sovrani.

Di tutti gli autori cristiani, il filosofo Hobbes è l'unicoche abbia veduto per bene il male ed il rimedio, che ab-bia osato proporre di riunire le due teste dell'aquila, e diricondur tutto all'unità politica, senza la quale nè stato nègoverno non sarà mai bene costituito. Ma egli dovette ve-dere che lo spirito dominatore del cristianesimo era in-compatibile col suo sistema, e che l'interesse del prete sa-rebbe sempre più forte di quello dello stato. Non è tantociò che v'ha d'orribile e di falso nella sua politica, chequanto vi ha di giusto e di vero, che la rese odiosa57.

Ma io credo che, svolgendo sotto questo punto di vista

56 Si noti bene che il clero è unito in un corpo non tanto per via diassemblee formali, come quelle di Francia, quanto per via dellacomunione delle chiese. La comunione e la scomunica sono ilpatto sociale del clero, patto col quale sarà sempre il padronedei popoli e dei re. Tutti i preti che comunicano insieme sonoconcittadini, fossero pure a' due capi del mondo. Questo ritro-vato è un capolavoro di politica. Tra i preti pagani non v'eranulla di simile, epperò non formarono mai un corpo di clero.

57 Vedete, in una lettera di Grozio a suo fratello, dell'11 aprile1643, ciò che questo dotto approva e biasima nel libro de Cive.È vero che tratto all'indulgenza, sembra perdonare all'autore ilbene in favor del male: ma tutti non sono così clementi.

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In Europa, i re d'Inghilterra si fecero capi della Chiesa,e gli czar altrettanto; ma con questo titolo se ne reseropiuttosto i ministri che i padroni, acquistarono piuttosto ilpotere di mantenerla, che il diritto di mutarla: essi non visono legislatori, ma solo principi. In qualsiasi parte il cle-ro formi un corpo56, esso è padrone e legislatore nella suapatria. In Inghilterra e in Russia come altrove vi sonodunque due poteri, due sovrani.

Di tutti gli autori cristiani, il filosofo Hobbes è l'unicoche abbia veduto per bene il male ed il rimedio, che ab-bia osato proporre di riunire le due teste dell'aquila, e diricondur tutto all'unità politica, senza la quale nè stato nègoverno non sarà mai bene costituito. Ma egli dovette ve-dere che lo spirito dominatore del cristianesimo era in-compatibile col suo sistema, e che l'interesse del prete sa-rebbe sempre più forte di quello dello stato. Non è tantociò che v'ha d'orribile e di falso nella sua politica, chequanto vi ha di giusto e di vero, che la rese odiosa57.

Ma io credo che, svolgendo sotto questo punto di vista

56 Si noti bene che il clero è unito in un corpo non tanto per via diassemblee formali, come quelle di Francia, quanto per via dellacomunione delle chiese. La comunione e la scomunica sono ilpatto sociale del clero, patto col quale sarà sempre il padronedei popoli e dei re. Tutti i preti che comunicano insieme sonoconcittadini, fossero pure a' due capi del mondo. Questo ritro-vato è un capolavoro di politica. Tra i preti pagani non v'eranulla di simile, epperò non formarono mai un corpo di clero.

57 Vedete, in una lettera di Grozio a suo fratello, dell'11 aprile1643, ciò che questo dotto approva e biasima nel libro de Cive.È vero che tratto all'indulgenza, sembra perdonare all'autore ilbene in favor del male: ma tutti non sono così clementi.

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i fatti storici, si confuterebbero agevolmente gli oppostisentimenti di Bayle e di Warburton, uno dei quali preten-de che veruna religione sia utile al corpo politico, e l'altrosostiene al contrario che il cristianesimo ne sia il più vali-do appoggio. Si potrebbe provare al primo, che non maisi fondò uno stato, cui non abbia servito di base la reli-gione, ed al secondo, che la legge cristiana è in fondo piùnociva che utile alla forte costituzione dello stato. Per es-sere inteso meglio, non fa d'uopo se non di dare un po'più di precisione alle idee troppo vaghe di religione rela-tive al mio subbietto.

La religione considerata per rapporto alla società, cheè o generale o particolare, può pure dividersi in due spe-cie, cioè la religione dell'uomo e quella del cittadino, Laprima, senza templi, senza altari, senza riti, limitata alculto puramente interno del Dio supremo, ed agli eternidoveri della morale, è la pura e semplice religione delVangelo, il vero teismo, e ciò che puossi appellare il di-ritto divino naturale. L'altra, inscritta in un solo paese, glidà i suoi dii, i suoi patroni propri e tutelari; essa ha i suoidogmi, i suoi riti, il suo culto esteriore prescritto da leggi;fuor della sola nazione, che la osserva, tutto il resto è perlei infedele, straniero, barbaro; essa non estende i doverie i diritti dell'uomo se non fin dove giungeranno i suoi al-tari. Tali furono tutte le religioni dei primi popoli, allequali si può dare il nome di diritto divino, civile o positi-vo.

Evvi una terza specie di religione più bizzarra, che,dando agli uomini due legislazioni, due capi, due patrie,li sottopone a doveri contraddittorj, e li impedisce dal po-

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i fatti storici, si confuterebbero agevolmente gli oppostisentimenti di Bayle e di Warburton, uno dei quali preten-de che veruna religione sia utile al corpo politico, e l'altrosostiene al contrario che il cristianesimo ne sia il più vali-do appoggio. Si potrebbe provare al primo, che non maisi fondò uno stato, cui non abbia servito di base la reli-gione, ed al secondo, che la legge cristiana è in fondo piùnociva che utile alla forte costituzione dello stato. Per es-sere inteso meglio, non fa d'uopo se non di dare un po'più di precisione alle idee troppo vaghe di religione rela-tive al mio subbietto.

La religione considerata per rapporto alla società, cheè o generale o particolare, può pure dividersi in due spe-cie, cioè la religione dell'uomo e quella del cittadino, Laprima, senza templi, senza altari, senza riti, limitata alculto puramente interno del Dio supremo, ed agli eternidoveri della morale, è la pura e semplice religione delVangelo, il vero teismo, e ciò che puossi appellare il di-ritto divino naturale. L'altra, inscritta in un solo paese, glidà i suoi dii, i suoi patroni propri e tutelari; essa ha i suoidogmi, i suoi riti, il suo culto esteriore prescritto da leggi;fuor della sola nazione, che la osserva, tutto il resto è perlei infedele, straniero, barbaro; essa non estende i doverie i diritti dell'uomo se non fin dove giungeranno i suoi al-tari. Tali furono tutte le religioni dei primi popoli, allequali si può dare il nome di diritto divino, civile o positi-vo.

Evvi una terza specie di religione più bizzarra, che,dando agli uomini due legislazioni, due capi, due patrie,li sottopone a doveri contraddittorj, e li impedisce dal po-

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ter essere al tempo stesso divoti e cittadini. Tale è religio-ne dei Lama, tale quella dei Giapponesi, e tale è il cattoli-cismo romano. Questa si può chiamare la religione delprete. Ne risulta una specie di diritto misto ed insociabile,che non ha nome.

A considerare politicamente queste tre sorta di religio-ne, esse hanno tutte i loro difetti. La terza poi è così evi-dentemente cattiva, che sarebbe un perdere il tempo a vo-lerlo dimostrare. Tutto ciò che rompe l'unità sociale nonval nulla: tutte le instituzioni che mettono l'uomo in con-traddizione con sè stesso, non valgono nulla.

La seconda è buona perchè riunisce il culto divino el'amore delle leggi, e facendo della patria l'oggettodell'adorazione dei cittadini, insegna ad essi che, serven-do allo stato, servono al Dio tutelare. È una specie di teo-crazia, in cui non si deve avere altro pontefice che il prin-cipe, nè altri sacerdoti fuorchè i magistrati. Allora morirepel suo paese è correre al martirio; violare le leggi, è es-sere un empio; e sottomettere un reo alla pubblica esecra-zione, è consacrarlo alla collera degli iddii: sacer esto.

Ma è poi cattiva da un altro lato, perchè, essendo fon-data sull'errore e sulla menzogna, essa inganna gli uomi-ni, li rende creduli, superstiziosi, ed annega il vero cultodella divinità in un vano cerimoniale. Essa è pur cattivaquando, divenendo esclusiva e tirannica, rende un popolosanguinario ed intollerante, di guisa che non respira senon se strage e morte, e crede fare un'azione santa am-mazzando chiunque non confessi i suoi dei. Ciò pone untal popolo in uno stato naturale di guerra con tutti gli al-tri, nocevolissimo alla sua propria sicurezza.

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ter essere al tempo stesso divoti e cittadini. Tale è religio-ne dei Lama, tale quella dei Giapponesi, e tale è il cattoli-cismo romano. Questa si può chiamare la religione delprete. Ne risulta una specie di diritto misto ed insociabile,che non ha nome.

A considerare politicamente queste tre sorta di religio-ne, esse hanno tutte i loro difetti. La terza poi è così evi-dentemente cattiva, che sarebbe un perdere il tempo a vo-lerlo dimostrare. Tutto ciò che rompe l'unità sociale nonval nulla: tutte le instituzioni che mettono l'uomo in con-traddizione con sè stesso, non valgono nulla.

La seconda è buona perchè riunisce il culto divino el'amore delle leggi, e facendo della patria l'oggettodell'adorazione dei cittadini, insegna ad essi che, serven-do allo stato, servono al Dio tutelare. È una specie di teo-crazia, in cui non si deve avere altro pontefice che il prin-cipe, nè altri sacerdoti fuorchè i magistrati. Allora morirepel suo paese è correre al martirio; violare le leggi, è es-sere un empio; e sottomettere un reo alla pubblica esecra-zione, è consacrarlo alla collera degli iddii: sacer esto.

Ma è poi cattiva da un altro lato, perchè, essendo fon-data sull'errore e sulla menzogna, essa inganna gli uomi-ni, li rende creduli, superstiziosi, ed annega il vero cultodella divinità in un vano cerimoniale. Essa è pur cattivaquando, divenendo esclusiva e tirannica, rende un popolosanguinario ed intollerante, di guisa che non respira senon se strage e morte, e crede fare un'azione santa am-mazzando chiunque non confessi i suoi dei. Ciò pone untal popolo in uno stato naturale di guerra con tutti gli al-tri, nocevolissimo alla sua propria sicurezza.

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Rimane adunque la religione dell'uomo, ossia il cristia-nesimo, non già quello d'oggidì, ma quello del Vangelo,ch'è ben diverso. Per questa religione santa, sublime,vera, gli uomini, figli del medesimo Dio, si riconosconotutti fratelli, e la società che li unisce non si discioglienemmeno alla morte.

Ma simile religione non avendo nessuna relazione par-ticolare col corpo politico, lascia alle leggi la sola forza,che desumono da sè stesse senza aggiugnervene ve-run'altra, e così uno dei grandi legami della società parti-colare rimane senza effetto. Inoltre, lungi dall'affezionarei cuori dei cittadini allo stato, ne li distoglie invece comeda tutte le cose terrene. Io non conosco nulla di più con-trario allo spirito sociale.

Ci si dice che un popolo di veri cristiani formerebbe lapiù perfetta società che immaginare si possa. A questasupposizione io non trovo se non una grande difficoltà,ed è che una società di veri cristiani non sarebbe più unasocietà d'uomini.

Aggiungo inoltre che questa supposta società, con tuttala sua perfezione, non sarebbe nè la più forte, nè la piùdurevole; a forza d'essere perfetta, mancherebbe di con-nessione; nella sua stessa perfezione giacerebbe il suo vi-zio distruttore.

Ciascuno adempirebbe a' suoi doveri; i popoli sarebbe-ro sottomessi alle leggi, i capi sarebbero giusti e modera-ti, i magistrati integri ed incorruttibili, i soldati sprezze-rebbero la morte, non vi sarebbe nè vanità nè lusso; tuttociò va benissimo, ma guardiamo più lontano.

Il cristianesimo è una religione tutta spirituale, occupa-

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Rimane adunque la religione dell'uomo, ossia il cristia-nesimo, non già quello d'oggidì, ma quello del Vangelo,ch'è ben diverso. Per questa religione santa, sublime,vera, gli uomini, figli del medesimo Dio, si riconosconotutti fratelli, e la società che li unisce non si discioglienemmeno alla morte.

Ma simile religione non avendo nessuna relazione par-ticolare col corpo politico, lascia alle leggi la sola forza,che desumono da sè stesse senza aggiugnervene ve-run'altra, e così uno dei grandi legami della società parti-colare rimane senza effetto. Inoltre, lungi dall'affezionarei cuori dei cittadini allo stato, ne li distoglie invece comeda tutte le cose terrene. Io non conosco nulla di più con-trario allo spirito sociale.

Ci si dice che un popolo di veri cristiani formerebbe lapiù perfetta società che immaginare si possa. A questasupposizione io non trovo se non una grande difficoltà,ed è che una società di veri cristiani non sarebbe più unasocietà d'uomini.

Aggiungo inoltre che questa supposta società, con tuttala sua perfezione, non sarebbe nè la più forte, nè la piùdurevole; a forza d'essere perfetta, mancherebbe di con-nessione; nella sua stessa perfezione giacerebbe il suo vi-zio distruttore.

Ciascuno adempirebbe a' suoi doveri; i popoli sarebbe-ro sottomessi alle leggi, i capi sarebbero giusti e modera-ti, i magistrati integri ed incorruttibili, i soldati sprezze-rebbero la morte, non vi sarebbe nè vanità nè lusso; tuttociò va benissimo, ma guardiamo più lontano.

Il cristianesimo è una religione tutta spirituale, occupa-

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ta unicamente delle cose celesti; la patria del cristianonon è di questo mondo. Fa il suo dovere, è vero, ma lo facon una profonda indifferenza pel buono o cattivo esitodelle sue cure. Purchè non abbia a rimproverarsi nulla,poco gli importa che tutto quaggiù vada bene o male. Selo stato è florido, appena appena ardisce egli di goderedella pubblica felicità, e teme di inorgoglirsi della gloriadel suo paese; se lo stato va in decadenza, benedice lamano di Dio che si aggrava sul suo popolo.

Per esser pacifica la società, e durare in armonia, biso-gnerebbe che tutti i cittadini, senza eccezione, fosseroegualmente buoni cristiani; ma se per isciagura si troviun solo ambizioso, un solo ipocrita, un Catilina, peresempio, un Cromvello, certo costui trionferà agevol-mente de' suoi pii compatrioti. La carità cristiana nonpermette di pensar male del prossimo. Non appena avràtrovato con qualche astuzia l'arte d'impor loro e d'impa-dronirsi di parte della pubblica autorità, eccolo costituitoin dignità; Dio vuole che lo si rispetti; in breve ecco unpotere cui Dio vuole si ubbidisca. Il depositario di un talepotere ne abusa? è il flagello con cui Dio punisce i suoifigli. Si avrebbe rimorso a cacciare l'usurpatore; bisogne-rebbe turbare la pubblica quiete, usare violenza, versarsangue; tutto ciò mal concorda colla dolcezza del cristia-no; e poi, che cosa importa d'essere liberi o schiavi inquesta valle di miserie? L'essenziale è d'andare in paradi-so, e la rassegnazione non è se non un mezzo di più a ciò.

Insorge qualche guerra straniera? i cittadini non rifiu-tano d'andare a combattere: niuno di essi pensa a fuggire,fanno il loro dovere, ma senza passione per la vittoria: e'

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ta unicamente delle cose celesti; la patria del cristianonon è di questo mondo. Fa il suo dovere, è vero, ma lo facon una profonda indifferenza pel buono o cattivo esitodelle sue cure. Purchè non abbia a rimproverarsi nulla,poco gli importa che tutto quaggiù vada bene o male. Selo stato è florido, appena appena ardisce egli di goderedella pubblica felicità, e teme di inorgoglirsi della gloriadel suo paese; se lo stato va in decadenza, benedice lamano di Dio che si aggrava sul suo popolo.

Per esser pacifica la società, e durare in armonia, biso-gnerebbe che tutti i cittadini, senza eccezione, fosseroegualmente buoni cristiani; ma se per isciagura si troviun solo ambizioso, un solo ipocrita, un Catilina, peresempio, un Cromvello, certo costui trionferà agevol-mente de' suoi pii compatrioti. La carità cristiana nonpermette di pensar male del prossimo. Non appena avràtrovato con qualche astuzia l'arte d'impor loro e d'impa-dronirsi di parte della pubblica autorità, eccolo costituitoin dignità; Dio vuole che lo si rispetti; in breve ecco unpotere cui Dio vuole si ubbidisca. Il depositario di un talepotere ne abusa? è il flagello con cui Dio punisce i suoifigli. Si avrebbe rimorso a cacciare l'usurpatore; bisogne-rebbe turbare la pubblica quiete, usare violenza, versarsangue; tutto ciò mal concorda colla dolcezza del cristia-no; e poi, che cosa importa d'essere liberi o schiavi inquesta valle di miserie? L'essenziale è d'andare in paradi-so, e la rassegnazione non è se non un mezzo di più a ciò.

Insorge qualche guerra straniera? i cittadini non rifiu-tano d'andare a combattere: niuno di essi pensa a fuggire,fanno il loro dovere, ma senza passione per la vittoria: e'

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sanno piuttosto morire che vincere. Che importa ch'egli-no siano vincitori o vinti? La Provvidenza non sa forsemeglio di essi ciò che loro abbisogni? Si immagini qualpartito può trarre un nemico fiero, impetuoso, appassio-nato, da siffatto stoicismo! Mettete in faccia ad essi queipopoli generosi, stimolati dall'ardente amore della gloriae della patria; supponete la vostra repubblica cristianaalle prese con Isparta o con Roma; i pii cristiani sarannobattuti, schiacciati, distrutti, prima d'avere avuto il tempodi riconoscersi, o non dovranno la loro salvezza se nonallo sprezzo in cui saranno tenuti da' nemici. Era pur bel-lo, a mio avviso, il giuramento dei soldati di Fabio: e'non giurarono di morire o vincere; giurarono di tornarvincitori, e mantennero il giuramento. I cristiani non neavrebbero mai fatto uno simile; avrebbero creduto di ten-tare Iddio.

Ma io m'inganno dicendo una repubblica cristiana; cia-scuna di queste due parole esclude l'altra. Il cristianesimonon predica se non servitù e dipendenza. Il suo spirito ètroppo favorevole alla tirannide perchè questa non ne ap-profitti sempre. I veri cristiani sono fatti per vivere schia-vi; lo sanno, e non se ne commuovono. Questa breve vitaha troppo poco pregio ai loro occhi.

Ci si dice che le truppe cristiane sono eccellenti, ed iolo nego: mostratemene di tali. Quanto a me, io non cono-sco truppe cristiane. Mi si citeranno le crociate. Senza di-scutere il valore dei crociati, io osserverò che, ben lungidall'essere cristiani, erano soldati del sacerdote, cittadinidella Chiesa; eglino si battevano pel suo paese spirituale,ch'ella aveva reso temporale non si sa come. Se ben lo si

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sanno piuttosto morire che vincere. Che importa ch'egli-no siano vincitori o vinti? La Provvidenza non sa forsemeglio di essi ciò che loro abbisogni? Si immagini qualpartito può trarre un nemico fiero, impetuoso, appassio-nato, da siffatto stoicismo! Mettete in faccia ad essi queipopoli generosi, stimolati dall'ardente amore della gloriae della patria; supponete la vostra repubblica cristianaalle prese con Isparta o con Roma; i pii cristiani sarannobattuti, schiacciati, distrutti, prima d'avere avuto il tempodi riconoscersi, o non dovranno la loro salvezza se nonallo sprezzo in cui saranno tenuti da' nemici. Era pur bel-lo, a mio avviso, il giuramento dei soldati di Fabio: e'non giurarono di morire o vincere; giurarono di tornarvincitori, e mantennero il giuramento. I cristiani non neavrebbero mai fatto uno simile; avrebbero creduto di ten-tare Iddio.

Ma io m'inganno dicendo una repubblica cristiana; cia-scuna di queste due parole esclude l'altra. Il cristianesimonon predica se non servitù e dipendenza. Il suo spirito ètroppo favorevole alla tirannide perchè questa non ne ap-profitti sempre. I veri cristiani sono fatti per vivere schia-vi; lo sanno, e non se ne commuovono. Questa breve vitaha troppo poco pregio ai loro occhi.

Ci si dice che le truppe cristiane sono eccellenti, ed iolo nego: mostratemene di tali. Quanto a me, io non cono-sco truppe cristiane. Mi si citeranno le crociate. Senza di-scutere il valore dei crociati, io osserverò che, ben lungidall'essere cristiani, erano soldati del sacerdote, cittadinidella Chiesa; eglino si battevano pel suo paese spirituale,ch'ella aveva reso temporale non si sa come. Se ben lo si

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consideri, ciò rientra sotto il paganesimo; siccome il Van-gelo non istabilì una religione nazionale, qualunque guer-ra santa è impossibile tra i cristiani.

Sotto gli imperatori pagani, i soldati cristiani eranoprodi: tutti gli autori cristiani lo asseriscono, ed io lo cre-do: era un'emulazione d'onore colle truppe pagane. Appe-na gl'imperatori si fecero cristiani, quest'emulazionescomparve, e quando la croce sottentrò all'aquila, ognivalore romano disparve.

Ma lasciamo a parte le considerazioni politiche, tornia-mo al diritto, e fissiamo i principj intorno a questo puntoimportante. Il diritto che dà il patto sociale al sovrano so-pra i sudditi, non oltrepassa, come dissi, i limiti della po-litica utilità58. I sudditi non debbono dunque render contoal sovrano delle loro opinioni, se non in quanto questeopinioni importino alla comunità. Ora importa bensì allostato che ciascun cittadino abbia una religione che glifaccia amare i suoi doveri; ma i dogmi di questa religionenon interessano nè lo stato, nè i suoi membri, se non inquanto questi dogmi ai riferiscano alla morale ed ai dove-ri, ai quali chi la professa è tenuto di soddisfare inversoaltrui. Ciascuno può avere tutt'al più quelle opinioni chegli talentino, senza che spetti al sovrano di averne cogni-

58 Nella repubblica, dice il marchese d'Argenson, ciascuno è per-fettamente libero in ciò che non porti nocumento agli altri.Ecco il limite invariabile, che non si poteva stabilire più esatta-mente. Io non ho potuto resistere al piacere di citare qualchevolta quel manoscritto, quantunque ignoto al pubblico, per ren-dere onore alla memoria di un uomo illustre e rispettabile, ilquale fin nel ministero aveva serbato il cuore d'un cittadino, eviste giuste e sane sul governo del suo paese.

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consideri, ciò rientra sotto il paganesimo; siccome il Van-gelo non istabilì una religione nazionale, qualunque guer-ra santa è impossibile tra i cristiani.

Sotto gli imperatori pagani, i soldati cristiani eranoprodi: tutti gli autori cristiani lo asseriscono, ed io lo cre-do: era un'emulazione d'onore colle truppe pagane. Appe-na gl'imperatori si fecero cristiani, quest'emulazionescomparve, e quando la croce sottentrò all'aquila, ognivalore romano disparve.

Ma lasciamo a parte le considerazioni politiche, tornia-mo al diritto, e fissiamo i principj intorno a questo puntoimportante. Il diritto che dà il patto sociale al sovrano so-pra i sudditi, non oltrepassa, come dissi, i limiti della po-litica utilità58. I sudditi non debbono dunque render contoal sovrano delle loro opinioni, se non in quanto questeopinioni importino alla comunità. Ora importa bensì allostato che ciascun cittadino abbia una religione che glifaccia amare i suoi doveri; ma i dogmi di questa religionenon interessano nè lo stato, nè i suoi membri, se non inquanto questi dogmi ai riferiscano alla morale ed ai dove-ri, ai quali chi la professa è tenuto di soddisfare inversoaltrui. Ciascuno può avere tutt'al più quelle opinioni chegli talentino, senza che spetti al sovrano di averne cogni-

58 Nella repubblica, dice il marchese d'Argenson, ciascuno è per-fettamente libero in ciò che non porti nocumento agli altri.Ecco il limite invariabile, che non si poteva stabilire più esatta-mente. Io non ho potuto resistere al piacere di citare qualchevolta quel manoscritto, quantunque ignoto al pubblico, per ren-dere onore alla memoria di un uomo illustre e rispettabile, ilquale fin nel ministero aveva serbato il cuore d'un cittadino, eviste giuste e sane sul governo del suo paese.

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zione: imperciocchè, siccome non ha competenzanell'altro mondo, qualunque possa essere la sorte dei sud-diti nella vita futura, poco glie ne deve calere, purchè sia-no buoni cittadini in questa.

Evvi adunque una professione di fede puramente civi-le, della quale spetta al sovrano il fissare gli articoli, nongià precisamente come dogmi di religione; ma come sen-timenti di sociabilità, senza cui è impossibile essere buoncittadino, nè suddito fedele59. Senza poter obbligare nes-suno a crederli, ei può bandire dallo stato chiunque non licrede; può bandirlo, non come empio, ma come insocie-vole, come incapace di amare sinceramente le leggi e lagiustizia, e d'immolare all'uopo la propria vita al dovere.Che se qualcuno, dopo avere pubblicamente riconosciutoquei medesimi dogmi; si conducesse in modo come senon li credesse, sia punito di morte, poichè avrebbe com-messo il massimo dei delitti, avrebbe mentito davanti alleleggi.

I dogmi della religione civile debbono essere semplici,in piccol numero, enunciati con precisione, senza spiega-zioni nè commenti. L'esistenza della divinità potente, in-telligente, benefica, antiveggente e provvida, la vita futu-ra, la felicità dei giusti, il castigo dei malvagi, la santitàdel Contratto Sociale e delle leggi: ecco i soli dogmi po-

59 Cesare, difendendo Catilina, tentava di stabilire il dogma dellamoralità dell'anima: Catone e Cicerone, per confutarlo, non di-lettaronsi a filosofare, ma si contentarono di dimostrare che Ce-sare parlava da cattivo cittadino, e propugnava una dottrinaperniciosa allo stato. Infatti, ecco di che cosa doveva giudicareil senato di Roma, e non di una quistione teologica.

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zione: imperciocchè, siccome non ha competenzanell'altro mondo, qualunque possa essere la sorte dei sud-diti nella vita futura, poco glie ne deve calere, purchè sia-no buoni cittadini in questa.

Evvi adunque una professione di fede puramente civi-le, della quale spetta al sovrano il fissare gli articoli, nongià precisamente come dogmi di religione; ma come sen-timenti di sociabilità, senza cui è impossibile essere buoncittadino, nè suddito fedele59. Senza poter obbligare nes-suno a crederli, ei può bandire dallo stato chiunque non licrede; può bandirlo, non come empio, ma come insocie-vole, come incapace di amare sinceramente le leggi e lagiustizia, e d'immolare all'uopo la propria vita al dovere.Che se qualcuno, dopo avere pubblicamente riconosciutoquei medesimi dogmi; si conducesse in modo come senon li credesse, sia punito di morte, poichè avrebbe com-messo il massimo dei delitti, avrebbe mentito davanti alleleggi.

I dogmi della religione civile debbono essere semplici,in piccol numero, enunciati con precisione, senza spiega-zioni nè commenti. L'esistenza della divinità potente, in-telligente, benefica, antiveggente e provvida, la vita futu-ra, la felicità dei giusti, il castigo dei malvagi, la santitàdel Contratto Sociale e delle leggi: ecco i soli dogmi po-

59 Cesare, difendendo Catilina, tentava di stabilire il dogma dellamoralità dell'anima: Catone e Cicerone, per confutarlo, non di-lettaronsi a filosofare, ma si contentarono di dimostrare che Ce-sare parlava da cattivo cittadino, e propugnava una dottrinaperniciosa allo stato. Infatti, ecco di che cosa doveva giudicareil senato di Roma, e non di una quistione teologica.

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sitivi. Quanto ai dogmi negativi, io li restringo ad unsolo: l'intolleranza; essa rientra nei culti che abbiamoesclusi.

Queglino che distinguono l'intolleranza civile e l'intol-leranza teologica, a mio parere s'ingannano. Queste dueintolleranze sono inseparabili. È impossibile vivere inpace con gente cui si crede dannata: amarli, sarebbe unodiare Iddio che li punisce: bisogna assolutamente chesian tratti alla nostre credenze, o vengano tormentati. Do-vunque l'intolleranza teologica è ammessa, è impossibileche non produca qualche effetto civile60; e non appena ne

60 Il matrimonio, per esempio, essendo un contratto civile, ha ef-fetti civili, senza i quali è impossibile che la società sussista.Supponiamo dunque che riesca ad un clero di attribuire a sesolo il diritto di sanzionare quest'atto, diritto che ei deve neces-sariamente usurpare in ogni religione intollerante: allora non èegli chiaro che facendo valere a proposito l'autorità della Chie-sa, renderà vana quella del principe, il quale non avrà più sud-diti fuorchè quelli che vorrà concedergli il clero? Padrone dimaritare o no le persone, secondo che avranno o non avranno latale o tal altra dottrina, secondo che ammetteranno o respinge-ranno il tale o tal altro formulario, secondo che gli saranno piùo meno devote, conducendosi prudentemente e tenendo duronon è chiaro ch'ei solo disporrà delle eredità, delle cariche, deicittadini, dello stato stesso, il quale non potrebbe sussistere,non essendo più composto se non di bastardi? Ma, dirassi, sifaranno appelli per abuso, si citerà in giudizio, si decreterà, sisosterrà il temporale. Oibò! Il clero, per poco che abbia nondirò coraggio, ma buon senso, lascerà fare e tirerà innanzi: la-scerà tranquillamente far appello, citare in giudizio, decretare,sostenere il temporale, e finirà a rimanere il padrone. Mi sem-bra che non sia un grande sacrifizio l'abbandonare una parte,quando si è certi di impadronirsi del tutto.

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sitivi. Quanto ai dogmi negativi, io li restringo ad unsolo: l'intolleranza; essa rientra nei culti che abbiamoesclusi.

Queglino che distinguono l'intolleranza civile e l'intol-leranza teologica, a mio parere s'ingannano. Queste dueintolleranze sono inseparabili. È impossibile vivere inpace con gente cui si crede dannata: amarli, sarebbe unodiare Iddio che li punisce: bisogna assolutamente chesian tratti alla nostre credenze, o vengano tormentati. Do-vunque l'intolleranza teologica è ammessa, è impossibileche non produca qualche effetto civile60; e non appena ne

60 Il matrimonio, per esempio, essendo un contratto civile, ha ef-fetti civili, senza i quali è impossibile che la società sussista.Supponiamo dunque che riesca ad un clero di attribuire a sesolo il diritto di sanzionare quest'atto, diritto che ei deve neces-sariamente usurpare in ogni religione intollerante: allora non èegli chiaro che facendo valere a proposito l'autorità della Chie-sa, renderà vana quella del principe, il quale non avrà più sud-diti fuorchè quelli che vorrà concedergli il clero? Padrone dimaritare o no le persone, secondo che avranno o non avranno latale o tal altra dottrina, secondo che ammetteranno o respinge-ranno il tale o tal altro formulario, secondo che gli saranno piùo meno devote, conducendosi prudentemente e tenendo duronon è chiaro ch'ei solo disporrà delle eredità, delle cariche, deicittadini, dello stato stesso, il quale non potrebbe sussistere,non essendo più composto se non di bastardi? Ma, dirassi, sifaranno appelli per abuso, si citerà in giudizio, si decreterà, sisosterrà il temporale. Oibò! Il clero, per poco che abbia nondirò coraggio, ma buon senso, lascerà fare e tirerà innanzi: la-scerà tranquillamente far appello, citare in giudizio, decretare,sostenere il temporale, e finirà a rimanere il padrone. Mi sem-bra che non sia un grande sacrifizio l'abbandonare una parte,quando si è certi di impadronirsi del tutto.

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produce, il sovrano non è più sovrano, nemmeno nel tem-porale: da quel punto i veri padroni sono i preti; i re nonsono altro che i loro uffiziali.

Ora che non vi è più, e non può più esservi religionenazionale esclusiva, si debbono tollerare tutte quelle chetollerano le altre, fintantochè i loro dogmi non abbianonulla di contrario ai doveri del cittadino. Ma chiunqueosa dire che fuor della Chiesa non v'è salvezza,debb'essere cacciato dallo stato, salvo che lo stato non siala Chiesa, ed il principe non sia il pontefice. Un tale dog-ma non è buono se non in un governo teocratico; in qua-lunque altro è pernicioso. La ragione per cui dicesi cheEnrico IV abbia abbracciato la religione romana, la do-vrebbe far abbandonare ad ogni galantuomo, e massime aqualunque principe che sapesse ragionare.

CAPITOLO IXConclusione.

Dopo aver posto i veri principj del diritto politico, etentato di fondare lo stato sulla sua base, mi rimarrebbe atrattare delle sue relazioni esterne; lo che comprendereb-be il diritto delle genti, il commercio, il diritto della guer-ra e le conquiste, il diritto pubblico, le alleanze, le nego-ziazioni, i trattati, ecc. Ma tutto ciò forma un nuovo argo-mento troppo vasto per la mia corta vista, la quale ioavrei dovuto sempre tener fissa più vicino a me.

FINE.

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produce, il sovrano non è più sovrano, nemmeno nel tem-porale: da quel punto i veri padroni sono i preti; i re nonsono altro che i loro uffiziali.

Ora che non vi è più, e non può più esservi religionenazionale esclusiva, si debbono tollerare tutte quelle chetollerano le altre, fintantochè i loro dogmi non abbianonulla di contrario ai doveri del cittadino. Ma chiunqueosa dire che fuor della Chiesa non v'è salvezza,debb'essere cacciato dallo stato, salvo che lo stato non siala Chiesa, ed il principe non sia il pontefice. Un tale dog-ma non è buono se non in un governo teocratico; in qua-lunque altro è pernicioso. La ragione per cui dicesi cheEnrico IV abbia abbracciato la religione romana, la do-vrebbe far abbandonare ad ogni galantuomo, e massime aqualunque principe che sapesse ragionare.

CAPITOLO IXConclusione.

Dopo aver posto i veri principj del diritto politico, etentato di fondare lo stato sulla sua base, mi rimarrebbe atrattare delle sue relazioni esterne; lo che comprendereb-be il diritto delle genti, il commercio, il diritto della guer-ra e le conquiste, il diritto pubblico, le alleanze, le nego-ziazioni, i trattati, ecc. Ma tutto ciò forma un nuovo argo-mento troppo vasto per la mia corta vista, la quale ioavrei dovuto sempre tener fissa più vicino a me.

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