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Il libro

“Non sono il tipico avvocato. Non ho un bell’ufficio con mobili di mogano e poltrone in pelle. Non appartengo a uno studio legale, prestigioso o meno. Non faccio opere di bene per l’ordine degli avvocati. Sono un lupo

solitario, una canaglia che si batte contro il sistema e odia le ingiustizie…”

Non si può certo dire che Sebastian Rudd sia un avvocato come tutti gli altri. Non possiede uno studio vero e

proprio, ma il suo ufficio si trova a bordo di un grande furgone nero blindato dotato di vari comfort – wi-fi, un

frigorifero pieno di superalcolici, delle comode poltrone e un buon equipaggiamento di armi. Non ha soci in

affari, ma accanto a lui c’è sempre un uomo, che lui chiama Partner, armato fino ai denti, che gli fa da autista,

guardia del corpo, confidente, impiegato e caddy, quando gioca a golf. Sebastian ha anche una ex moglie che

non smette mai di procurargli guai e un figlio piccolo che non vede tanto quanto vorrebbe.

Sebastian Rudd difende i peggiori criminali, i casi disperati, in poche parole tutte quelle persone che nessun

avvocato si sognerebbe di avvicinare. Insomma, fa il lavoro sporco. Ritiene che ognuno abbia diritto ad avere un

processo equo, anche a rischio di diventare lui stesso il bersaglio dei suoi assistiti e di essere costretto a sua volta

a usare metodi poco ortodossi. Sebastian odia le ingiustizie, detesta i poteri forti e si prende gioco delle

istituzioni.

Narrato in prima persona, L’avvocato canaglia racconta la vita professionale e privata di un vero

anticonformista, un uomo sarcastico, eccessivo, arrogante, scaltro, ma molto umano, uno dei personaggi più

riusciti dei romanzi di John Grisham.

L’autore

John Grisham è autore di ventotto romanzi, un saggio, una raccolta di racconti e cinque romanzi per ragazzi.

www.jgrisham.com

John Grisham

L’avvocato canaglia

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Traduzione di Nicoletta Lamberti e Annamaria Raffo

L’avvocato canaglia

Parte prima

OLTRAGGIO

1

Mi chiamo Sebastian Rudd e, anche se sono un noto avvocato di strada, non vedrete mai il mio nome strillarvi in

faccia dalle pagine gialle, né lo vedrete sui cartelloni pubblicitari o sulle panchine alle fermate degli autobus.

Non pago per andare in televisione, anche se ci finisco spesso. Non compaio sull’elenco telefonico. Non ho uno studio tradizionale. Vado in giro con una pistola, legalmente, perché il mio nome e la mia faccia tendono ad

attirare l’attenzione del tipo di gente che a sua volta se ne va in giro con una pistola e non ha problemi a usarla.

Vivo solo, di solito dormo da solo e non ho né la pazienza né la comprensione necessarie per coltivare delle

amicizie. La mia vita è la legge, sempre appassionante e ogni tanto appagante. Non la definirei un’“amante

gelosa”, come disse una volta con una frase diventata famosa un personaggio ormai dimenticato. È più come

una moglie dispotica che ha il controllo del libretto degli assegni. Non c’è via di scampo.

Di questi tempi mi ritrovo a dormire in motel a buon mercato che cambiano ogni settimana. Non sto cercando di

risparmiare: sto cercando di restare vivo. Ci sono moltissime persone che sarebbero felici di ammazzarmi e

alcune l’hanno anche detto esplicitamente. Alla facoltà di legge non ti spiegano che un giorno potresti ritrovarti

a difendere un soggetto accusato di un crimine così ripugnante che cittadini altrimenti pacifici potrebbero

arrivare ad armarsi e a minacciare di uccidere l’imputato, il suo avvocato e perfino il giudice.

Ma sono già stato minacciato in passato. Fa parte dell’essere un avvocato canaglia, una sottospecializzazione

della professione in cui sono capitato più o meno per caso dieci anni fa. All’epoca in cui mi sono laureato in

legge il lavoro era scarso, così, con riluttanza, ho accettato un impiego part-time presso il difensore d’ufficio

della Città. Da lì sono poi passato a un piccolo studio legale scarsamente remunerativo che si occupava solo di

difesa penale. Dopo qualche anno lo studio è fallito e mi sono ritrovato in mezzo a una strada, insieme a

moltissimi altri, a lottare per guadagnare un dollaro. È stato un caso in particolare a farmi conoscere. Non posso dire che mi abbia reso famoso perché, seriamente,

come fai a dire che un legale è famoso in una città di un milione di abitanti? Tantissimi avvocati locali credono

di essere famosi. Ti sorridono dai cartelloni pubblicitari chiedendoti di affidargli il tuo fallimento e si

pavoneggiano negli spot televisivi con l’aria di essere profondamente preoccupati per le tue lesioni personali.

Però loro devono pagare per la pubblicità. Io no.

I motel a buon mercato cambiano ogni settimana. Sono nel bel mezzo di un processo in una squallida, isolata

cittadina di bifolchi reazionari che si chiama Milo, a due ore da dove abito nella Città. Difendo un emarginato

diciottenne cerebroleso accusato di avere ucciso due ragazzine in uno dei crimini più odiosi che abbia mai visto,

e ne ho visti parecchi. I miei clienti sono quasi sempre colpevoli, per cui non spreco molto tempo torcendomi le

mani e chiedendomi se avranno ciò che meritano. In questo caso, però, Gardy è innocente, non che questo abbia

importanza. Non ne ha affatto. Ciò che di questi giorni a Milo ha importanza è che Gardy venga giudicato

colpevole, condannato a morte e giustiziato nel minor tempo possibile, in modo che la cittadina si senta meglio e

possa andare avanti. Andare dove, esattamente? Non ne ho la più pallida idea, e neppure me ne importa. Questa

città sta regredendo da cinquant’anni e non sarà certo un pidocchioso verdetto a cambiarne la rotta. Ho letto e ho

sentito dire che Milo ha bisogno di una “conclusione”, qualunque cosa significhi. Devi essere un idiota per

credere che questa città crescerà, prospererà e diventerà più tollerante non appena Gardy avrà il suo ago nella

vena. Il mio lavoro è stratificato e complesso e, al tempo stesso, molto semplice. Vengo pagato dallo Stato per fornire

una difesa di prima classe a un imputato accusato di un delitto che comporta la pena capitale e questo mi obbliga

a combattere, a lottare con le unghie e con i denti e a scatenare l’inferno in un’aula di tribunale dove nessuno mi

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ascolta. In pratica Gardy è stato condannato il giorno stesso in cui è stato arrestato e il suo processo è solo una

formalità. I poliziotti, ottusi e spietati, hanno inventato le accuse e fabbricato le prove. Il procuratore lo sa, ma

non ha spina dorsale ed è in corsa per la rielezione l’anno prossimo. Il giudice dorme. I giurati sono

sostanzialmente persone semplici e perbene, che seguono il processo con gli occhi sgranati e sono ansiosissime

di credere alle menzogne che le autorità producono con orgoglio sul banco dei testimoni.

Milo ha la sua quota di motel da quattro soldi, ma io non posso andarci. Verrei linciato o bastonato a sangue o

arso sul rogo, oppure, se avessi fortuna, un buon tiratore mi centrerebbe in mezzo agli occhi e tutto finirebbe in

un lampo. La polizia di Stato mi assicura protezione durante il processo, ma ho la netta sensazione che gli agenti

non se la prendano troppo a cuore. Mi vedono come mi vede la maggior parte della gente: io sono un mascalzone fanatico con i capelli lunghi, abbastanza deviato da combattere per i diritti degli assassini di

bambine e simili.

Il mio attuale motel è un Hampton Inn che si trova a venticinque minuti da Milo. Costa sessanta dollari a notte,

che lo Stato mi rimborserà. Nella stanza accanto dorme Partner, un tipo grande, grosso e molto armato che

indossa sempre abiti neri e mi accompagna dappertutto. Partner è il mio autista, guardia del corpo, confidente,

assistente giuridico, caddie e unico amico. Mi sono conquistato la sua lealtà quando una giuria l’ha dichiarato

non colpevole dell’omicidio di un agente della Narcotici sotto copertura. Siamo usciti dal tribunale sottobraccio

e da quel giorno siamo inseparabili. In almeno due occasioni poliziotti fuori servizio hanno cercato di ucciderlo.

In un caso ce l’avevano con me.

Tutti e due siamo ancora ben dritti sulle nostre gambe. O forse dovrei dire che continuiamo a stare un po’ chini

per schivare i colpi.

2

Alle otto Partner bussa alla mia porta. È ora di andare. Ci diciamo buongiorno e saliamo a bordo del mio

veicolo, che è un grosso furgone Ford nero, massicciamente personalizzato in base alle mie esigenze. Dato che

serve anche da ufficio, i sedili posteriori sono stati ricollocati intorno a un tavolino pieghevole a parete. C’è un

divano sul quale passo spesso la notte. Tutti i finestrini sono oscurati e antiproiettile. Il furgone è dotato di

televisore, impianto stereo, Internet, frigo, bar, un paio di pistole e un cambio d’abiti. Mi siedo davanti con

Partner ed entrambi scartiamo due sandwich alla salsiccia da fast food mentre usciamo dal parcheggio. Un’auto

della polizia di Stato priva di contrassegni ci precede per scortarci fino a Milo. Un’altra è dietro di noi. L’ultima

minaccia di morte risale a due giorni fa ed è arrivata via e-mail.

Partner non parla a meno che non gli si parli. Non sono stato io a stabilire questa regola, però la adoro. Partner

non è minimamente infastidito dai lunghi silenzi nella conversazione e io nemmeno. Dopo anni trascorsi senza

quasi parlare, abbiamo imparato a comunicare con cenni del capo, ammiccamenti e silenzi. A metà del viaggio

verso Milo apro un fascicolo e comincio a prendere appunti.

Il duplice omicidio è stato così raccapricciante che nessun avvocato locale era disposto a occuparsene. Poi

Gardy è stato arrestato, e a Gardy basta dare un’occhiata per avere la certezza che sia colpevole. Capelli lunghi tinti di nero pece, una stupefacente collezione di piercing sopra il collo e una di tatuaggi sotto, orecchini

d’acciaio coordinati, freddi occhi chiari e un sogghigno che dice: “Okay, sono stato io, e allora?”. Nel suo primo

articolo, il quotidiano di Milo lo ha descritto come “membro di una setta satanica, con precedenti per molestie a

minori”.

Un bell’esempio di giornalismo onesto e senza preconcetti, no? Gardy non ha mai fatto parte di una setta

satanica e la faccenda delle molestie a minori non è quello che sembra. Ma da quel momento lui è colpevole e io

mi meraviglio ancora che siamo riusciti ad arrivare fino a oggi. Volevano impiccarlo già mesi fa.

Ovviamente ogni avvocato di Milo aveva chiuso la porta a chiave e staccato il telefono. Non esiste un sistema di

avvocati d’ufficio in città – Milo è troppo piccola – e i casi che riguardano soggetti indigenti vengono assegnati

dal giudice. C’è una regola non scritta in base alla quale i legali più giovani della città accettano questi casi

malpagati perché: 1) qualcuno deve farlo e 2) gli avvocati più anziani l’hanno fatto quando erano giovani. Ma

nessuno voleva difendere Gardy e, se devo essere sincero, non mi sento di biasimarli. Si tratta della loro città e

della loro vita e socializzare con un assassino così perverso può veramente danneggiare una carriera.

Come società, aderiamo al principio di un processo equo per chiunque sia accusato di un crimine grave, ma

qualcuno di noi ha dei problemi quando si tratta di fornire un avvocato competente per garantire il suddetto

processo equo. Legali come me devono convivere con la domanda: “Ma come fai a difendere una feccia del

genere?”. Io me la cavo con un veloce: “Qualcuno deve farlo”, e me ne vado.

Vogliamo davvero processi equi? No, non li vogliamo. Vogliamo giustizia, e in fretta. E giustizia è qualsiasi

cosa riteniamo lo sia in base a un criterio individuato caso per caso.

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In fondo è una fortuna che non crediamo nei processi equi perché si può stare maledettamente certi che non li

abbiamo. La presunzione di innocenza è ormai presunzione di colpevolezza. L’onere della prova è una farsa

perché le prove sono spesso menzogne. “Colpevole oltre ogni ragionevole dubbio” significa che se

probabilmente è stato lui, allora togliamolo dalle nostre strade.

In ogni caso gli avvocati si erano fatti di nebbia e Gardy non aveva nessuno. È un’indicazione, triste o meno,

della mia reputazione il fatto che ben presto la telefonata sia arrivata a me. Nei circoli legali di questa estremità

dello Stato è ormai ben noto che, se non riesci a trovare nessuno, devi telefonare a Sebastian Rudd. Lui difende

chiunque!

Quando Gardy è stato arrestato, davanti alla prigione si è radunata una folla che gridava chiedendo giustizia. E quando la polizia lo ha scortato al furgone per portarlo in tribunale, la folla lo ha insultato, lanciando pomodori e

sassi. Tutto questo è stato dettagliatamente riportato dal quotidiano locale ed è arrivato addirittura al telegiornale

della sera della Città (non c’è un’emittente televisiva con base a Milo, solo una rete via cavo di fascia bassa). Io

ho urlato per avere il trasferimento del processo, ho implorato il giudice di spostarlo di almeno centocinquanta

chilometri in modo da poter sperare di trovare qualche giurato che non abbia lanciato oggetti contro il ragazzo o

almeno non l’abbia maledetto a cena. Ma la richiesta è stata respinta. Tutte le mie istanze preprocessuali sono

state respinte.

Certo, la cittadina vuole giustizia. La cittadina vuole una conclusione.

Non c’è una folla eccitata ad accogliere me e il mio furgone quando ci immettiamo in un breve vialetto dietro il

tribunale, però ci sono alcuni dei soliti personaggi. Sono raggruppati dietro una transenna della polizia poco

lontano ed esibiscono i loro tristi cartelli con scritte intelligenti del tipo “Impiccate l’assassino di bambine” e

“Satana ti aspetta” e “Rudd schifoso fuori da Milo!”. Queste figure patetiche sono circa una decina, in attesa di

sbeffeggiarmi e, cosa più importante, di dimostrare il loro odio a Gardy, che arriverà qui più o meno tra cinque

minuti. Nei primi giorni del processo questo gruppetto ha richiamato le telecamere e alcuni sono finiti sui

giornali, insieme ai rispettivi cartelli. Questo naturalmente li ha incoraggiati e da allora vengono qui tutte le

mattine. Susie la Cicciona inalbera il cartello “Rudd schifoso” e ha l’aria di volermi sparare. Pallottola Bob

sostiene di essere parente di una delle ragazzine uccise ed è stato citato sui giornali per aver detto qualcosa del tipo che il processo è una perdita di tempo.

Su questo ha ragione, temo.

Non appena il furgone si ferma, Partner corre ad aprirmi la portiera, dove viene raggiunto da tre giovani vice più

o meno della sua stessa stazza. Io scendo, vengo debitamente protetto e poi fatto subito entrare dalla porta sul

retro del tribunale, mentre Pallottola Bob mi dà della puttana. Un altro ingresso andato bene. Non sono al

corrente di nessun caso al giorno d’oggi in cui un avvocato penalista sia stato ucciso a colpi di pistola mentre

entrava in tribunale durante un processo. Comunque mi sono rassegnato alla probabilità che potrei essere

benissimo io il primo.

Saliamo una stretta scala sul retro interdetta a chiunque altro e vengo condotto in una stanzetta senza finestre

dove un tempo trattenevano i prigionieri in attesa di vedere il giudice. Pochi minuti dopo arriva Gardy, tutto

intero. Partner esce e chiude la porta.

«Come va?» chiedo una volta soli.

Gardy sorride e si massaggia i polsi, senza manette per qualche ora. «Okay, direi. Non ho dormito molto.» Non

si è neppure fatto una doccia perché ha paura di farla. Ogni tanto ci prova, ma non gli danno l’acqua calda. Così

puzza di sudore stantio e di lenzuola sporche e sono contento che sarà seduto lontano dalla giuria. La tinta nera

sta lentamente sbiadendo e i capelli diventano ogni giorno più chiari, così come la carnagione diventa più

pallida. Sta cambiando colore davanti alla giuria, un altro segno evidente delle sue abilità animalesche e inclinazioni sataniche.

«Oggi cosa succede?» mi domanda con una curiosità quasi infantile. Il suo quoziente d’intelligenza è pari a

settanta, appena sufficiente per essere processato e condannato a morte.

«Ancora le stesse cose, Gardy. Sempre le stesse.»

«Non puoi farli smettere di mentire?»

«No, non posso.»

Lo Stato non ha alcuna prova materiale che colleghi Gardy agli omicidi. Zero. E così, invece di riflettere sulla

mancanza di prove e riesaminare l’accusa, lo Stato sta facendo quello che fa spesso. Va avanti imperterrito con

menzogne e testimonianze fasulle.

Gardy ha passato già due settimane in aula, ascoltando le bugie a occhi chiusi e scuotendo lentamente la testa. È

capace di scuotere la testa per ore e i giurati devono pensare che sia matto. Gli ho detto di piantarla, di starsene

seduto dritto, di prendere una penna e di scribacchiare qualcosa su un bloc-notes come se avesse un cervello e

volesse contrattaccare, vincere. Ma Gardy semplicemente non è in grado di farlo e io non posso mettermi a

discutere con il mio cliente in aula. Gli ho anche detto di coprirsi braccia e collo per nascondere i tatuaggi, ma

lui ne va orgoglioso. Gli ho detto di lasciar perdere i piercing, ma lui insiste nel voler essere quello che è. I

brillanti individui che dirigono il carcere di Milo proibiscono i piercing di qualsiasi tipo, a meno che,

naturalmente, tu non sia Gardy e debba ripresentarti in tribunale. In quel caso piantateli pure su tutta la faccia.

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Cerca di sembrare quanto più depravato, viscido e diabolico possibile, Gardy, in modo che i tuoi pari non

abbiano problemi riguardo alla tua colpevolezza.

Appesa a un chiodo c’è una gruccia con la camicia bianca e i pantaloni cachi che indossa ogni giorno. Ho pagato

io questo completo a buon mercato. Gardy apre lentamente la lampo della tuta arancione del carcere, che lascia

cadere a terra per poi uscirne con un passo. Non indossa biancheria intima, cosa che ho notato il primo giorno

del processo e che da allora cerco di ignorare. Si veste lentamente. «Così tante bugie» dice.

Ha ragione. Finora lo Stato ha chiamato a deporre diciannove testimoni e non uno di loro ha resistito alla

tentazione di abbellire un po’ la storia o di mentire direttamente. L’anatomopatologo che ha effettuato le

autopsie nel laboratorio dello Stato ha detto alla giuria che le due piccole vittime sono affogate, ma ha anche aggiunto che “un trauma da corpo contundente” alla testa di entrambe ha contribuito al decesso. Per l’accusa la

storia è decisamente migliore se la giuria crede che le ragazzine siano state stuprate e picchiate fino a farle

svenire prima di essere gettate nello stagno. Non esistono prove materiali che siano state molestate sessualmente

in alcun modo, ma ciò non ha impedito all’accusa di basare anche su questo la propria teoria. Ho combattuto con

l’anatomopatologo per tre ore, ma è dura discutere con un consulente tecnico, anche con uno incompetente.

Dato che non ha prove, lo Stato è costretto a fabbricarne. La deposizione più oltraggiosa è stata quella di un

detenuto informatore della polizia che chiamano Smut, lo “Schifoso”, un soprannome appropriato. Smut è un

esperto bugiardo da tribunale che non fa che testimoniare di continuo e che dirà qualsiasi cosa l’accusa voglia

che dica. Nel caso di Gardy, Smut era di nuovo in galera per droga con la prospettiva di dieci anni di carcere. I

poliziotti avevano bisogno di qualche testimone e, come c’era da aspettarsi, Smut era a disposizione. Gli agenti

gli hanno spiegato i dettagli del reato e poi hanno trasferito Gardy da un carcere regionale a quello della contea

dove era rinchiuso Smut. Gardy non aveva idea del perché lo avessero trasferito e non aveva il minimo sentore

del fatto che stava cadendo in una trappola. (Tutto questo succedeva prima del mio coinvolgimento.) Hanno

buttato Gardy in una piccola cella con Smut, il quale era ansioso di chiacchierare e di essere d’aiuto in qualsiasi

modo. Ha dichiarato di odiare i poliziotti e di conoscere qualche buon avvocato. Aveva anche letto degli omicidi

delle due ragazzine e pensava di sapere chi le avesse uccise davvero. Dato che degli omicidi non sapeva proprio

niente, Gardy non aveva contribuito in alcun modo alla conversazione. Ciò nonostante, nel giro di ventiquattro ore, Smut ha annunciato di avere ascoltato una piena confessione. I poliziotti l’hanno portato via dalla cella e

Gardy non l’ha più rivisto fino al processo. In veste di testimone, Smut si è dato una bella ripulita, ha indossato

camicia e cravatta, si è tagliato i capelli e ha nascosto i tatuaggi alla giuria. Con precisione stupefacente, ha

riferito il resoconto di Gardy su come avesse teso un agguato alle ragazzine nel bosco, le avesse strappate dalle

biciclette, imbavagliate, legate, torturate, molestate, picchiate e infine buttate nello stagno. Nella versione di

Smut, Gardy era strafatto e stava ascoltando heavy metal.

È stata una performance notevole. Io sapevo che erano tutte menzogne, così come lo sapevano Gardy e Smut, i

poliziotti, i rappresentanti dell’accusa e, sospetto, anche il giudice. Ma i giurati se la sono bevuta e, disgustati,

hanno guardato con odio il mio cliente, il quale ha assimilato il tutto con gli occhi chiusi e scuotendo la testa:

no, no, no. La deposizione di Smut è stata così raccapricciante da togliere il fiato e così ricca di particolari che in

certi momenti è stato difficile credere che fosse tutta un’invenzione. Nessuno è in grado di mentire in quel

modo!

Ho martellato Smut per otto ore, una lunga, sfiancante giornata. Il giudice era irritato e i giurati avevano lo

sguardo vacuo, ma io sarei potuto andare avanti per una settimana. Ho chiesto a Smut quante volte avesse

testimoniato in processi penali. Forse due, ha risposto. Io ho estratto i miei dati, gli ho rinfrescato la memoria e

ho passato in rassegna gli altri nove processi nel corso dei quali aveva prodotto lo stesso miracolo a beneficio

della nostra onesta e leale pubblica accusa. Recuperata in qualche modo la memoria offuscata, gli ho chiesto quante volte avesse ottenuto una riduzione di pena dall’accusa dopo avere mentito in aula. Ha risposto mai, così

ho passato di nuovo in rassegna ognuno dei nove casi precedenti. Ho prodotto la documentazione. Ho reso

perfettamente chiaro a tutti, in particolare ai giurati, che Smut era uno spione, un bugiardo seriale che forniva

false testimonianze in cambio di benefici.

Lo confesso: io mi arrabbio in aula, e questo è spesso dannoso. Con Smut ho perso la freddezza e l’ho martellato

in modo così implacabile che alcuni giurati hanno cominciato a simpatizzare con lui. A un certo punto il giudice

mi ha detto di passare ad altro, ma non l’ho fatto. Odio i bugiardi, specie quelli che giurano di dire la verità e poi

depongono il falso per far condannare il mio cliente. Ho gridato con Smut, il giudice ha gridato con me e in certi

momenti è sembrato che tutti stessero gridando contro tutti. Questo non ha aiutato la causa di Gardy.

Potreste pensare che a quel punto l’accusa abbia interrotto la sua parata di bugiardi con un teste credibile, ma

questo avrebbe richiesto una certa intelligenza. Il testimone successivo è stato un altro detenuto, un altro tossico

che ha dichiarato di essersi trovato nel corridoio vicino alla cella di Gardy e di averlo sentito confessare tutto a

Smut.

Bugie su bugie.

«Per favore, falli smettere» mi dice Gardy.

«Ci sto provando, Gardy. Sto facendo del mio meglio. Adesso dobbiamo andare.»

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3

Un vice ci scorta in aula che è di nuovo affollatissima, l’atmosfera appesantita da una coltre di tensione. Questo è il decimo giorno di deposizioni e ormai mi sono convinto che in questa cittadina sperduta non stia succedendo

assolutamente nient’altro. Siamo noi il divertimento! L’aula è sempre gremita dal colpo di martelletto d’apertura

a quello finale e ci sono persone in piedi lungo le pareti. Grazie a Dio fa freddo, altrimenti saremmo tutti fradici

di sudore.

Ogni processo per omicidio che comporti la pena capitale esige la presenza di almeno due difensori. Il mio co-

difensore, o “seconda sedia”, è Trots, un grosso ragazzone ottuso che dovrebbe bruciare la sua laurea in legge e

maledire il giorno in cui ha anche solo sognato di mostrare la sua faccia in un’aula di tribunale. Viene da una

cittadina distante una trentina di chilometri, sufficienti, pensava, per metterlo al riparo dagli sgradevoli fastidi di

un coinvolgimento nell’incubo Gardy. Trots si era offerto volontario per occuparsi delle questioni preliminari,

con l’intenzione di abbandonare la nave nel caso che un processo fosse diventato realtà. I suoi piani non hanno

funzionato come avrebbe voluto. Ha incasinato i preliminari come solo un principiante può fare e poi ha cercato

di tagliare la corda. Niente da fare, ha detto il giudice. A quel punto Trots ha pensato che potesse essere un’idea

accettabile occupare la seconda sedia, farsi un po’ di esperienza, sentire la pressione di un vero processo e così

via, ma dopo parecchie minacce di morte ha smesso anche solo di provarci. Per me le minacce di morte fanno

parte della routine quotidiana, come il caffè del mattino e i poliziotti bugiardi.

Ho depositato tre istanze per chiedere che Trots venga rimosso dall’incarico. Tutte respinte, naturalmente, e così

Gardy e io ci ritroviamo con un idiota al nostro tavolo che è più un ostacolo che un assistente. Trots siede

quanto più lontano possibile da noi, anche se considerando l’attuale stato dell’igiene di Gardy non posso biasimarlo del tutto.

Mesi fa Gardy mi ha detto che, in occasione del primo colloquio nel carcere di contea, Trots era rimasto

scioccato quando lui si era dichiarato innocente. Avevano addirittura litigato su questo punto. Alla faccia del

difensore convinto e vigoroso.

E così Trots siede in fondo al tavolo, la testa sepolta in inutili appunti, gli occhi che non vedono niente, le

orecchie che non sentono niente. Lui però percepisce gli sguardi di tutti quelli seduti dietro di noi, che ci odiano

e vorrebbero impiccarci insieme al nostro cliente. Trots immagina che anche questa passerà e che potrà andare

avanti con la sua vita e la sua carriera nel momento stesso in cui il processo finirà. Si sbaglia. Non appena

possibile, presenterò un esposto all’ordine degli avvocati dello Stato sostenendo che Trots ha fornito

“un’inefficace assistenza legale” prima e durante il processo. È qualcosa che ho già fatto in passato e so come

agire perché le accuse reggano. Sto combattendo le mie battaglie personali con l’ordine e conosco il gioco.

Quando avrò finito con lui, Trots vorrà solo rinunciare alla sua licenza e trovarsi un lavoro presso una

concessionaria di auto usate.

Gardy si siede al centro del nostro tavolo. Trots non guarda il suo cliente, né gli parla.

Huver, il procuratore, si avvicina e mi passa un foglio. Niente buongiorno o salve. Siamo così al di là perfino dei

più innocui convenevoli che anche solo un civile grugnito da uno di noi due sarebbe una sorpresa. Odio

quest’uomo quanto lui odia me, ma io ho un vantaggio nel gioco dell’odio. Quasi ogni mese ho a che fare con procuratori ipocriti che mentono, barano, boicottano, insabbiano, ignorano l’etica e fanno qualsiasi cosa occorra

per ottenere una condanna, anche quando sanno la verità e la verità dice che hanno torto. Per cui conosco la

razza, lo stampo, la sottospecie di avvocato che è al di sopra della legge perché la legge è lui. Huver, d’altro

canto, ha raramente a che fare con una canaglia come me perché, purtroppo per lui, non vede molti casi

sensazionali e quasi nessuno in cui l’imputato si presenta con un pit bull come protettore. Se dovesse vedersela

con difensori rabbiosi più spesso, forse sarebbe più bravo a odiarci. Per me è uno stile di vita.

Prendo il foglio e domando: «Allora, chi è il suo bugiardo del giorno?».

Huver non risponde e con pochi passi raggiunge il tavolo dell’accusa, dove la sua piccola gang di assistenti in

completo nero è riunita in conciliabolo e gigioneggia per il pubblico di casa. Si mettono in mostra in questo

processo, il più grosso spettacolo della loro miserabile carriera stagnante, e io ho spesso l’impressione che tutti

quelli dell’ufficio del procuratore distrettuale in grado di camminare, parlare, indossare un abito dozzinale e

impugnare una valigetta nuova siano stipati intorno al tavolo al fine di assicurare che venga fatta giustizia.

Il commesso abbaia, io mi alzo in piedi, il giudice Kaufman entra, ci rimettiamo a sedere. Gardy si rifiuta di

alzarsi in omaggio al grand’uomo. All’inizio questo aveva davvero irritato parecchio Suo Onore. Il primo giorno

del processo – sembrano passati mesi – il giudice era scattato: “Mr Rudd, vuole per favore dire al suo cliente di

alzarsi in piedi?”.

Io l’avevo fatto e Gardy si era rifiutato. La cosa aveva messo in imbarazzo il giudice e più tardi ne avevamo discusso nel suo studio. Kaufman aveva minacciato di accusare il mio cliente di oltraggio alla corte e di tenerlo

in prigione per tutto il giorno durante il processo. Io avevo cercato di spronarlo in tal senso, lasciando però

anche intendere che una reazione così esagerata sarebbe stata ripetutamente sottolineata in appello.

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Gardy aveva saggiamente osservato: “Cosa possono farmi che non mi hanno già fatto?”. E così tutte le mattine il

giudice Kaufman dà inizio alle cerimonie con una lunga occhiata torva al mio cliente, il quale di solito se ne sta

stravaccato sulla sua sedia, intento a giocherellare con l’anellino al naso o ad annuire a occhi chiusi. Impossibile

dire quale di noi due, avvocato o cliente, Kaufman disprezzi di più. Come il resto di Milo, è convinto da tempo

che Gardy sia colpevole. E come chiunque altro in aula, mi ha detestato fin dal primo giorno.

Non importa. In questo tipo di lavoro è raro avere alleati e ti fai rapidamente dei nemici.

Dato che l’anno prossimo si ricandiderà, come Huver, Kaufman si stampa in faccia il suo sorriso fasullo da

politico e dà il benvenuto a tutti nella sua aula per un’altra interessante giornata alla ricerca della verità. In base

ai calcoli che ho fatto un giorno durante la pausa pranzo mentre l’aula era vuota, ci sono circa trecentodieci spettatori seduti alle mie spalle. Con l’eccezione della madre e della sorella di Gardy, stanno tutti pregando

fervidamente per una condanna, con una veloce esecuzione a seguire. Sta al giudice Kaufman pronunciarsi. È il

giudice che finora ha consentito ogni parola delle false deposizioni presentate dallo Stato. A volte dà

l’impressione di avere paura di perdere un paio di voti nel caso accogliesse una delle mie obiezioni.

Quando tutti sono al loro posto, viene fatta entrare la giuria. Sono quattordici le persone stipate nel box: le

dodici prescelte, più un paio di sostituti nel caso qualcuno si ammali o faccia qualcosa di sbagliato. I giurati non

sono in isolamento (nonostante io l’abbia richiesto), per cui la sera sono liberi di tornarsene a casa e di dirne di

tutti i colori di Gardy e me a cena. Verso fine pomeriggio vengono sempre ammoniti da Suo Onore a non

pronunciare una sola parola riguardante il processo, ma li si può quasi sentire blaterare sin da quando si

allontanano in auto. Hanno già deciso. Se dovessero votare adesso, prima che venga ascoltato un solo teste della

difesa, giudicherebbero Gardy colpevole e ne richiederebbero l’esecuzione. Poi se ne tornerebbero a casa da eroi

e continuerebbero a parlare di questo processo per tutto il resto della vita. Quando Gardy avrà il suo ago nel

braccio, si sentiranno particolarmente orgogliosi del ruolo cruciale che hanno avuto nel fare giustizia. Avranno

una posizione di prestigio a Milo. Riceveranno congratulazioni, verranno fermati per strada, riconosciuti in

chiesa.

Sempre mellifluo, Kaufman dà il benvenuto ai giurati, li ringrazia per il loro servizio civico e chiede con voce

grave se qualcuno abbia cercato di contattarli per tentare di influenzarli. Questo di solito determina qualche occhiata nella mia direzione, come se io avessi il tempo, l’energia e la stupidità per aggirarmi di notte nelle

strade di Milo, tendendo agguati ai giurati in modo da poterli: 1) corrompere, 2) intimidire o 3) supplicare. È

ormai vangelo il fatto che io sono l’unico delinquente presente in aula, nonostante il torrente di peccati

commessi dalla controparte.

La verità è che se avessi i soldi, il tempo e il personale non esiterei a corrompere e/o intimidire ogni giurato.

Quando lo Stato, con le sue risorse illimitate, dà inizio a una causa fraudolenta e non fa che barare, barare

diventa legittimo. Non si gioca alla pari. Non c’è lealtà. Per un avvocato che combatte per salvare un cliente

innocente, l’unica alternativa onorevole è barare in difesa.

Però se un difensore è sorpreso a barare viene crivellato di sanzioni dalla corte, censurato dall’ordine, forse

addirittura incriminato. Se un procuratore è scoperto a barare, o viene rieletto o viene innalzato al banco del

giudice. Il nostro sistema non ritiene che un cattivo procuratore debba rispondere delle proprie azioni.

I giurati assicurano a Suo Onore che va tutto bene. «Mr Huver» dice il giudice con grande solennità «chiami il

suo prossimo teste, per favore.» Il prossimo teste per lo Stato è un predicatore fondamentalista che ha

trasformato la vecchia concessionaria di auto Chrysler nel World Harvest Temple e che richiama folle alle sue

quotidiane maratone di preghiera. L’ho visto una volta in una rete locale via cavo, e una volta è sufficiente. Il

suo titolo di vanto in questo processo consiste nel fatto che afferma di aver affrontato Gardy nel corso di una

funzione notturna per i giovani. Secondo la sua versione, Gardy indossava una maglietta che, pubblicizzando un qualche gruppo heavy metal, trasmetteva un vago messaggio satanico e di conseguenza consentiva al demonio

di infiltrarsi nella riunione. C’era una guerra spirituale nell’aria e Dio non era per niente contento di come

stavano andando le cose. Grazie alla guida divina, il predicatore aveva finalmente individuato la fonte del male

in mezzo alla folla, aveva interrotto la musica, era piombato su Gardy che se ne stava seduto e l’aveva buttato

fuori a calci dall’edificio.

Gardy afferma di non essere mai stato neppure nei dintorni della chiesa. Inoltre sostiene di non avere mai visto

l’interno di una qualsiasi chiesa in tutti i suoi diciotto anni. Sua madre lo conferma. Come dicono qui nelle

campagne, la famiglia di Gardy è gravemente “non praticante”.

Che tutto questo venga ammesso come testimonianza in un caso da pena capitale è assolutamente inconcepibile.

È ridicolo e rasenta la stupidità. Presumendo che ci sia una condanna, tra circa due anni tutte queste sciocchezze

verranno riesaminate da una corte d’appello imparziale distante trecento chilometri. Quei giudici, appena più

intelligenti di Kaufman – ma qualsiasi cosa sarà un miglioramento – non apprezzeranno molto questo

predicatore bifolco con la sua storia inventata su un litigio che dovrebbe essere avvenuto circa tredici mesi

prima degli omicidi.

Faccio obiezione. Respinta. Rifaccio obiezione, con rabbia. Respinta, con rabbia.

Huver però vuole disperatamente mantenere il coinvolgimento di Satana nel suo impianto accusatorio. Il giudice

Kaufman gli ha spalancato le porte qualche giorno fa e qualsiasi cosa è ben accolta. Tuttavia sbarrerà quelle

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stesse porte non appena comincerò a chiamare i miei testimoni. Saremo fortunati se riusciremo a mettere cento

parole a verbale.

Il predicatore ha una cartella esattoriale inevasa in un altro Stato. Non sa che io l’ho scoperto e quindi ci

divertiremo un po’ nel controinterrogatorio. Non che questo avrà importanza. I giurati hanno deciso. Gardy è un

mostro che merita di andare all’inferno. Il loro compito è di mandarcelo in fretta.

Gardy si china verso di me per sussurrarmi: «Mr Rudd, le giuro che io non sono mai stato in chiesa».

Annuisco e sorrido perché è tutto quello che posso fare. Un difensore non può credere sempre ai suoi clienti, ma

quando Gardy mi dice di non essere mai stato in chiesa, io gli credo.

Il predicatore è un tipo che si infiamma e io attizzo subito il fuoco. Mi servo della cartella esattoriale non pagata per farlo arrabbiare sul serio e, una volta incazzato, resta incazzato. Lo guido in discussioni sull’infallibilità

delle Scritture, la Trinità, l’Apocalisse, il parlare lingue sconosciute, giocare con i serpenti, bere veleni e la

diffusione dei culti satanici nell’area di Milo. Huver strilla le sue obiezioni e Kaufman le accoglie. A un certo

punto il predicatore, pio e rosso in viso, chiude gli occhi e alza le mani più in alto possibile. Istintivamente mi

immobilizzo, mi faccio piccolo e guardo il soffitto come se stesse per arrivare un fulmine. In seguito il

predicatore mi dà dell’ateo e mi dice che andrò all’inferno.

«Quindi lei ha l’autorità di mandare la gente all’inferno?» ribatto.

«È Dio che mi dice chi andrà all’inferno.»

«Allora lo metta in vivavoce così lo sentiamo tutti.»

Due giurati ridacchiano. Kaufman ne ha avuto abbastanza. Picchia il suo martelletto e annuncia la pausa pranzo.

Abbiamo sprecato tutta la mattinata con questo stronzetto ipocrita e la sua deposizione fasulla, ma il predicatore

non è il primo abitante di Milo che si inserisce a forza nel processo. La cittadina è piena di aspiranti eroi.

4

Il pranzo è sempre una gioia. Dato che non è sicuro uscire dal tribunale – anzi, dall’aula –, Gardy e io ci

mangiamo un sandwich da soli al tavolo della difesa. È lo stesso cestino del pranzo con cui vengono nutriti i

giurati. Gli incaricati arrivano con sedici cestini, li mescolano, estraggono i nostri due a caso e portano gli altri

nella sala della giuria. Questa è stata una mia idea perché preferisco non essere avvelenato. Gardy non ci pensa,

è semplicemente affamato. Dice che il cibo in prigione è quello che ci si può aspettare e che non si fida delle

guardie. Non mangia nulla in carcere e, dato che sopravvive solo grazie al pranzo, ho chiesto al giudice

Kaufman se la contea non poteva raddoppiare la razione e dare al ragazzo due sandwich al pollo gommoso, con

patatine fritte extra e un altro cetriolo. In altre parole, due cestini invece di uno soltanto. Richiesta respinta.

Per cui Gardy si prende metà del mio sandwich e tutto il mio cetriolino kosher. Se non stessi morendo di fame,

gli avrei dato l’intero cestino di schifezze.

Partner va e viene per tutto il giorno. Ha paura di lasciare il nostro furgone sempre nello stesso posto a causa

dell’alta probabilità di gomme squarciate e finestrini spaccati. Ha anche alcune responsabilità, una delle quali

consiste nell’incontrare ogni tanto il Vescovo. In casi come questo, quando vengo convocato in una zona di combattimento, in una cittadina che ha già serrato i

ranghi ed è pronta a uccidere uno dei suoi per un qualche crimine odioso, ci vuole un po’ di tempo per trovare

un contatto. Si tratta sempre di un altro avvocato, uno del posto che come me difende criminali e si scontra

settimanalmente con la polizia e i procuratori. Questo contatto alla fine si aprirà e darà una mano, segretamente,

timoroso di essere smascherato quale traditore. Lui sa la verità, o qualcosa che ci va molto vicino. Conosce i

giocatori, i soggetti cattivi e il buono che c’è di tanto in tanto. Poiché la sua sopravvivenza dipende dal sapersela

cavare con i poliziotti, i cancellieri e i vice procuratori, conosce il sistema.

Nel caso di Gardy, il mio amico gola profonda è Jimmy Bressup. Noi lo chiamiamo il Vescovo. Io non l’ho mai

incontrato. Il Vescovo opera tramite Partner e i due si incontrano sempre in posti strani. Partner dice che il

Vescovo è sui sessant’anni, con lunghi capelli grigi che vanno diradandosi, brutti abiti, una boccaccia volgare,

una natura caustica e un debole per la bottiglia. “Una versione più anziana di me?” ho domandato. “Non

esattamente” è stata la saggia risposta. Nonostante tutta la sua spavalderia e le sue chiacchiere, il Vescovo ha

paura di avvicinarsi troppo agli avvocati di Gardy.

Il Vescovo dice che Huver e la sua banda ormai hanno capito di avere l’uomo sbagliato, ma hanno investito

troppo per fermarsi e ammettere i loro errori. Dice che fin dal primo giorno sono girate voci a proposito del vero

assassino.

5

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È venerdì e tutti in aula sono esausti. Passo un’ora a tempestare di domande uno stupido ragazzotto foruncoloso

che sostiene di essere stato presente quella volta in chiesa, quando Gardy ha evocato i demoni disturbando la

funzione. Sul serio, io ho visto il peggio delle testimonianze fasulle in aula, ma mai niente come questo. Oltre a

essere falsa, la deposizione è anche totalmente irrilevante. Nessun altro procuratore si sarebbe preso il disturbo

di produrla. Nessun altro giudice l’avrebbe ammessa. Kaufman finalmente annuncia la sospensione per il

weekend.

Gardy e io ci ritroviamo nella sala d’attesa, dove lui indossa di nuovo l’uniforme del carcere e io gli offro

banalità augurandogli un buon fine settimana. Gli do dieci dollari per i distributori di snack. Gardy mi informa

che domani sua madre gli porterà i dolcetti al limone, i suoi preferiti. A volte le guardie li fanno passare, a volte se li tengono per sé. Non si può mai sapere. Il peso medio delle guardie è intorno ai centotrenta chili, per cui

immagino che abbiano bisogno delle calorie rubate. Raccomando a Gardy di farsi una doccia nel weekend, e di

lavarsi i capelli.

«Mr Rudd» mi dice «se riesco a trovare un rasoio, me ne vado.» Con l’indice, mima un movimento di taglio sul

polso.

«Non dire queste cose, Gardy.» Le ha già dette altre volte, e parla sul serio. Il ragazzo non ha niente per cui

vivere ed è abbastanza sveglio da capire cosa succederà. Dannazione, lo vedrebbe anche un cieco. Ci stringiamo

la mano, poi io scendo in fretta la scala sul retro. Partner e i vice mi aspettano alla porta e mi caricano sul

furgone. Un’altra uscita in sicurezza.

Poco fuori Milo, la testa comincia a ciondolarmi e mi addormento. Dieci minuti dopo il mio cellulare vibra e

rispondo. Seguiamo l’auto della polizia di Stato fino al nostro motel, dove carichiamo i bagagli e paghiamo il

conto. Poco dopo siamo soli, diretti verso la Città.

«Hai visto il Vescovo?» chiedo a Partner.

«Oh, sì. È venerdì, e penso che il venerdì cominci a bere verso mezzogiorno. Ma solo birra, mi ha chiarito

subito. Così ho comprato una confezione da sei e ce ne siamo andati in giro in macchina. Quel locale è una vera

bettola, a est, poco oltre i confini della cittadina. Il Vescovo dice che Peeley è un cliente abituale.»

«Quindi hai già bevuto qualche birra? Vuoi che guidi io?» «Solo una, boss. L’ho sorseggiata finché è diventata calda. Il Vescovo invece la beve fredda. Tre.»

«E noi gli crediamo?»

«Io ho fatto solo il mio lavoro. Da un lato il Vescovo è credibile perché ha sempre vissuto qui e conosce tutti.

Dall’altro è così pieno di merda che ti viene voglia di ignorare tutto quello che dice.»

«Vedremo.» Chiudo gli occhi e cerco di sonnecchiare. Il sonno è praticamente impossibile durante un processo

per omicidio e ho imparato ad afferrarlo ogni volta che ne ho l’occasione. Ho rubato dieci minuti sopra una

panca dura in un’aula vuota nella pausa pranzo, così come ho camminato avanti e indietro in una squallida

stanza di motel alle tre di notte. Mi capita spesso di addormentarmi di colpo a metà di una frase mentre Partner

guida e il motore del furgone ronza in sottofondo.

A un certo punto, mentre torniamo verso la nostra versione della civiltà, perdo i sensi.

6

È il terzo venerdì del mese e ho un appuntamento fisso con una donna, sempre che due drink si possano definire

un appuntamento. La sensazione è più quella di un appuntamento con il dentista per una canalizzazione. La

verità è che questa donna non uscirebbe volontariamente con me nemmeno con una pistola puntata alla testa, e il

sentimento è reciproco. Ma noi due abbiamo una storia. Ci incontriamo allo stesso bar, nello stesso séparé dove

abbiamo pranzato insieme la prima volta, in un’altra vita. La nostalgia non c’entra: si tratta solo di comodità. È

un bar da colletti bianchi, in centro, e fa parte di una catena, ma l’ambiente non è male e il venerdì sera c’è

animazione.

Judith arriva per prima e occupa il séparé. Io le scivolo accanto qualche minuto dopo, proprio mentre lei

comincia a irritarsi. Non è mai stata in ritardo in niente e considera il ritardo un segno di debolezza. A suo

parere, io possiedo molti di quei segni. È avvocato anche lei, è così che ci siamo conosciuti.

«Hai l’aria stanca» mi dice, senza alcuna traccia di compassione. Anche lei mostra segni di affaticamento,

nonostante sia, a trentanove anni, ancora incredibilmente bella. Ogni volta che la vedo, mi ricordo perché ne ero

così innamorato.

«Grazie. E tu stai splendidamente, come sempre.»

«Grazie.» «Dieci giorni e siamo già tutti stanchissimi.»

«Qualche colpo di fortuna?»

«Non ancora.» Judith è al corrente degli elementi di base del caso e del processo di Gardy e mi conosce. Se io

credo nell’innocenza del ragazzo, per lei è sufficiente. Ma Judith ha i suoi clienti per i quali preoccuparsi e

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perdere il sonno. Ordiniamo da bere: il suo standard del venerdì sera, un bicchiere di chardonnay, e il mio

whiskey sour.

Ci faremo due drink in meno di un’ora e saremo a posto per un altro mese. «Come sta Starcher?» domando.

Continuo a sperare che un giorno riuscirò a pronunciare il nome di mio figlio senza detestarlo, ma quel giorno

non è ancora arrivato. Il mio nome figura sul certificato di nascita di Starcher in qualità di padre, ma io non ero

presente quando è nato. Di conseguenza Judith ha avuto il controllo del nome. “Starcher”, se proprio deve

esistere, dovrebbe essere un cognome.

«Sta bene» mi risponde Judith compiaciuta, perché lei è totalmente coinvolta nella vita del bambino e io no. «La

settimana scorsa ho parlato con la maestra, che è molto soddisfatta dei suoi progressi. Sostiene che Starcher è un normale alunno di seconda che sa leggere benissimo ed è contento della sua vita.»

«Mi fa piacere» commento. Qui la parola chiave è “normale”, considerata la nostra storia. Starcher non viene

allevato in modo normale. Passa metà del suo tempo con Judith e l’attuale partner e l’altra metà con i genitori

della mia ex moglie. Dall’ospedale, Judith ha portato Starcher direttamente nell’appartamento che divideva con

Gwyneth, la donna per la quale mi aveva lasciato. Le due poi hanno passato tre anni cercando di adottare

legalmente il bambino, ma io ho combattuto come un animale rabbioso. Non ho niente contro le adozioni da

parte di coppie gay. È solo che non sopportavo Gwyneth. E avevo ragione. Judith e Gwyneth si sono separate

non molto tempo dopo con una lite furiosa, che mi sono goduto immensamente da osservatore a bordo campo.

La storia si complica. Arrivano i drink e non ci prendiamo neppure la briga di un educato “cin cin”. Sarebbe

solo una perdita di tempo. Abbiamo bisogno dell’alcol, e al più presto possibile.

Annuncio la terribile notizia dicendo: «Il prossimo weekend mia madre viene in città e vorrebbe vedere

Starcher. Dopotutto è il suo unico nipote maschio».

«Lo so» scatta Judith. «È il tuo weekend. Puoi fare quello che vuoi.»

«Giusto, ma tu sei bravissima a complicare tutto. È solo che non voglio guai.»

«Tua madre non è altro che guai.»

Mai parole più vere sono state pronunciate, e annuisco ammettendo la sconfitta. Sarebbe un drammatico

eufemismo affermare che Judith e mia madre si sono odiate fin dal primo istante, al punto che mia madre mi aveva informato che, se avessi sposato Judith, mi avrebbe escluso dal suo testamento. All’epoca avevo già

qualche serio dubbio sulla nostra storia d’amore e sul nostro futuro, ma quella minaccia era stata l’ultima goccia.

Anche se mi aspetto che la mamma viva fino a cent’anni, la sua eredità sarà una delizia. Un uomo con il mio

reddito ha bisogno di un sogno. Una sottotrama in questa triste storia è che mia madre si serve spesso del

testamento per tiranneggiare i suoi figli. Mia sorella aveva sposato un repubblicano e si era ritrovata esclusa dal

testamento. Due anni dopo il repubblicano, che in realtà è un tipo a posto, è diventato il padre della nipotina più

perfetta della storia. Adesso mia sorella è di nuovo nel testamento, o almeno così pensiamo.

In ogni caso mi stavo preparando a lasciare Judith quando lei mi ha comunicato la sconvolgente notizia che era

incinta. Ho dato per scontato di essere il padre, anche se non ho mai formulato la pericolosissima domanda. In

seguito sono venuto a sapere la brutale verità, e cioè che Judith stava già frequentando Gwyneth. Un bel pugno

nello stomaco. Sono sicuro che c’erano indizi del fatto che la mia amata fosse in realtà lesbica, ma a me sono

sfuggiti tutti.

Ci siamo sposati. Mamma ha detto che aveva cambiato il testamento e che io non avrei avuto nemmeno un

centesimo. Judith e io abbiamo convissuto a intervalli per cinque disgraziati mesi, siamo stati tecnicamente

coniugati per altri quindici e poi ci siamo separati per mantenere la sanità mentale. Starcher è arrivato nel bel

mezzo della guerra, una vittima fin dalla nascita, e da allora Judith e io non facciamo che attaccarci a vicenda.

Questo rituale dell’incontro mensile per bere qualcosa insieme è il nostro omaggio a una forzata civiltà. Credo di essere di nuovo nel testamento della mia cara mamma.

«E che programmi ha mammina per mio figlio?» mi chiede Judith. Non è mai “nostro” figlio. Non è mai riuscita

a resistere alle piccole punzecchiature, alle frecciate infantili. Le piace riaprire vecchie ferite, ma non lo fa

nemmeno in modo intelligente. È quasi impossibile ignorarla, ma ho imparato a mordermi la lingua. La mia

lingua è piena di cicatrici.

«Credo che andranno allo zoo.»

«Lo porta sempre allo zoo.»

«Cosa c’è di male nell’andare allo zoo?»

«Be’, l’ultima volta Starcher ha avuto gli incubi per i pitoni.»

«Okay, le dirò di portarlo da qualche altra parte.» Mia madre sta già creando problemi. Cosa può esserci di male

nel portare un normalissimo bambino di sette anni allo zoo? Non so perché Judith e io insistiamo con questi

incontri.

«Come vanno le cose allo studio?» le domando, con una curiosità simile a quella di chi osserva un incidente

stradale. È irresistibile.

«Bene. Il solito casino.»

«Avete bisogno di qualche ragazzo in quello studio.»

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«Abbiamo già abbastanza problemi.» Il cameriere si accorge che entrambi i nostri bicchieri sono vuoti e parte

per un secondo giro. I primi drink spariscono sempre molto in fretta.

Judith è una delle quattro socie di uno studio legale di dieci donne, tutte lesbiche militanti. La ditta è

specializzata in problematiche gay: discriminazione sul posto di lavoro, assegnazione alloggi, scuole, assistenza

sanitaria e la novità, il divorzio gay. Sono tutte ottime avvocatesse, negoziatrici e legali toste, sempre all’attacco

e spesso in prima pagina. L’immagine che proietta lo studio è quella di essere in guerra con la società e di non

cedere mai. Le battaglie esterne, però, sono di gran lunga meno pittoresche delle liti interne.

«Potrei entrare come socio anziano» dico in uno sforzo di leggerezza.

«Non dureresti dieci minuti.» Nessun uomo durerebbe dieci minuti nei loro uffici. In effetti gli uomini evitano quelle signore con grande zelo. Fate solo il nome dello studio di Judith e corrono a nascondersi. Gente perbene

sorpresa a cazzeggiare finisce col buttarsi dai ponti.

«Probabilmente hai ragione. Non senti mai la mancanza del sesso con l’altro sesso?»

«Sul serio, Sebastian, vuoi parlare di sesso etero dopo un brutto matrimonio e un bimbo non voluto?»

«A me piace il sesso etero. A te non è mai piaciuto? Mi sembrava di sì.»

«Facevo finta.»

«Non è vero. Eri assolutamente meravigliosa, per quello che ricordo.» Conosco due tizi che sono andati a letto

con lei prima che arrivassi io. Poi Judith è scappata da Gwyneth. Mi sono chiesto spesso se a letto ero così

scarso da averla spinta a cambiare squadra. Ne dubito. Devo dire che Judith ha un buon occhio. Detestavo

Gwyneth, la detesto ancora, ma quella donna è in grado di bloccare il traffico in qualunque strada della città. E

l’attuale compagna di Judith, Ava, tempo fa faceva la modella di biancheria intima per un grande magazzino

locale. Ricordo le sue foto pubblicitarie nel quotidiano della domenica.

I secondi drink arrivano e noi li afferriamo subito.

«Se vuoi parlare di sesso, io me ne vado» dice Judith, ma non è arrabbiata.

«Scusami. È che ogni volta che ti vedo penso al sesso. È un problema mio, non tuo.»

«Fatti aiutare da qualcuno.»

«Non ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di sesso.» «Mi stai facendo delle proposte?»

«Servirebbe?»

«No.»

«Non ci contavo.»

«Hai qualche combattimento questa sera?» mi domanda, cambiando argomento. Non resisto.

«Sì.»

«Sei malato, sai. È uno sport talmente brutale.»

«Starcher dice che vuole venire a vedere.»

«Tu porta Starcher ai combattimenti nella gabbia e non lo vedrai mai più.»

«Rilassati. Stavo scherzando.»

«Forse scherzavi, ma sei comunque malato.»

«Grazie. Fatti un altro drink.» Un’asiatica formosa in minigonna aderente ci passa accanto e tutti e due la

guardiamo. «Ho diritto di precedenza» dichiaro.

L’alcol comincia a fare effetto – con Judith impiega più tempo perché lei è per natura più tesa e nervosa – e la

mia ex moglie riesce a produrre un sorriso, il primo della serata. Potrebbe essere il primo della settimana. «Ti

vedi con qualcuno?» mi chiede, il tono notevolmente più dolce.

«Non dall’ultima volta che ci siamo visti» rispondo. «Solo lavoro.» La mia ultima ragazza mi ha mollato tre anni fa. Ogni tanto ho un colpo di fortuna, ma mentirei se dicessi che sono alla ricerca di un impegno serio. C’è

un lungo, pesante vuoto nella conversazione e cominciamo ad annoiarci. Quando arriviamo alle ultime gocce dei

nostri drink, torniamo a Starcher, a mia madre e al prossimo weekend, che a questo punto temiamo tutti e due.

Usciamo insieme dal bar, ci scambiamo doverosamente un bacetto sulla guancia e ci salutiamo. Un’altra voce

spuntata dall’elenco.

Un tempo l’ho amata, poi l’ho veramente odiata. Adesso trovo Judith quasi simpatica e se riusciamo a

continuare con questi incontri mensili potremmo anche diventare amici. È il mio obiettivo, perché ho davvero

bisogno di una persona amica, una persona che capisca quello che faccio e perché lo faccio.

E sarebbe molto meglio anche per nostro figlio.

7

Abito al venticinquesimo piano di un palazzo di appartamenti in centro, con vista parziale del fiume. Mi piace

vivere quassù perché è un posto tranquillo e sicuro. Se qualcuno volesse mettere una bomba nel mio

appartamento o volesse bruciarmelo, gli riuscirebbe difficile senza buttare giù l’intero edificio. C’è abbastanza

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criminalità qui in centro, per cui viviamo con un mucchio di videosorveglianza e molte guardie armate. Mi sento

al sicuro.

Hanno esploso colpi d’arma da fuoco nella mia vecchia abitazione, un appartamento su due livelli al

pianterreno, e cinque anni fa hanno piazzato una bomba incendiaria nel mio vecchio studio. “Loro” non sono

mai stati trovati o identificati e ho la netta impressione che i poliziotti non si stiano dando molto da fare. Come

dicevo, la mia linea di lavoro ispira odio e là fuori ci sono persone che sarebbero felici di vedermi soffrire.

Alcune di quelle persone si nascondono dietro un distintivo.

L’appartamento, di novantacinque metri quadrati, ha due piccole camere da letto, una cucina ancora più piccola,

raramente usata, e un soggiorno appena sufficiente a ospitare il mio unico mobile importante. Non sono sicuro che un tavolo da biliardo d’epoca possa essere classificato come mobile, ma questo è il mio appartamento e io lo

definisco come mi pare. Il tavolo è lungo due metri e settantaquattro centimetri, misura regolamentare, ed è stato

fabbricato nel 1884 dalla società Oliver L. Briggs di Boston. L’ho vinto in una causa, l’ho fatto restaurare alla

perfezione e poi sistemare con cura al centro esatto del mio soggiorno. In una giornata normale, o quando non

sono in qualche motel da quattro soldi per sfuggire alle minacce di morte, dispongo le bilie a triangolo, ancora e

ancora, e mi alleno per ore. Giocare a biliardo contro me stesso è una fuga, un antistress e una terapia a buon

mercato. È anche un ritorno ai miei giorni di liceale, quando passavo ore in un locale che si chiama The Rack,

un autentico postaccio che esiste da decenni. È una sala biliardo vecchio stile, con file di tavoli, strati di fumo,

sputacchiere, birra scadente, un po’ di piccole scommesse e clienti che si atteggiano a duri, ma sanno come

comportarsi. Il proprietario, Curly, è un vecchio amico che è sempre là dentro e fa in modo che tutto fili liscio.

Quando l’insonnia picchia duro e mi sembra che le pareti mi si chiudano intorno, mi si può trovare spesso al The

Rack alle due di notte mentre gioco a palla nove da solo, in un altro mondo e completamente felice.

Non questa sera, però. Scivolo all’interno del mio appartamento, fluttuando sul whiskey, mi cambio

velocemente e indosso la mia tenuta da combattimento: jeans, maglietta nera e una lucente giacca giallo vivo

che arriva alla cintura, in pratica risplende al buio, con una scritta sulla schiena che urla “Tadeo Zapate”.

Raccolgo i capelli che vanno appena ingrigendo in una stretta coda di cavallo e la infilo sotto la maglietta.

Cambio occhiali e ne scelgo un paio con la montatura azzurra. Mi sistemo il berretto in testa, giallo carico come la giacca, con il nome Zapate davanti. Mi sento sufficientemente travestito e la serata dovrebbe andare bene. Là

dove sto andando la gente non è interessata agli avvocati disadattati. Ci saranno parecchi delinquenti, diversi

soggetti con problemi legali, passati, presenti e futuri, ma nessuno di loro farà caso a me.

È un altro triste fatto della mia vita che io esca spesso di casa con il buio e con un qualche tipo di travestimento:

un berretto diverso, occhiali diversi, capelli nascosti, a volte addirittura un cappello di feltro.

Partner mi accompagna al vecchio auditorium della città, distante otto isolati da casa mia, e mi scarica in un

vicolo poco lontano. C’è una folla che sciama davanti all’edificio. Un rap a volume altissimo rimbomba

attraverso la piazza. I fasci di luce dei riflettori oscillano freneticamente da un edificio all’altro. Brillanti insegne

digitali annunciano l’evento principale e gli incontri di contorno.

Tadeo combatterà per quarto, ultimo incontro secondario prima dell’evento principale che questa sera è un

match di pesi massimi che sta vendendo un mucchio di biglietti perché il favorito è un ex giocatore pazzo della

National Football League molto conosciuto nella zona. Io possiedo il venticinque per cento della carriera di

Tadeo, un investimento che mi è costato trentamila dollari un anno fa. Da allora Tadeo non ha mai perso. Come

attività di contorno, faccio anche qualche scommessa e mi sta andando parecchio bene. Se Tadeo vince anche

questa sera, la sua fetta sarà di seimila dollari. Se perde, la metà.

In un corridoio, da qualche parte nelle profondità sotterranee dell’auditorium, sento parlare due guardie della

sicurezza. Una sta dicendo che la serata ha fatto il tutto esaurito. Cinquemila tifosi. Mostro le mie credenziali e le guardie mi fanno cenno di passare; varco una porta, poi un’altra. Entro nello spogliatoio semibuio e la

tensione mi colpisce come un mattone. Questa sera ci hanno assegnato metà di una lunga stanza. Tadeo è in

ascesa nel mondo delle arti marziali miste e tutti noi cominciamo a percepire qualcosa di grande. È disteso sopra

un tavolo, sulla pancia, nudo a parte i boxer, non un grammo di grasso sul corpo di cinquantanove chili. Suo

cugino Leo gli sta massaggiando le scapole. La lozione gli fa luccicare la pelle marrone chiaro. Vago per la

stanza e parlo con Norberto, il manager di Tadeo, con Oscar, il suo allenatore, e con Miguel, suo fratello e

sparring partner. Tutti sorridono quando parlano con me perché io, il gringo solitario, vengo visto come l’uomo

con i soldi. Sono anche l’agente, quello con i contatti e il cervello che, se Tadeo continuerà a vincere, lo farà

ammettere all’UFC, l’Ultimate Fighting Championship. Ci sono anche altri due o tre parenti sullo sfondo, gente

che ciondola qui in giro senza alcun ruolo comprensibile nella vita di Tadeo. A me queste comparse non

piacciono perché si aspettano di essere pagate prima o poi, ma dopo sette vittorie di fila Tadeo pensa di avere

bisogno dell’entourage. Lo pensano tutti.

A eccezione di Oscar, fanno tutti parte della stessa gang di strada, un’organizzazione di medio livello di

salvadoregni che trattano coca. Tadeo è entrato nella gang quando è stato iniziato all’età di quindici anni, ma

non ha mai aspirato a una posizione da leader. Un giorno ha trovato un vecchio paio di guantoni da boxe, ha

scoperto una palestra e poi si è reso conto di avere mani spaventosamente veloci. Anche suo fratello Miguel ha

boxato, ma non così bene. Miguel è a capo della gang e sulla strada ha una reputazione da duro.

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Più Tadeo vince, più guadagna e più io mi preoccupo dei rapporti con la sua gang.

Mi chino e gli parlo sottovoce. «Come sta il mio uomo?»

Tadeo apre gli occhi, alza lo sguardo, all’improvviso sorride e si toglie gli auricolari. Il massaggio termina

bruscamente quando si siede sul bordo del tavolo. Parliamo per qualche minuto e Tadeo mi assicura di essere

pronto a uccidere. Bravo il mio ragazzo. I suoi rituali pre-incontro comprendono una settimana senza radersi e

ora, con la barba incolta e la capigliatura nera, mi ricorda un po’ il grande Roberto Duran. Ma le radici di Tadeo

sono in El Salvador, non a Panama. Ha ventidue anni, la cittadinanza americana e il suo inglese è buono quasi

quanto il suo spagnolo. Sua madre ha i documenti in ordine e lavora in una caffetteria. Ha anche un

appartamento pieno di figli e parenti, e ho la sensazione che qualsiasi cifra Tadeo guadagni venga suddivisa in molti modi.

Ogni volta che parlo con lui, ringrazio il cielo di non doverlo affrontare sul ring. Tadeo ha fiere pupille nere che

urlano rabbiose: “Fammi vedere le ferite. Fammi vedere il sangue”. È cresciuto in strada, battendosi con

chiunque gli andasse troppo vicino. Un suo fratello più grande è morto in una rissa con i coltelli e Tadeo ha

paura di morire anche lui. Quando sale sul ring, è convinto che qualcuno stia per essere ucciso e che quel

qualcuno non sarà lui. Le sue tre sconfitte sono state ai punti: nessuno l’ha ancora preso a calci nel sedere. Si

allena per quattro ore al giorno e ormai è quasi padrone dello ju-jitsu.

Ora la sua voce è bassa, le parole lente: la solita tremarella preincontro, quando la paura ti annebbia i pensieri e

lo stomaco si rivolta. So com’è. Ci sono passato anch’io. Molto tempo fa ho sostenuto cinque incontri di boxe

nella categoria Golden Gloves. Ero a quattro vittorie e una sconfitta, quando mia madre ha scoperto la mia

carriera segreta e per fortuna vi ha messo fine. Però l’ho fatto. Ho avuto le palle di salire sul ring e farmi pestare

a sangue.

Comunque, non riesco neppure a immaginare il coraggio necessario per entrare nella gabbia con un altro

lottatore che è superbamente in forma, altamente qualificato, ben allenato, affamato di gloria, cattivo,

terrorizzato e i cui unici pensieri sono: come dislocarti la spalla dal suo alloggiamento, massacrarti le ginocchia,

aprirti una ferita o mollarti un colpo da KO alla mascella. È la ragione per cui amo questo sport. Richiede più

coraggio, più coglioni di qualsiasi altro sport dall’epoca in cui i gladiatori si battevano fino alla morte. Certo, ci sono molte altre discipline pericolose: discesa libera, football, hockey, boxe, corse automobilistiche. Ma in

questi sport non scendi volontariamente in campo sapendo che ti faranno del male. Quando entri nella gabbia

invece lo sai, e sai che potrà essere brutto, doloroso, addirittura mortale. Il tuo prossimo round potrebbe essere

l’ultimo.

Ecco perché il conto alla rovescia prima del match è così brutale. I minuti si trascinano lenti mentre il lottatore

combatte contro i suoi nervi, le sue viscere, la sua paura. L’attesa è la parte peggiore. Mi allontano dopo qualche

minuto in modo che Tadeo possa tornare a concentrarsi. Una volta mi ha detto che riesce a visualizzare il

combattimento e il suo avversario sanguinante al tappeto che implora pietà.

Mi inoltro nel labirinto di corridoi nelle profondità dell’edificio e sento l’eco dei ruggiti della folla, assetata di

sangue. Trovo la porta che cercavo ed entro. È un ufficetto dell’amministrazione che è stato sequestrato dalla

mia piccola gang personale. È qui che ci vediamo prima degli incontri e piazziamo le nostre scommesse. Siamo

in sei e le iscrizioni al club sono chiuse perché non vogliamo fughe di notizie. Alcuni usano il loro vero nome,

altri no. Slide si veste come un magnaccia di strada ed è stato dentro per omicidio. Nino è un importatore di

metanfetamina di medio livello ed è stato dentro per traffico di droga. Johnny non ha precedenti penali (non

ancora) e possiede metà del lottatore che Tadeo affronterà questa sera. Denardo accenna sempre a legami con la

mafia, ma dubito che la sua attività criminale sia così ben organizzata. Aspira a promuovere eventi di arti

marziali miste e sogna di andare a vivere a Las Vegas. Frankie è il vecchio, un elemento fisso nella scena dei combattimenti da decenni. Ammette di essere stato sedotto dalla violenza del cage fighting e che ormai la boxe

vecchio stile lo annoia.

Quindi questi sono i miei ragazzi. Non mi fiderei mai di nessuno di questi pagliacci in un affare legale, ma qui

non stiamo facendo niente di legale. Scorriamo il programma e cominciamo a scommettere. So che Tadeo farà

fuori l’uomo di Johnny ed è evidente che Johnny è preoccupato. Punto cinquemila dollari su Tadeo e nessuno

accetta. Tremila, e nessuno ci sta. Li rimprovero, li insulto, li maledico, li ridicolizzo, ma loro sanno che Tadeo

è in striscia vincente. Johnny deve scommettere qualcosa e alla fine lo incastro in una scommessa da quattromila

dollari: il suo lottatore non arriverà alla terza ripresa. Denardo decide che vuole starci, per altri quattromila

dollari. Copriamo tutto il programma con ogni tipo di scommessa e Frankie, lo scriba, registra tutto. Esco

dall’ufficio con dodicimila dollari in gioco, su quattro diversi match. Più tardi, al termine degli incontri, ci

ritroveremo nella stessa stanzetta e regoleremo i conti, il tutto in contanti.

I combattimenti cominciano e io vago nell’auditorium, ammazzando il tempo. La tensione nello spogliatoio è

insopportabile e non ce la faccio a restare là dentro mentre l’orologio ticchetta lentamente. So che adesso Tadeo

è disteso sul tavolo, immobile sotto una spessa trapunta, e recita le sue preghiere alla Vergine Maria mentre

ascolta uno schifoso rap latino. Non c’è niente che io possa fare per essergli di aiuto, così mi trovo un posto in

alto in gradinata e mi guardo intorno. C’è effettivamente il tutto esaurito e i tifosi sono più chiassosi e pazzi che

mai. Il cage fightingsollecita l’istinto selvaggio in certe persone, me compreso, e noi tutti siamo qui per la stessa

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ragione: vedere un lottatore annientare l’altro. Vogliamo vedere occhi sanguinanti, squarci sulla fronte, prese da

soffocamento, sottomissioni da spaccare le ossa e brutali pugni da KO che facciano scattare quelli all’angolo a

caccia del medico. Aggiungete un fiume in piena di birra scadente e avrete cinquemila pazzi che chiedono

sangue.

Dopo un po’ torno nello spogliatoio, dove le cose stanno prendendo vita. I primi due incontri si sono conclusi

presto per KO, per cui il programma procede rapidamente. Norberto, Oscar e Miguel indossano le rispettive

giacche gialle luccicanti, uguali alla mia, e la Squadra Zapate è pronta per la lunga camminata fino alla gabbia.

Io sarò all’angolo, insieme a Norberto e a Oscar, anche se il mio ruolo non è importante quanto il loro. Mi devo

solo assicurare che Tadeo beva mentre Norberto gli urla istruzioni nello spagnolo più veloce che abbiate mai sentito. Oscar si occupa delle ferite al viso, se ce ne sono. Dal momento in cui entriamo in scena, tutto diventa

una macchia confusa. Lungo il tunnel, tifosi ubriachi vogliono toccare Tadeo e urlano il suo nome. Gli addetti

alla sicurezza scostano la gente aprendoci la strada. Il chiasso della folla spacca le orecchie, e non è tutto per

Tadeo. Il pubblico vuole di più, un altro combattimento, preferibilmente a morte.

All’esterno della gabbia un arbitro controlla i guantoni di Tadeo, gli spalma l’olio in faccia e gli dà semaforo

verde. Un annunciatore urla il suo nome al microfono e il nostro uomo entra saltellando nella gabbia con i suoi

boxer e la vestaglia giallo vivo. Il suo avversario di questa sera si fa chiamare lo Sciacallo, nome vero ignoto e

irrilevante. Specialista nelle prese di sottomissione, è un bianco alto di scarsa stazza, ma l’aspetto inganna. L’ho

visto combattere tre volte ed è un tipo furbo e abile. Gioca bene in difesa e cerca sempre l’atterramento. Ha

stretto il suo ultimo avversario in una ghigliottina e l’ha fatto urlare chiedendo pietà. In questo momento odio lo

Sciacallo, ma nel profondo lo ammiro da morire. Chiunque sia in grado di entrare nella gabbia ha di gran lunga

molta più spina dorsale dell’uomo medio.

Il gong dà inizio al primo round, tre minuti di furia. Tadeo, il pugile, si lancia all’attacco e costringe subito lo

Sciacallo a farsi indietro. Tutti e due si scambiano colpi leggeri per il primo minuto, poi si stringono in

un clinch, ma non ci sono danni. Come gli altri cinquemila tifosi, sto strillando tanto da farmi saltare la testa,

non ho idea del perché. Qualsiasi consiglio sarebbe inutile e comunque Tadeo non sta ascoltando. I due lottatori

crollano a terra e lo Sciacallo serra Tadeo in una presa a forbice. Per un lungo minuto l’azione si blocca, mentre il mio uomo si agita e si contorce e tutti noi tratteniamo il fiato. Finalmente Tadeo riesce a liberarsi e a piazzare

un potente jab sinistro al naso dello Sciacallo. Finalmente c’è sangue. Non ci sono dubbi sul fatto che il mio

uomo sia il migliore dei due, ma basta un solo errore e ti ritrovi con un braccio torto al punto di rottura. Tra un

round e l’altro Norberto scarica un torrente di istruzioni, ma Tadeo non lo ascolta. Lui di combattimenti ne sa

molto più di chiunque di noi e ha già inquadrato l’avversario. Quando il gong suona per la seconda ripresa, lo

afferro per un braccio e gli urlo nell’orecchio: «Battilo in questo round e ci sono altri duemila dollari per te».

Questo Tadeo lo sente.

Lo Sciacallo ha perso il primo round per cui, come molti lottatori, nel secondo comincia subito a pressare. Vuole

entrare nella guardia, vuole stringere le sue braccia muscolose in una qualche perfida presa mortale, ma Tadeo

lo legge perfettamente. Trenta secondi e Tadeo sferra una classica combinazione sinistro-destro-sinistro che

manda l’avversario dritto a sedere sul tappeto. Poi commette un errore comune e tenta di lanciarsi come un

idiota sullo Sciacallo, in modo molto simile a un bombardiere che si tuffa in picchiata per il colpo finale. Lo

Sciacallo però riesce a sferrargli un calcio con il piede destro, un colpo brutale che lo centra appena sopra

l’inguine. Tadeo resta in piedi, si tira su faticosamente anche lo Sciacallo e per un paio di secondi nessuno dei

due spinge l’azione. Finalmente si danno una mossa e cominciano a muoversi in cerchio. Tadeo trova il suo

ritmo da pugile e inizia a tempestare lo Sciacallo con una serie di jab che non trovano risposta. Apre un taglio

sopra l’occhio destro dello Sciacallo e poi lo allarga con un’implacabile raffica di colpi. Lo Sciacallo ha la brutta abitudine di fingere un selvaggio gancio sinistro un istante prima di chinarsi e colpire invece le ginocchia, e ci

prova una volta di troppo. Tadeo capisce e, con tempismo perfetto, esegue il suo numero migliore: un blind

elbow spin, una gomitata cieca in rotazione, una mossa che richiede le palle perché, per una frazione di secondo,

Tadeo dà la schiena all’avversario. Ma lo Sciacallo è troppo lento per approfittarne e il gomito destro di Tadeo

va a cozzare contro la sua mascella destra. Si spengono le luci: lo Sciacallo perde i sensi prima ancora di

atterrare sul tappeto. Le regole consentirebbero a Tadeo di saltargli addosso per mollargli qualche pugno in

faccia e finirlo come si deve, ma perché prendersi il disturbo? Tadeo resta in piedi al centro del ring, le mani

alzate, lo sguardo abbassato ad ammirare il suo lavoro, cioè lo Sciacallo che giace immobile come un cadavere.

L’arbitro ferma subito tutto.

Fine dell'estratto Kindle.

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