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IL FOGLIO quotidiano Redazione e Amministrazione: Via Vittor Pisani 19 – 20124 Milano. Tel 06 589090.1 Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L. 46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO DIRETTORE CLAUDIO CERASA ANNO XXII NUMERO 197 MARTEDÌ 22 AGOSTO 2017 - e 1,80 y(7HB1C8*QLQKKS( +/!"!{!$!? Il cecchino sul tetto di Cracovia e altre possibilità Il condivisibile articolo di Galli della Loggia sui governi deboli, che però ha la data sbagliata e poteva essere scritto decenni fa H o passato tutta la mattina di ieri a cercare la data dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia nel Corrie- re. Conteneva analisi e tesi condivisibili: in Italia i governi sono deboli, il presidente del Consiglio un coordinatore alla pari con i suoi ministri, senza forza politica autonoma, di- pendente dai poteri del Quirinale e da maggioranze gracili e politicamente divise, che non gli rispondono, da qui l’eterno governo del rinvio o non-governo, l’assenza di un quadro di comando politico e amministrativo, il delirio delle autorità condivise e dei pareri obbligati, le supplenze improprie, e tutto appeso alla legge elettorale, che se non è un maggiori- tario serio serve solo a riprodurre la tecnica della mediazio- ne floscia al vertice del potere, e a selezionare le cose da rinviare per paura del decisionismo. Un testo così poteva essere stato scritto all’inizio degli anni Ottanta, quando Cra- xi il decisionista ci provò. Oppure all’inizio degli anni No- vanta, quando ci provò Berlusconi con la sua religione del maggioritario, o di qua o di là. Oppure ancora al comincia- mento della legislatura che si sta per esaurire, quando dopo l’esperienza precaria e penosetta del governo Letta, vincito- re della lotteria presidenziale del dopo-Bersani, era arrivato alla guida dell’esecutivo Matteo Renzi, con un vasto pro- gramma di riforma incentrato sulla semplificazione parla- mentare e, guarda un po’, una legge elettorale comprensiva del ballottaggio, cioè lo strumento per eleggere non una rappresentanza in balia di tutte le correnti, che è quel che teme per il futuro Galli della Loggia, ma una maggioranza per governare e un’opposizione per controllare. Invece la data era proprio quella riportata dal giornale che ospitava il pezzo, la data di ieri. Non si può non riconoscere che nel campo dell’intransigen- tismo e del purismo maggioritario, magari con la famosa e sfortunata lista di Massimo Severo Giannini, Galli della Log- gia abbia fatto qualcosa impegnandosi personalmente. Ma nell’ambito della politica del possibile, se si pensi a Craxi, si ricorderà il malanimo contro una personalità alla fine consi- derata inaccettabile e la sua costellazione di forze magnetiche protese verso la famosa Grande Riforma. Se si pensi a Berlu- sconi, l’idea fissa fu quella del partito di plastica e dell’impre- sentabilità sociale e culturale di una leadership venuta dal- l’imprenditoria, che ha realizzato l’alternanza sognata da ge- nerazioni. Quanto a Renzi, bè, qualche sentimento di adesione primitiva si è subito lasciato travolgere dall’antipatia per il boy scout, per l’uomo di scarse letture e dai calzoni corti, per qualcuno che non ha mantenuto le promesse nonostante la svolta governativista e il controllo parlamentare inaudito che avevano portato alla riforma elettorale e a quella costituzio- nale in un quadro di apertura ai mercati e alle condizioni necessarie alla ripresa dell’economia produttiva, che in parte è finalmente arrivata. Insomma, chi è più preoccupato del ritorno al proporzionale, e arriva a imputare al bravo e misu- rato Gentiloni, che fa quello che può e non pretende di più, l’innesco di una nuova catena di non-governo, fa parte di un establishment che ha delegittimato il senso stesso di una triplice esperienza ultratrentennale, riformatrice, che andava nella direzione del possibile da acquisire e non del libro mastro e canonico delle cose da fare al di fuori delle condizio- ni politiche di necessità, date, concrete. (segue a pagina quattro) La Giornata * * * In Italia DELRIO: “GLI IMMOBILI ILLEGALI VANNO DEMOLITI”. Il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, Graziano Delrio, intervenendo al meeting di Co- munione e Liberazione, ha spiegato: “La fragilità del nostro paese dipende dal fatto che si sia costruito troppo, male e illegalmente”. *** “Terremoti del 2017 senza precedenti”. Secondo il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni: “Per una valutazione corretta del lavoro fatto dal governo quest’anno, si deve partire dalla sequen- za di eventi sismici di dimensioni davve- ro senza precedenti”. Gentiloni ha ag- giunto che il governo è al lavoro per “re- cuperare i ritardi nella ricostruzione”. Vasco Errani lascerà il suo incarico di commissario per la ricostruzione a set- tembre. Lo ha annunciato il presidente del Consiglio in conferenza stampa. *** L’Antitrust ha multato Telecom per 300.000 euro. L’azienda ha violato una precedente delibera dell’autorità, reite- rando una pratica commerciale scorret- ta in caso di recesso. L’azienda addebi- tava le restanti rate dell’abbonamento in un’unica soluzione, pratica già censu- rata dall’Antitrust. *** E’ morto il giurista Guido Rossi. 86 an- ni, milanese, era stato presidente della Consob e commissario della Figc dopo Calciopoli. *** Borsa di Milano. Ftse-Mib -0,28 per cen- to. Differenziale Btp-Bund a 163 punto. L’euro chiude al rialzo a 1,18 sul dollaro. S e avessi più fede negli esperi- menti sociali di quanta non ne abbia in realtà, direi che potrebbe essere un esperimento sociale. Più banalmente, si potrebbe proporre come un gioco di società, ovviamente riservato a chi ritenga che siano cose con cui giocare. Per farla breve, ieri sera (cioè mentre io mi ac- cingevo a scrivere le righe che oggi voi state leggendo), entra nella stanza il mio miglior reporter sul fronte del jihad, e mi dice: “E del cecchino che sta sparando sulla folla a Cracovia cosa facciamo?”. Non saprei dire se ci ho creduto davvero, ma ero immerso in tutt’altro e devo confessare che la prima parvenza di pensiero, sollevando lo sguar- do, è stata: “A quest’ora una breve in crona- ca”. Non era vero, le redazioni sono un po’ come il pronto soccorso, si cazzeggia un po’ per circoscrivere la dimensione degli even- ti. Ma è vera anche un’altra cosa. Ieri molti siti e giornali riprendevano una notizia su uno sventato attacco terroristico su un ae- reo, che avrebbe potuto essere compiuto con una bomba-Barbie. Se la news è vera, era comunque di un mese fa. Ma non ci ab- biamo fatto nemmeno caso: se qualcuno l’ha riportata, è vera. Ma soprattutto, se qualcuno può averla “pensata”, la bambola esplosiva, allora è sicuro che prima o poi accadrà. Il gioco di società è questo: il no- stro stile di vita è cambiato oppure no? Grande attesa per la Festa del Fatto Quotidiano, Versiliana, Marina di Pietrasanta, Lucca, 31 agosto-3 settembre. Come nella tradizione della casa, i dibattiti si chiame- ranno “processi”: un processo al centrosi- nistra, uno al centrodestra, un processo al- la giustizia e uno ai Cinque stelle. In quel- lo alla giustizia, Travaglio torchierà Davi- go. La Raggi inchioderà Di Battista nell’udienza dedicata ai pentacosi. Né po- teva mancare un “Processo al Fatto: Con- sip, Etruria e altri dettagli”. Infatti non mancherà. Imputato, Marco Lillo; pubbli- co ministero, Caterina Malavenda, che nel- la vita reale è l’avvocato difensore di Mar- co Lillo; cancelliere Giorgio Meletti, com- pagno di banco di Marco Lillo. Mararo- meo. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 20.30 CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA Nel Mondo UN FURGONE SI È LANCIATO CON- TRO DUE FERMATE DELL’AUTOBUS a Marsiglia uccidendo una donna e ferendo un’altra persona. Le autorità escludono la pista terroristica, si tratterebbe del gesto di uno squilibrato, noto alle autorità e sot- toposto a cure psichiatriche. *** Una barbie usata come bomba nell’atten- tato sventato il mese scorso dalle autorità libanesi e australiane sul volo civile tra Australia ed Emirati. I terroristi avrebbe- ro cercato di imbarcare una barbie piena di esplosivo nel bagaglio a mano. *** Pausa operativa per la flotta americana dopo la collisione tra una sua nave da guerra e una nave cisterna nelle acque vi- cino a Singapore. E’ il quarto incidente che ha coinvolto una nave degli Stati Uniti nell’ultimo anno. *** Rosneft ha acquistato Essar Oil per 12,9 miliardi di dollari. La compagnia russa ha perfezionato l’acquisto del gruppo india- no attivo nel settore della raffinazione. Total ha acquistato Maersk Oil, attiva principalmente nel mare del Nord, per 7,5 miliardi di dollari. *** Luisa Ortega potrà ottenere l’asilo da parte della Colombia se ne farà richiesta. L’ex procuratore generale del Venezuela è fuggita in Colombia dopo l’insediamen- to dell’Assemblea Costituente. *** Great Wall vuole acquistare Fca. Il grup- po cinese ha confermato l’interesse per tutto il marchio, non soltanto per Jeep. DUE FRONTI, UN TRUMP La caduta di Bannon segna l’inizio della guerra con il clan dei Mercer, finanziatori del presidente e protettori dello stratega New York. Una serie di scontri di potere concentrici ha trasformato Steve Bannon da consigliere temuto e inamovibile in prodotto di scarto di un’Amministrazione che consuma ogni cosa in un cambio di vento o in un giro di tweet, anche il suo leggendario Rasputin. Nella purga prece- dente sono stati eliminati i residui dell’e- stablishment repubblicano che il presi- dente non era riuscito a trumpizzare, Rein- ce Preibus e Sean Spicer, in questa tornata è toccato invece all’ideologo spiritato e oscuro, il cospirazionista presunto evolia- no giunto alla corte di Trump per dare fi- bra e cattive letture al suo fare erratico. Bannon si è trovato dalla parte sbagliata di una guerra che lo vedeva opposto ai Gary Cohn e alle Dina Powell, ai McMaster e ai John Kelly, gestori del potere benedetti da Ivanka e Jared Kushner, i guardiani dell’u- nico cerchio magico di Trump, quello fami- gliare. I banchieri e i generali – la cosid- detta “ala di New York” in combutta con la gerarchia militare – hanno fatto fuori quel- lo che a lungo è stato considerato l’unico ministro plenipotenziario dell’Ammini- strazione, l’alfa e l’omega del trumpismo, l’uomo che fino a tarda serata scambiava messaggi con il presidente mentre questi era intento nella sessione notturna di zap- ping sui notiziari. Il compromesso per una dipartita consensuale è crollato sotto il pe- so dei fatti di Charlottesville, e la cacciata dello stratega è diventata una lacerazione, con tanto di promesse di vendetta per in- terposto Breitbart, il network a cui Bannon è ritornato per continuare la sua attività. Il dissidio interno e il suo epilogo illu- strano le cause prossime del sensazionale licenziamento, ma quelle remote vanno cercate in una guerra fra clan che attende- va soltanto di essere innescata. Le fami- glie in questione sono quella di Trump e quella di Bob Mercer, amministratore de- legato di Renaissance Technologies e ric- chissimo finanziatore dell’operazione trumpiana, portata al successo anche gra- zie al data mining di Cambridge Analytica, azienda di analisi di dati elettorali che si è buttata sul carro di Trump quando i caval- li di Ted Cruz erano esausti. La famiglia Mercer ha anche fatto ingenti investimen- ti su Breitbart, e il patriarca ha dato man- dato alla figlia, la rossa Rebekah, di fare da cinghia fra il mondo delle news della destra paranoica e il caravanserraglio di Trump. Bannon è l’espressione della fami- glia Mercer, una delle pedine imposte in cambio di un sostegno finanziario presso- ché illimitato. Kellyanne Conway è un’al- tra acquisizione nella stessa quota. Fra le altre cose, Mercer è convinto che i Clinton abbiano fatto assassinare diversi opposi- tori politici, sostiene che le bombe di Hi- roshima e Nagasaki hanno migliorato la salute del popolo giapponese, è certo che gli afroamericani stessero meglio prima della battaglia per i diritti civili: sono idee che potrebbero tranquillamente uscire dalla mente di Bannon, un habitué della cattive letture che trova un complotto glo- balista dietro ogni angolo. Quando il ma- trimonio fra Trump e Bannon sembrava al di sopra di ogni crisi, gli osservatori più accorti facevano notare che lo stratega non era un uomo del presidente, non era un figlio del reality e del wrestling, non veniva da “The Apprentice”, non aveva le stesse frequentazioni, aveva letto alcuni libri e faceva a pugni con gli interni della Trump Tower. Era un trumpista acquisito, non un nativo, e Trump ha da diversi de- cenni la tendenza a stancarsi e a sbaraz- zarsi delle persone che non si è scelto e che non hanno il marchio del sangue, uni- ca reale prova di fedeltà. Bannon era stato assunto e investito di poteri inusitati in virtù del ruolo strategico fondamentale della famiglia Mercer e non a caso contro il consiglio di tutti i vecchi amici di Donald, a partire da Roger Stone, il pupillo di Nixon con cui Trump ha condi- viso mille battaglie. Sono le stesse persone che il presidente ha chiamato per un con- sulto prima di decidersi a congedare Ban- non, e tutte hanno espresso la loro opinio- ne contraria a un personaggio che nasce avulso dal bestiario trumpiano classico. Poche ore prima che il divorzio diventasse pubblico, Bannon e Mercer si sono incon- trati per parlare di un futuro dove ufficial- mente il magnate e l’ex stratega remano dalla parte dell’Amministrazione; in real- tà è il primo atto di una guerra fra clan. Roma. Ieri sera alle nove americane c’era in programma un discorso del presidente Trump in diretta televisiva nazionale per an- nunciare la nuova strategia per la guerra in Afghanistan, che ormai va avanti dal 2001. Durante la giornata i media hanno tentato di anticipare il contenuto del discorso e hanno detto: Trump aggiungerà altri quattromila soldati al contingente già presente in Afgha- nistan per fermare l’avanzata dei talebani, come gli hanno consigliato di fare gli ex gene- rali che lavorano nel suo staff e che sono con- siderati l’ala “normalizzatrice” della Casa Bianca. La guerra afghana non va per nulla bene. Questo è il dato di un rapporto presentato al Congresso nel novembre 2016: il governo di Kabul controlla soltanto il 57 per cento dei di- stretti, con una perdita del 15 per cento ri- spetto all’anno prima, e da novembre a oggi i talebani hanno accelerato di molto le loro conquiste. Se continuano a questo ritmo, non manca molto prima che riprendano lo stesso territorio che avevano in mano nel 2001 pri- ma dell’intervento americano, eccetto qual- che sacca protetta come la capitale Kabul. Un altro dato preoccupante riguarda le forze speciali afghane addestrate dagli americani, che sopportano il peso dell’80 per cento delle operazioni contro i talebani anche se sono soltanto il 7 per cento del totale dell’esercito e questo vuol dire che l’antico piano di creare una forza combattente nazionale in grado di proteggere il paese è ancora lontano dalla realtà – con l’aggravante che siamo nel 2017. Il capo del Pentagono, l’ex generale dei marine Jim Mattis, aveva già ricevuto da Trump l’autorizzazione per mandare altri quattromila soldati, ma ha preferito che la decisione fosse presa anche da Trump dopo una revisione molto tormentata della strate- gia. Annunciata come fatta a metà luglio, è di- ventata un altro fronte della faida interna al- l’Amministrazione tra l’ala normalizzatrice dei generali e la fazione “alt-right” guidata dall’ex stratega di Trump, Steve Bannon, che è stato messo alla porta venerdì scorso. Contro il jihad può rinascere l’Europa T assello dopo tassello, tessera dopo tessera, ricostruzione dopo ricostru- zione, il mosaico dell’attentato di Barcel- lona continua a offrire un numero sempre più considerevole di messaggi che vanno tutti verso un’unica e chiara direzione: contro un esercito offensivo come quello jihadista che anche in Europa combatte una guerra senza confini non si può ri- spondere schierando un esercito difensivo che fronteggia il ne- mico restando però intrappolato tra confini che non esi- stono più. Affronta- re il dramma del terrorismo islami- co concentrandosi solo sulla sicurezza o sull’intelligence, come se l’esercito del jihad fosse so- lo un problema di ordine pubblico e non prima di tutto un problema di ordine culturale, è un errore grave e sciatto che molti commettono e che spesso ci porta a scappare dalla realtà e a non ve- dere quali sono le vere radici da cui nasce l’orrore islamista. Ma la sicurezza, in una fase storica come quella in cui viviamo, dove la difesa dei nostri confini rappresenta un processo che non può che essere complementare rispetto alle strategie adottate per radere al suolo le fondamenta militari del jihadi- smo islamista, naturalmente ha una sua importanza strategica evidente ed è più comprensibile chiedersi, all’indomani di un attentato, se nei meccanismi di difesa dei nostri paesi c’è qualcosa che non ha funzionato, qualcosa che si poteva fare meglio, qualcosa che si poteva evitare. Ogni attentato ha una storia a sé e una sua fase di gestazione unica, anche se spesso le modalità di azione si assomiglia- no le une con le altre e non sono altro che dei tentativi di esportare in Europa le stesse tipologie di attacchi – coltelli, ca- mion sulle folle, attentati in luoghi simbolo della democrazia portati avanti per una vita con- tro Israele. Ma l’atten- tato di Barcellona, se ci si ragiona bene, a mente fredda, ha una storia particolare e contiene alcuni detta- gli che ci permettono di dire che in un con- testo come quello in cui viviamo oggi gli istinti sovranisti e se- paratisti, ovvero tut- to ciò che tende ad alimentare uno scontro e non una collaborazione tra istituzioni che in teoria dovrebbero lavorare in un clima di complementarie- tà assoluta, non so- no solo un errore politico: sono anche un rischio per la si- curezza dell’occi- dente. A Barcellona, nei giorni precedenti e successivi all’atten- tato sulla Rambla, la cattiva comunicazio- ne tra la polizia regionale, i Mossos d’E- squadra, e la polizia nazionale, gestita dal ministero dell’Interno, dovuta a ra- gioni politiche legate alle tensioni separatiste della Catalogna, ha avu- to un impatto significativo sulla si- curezza nazionale. (segue nell’inserto I) Il caso di Barcellona ma non solo. L’islam fondamentalista e i nostri confini. Perché la sfida della lotta al terrorismo ci spiega che gli spiriti anti europeisti rappresentano una minaccia concreta per la sicurezza dei singoli stati nazionali DI GIULIANO FERRARA The Donald pronto ad aumentare le truppe in Afghanistan, decisione da establishment che deluderà Bannon NON E’ LA VAR Arbitri protagonisti, pause da bocciofila e discussioni uguali a prima. Togliete subito la moviola in campo Londra. Come i bambini davanti al- l’albero la mattina di Natale, tifosi, giornalisti e passanti si sono eccitati tantissimo per l’introduzione del siste- ma Var in serie A. E proprio come i bambini non sono in grado di capire su- bito che il regalo ricevuto è così inutile che non ci giocheranno mai, ma nell’en- fasi del momento pensano che sia quel- lo che volevano, leggo commenti entu- siastici per l’introduzione di quella che Maurizio Mosca si vergognerebbe di chiamare moviola in campo. E’ tutto un florilegio di “esperimento riuscito” e “buona la prima”, di commentatori sod- disfatti, giocatori che non protestano più e pubblico rilassato negli stadi (tranne Sinisa Mihajlovic, ma non è una sorpresa). E’ andata talmente bene che se fossi in voi la finirei qua. Confesso che ingenuamente avevo pensato che il Var avrebbe tolto il bello dell’incertez- za al gioco del calcio, e persino il gusto di litigare durante la settimana per gli episodi dubbi. Niente di più falso: già dopo il primo rigore dato con questo si- stema c’erano gli esperti che insinuava- no dubbi e davano interpretazioni op- poste (per non parlare dei complottisti, i quali sostenevano che il primo episo- dio sia stato dato contro la Juve ma in una partita che i bianconeri avrebbero comunque vinto, “così adesso nessuno può più dire niente” – amici, in che pub andate? Voglio bere anche io quello che bevete voi). Il calcio non è il football americano, e anche il sistema più effi- cace al mondo di moviola porterà inevi- tabilmente a interpretazioni di parte, che comunque scontenteranno qualcu- no e faranno discutere fino alla dome- nica successiva, con recriminazioni e appelli dei presidenti a trattare meglio le loro società quando si tratta di valu- tare il replay visto a bordo campo. Non solo, ma il siparietto dell’arbitro che parla al microfono per due minuti con i colleghi che riguardano l’azione, e poi va a rivedersela pure lui sullo schermo generano almeno un paio di conseguen- ze nefaste: tragiche perdite di tempo, durante le quali la partita assomiglia più a un ritrovo di anziani alla bocciofi- la che prendono le misure al boccino prima di tirare, bestemmiare, farsi un sorso di grappa e sedersi sulla panchi- na. Ma la vera tragedia è che il Var non fa altro che ingigantire l’ego già smisu- rato degli arbitri. Questi inutili figuri che si vestono da fighette per farsi nota- re, e durante la settimana fanno lavori mediocri, ogni fine settimana cercano di essere al centro dell’attenzione. Con il siparietto del Var lo saranno ancora di più, potendo mettersi pensosi davan- ti allo schermo, facendo shakespearia- ne pause di scena mentre uno stadio in- tero aspetta la loro battuta decisiva. Il tutto continuando a interpretare a pia- cere loro, fingendo però, con hybris, di dare una certezza definitiva all’unica cosa che rende unico il calcio: la possi- bilità dell’errore, l’incertezza del mo- mento. Diteci che avete scherzato, e che da domenica prossima si torna a fare come prima. Sareste più credibili. Il conflitto fra padri e figli nell’islam L’Edipo che piace all’Isis: uccidere la famiglia per distruggere tutto I reclutatori dell’Isis sanno che la prima cosa da fare, avendo fra le mani un ra- gazzo arrabbiato da addestrare e prepa- rare al martirio assassino, è demolire la sua famiglia. Dirgli che suo padre non ha ottenuto niente, non ha cambiato il mon- do, e di certo proverà a impedirgli di di- ventare un eroe. E’ un trucco che funziona e che sfrutta l’età, l’insoddisfazione, l’e- nergia frustrata di un ragazzo che non sa da che parte diventare grande: tagliare i ponti, diventare grandi, ribellarsi anche a quello che i genitori, gli zii e i nonni non hanno fatto, realizzare al posto loro quel- le frasi bisbigliate nelle moschee. I padri non hanno combinato nulla per sottomis- sione, per pigrizia, perché sono vecchi e superati e impauriti e inutili. Il conflitto generazionale esiste, ed è incarnato in modo tragico e violento da questi giova- nissimi fratelli, tutti figli di padri silen- ziosi che si sono limitati a creare il terro- re dentro casa, a costruire divieti asfis- sianti senza mai un premio, un trionfo, un riscatto. Famiglie in cui ogni decisione va presa in gruppo, bisogna andare in visita a tutti i parenti, sedersi, parlare, poi di nuovo sedersi, ancora parlare, le donne in silenzio e quei padri patetici che non han- no creato niente. Gli adolescenti vedono i loro padri come uomini beta, non corag- giosi, non vincenti. Il lavaggio del cervello passa anche da qui: fa’ vedere a tuo padre chi sei, fagli vedere chi è il padre fra voi due. Gli attentatori di Barcellona erano almeno nove fratelli, provenienti da quat- tro famiglie, e nessuno che potesse ancora fregiarsi del titolo di padre: Abu. Abu è l’appellativo più importante, più presti- gioso. Quando diventi padre sei davvero qualcuno, hai avuto una donna, l’hai toc- cata, lei ti ha ubbidito. Ma prima di diven- tare padre, e anzi senza diventare mai pa- dre, questi ragazzi che adesso le madri velate definiscono “plagiati”, hanno cre- duto di prendere le redini del mondo, di vendicare le umiliazioni dei loro padri perdenti, incerti, ossequiosi anche con i tiranni. In fondo al cuore lo sai, papà, che io faccio quello che tu non hai osato fare, dovresti essere fiero di me. Il fanatismo islamico passa anche da qui, dal bisogno di uccidere i padri e dimostrare in questo modo atroce di non averne più bisogno. DI MATTIA FERRARESI DI ANNALENA Imparerà anche Renzi Resoconto, bilancio, ma anche programma. Sabino Cassese legge “Avanti”distinguendo politico e autore Professor Cassese, lei ha lamentato in pas- sato che i politici italiani scrivessero poco. Ap- prezzerà ora che Matteo Renzi abbia scritto un volume intitolato “Avanti. Perché l’Italia non si ferma” (Feltrinelli). Apprezzo molto. E’ uno dei modi con i quali si rende il potere visibile e control- labile. Così gli osservatori possono anche capire come funziona la macchina dello stato. (segue a pagina tre) DI JACK O’MALLEY DI DANIELE RAINERI Non prendermi vivo Anche lo stragista della Rambla ucciso ieri dalla polizia indossava una finta cintura esplosiva Roma. Quando la tattica dei terroristi impegnati nei raid urbani incontra la deri- va psicotica arrivano le cinture esplosive finte. I tre attentatori del London Bridge a inizio maggio le indossavano, i cinque ab- battuti a Cambrils anche, l’accoltellatore adolescente di sabato a Surgut in Siberia idem e pure il guidatore-stragista della Rambla, Younes Abouyaaqoub, localizza- to ieri dalla polizia catalana a cinquanta chilometri da Barcellona. Tutti abbattuti dai proiettili questi dieci simulatori, per- ché la cintura esplosiva posticcia – quasi ridicola perché improvvisata con materia- li casalinghi acconciati a sembrare finti candelotti e finti circuiti elettrici – ha pre- so il posto della pastiglia di cianuro. Indos- sata bene in evidenza, assicura che i poli- ziotti non prenderanno rischi, non si avvi- cineranno e cominceranno a sparare. I ter- roristi evitano così il rischio di essere catturati vivi e vanno direttamente al quid di tutta la faccenda, essere ammessi al pa- radiso – come del resto recitano sempre le formule di commiato dello Stato islamico per i suoi “martiri”: taqabaluhullah, “che Dio lo accetti”. E questa volontà di morire, questa richiesta di essere uccisi, quest’ob- bligo che cade sui poliziotti – “abbattete- mi, perché non potete sapere se questa è una bomba vera oppure no” – dà la misura del nemico. Questi si gettano nelle opera- zioni con la convinzione di essere già mor- ti, a cui è data la facoltà ancora per poco di agire, di guidare furgoni, di scappare sotto l’occhio delle telecamere di sicurezza, di progettare altri colpi. Del resto è la stessa difficoltà incontrata dalle squadre della Delta Force americana che in Iraq e in Si- ria entrano in territorio nemico per cattu- rare i leader più importanti dello Stato islamico. Finora in anni di operazioni ne hanno preso vivo soltanto uno, gli altri si sono fatti ammazzare – o si sono fatti salta- re in aria con una cintura esplosiva vera – piuttosto che finire davanti a un interroga- torio. (daniele raineri)

IL FOGL IO · 2020-02-03 · guerra con il clan dei Mercer, finanziatori del presidente e protettori dello stratega New York. Una serie di scontri di potere concentrici ha trasformato

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Page 1: IL FOGL IO · 2020-02-03 · guerra con il clan dei Mercer, finanziatori del presidente e protettori dello stratega New York. Una serie di scontri di potere concentrici ha trasformato

IL FOGL IOquotidianoRedazione e Amministrazione: Via Vittor Pisani 19 – 20124 Milano. Tel 06 589090.1 Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L. 46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO

DIRETTORE CLAUDIO CERASAANNO XXII NUMERO 197 MARTEDÌ 22 AGOSTO 2017 - e 1,80

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Il cecchino sul tetto di Cracovia e altre possibilità

Il condivisibile articolo di Galli della Loggia sui governi deboli, che però ha la data sbagliata e poteva essere scritto decenni faHo passato tutta la mattina di ieri a cercare la data

dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia nel Corrie-re. Conteneva analisi e tesi condivisibili: in Italia i governisono deboli, il presidente del Consiglio un coordinatore alla

pari con i suoi ministri, senza forza politica autonoma, di-pendente dai poteri del Quirinale e da maggioranze gracili epoliticamente divise, che non gli rispondono, da qui l’eternogoverno del rinvio o non-governo, l’assenza di un quadro dicomando politico e amministrativo, il delirio delle autoritàcondivise e dei pareri obbligati, le supplenze improprie, etutto appeso alla legge elettorale, che se non è un maggiori-tario serio serve solo a riprodurre la tecnica della mediazio-ne floscia al vertice del potere, e a selezionare le cose da

rinviare per paura del decisionismo. Un testo così potevaessere stato scritto all’inizio degli anni Ottanta, quando Cra-xi il decisionista ci provò. Oppure all’inizio degli anni No-vanta, quando ci provò Berlusconi con la sua religione delmaggioritario, o di qua o di là. Oppure ancora al comincia-mento della legislatura che si sta per esaurire, quando dopol’esperienza precaria e penosetta del governo Letta, vincito-re della lotteria presidenziale del dopo-Bersani, era arrivatoalla guida dell’esecutivo Matteo Renzi, con un vasto pro-gramma di riforma incentrato sulla semplificazione parla-mentare e, guarda un po’, una legge elettorale comprensivadel ballottaggio, cioè lo strumento per eleggere non unarappresentanza in balia di tutte le correnti, che è quel cheteme per il futuro Galli della Loggia, ma una maggioranzaper governare e un’opposizione per controllare. Invece la

data era proprio quella riportata dal giornale che ospitava ilpezzo, la data di ieri.

Non si può non riconoscere che nel campo dell’intransigen -tismo e del purismo maggioritario, magari con la famosa esfortunata lista di Massimo Severo Giannini, Galli della Log-gia abbia fatto qualcosa impegnandosi personalmente. Manell’ambito della politica del possibile, se si pensi a Craxi, siricorderà il malanimo contro una personalità alla fine consi-derata inaccettabile e la sua costellazione di forze magneticheprotese verso la famosa Grande Riforma. Se si pensi a Berlu-sconi, l’idea fissa fu quella del partito di plastica e dell’impre -sentabilità sociale e culturale di una leadership venuta dal-l’imprenditoria, che ha realizzato l’alternanza sognata da ge-nerazioni. Quanto a Renzi, bè, qualche sentimento di adesioneprimitiva si è subito lasciato travolgere dall’antipatia per il

boy scout, per l’uomo di scarse letture e dai calzoni corti, perqualcuno che non ha mantenuto le promesse nonostante lasvolta governativista e il controllo parlamentare inaudito cheavevano portato alla riforma elettorale e a quella costituzio-nale in un quadro di apertura ai mercati e alle condizioninecessarie alla ripresa dell’economia produttiva, che in parteè finalmente arrivata. Insomma, chi è più preoccupato delritorno al proporzionale, e arriva a imputare al bravo e misu-rato Gentiloni, che fa quello che può e non pretende di più,l’innesco di una nuova catena di non-governo, fa parte di unestablishment che ha delegittimato il senso stesso di unatriplice esperienza ultratrentennale, riformatrice, che andavanella direzione del possibile da acquisire e non del libromastro e canonico delle cose da fare al di fuori delle condizio-ni politiche di necessità, date, concrete. (segue a pagina quattro)

La Giornata* * *

In Italia

DELRIO: “GLI IMMOBILI ILLEGALIVANNO DEMOLITI”. Il ministro delleInfrastrutture e dei trasporti, GrazianoDelrio, intervenendo al meeting di Co-munione e Liberazione, ha spiegato: “Lafragilità del nostro paese dipende dalfatto che si sia costruito troppo, male eillegalmente”.

* * *“Terremoti del 2017 senza precedenti”.

Secondo il presidente del Consiglio,Paolo Gentiloni: “Per una valutazionecorretta del lavoro fatto dal governoquest’anno, si deve partire dalla sequen-za di eventi sismici di dimensioni davve-ro senza precedenti”. Gentiloni ha ag-giunto che il governo è al lavoro per “re -cuperare i ritardi nella ricostruzione”.

Vasco Errani lascerà il suo incarico dicommissario per la ricostruzione a set-tembre. Lo ha annunciato il presidentedel Consiglio in conferenza stampa.

* * *L’Antitrust ha multato Telecom per

300.000 euro. L’azienda ha violato unaprecedente delibera dell’autorità, reite-rando una pratica commerciale scorret-ta in caso di recesso. L’azienda addebi-tava le restanti rate dell’abbonamentoin un’unica soluzione, pratica già censu-rata dall’Antitrust.

* * *E’ morto il giurista Guido Rossi. 86 an-

ni, milanese, era stato presidente dellaConsob e commissario della Figc dopoCalciopoli.

* * *Borsa di Milano. Ftse-Mib -0,28 per cen-

to. Differenziale Btp-Bund a 163 punto.L’euro chiude al rialzo a 1,18 sul dollaro.

Se avessi più fede negli esperi-menti sociali di quanta non ne

abbia in realtà, direi che potrebbeessere un esperimento sociale. Più

banalmente, si potrebbe proporre come ungioco di società, ovviamente riservato a chiritenga che siano cose con cui giocare. Perfarla breve, ieri sera (cioè mentre io mi ac-cingevo a scrivere le righe che oggi voi stateleggendo), entra nella stanza il mio migliorreporter sul fronte del jihad, e mi dice: “Edel cecchino che sta sparando sulla folla aCracovia cosa facciamo?”. Non saprei direse ci ho creduto davvero, ma ero immersoin tutt’altro e devo confessare che la prima

parvenza di pensiero, sollevando lo sguar-do, è stata: “A quest’ora una breve in crona-ca”. Non era vero, le redazioni sono un po’come il pronto soccorso, si cazzeggia un po’per circoscrivere la dimensione degli even-ti. Ma è vera anche un’altra cosa. Ieri moltisiti e giornali riprendevano una notizia suuno sventato attacco terroristico su un ae-reo, che avrebbe potuto essere compiutocon una bomba-Barbie. Se la news è vera,era comunque di un mese fa. Ma non ci ab-biamo fatto nemmeno caso: se qualcunol’ha riportata, è vera. Ma soprattutto, sequalcuno può averla “pensata”, la bambolaesplosiva, allora è sicuro che prima o poiaccadrà. Il gioco di società è questo: il no-stro stile di vita è cambiato oppure no?

Grande attesa per la Festa delFatto Quotidiano, Versiliana,Marina di Pietrasanta, Lucca, 31agosto-3 settembre. Come nella

tradizione della casa, i dibattiti si chiame-ranno “processi”: un processo al centrosi-nistra, uno al centrodestra, un processo al-la giustizia e uno ai Cinque stelle. In quel-lo alla giustizia, Travaglio torchierà Davi-go. La Raggi inchioderà Di Battistanell’udienza dedicata ai pentacosi. Né po-teva mancare un “Processo al Fatto: Con-sip, Etruria e altri dettagli”. Infatti nonmancherà. Imputato, Marco Lillo; pubbli-co ministero, Caterina Malavenda, che nel-la vita reale è l’avvocato difensore di Mar-co Lillo; cancelliere Giorgio Meletti, com-pagno di banco di Marco Lillo. Mararo-meo.

Questo numero è stato chiuso in redazione alle 20.30

CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA

Nel Mondo

UN FURGONE SI È LANCIATO CON-TRO DUE FERMATE DELL’AUTOBUS aMarsiglia uccidendo una donna e ferendoun’altra persona. Le autorità escludono lapista terroristica, si tratterebbe del gestodi uno squilibrato, noto alle autorità e sot-toposto a cure psichiatriche.

* * *Una barbie usata come bomba nell’atten -

tato sventato il mese scorso dalle autoritàlibanesi e australiane sul volo civile traAustralia ed Emirati. I terroristi avrebbe-ro cercato di imbarcare una barbie pienadi esplosivo nel bagaglio a mano.

* * *Pausa operativa per la flotta americana

dopo la collisione tra una sua nave daguerra e una nave cisterna nelle acque vi-cino a Singapore. E’ il quarto incidenteche ha coinvolto una nave degli Stati Unitinell’ultimo anno.

* * *Rosneft ha acquistato Essar Oil per 12,9

miliardi di dollari. La compagnia russa haperfezionato l’acquisto del gruppo india-no attivo nel settore della raffinazione.

Total ha acquistato Maersk Oil, attivaprincipalmente nel mare del Nord, per 7,5miliardi di dollari.

* * *Luisa Ortega potrà ottenere l’asilo da

parte della Colombia se ne farà richiesta.L’ex procuratore generale del Venezuelaè fuggita in Colombia dopo l’insediamen -to dell’Assemblea Costituente.

* * *Great Wall vuole acquistare Fca. Il grup-

po cinese ha confermato l’interesse pertutto il marchio, non soltanto per Jeep.

DUE FRONTI, UN TRUMPLa caduta di Bannon segna l’inizio della

guerra con il clan dei Mercer, finanziatoridel presidente e protettori dello stratega

New York. Una serie di scontri di potereconcentrici ha trasformato Steve Bannonda consigliere temuto e inamovibile inprodotto di scarto di un’Amministrazione

che consuma ogni cosa in un cambio divento o in un giro di tweet, anche il suoleggendario Rasputin. Nella purga prece-dente sono stati eliminati i residui dell’e-stablishment repubblicano che il presi-dente non era riuscito a trumpizzare, Rein-ce Preibus e Sean Spicer, in questa tornataè toccato invece all’ideologo spiritato eoscuro, il cospirazionista presunto evolia-no giunto alla corte di Trump per dare fi-bra e cattive letture al suo fare erratico.Bannon si è trovato dalla parte sbagliata diuna guerra che lo vedeva opposto ai GaryCohn e alle Dina Powell, ai McMaster e aiJohn Kelly, gestori del potere benedetti daIvanka e Jared Kushner, i guardiani dell’u-nico cerchio magico di Trump, quello fami-gliare. I banchieri e i generali – la cosid-detta “ala di New York” in combutta con lagerarchia militare – hanno fatto fuori quel-lo che a lungo è stato considerato l’unicoministro plenipotenziario dell’Ammini -strazione, l’alfa e l’omega del trumpismo,l’uomo che fino a tarda serata scambiavamessaggi con il presidente mentre questiera intento nella sessione notturna di zap-ping sui notiziari. Il compromesso per unadipartita consensuale è crollato sotto il pe-so dei fatti di Charlottesville, e la cacciatadello stratega è diventata una lacerazione,con tanto di promesse di vendetta per in-terposto Breitbart, il network a cui Bannonè ritornato per continuare la sua attività.

Il dissidio interno e il suo epilogo illu-strano le cause prossime del sensazionalelicenziamento, ma quelle remote vannocercate in una guerra fra clan che attende-va soltanto di essere innescata. Le fami-glie in questione sono quella di Trump equella di Bob Mercer, amministratore de-legato di Renaissance Technologies e ric-chissimo finanziatore dell’operazionetrumpiana, portata al successo anche gra-zie al data mining di Cambridge Analytica,azienda di analisi di dati elettorali che si èbuttata sul carro di Trump quando i caval-li di Ted Cruz erano esausti. La famigliaMercer ha anche fatto ingenti investimen-ti su Breitbart, e il patriarca ha dato man-dato alla figlia, la rossa Rebekah, di fareda cinghia fra il mondo delle news delladestra paranoica e il caravanserraglio diTrump. Bannon è l’espressione della fami-glia Mercer, una delle pedine imposte incambio di un sostegno finanziario presso-ché illimitato. Kellyanne Conway è un’al -tra acquisizione nella stessa quota. Fra lealtre cose, Mercer è convinto che i Clintonabbiano fatto assassinare diversi opposi-tori politici, sostiene che le bombe di Hi-roshima e Nagasaki hanno migliorato lasalute del popolo giapponese, è certo chegli afroamericani stessero meglio primadella battaglia per i diritti civili: sono ideeche potrebbero tranquillamente usciredalla mente di Bannon, un habitué dellacattive letture che trova un complotto glo-balista dietro ogni angolo. Quando il ma-trimonio fra Trump e Bannon sembrava aldi sopra di ogni crisi, gli osservatori piùaccorti facevano notare che lo strateganon era un uomo del presidente, non eraun figlio del reality e del wrestling, nonveniva da “The Apprentice”, non aveva lestesse frequentazioni, aveva letto alcunilibri e faceva a pugni con gli interni dellaTrump Tower. Era un trumpista acquisito,non un nativo, e Trump ha da diversi de-cenni la tendenza a stancarsi e a sbaraz-zarsi delle persone che non si è scelto eche non hanno il marchio del sangue, uni-ca reale prova di fedeltà.

Bannon era stato assunto e investito dipoteri inusitati in virtù del ruolo strategicofondamentale della famiglia Mercer e nona caso contro il consiglio di tutti i vecchiamici di Donald, a partire da Roger Stone,il pupillo di Nixon con cui Trump ha condi-viso mille battaglie. Sono le stesse personeche il presidente ha chiamato per un con-sulto prima di decidersi a congedare Ban-non, e tutte hanno espresso la loro opinio-ne contraria a un personaggio che nasceavulso dal bestiario trumpiano classico.Poche ore prima che il divorzio diventassepubblico, Bannon e Mercer si sono incon-trati per parlare di un futuro dove ufficial-mente il magnate e l’ex stratega remanodalla parte dell’Amministrazione; in real-tà è il primo atto di una guerra fra clan.

Roma. Ieri sera alle nove americane c’erain programma un discorso del presidenteTrump in diretta televisiva nazionale per an-nunciare la nuova strategia per la guerra in

Afghanistan, che ormai va avanti dal 2001.Durante la giornata i media hanno tentato dianticipare il contenuto del discorso e hannodetto: Trump aggiungerà altri quattromilasoldati al contingente già presente in Afgha-nistan per fermare l’avanzata dei talebani,come gli hanno consigliato di fare gli ex gene-rali che lavorano nel suo staff e che sono con-siderati l’ala “normalizzatrice” della CasaBianca.

La guerra afghana non va per nulla bene.Questo è il dato di un rapporto presentato alCongresso nel novembre 2016: il governo diKabul controlla soltanto il 57 per cento dei di-stretti, con una perdita del 15 per cento ri-spetto all’anno prima, e da novembre a oggi italebani hanno accelerato di molto le loroconquiste. Se continuano a questo ritmo, nonmanca molto prima che riprendano lo stessoterritorio che avevano in mano nel 2001 pri-ma dell’intervento americano, eccetto qual-che sacca protetta come la capitale Kabul. Unaltro dato preoccupante riguarda le forzespeciali afghane addestrate dagli americani,che sopportano il peso dell’80 per cento delleoperazioni contro i talebani anche se sonosoltanto il 7 per cento del totale dell’esercitoe questo vuol dire che l’antico piano di creareuna forza combattente nazionale in grado diproteggere il paese è ancora lontano dallarealtà – con l’aggravante che siamo nel 2017.

Il capo del Pentagono, l’ex generale deimarine Jim Mattis, aveva già ricevuto daTrump l’autorizzazione per mandare altriquattromila soldati, ma ha preferito che ladecisione fosse presa anche da Trump dopouna revisione molto tormentata della strate-gia. Annunciata come fatta a metà luglio, è di-ventata un altro fronte della faida interna al-l’Amministrazione tra l’ala normalizzatricedei generali e la fazione “alt-right” guidatadall’ex stratega di Trump, Steve Bannon, cheè stato messo alla porta venerdì scorso.

Contro il jihad può rinascere l’Europa

Tassello dopo tassello, tessera dopotessera, ricostruzione dopo ricostru-

zione, il mosaico dell’attentato di Barcel-lona continua a offrire un numero semprepiù considerevole di messaggi che vannotutti verso un’unica e chiara direzione:contro un esercito offensivo come quellojihadista che anche in Europa combatteuna guerra senza confini non si può ri-spondere schierandoun esercito difensivoche fronteggia il ne-mico restando peròintrappolato traconfini che non esi-stono più. Affronta-re il dramma delterrorismo islami-co concentrandosisolo sulla sicurezzao sull’intelligence,come se l’esercitodel jihad fosse so-lo un problema diordine pubblico enon prima di tuttoun problema diordine culturale,è un errore gravee sciatto che molticommettono e chespesso ci porta ascappare dallarealtà e a non ve-dere quali sono levere radici da cuinasce l’orroreislamista. Ma lasicurezza, in unafase storica comequella in cui viviamo, dove la difesa deinostri confini rappresenta un processoche non può che essere complementarerispetto alle strategie adottate per radereal suolo le fondamenta militari del jihadi-smo islamista, naturalmente ha una suaimportanza strategica evidente ed è piùcomprensibile chiedersi, all’indomani diun attentato, se nei meccanismi di difesa

dei nostri paesi c’è qualcosa che non hafunzionato, qualcosa che si poteva faremeglio, qualcosa che si poteva evitare.

Ogni attentato ha una storia a sé e unasua fase di gestazione unica, anche sespesso le modalità di azione si assomiglia-no le une con le altre e non sono altro chedei tentativi di esportare in Europa lestesse tipologie di attacchi – coltelli, ca-

mion sulle folle, attentatiin luoghi simbolo dellademocrazia – portatiavanti per una vita con-tro Israele. Ma l’atten -tato di Barcellona, seci si ragiona bene, amente fredda, ha unastoria particolare econtiene alcuni detta-gli che ci permettonodi dire che in un con-testo come quello incui viviamo oggi gliistinti sovranisti e se-paratisti, ovvero tut-to ciò che tende adalimentare unoscontro e non unacollaborazione traistituzioni che inteoria dovrebberolavorare in un climadi complementarie-tà assoluta, non so-no solo un errorepolitico: sono ancheun rischio per la si-curezza dell’occi -dente. A Barcellona,nei giorni precedentie successivi all’atten -

tato sulla Rambla, la cattiva comunicazio-ne tra la polizia regionale, i Mossos d’E-squadra, e la polizia nazionale, gestita dalministero dell’Interno, dovuta a ra-gioni politiche legate alle tensioniseparatiste della Catalogna, ha avu-to un impatto significativo sulla si-curezza nazionale. (segue nell’inserto I)

Il caso di Barcellona ma non solo. L’islam fondamentalista e i nostri confini.Perché la sfida della lotta al terrorismo ci spiega che gli spiriti anti europeisti

rappresentano una minaccia concreta per la sicurezza dei singoli stati nazionali

DI GIULIANO FERRARA

The Donald pronto ad aumentare letruppe in Afghanistan, decisione daestablishment che deluderà Bannon

NON E’ LA VARArbitri protagonisti, pause da

bocciofila e discussioni uguali a prima.Togliete subito la moviola in campo

Londra. Come i bambini davanti al-l’albero la mattina di Natale, tifosi,giornalisti e passanti si sono eccitatitantissimo per l’introduzione del siste-

ma Var in serie A. E proprio come ibambini non sono in grado di capire su-bito che il regalo ricevuto è così inutileche non ci giocheranno mai, ma nell’en -fasi del momento pensano che sia quel-lo che volevano, leggo commenti entu-siastici per l’introduzione di quella cheMaurizio Mosca si vergognerebbe dichiamare moviola in campo. E’ tutto unflorilegio di “esperimento riuscito” e“buona la prima”, di commentatori sod-disfatti, giocatori che non protestanopiù e pubblico rilassato negli stadi(tranne Sinisa Mihajlovic, ma non è unasorpresa). E’ andata talmente bene chese fossi in voi la finirei qua. Confessoche ingenuamente avevo pensato che ilVar avrebbe tolto il bello dell’incertez -za al gioco del calcio, e persino il gustodi litigare durante la settimana per gliepisodi dubbi. Niente di più falso: giàdopo il primo rigore dato con questo si-stema c’erano gli esperti che insinuava-no dubbi e davano interpretazioni op-poste (per non parlare dei complottisti,i quali sostenevano che il primo episo-dio sia stato dato contro la Juve ma inuna partita che i bianconeri avrebberocomunque vinto, “così adesso nessunopuò più dire niente” – amici, in che pubandate? Voglio bere anche io quelloche bevete voi). Il calcio non è il footballamericano, e anche il sistema più effi-cace al mondo di moviola porterà inevi-tabilmente a interpretazioni di parte,che comunque scontenteranno qualcu-no e faranno discutere fino alla dome-nica successiva, con recriminazioni eappelli dei presidenti a trattare megliole loro società quando si tratta di valu-tare il replay visto a bordo campo. Nonsolo, ma il siparietto dell’arbitro cheparla al microfono per due minuti con icolleghi che riguardano l’azione, e poiva a rivedersela pure lui sullo schermogenerano almeno un paio di conseguen-ze nefaste: tragiche perdite di tempo,durante le quali la partita assomigliapiù a un ritrovo di anziani alla bocciofi-la che prendono le misure al boccinoprima di tirare, bestemmiare, farsi unsorso di grappa e sedersi sulla panchi-na. Ma la vera tragedia è che il Var nonfa altro che ingigantire l’ego già smisu-rato degli arbitri. Questi inutili figuriche si vestono da fighette per farsi nota-re, e durante la settimana fanno lavorimediocri, ogni fine settimana cercanodi essere al centro dell’attenzione. Conil siparietto del Var lo saranno ancoradi più, potendo mettersi pensosi davan-ti allo schermo, facendo shakespearia-ne pause di scena mentre uno stadio in-tero aspetta la loro battuta decisiva. Iltutto continuando a interpretare a pia-cere loro, fingendo però, con hybris, didare una certezza definitiva all’unicacosa che rende unico il calcio: la possi-bilità dell’errore, l’incertezza del mo-mento. Diteci che avete scherzato, e cheda domenica prossima si torna a farecome prima. Sareste più credibili.

Il conflitto fra padri e figli nell’islamL’Edipo che piace all’Isis: uccidere la famiglia per distruggere tutto

Ireclutatori dell’Isis sanno che la primacosa da fare, avendo fra le mani un ra-

gazzo arrabbiato da addestrare e prepa-rare al martirio assassino, è demolire la

sua famiglia. Dirgli che suo padre non haottenuto niente, non ha cambiato il mon-do, e di certo proverà a impedirgli di di-ventare un eroe. E’ un trucco che funzionae che sfrutta l’età, l’insoddisfazione, l’e-nergia frustrata di un ragazzo che non sada che parte diventare grande: tagliare iponti, diventare grandi, ribellarsi anche aquello che i genitori, gli zii e i nonni nonhanno fatto, realizzare al posto loro quel-le frasi bisbigliate nelle moschee. I padrinon hanno combinato nulla per sottomis-sione, per pigrizia, perché sono vecchi esuperati e impauriti e inutili. Il conflittogenerazionale esiste, ed è incarnato inmodo tragico e violento da questi giova-nissimi fratelli, tutti figli di padri silen-ziosi che si sono limitati a creare il terro-re dentro casa, a costruire divieti asfis-sianti senza mai un premio, un trionfo, unriscatto. Famiglie in cui ogni decisione vapresa in gruppo, bisogna andare in visita

a tutti i parenti, sedersi, parlare, poi dinuovo sedersi, ancora parlare, le donne insilenzio e quei padri patetici che non han-no creato niente. Gli adolescenti vedono iloro padri come uomini beta, non corag-giosi, non vincenti. Il lavaggio del cervellopassa anche da qui: fa’ vedere a tuo padrechi sei, fagli vedere chi è il padre fra voidue. Gli attentatori di Barcellona eranoalmeno nove fratelli, provenienti da quat-tro famiglie, e nessuno che potesse ancorafregiarsi del titolo di padre: Abu. Abu èl’appellativo più importante, più presti-gioso. Quando diventi padre sei davveroqualcuno, hai avuto una donna, l’hai toc-cata, lei ti ha ubbidito. Ma prima di diven-tare padre, e anzi senza diventare mai pa-dre, questi ragazzi che adesso le madrivelate definiscono “plagiati”, hanno cre-duto di prendere le redini del mondo, divendicare le umiliazioni dei loro padriperdenti, incerti, ossequiosi anche con itiranni. In fondo al cuore lo sai, papà, cheio faccio quello che tu non hai osato fare,dovresti essere fiero di me. Il fanatismoislamico passa anche da qui, dal bisognodi uccidere i padri e dimostrare in questomodo atroce di non averne più bisogno.

DI MATTIA FERRARESI

DI ANNALENA

Imparerà anche RenziResoconto, bilancio, ma anche

programma. Sabino Cassese legge“Av a n t i ”distinguendo politico e autore

Professor Cassese, lei ha lamentato in pas-sato che i politici italiani scrivessero poco. Ap-prezzerà ora che Matteo Renzi abbia scritto unvolume intitolato “Avanti. Perché l’Italia nonsi ferma” (Feltrinelli).

Apprezzo molto. E’ uno dei modi con iquali si rende il potere visibile e control-labile. Così gli osservatori possono anchecapire come funziona la macchina dellostato. (segue a pagina tre)

DI JACK O’MALLEYDI DANIELE RAINERI

Non prendermi vivoAnche lo stragista della Rambla

ucciso ieri dalla polizia indossavauna finta cintura esplosiva

Roma. Quando la tattica dei terroristiimpegnati nei raid urbani incontra la deri-va psicotica arrivano le cinture esplosivefinte. I tre attentatori del London Bridge ainizio maggio le indossavano, i cinque ab-battuti a Cambrils anche, l’accoltellatoreadolescente di sabato a Surgut in Siberiaidem e pure il guidatore-stragista dellaRambla, Younes Abouyaaqoub, localizza-to ieri dalla polizia catalana a cinquantachilometri da Barcellona. Tutti abbattutidai proiettili questi dieci simulatori, per-ché la cintura esplosiva posticcia – quasiridicola perché improvvisata con materia-li casalinghi acconciati a sembrare finticandelotti e finti circuiti elettrici – ha pre-so il posto della pastiglia di cianuro. Indos-sata bene in evidenza, assicura che i poli-ziotti non prenderanno rischi, non si avvi-cineranno e cominceranno a sparare. I ter-roristi evitano così il rischio di esserecatturati vivi e vanno direttamente al quiddi tutta la faccenda, essere ammessi al pa-radiso – come del resto recitano sempre leformule di commiato dello Stato islamicoper i suoi “martiri”: taqabaluhullah, “cheDio lo accetti”. E questa volontà di morire,questa richiesta di essere uccisi, quest’ob -bligo che cade sui poliziotti – “abbattete -mi, perché non potete sapere se questa èuna bomba vera oppure no” – dà la misuradel nemico. Questi si gettano nelle opera-zioni con la convinzione di essere già mor-ti, a cui è data la facoltà ancora per poco diagire, di guidare furgoni, di scappare sottol’occhio delle telecamere di sicurezza, diprogettare altri colpi. Del resto è la stessadifficoltà incontrata dalle squadre dellaDelta Force americana che in Iraq e in Si-ria entrano in territorio nemico per cattu-rare i leader più importanti dello Statoislamico. Finora in anni di operazioni nehanno preso vivo soltanto uno, gli altri sisono fatti ammazzare – o si sono fatti salta-re in aria con una cintura esplosiva vera –piuttosto che finire davanti a un interroga-torio. (daniele raineri)

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ANNO XXII NUMERO 197 - PAG 2 IL FOGLIO QUOTIDIANO MARTEDÌ 22 AGOSTO 2017

LA SENATRICE A C INQUE STELLE CHE QUALCUNO VUOLE MINISTRO

Il talento di Barbara Lezzi nella società dello spettacolo grillinoRoma. Fra le mani avevamo l’opera

struggente di un formidabile genio, ep-pure non ce ne eravamo accorti. Aveva-mo il talento politico purissimo di Barba-ra Lezzi, senatrice a cinque stelle auto-rizzata dai capi a dibattere in tv, il che larende nell’epoca della società dello spet-tacolo una sorta di statista, ma abbiamodovuto aspettare la fine della legislaturaper apprezzarne appieno le doti.

Un mese fa Andrea Scanzi, di profes-sione talent scout, aveva rivendicato laprimogenitura, dicendo che il M5s ha ef-fettivamente un problema di classe diri-gente, ma meno male che qualcuno svet-ta, si fa riconoscere, si mette in mostra,insomma meno male che Barbara Lezzic’è: “La senatrice è una delle parlamen-tari più preparate che ha il M5S, l’hoscritto anche in tempi non sospetti. E’così convincente in tv che persino BrunoVespa, quando la vede, soggiace al suofascino politico. E Vespa non è esatta-mente grillino”, ha detto Scanzi a “Cof -fee Break”, su La7, indicandola comepossibile ministro dell’Economia. Già inaltre occasioni Scanzi si era complimen-tato con la senatrice, definendola addi-rittura “rutilante” dopo una sua perfor-mance a “Porta a Porta”. La sfavillante

Lezzi from Lequile (Lecce) non si è fattaattendere: il giorno dopo Ferragosto, laparlamentare, che è anche vicepresiden-te della commissione Bilancio al Senato,ha pubblicato un video su Facebook perspiegare perché, secondo lei, c’è stato unaumento del Pil nel secondo trimestredel 2017: “Perché ha fatto molto caldo”.Cosa che in effetti è vera (che ha fattomolto caldo ce ne siamo accorti un po’tutti), ma da qui a poter sostenere che ilPil è cresciuto grazie ai condizionatori,stolida tecnologia serva di Renzi, ce necorre.

Come nota la Pagella Politica di Agi,“l’aumento dello 0,4 per cento non è unpicco. E’ stato registrato nel secondo tri-mestre del 2017, così come nel primo2017 e nell’ultimo del 2016 (dati estrattidal database Istat). Dunque anche duran-te le stagioni fredde. La produzione in-dustriale, poi, è vero che a giugno è statatrainata dall’energia (+9,8 per cento ri-spetto a giugno 2016), ma non solo. Hannoconcorso i beni di consumo (+5,6 per cen-to), in particolare quelli durevoli (+10,6per cento), così come i beni strumentali(+5,1 per cento) e intermedi (+4 per cen-to)”. Ma che avesse qualche numero dafunambolo della democrazia del clic

Barbara Lezzi, già nota alle cronache peraver assunto come assistente parlamen-tare la figlia del suo compagno, non esat-tamente quindi in pieno spirito merito-cratico grillino, lo si sarebbe dovuto in-tuire dal curriculum con cui si era pre-sentata alle parlamentarie del 2013.“Diplomata nel 1991 presso l’istituto tec-nico Deledda per periti aziendali e corri-spondenti in lingue estere. Assunta dalgennaio 1992 presso un’azienda del setto-re commercio con la qualifica di impie-gata di III livello”. Segue dichiarazionedi intenti: “Accetto, sottoscrivo, condivi-do, approvo il non statuto, il programma,le regole per i futuri parlamentari e so-prattutto riconosco nella figura deglieletti il ruolo di portavoce. Credo che daquesto si evinca il mio spirito a cinquestelle ed a poco altro servirebbe l’elen -cazione di ciò che con gli altri attivisti hofatto dal primo Vday in poi”. Insommauna seguace del Casalgrillo certificata,non una che si è radicalizzata col temponavigando su qualche sito estremista. Mala senatrice non può assurgere solo alruolo di ministra dell’Economia. Sareb-be riduttivo, perché i geni rinascimentalinon possono essere confinati in un soloambito. Lo specialismo è una dittatura e

va combattuto, naturalmente. Durante ildibattito referendario dello scorso annoaveva dimostrato anche una certa giuri-sprudente sapienza, sostenendo in tv cheper ridurre il numero dei parlamentarinon ci sarebbe stato bisogno di una rifor-ma ma di un semplice decreto da fare inun paio di settimane. Ma la riduzione delnumero dei parlamentari – che è peral-tro contenuta nella nuova proposta deiCinque Stelle – è una modifica costituzio-nale a tutti gli effetti, perché va a rivede-re gli attuali articoli 56 e 57. E per modi-ficare la carta costituzionale è necessa-rio seguire l’articolo 138, che prevedeuna procedura rafforzata per le leggi direvisione costituzionale. Altro che decre-to da scrivere con la mano sinistra men-tre con l’altra si aggiornano Instagram eFacebook.

Insomma, gli aspiranti ministri deiCinque Stelle non sanno un tubo, pontifi-cano, straparlano. E più pontificano estraparlano più hanno successo, sfruttan-do le ampie maglie della “democraziadei creduloni”, come la chiama il socio-logo francese Gérald Bronner. “Oggi ilcretino è pieno di idee”, diceva EnnioFlaiano. E le scrive su Facebook.

David Allegranti

CONSOB, TELECOM, CALC IO E L ’ INFLUENZA DELLA “G IUDICATURA”

Guido Rossi, borghese di lotta e di governo che criticava la finanza. SguazzandociRoma. Guido Rossi, che si è spento ieri

all’età di 86 anni, è stato un protagonistadella vita italiana con la sua personalitàper molti versi traboccante. I liberisti po-tranno definirlo l’uomo che voleva mette-re le brache al mercato: “La disciplina neigiuochi del mercato è l’unica autenticagaranzia di corretto funzionamento del si-stema capitalista”, aveva scritto nel 1983. Igiuristi lo ricorderanno come il nemicodei monopòli con l’ossessione per la rego-lamentazione (“Il gioco delle regole” èuno dei suoi ultimi saggi di grande succes-so, pubblicato nel 2003). Per la sinistra“indipendente” (è stato senatore dal 1987al 1992, eletto nelle liste del Pci) è l’intel -lettuale che ha contribuito a sdoganareun capitalismo ben temperato, lanciando-si contro la degenerazione del modelloitaliano “dall’economia mista all’econo -mia confusa” (Corriere della Sera, 1984) eaccusando “la giungla della Borsa” (“Tra -sparenza e vergogna” è il titolo di un altrosuo saggio famoso).

Grande avvocato con laurea a Pavia emaster a Harvard, alto, imponente, ele-gante nelle sue sciarpone bianche o rossegirate attorno al collo, Guido Rossi è statoad un tempo sostegno e frusta per l’esta -blishment, uomo d’azione e di sistema, ilsistema dell’alta finanza all’interno delquale agiva e che dal di dentro criticava.Si è battuto per primo a favore di unalegge che introducesse in Italia l’antitrust“novant’anni dopo gli Stati Uniti” (comesoleva sottolineare), ha presieduto la Con-sob, la commissione per il controllo dellaBorsa, ma anche la Montedison dopo ilcrac della famiglia Ferruzzi, o la TelecomItalia in via di privatizzazione nel 1997

(sfidando le polemiche su potenziali con-fitti d’interesse). Ha gestito persino la Fe-derazione giuoco calcio all’indomani dicalciopoli nel 2006 (lui che sedeva nelconsiglio di amministrazione dell’Inter eper questo fu messo sotto tiro soprattuttodagli ambienti juventini travolti dal “mo -dello Moggi”). Tra le ultimissime battaglieintellettuali si può ricordare la difesa del-l’euro incrociando i ferri polemici conPaul Krugman, pur criticando l’austerità:“Il rapporto tra il debito degli stati e lesovranità popolari rimane incerto e in-quietante”, ha scritto cinque anni fa.

Non è mai mancata la gara a tirare per

la giacchetta, sempre di ottimo taglio,questo “gran borghese” al pari di BrunoVisentini o Enrico Cuccia (nonostante ledifferenze e le dissonanze tra loro), forma-tisi in un coté intellettuale e politico“azionista”. Lui che figurava tra i princi-pali contribuenti scriveva: “Anziché ba-dare esclusivamente alla difesa del siste-ma finanziario, che invece necessita diuna rigorosissima nuova regolamentazio-ne, occorre che le politiche economiche esociali si orientino all’eliminazione delledisuguaglianze, perassicurare ai cittadinila priorità dei dirittiche Norberto Bobbiousava chiamare di prima e di seconda ge-

nerazione, piuttosto che soddisfare l’inte -resse dei creditori, da pagare col sacrifi-cio dei contribuenti”. Le sue prestazioniprofessionali non erano esattamenteegualitarie, ma questo è il mercato, purcon tutte le regole di questo mondo. Offri-va i servigi professionali ad ampio spet-tro, a Silvio Berlusconi e a Carlo De Bene-detti durante la “guerra di Segrate” per ilcontrollo della Mondadori, così come aCesare Geronzi che difese negli scandaliParmalat e Cirio.

La stampa popolare ricorderà soprat-tutto lo scudetto assegnato a tavolino al-l’Inter. Peccato, perché l’eredità di Rossimerita di essere discussa sul serio perl’impronta lasciata nel percorso che hacondotto verso la egemonia della “giudi -catura”, come sostiene un famoso giuri-sta francese, Robert Badinter, l’uomoche, come ministro di François Mitter-rand, abolì la pena di morte nel 1981. Inaltre parole, un processo che mette il giu-dice al centro della vita economica e diquella politica, attribuendogli un ruolosacrale: il magistrato ha assorbito via viail ruolo del prete, dell’imprenditore, delsindacalista, del capo di partito, non èpiù solo arbitro o deus ex machina, è l’uo -mo che fa girare gli ingranaggi. La que-stione morale ha aperto la strada, poi,con l’eclisse del Partito comunista, la giu-dicatura ha conquistato l’egemonia a si-nistra, ma è servita anche da grande alibinazionale. Intendiamoci, Guido Rossinon smetteva di scrivere che la politicadeve riprendere il proprio posto, ma infondo riteneva che i tempi, almeno in Ita-lia, non fossero maturi.

Stefano Cingolani

CON DEAN MART IN FACEVA SOLDI COME LA ZECCA D I STATO

A lanciare Jerry Lewis fu una perfetta coppia comica con “l’italiano”Non sempre sappiamo come iniziano le

grandi coppie (i litigi si stampano meglionella memoria). Jerry Lewis ricorda benissi-mo quando si mise con Dean Martin, il 24 luglio1946, Atlantic City. Aveva promesso un numerocomico al proprietario del locale, in coppiacon il cantante di origine italiana Dino Crocet-ti. Qualche mese prima lo aveva incontrato aBroadway, fu un colpo di fulmine. Dean Martinera sul palco che cantava, serio davanti al mi-crofono. L’ebreo di Newark – luogo di nascitacondiviso con Philip Roth – era spuntato dadietro le quinte con una giacca da cameriere,sbraitando: “Chi ha ordinato una bistecca?”

Uno che sta sul palco e si vede rubare lascena ha l’impulso di uccidere. Dean Martininvece sorrise: il diciannovenne Jerry Lewisvide in lui un fratello maggiore, oltre che uncollega con cui dividere l’affitto. Da qui lapromessa di uno spettacolo che non esisteva.“Ditemi che non siete soltanto un mimo e uncantante”, li minacciò il proprietario, del ti-po che se lo scontenti ti butta nell’oceano congli stivaletti di cemento. Per alleggerire latensione prima di andare in scena, i duemangiavano pastrami. In “Dean & Me - Unastoria d’amore” (Sagoma editore, 2010) Jerry

Lewis racconta di aver conservato nella cas-setta di sicurezza la carta di quei panini: “Lagrande comicità e il grasso del pastrami du-rano per sempre”. (E chissà la faccia deglieredi, all’apertura dello scrigno).

Nacque una coppia comica che sembravaindistruttibile, e si sfasciò dopo dieci anni.Tra molti pettegolezzi, se non altro perché –son sempre parole di Jerry Lewis – “faceva -mo soldi come la zecca di stato”. Stare sulpalcoscenico, andare in tournée, firmare au-tografi, girare film insieme logora. Alla fineuno non sopporta più l’altro, suggerisce NeilSimon nella commedia “I ragazzi irresistibi-li”. Al cinema, diretti da Herbert Ross, i vec-chi attori del vaudeville erano Walter Mat-thau e George Burns: uno si lamentava per glisputi – “lo fai apposta a pronunciare certeparole” – l’altro per le ditate contro il petto.Per fare ridere serve un comico e una spalla,e non sempre i due sono d’accordo sui rispet-tivi meriti. Figuriamoci quando uno canta el’altro disturba, inciampa, fa il verso, interlo-quisce con voce infantile e goffaggine daschlemiel, il giovanotto pasticcione e disa-dattato della tradizione ebraica.

“L’italiano non è male, ma che me ne fac-

cio della scimmia?”, commentò Louis. B. Ma-yer, boss della Metro Goldwyn Mayer (era na-to Eliezer Meir a Minsk, anno 1882) dopo averofferto loro 40 mila dollari a film. La Para-mount ne offrì 50 mila, Jerry Lewis – nato Le-vitch – accettò. “Quel che decide il mio socioè legge”, disse Dean Martin all’agente che vo-leva rilanciare con la Mgm. Non ci furono, fi-no al litigio del 1956, neppure i mancati rico-noscimenti che causano rancori: era infattiopinione universalmente riconosciuta che“l’italiano” fosse la migliore spalla di sem-

pre. Mai un tempo sbagliato in dieci anni (ro-ba che si misura in respiri, non con i minutidell’orologio). Solo complimenti: “Io da solonon avrei potuto far nulla, Dean Martin sa-rebbe potuto andare in scena da solo. Ma nonera sicuro del proprio talento. E il pubblico ècome una belva: se sente la paura ti sbra-na”.

“I bambini quando canto io escono nell’a-trio a comprare i popcorn”, suggerì la vocedell’insicurezza (mica tanto vero, a giudicaredal successo di “That’s amore”). Intanto Jer-ry Lewis si era innamorato del cinema, an-che da regista. Aveva a noia lo slapstick, lesmorfie, le torte in faccia. Voleva imitareCharlie Chaplin o Ernst Lubitsch, capaci difar ridere su Hitler e sull’Olocausto. Da qui ilfilm “The Day The Clown Cried”, girato nel1972. Nessuno lo ha visto, a parte qualcheframmento. “Bruttissimo, imbarazzante, tre-mendo, voglio che nessuno lo veda mai”, dis-se il regista qualche anno fa. Speriamo lo ab-bia ribadito nel testamento: uno che ci ha fat-to tanto ridere, maniacale nella sua perfezio-ne anche se giocava al picchiatello, di certonon sbaglia.

Mariarosa Mancuso

“Il sole poi torna”Il grande fermento per l’eclissi

di sole in America e unastoriella british che ci dice tutto

PREGHIERAdi Camillo Langone

Ai terroristi, i vipdell’arte e dell’archi -tettura italiana oppongono un cata-logo di barzellette. Invece delle bar-riere di cemento, nelle vie crucialiMichelangelo Pistoletto vorrebbemettere orti rialzati e Stefano Boerigrossi vasi contenenti querce. Forseadesso vivono su Marte e si sono di-menticati che gli italiani sono aller-gici alla manutenzione, all’attenzio -ne, alla cura, e che vasi e cassoni siriempirebbero presto di rifiuti,svuotandosi di verde. Mi dovrebberopoi spiegare (questo me lo dovrebbe-ro spiegare anche i fautori delleNew Jersey) com’è possibile sigilla-re le città senza che asfissino, comepensano di impedire il passaggio aifurgoni delle stragi consentendo in-vece il passaggio dei furgoni delleconsegne (e dei taxi, delle ambulan-ze, dei mezzi delle forze dell’ordi -ne…). Mimmo Paladino supera tuttiproponendo barriere formate da cor-ni portafortuna a Napoli, idea per laquale bastava De Magistris, e da ditimedi a Milano, serializzazione deldisperante ditone piazzato da Mauri-zio Cattelan in Piazza Borsa. Imma-ginarsi di battere un nichilismo conun altro nichilismo: quando l’ho let-to non sapevo se ridere, se piangere,se ammirare il primo tentativo di o-meopatia duchampiana. Tornasseronelle loro Biennali, i vip dell’arte: lìpossono continuare a giocare masenza conseguenze.

C’è grande fermento negli Stati Unitiper l’eclissi solare, visibile totalmen-

te in una fascia al centro-nord e parzial-mente più a a sud e a nord. La prima dal1918. Un divertente aneddoto sull’eclissitotale del 20 giugno 1955 riguarda l’insignebiologo, genetista ed evoluzionista ingleseJohn Burdon Sanderson Haldane (per gliamici era solo JBS – geibiess), anche ungrande divulgatore di scienza. Recatosinelle montagne dell’India per studiare l’e-voluzione di interessanti popolazioni diinsetti e uccelli in vallate isolate dal restodel mondo, sapeva che un’eclissi totale disole si sarebbe verificata nei giorni suc-cessivi, appunto il 20 giugno. Ospitato dacortesi indigeni in un piccolo villaggio diuna popolazione molto isolata, che all’epo -ca, senza peli sulla lingua, si sarebbe defi-nita “primitiva”, era curiosissimo di sco-prire quali speciali credenze i suoi ospitiavessero su un’eclissi di sole. Attraverso ilsuo interprete, cominciò a chiedere in giroche cosa ne pensassero. Ottenne solo mo-nosillabi e alzate di spalle. Persuaso chel’interprete non si fosse ben spiegato, deci-se di aspettare il fatale momento in cui ilfenomeno si sarebbe manifestato in tuttala sua possenza. Viene il fatidico momen-to, i circa sette minuti di totale oscuramen-to. Il capo tribù e i notabili sono sedutisotto un misero baldacchino e si prepara-no all’insolitissimo spettacolo. Haldanefreme, aspetta i minuti precisi e, nel belpieno del fenomeno, insiste con l’interpre -te perché chieda che cosa pensano. Il capotribù, senza distogliere gli occhi dal discooscurato, risponde laconicamente con unabreve frase. L’interprete traduce: “Di’ allostraniero che non si agiti, il sole poi tor-na”. Saggezza dei piccoli popoli? Oppureun’intenzionale rabbuffo all’invadente einopportuno straniero? Haldane mai loseppe.

Negli anni successivi, nel 1961, prese lacittadinanza indiana e morì a Bubhane-swar nel 1964, dopo aver abbandonato ilmarxismo ed esser diventato un ammirato-re della dottrina della non violenza diGhandi e di Nehru. Dotato di grande senseof humour, molte sue battute sono statetramandate alla posterità. Le più gustosesono, a mio parere, le seguenti. Una signo-ra gli chiese che cosa la biologia gli avesseinsegnato su Dio. Haldane rispose: “Che èsmisuratamente affezionato agli scarabei”(He is inordinately fond of beetles). Infatti,ne esistono oltre trecentocinquantamilaspecie diverse. Sul mondo e la natura dis-se: “Sospetto che l’universo sia non solopiù strano di quanto noi immaginiamo, mapiù strano di quanto noi possiamo arrivarea immaginare”.

Ateo convinto, Haldane disse che ogninuova invenzione, dal fuoco al volo, erastata considerata un’offesa a un qualchedio. Infine va riportata, non una battuta,ma una delle sue intuizioni più brillanti.In una stazione ferroviaria di Londra, nelsettembre del 1939, una moltitudine di gio-vani in divisa si avviavano al fronte. Uncollega umanista chiese al grande biologocome la selezione naturale darwiniana po-teva spiegare quel comportamento, suscet-tibile al rischio di morire. Haldane rispo-se: “Nessun paradosso evoluzionistico, seil loro sacrificio contribuisce alla soprav-vivenza di almeno due fratelli oppure ottocugini”. Dopo decenni, questa intuizionedivenne il fulcro della cosiddetta fitnessinclusiva, e della sociobiologia. L’idea è: lasopravvivenza che conta è quella dei geniin comune, portati entro una parentela,non necessariamente solo quelli del singo-lo individuo. William Donald Hamiltonperfezionò la teoria anche con rigoroseequazioni matematiche e Richard Da-wkins la portò all’estremo con l’ipotesi del“gene egoista”. Non sottoscrivo alla teoriae mi limito a constatare che si tratta pro-prio di una storia squisitamente inglese.

Massimo Piattelli Palmarini

Il 19 agosto un giovane ha assalitoe ferito a coltellate otto persone

nelle strade di Surkut, una cittàdella Siberia occidentale, ed è sta-to

ucciso dalla polizia. Una rivendicazionedell’Isis lo ha definito “un nostro solda-to”, le autorità russe dubitano ufficial-mente della sua ispirazione terroristica,altri lo descrivono come figlio, nemmenoventenne, di un militante daghestano. Co-me che sia, l’episodio vale a ricordare chela Russia è fra i paesi più minacciati dalfamigerato ritorno dei foreign fighters, inparticolare dei caucasici. Come si sa, i ce-ceni sono stati il nerbo e, con Al Shishani,la testa delle azioni militari del sedicenteCaliffato. Poche sorti si mostrano oggi tra-giche come quelle degli eredi delle dueguerre cecene contro la Russia degli anniNovanta del secolo scorso. Si pretendevaallora che i ceceni fossero irriducibili aqualunque disciplina gregaria e fieri del-la propria personale indipendenza, fino ache il nemico russo non li richiamasse,come un uomo solo, alla resistenza. Dopodi allora la cronaca porta periodicamentealla ribalta il loro nome nelle circostanzepiù dolorosamente paradossali. Dopo es-sere stati la prima fila dell’invasione so-vietica in Afghanistan i combattenti cece-ni rientrati in patria furono ancora unavolta nemici giurati di Mosca in nome diun patriottismo del Caucaso del nord pri-ma, sfiorando per un breve tempo l’indi -pendenza, poi sempre più in nome dell’i-slam. Perduto, a un costo micidiale, loscontro militare con la “nuova” Russia,una loro fazione, con Khadirov padre efiglio, si acconciò a diventare, insiemeservile e riottosa, satellite della Russia diPutin mentre un’altra parte continuavauna guerriglia interna e soprattutto porta-va nella diaspora islamista le proprieesaltate qualità militari, concentrandolealla fine nello Stato islamico. Intantotruppe della Cecenia di Khadirov si offri-vano al servizio delle imprese militariesterne russe, come sul fronte ucraino.Vita e morte di Anna Politkovskaja stannoal crocevia finale fra queste due epochececene. Si chiamano in causa sicari cece-ni nelle prudenti indagini contro gli as-sassinii di dissidenti russi. Quanto al de-stino dei singoli ai quattro angoli delmondo, la cronaca è altrettanto coster-nante. C’erano degli adolescenti cecenidiventati norvegesi fra i ragazzi assaltati,e sterminati in tanti, da Breivik nel 2011 aUtøya, e uno di loro, un quindicenne, ten-tò di opporglisi a sassate, perché suo pa-dre, disse poi, gli aveva insegnato a oppor-si coraggiosamente alla sopraffazione.Erano due fratelli ceceni gli attentatoriche nel 2013 uccisero tre persone alla ma-ratona di Boston, e un poliziotto pochigiorni dopo: uno fu ucciso a sua volta dal-la polizia, l’altro è in carcere condannatoa morte in primo grado, ha detto di avercreduto che gli Stati Uniti conducesserouna crociata mondiale contro l’islam, hadetto ai superstiti e ai feriti di essere pen-tito “per le vite che ho distrutto, per lasofferenza che vi ho causato, per il dannoche vi ho provocato, un danno irreparabi-le. Prego per il vostro conforto, per la vo-stra guarigione”. E’ stato un giovane cece-no, professionista della lotta, ad aggredi-re, con due connazionali, e a uccidereNiccolò Ciatti, un suo quasi coetaneo fio-rentino, in una discoteca a Lloret de Mar,Costa Brava, alla vigilia di ferragosto. Al-l’avvento del sedicente Califfato e dellasua infame persecuzione della minoranzayazida venne fatto di pensare che nellospirito della prima resistenza antisovieti-ca i ceceni avrebbero solidarizzato col po-polo yazida e offerto epicamente il lotobraccio alla sua difesa: è successo il con-trario. E’ successo più volte in Germaniache rifugiati yazidi e rifugiati ceceni sia-no venuti sanguinosamente alle mani, ne-gli ultimi anni. Anche così bisognerà farela storia a noi contemporanea, chi verràpoi.

I DIARI DI DIBBA

Dalle stoviglie a NerudaDalle stoviglie passai a Neru-

da. Quel giorno lessi e tradussi Tu risa,una delle mie poesie preferite. A mezza-notte dissi a Cristina che era il mio com-pleanno. “Buon compleanno” disse lei.Subito dopo si rimise a studiare. Furonogli unici auguri che ricevetti quella notte.

Alessandro Di Battista,“A testa in su”, Rizzoli, pag. 30

BORDIN LINEdi Massimo Bordin

Come promesso, oggiquarta e ultima puntata sul-l’omicidio Regeni e la co-siddetta pista inglese. Nelfrattempo a puntare il ditosu Cambridge si è aggiunto, a un ex capodi stato maggiore e consigliere politico dipalazzo Chigi e a un ex capo dell’intelli -gence interna,anche un ex ministro delladifesa, Arturo Parisi. “Scrivono di Cam-bridge giornalisti che in genere si occu-pano d’altro” stigmatizza in rete il re-sponsabile italiano di Amnesty. Non èperò il caso di Alberto Negri, grande e-sperto di cose orientali, che per la mortedi Regeni evoca la categoria dei “solitisospetti”, avversari della politica medio-rientale degli Usa e degli interessi italia-ni nell’area: Francia e Inghilterra. Un re-make di Suez 1956, la nostalgia dei pro-

tettorati perduti sono le suggestioni, maanche qualcosa di più, che contestualiz-zano la “pista” oltre alla reticenza del-l’antica università – che però può esserespiegata come una reazione altezzosa auna non smagliante figura comunque fat-ta- e al ritrovamento del corpo il giornodegli accordi, saltati, fra Italia ed Egitto.Regeni, però, non era un dissidente egi-ziano e farne sparire il corpo può nonessere apparsa una buona idea aglisgherri dei servizi egiziani. Dunque la pi-sta inglese è suggestiva ma non ha riscon-tri , ricorda per molti versi le troppe in-dagini su “mandanti eccellenti” di cuicerti pm sono specialisti. Resta il proble-ma politico dei rapporti internazionalidel nostro paese, per i quali gli amba-sciatori in genere hanno una certa utili-tà, ma sarebbe deprecabile che qualchecarabiniere piazzasse microspie a Buc-kingham Palace.

Nerbo e testa delle azioni militaridel sedicente Califfato, la

cronaca è tutt’altro che coerente

La resistenza cecena

TUTTO E ’ IN IZ IATO A NORTHUMBERLAND. PEDOFIL IA E ABUS I

La comunità pachistana in Inghilterra protetta dal pol. corr. antirazzistaLondra. Quando la polizia del Northum-

berland ha portato a termine l’operazioneSanctuary, arrestando una gang per abusisessuali su teenager vulnerabili a Newca-stle, lo scandalo è stato triplo: per la natu-ra del reato; perché la polizia ha pagato unpedofilo 10 mila sterline per fare da infor-matore e infine per l’etnia delle personecoinvolte. Sedici dei diciassette condanna-ti sono di etnia mediorientale, in partico-lare pachistani. La caratteristica è comu-ne alla maggior parte dei casi di questotipo, con un sistema collaudato per ade-scare le ragazzine: le vittime vengono ge-neralmente da famiglie povere in zone po-st-industriali, sono bianche, il primo con-tatto avviene di solito in negozi o kebabshop dove gli viene offerto cibo gratis, su-peralcolici, sigarette e droghe: vengonopoi stuprate e costrette a fare sesso conaltre persone per denaro. Uno schemaconsolidato, diverso da quello usato da al-tri pedofili scoperti nei recenti scandalinel mondo della chiesa, del calcio, dellapolitica e della televisione. Lo stesso meto-

do è stato usato in altre città del nord del-l’Inghilterra, da gruppi composti in preva-lenza da pachistani a Rochdale, Rothe-rham, Aylesbury, Derby, Halifax, Kei-ghley, Peterborough e Telford. L’etnia deiresponsabili è un problema, dato che inmolti casi la paura di sembrare razzisti farallentare le indagini. Così avvenne a Ro-chdale, dove un editoriale del Times solle-vò il velo politically correct. Secondoun’inchiesta del quotidiano londinese, su56 persone arrestate dal 1997 al 2011 perquesta fattispecie di reato, 53 sono asiati-che, di cui 50 musulmane – la maggior par-te di loro di origine pachistana.

A margine dell’operazione Sanctuary, iltema è stato sollevato da Sarah Champion,deputata per Rotherham e ministro ombranel cabinet di Jeremy Corbyn per le donnee l’uguaglianza, impegnata nel contrastoagli abusi. Nella sua città, secondo un re-port che Theresa May realizzò da ministrodell’Interno, 1.400 vittime sono state igno-rate dalle autorità per timore di apparirerazzisti. Champion ha scritto un articolo

per il Sun, aprendo così l’editoriale: “IlRegno Unito ha un problema con gli uomi-ni di origine pachistana che stuprano esfruttano ragazze bianche. Ecco. L’ho det-to. Mi rende razzista? O sono solo pronta adefinire questo terribile problema perquello che è?”. La presa di posizione netta,per di più su un tabloid considerato di de-stra, ha fatto sbuffare molti colleghi diChampion. La deputata, nel cui seggio c’èuna nutrita comunità asiatica, ha tentatoin maniera maldestra di smarcarsi dall’ar -ticolo, dicendo che fosse stato modificato.Ma dal Sun rispondono che il suo staff haapprovato l’ultima versione. L’impacciatocambio di direzione della Champion nonha impietosito Jeremy Corbyn, che l’ha co-stretta a dimettersi dal suo ruolo.

Quello sollevato dalla deputata di Ro-therham è un tema caldo, di cui l’opinionepubblica britannica deve parlare, perchéfondato su dati numerici reali e schiac-cianti che caratterizzano questa fattispe-cie di reato. Il fatto che la critica arrivianche da sinistra, da una persona che com-

pie un harakiri politico vista la demografiadel suo collegio elettorale, pur di difende-re le vittime, rende l’idea della dimensio-ne del fenomeno. Nessuno ha agitato lospettro del settarianismo quando alcunipreti cattolici vennero considerati respon-sabili di abusi sui minori. Del resto, nessu-no accusa l’intera comunità pachistana diessere responsabile del reato, come non losono tutti i sacerdoti, tutti i deputati di We-stminster o tutti gli allenatori dei settorigiovanili. Tuttavia, proprio come la chiesacattolica, la politica e la FA hanno cercatodi riformarsi, iniziando dal porsi il proble-ma, così dovrebbero fare i gruppi che rap-presentano le etnie coinvolte, senza agita-re lo spettro del razzismo. Cominciandocol discutere la visione che molti hannodelle donne bianche e della loro libertà,una concezione che è alla radice dei crimi-ni commessi. Un imam di Leeds, QariAsim, l’ha fatto nel suo sermone del vener-dì, invitando i fedeli a denunciare i conna-zionali sospettati di abusi.

Stefano Basilico

PICCOLA POSTA - DI ADRIANO SOFRI

Page 3: IL FOGL IO · 2020-02-03 · guerra con il clan dei Mercer, finanziatori del presidente e protettori dello stratega New York. Una serie di scontri di potere concentrici ha trasformato

ANNO XXII NUMERO 197 - PAG 3 IL FOGLIO QUOTIDIANO MARTEDÌ 22 AGOSTO 2017

LIBRIAttilio Brilli

IL VIAGGIO DELLA CAPITALEUtet, 176 pp., 15 euro

In un imprecisato mattino di primaveradel 1865 i fiorentini si svegliarono di

soprassalto, in un misto di euforia e ditimore, alle deflagrazioni delle prime mi-ne della Florence Land and Public WorksCompany che segnavano l’avvio dell’ab -battimento delle mura medievali di quad’Arno”. Prende avvio così, tra bombe e“boati sordi e tonitruanti”, il viaggio diAttilio Brilli (ripubblicato ora da Utet)tra le capitali d’Italia. Al plurale, natu-ralmente, visto che in quei fatidici e fata-li anni, in pieno Risorgimento, il neonatoRegno a trazione sabauda vide la propriacapitale scendere da nord a sud, con latappa intermedia di Firenze. Un percor-so quasi mistico per raggiungere Roma,la meta agognata e promessa, tutta peròancora da conquistare. Uno potrebbe im-maginarsi la festa, le bandiere, le folle intripudio. Dopotutto l’Italia era stata più omeno fatta, certo mancavano ancora ter-ritori irredenti a nord e la caput mundi asud, ma insomma: il lavoro era a buonpunto. E invece no, perché quegli sposta-menti di dignitari, corte e ministri, disemplici funzionari e – soprattutto – dellamacchina burocratica statale, segnaronoun qualcosa di “traumatico”, come scrivel’autore. E non solo per la capitale vec-chia, Torino, quasi offesa e privata dellasua stessa plurisecolare ragion d’essere.Qui, avrebbe scritto poi Pellegrino Artu-si, “l’infausta notizia diede luogo a tumul-ti da spargimento di sangue”. Cambiò la

geografia di città pressoché rimaste im-mutate nei secoli. Le mura fiorentine, ap-punto, abbattute per fare spazio ai boule-vard di segno parigino, ampi e belli eadatti alle passeggiate dei nuovi signori edelle loro compagne. Perfino Lev Tolstoj,rimuginando anni dopo quei fatti, se nesarebbe rammaricato. “Firenze, è vero,anche a me piace per la modestia e lagradevolezza. Al mio tempo d’improvvisosi cominciò a sciupare, era diventata ca-pitale”. E nulla è questo in confronto aciò che toccò a Roma, la città santa chesentiva in lontananza ormai i bersaglieridi Cadorna avvicinarsi. Brilli ricorda in-nanzitutto cos’era e com’era Roma a metàOttocento, e lo fa servendosi dell’attentadescrizione del viaggiatore americanoJames Jackson Jarves, secondo il quale“le strade che conducevano alla città deiPapi si snodavano in una pianura punteg-giata di ruderi e di polle dove s’acquatta -va la malaria, e la città stessa appariva al

viandante, nel gran mare della Campa-gna, come un glorioso relitto aggrappatoalle propaggini cretose sulle quali sem-brava aver fatto naufragio”. Una rovina,un relitto della storia circondato dal nul-la. Ed è in questo contesto che “i barbarimunicipali” si mettono all’opera dopo il1870. Si tenga presente che all’epoca, e lodescriverà bene Henry James per boccadi Isabel Archer, davani alla facciata diSan Giovanni in Laterano c’era un’im -mensa spianata d’erba, cioè un campo.Cambia tutto, la città diventerà più chias-sosa, la speculazione edilizia porterà al-la nascita dal nulla di inguardabili “ca -sermoni”, soprattutto nei nuovi quartieriattorno a Santa Maria Maggiore, lì dovenel frattempo è stata aperta la stazioneferroviaria “dei Termini”. Case ma an-che palazzi, perché il corpulento appara-to del nuovo stato esige sedi dove poterlavorare. Nel frattempo, i ministeri ven-gono ospitati qua e là in città, soprattuttonei tanti monasteri che segnavano lamappa di Roma. In dieci anni l’Urbecambierà volto in modo drastico, tant’èche i viaggiatori d’un tempo, quelli chenotavano le strane divise degli zuavi pon-tifici lungo il Corso, ora quasi non la rico-nosceranno. Folle ai fori, omnibus incentro, enormi viali in costruzione. La“nauseabonda” città vecchia descritta daZola stava lasciando il posto a qualcosadi nuovo che forse sarebbe rimasto in-compiuto.

EDIT ORIALI

Delrio e la verità sugli appalti bloccatiTre quarti dei bandi di Anas sono fermo per ricorsi. Colpa delle regole

Il ministro delle Infrastrutture, Grazia-no Delrio, intervistato dall’agenzia

Agi a proposito delle lungaggini chebloccano gli appalti e della “litigiosità”che genera contenziosi infiniti, con unaforte penalizzazione di tutto il sistemaitaliano, ha detto delle cose giuste e sa-crosante, in mezzo ad altre quantomenodiscutibili. Cominciamo da quelle discu-tibili. Dice il ministro che gli investimen-ti fermi in Italia sono colpa, anche, della“grande litigiosità delle imprese che stabloccando miliardi di lavori”. Sostieneche “quando vanno all’estero” questeimprese “non creano problemi”, mentrequando si tratta di lavorare nel nostropaese, “finiscono per bloccare tutto”. Maforse la “colpa” non è tutta della litigiosi-tà delle aziende: si tratterebbe di incom-prensibile autolesionismo. Forse il pro-blema è che in altri paesi il sistema di

gare e di assegnazione è più lineare, tra-sparente, veloce. Lo sa anche Delrio, cheinfatti ricorda che “tra il 75 e l’80 per cen-to dei bandi di gara dell’Anas sono fer-mati dai ricorsi”. E dunque, annuncia lostesso ministro che si è al lavoro per pre-disporre norme atte a “fare in fretta ibandi di gara, assegnare velocemente gliappalti, far ripartire i cantieri”. E’ un no-do essenziale da risolvere, non solo perquel che riguarda Anas, ma per tutti i la-vori pubblici la cui inefficienza e costirisultano gonfiati proprio dal “fattoretempo”, più che dalla presunta “litigiosi -tà” delle imprese. La quale, se è esiste, èdeterminata dalla farraginosità dellenorme. Ma a proposito, caro ministro: tut-te quelle assurde norme anticorruzione,ma che invece sono soltanto burocrazia,e che tanto piacciono a una parte dellasua maggioranza?

Maroni, il sindacalista del NordIl governatore lancia un manifesto antisalvinista e contro la politica del rutto

Roberto Maroni non si fa problemi adire quello che pensa, anche sul

suo segretario di partito, perché – spie -ga – non ha da fare carriera. Sarà anchevero, ma Berlusconi vedrebbe inveceun futuro radioso per il presidente del-la regione Lombardia. Magari da candi-dato del centrodestra. Il governatore,tuttavia, risponde di non volerne piùsapere di Roma. Ha già dato, ed è perquesto che non si è più ricandidato alParlamento. Tuttavia, la presa di di-stanza dal core business di Matteo Sal-vini – antieuropeismo, nazionalismoitalico – lascia intendere che occuparsidella propria terra non significa smet-tere di fare politica ad alto livello. Ma-roni in un’intervista a Libero ha trac-ciato una sorta di manifesto dell’anti -salvinismo e contro la politica del rut-to. “Salvini ha dei pasdaran anti-Ue

che lascia andare a briglia sciolta, maio sono convinto che al momento di si-glare l’alleanza di governo l’Europa sa-rà l’ultimo dei problemi”. Dunque laLega non è più sovranista? “Risponde -rò quando avrò capito cosa vuol diresovranismo”, dice Maroni, che rimpro-vera a Salvini di voler togliere i riferi-menti al Nord nella simbologia leghi-sta. Ma “se togli il riferimento territo-riale, perdi forza e voti”. Infine, Maroninon vede benissimo neanche Salvinicome premier. Se vuole candidarsi“inizi a lavorarci”. Uno smacco per unocome il segretario della Lega che inve-ce pensa di essere già pronto. Insomma,se la Lega dovesse diventare davveronazionale e abbandonare la questionesettentrionale, quantomeno è già pron-to un altro sindacalista a tutelare gliinteressi del Nord.

Trattativa senza “Faccia da mostro”Giovanni Aiello è morto da incensurato, dopo tante accuse indimostrate

Si porta nella tomba tanti segreti”. C’è dagiurare che gran parte dei commenti

sulla morte di Giovanni Aiello saranno diquesto tenore, sulla falsariga di quanto si èdetto e scritto dopo la morte di qualunquepersona coinvolta o tirata in mezzo in unqualche “mistero italiano”, da Giulio An-dreotti a Francesco Cossiga, passando perLicio Gelli. In questo caso si tratta di un per-sonaggio minore, che però, grazie alle de-posizioni in serie dei pentiti, è passato dal-l’essere uno sconosciuto poliziotto in pen-sione a diventare un oscuro agente dei ser-vizi segreti (deviati) coinvolto nei criminidella Trattativa stato-mafia. Giovanni Aiel-lo, passato alla storia con il nome di “Facciada mostro” a causa di una cicatrice sul vol-to, è stato accusato di ogni nefandezza: dal-le stragi di Capaci e via D’Amelio all’ omici -dio di Nino Agostino, dall’assassinio diNinni Cassarà al fallito attentato dell’Ad -

daura, dalle bombe sui treni all’uccisionedi un bambino. Aiello era sempre presentesu ogni scena del crimine, dicono i pentiti aintermittenza. Di “Faccia da mostro” haparlato anche Massimo Ciancimino, dicen-do che era un amico del Signor Franco, l’al -tro agente segreto che nessuno ha mai tro-vato e neppure identificato. Mai una di que-ste accuse mosse da almeno quattro procu-re ha trovato conferma, solo archiviazioni.Ieri Aiello è morto, da incensurato, dopo unmalore mentre sistemava la barca a riva inun paesino calabrese, dove viveva. Imme-diatamente sono partiti i sospetti di com-plotto e le richieste di autopsia, dispostadalla procura di Catanzaro. E’ giusto che sifaccia per fugare ogni dubbio, altrimenti ilrischio è che, come è accaduto con la salmadel bandito Giuliano, tra 50 anni ci sarà unaltro Antonio Ingroia che farà riesumare ilcadavere per trovare i segreti nella tomba.

Renzi politico e Renzi autore: una “contronarrazione” utileNON SOLTANTO UN BILANCIO, MA UN RILANCIO PROGRAMMATICO. I NEMICI, LA BUROCRAZIA, LO STILE, LE COSE DA FARE

Ma quello di Renzi è anche di più:resoconto, bilancio, ma anche program-ma, trattandosi di un politico che nonscrive alla fine della sua carriera, comeper esempio, il grande presidente dellaRestaurazione François Guizot, che altermine della sua vita scrisse quel bellis-simo libro che sono i “Mémoires pur ser-vir à l’histoire de mon temps”, opera innove tomi (ma lui era uno storico di pro-fessione). Parliamone dunque.

Da dove preferisce cominciare?Le dico che vorrei arrivare a indagare

il rapporto tra genesi autobiografica, va-lore oggettivo dell’opera, testimonianzadi un’esperienza, prova della qualità del-l’uomo e della bontà dei suoi progetti. Eche comincerei dal contenuto.

Dunque, di che parla il libro?Di quel che Renzi ha fatto e di quel

che l’autore vorrebbe fare (ricorre spes-so l’espressione “il prossimo governo”).Ma il libro è anche una difesa nei con-fronti dei critici della sua azione e unattacco diretto ai suoi avversari. Un libropieno di fatti (le intercettazioni di Wood-cock, ad esempio), che si espande su mol-ti temi, sui quali si esprime con intelli-genza e con buono stile.

Lo stile: lei fa parte da molti anni dellagiuria del principale premio letterario ita-liano, il Premio Strega. Perché non parlaanche delle qualità letterarie dell’autore?

Un libro ben costruito, che cominciadalla fine, si sviluppa in crescendo. Stilenervoso, asciutto nella cronaca, immagi-nifico, sovrabbondante e un po’ retoriconei programmi. Nel tentare di convince-re, l’autore vuole stravincere. Il dubbionon sta di casa in questo libro, ma qual-che volta si vede che l’autore ne ha avuti,di dubbi. Sincero, senza troppi calcoli,ma con qualche ingenuità. Direi che nonl’ha scritto quello che una volta si chia-mava un “negro” (oggi “ghostwriter”). Esi vede che non è soltanto l’Italia che nonsi ferma (come nel titolo), ma anche Ren-zi. Scrittura in stile assertivo, non dialo-gante. L’autore è nello stesso tempo sod-disfatto della sua inventiva linguistica(“rottamazione”, “stai sereno”, “gufo”) eprigioniero di essa (si difende afferman-do che erano affermazioni estempora-nee, ingigantite dai mezzi di comunica-zione, come se non fosse consapevoledella forza di propagazione degli slogan,se provengono dall’alto).

Insomma, Renzi è promosso a pieni voti,per lo stile?

Piano, piano. In molte pagine si hal’impressione che l’autore affastelli osemplifichi troppo. Anche se padroneg-gia bene la materia che tratta, è spessoefficace, ma sovraccarica la pagina, percercare di convincere. Il libro è intessutodi buone citazioni e di puntuali dati sta-tistici, ma dimostra la difficoltà dell’au -tore nel selezionare, specialmente quan-do parla dei suoi scacchi: così nelle pagi-ne sulla scuola e in quelle sulla burocra-zia, dove perde lucidità, così comequanto “intigna”, in modo pignolo, pole-mizzando, nei confronti dei suoi critici,specialmente i suoi amati “editorialisti”.Insomma, Renzi si “autorappresenta”.

Come? Che vuol dire?Che questo è un libro in cui l’autore si

svela, pare tutto fuorché un calcolatore,se mai un improvvisatore. Vi si presentacome un lottatore solitario, assistito dapochi fedelissimi, in tensione con tutti,burocrazia, sindacati, giornali, Cinquestelle (non con Berlusconi, a cui è riser-vata una critica che direi pacificata). IlRenzi di cui l’autore presenta l’immagi -ne è quello di una persona continuamen-te sotto attacco, su tutto, dall’uso dell’ae -reo di stato al padre, con accenti sinceri(ma un po’ da libro “Cuore”) sulla fami-glia, e con un sincero desiderio di “vede -re dentro” la società, di capire gli altri,di mettersi in contatto con la gente. Alfondo, nel Renzi rappresentato c’è il mo-dello “sindaco”.

Ma lui è stato sindaco di Firenze.Ma questo non vuol dire necessaria-

mente che, diventato presidente delConsiglio dei ministri, dovesse cercaredi replicare il modello nello stato, comel’autore del libro afferma. Si potrebbedire, infatti, che questo è un errore, co-me guidare un grosso autobus allo stes-so modo di una utilitaria. Sappiamo

quanto i fiorentini siano orgogliosi dellaloro città, ma anche loro debbono am-mettere che le proporzioni sono diverse.“Sindaci prestati alla politica romana”,

scrive a un certo punto. L’immagine –ritengo – è quella di Giorgio La Pira (sucui Renzi scrisse la sua tesi universita-ria in Storia del diritto italiano), anchese La Pira fu prima per un quinquennioprestato alla politica romana, poi, du-rante un ventennio (con una pausa) sin-daco di Firenze. E veniva da un venten-nio di severi studi di Diritto ecclesiasti-co, di cui era professore.

Tornando a quel che diceva prima, su unRenzi sempre in lotta con gli avversari, èpossibile che un politico tanto presente suimedia non fosse consapevole della inesora-bile pressione degli oppositori?

Attento. Ho parlato del modo in cuil’autore del libro dipinge il protagonistadel libro, non di come sono andate dav-vero le cose. Non escludo che nella rap-presentazione vi sia una componente diartificio retorico: il vincitore-perdenteche si rappresenta in lotta continua conun ambiente avverso diventa più eroicose l’ambiente gli è ostile. E Renzi hascritto il libro per raccontarsi, ma anche

per raccogliere maggiori consensi.Finora ha parlato dello stile e del modo in

cui Renzi si autorappresenta. Passiamo oraal contenuto.

Tre punti sono chiari. Il desiderio dicambiamento, l’idea che non occorraperdere tempo, che bisogna fare in fret-ta, infine la voglia di realizzare, nono-stante i nemici.

Che sono?Gli avversari presentati nel libro sono

molti, alcuni reali, altri piuttosto rispon-denti a stereotipi. I salotti romani. I pa-

lazzi del potere. I piani alti delle reda-zioni. Gli addetti ai lavori. Gli editoriali-sti monotoni. Si vede dal libro – ma saràpoi sempre vero? – che Renzi non ha

avuto un buon dialogo con le stanze delpotere, che gli piaceva andare tra la gen-te, dialogare specialmente con i giovanidi successo, gli innovatori, oppure con ipoveri, i derelitti, quelli colpiti dalla sor-te, in un afflato tra lapiriano e deamici-siano.

La burocrazia è tema che lei ha studiato alungo. Come giudica il modo in cui Renzi lagiudica?

Renzi parla sinceramente della “miarottura con larga parte della classe diri-gente della burocrazia”. La giudica bor-bonica e grottesca. Dice: “Ho dovutosmantellare questo sistema”, col qualenon si “attovaglia” e al quale non chiedepiaceri. Poi fa qualche correzione di tiro:dice che la struttura è sbagliata, ma ilpersonale è buono. Insomma, si vede chevi sono state scintille. Ha ragione quandoosserva che lo stato non è uno “spezzati -no di competenze, a compartimenti sta-gni”. Ma non si chiede quel che non hafatto in tre anni per migliorare la mac-china, né quel che ha fatto per peggiorar-

la (Diego Piacentini, da lui molto apprez-zato e nominato come Commissario, hamesso in luce la “complessità superiore”italiana nella gestione delle opere pub-bliche, che fu prodotta dal governo Ren-zi, in una intervista al Foglio del 12 ago-sto scorso).

E la magistratura?Qui l’autore è più cauto: dice – a mio

avviso giustamente – che i magistrati so-no complessivamente bravi, ma che visono alcune eccezioni. Che il sistema diautogoverno del Consiglio superiore del-

la magistratura potrebbe funzionare me-glio. Che i procuratori vanno rispettati,ma che i giudici debbono affrettarsi agiudicare.

Il Renzi presidente del Consiglio dei mini-stri si è molto lamentato dell’Europa. IlRenzi autore del libro non parla di Bruxel-les?

Ne parla, ne parla, e in modo moltocritico. Gli pesano i vincoli europei sullafinanza pubblica e sulle banche. Lamen-ta le “regole europee discutibili appro-vate dai nostri predecessori”. Critica – aRoma – “le imposizioni di una élite illu-minata – o presunta tale – che, priva divoti, si appoggia ai diktat europei” e – aBruxelles – il “livello micragnoso dellediscussioni sulla redazione del testo deidocumenti”, con “intere giornate sullevirgole”, che producono solo aria fritta.Racconta gli scontri praticamente mensi-li con i leader europei. Arriva a Bruxel-les “sbadigliando come sempre: in gene-re le riunioni sono noiosissime”. Attaccagli euroburocrati.

Secondo lei, sbaglia o ha ragione?Gli sfuggono quattro cose essenziali.

La complessità della costruzione di unpotere pubblico multinazionale. La cir-costanza che tutti i governi sono costrettia governare con le norme dei governiprecedenti, in cui possono innovare nonpiù dell’8 per cento. Il fatto storico chequei vincoli li hanno voluti anche italia-ni che speravano di far diventare il pro-prio paese più virtuoso legandolo al car-ro di altri paesi. Le diversità di stile poli-tico, quello “nordico” più attento al latoamministrativo, più padrone dei “dos -sier”, più burocratico.

Ma nel libro c’è anche il Renzi che vuolerilanciare l’ideale europeo.

Questo è l’aspetto positivo: non l’Italiache alza la voce, ma l’Italia che riprendela leadership che ha avuto con De Gaspe-ri, Carli, Ciampi, Padoa-Schioppa. Ma c’èun altro problema, quello delle assenze.

Che vuol dire?Voglio dire che in un libro bisogna

leggere sia il “detto”, sia il “non detto”.In questo libro si nota che nell’orizzontedi Renzi-presidente c’è il paese, il mon-do, le banche, i giornali, la burocrazia, igiudici, ma ci sono anche grandi assen-ti.

Chi sono i grandi assenti?Procediamo come i linguisti. Facciamo

un calcolo delle frequenze. La parolaParlamento ricorre una ventina di volte(comprensive di riferimenti al Parlamen-to europeo e a quello israeliano). Presi-dente della Repubblica dieci volte. Con-siglio dei ministri sette volte. Ci si po-trebbe chiedere. Non sono questi i conte-sti in cui lavora un presidente delConsiglio dei ministri?

Eppure, grazie a questi tre interlocutorinaturali, Renzi ha ottenuto i tre grandi suc-cessi che menziona nel libro, anche se hapagato lo scotto dei tre insuccessi.

Riduzione del carico fiscale e lotta al-l’evasione, nuova disciplina del lavoro ecantieri sono i successi. Banche, scuola,giustizia (“non abbiamo avuto abbastan-za coraggio sulla giustizia”), sono indicatinel libro tra gli insuccessi parziali. Quidovremmo aprire un altro discorso, quel-lo sulle singole politiche. Ad esempio,l’autore osserva, per la scuola: “Non siera mai vista una così poderosa immis-sione in ruolo”. Si meraviglia di non avercosì avuto applausi unanimi. Ma i proble-mi della scuola sono solo quelli degliinsegnanti e si risolvono con massicceimmissioni in ruolo?

Professore: lei ha accolto con atteggia-mento benevolo il governo Renzi e si èespresso favorevolmente su molte sue scelteanche quella referendaria. Adesso, dopoaver letto e giudicato il libro, come la pen-sa?

Atteggiamento benevolo, come lei di-ce, ma non acritico. Continuo, ottimisti-camente, a nutrire aspettative. Renzi è,malgrado i suoi errori, una risorsa delpaese, sulla quale contare. Tenga pre-sente che noi non scegliamo individual-mente la classe dirigente del paese e che– come si suol dire – “il convento nonpassa di meglio”. E noti che Renzi, inquesto libro, cita una frase del sindaco diAmatrice, un allenatore di calcio: “Quan -do vinco, vinco. Quando perdo, imparo”.Imparerà anche Renzi.

“Un libro ben costruito, che comincia dalla fine, si sviluppa in crescendo. Stilenervoso, asciuttonella cronaca, immaginifico, sovrabbondante e unpo’ retoriconei programmi”. “Tre punti sono chiari. Il desiderio di cambiamento, l’idea chenon occorra perdere tempo, che bisogna fare in fretta, la voglia di realizzare”

La Big Armada azzoppataDue incidenti navali in due mesi nel Pacifico. Che succede alla marina Usa?

Nello stesso giorno in cui iniziano lepiù grandi e contestate esercitazio-

ni militari nel Pacifico – le Ulchi-Free-dom Guardian tra Corea del sud e StatiUniti, che simulano la caduta della Co-rea del nord – un’altra nave da guerraamericana ha avuto un incidente. Diecimarinai sarebbero dispersi e almenocinque feriti dopo una collisione avve-nuta nello stretto di Malacca tra la UssJohn S. McCain – che fa parte della Setti-ma flotta della marina americana, ricor-date la famosa Big Armada di Trump? – euna nave cargo commerciale. La McCainha subìto danni piuttosto evidenti, ha im-barcato acqua, ed è stata ormeggiata alporto di Singapore in attesa di riparazio-ni. Il 17 giugno scorso la Uss Fitzgerald siera scontrata con un cargo filippinomentre navigava all’interno delle acqueterritoriali giapponesi. Erano morti set-

te marinai. Qualche giorno fa la Marinaha diffuso un comunicato nel quale an-nuncia i provvedimenti disciplinari neiconfronti di dodici membri del suo equi-paggio: “La collisione poteva essere evi-tata. Entrambe le imbarcazioni hannodimostrato scarsa capacità di navigazio-ne”. Nel frattempo, il cacciatorpedinie-re è stato messo in riparazione nel portodi Yokosuka. Due incidenti nel giro didue mesi non sono soltanto un danno diimmagine per la marina americana nelPacifico, in uno dei momenti di tensionepiù alta, sia per la Corea del nord sia perle mire espansionistiche cinesi nel Marcinese meridionale. E’ anche molto peri-coloso: due navi antimissile che dovreb-bero proteggere l’area dai lanci nordco-reani sono attualmente fuori uso. Forseperché qualcuno dormiva. Che cosa stasuccedendo alla marina americana?

(segue dalla prima pagina)

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ANNO XXII NUMERO 197 - PAG 4 IL FOGLIO QUOTIDIANO MARTEDÌ 22 AGOSTO 2017

Ponti, non muri

Roma.“I politici tedeschi sono i nostrinemici”. Sta tutta in questa dichiarazionedi Recep Tayyip Erdogan la crisi diplomati-ca che da mesi contrappone Germania eTurchia. L’attacco del presidente turco del-la settimana scorsa è infatti solo l’ultimadelle reciproche provocazioni cominciatedopo il tentato golpe del 14 luglio 2016. LaTurchia ha chiesto alla Germania, senza ot-tenerla, l’estradizione di oltre 400 cittadiniturchi sospettati di aver partecipato al col-po di stato; la Germania, dal canto suo, at-tende ancora di ricevere spiegazioni perl’arresto di dieci cittadini tedeschi, tra cuiil giornalista Deniz Yucel, accusati dallaTurchia di essere delle spie legate ai golpi-sti. Le reciproche ritorsioni non finisconoqui: a marzo la Germania ha negato l’acces -so sul suo territorio ai politici turchi impe-gnati nella campagna referendaria; la Tur-chia ha impedito la visita alla base Nato diIncirlik da parte di una delegazione di poli-tici tedeschi, salvo concederla per settem-bre dopo settimane di lunghe trattative. Sa-

bato scorso l’Interpol, su mandato turco, haarrestato lo scrittore turco-tedesco DoganAkhanli, poi rilasciato, mentre si trovava inSpagna, provocando la reazione irritata diAngela Merkel: “Non si abusa in questo mo-do dell’Interpol”, ha dichiarato a Rtl. I tonidella cancelliera non sono nuovi: il mesescorso, il ministro degli Esteri, Sigmar Ga-briel, aveva chiesto che la procedura dipre-accettazione della Turchia nell’Unioneeuropea fosse rivista, visto che le politichedi Erdogan sono “in flagrante contraddizio-ne con il nostro sistema europeo di valo-ri”.

L’atteggiamento della diplomazia tede-sca, solitamente poco incline a scontri, èstato letto da alcuni analisti come un ulte-riore indizio della nuova politica esteradella Germania. Secondo Mark Leonard,dello European Council on Foreign Rela-tions, il paese sta concludendo il percorsodi normalizzazione iniziato nel 1989, liberodal complesso di dover continuamente“rassicurare i partner internazionali su

quali sono le sue intenzioni”. Per questo loscontro con la Turchia è esemplare. Proba-bilmente, scrive Leonard, Erdogan non siaspettava una reazione così violenta: inGermania vivono circa 3 milioni di turchi,metà con diritto di voto, uno strumento dipressione non indifferente; ma in questa fa-se le leve economiche su cui può fare affi-damento la Germania sono di gran lungapiù influenti, e a Berlino mostrano di esser-ne consapevoli.

Valeria Giannotta, direttrice del Centroitaliano per la pace in medio oriente cheper anni ha insegnato all’Università di An-kara, spiega al Foglio che la Turchia hamolto da perdere in uno scontro economicocon i tedeschi: “L’economia turca si basasugli investimenti diretti esteri, e il primopartner è la Germania. Non sarebbe faciledi punto in bianco recidere i legami tra ledue economie, ma una graduale restrizionedegli investimenti danneggerebbe non po-co Ankara. Lo sta già facendo”. E allora per-ché Erdogan ha deciso di andare allo scon-

tro? “Lo scontro è a uso interno, e fa partedella retorica nazionalista del presidente.Il nazionalismo è però una componente piùrecente e meno importante nel consenso dicui gode Erdogan, che invece poggia sullagrande crescita economica degli anni Due-mila. Da solo non basta, ed è rischioso”.

Inoltre, continua Giannotta, lo scontrotra i due paesi non rappresenta una novità:“La Germania ha sempre tenuto una posi-zione poco aperta nei confronti della Tur-chia, probabilmente per bilanciare la gran-de presenza turca nel paese. Sono stati i te-deschi a rallentare il processo di integra-zione europea della Turchia, così comesono i tedeschi i meno propensi a concede-re la liberalizzazione dei visti ai turchi. LaTurchia si sente frustrata e non compresadagli europei: le trattative sull’adesione al-l’Unione europea sono sempre state ambi-gue e forse strumentali per entrambe leparti, ma hanno contribuito al deteriora-mento dei rapporti”.

Francesco Maselli

Roma. “Mediterraneo: costruire ponti,abbattere muri”, era il titolo di uno de-gli incontri che si è tenuto ieri al Mee-ting di Rimini. Ospiti del dibattito eranoi sindaci di Firenze e Tunisi, due cittàche un ponte particolare attraverso ilMediterraneo lo hanno stabilito subitodopo l’attentato del Bardo. “Costruireponti, abbattere muri è una frase cheera cara a Giorgio La Pira: un altro sin-daco di Firenze di cui ricorrono i quran-ta’anni dalla scomparsa proprio que-st’anno”, ricorda al Foglio Dario Nardel-la. “Fu La Pira a promuovere nel 1955 iprimi Dialoghi sul Mediterraneo con sin-daci provenienti da tutte le città che siaffacciano su questo mare. Stiamo par-lando di sessant’anni fa, ma è incredibi-le come quella iniziativa e quella intui-zione siano ancora così attuali”. Saifal-lah Lasram, il suo collega di Tunisi, citiene a ricordare come i rapporti traItalia e Tunisia “risalgono ben addietronei secoli. Cartagine fu un’importantecittà romana, in Tunisia si stabilì un’im -portante comunità italiana di cui con-serviamo le vestigia e che ha avuto unruolo fondamentale per la formazionedella società tunisina di oggi”. Quellaera l’epoca della decolonizzazione – nel1956 la Tunisia diventava indipendente –mentre le grandi emergenze di oggi nelMediterraneo sono le migrazioni clande-stine di massa e il terrorismo. Se l’opi -nione pubblica più esasperata chiede“meno ponti e più muri”, anche chi è piùriflessivo si pone ormai il problema dicome aiutare i migranti in modo da per-mettergli di restare “a casa loro”. “Pur -troppo si dà spesso poco peso al ruolodelle città, quando proprio le città pos-sono essere decisive nel costruire le re-lazioni economiche e culturali che ab-battano le cause scatenanti di odio eviolenza”, dice Nardella. “E’ inutile pen-sare di affrontare la doppia sfida gigan-tesca di immigrazione e terrorismo solocon le cancellerie degli stati. L’appelloai governi nazionali è quello di utilizza-re al massimo e al meglio la forza dellecittà, che, ahimè, sono bersagli degli at-tentati terroristici, Tunisi ieri come Bar-cellona oggi. Ma sono anche i luoghi do-ve le soluzioni in termini di convivenzasociale e di sviluppo economico prendo-no corpo”. Lasram concorda: “E’ soprat -tutto compito delle città assicurare losviluppo economico e sociale”. Per que-sto, spiega, “è importante la legge suldecentramento amministrativo che laTunisia si sta dando”. Un decentramen-to che per il sindaco di Tunisi è un ne-cessario coronamento di quella rivolu-zione democratica che in Tunisia è riu-scita: unico risultato felice della prima-vera araba.

Osserva Nardella: “Aiutiamoli a casaloro è uno slogan in linea di principiogiusto, che però troppo spesso viene usa-to come mera propaganda. In tempi nonsospetti, invece, a Firenze abbiamo ini-ziato a tradurlo in termini concreti. Inparticolare, ci siamo mossi dopo l’attac -co terroristico che al Bardo ha fatto ven-tidue morti, tra cui quattro italiani. Nonbasta la denuncia, ci siamo detti. Biso-gna cominciare a lavorare davvero, perdisinnescare le ragioni del terrorismo eprevenire questa violenza. Abbiamodunque sottoscritto un accordo di coope-razione sul fronte culturale, economicoe istituzionale che ha accompagnato an-che il processo di democratizzazionedella Tunisia, che può diventare un ele-mento di forte stabilizzazione del ma-ghreb e dell’area mediterranea. Abbia-mo messo in campo un progetto di colla-borazione turistico-culturale, sostenen-do Tunisi nella promozione turisticanecessaria a far ripartire un paese cheaveva una tradizionale vocazione turisti-ca, messa in ginocchio dagli attentati”. ELasram conferma: “Ci consultiamo incontinuazione nella governance”. SpiegaNardella che le Università di Siena e diFirenze hanno contribuito alla riformadelle autonomie locali che Lasram cele-bra come fiore all’occhiello della Rivo-luzione democratica. “Per la prima voltanella storia della Tunisia sindaci e con-sigli comunali saranno eletti dal basso”.“E poi”, aggiunge Nardella, “abbiamoaperto un programma di collaborazioneeconomica per favorire lo sviluppo diinfrastrutture e servizi nell’area metro-politana di Tunisi”.

“Ci siamo dati una Costituzione apertae moderna con la partecipazione del po-polo”, dice Lasram. “La transizione eco-nomica è ancora in corso: il paese haconosciuto sconvolgimenti profondi. Mal’unità nazionale è lì per confermare leriforme democratiche. Con l’aiuto deinostri amici e in particolare dell’Italia,speriamo di poter dare alla Tunisia e alpopolo tunisino dei giorni migliori”.

Maurizio Stefanini

Laura Boldrini rappresentamolto di quello che i terroristi

temono (e quindi odiano)

Al direttore - Non ho mai votato a sini-stra, tantomeno molto a sinistra come si-curamente ha fatto Laura Boldrini. Ho in-vece votato, anzi, di più, da radicale hosostenuto e sono stato eletto nel centrode-stra quando l’alternativa, pur compren-dendo la Rosa nel Pugno, era il governocon Bertinotti, Diliberto e Ferrero, men-tre Berlusconi ancora diceva di voler ca-pitanare una rivoluzione liberale pur-troppo poi neppure tentata. Trovo ancheper questo un moto di rabbia quando ve-do la stampa legata al centrodestra e per-sonalità di spicco non solo della Lega sal-viniana, ma di Forza Italia, tirare in balloesplicitamente la presidente della Came-ra, Laura Boldrini, accostandone il nomeagli attentati folli e sanguinari commessida fanatici nichilisti in nome di Allah. Uncomportamento assurdo e virulento, chetrascende qualsiasi polemica politica, an-che durissima, per sconfinare nell’attaccosadico e compiaciuto; un modo per addi-tare al pubblico ludibrio una donna per-ché professa idee diverse sull’immigra -zione, lucrando sulle disgrazie, lo scon-certo e il dolore di tanti. Una piccolo,grottesco revival da caccia alle streghe inversione social. Laura Boldrini, piaccia ono, è una donna laica, femminista, gayfriendly, tollerante, internazionalista,multilateralista, democratica, libera: l’e-satto opposto dei terroristi e della lorocultura identitaria, maschilista, religiosa-mente fanatica, autoritaria, omofobica,imperialista, bigotta, razzista. Laura Bol-drini rappresenta molto di quello che iterroristi temono e quindi odiano. Il poli-tically correct vissuto come ideologia irri-ta i laici che, come me, hanno imparatoanche a difendere l’indifendibile, a cer-care di capire prima di giudicare. Ma cosac’entra il politically correct nella polemi-ca faziosa contro la presidente della Ca-mera sui terroristi macellai? Per non es-sere vittime del politically correct biso-gna, come Trump, essere neutrali traqualche eccesso di trasporto dei liberaled il Ku Klux Klan? Attenzione, perché sele donne votano e divorziano, se i neri nonhanno più autobus separati negli StatiUniti e i gay non finiscono (quasi) più inprigione è perché il politically correct,sempre con qualche eccesso, ha vinto esconfitto i Trump di allora. Questo politi-cally correct dovremmo trovare il modo dipromuoverlo nel mondo (anche) per con-trastare il terrore che i fanatici della con-servazione, reazionaria e maschilista, vo-gliono imporci. Mi si dice: altro che inte-grazione, è un’invasione che porta i terro-risti di domani, una guerra da chiamarecon il suo nome e combattere. Evviva! Equindi? Me li vedo quelli che tuonanocontro noi “buonisti” pronti a mandare iloro figli a morire nel deserto di Libia oSudan o Yemen o Mali o Niger, perchébombe e droni non bastano senza unastrategia, un obiettivo concreto e sosteni-bile, ma solo per dimostrare che loro laguerra la combattono. Ma non siamo altavolo con il Risiko: servono strategie,perseveranza e alleanze, un po’ come hafatto in questi anni, senza proclami malavorando sodo, l’Italia di Renzi e Genti-loni in Libia, per rimediare a una guerraprobabilmente giusta, ma improvvisata elasciata meno che a metà. Non sarà “spez -zando le reni” alle ong amiche della Bol-drini che si risolverà la questione deglisbarchi (cioè delle partenze irregolari),ma con la visione di insieme del governoche alcuni risultati, pur contraddittori,comincia a darli. Sui terroristi si indaga,si scopre, si arresta, si condanna e si in-carcera: mettendo più mezzi e strumenti.Noi lo abbiamo fatto con i brigatisti, conleggi speciali e pentiti, quando centinaiadi migliaia di italiani fiancheggiavano larivoluzione armata e omicida che in moltipraticavano. Ma con i migranti che giàvivono a Roma o Milano cosa fare? Mo-strare la faccia feroce? Ripetere tutti igiorni alla badante magrebina di nostranonna e al pizzaiolo sotto casa che la festaè finita? Che quando vinceranno Salvini eMeloni le cose cambieranno? Che loro fi-glio, che non ha mai lasciato l’Italia, lacittadinanza se la deve (forse) straguada-gnare, mica come il bisnipote di un pove-ro lombardo emigrato oltre un secolo fa inArgentina che l’Italia non l’ha mai vistama otterrà il passaporto italiano per vive-re in Spagna? E poi? Chiederemo loro,contro il Papa, di scegliere o la conversio-ne alla nostra fede o l’esilio? Cosa viene,per gli antiboldriniani, dopo l’urlo impo-tente: “Ora basta!”? Se mai al governo,più di Gentiloni e Minniti, farebberoquello che giustamente hanno fatto inpassato accanto a qualche grida manzo-niana: una pragmatica sanatoria per gliirregolari che lavorano nelle case, nellefabbriche e nei campi dei loro elettori.Torno al punto. Donne e uomini del cen-trodestra mediatico e parlamentare, doveormai Salvini ha imposto con efficacia lasua egemonia: smettete questo assurdo edisonorevole attacco personale, furibon-do e immotivato, alla presidente Boldrini.Non ve lo chiedo per “buonismo”, ma per-ché voglio ritrovare la libertà di non do-verla difendere e di poterla attaccarequando spara sulla globalizzazione, ilTtip e il Ceta esattamente come fate voi;quando, come voi, critica la Bce e “l’Euro -pa delle banche”; quando si mobilita con-tro la ricerca Ogm e, come voi, difendeuna filiera agroalimentare autarchica chenon esiste perché mai esistita; quando,come fate voi, straparla contro il Jobs acte vuole ridurre l’età per la pensione;quando difende l’acqua pubblica e osta-cola gli investimenti privati nei servizipubblici; quando… Liberate l’ostaggiodelle vostre ossessioni e restituitemi unavversario politico.

Benedetto Della Vedovasottosegretario del ministero degli Esteri

Da Tunisi a Firenze, così“aiutiamoli a casa loro” diventa

un’espressione sensata

Alta Società

Isole greche. In grande spolveroMykonos e Santorini. Tutto il resto ènoia. Però ad alcuni piace la silen-ziosa noia di molte isole greche.

Slogan pericolosi

Nello scontro sempre più duro con la Germania sarà Erdogan a farsi male

IL RIEMPITIVOdi Pietrangelo Buttafuoco

L’incontro al vertice tra Emi-lio Fede e Matteo Renzi a Forte deiMarmi è qualcosa tipo Teano, tipo Ru-bicone, tipo Congresso Vienna. Restanei libri di storia. E la fotografia che liritrae dice tutto. Non è certo una cosada niente, infatti, vedere vicini e sorri-denti due come loro: fasciato di linobianco il primo – quasi un clone di LeleMora – in camicia blu e pantaloncini arighe il secondo, sono fatti per stare in-sieme. Entrambi al riparo di quei gaze-bo con i tendaggi, meta ambita dei be-nestanti di nuovo conio, nella casualitàdell’incontro, Emilio e Matteo svelanola naturalezza dell’attrazione: si pigliachi si rassomiglia.

INNAMORATO FISSOdi Maurizio Milani

Continuano ad arrivare al Fo-glio lettere per Anna Tatange-lo. Arrivavano anche prima, ma

non così tante. Questo dopo la pubblici-tà che fa Anna. Mi unisco alle lettered’amore, sono quello che vorrei dire. Adesempio: “Gentile Anna, scusi la letterascritta in modo non in perfetto italiano.Vi ho visto sul giornale nella pubblicità.Vi amo e basta. Un saluto. Luis Palmei-ros, vicolo del Sol 1, New Mexico (Usa).

La metamorfosi di Schäuble, da mastino tedesco a “grande ottimista”europeoRoma. “Non condivido questo parere. Cre-

do che il mandato della Bce sia stato rispet-tato”. Vedere Wolfgang Schäuble, il mastinotedesco dei conti, prendere le parti di MarioDraghi rispetto ai dubbi sulla legittimità delprogramma di Quantitative easing sollevatidalla Corte costituzionale tedesca, ha fattonotizia. Soprattutto se si va indietro di qual-che anno, o anche solo di qualche mese,quando il ministro delle Finanze tedesco erauno dei più feroci critici del presidente dellaBce e delle sue decisioni di politica moneta-ria, accusate non solo di danneggiare i ri-sparmiatori tedeschi ma anche di favorirel’ascesa dei movimenti populisti di destra inGermania. Le critiche di Schäuble erano tal-mente dure, che in difesa di Draghi nelle ve-sti di poliziotto-buono corse addirittura il su-perfalco della Bundesbank, Jens Weidmann,ricordando ai politici tedeschi il dovere dirispettare l’indipendenza della Bce. Non so-no mancate altre sportellate tra Schäuble eDraghi, con il primo a criticare le politicheespansive della Bce e il secondo a risponde-re in maniera elegante, sapendo che si tratta-va di polemiche a uso politico interno in vistadelle imminenti elezioni. Ora le cose sonocambiate e “il grande ottimista Schäuble”,

così lo definisce nell’intervista il quotidianoHandelsblatt, non solo difende la legittimitàdell’operato di Draghi ma riconosce che inquesti anni la Bce ha dovuto usare tutti i mez-zi a disposizione per esercitare il “compitoinfernale” di realizzare una politica moneta-ria per tanti paesi diversi.

Ma nell’intervista al quotidiano finanzia-rio tedesco c’è molto altro di interessantesull’ottimismo di Schäuble per la Germaniae l’Europa. Certo, per lui è facile pensare po-sitivo: l’economia tedesca va alla grande, ladisoccupazione è bassissima, il bilanciopubblico è in avanzo, il rapporto debito/pil incalo per la gestione oculata della spesa pub-blica ma anche grazie alla politica moneta-ria della Bce che ha abbattuto la spesa pergli interessi, i partiti populisti sono in ritira-ta, la Cdu va verso l’ennesima riconferma al-le prossima elezioni e lo stesso Schäuble conoltre il 60 per cento di gradimento è il leaderpolitico più apprezzato, persino più dellacancelliera Merkel.

Insomma, le cose vanno talmente bene inEuropa che Schäuble può permettersi anchedi difendere l’italiano Draghi nel pieno dellacampagna elettorale tedesca. Per “il grandeottimista” le notizie positive non si limitano

solo alla Germania e all’Europa, ma emergo-no anche da quelle circostanze esterne chesembravano essere una sciagura per la tenu-ta dell’Eurozona, come il risultato del refe-rendum sulla Brexit nel Regno Unito o l’ele -zione di Donald Trump in America. La Bre-xit, che avrebbe dovuto indebolire l’Europal’ha invece rafforzata, come hanno dimostra-to le elezioni in Austria, Francia e Olanda (inattesa dell’Italia, perché tanto in Germanianon ci sono pericoli populisti): “La Brexitnon ha posto le basi per l’ascesa di Marine Le

Pen in Francia ma, al contrario, per la vitto-ria di Emmanuel Macron”, dice il ministrotedesco. Anche per questo un’Europa fortenon deve avere intenti punitivi nei confrontidi Londra: “Non dovremmo rendere le cosepiù difficili per gli inglesi di quanto già losiano”. Allo stesso modo i primi mesi di Am-ministrazione Trump hanno dimostrato, no-nostante i preoccupanti annunci e le cattiveintenzioni, che la divisione dei poteri negliStati Uniti funziona molto bene e che “il pre-sidente americano, nonostante il suo immen-so potere, non può fare come gli pare”. Cosìda convinto atlantista Schäuble, se da un latodice che l’Europa ha bisogno di rafforzarsi etrovare maggiore autonomia, dall’altro ricor-da che non può fare a meno dell’alleanza congli Stati Uniti per risolvere le crisi globali.

Se l’ostinato cane da guardia dei conti del-l’Eurozona si sta trasformando nel “grandeottimista” vuol dire che, a 75 anni e con oltre40 di attività politica alle spalle, la carrieradi Schäuble non è finita. Chiuso con successoil secondo mandato da ministro delle Finan-ze tedesco, si aprono nuove possibilità perun ruolo in Europa, magari proprio come fu-turo ministro delle Finanze europeo.

Luciano Capone

La guerra alle immagini dovremmo lasciarla solo ai fondamentalistiAl direttore - Come facciamo a dare torto

sia a Bergoglio sia a Salvini?Giuseppe De Filippi

Al direttore - Dopo aver letto, nell’articolo“Isteria americana” di Giulio Meotti, che negliUsa è diventata politicamente corretta l’ico -noclastia della propria storia, ho capito per-ché ha vinto Donald Trump.

Giuliano Cazzola

Meotti perfetto. E dovrebbe esserechiaro che, in un’epoca come la nostra incui esiste uno Stato islamico che predical’iconoclastia nelle forme più violentedel mondo, la lotta contro il culto delleimmagini dovremmo lasciarla solo aifondamentalisti. E dovremmo ricordar-celo sempre. Senza dimenticarci che l’i-conoclastia, alle sue estreme conse-guenze, può portare a drammi comequelli registrati esattamente due anni faa Palmira. Dove Khaled Asaad, il grandearcheologo del sito siriano, venne uccisobrutalmente dallo Stato islamico pro-prio perché considerato dagli islamistiil simbolo della difesa di un mondo libe-

ro, e dunque blasfemo, dove le opered’arte possono anche raffigurare il voltodi una divinità.

Al direttore - I vertici del Tribunale di Mi-lano e Palazzo Marino giocano a scaricabari-le in relazione agli appalti senza gara pubbli-ca di Expo. Da corso di Porta Vittoria diconoche la stazione appaltante era il Comune dadove replicano che si agì seguendo le indica-zioni degli uffici giudiziari. Tutto normale?No perché l’indagine aperta dopo articoli distampa e un rapporto dell’Anac di Cantone ècoordinata dalla procura di Milano. Il fasci-colo dovrebbe approdare sui tavoli dei pm diBrescia ma non si muove da Milano dove ri-sultano tra l’altro zero accertamenti. Recen-temente un altro spezzone di Expo era stato

mandato a Brescia e restituito dopo otto mesia Milano con la motivazione: le eventualiiscrizioni tra gli indagati di magistrati dovetefarle voi prima di investire noi della questio-ne. Insomma, scaricabarile numero due. Econ ogni probabilità un modo elegante di in-sabbiare una vicenda dove la moratoria delleindagini su Expo è da tempo un fatto storica-mente acclarato. La magistratura è vera-mente indipendente. Dalla legge.

Frank Cimini

Al direttore - La retorica di un’Europa im-pavida che oppone al terrorismo la volontà dinon mutare comunque il proprio stile di vita èdavvero insulsa. Accade infatti di registrareanche quanto avvenuto domenica scorsa aBudapest durante i Mondiali di nuoto: primadella gara dei duecento metri rana, lo spagno-lo Fernando Alvarez aveva chiesto un minutodi silenzio per ricordare le vittime di Barcello-na ma il comitato organizzatore gli ha oppo-sto che non c’era tempo e non si poteva perde-re nemmeno un minuto. A questo punto ilnuotatore spagnolo il tempo ha deciso diprenderselo da solo ed è restato sul blocco dipartenza mentre tutti si tuffavano in acqua.

“Certe cose – ha detto – valgono più di qualsia-si medaglia d’oro”: un modo per ribadire comespesso proprio le democrazie esigono aristo-crazia.

Luigi Compagna

Al direttore - Dopo ogni attentato, leggiamoin Italia di piani di prefetture e questure perlimitare i rischi. Tante belle parole ma a Ro-ma, nella strada che porta alla basilica di SanPietro (obiettivo conclamato del terrorismo) siconsente ancora che stazionino giorno e nottedecine di furgoni (che non pagheranno nep-pure il parcheggio) privi di qualsiasi controllo.Sono quelli dei venditori ambulanti che, pe-raltro, deturpano una delle strade più elegan-ti della Capitale.

Francesco Sestelli

Al direttore - Egregio signor Milani, le con-fesso di leggere per primo la Sua spassosa let-tera, come una volta i corsivi di Fortebraccio.Le segnalo però una grave inesattezza.A Como abbiamo la funicolare, non lafunivia. Non siamo a Bormio. Distintiossequi.

Marco Antonio Brenna

Ci provarono Craxi, il Cav. e Renzi, mai aiutati dai commentatori à la GdLPer questo il commentariato italiano

tende a ripetersi, ed è sempre interessanteleggere testi così pertinenti sul nostro statodi cose, ma è un po’ monotono il loro riscri-versi quasi automatico a ogni fase politica,preconizzando il dover essere subito dopoche l’essere delle cose è stato cassato.

Chi si è dannato per Craxi Berlusconi eRenzi, magari per ragioni di tigna teppisti-ca come le nostre e non per amore di Pa-tria, ora ci rimane di stucco, di princisbec-co. Il proporzionale torna sulle ali dellaCorte costituzionale, una magistratura na-turalmente conservatrice che si è mossapromuovendo il Consultellum, orizzontedifficilmente superabile in qualche setti-

mana di dialogo tra forze sfiduciate reci-procamente e già impegnate nella cacciaal voto (però, auguri); e lo ha proposto per-ché si riteneva da più parti, ed era addirit-tura iscritto nella Costituzione più belladel mondo appena ratificata e inchiodatada un incredibile esito referendario il 4dicembre scorso, che occorresse rimuove-re gli ostacoli maggioritari a una pienarappresentanza del voto popolare. A que-sto punto, a quanto pare, il faut faire avec,bisogna starci. E non sarà male anche pen-sare a certi risvolti, magari per consolarsi.La riforma in senso anglosassone o france-se o spagnolo delle istituzioni italiane si èinfranta contro la storia del paese, a partele viltà, gli opportunismi e le fesserie della

casta parapolitica e intellettuale. La man-canza del modello Westminster fondato sulbipartitismo e la giurisprudenza al postodella rigidità costituzionale, del presiden-zialismo a sfondo bonapartista, del centra-lismo castigliano e monarchico, tutte solu-zioni che hanno i loro contrappesi negativie non sempre superano la stessa prova percui furono concepite da generazioni e ge-nerazioni di costruttori delle nazioni d’Eu -ropa, è la mancanza di un Risorgimentocon eroi e con forze-guida legittimantiun’impresa nazionale degna del nome. Ab-biamo avuto anche una bella storia, per ca-rità, e alla fine centocinquanta anni di uni-tà e oltre, e quasi settant’anni di Repubbli-ca, con la travolgente e folle impresa del

fascismo di mezzo, parentesi o autobiogra-fia italiana che sia stata, ci hanno restitui-to un volto che è il nostro volto, sul quale ilmaggioritario e il decisionismo sono statiapplicati come una maschera posticcia.Nel frattempo delle cose importanti, gra-vate da un immenso debito pubblico maanche illuminate da una grande capacitàdi sopravvivenza e sviluppo creativo, sonostate compiute. Vorrei tanto che non fossecosì, perché mi era sembrata una soluzio-ne razionale quella incarnata dalle tre lea-dership di cui ho fatto menzione, ma pro-babilmente è così. Sennò Galli della Log-gia non sarebbe costretto a riscrivere datrent’anni e più sempre lo stesso articolo.

Giuliano Ferrara

Trump decide come un presidente normale sull’Afghanistan, ma non ha scelta: Isis e talebani vanno forteBannon era contrario a questa soluzio-

ne in Afghanistan perché ha il saporedella continuità con le Amministrazioniprecedenti di Obama e di Bush e consi-gliava strade alternative, per esempiomandare un esercito di migliaia di con-tractor – il che avrebbe consentito al-l’Amministrazione di sentirsi meno coin-volta e impantanata in una guerra inter-minabile. Se le anticipazioni dei mediaamericani sono vere, Bannon ha perso

anche questa battaglia che era tra i puntidel suo programma e Trump sta per an-nunciare una decisione molto d’establi -shment.

L’Amministrazione in realtà non hadavvero molte alternative a rafforzare lamissione già in corso. Oltre ai talebani,che secondo il Pentagono ora godono del-l’appoggio discretissimo della Russia(ironia della Storia) perché Mosca li rifor-nisce nella speranza di esercitare unaforma d’influenza e di rimpiazzare il con-

trollo americano sull’area, in Afghani-stan c’è anche un gruppo virulento delloStato islamico. Sebbene in pochi, i ba-ghdadisti sono riusciti a occupare l’ex co-vo di Osama bin Laden tra le montagne diTora Bora al confine con il Pakistan, untempo dominio di al Qaida, e si tratta diun cambio della guardia molto significa-tivo. Gli americani stanno facendo un la-voro egregio contro lo Stato islamico inAfghanistan – che loro indicano con lasigla ISK, “Islamic State Khorasan” – e in

tredici mesi hanno ucciso in sequenzatutti e quattro i comandanti supremi delgruppo – l’ultimo ancora prima che fossenominato ufficialmente. Ma si tratta diuno scontro equilibrato: nel momento incui abbandonassero il teatro di guerra,gli americani perderebbero il vantaggioesiguo che hanno, i contatti con le fonti, illavoro in tandem con le forze speciali af-ghane. Il rischio è ripetere il precedentedel ritiro dall’Iraq nel 2011.

Daniele Raineri

(segue dalla prima pagina)

(segue dalla prima pagina)

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Page 5: IL FOGL IO · 2020-02-03 · guerra con il clan dei Mercer, finanziatori del presidente e protettori dello stratega New York. Una serie di scontri di potere concentrici ha trasformato

ANNO XXII NUMERO 197 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO MARTEDÌ 22 AGOSTO 2017

La Cia, come ha raccontato tre giorni fail quotidiano spagnolo El Periódico, ave-va avvertito già due mesi fa i Mossos d’E-squadra sul rischio di un attentato a Bar-cellona, inviando con un certo anticiposui tempi un’informativa dettagliata allapolizia regionale spagnola sui rischi di unattacco proprio sulla Rambla (ieri la poli-zia spagnola ha confermto l’uccisione delkiller Younes Abouyaaqoub, l’ultimo ri-cercato) ma nonostante questo la polizialocale ha scelto di non adottare misure disicurezza straordinarie, capaci di preve-nire scene simili a quelle già viste sullaPromenade di Nizza. Il momento in cui ladivaricazione e la scarsa collaborazionetra le due forze di polizia è risultata inmodo più evidente, poi, si è registrato po-che ore prima dell’attentato sulla Ram-bla, quando un’esplosione, con tanto divittima, avvenuta in un appartamento sulconfine meridionale della Catalogna, adAlcanar, 200 km da Barcellona, è stata li-quidata come una semplice tragedia cau-sata da una fuga di gas. In realtà, cometutti sappiamo, quella che la polizia regio-nale considerò un incidente domesticoera qualcosa di più: era un’esplosione do-vuta al fatto che gli stessi terroristi chepoche ore dopo avrebbero dato vita a unamattanza sulla Rambla stavano cercandodi preparare, giocando con 120 bomboledi gas, un ordigno per organizzare ungrande attentato. La tensione tra la poli-zia catalana e la polizia nazionale, comeha ricordato ieri Repubblica, ha portatoinfine a un’altra particolare forma di cor-tocircuito: per evitare di creare una crisiistituzionale con il governo locale, che co-me è noto promuove da tempo un referen-dum per proclamare l’indipendenza dellaCatalogna, negli ultimi tempi la polizianazionale ha scelto di non forzare la manosulle questioni di sicurezza e non ha maiportato il livello di allarme al suo massi-mo, anche per evitare un dispiegamentodi forze armate per le strade di una cittàcome Barcellona dove i militari a serviziodel governo nazionale rischierebbero diessere visti quasi come delle truppe diinvasione. Le divaricazioni tra le due for-ze di polizia sono emerse anche nei giornisuccessivi all’attentato quando il ministrodell’Interno del governo catalano, Joa-quim Forn, ha contestato pubblicamenteuna serie di dichiarazioni fatte a pocheore dall’attentato dal ministro dell’Inter -no del governo Rajoy, Juan Ignacio Zoido.Ma al di là delle polemiche politiche ilmicrocosmo spagnolo rappresenta evi-dentemente la spia di un problema piùgrande con il quale l’opinione pubblicaeuropea, e la sua classe politica, dovran-no fare in fretta i conti. E il problema è

quello che segnalavamo all’inizio del no-stro ragionamento: di fronte a una guerrache i jihadisti combattono senza badarepiù a quali sono i confini dell’Europa, iconfini fittizi dell’Europa non possono di-ventare un ostacolo per garantire la sicu-rezza del nostro continente. E la domanda

di fronte alla quale si sono trovati in que-sti giorni i catalani di Barcellona è la stes-sa domanda di fronte alla quale si trovanooggi gli spiriti sovranisti che aleggiano inbuona parte del nostro continente: gli sta-ti nazionali, o addirittura i micro-stati na-zionali, possono davvero pensare di difen-dersi dal terrorismo senza mettere tuttele proprie forze al servizio della stessacausa comune? Detta ancora meglio: lagrande partita della lotta al terrorismonon è lì a dirci che gli spiriti antieuropei-sti rappresentano una minaccia concreta

per la sicurezza dei singoli stati naziona-li?

Il filo di questo discorso ci porta a con-cludere il nostro ragionamento con un ap-punto non secondario che riguarda un te-ma che affiora periodicamente all’indo -mani di ogni attentato: quando si parla di

lotta al terrorismo, cos’è che non funzionain Europa? La prima risposta è semplice elineare e riguarda l’assenza di una difesacomune che possa marciare di pari passocon i percorsi della Nato e possa permet-tere agli eserciti del nostro continente didifendere l’Europa, e di intervenire lad-dove si individua la presenza di una mi-naccia per l’Europa, senza affidarsi ne-cessariamente alla gestione dei singolieserciti nazionali. La seconda risposta èpiù complessa e riguarda un tema chespesso viene ignorato e che ha invece una

sua dimensione cruciale: la condivisioneautomatica delle banche dati relative al-l’antiterrorismo che ciascuno stato pos-siede. Come può testimoniare un qualsia-si ministro dell’Interno di un qualsiasipaese dell’Unione europea, oggi su questofronte non esiste un’interconnessione au-tomatica e non esiste una banca dati uni-versale all’interno della quale poter con-dividere in tempo reale tutte le informa-zioni in possesso delle forze dell’ordinesui temi legati all’antiterrorismo. Alcunistati, periodicamente, compresa l’Italia,tentano con costanza di fare passi in avan-ti su questi temi e tentano cioè di afferma-re un principio sacrosanto che riguarda lanecessaria cessione di uno spicchio diprivacy di ogni cittadino d’Europa a fron-te di un contesto di maggiore sicurezzapotenziale. L’Europa da qualche tempo siè dotata anche di un commissario alla Si-curezza, che oggi si chiama Julian King.Ma nonostante questo, i molti ostacoli po-sti dagli ordinamenti nazionali rendonoimpossibile allo stato attuale non solo lapresenza di un Fbi europea e di un’intelli -gence comune anti jihad ma anche la pos-sibilità di mettere facilmente insieme tut-ti i dati che ciascun paese custodisce rela-tivamente a un tema che nei prossimi me-si sarà cruciale: i profili e lecaratteristiche dei 25-30 mila soldati didio, i così detti foreign fighters, che fannoparte della più grande legione stranieramai conosciuta in epoca moderna. In me-dio oriente l’esercito jihadista perde ognigiorno pezzi grazie alla collaborazione –tardiva ma finalmente efficace – deglieserciti nazionali guidati dalla Nato. Mal’arretramento dell’Isis sul “suo” territo -rio è destinato a creare un effetto a catenaal centro del quale ci sarà il ritorno deiforeign fighters nel nostro continente (inItalia, nel 2017, nei primi sette mesi del-l’anno, i foreign fighters monitorati sonostati 125, 15 in più rispetto allo scorso an-no – anche se il numero di quelli effettiva-mente tornati in Europa è di 22, contro i 17del 2016). La grande sfida dei prossimimesi delle intelligence europee sarà pro-prio questa: evitare la saldatura tra i com-battenti di ritorno dalla Siria e le microcellule jihadiste che esistono in Europa.La Spagna ci ha dimostrato che le ideesovraniste sono dannose per la sicurezzanazionale. E mai come in questo momentodovrebbe essere chiaro a tutti che su alcu-ni temi non esiste un interesse nazionaleche possa prevalere sull’interesse euro-peo. La lotta al terrorismo può essere ilvero terreno su cui l’Europa può tracciarei suoi confini. Conviene non perderel’occasione. E soprattutto convienenon perdersi dietro la cialtroneriadei sovranismi nazionali.

Recentemente leggevo che le difficol-tà in matematica sembrerebbero

correlate a disturbi dell’apprendimento,problemi cognitivi e blocchi psicologici.Credo sia lecito chiedersi se la Rivelazio-ne, che non è irrazionale, non svolga tut-tavia un effetto analogo sull’intellettoumano, creandogli una serie di blocchi,per cui la ragione tende a diventare dia-lettica e la mente a produrre ragnateleche l’avviluppano. Quand’anche questofosse vero, tuttavia non dimostrerebbe lafalsità della Rivelazione, ma piuttosto do-vrebbe obbligare i religiosi a essere di-chiaratamente avvertiti di blocchi e vi-scosità costitutivi del pensiero credente.Quest’ultimo fatto, che dovrebbe essereconfessato, è purtroppo per lo più bella-mente taciuto e sottostimato. Una com-prensione romantica e ingenua delle reli-gioni è pericolosa e la presentazione del-le stesse come latrici di pacificazione po-litica è una farsa.

L’idea di Rivelazione è l’idea ebraicache ha rivoluzionato le sorti del mondo,ben al di là dell’ebraismo e degli ebrei:monoteismo; Dio Creatore dell’universo,eterno, buono, giusto e onnipotente; Rive-lazione e, quindi, elezione e Alleanza;Provvidenza individuale; immortalità del-l’anima, giudizio e retribuzione. Qualsiasicredente ragionevole dovrebbe tremarenell’affermare tutto ciò, dato che si trattadi un’enormità, che presuppone coraggioe assai sorvegliata ricerca interiore.

Eppure l’idea ebraica di Rivelazione èrisultata irresistibile per miliardi di esse-re umani. Personalmente ritengo che, permoltissimi, la coscienza della Provviden-za individuale, che veglia e accompagnaciascuno, molto più dell’immortalità del-l’anima o della retribuzione, svolga unruolo consolatorio, latore di senso. Sulpiano etico e politico, l’idea ebraica diRivelazione ha affermato per la primavolta non solo l’eguale dignità e sacralitàdi tutti gli uomini, ma anche la loro fratel-lanza. Tutto ciò è stato recepito e rilancia-to da cristianesimo e islam. Questo proba-bilmente spiega perché, per l’ebraismo,né il cristianesimo né l’islam costituisca-no una proposta allettante di conversio-ne. Unicamente agnosticismo e ateismopossono costituire una reale, lucida e fa-tale, “tentazione” per gli ebrei: ossia lanegazione dell’idea di Rivelazione, contutto quello che ne consegue.

Questa idea, tuttavia, passando dall’e-braismo al cristianesimo e, successiva-mente, dai due predecessori, all’islam, hasubito una mutazione radicale, che l’ha

molto alterata. Da Rivelazione universaleper afflato ma particolaristica per senso,pratica, strategia e missione, con cristia-nesimo e islam essa è divenuta universalee universalistica. Da culto intenzional-mente minoritario si è trasformato in reli-gioni universali e maggioritarie, come tali“irresistibili”. Basti osservare i due motiopposti e fortissimi che da secoli animanoebraismo e islam: quello ebraico è un “ri -torno”, una concentrazione e una contra-zione; quello islamico è un moto espansi-vo, come tale eccentrico e pervasivo, oggiin nutrito risveglio.

Per capire i non detti delle attitudiniintime dei tre monoteismi occorre consi-derare come una generazione affidi all’al -tra il deposito della fede. Per il cristiane-simo è la coppia genitoriale educante cheinserisce il bambino, tramite il battesimo,nella chiesa, facendone un cristiano. Perl’ebraismo è la madre a trasmettere l’e-braicità ai figli; per l’islam, il padre. Lastrategia cristiana è quindi anzitutto cul-turale, coerente con la cultura occidenta-le e i suoi sviluppi. Una profonda crisiculturale del cristianesimo è quindi sem-pre da intendersi come un potenziale col-po ferale, che può minarne la trasmissio-ne in poche generazioni. L’ebraismo e l’i-slam, realtà non occidentali nel loro Dnae nella loro ossatura fondamentale, si af-fidano direttamente alla procreazione,possedendo un forte carattere “sessuato”.L’islam, che è una maggioranza assoluta,si affida a un criterio coerente con il prin-cipio di maggioranza: il padre, ossia il se-me maschile, sempre disponibile. L’e-braismo, che è minoranza assoluta, si affi-da a un criterio coerente con il suo essereminoranza: la madre, che non è semprefertile, la cui fertilità sfiorisce prima.Considerando che l’ebraismo è una mino-ranza, messa crudelmente in discussionedalla storia e dai due monoteismi che hacontribuito a originare, questa strategiaappare contraria a ogni criterio di soprav-vivenza. Ciò attesta una scelta minoritaria– e non elitaria – precisa. Questo fatto èilluminante sulla psicologia e sulla socio-logia profonda dei tre monoteismi e sullaloro diversità, specie quando dissimula-ta.

L’antichità, ossia il Dna dei tre mono-teismi, attesta in nuce alcune diversitàeconomiche e sociali. Il calendario reli-gioso ebraico (lunisolare) è tuttora, conogni evidenza, un calendario agricolo, ba-sato su campi, primizie, raccolti e decime.I primi arabi musulmani erano inveceuna popolazione nomadica, fondata su

un’economia mercantile. Come alcunisuggeriscono, queste implicazioni econo-miche e sociali, più che argomenti teolo-gici, hanno tenuto il cristianesimo più vi-cino all’ebraismo dell’islam. Non solo: l’u-nità sociale delle popolazioni nomadicheè la tribù e il clan, per cui un gruppoesteso e con vincoli d’onore è funzionalealla difesa organizzata. Per una societàcontadina, l’unità sociale allargata “don -na-uomo-figli e dipendenti” è la cellulabase e più stabile della società. Ed eccoche noi, non stranamente, troviamo ripe-tuta in tutta la Bibbia l’espressione “laCasa” di Israele. E non è per nulla un casoche una delle passioni del sionismo siastata proprio l’agricoltura e il sogno nontramontato di “far fiorire il deserto”. Que-ste antitesi economiche e sociali rendonoconto dell’inevitabile, costitutiva diffe-renza profonda tra gli antichi ebrei e gliantichi arabi.

L’idea di famiglia, oggi totalmente debi-litata (anche quando estesa, per analogia,al fine di normare vincoli affettivi omo-sessuali), della cultura occidentale derivaesattamente da qui. Essa, cioè, non si im-pone per evidenza razionale, ma “solo”per cultura e tradizione. Non è un casoche la crisi economica che attraversa l’oc -cidente sia correlata a una crisi decenna-le della famiglia – ivi intesa come primarealtà, costitutiva delle nostre società, dimutua assistenza e umana promozione – edella procreazione. E non è un caso chel’attuale aggressività economica, oppri-mente ed erodente la forza della politicae ogni sovranità, insista, specie in occi-dente, proprio sulla famiglia.

L’economia internazionale e tecnolo-gizzata, ormai entrata così potentementenella fruizione – e persino, talvolta, nelladefinizione stessa – di intimi ambiti del-l’umano, è universale, e trova una resi-stenza sgradita nel territoriale e nel parti-colare, sia esso locale, culturale o familia-re. Come tale, è quantomeno neutra ri-spetto a molti valori. Questa formaeconomica può essere molto allettante, enon idiosincratica, per l’islam politico.L’illusione di economisti e di certi inge-gneri sociali di poter comunque “gestire”l’islam consiste puntualmente nel nonaverne compreso la forza e l’intelligenza,convinti di mantenere un carattere “lai -co” nei processi e nella guida dell’econo -mia. Personalmente credo che il presentedimostri che l’islam politico, al riguardo,sia estremamente moderno. Questi pro-blemi si acuiranno a breve, ossia con l’ul -teriore crescita incontrollata (e insosteni-

bile?) di esseri umani nel pianeta.La laicità – estensione preziosissima,

culturale e politica, della sfera dell’altroda sé e della sua intangibilità – ha avutoed ha percorsi dolorosi (ed è un eufemi-smo!) in seno alla cultura occidentale. E’però vero che la Bibbia la presuppone:l’umanità non è stata creata “ebrea”; Evae Adamo, per restare nel racconto biblico,non erano ebrei, e nemmeno Noè. L’e-braismo, che non riguarda tutti, comparedopo, solo con Abramo. Tradotto: esisteun’ampia sfera intersoggettiva pregressa,come pure co-esistente, con dignità fonda-mentale e primaria, da apprezzarsi in sé eper sé, che non è ebraica (né cristiana).Per il Corano e la tradizione islamica,Adamo, ossia il primo uomo, l’archetipo eil fondamento della generazione umana,era musulmano. Credo che le conseguen-ze politiche e culturali siano evidenti:“Chiunque sia nato, nasce nello stato na-turale della religione, ossia l’islam. Sonosolo i suoi genitori che ne hanno fatto unebreo o un cristiano”. La logica conse-guenza di questo assunto storicamente,nei paesi islamici, è stata che, in assenzadi genitori o per sopravvenuta morte diquesti in tenera età (in particolare delpadre), i bambini cristiani o ebrei veniva-no convertiti obbligatoriamente all’i-slam.

Chiunque voglia, come è auspicabile,promuovere un dialogo tra la cultura lai-ca occidentale, basata su diritti indivi-duali e libertà personali (conquiste perla cui tutela dobbiamo essere disposti abatterci strenuamente e a morire!), e leculture religiose, totalmente eterogeneetra loro – e, nel caso dei tre monoteismi,tanto simili quanto dissimili –, deve or-mai tener conto del peso demograficodelle stesse, dato che le nostre democra-zie, fragilissime ed esposte come non maialla demagogia più ottundente, si basanoper ora sulla demografia e sul principio“una testa un voto”. Inoltre, se i religiosinon hanno l’onestà, la moralità e la fedeper farlo e meditarvici, specie nei riguar-di delle persone che a loro si affidano e afronte di masse umane in movimento, de-vono essere pungolati sulle loro cupe zo-ne d’ombra senza possibilità di infingi-menti e dissimulazione, sulla loro storianon entusiasmante e più tetra, sulle loroinsidie, perché, lo abbiamo imparato,non c’è nulla di più pericoloso di una re-ligione, specie se universale, data l’ecci -tazione da assoluto e il fascino irresistibi-le che esercita sui suoi aderenti.

Giuseppe Laras

L’idea di Rivelazione, tre monoteismi e il retto uso che ne va fattoL’EBRAISMO È INTENZIONALMENTE MINORITARIO, CRISTIANESIMO E ISLAM UNIVERSALI E MAGGIORITARI. I RISCHI, TRA CULTURE E DEMOGRAFIA

La guerra islamica senza confini e il dovere di affrontarla unitiI PASTICCI SOVRANISTI E IL RITARDO NELL’UNIRE FORZE E DATI PER UNA BATTAGLIA CHE È COMUNE A TUTTA L’EUROPA. IL CASO FOREIGN FIGHTERS

Chi dice che l’Italia non è stataancora colpita dal terrorismoislamista si sbaglia di grosso

Al direttore - Conoscevo le Ramblas diBarcellona quando non erano ancora l’af -follato luogo di turismo e di divertimentoche sono oggi.

Erano gli anni Settanta quando Barcello-na e tutta la Spagna erano ancora avvoltenella cupa atmosfera del franchismo, e conaltri ragazzi italiani, lo racconto qui per laprima volta, avevo partecipato proprio sul-le Ramblas a una manifestazione di prote-sta contro il regime – era il 1° maggio, unafestività vietata, subito dispersa dai lacri-mogeni e dalle camionette della Guardia ci-vil. Allora l’impegno per la libertà era quel-lo contro la dittatura del generale Franco,oggi la libertà dei giovani catalani, di turistiche amano Barcellona e di tutti gli europeiè minacciata da un nuovo fascismo, il fasci-smo islamico.

Oggi è stata colpita la Spagna, dopo laFrancia, la Germania, l’Inghilterra, il Bel-gio. In molti commenti di questi giorni silegge che solo l’Italia non è stata ancora col-pita e ci si chiede quando ciò avverrà. Manon è proprio così. Come se più di 40 italia-ni non fossero già stati spazzati via, in atten-tati in Francia, Inghilterra, Egitto, Turchia,Arabia Saudita, Tunisia, Bangladesh, Nige-ria, ad uno ad uno come fuscelli, tanti quan-ti una strage di grandi dimensioni.

Sono cittadini comuni, come noi, che, adifferenza delle vittime del terrorismo ros-so e nero, sono ben poco ricordati. I loronomi spariscono presto dai giornali, forseperché non “spendibili” politicamente dauna parte o dall’altra.

A questo elenco di vittime si sono aggiun-te le tre di Barcellona: Luca Russo, BrunoGulotta, sacrificatosi per salvare i suoi figlie Carmela Lopardo, italo- argentina, partitada bambina dalla Basilicata per trovarefortuna in Argentina e testimone di un’epo -ca in cui noi eravamo immigrati.

I luoghi che il terrore islamista ha volutocolpire in Europa hanno un valore simboli-co preciso. Sono teatri, ristoranti, concerti,mercatini natalizi, feste sul lungomare co-me a Nizza, mete di turismo di divertimentoe culturale come a Barcellona, luoghi dovesi celebra la vita e che rappresentano il no-stro stile di vita. Per questo i caduti di Bar-cellona e tutti gli altri vanno ricordati come“testimoni dell’occidente”.

L’esatto contrario dei fanatici che cele-brano il dare e darsi la morte. Infatti neiterritori di cui si era impadronita l’Isis ave-va cancellato ogni segno del vivere insieme,dalla televisione ai libri, dalla musica allosport e i suoi abitanti erano stati ridotti adesseri che mangiano e pregano avvolti investi nere.

E’ un programma contro la vita preciso,l’imam Khomeini, poco prima di prendereil potere in Iran, aveva sentenziato: “La vitaè la feccia dell’esistenza”. Questo è il pro-gramma anche per l’Europa.

L’Isis sta perdendo pezzo per pezzo il se-mi-stato che aveva costruito. Ma l’ideologiache lo nutre troverà altri corpi da occuparee intanto centinaia di militanti, anche forei-gn fighters di ritorno da Iraq e Siria, si ap-prestano a colpire nel mucchio, basta che visia un numero sufficiente di persone.

Spesso sono giovanissimi e, come a Bar-cellona, le loro fotografie riprendono voltiallucinati.

Ho avuto modo a Milano in questi giorninel mio lavoro di giudice di celebrare giudi-zi direttissimi nei confronti di giovani afri-cani e nordafricani allontanatisi dai Centridi accoglienza e arrestati per piccoli reati.

E’ un contatto impressionante. Sono gio-vanissimi, allo sbando, senza una famigliain Italia, sono analfabeti o hanno frequen-tato solo una scuola coranica, sono privi diqualsiasi riferimento umano e culturale,molti vagano per la città in attesa di qualco-sa che dia un senso alla loro esistenza.

Condivido quindi quanto ha scritto So-uad Sbai, la giornalista di origine maroc-china, secondo la quale bisogna stare moltoattenti a quanto accade nei Centri d’acco -glienza, soprattutto quelli per i minori.

Basta un’esaltazione in più durante lapreghiera, un compagno che funge da puntodi riferimento psicologico e può iniziare ilprocesso di radicalizzazione. E’ un transitorapidissimo che può completarsi in pochesettimane, anche in pochi giorni. Attenzio-ne dunque.

Dopo la strage di Barcellona si sono sen-titi meno, per fortuna, quelli secondo cui ilterrorismo non ha nulla a che fare con l’I-slam. Gli sciocchi, è difficile trovare altritermini, che danno da mangiare ai cocco-drilli in buona fede o contando forse di es-sere mangiati per ultimi.

Vale la pena comunque di ricordare loroche l’islam è l’unica grande religione a baseessenzialmente militare, da un capo milita-re come Maometto è stata fondata, e che hasempre programmato la sua espansionesulla conquista di territori e non sul convin-cimento delle coscienze delle persone cheli abitano.

L’islam, salvo una sua evoluzione chesembra lontanissima perché invece cheprogredire sembra in questi anni regredi-re, credo sia incompatibile con la democra-zia. I suoi cardini, come credono tutti, nonsolo i fanatici e gli integralisti, lo ha ricor-dato recentemente in un’intervista lo scrit-tore Ferdinando Camon, sono che il fedelevale più dell’infedele, l’uomo vale più delladonna, l’emirato vale più della democrazia.E in più morire per Allah è un bene.

E noi che amiamo la vita e forse ancheuna passeggiata sulle Ramblas, siamo lafeccia dell’esistenza

Guido Salvinimagistrato

(segue dalla prima pagina)

Davvero Francesco volevamandare un messaggio sullo ius

soli al nostro Parlamento? No

Leggere prima di commentare. La massima èovvia se l’intenzione è capire. Se invece l’o-

biettivo è tirare il Papa dalla propria parte ba-sta fermarsi a qualche titolo forzato. La letturadel Messaggio per la giornata mondiale del mi-grante e del rifugiato 2018 va poi affiancata allarilettura degli interventi precedenti sullo stes-so tema. La conclusione non è esattamente l’a-pologia della proposta di legge in discussioneal Senato sullo ius soli, come i media hanno su-bito sintetizzato, con seguito altrettanto rapidodi chiose pro e contro.

Punto n. 1. Se le parole di Francesco ri-guardano la giornata “mondiale” dei migran-ti, vuol dire che il cono di attenzione non è so-lo l’Italia, ma è niente più che il mondo. E nes-suno può negare che nel mondo, di fronte allamole dei movimenti migratori, via sia, per ri-prendere i quattro termini chiave adoperatinel messaggio, un serio deficit di accoglienza –per non andare troppo lontano, va tutto beneai confini meridionali della Libia, con chiproviene da Sud? –, di protezione –per non an-dare troppo lontano, siamo contenti che nes-sun curdo riesca ad allontanarsi dalla Tur-chia, a seguito del turpe accordo con l’Ue delmarzo 2016? –, di promozione e di integrazione:gli spettacoli di Calais o dei confini balcanicidicono qualcosa in proposito.

Punto n. 2. Se il Messaggio riguarda il mon-do, e non solo l’Italia, l’Italia tuttavia non ètenuta a disinteressarsene ma, rispetto allequestioni che esso pone, è chiamata a con-frontarlo con il complicato stato dell’arte alproprio interno. La “detenzione” nei centridi raccolta finalizzati alle espulsioni è limita-ta da tempo a pochissimi casi, al tal punto chel’esigenza da noi è opposta: è cioè garantire lasicurezza comune con l’inserimento nei cen-tri di coloro che devono essere allontanaticoattivamente perché delinquenti, o sospettidi terrorismo. Prima accoglienza e assistenzasanitaria sono garantite a prescindere dal-l’ingresso regolare e – quanto alle cure medi-che – a prescindere dalla presentazione diuna domanda di asilo. Il Papa fa riferimentopure alla formazione del personale di poliziadi frontiera: dentro e fuori l’Europa, tutti at-testano l’ottima qualità delle forze di poliziaitaliane a ciò dedicate.

Punto n. 3. Poniamo a fianco gli auspici delPapa sugli strumenti di integrazione, dallaconoscenza della lingua all’istruzione, allegaranzie sul lavoro con la legislazione italia-na, consolidatasi in un quarto di secolo. C’ètanto da fare quanto alla piena applicazionedelle norme vigenti, ci sono ancora sacche disfruttamento pesante, da Rosarno alla Capi-tanata e al Casalese, ma se si svolgono perio-diche operazioni di polizia, è in coerenza conun ordinamento che impone di intervenire.Da qualche sindacalista entusiasta della let-tura strumentale del Messaggio di Francescoci si attenderebbero piuttosto occhi apertidalle sezioni del suo sindacato sui territoricritici.

Punto n. 4. Giusto per non eludere il nodosul quale si è scatenata la polemica: la cittadi-nanza. Il passaggio contenuto nel messaggiosi presta più di altri a rilanci equivoci. Ma lasua lettera esprime la preoccupazione a evi-tare apolidie. La gradualità del nostro siste-ma – permesso di soggiorno, carta di soggior-no, cittadinanza – riconosce un progressivopieno inserimento molto prima del riconosci-mento della cittadinanza, sempre che il mi-grante collabori, e ciò scongiura l’isolamentoproprio degli apolidi. Questi ultimi sonopressoché sconosciuti in Italia: tutti i migran-ti, o quasi, hanno la propria cittadinanza diorigine, e taluni di loro non chiedono quellaitaliana perché rischierebbero di perderequella della nazione di provenienza. Senzatrascurare le centinaia di migliaia di provve-dimenti concessi negli ultimi anni.

Leggere prima di commentare. Altrimentia essere espulsi sono buon senso e ragionevo-lezza.

Alfredo Mantovano

NOI, TESTIMONI DELL’OCCIDENTELa feccia siamo noi I migranti e il Papa

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ANNO XXII NUMERO 197 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO MARTEDÌ 22 AGOSTO 2017

avrebbe dovuto fortemente sostenereper evitare di finire strangolato da unagiungla autorizzativa che ha reso ineffi-cace il suo potere, e allontanato forse inmodo definitivo i cittadini dallo statocentrale. L’errore più evidente di Errani,in fondo, sta tutto qui: avere accettato unincarico nel quale i tempi, le modalità ele regole sono dettati da altri poteri am-ministrativi.

A quasi un anno dal sisma del 24 ago-sto il bilancio, quindi, è assolutamentenegativo con qualche decina di casetteassegnata (peraltro a sorte), cumuli dimacerie che giacciono ancora ad ostrui-re le vie dei paesi dell’Italia centrale,una generale disaffezione delle comuni-tà locali verso le istituzioni nazionali.

E a nulla sono valsi gli appelli in tv delpremier Gentiloni, che aveva assicuratoa febbraio poteri straordinari a chi sistava occupando di emergenza e rico-

nella ricostruzione fu superato solo dopoquattro anni dal 2009 grazie alla intuizio-ne dell’allora ministro per la Coesioneterritoriale Fabrizio Barca, vero portfoliomanager, di istituire gli Uffici speciali edare vita alla scheda parametrica di va-lutazione per gli edifici privati. In ognicaso la scelta dell’affidamento diretto al-l’impresa non è mai stata in discussio-ne.

Per il terremoto che ha coinvolto leregioni dell’Italia centrale, invece, si èdeciso di procedere con le gare, determi-nando un processo farraginoso e oltre-modo rigido, perché il committente nellosvolgere la funzione di stazione appal-tante, si sta esponendo al rischio del con-tenzioso, tipico delle procedure di sele-zione, con un incontrollabile allunga-mento dei tempi, come ha dimostrato ildisallineamento tra la ricostruzioneaquilana privata e pubblica, quest’ulti -

LA DECOSTRUZIONE DI ERRANIAnalisi tecnica di un fallimento. La governance lunga e burocratica. Il paese con3.600 enti per la prevenzione. I tempi infiniti. Il contrario del modello L’Aquila

di Stefano Cianciotta

Vasco Errani, al centro, con il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi (foto LaPresse)

L’Italia, rispetto ad altri paesi, hauna complessità superiore deter-

minata dal fatto che le regole di acqui-sto sono governate da Anac, l’Agenzianazionale anticorruzione. Questo fatto-re è meno rilevante in altri paesi euro-pei, e quindi è più facile semplifica-re”.

In questo passaggio dell’intervista diEugenio Cau al commissario per l’Agen -da digitale Diego Piacentini, pubblicatasul Foglio weekend di sabato 12 agosto,c’è il senso del fallimento della governan -ce targata Errani, che ha guidato da unanno la ricostruzione post-sisma nell’Ita -lia centrale. Ieri il premier Paolo Genti-loni ha comunicato che il lavoro del com-missario alla Ricostruzione per il terre-moto si concluderà a settembre, dimis-sioni peraltro già anticipate.

Quella filiera, infatti, concepita dalDecreto sulla ricostruzione non potevafunzionare, con una governance così lun-ga, verticale e complessa, sulla qualestanno gravando poteri troppo diversi tra

loro, come sono quello delle Sovrinten-denze, dei Parchi nazionali, degli Ufficispeciali dei comuni e delle regioni, dellaProtezione civile, del Commissario e delgoverno, e appunto della stessa Anac diRaffaele Cantone.

La gestione di una gravissima emer-genza, quale è quella che stanno vivendole regioni dell’Italia centrale, non si po-teva e non si può affrontare con la medi-cina canonica della Pubblica ammini-strazione italiana, caratterizzata da trop-pi centri di potere e non da centri diresponsabilità, e da un numero conside-revole di strutture amministrative checontinuano a condizionarsi a vicenda.

Il fallimento di questo modello orga-nizzativo, nel quale Errani avrebbe do-vuto avere e svolgere un ruolo meramen-te politico/strategico (portfolio manager) eche si è trasformato in quello di projectmanager, è stato causato dalla mancatacreazione di un ambiente virtuoso chelasciasse spazio alle buone pratiche digestione, a discapito della burocrazia.

Il fallimento di questo modello è bal-zato agli occhi di tutti dopo la morte peril freddo di decine di animali, è statoevidenziato dall’impossibilità degli abi-tanti di Norcia di rientrare nelle abita-zioni perché nessuno si è preso la brigadi autorizzarli, dall’estrazione a sortedelle casette per alcune centinaia di per-sone prima ad Amatrice e poi ad Arqua-ta e dalla vista di quell’indicibile cumulodi macerie, che giace ancora lì ai piedidelle case sventrate.

A un anno di distanza dal 24 agosto2016, insomma, si è materializzato il ri-schio concreto che i difetti sul piano del-la cultura organizzativa, che ha contrap-posto fin dall’inizio l’allora capo dellaProtezione civile Fabrizio Curcio ed ilcommissario Errani, ed una filiera am-ministrativa lunga e complessa, avrebbe-

ro di fatto impantanato la macchina del-la ricostruzione.

Le ordinanze che si sono succedutenei mesi, poi, hanno confermato quantocentro e periferia viaggino su binari pa-ralleli, e utilizzino codici e linguaggi peralcuni versi antitetici. Nella definizionedel quadro normativo per programmarela fase della ricostruzione post-sisma, in-fatti, il tempo è una variabile fondamen-tale, che presuppone un’attenta analisi amonte delle ipotetiche risultanze deiprovvedimenti posti in essere.

Proprio la mancanza di analisi dellaincidenza del fattore tempo sui processiin atto, è uno dei limiti più evidenti dellaricostruzione del terremoto, perché si re-gistra uno scollamento palese tra la defi-nizione delle norme, la loro esecuzione ele azioni che dovrebbero essere discipli-nate.

All’Aquila, dopo la fase emergenzialesegnata dal progetto Case, l’immobilismo

ma sostanzialmente ferma.Basti pensare, ad esempio, che per la

realizzazione delle piastre sulle quali co-struire le casette ad Accumoli hannopartecipato 274 imprese. Sulla legittimi-tà dei procedimenti, inoltre, è vincolanteil parere dell’Anac, e hanno voce in capi-tolo anche Parco e Sovrintendenza, de-terminando un eccesso di controlli cheha il solo obiettivo di allungare a dismi-sura i tempi della ricostruzione.

L’ordinanza numero 25, poi, ha postoaltre problematiche sotto il profilo delvincolo e della pianificazione, perché dàin capo ai comuni e agli Uffici speciali lacompetenza entro 30 giorni di predispor-re la perimetrazione dei centri storici (iltempo è già scaduto ed i provvedimentilatitano), che i presidenti della regioneentro quattro mesi dovranno rendereesecutiva.

Si tratta, però, di comuni piccoli, che

hanno poco personale, attualmente obe-rato dalle pratiche, e anche in casi dicomuni più grandi, ci troviamo di frontea strutture tecniche poco performanti.

Insomma la storia della ricostruzionedel terremoto del centro Italia continuaad essere l’ennesima pagina sbiadita eopaca del potere della burocrazia italia-na, forse il suo emblema più deteriore.

Del resto in un paese nel quale si oc-cupano di prevenzione a vario titolo3.600 enti, e che conta per la definizionedei procedimenti 1.200 norme, con tempilunghissimi per arrivare a una decisione(la durata media di una Valutazione diImpatto ambientale è di 30 mesi), parlaredi modelli per la ricostruzione è banalee francamente stucchevole. L’unico mo-dello che può funzionare in una situazio-ne di emergenza è quello che va in dero-ga alle norme ordinarie.

Ed è quello che il commissario Errani

struzione, ovvero alla Protezione civile eal commissario (con l’ordinanza numero35 è stata modificata la procedura perl’affidamento delle scuole da parte dellaProtezione civile, che può optare per laprocedura negoziata invitando dieci im-prese invece della gara aperta).

La Protezione civile 3.0 targata Genti-loni voleva ripartire dalla Protezione ci-vile di Bertolaso, una macchina perfettache funzionava però in base a due fonda-mentali parametri organizzativi: una lea-dership riconosciuta e acclarata; la pos-sibilità di andare in deroga (anche trop-po e in modo oltremodo estensivo) allanormativa ordinaria.

Tra fine settembre e novembre 2009, asoli cinque mesi dal terremoto, all’Aqui -la 18 mila persone furono ospitate nelleNew Town (progettazione e tecnologiaitaliana replicata di recente in NuovaZelanda), e l’anno scolastico cominciòsenza alcun ritardo.

Quella fase eroica della emergenza fupossibile proprio perché quella Prote-zione civile, che nel frattempo riuscì aportare all’Aquila tutti i grandi della ter-ra con un G8 improvvisato in poche setti-

mane, era la Protezione civile di GuidoBertolaso. Ne incarnava la sua idea diorganizzazione, caratterizzata da una fi-liera di comando corta, snella, favoritaanche dalla possibilità di bypassare lenorme ordinarie, con un allineamentochiaro agli obiettivi di tutta la struttura,evidenza che chi li aveva indicati li ave-va anche saputi comunicare e condivide-re con i collaboratori.

Adesso nessuno sa cosa accadrà per-ché nel frattempo si è dimesso il capodella Protezione civile Curcio, che si èdefilato nelle scorse settimane per moti-vi personali.

Le polemiche delle scorse settimane(non era stata abolita l’imposta catastaleper i terremotati) e quelle di questi gior-ni (la mancata esenzione fiscale per dueanni per le attività che insistono nellezone terremotate), sono l’ennesima pro-paggine di un modello concepito male efinito peggio.

L’esperienza di Vasco Errani già qual-che mese fa sembrava al capolinea, comeaveva fatto intendere anche lo stessopresidente della Regione Abruzzo, Lu-ciano D’Alfonso, che in un convegno pro-mosso dall’Ance di Teramo, aveva chia-ramente detto che a fine giugno sarebbecambiata la governance della ricostruzio-ne, e che i poteri sarebbero stati trasferi-ti nelle mani dei presidenti delle regionicon l’obiettivo di snellire e velocizzare laricostruzione.

Le dimissioni di Curcio sembravanoaver lasciato all momento Errani ancorain partita. Ma il bilancio della sua gestio-ne commissariale è fallimentare, soprat-tutto nelle complicate relazioni con ilterritorio, che sono diventate ormai com-promesse, ad usare un eufemismo.

Il problema principale, però, restaquello del modello di ricostruzione daadottare. In Umbria vorrebbero riporta-

re in auge quello del 1997, che avevaproprio nelle regioni e nei comuni unpunto di riferimento fondamentale senzala intercessione di altri organismi cheavrebbero allungato la filiera della buro-crazia.

La politica, debole e timorosa e allavigilia di una campagna elettorale peral-tro dagli esiti incerti, non ha la forza dialzare la voce e imporre l’unico modellopossibile: quello a burocrazia zero, chenon prevede intercessioni e deve andarein deroga alle regole ordinarie. Gli stru-menti per individuare le imprese e pro-cedere alle trattative private esistono,come quello dei criteri reputazionali o lapossibilità di procedere a delle white li-st.

Se non si procede in questa direzione,peraltro acclarata anche dal nuovo codi-ce dei Contratti dei lavori pubblici, ognianniversario del sisma sarà l’ennesimaanalisi delle occasioni mancate.

Proprio la mancanza di analisidella incidenza del fattore temposui processi in atto, è uno dei limitipiù evidenti

Guido Bertolaso, a destra, all’Aquila assieme all’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, durante la ricostruzione post terremoto (foto LaPresse)

La filiera concepita dal Decretosulla ricostruzione non potevafunzionare, con una governancecosì lunga, verticale e complessa

Errani avrebbe dovuto svolgereun ruolo meramente politicostrategico, ma che si è trasformato inquello di project manager

Bast i pensare che per larealizzazione delle piastre sulle qualicostruire le casette ad Accumolihanno partecipato 274 imprese

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ANNO XXII NUMERO 197 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO MARTEDÌ 22 AGOSTO 2017

L’ARTE DI ESSERE FIGLIAl Meeting di Rimini una mostra (con Warhol e Antonioni) spiega che non

ci sarebbero gli artisti contemporanei senza dialogo con i “padri” del passatodi Nicola Imberti

La scultura “Qui Ora” di Gianni Dessi nei padiglioni della Fiera di Rimini in questi giorni di Meeting per la mostra “Il Passaggio di Enea” (foto di Chiara Maioli)

Quando Gian Lorenzo Bernini decise didare forma alle parole di Virgilio il poe-

ta era già morto da secoli. E non sapeva chela sua ultima opera, incompiuta, era stata di-vulgata nonostante (così si narra) la sua con-trarietà. Chissà come avrebbe reagito tro-vandosi di fronte all’opera dello scultoreche, attingendo dal racconto dell’Eneide,aveva deciso di rappresentare la fuga daTroia di Enea, insieme al padre Anchise e alfiglio Ascanio.

Bernini usò molto della sua creativitàper costruire la scena posizionando i trepersonaggi in verticale. Anchise, il vecchio,sulle spalle del più giovane e muscolosoEnea, che dietro di sé ha il figlioletto Asca-nio. Una rappresentazione del rapporto pa-dre-figlio. Ma anche tre generazioni che nelloro aspetto fisico, nei gesti, nello sguardo,impersonano il passato, il presente e il futu-ro. Metafora della storia. E dell’arte.

Dopotutto chi è l’artista se non colui che èin grado di prendere l’eredità del passato eattualizzarla con uno sguardo rivolto al fu-turo? Bernini parlava al suo tempo, ma par-

lava anche e soprattutto a chi sarebbe arri-vato dopo di lui. E fondava tutto questo, inmaniera solida e inequivocabile, sul lavorodi chi lo aveva preceduto. Un percorso crea-tivo che, quando si parla di arte “classica”,nessuno sembra mettere in discussione.

Diverso è quando si parla di arte contem-poranea. Qui gli artisti sono spesso descritticome degli iconoclasti concentrati a di-struggere ciò che è già stato piuttosto checostruire partendo da esso. E’ anche daquesta considerazione che è nata “Il pas-saggio di Enea. Artisti di oggi a tu per tu conil passato”, la grande mostra di arte con-temporanea che Casa Testori ha realizzatoin occasione dell’edizione 2017 del Meetingdi Rimini (iniziata domenica, si chiuderàsabato 26 agosto). Una mostra che, partendodal titolo della manifestazione (“Quello chetu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo,per possederlo”, citazione dal Faust di Goe-the), ha raccolto le opere di alcuni artisticontemporanei alle prese con l’eredità delpassato. La scelta di Enea come personag-gio simbolo non è casuale. Ed è il frutto del-l’incontro con Giorgio Caproni (ancora unavolta il dialogo presente-passato che torna)che intitolò una delle sue raccolte di poesieproprio “Il passaggio di Enea”. Per il poetaEnea, non quello di Bernini ma quello rap-presentato da Francesco Baratta nella scul-tura che si trova in piazza Bandiera a Geno-va, rappresenta “la condizione dell’uomocontemporaneo, della mia generazione: so-lo nella guerra, con sulle spalle un passatoche crolla da tutte le parti, che lui deve so-stenere e che per la mano ha un avvenireche ancora non si regge sulle gambe”. In-somma Enea come l’artista che non teme ilpassato che crolla, ma da lì sa partire peralimentare la propria opera.

“Anche gli artisti di oggi – spiega al Fo-glio uno dei curatori della mostra, LucaFiore – hanno dietro di sé un mondo ormaifinito eppure, facendosi carico del tesorodel passato, si dirigono, camminando con leloro gambe, verso un futuro incerto, con

l’ambizione di partecipare alla fondazionedi una nuova civiltà”.

La mostra di quest’anno è la seconda tap-pa di un percorso. Già due anni fa, quasi persfida, i curatori Davide Dall’Ombra, LucaFiore, Giuseppe Frangi e Francesca Ra-daelli, avevano allestito a Rimini una mo-stra sull’arte contemporanea. Un evento“didattico” che cercava di spiegare, a chinon riusciva ad andare oltre il solito pre-giudizio, come in realtà l’arte contempora-nea “si fa con tutto, è dappertutto, parla ditutto e rischia tutto”. Non a caso l’esposizio -ne si apriva con la celebre scena di “Treuomini e una gamba” e la battuta che un po’tutti abbiamo considerato come espressio-ne del sentire comune: “Il mio falegnamecon 30 mila lire la fa meglio. Non ha nean-che le unghie”. In maniera forse un po’ ina -spettata la mostra fu tra le più visitate. Intantissimi attraversarono la piazza su cui si

affacciavano sette stanze dedicate ad al-trettanti artisti (Marina Abramovic, AlbertoGarutti, Ai Weiwei, Ron Mueck, Anish Ka-poor, Damien Hirst e Jenny Saville). Alcuniriuscirono a superare i pregiudizi, altri liconfermarono, tutti accettarono l’ipotesi,positiva, di un dialogo con i curatori sul sen-so dell’arte contemporanea. Come un’espo -sizione priva di opere originali abbia avutoquel successo è forse anch’esso un misterodell’arte contemporanea, fatto sta che pro-prio da quell’“assenza” è iniziata una nuo-va sfida.

Un “ritorno al passato” perché non è laprima volta che opere vere vengono esposteall’interno dei padiglioni del Meeting. Nel1983, direttamente dalla Pinacoteca di Bre-ra, erano infatti arrivati a Rimini alcuniquadri di Francis Bacon, mentre qualcheanno dopo sarebbero arrivati James Tur-

rell e William Congdon. A distanza di tren-t’anni quindi, ecco una mostra di arte con-temporanea.

Il percorso, proprio come due anni fa, èlibero. Otto gli artisti coinvolti. Ai quali siaggiungono due “padri nobili”. Si va dallemonumentali fotografie di Julia Krahn chereinterpreta a suo modo l’immagine diEnea e Anchise immortalando se stessa,nuda, mentre porta la propria madre inspalle e mentre la tiene in braccio (in unascena che richiama “La Pietà” michelan -giolesca), a Emilio Isgrò che cancella “IPromessi Sposi”. Dalla Madonna di AlbertoGarutti – una statua classica che invece diavere la fredda temperatura della cerami-ca, grazie ad un dispositivo, si scalda fino ai36,7 gradi centigradi, calore del corpo uma-no – alla Via Crucis realizzata da AdrianPaci per la chiesa di San Bartolomeo a Mi-

lano (foto stampate su alluminio che si ispi-rano al “Vangelo Secondo Matteo” di PierPaolo Pasolini). Dai paesaggi psichedelicidi Giovanni Frangi alla “Processione”, di-segnata a matita, di Andrea Mastrovito, do-ve corpi nudi si mescolano a quelli vestiti, ascheletri, personaggi sacri e profani. Dallascultura “Qui Ora” di Gianni Dessi, realiz-zata originariamente per il cortile del com-plesso di Sant’Ivo alla Sapienza che rap-presenta una mano di sei metri che impu-gna un oggetto a metà tra una casa e unalanterna, alle foto che il regista Wim Wen-ders ha scattato a Ground Zero. Cinque im-magini gigantesche allestite come a forma-re una piccola cappella in cui il dolore del-la morte e della distruzione viene illumina-to della luce del mattino provocando uneffetto di “inaccettabile” e scandalosa bel-lezza (può l’uomo riconoscere e fotografare

la bellezza e la speranza anche se circonda-to dal nulla?).

Qui, ora, il passato e il presente si incon-trano, dialogano. I linguaggi della moderni-tà riscoprono, riconquistano, reinventanol’eredità del passato. Non si tratta di ripete-re, ma di ricreare. “Nel campo dell’arte –sottolinea Fiore – è evidente, oggi forse dipiù, che il rapporto con il passato si fondasu una fedeltà discontinua. Andare avantivoltando le spalle a ciò che è stato. Osare unpasso in più per non ripeterlo. Tradire latradizione per esserle fedele. E tutto, a benvedere, ruota attorno ad una domanda: co-me è possibile fare questo?”. Così si capisceche il legame con il padre non solo non èassente, ma è molto più profondo di quantosi possa immaginare. Magari inconsapevo-le, a tratti conflittuale, come solo un rappor-to così umano può essere (quante volte sarà

capitato anche a noi di riscoprirci a vivereun’esperienza così con i nostri padri).

Come ha spiegato Giuseppe Frangi, un al-tro dei curatori, nell’incontro di presenta-zione della mostra che si è svolto domenicaa Rimini, si tratta di “un percorso per sta-zioni dove ogni stazione accende una moda-lità differente di rapporto con il passato, siache si tratti di arte del passato che delladimensione umana e antropologica del pas-sato. Tutti gli artisti che vedrete sono legatida un profondo amore per ciò che li ha pre-ceduti, per ciò che ha permesso che lorofossero – si è artisti perché altri lo sono statiprima. Eppure ogni volta che si varca la ten-da di uno degli spazi della mostra e si entranelle singole sale, si percepisce che questoamore, per essere vero, a volte ha dovutoprendere la forma di una lacerazione. Ilpassato torna a vivere, ad essere vivo nelpresente, se si ha il coraggio di reinventar-lo, anche se per reinventarlo fosse necessa-rio voltargli le spalle. Ma questo è ciò che fadi un uomo un artista”.

E ancora: “Artista è chi rende presente,suggestivo per l’oggi, ciò che per il mondorischia spesso di essere solo un ricordo, unaripetizione. La mostra si apre con un’imma -

gine che apparentemente non c’entra nien-te con il resto: una scena del viaggio di Da-vid Bowman in ‘2001 Odissea nello spazio’.L’abbiamo scelta perché dà l’idea della va-stità di orizzonti che si spalanca nella men-te di un’artista ogni volta che si mette all’o-pera. Ma abbiamo messo quell’immagineanche per dire che il percorso della mostranon ha nulla di restrospettivo, non c’è unavolontà conservativa. La mostra vuole esse-re una proiezione in avanti. E’ uno sporger-si su quello che sarà avendo fatto tesoro diquello che è stato”.

Non c’è nulla di automatico o precostitui-to. E non è strano quindi che a introdurregli artisti siano due maestri del Novecentoscomparsi. Quasi a sottolineare che il pas-sato non è solo quello “lontano” dell’anti -chità. Che per essere padri occorre esserestati prima figli (Anchise padre di Enea pa-dre di Ascanio) in un percorso interminabi-le. Ecco quindi Andy Warhol e Michelange-lo Antonioni di cui quest’anno ricorrono, ri-spettivamente, il trentennale e il decennaledella morte.

Il primo, il padre della pop art, è a Riminicon “The Last Supper”, un dipinto del 1986che fa parte dell’ultimo ciclo realizzato daWarhol poco prima di morire, nel febbraiodell’anno dopo. Si tratta di un omaggio aLeonardo e alla sua “Ultima cena”. Abitua-ti alle provocazioni dell’artista è difficilenon rimanere colpiti, in questa occasione,dal rispetto assoluto con cui il pittore si av-vicina al passato. Un’attenzione che lo stes-so Warhol manifestò parlando al suo amicoPierre Restany cui, dopo aver realizzato l’o-pera, chiese: “Pensi che gli italiani vedran-no il rispetto che ho per Leonardo?”.

Quello di Antonioni è invece un omaggioa Michelangelo e a una delle sue sculturepiù famose: il Mosè realizzato per la Tombadi Giulio II a San Pietro in Vincoli. In “LoSguardo di Michelangelo”, suo ultimo cor-tometraggio e “testamento” artistico, il re-gista viene ripreso mentre fa il suo ingressonella basilica romana, il corpo visibilmen-

te segnato dall’ictus che lo aveva colpitoquasi vent’anni prima, il passo strascinato.Attraverso la cinepresa lo sguardo di Anto-nioni osserva l’interno complesso, ne inda-ga i particolari. A volte sullo schermo appa-re il volto del regista, rapito. Ma il vero pro-tagonista di questi 17 minuti di cinema è ilsilenzio. E la celebre frase di Michelange-lo, “perché non parli?!”, diventa il filo ros-so che lega Mosè e Antonioni. Da un lato lastatua, imponente nella sua bellezza, silen-ziosa. Dall’altra il regista, al quale l’ictusha ridotto la capacità di espressione, cheosserva in silenzio. E solo cede a un gesto ditenerezza accarezzando il marmo. Un gestodefinitivo che testimonia, senza bisogno diparole, l’amore verso il passato e i propripadri. Verso quell’opera che resta lì, im-mobile, nell’ultima scena del documenta-rio, mentre Antonioni guadagna l’uscitaper rimmergersi nel suo presente.

Chi è l’artista se non colui che èin grado di prendere l’eredità delpassato e attualizzarla con unosguardo rivolto al futuro?

“Il passato torna a vivere nelpresente se si ha il coraggio direinventarlo, anche se fossenecessario voltargli le spalle”

“Nel campo dell’arte – dice unodei curatori –è evidente, oggi forse dipiù, che il rapporto con il passato sifonda su una fedeltà discontinua”

La mostra è introdotta da “TheLast Supper” di Warhol e dalcortometraggio “Lo sguardo diMichelangelo” di Antonioni

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