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Il pasto gelido

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Marco Badini, horror

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Marco Badini

IL PASTO GELIDO

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IL PASTO GELIDO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Marco Badini ISBN: 978-88-6307-362-1

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Maggio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

Poi cominciò: Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme

già pur pensando, pria ch'io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme

che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, parlar e lagrimar vedrai insieme.

Inferno XXXIII, 4-9

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I Erano già quasi le dieci della sera e il cielo, benché ancora chiaro data l'estate, andava coprendosi di nuvole bluastre. Emiliano si guardò un'ultima volta nello specchio: strinse con cura il nodo della cravatta, rassettò l'elegante completo di Versace che indossava e uscì. La sua Porsche Boxster nera lo attendeva nel parcheggio della grande villa, simile a un mansueto cavallo di razza pronto alla cavalcata. Un potente rombo accompagnò l'accensione, poi il bolide percorse lentamente il viale che attraversava il parco antistante la casa e, dopo aver oltrepassato il cancello, uscì sulla strada accelerando bruscamente. La forte ripresa del motore gli incollò la schiena al sedile, la sensazione di potere che provava ogni volta che spingeva l'acceleratore lo inebriava. I lampioni stradali, già accesi a dispetto del chiarore serale, proiettavano la loro statica luce giallognola sulla carrozzeria metallizzata, che la restituiva sull'asfalto grigio in forma di guizzanti baleni dall'aria a tratti sinistra. Arrivato in centro posteggiò l'automobile in doppia fila e, dopo un ultimo ritocco ai capelli nel retrovisore della macchina, ecco pronto a vivere la notte Emiliano Sperelli, giovane rampollo della Brescia bene. Scese dalla vettura e si diresse verso il Whisky Bar, uno fra i locali di maggior tendenza dell'intera città. Mentre si avvicinava all'ingresso gli si fece incontro un giovanotto più o meno della sua stessa età, sui vent'anni o poco più: «Ehilà, Sperelli! Ma guarda come cavolo hai parcheggiato! Se passa un vigile una multa non te la leva nessuno, lo sai?» lo apostrofò sghignazzando. «Oh, che paura! Sai che cazzo me ne frega di una multa?» disse Emiliano di rimando, tirando fuori da una tasca dei pantaloni un grosso mazzo di banconote. L'altro ragazzo allargò le braccia scuotendo il capo, a voler significare che in fin dei conti non erano affari suoi. «Dai, Alessio» riprese il primo «lascia perdere queste stronzate e andiamo a berci qualcosa».

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Tirò fuori un pacchetto di Davidoff e si accese una sigaretta con un accendino d'oro, che poi porse al suo amico, o per meglio dire conoscente di vecchia data, Alessio Taide. Fumando a propria volta, quest'ultimo si rivolse a Emiliano: «Ci sono novità qui al bar, lo sai?» «Che novità?» chiese Sperelli senza troppo interesse. «Hanno assunto una nuova.» «Eh, sai che roba... Cosa vuoi che me ne freghi?» «Dovresti vederla prima di parlare, Emi... Non è niente male!» esclamò, e così dicendo gli lanciò un'occhiata estremamente eloquente. Entrarono nel locale. Subito saltò agli occhi di Sperelli la ragazza che, dietro l'algido bancone di acciaio e plexiglas, stava asciugando dei bicchieri da cocktail appena usciti dalla lavastoviglie. Era alta circa un metro e settantacinque, i capelli castani con riflessi biondi raccolti in una minuscola coda sulla nuca, la pelle candida e due occhi di un azzurro al tempo stesso chiaro e profondo. Sotto la semplice maglietta nera si notavano, senza bisogno di troppa immaginazione, due seni grandi ma ben proporzionati, mentre un paio di jeans grigi nascondevano le gambe a un'analisi più approfondita. Alessio notò immediatamente come Emiliano la guardava: «Bella, eh? Che ti avevo detto? Si chiama Elena». «Già, proprio una bella figa...» commentò Sperelli. «Sì, ma non farti troppe illusioni: niente da fare. Ha il ragazzo». «Come fai a sapere tutte queste cose?» domandò il giovane. «Beh, è arrivata quattro giorni fa e io, lo sai, sono qua tutte le sere...» «E tu in quattro giorni hai scoperto tutte queste cose su di lei?» «Certo!» ridacchiò Alessio «Anzi, molto di più! So tutto di lei: vita, morte e miracoli. Perlomeno quello che si riesce a sapere stando seduti al bancone... Ci ho anche provato». «Dici sul serio?» «Sì, le ho chiesto di uscire, ma mi è andata male. D'altronde, sono in buona compagnia: oltre a me ci ha già provato praticamente ogni cliente del bar, ma ci siamo presi tutti il due di picche!» «Perché siete degli sfigati morti di fame e di seghe, ecco perché...» sentenziò Emiliano perentorio. «È arrivato Casanova!» esclamò Taide «fattela tu, se sei tanto bravo!» «Non c'è problema. Scommetto che me la porto a letto in una settimana».

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«Ci sto!» disse Alessio con entusiasmo. Per loro era una prassi scommettere sulle cose più svariate, e un azzardo di quel tipo attizzava non poco le braci della morbosità che covava sotto la cenere dei loro animi. «Stabilisci tu la posta» proseguì Taide. «Fammi pensare... Per una sgualdrina di periferia come quella lì, al massimo si può fare un caffè, nulla di più». «Ehi, come sei cattivo! Che ti ha fatto quella poveretta?» «Niente. Però si vede che è una pezzente. E sai che a me i pezzenti stanno sul cazzo. Come quei merdosi degli operai che lavorano nella fabbrica di mio papà. Adesso basta, mi sono stufato di parlare. Ho voglia di bere. Andiamo». Si avvicinarono al bancone e fu Alessio a esordire: «Ciao Elena! Come va? Ti presento Emiliano, un mio amico. Lo vedrai qui spesso, è un cliente molto affezionato!» La barista sorrise e in tono nel contempo deferente e ammiccante chiese: «Cosa bevete ragazzi?» «Per me un Traminer. E tu, Emi?» «Per me un doppio scotch. Liscio». Sperelli la osservò mentre si piegava a prendere la bottiglia di vino nella piccola cella frigorifera. Dai jeans spuntavano un paio di mutandine nere che a loro volta lasciavano intravedere il solco dei glutei. Istintivamente pensò ai suoi seni. Presero i rispettivi bicchieri e uscirono; fuori cadeva da qualche minuto una pioggia sottile e leggera. Emiliano prese la parola: «Ha un accento strano, quella cameriera...» «Già. Sua madre è ucraina». «Ucraina?» «Sì, insomma, Russia, o da quelle parti là». «Ah, è pure una schifosa comunista del cazzo, eh? Mi fa quasi senso l'idea di scoparmela... Ma una scommessa è una scommessa, no?» disse ridendo forte. «Tu sei troppo convinto, Emi. Guarda che quella lì non te la darà mica tanto facilmente, credimi». «Solo perché non l'ha data a te? Che stronzata! Il discorso che facevo prima per i vigili vale anche per quella troietta...» Così dicendo estrasse di nuovo la mazzetta di banconote e la sventolò sotto il naso dell'amico, facendo frusciare i biglietti: «Le donne» proseguì «sono tutte puttane: è solo questione di soldi.

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C'è chi può e chi non può. Io ho la grana e faccio quel cazzo che mi pare. Chiaro?» «Chiaro, Emi, chiaro... Ma non scaldarti, ok?» «Io non mi scaldo per niente! Sto solo cercando di farti capire come gira il mondo. Il mondo gira intorno ai soldi. Io ho i soldi, perciò il mondo se ne sta davanti a me, come in una vetrina: io devo solo allungare una mano per prendere quello che voglio. Semplice, no?» «Se lo dici tu... Comunque, vedremo come andrà: sono proprio curioso». «C'è poco da essere curiosi. Io so già come andrà a finire: me la scopo, mi bevo un caffè a tue spese, e tanti saluti!» Si misero entrambi a ridere di gusto, mentre un lampo fendeva il cielo scuro. Terminarono i drink in silenzio, poi Sperelli disse: «Stasera non ho voglia di iniziare a lavorarmela... Comincerò lunedì, ok?» «Come vuoi, Emi. E stasera, che si fa?» «Che domanda del cazzo: andiamo sul lago, in discoteca! Ah...» abbassò d'un tratto la voce «ce l'hai la polvere?» «No, non ho i soldi per comprarla...» «Sei proprio un uomo inutile! Sai almeno dove possiamo trovarla?» «Certo!» «Va bene, allora andiamo. Stasera sei mio ospite, offro tutto io!» «Cavolo Emi, l'ho sempre detto che tu sei un grande!» «Vado a pagare e partiamo. Aspettami in macchina» disse lanciandogli le chiavi. Rientrò nel bar, gettò con noncuranza un biglietto da cinquantamila lire sul bancone e uscì. La cameriera lo inseguì, cercando di chiamarlo indietro: «Signore, il suo resto!» «Tienilo tu, io ho fretta». Salì a bordo della Porsche dove già lo aspettava Alessio, e si allontanò sgommando in direzione della tangenziale che portava al lago. La ragazza se ne stava sulla soglia del bar come una statua di sale, con in mano una mancia equivalente a più di due giorni di lavoro.

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II Arrivò infine lunedì. Sperelli si preparò come suo solito. La baldanza con la quale aveva liquidato la scommessa con Alessio, ora sembrava quasi incrinata da qualcosa di non ben definito. Si scopriva a desiderare davvero quella ragazza. Sarebbe stata sua, ne era certo. Ogni cosa aveva un costo, l'unica questione di fondo era la disponibilità dell'acquirente all'esborso. A chi gli obiettava che gli esseri umani non erano cose, era solito controbattere: «Lo sapete che gli operai di mio papà rompono il cazzo ogni quarto d'ora? Sciopero qui, sciopero là... Sempre con questo fottuto sciopero in bocca. Allora papà fa due paroline con i sindacalisti, gli allunga qualche mazzetta, e in un attimo tutti i pecoroni ritornano zitti e buoni a piegare le loro schiene di merda. E sapete perché? Perché tutto ha un prezzo. E tutti hanno un prezzo». Pensando a questo concetto, si rappacificò con i suoi tentennamenti interiori e prese le chiavi della Porsche con rinnovata fiducia in se stesso. Inchiodò rumorosamente davanti al Whisky Bar, affinché tutti potessero presentire il suo arrivo, sbatté la portiera e entrò con aria strafottente. La sua preda se ne stava, come previsto, dietro il bancone. Le si avvicinò e ordinò: «Il solito». «Come?» «Il solito. Doppio scotch liscio». «Oh, sì... Mi scusi, sono nuova...» «Sei scusata. A proposito, ieri Alessio mi ha detto il tuo nome, ma me lo sono dimenticato. Come ti chiami?» «Elena, signore». Pur sapendo già tutto di lei, finse di non essere al corrente di nulla per attaccare bottone: «Hai un accento un po' strano; non sei di queste parti, vero?» «Io? Certo, sono di Brescia. Però la mia mamma è ucraina», rispose con un sorriso, mettendo in mostra una chiostra di denti bianchi perfetti.

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Da vicino Emiliano poté notare che la ragazza aveva un piccolo neo chiaro, appena visibile, sullo zigomo sinistro. La pelle era straordinariamente bianca; tuttavia non era un pallore spiacevole, tutt'altro: si armonizzava perfettamente con gli occhi e i capelli. Restò a guardarla sorseggiando il suo whisky. Poi, quando l'ebbe finito, ne ordinò un altro e, mentre lei glielo versava, le disse: «A che ora stacchi, Elena?» «All'orario di chiusura, alle due». «Alle due la notte è ancora giovane. Perché non andiamo a farci un giretto da qualche parte, eh?» «No grazie», si schermì la ragazza «sono un po' stanca e domani dovrò alzarmi presto...» «Su, Elena, non farti pregare... Non puoi dirmi di no!» «Mi dispiace, ma proprio non posso...» ripeté lei. «Perché non puoi? Il tuo ragazzo è geloso?» «No, il mio ragazzo si fida ciecamente di me...» «Siete innamorati?» le chiese con malizia. «Sì!» esclamò lei sorridendo. «E è per questo che non vuoi uscire con me?» «No, è perché sono stanchissima, veramente...» biascicò la ragazza, non riuscendo a nascondere un'evidente titubanza. «Va bene, va bene, mi arrendo... Ma solo per stasera, ok?» concluse lui strizzandole l'occhio. Poi riprese: «Ah, che sbadato, non mi sono nemmeno presentato: mi chiamo Emiliano, ma forse hai già sentito il mio cognome più che il mio nome... Sperelli. Non ti dice niente?» Elena scosse il capo con aria imbarazzata. Cercando di nascondere il disappunto, il ragazzo proseguì: «Sperelli! Sì, insomma, sono figlio di Cesare Sperelli, proprietario delle Officine Meccaniche Alfa...» «Non le conosco, mi spiace...» rispose lei contrita. Il giovane sentì una voce familiare dietro di sé: «Emi! Sei già qui? In anticipo, rispetto al solito!» «Ciao Fabio, come ti va?» rispose Sperelli riconoscendo Fabio Guglielmi, della famiglia Guglielmi, proprietaria dell'omonima stamperia di ottone. «Non male, grazie. Diciamo che non posso lamentarmi. Tu piuttosto, che ci fai in giro così presto? Un animale notturno come te?» «È una storia lunga...» replicò Emiliano ridacchiando. «Elena, fammi un Cuba libre» ordinò Fabio.

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«Subito» rispose la ragazza. «Allora, Sperelli, che mi racconti di bello? Come va l'Alfa?» chiese Guglielmi. «Che cazzo ne so, ci pensa papà! Io sono troppo occupato a passarmela bene» rispose Emiliano sardonico. Fabio lo guardò con aria interrogativa: «E l'università? Come va?» domandò. «E che ne so? Non ricordo l'ultima volta che ci sono stato!» e così dicendo proruppe in una grassa risata. Il suo interlocutore prese il proprio drink e si allontanò a salutare altri conoscenti, dando così modo a Sperelli di concentrare nuovamente la sua attenzione su Elena: «E tu, Elena, studi?» le chiese. «Sì, sono iscritta a Lingue a Padova» «Brava, brava...» La ragazza si allontanò per un attimo dal bancone per portare un vassoio colmo di cocktail a un tavolo, e Emiliano mormorò a mezza voce: «Puttanella idiota». Elena ritornò al suo posto dietro al banco, rivolgendo un solare sorriso a Sperelli, che colse al volo l'occasione per riprendere il discorso: «Mi dicevi prima che hai il ragazzo». «Sì...» «È un uomo proprio fortunato. Come si chiama?» «Claudio» disse lei. Le sue gote presero colore. «Sei arrossita!» la apostrofò in tono canzonatorio. «Già!» rispose ridendo Elena «Non sono per niente capace di nascondere i miei stati d'umore». «Va bene», riprese lui «adesso devo andare. Prendi», disse allungandole una banconota da centomila lire «e tieni il resto: mancia». Lei lo guardò, incapace di interpretare in alcun modo tutta quella generosità: «Non so che dire... Grazie infinite!» «Se proprio vuoi, c'è qualcosa che potresti fare per ringraziarmi». insinuò Emiliano. «Che cosa?» domandò la ragazza. «Beh... Potresti darmi il tuo numero di cellulare». «Veramente, ci conosciamo appena...» disse lei confusa. Sperelli rispose cercando di soffocare il tono duro che la sua voce

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prendeva ogni volta che veniva contraddetto: «Se per il tuo fidanzato non è un problema, non capisco perché debba essere un problema per te. E poi non siamo del tutto sconosciuti. Uno sconosciuto non lascia mance del genere, no?» Elena parve riflettere profondamente per un attimo; poi, sorridendo, prese un pezzetto di carta e scribacchiò un numero a matita, passandolo quindi a Emiliano. «Grazie» disse lui riponendo il biglietto nel taschino interno della giacca e ripassando mentalmente i punti del piano che aveva stabilito per raggiungere il suo scopo. Si alzò, si diresse verso l'uscita e, con un gesto chiaramente studiato, si voltò un'ultima volta verso la barista: «Ah, Elena: dammi pure del tu e chiamami Emi, come fanno i miei amici, ok?» Sperelli non se ne accorse, ma il suo invito assomigliava molto più a un ordine che a una gentilezza. Elena probabilmente non notò nulla di tutto questo, o se si avvide di qualcosa fu molto abile a dissimulare: si limitò ad annuire inarcando le belle sopracciglia castane in uno sguardo pressoché indecifrabile. Mentre Emiliano lasciava il locale, la ragazza gli rivolse un ultimo cenno di saluto e ritornò al suo lavoro, con un fondo di imbarazzo che decisamente non le riusciva di nascondere.

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III Mercoledì, verso il tardo pomeriggio, Emiliano era già alla guida della sua Porsche, diretto alla volta del Whisky Bar. Vi giunse abbondantemente prima delle sette e entrò senza nemmeno chiudere a chiave la macchina. Elena era già al lavoro. Sperelli aveva passato in pratica tutto il martedì a mandarle messaggi che palesavano un suo inequivocabile interessamento, senza però ottenere altro che risposte a dir poco laconiche. Si era poi deciso a chiamarla, stizzito da tanta ritrosia. Anche a viva voce lei si era mostrata assai evasiva, e non era riuscito a cavare un ragno dal buco. Aveva così concepito l'idea di coglierla di sorpresa, mettendola con le spalle al muro. Un rapido giro di telefonate gli era stato sufficiente per spianare la strada ai suoi disegni. Entrato nel locale con passo deciso, si diresse senza esitazioni al bancone e, senza troppi preamboli, porse a Elena un enorme mazzo di rose rosse a stelo lungo che aveva tenuto nascoste dietro la schiena. La ragazza arrossì vistosamente e restò immobile come una statua per qualche secondo, a dimostrazione che la mossa del giovane, tesa a spiazzarla, si era verificata vincente. Fu dunque Emiliano a rompere il ghiaccio: «Cosa aspetti? Prendile, sono per te!» «Veramente... Io... Non so che cosa dire...» balbettò Elena. «Non dire niente! Prendile e basta! Anzi... Veramente c'è qualcosa che potresti dire» ribatté il giovane. «Cosa?» chiese lei. «Potresti dire di sì a un mio invito a cena! Facciamo per... Stasera?» «Stasera devo lavorare!» esclamò la ragazza. «Vuoi dire che se non avessi da lavorare usciresti a cena con me?» replicò svelto Sperelli, lasciando Elena in preda a una comprensibile confusione. «Beh, non lo so...» «Non ci sarebbe niente di male in una cena tra amici, no?»

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«No, credo di no...» disse lei, visibilmente in difficoltà. «Bene. Allora possiamo andare». «Ma le ho già detto che devo lavorare...» Emiliano la guardò con durezza, poi disse: «Per prima cosa non darmi del lei, e adesso ascoltami bene: ieri ho parlato con il padrone del bar, e gli ho chiesto di farti avere la serata libera...» «Veramente...» si azzardò a dire Elena, ma fu zittita in un attimo da Sperelli, che riprese: «Veramente niente. Se sono i soldi la tua preoccupazione, allora non ci pensare: sarai pagata come se avessi lavorato». La ragazza abbassò lo sguardo, senza proferir parola. Emiliano protese una mano oltre il banco e la prese per un braccio, cercando di dissimulare la sua impazienza: non era affatto abituato all'altrui indecisione davanti ai suoi desideri. Per lui la prassi era un'ossequiosa obbedienza. Con la mano libera fece tintinnare il portachiavi della Porsche, dicendo: «Non ti va proprio di farti un giro su una vera macchina?» Elena si voltò in direzione del titolare del locale, che se ne stava seduto su una poltroncina all'angolo a leggere un quotidiano: «Vai, vai pure. le disse sorridendo Io e Emi siamo già d'accordo». Sia pure con riluttanza, lei si fece infine convincere a seguire Sperelli che, nel frattempo, si era precipitato a aprire la portiera destra della sua automobile. La giovane salì sul bolide riponendo il voluminoso mazzo di fiori sul cruscotto, e riflettendo sul fatto che il suo datore di lavoro si era comportato in modo poco serio nei suoi confronti, considerandola alla stregua di un complemento d'arredo del bar di cui potesse disporre a piacimento. Tuttavia non ebbe tempo sufficiente per terminare il flusso dei suoi pensieri. Il ragazzo avviò il motore e partì con la spavalderia che caratterizzava la sua guida. Elena aveva appena fatto in tempo ad allacciare la cintura di sicurezza, sotto lo sguardo divertito di Emiliano, che le disse ridendo: «Che fai? Ti metti la cintura? Hai paura?» «No», osservò lei timidamente «è che il codice della strada...» «Codice della strada? E che cos'è il codice della strada? Sono quattro stronzate inventate per gli sfigati che hanno paura della loro ombra! Che se ne vada a farsi fottere questo codice della strada!» Si infilò nella tangenziale che portava al lago senza dire niente, mentre la ragazza osservava sorpresa con quanta rapidità il panorama andava defilandosi oltre il finestrino. Lui la guardò meglio: aveva una

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maglietta verde oliva e un paio di pantaloni neri. La cintura di sicurezza le passava sopra lo sterno, mettendo ulteriormente in evidenza i suoi seni. «Dove stiamo andando?» chiese lei. «Quanto sei curiosa... Aspetta e vedrai!» Alla fine del rapido tragitto arrivarono in un pittoresco paesino, adagiato sulla sponda occidentale del lago. Il ragazzo posteggiò la macchina in un parcheggio a pagamento vicino al centro, poi si avviò con Elena verso la zona pedonale. Giunsero nella piccola ma graziosa piazza principale che, pur avendo una forma vagamente ellittica, era da un lato aperta verso il lago. L'acqua luccicava, danzando al chiarore dei lampioni posti sul marciapiede di porfido a pochi passi dalla riva. Esattamente di fronte allo spazio aperto sul panorama si trovava una caratteristica osteria, un edificio antico fatto di pietre sgrezzate da mani morte secoli prima, sassi rettangolari rivestiti d'edera. Sperelli le fece cenno di entrare: «Come? Qui?» disse lei con aria stupefatta «Sembra un posto carissimo!» «Non devi pensare a questo», replicò Emiliano «e d'altronde ho già prenotato». Un cameriere in tenuta informale ma impeccabile li fece accomodare a un tavolo apparecchiato per due, da cui si godeva una vista eccellente della piazzetta esterna, accese una candela posta al centro della tovaglia beige e porse loro i menù. Non appena si fu allontanato, Sperelli strappò letteralmente di mano a Elena la lista, la posò sul tavolo e disse: «Se permetti, ordino io per tutti e due». «Sì, fai pure...» disse lei, ancora intenta a rimirare il lusso con cui era stato arredato il salone. Effettivamente, pensò, in passato doveva essere stata una stalla. Vecchi anelli in ferro, di fattura approssimativa, erano ancora infissi nelle pareti. Pasteggiarono in un modo che alla ragazza parve a dir poco sontuoso: una cena completamente a base di pesce di lago, cucinato con una raffinatezza a lei sconosciuta e annaffiato da vini bianchi ai quali il suo palato non era abituato. Mangiarono quasi in silenzio, e lei pensò a quanto fosse diversa quella cena, strapiena di lussi ma venata di mestizia, rispetto ai pasti decisamente più frugali consumati con sua madre su una tovaglia di incerata a fiori. Più spartani, ma certamente conditi da ben altro calore umano.

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Solo al termine delle portate prese corpo tra loro una parvenza di dialogo, dietro cui si celava in realtà un monologo di Emiliano. Lui ordinò un doppio scotch liscio e prese a sorseggiarlo, sforzandosi di nascondere la vergogna che provava trovandosi in un locale di quel genere con una tale plebea. Elena, dal canto suo, avvertiva una certa forma di soggezione, facendo in ogni caso di tutto per non darlo a vedere. Aveva preso una coppetta di gelato alla fragola e ascoltava il ragazzo che le sciorinava davanti tutte le sue ricchezze, come una bambina che ascolti il nonno narrarle una fiaba. Le parlò delle Officine Meccaniche Alfa, del numero di dipendenti, del fatturato, passando poi a descriverle la propria villa e le residenze al mare e in montagna, e mille altre cose inerenti lo sfarzo in cui era immersa la sua esistenza. Quando ebbe terminato di fare sfoggio di ciò che possedeva, iniziò a interessarsi di lei: «Mi hai detto che studi, se non sbaglio... Vai all'università?» «Sì. Come ho detto l'altro giorno, frequento l'Università di Padova... Lingue». «Certo, certo...» commentò il ragazzo distrattamente «E ti piace?» «Moltissimo!» esclamò lei sorridendo. «Non mi hai ancora detto qual è il tuo cognome» osservò Sperelli. Elena ci pensò un po' su, poi disse: «Vedi, il mio cognome è un pochino strano: mi chiamo Mirenko. In effetti è il cognome della mia mamma, che è ucraina. Quando avevo sette anni, mio padre ci ha abbandonate per andare a vivere con un'altra donna. Così, quando ho raggiunto la maggiore età ho deciso di prendere il cognome di mia madre, per sostituire quello paterno». «E come ti chiamavi prima?» «Rossi» rispose lei mettendosi a ridere «Il cognome più banale del mondo!» poi riprese: «Io sono figlia unica, e tu?» «Anch'io» rispose Emiliano laconicamente. «E i tuoi genitori, sono ancora insieme?» lo incalzò la ragazza. Lui se ne stette in silenzio per qualche attimo, fissando un punto non ben distinto fuori dalla finestra, e Elena lo guardò con aria preoccupata: «Forse ho fatto una domanda fuori luogo?» «No, assolutamente: i miei stanno ancora insieme, certo!» Effettivamente sua madre non sarebbe sopravvissuta più di un paio di giorni senza i continui rifornimenti di denaro del marito. Il discorso valeva anche per lui, del resto. «Senti», disse Emiliano con un tono che non prevedeva

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contraddittorio «che ne dici se andiamo a farci una passeggiata? Così, giusto per digerire». La ragazza non trovò nulla da obiettare, così lasciarono il locale. Si misero a camminare fianco a fianco sul lungolago, ad ascoltare il silenzio dei loro passi mescolarsi con il pigro sciabordio della massa d'acqua al loro fianco. L'aritmico ticchettio delle suole in cuoio delle Tod's di Sperelli si percepiva appena, mentre del tutto silenziose erano le anonime scarpe da ginnastica di Elena. Di tanto in tanto lui percepiva il gomito nudo della ragazza sfiorare la stoffa della sua giacca estiva. Questo dettaglio, di per se stesso insignificante, si caricava di un tenue erotismo che Emiliano, abituato ad avere sempre tutto subito, non sapeva come gestire. Sentiva qualche cosa di non ben definito montargli al cervello, forse lo scorno di non avere ancora ottenuto su un piatto d'argento una preda che reputava in fin dei conti di bassissima lega. A un certo punto decise che era arrivato il momento di agire: la luna faceva capolino tra le nubi rade, propiziando l'atavico istinto del cacciatore. Le strinse le braccia con violenza e cercò di baciarla, ma istintivamente lei si ritrasse. Allora lui le fermò i polsi dietro la schiena con la mano destra, e con la sinistra le bloccò la nuca in modo che non potesse muovere la testa. Impresse le proprie labbra sulle sue, che rimanevano serrate, cercando di aprirsi un varco mentre lei mugolava. All'improvviso sentì la bocca di Elena schiudersi e abbandonarsi a lui. La baciò più con soddisfazione che con passione, frugandola con la lingua nervosa. Le mani di lei, ora liberate, gli scorrevano su e giù per la schiena. Dopo qualche interminabile istante Sperelli si staccò dalle sue labbra, la prese per mano e si mise a camminare di buon passo verso la Porsche. Senza dire una sola parola partì e si lasciò il paese alle spalle. Non poté fare a meno di notare che ora Elena non aveva messo la cintura di sicurezza. «Dove mi porti?» chiese lei. «Non preoccuparti», replicò Emiliano «aspetta e vedrai». Arrivarono davanti a un motel; lì Sperelli parcheggiò e si diresse verso la reception. La ragazza lo seguiva a qualche passo di distanza, come un docile agnello condotto al mattatoio. Dopo aver confabulato per qualche attimo con il portiere, Emiliano si voltò in direzione di Elena facendo tintinnare una chiave, attaccata a un grosso portachiavi in legno di forma ovale. Lei scosse il capo come se si trovasse a avere a che fare con un bambino dispettoso, e lo seguì. Non appena furono arrivati in camera la ragazza chiuse la porta, mentre lui già iniziava a togliersi la cintura e a sbottonarsi i pantaloni. Elena lo guardò con aria

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sbigottita, e lui di rimando esclamò: «Che c'è? Non hai mai visto un uomo che si spoglia?» «Non è questo», rispose lei «è che non sono sicura di star facendo la cosa giusta...» Per tutta risposta Sperelli le si avvicinò, avvinghiò le dita tozze ma ben curate ai suoi seni e le tolse a forza la maglietta. La ragazza non oppose più nessuna resistenza, anzi: si scostò da lui e si svestì da sola. Sotto gli abiti portava un paio di mutandine viola e un reggiseno sportivo del medesimo colore. Intanto, senza il minimo pudore, Emiliano si era già completamente denudato e sedeva sul letto. Lei si sfilò con un po' di reticenza il reggiseno e le mutandine, rimanendo per qualche istante nuda, davanti allo sguardo di lui. Sperelli aveva avuto praticamente ogni femmina che avesse potuto desiderare fin da quando era stato in grado di discernere cosa fosse il piacere della carne. Ora si trovava in una situazione un po' anomala, se raffrontata alle sue abitudini: Elena non era certo bella come le donne che era abituato a avere, eppure c'era qualcosa in lei che lo ammaliava. Restò come incantato a guardarla mentre gli si avvicinava lentamente, camminando a piedi nudi sulla moquette. Seguì il profilo lievemente pendente dei suoi seni generosi e candidi, con le areole grandi e colorate di un rosa tenue, e sorprese i suoi occhi perdersi su quell'esile linea castana posata sul pube diafano. Così Adamo doveva aver guardato Eva nel giardino dell'Eden, dopo aver mangiato del frutto della conoscenza del Bene e del Male. Accarezzò i suoi fianchi morbidi e lattei, caldi al tatto, intrisi di un tepore che trapassava la pelle e la carne delle dita per conficcarsi fin dentro le ossa delle mani come una quieta consapevolezza. Sembrava quasi che un'aura taumaturgica circondasse la ragazza, ma lui non riusciva a rendersi conto di cosa stesse succedendo. A un tratto Elena gli mise le mani sulle spalle e lo spinse, mandandolo a cadere supino sul letto. Quanto accadde dopo, fu la più naturale delle conseguenze. Lei calò il proprio corpo sul suo con una dolcezza simile a quella con cui il buio della sera viene sulla terra a placare gli affanni dei giorni umani. Lui sentì il risvegliarsi della coscienza di una parte di sé, una parte rimasta sepolta in un inspiegabile torpore sin dall'istante in cui era fuoriuscito dall'utero materno. Gli parve allora che la squallida stanza in cui si trovavano fosse satura di liquido amniotico, e che lui vi fluttuasse sereno, come in un'accogliente reminiscenza ancestrale. Mentre lei si muoveva, a Sperelli sembrò di sentire le loro carni liquefarsi e fondersi, smarrendo le rispettive individualità.

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Così percorsero il cammino sull'erta via che conduce al vortice del deliquio, e l'amplesso si concluse come una cosa normale solo in apparenza. Per Emiliano infatti si trattò di un'esperienza inconcepibile e incomprensibile, mai provata prima. Subito dopo Elena corse in bagno a lavarsi e si rivestì, con una fretta dettata dal senso di colpa, proprio come quando Eva nel paradiso terrestre aveva tentato inutilmente di nascondere a Dio la propria nudità. Aveva appena indossato la maglietta quando, voltandosi in direzione di Sperelli, lo vide chino sul tavolo. Quel mobile, insieme al letto, a un armadio e a un paio di sedie completava l'arredamento della camera. Gli si avvicinò e lo sentì inspirare rumorosamente. Lui la percepì dietro di sé e si voltò. La guardò un attimo, poi, porgendole una banconota da cinquecentomila lire arrotolata, le chiese: «Vuoi?» «No, grazie...» disse lei con un tono un po' impacciato, che diede adito alle insistenze di Emiliano: «Coraggio, hai paura?» «Io? No, certo che no. Solo che non ho mai provato...» «Beh, c'è sempre una prima volta», replicò Emiliano con aria vissuta. Elena non aveva mai provato la cocaina prima d'allora. Si era limitata soltanto a qualche spinello. Si trovava ora in una situazione nella quale la sua innata fragilità di fronte alle decisioni veniva messa a dura prova, non tanto dall'opportunità, quanto dalla determinazione con cui il ragazzo, più che proporle un'offerta, le imponeva un diktat. Guardò la droga sul tavolo con gli occhi assenti per guadagnare un po' di tempo, cercando dentro di sé la forza di fare una scelta che, in un senso o nell'altro, le potesse appartenere davvero. Sperelli riprese la parola: «Coraggio, non fare la bambina... Solo una sniffata, dai! Se non ti piacerà, non dovrai più rifarlo, promesso». Quell'ultima frase fece crollare il già fragile equilibrio su cui si sosteneva la reticenza della ragazza. Si accostò dunque al tavolo, prese con mano un po' tremante la cannula improvvisata, si inginocchiò di fronte alla polvere bianca come davanti a un idolo pagano, avvicinò il tubetto di carta al naso e tirò forte. Passarono alcune decine di secondi, poi la ragazza si sentì invadere da una specie di euforia che andava a cancellare una certa ombra di stanchezza che, fino a poco prima, si stava facendo strada. Sentì il suo cuore accelerare il ritmo forsennatamente, e fu colta da una stranissima forma di nausea. Si

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abbandonò sul letto mentre avvertiva le mani di Emiliano correre sul suo corpo, insinuarsi sotto i suoi abiti, frugare senza vergogna nei suoi indumenti intimi. Sentiva tutto, ma era troppo concentrata su se stessa, troppo intenta a dominare quella convulsa miscela di sensazioni per pensare a qualsiasi altra cosa. Dopo un lasso di tempo che non le riuscì di quantificare, giunse infine il momento in cui poté ritornare padrona di sé. Diede un'occhiata all'orologio: «Com'è tardi, devo tornare a casa!» esclamò. «Non c'è problema», disse Sperelli «ti riporto subito in città». Sulla via del ritorno, mentre la Porsche sfrecciava sulla tangenziale a tutta velocità, Elena cominciò a cercare qualcosa in una tasca dei pantaloni. Tirò fuori un cellulare piuttosto antiquato, e diede un'occhiata al display: «Cazzo, l'avevo messo in modalità silenziosa e me n'ero dimenticata...» «Perché? Che c'è?» domandò Emiliano cercando di fingere interesse. «Vediamo... Un messaggio ricevuto e tre chiamate senza risposta... Una chiamata è di mia madre. Sarà preoccupata non avendomi ancora vista tornare a casa... Le altre due chiamate e il messaggio sono di Claudio. Oddio, adesso che gli racconto?» «Ma mandalo a cagare, quello sfigato!» tagliò corto Sperelli. Elena lo guardò in malo modo, salvo poi mitigare l'espressione del viso. In fondo era colpevole anche lei, in una certa misura, di quanto era accaduto. Il giovane si accorse di avere gli occhi di lei puntati addosso, ne intuì il significato e riprese: «Sentimi bene, Elena: quando mai questo Claudio ti ha fatto passare una serata così, eh? Ammettilo, io sono un sacco superiore a lui. Sono ricco, ho tutto quello che lui non ha. Io ho tutto, e lui niente. Lui non è niente». La ragazza sospirò, ripose il cellulare e reclinò il capo sul petto senza dir nulla. Una leggera pioggerella tiepida aveva intanto preso a cadere sull'asfalto, mentre i pneumatici divoravano con indifferenza il manto stradale. Quando furono quasi arrivati a Brescia, Emiliano disse: «È davvero tardi. Ti accompagno fino a casa, ok?» «Non osavo chiedertelo, sei gentile... Grazie». «Figurati. Dimmi tu dove devo andare». Lei lo guidò verso la periferia est della città, fino a un complesso di edilizia popolare costruito negli anni Cinquanta o Sessanta, che dimostrava irrimediabilmente tutta l'età che aveva. Lo fece fermare

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davanti a un casermone cui l'architetto, al momento del concepimento, si era evidentemente sforzato di conferire perlomeno un'apparenza dignitosa. Ora però giaceva mal tinteggiato e pieno di crepe nel bel mezzo del tessuto urbano, come un gigante morente con centinaia di occhi socchiusi, illuminati da luci al neon o a incandescenza. Sperelli ne fu letteralmente disgustato, ma cercò di non darlo a vedere. Pensò che mostri del genere non avrebbero dovuto nemmeno esistere. Non lo sfiorò neppure il pensiero che dentro quegli edifici, per forza o per amore, c'era gente che dormiva, mangiava, beveva, odiava, amava... Viveva. Sentì le labbra di Elena posarsi sulla sua tempia a dargli un bacio leggero come la brezza primaverile, ma non ci fece troppo caso. Non appena lei ebbe chiuso la portiera, Emiliano ripartì senza nemmeno guardarla rincasare. Non tollerava la presenza di tanto squallore intorno a sé. Si sentì meglio solo quando fu nei pressi della sua villa. Una volta chiuso il cancello automatico e disattivato l'allarme all'ingresso entrò, chiuse il portoncino blindato a tripla mandata e reinserì il dispositivo di sicurezza. Arrivato in camera sua si gettò sul letto. Voleva dormire, desiderava dormire più di ogni altra cosa in quel momento, ma già sapeva che farlo si sarebbe dimostrato assai difficile, almeno quella notte. “Che cazzo mi tocca fare per un caffè.” disse, pensando a voce alta. Cercava di ostentare durezza almeno davanti a se stesso, ma aveva la sensazione che nelle sue fondamenta, fino ad allora da lui ritenute inamovibili, una pietra si fosse smossa, anche se solo di un infinitesimo di millimetro.

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IV Il cellulare squillava con fastidiosa insistenza da un bel po', quando finalmente Emiliano si decise a rispondere. Sul display appariva, illuminato a intermittenza, il nome di Alessio. «Pronto...» biascicò Sperelli con voce assonnata «Taide, che cazzo succede? Perché mi disturbi a quest'ora?» «Come a quest'ora? Sono le undici passate!» esclamò l'altro «Ti chiamo solo per avere conferma che stasera sarai dei nostri a San Siro per vedere la partita. Un'amichevole di lusso!» ridacchiò. «Che cazzo stai dicendo?» lo apostrofò malamente il primo. «Come, te ne sei dimenticato? Si era d'accordo...» «D'accordo, d'accordo... D'accordo un cazzo! No, stasera ho altro da fare». «Ancora a scoparti la Elena, eh? Vecchio maiale!» «Vecchio maiale a chi? si infervorò Emiliano Lo so che la vostra è solo invidia! Lo vedo come guardate il suo bel culetto mentre passa tra i tavoli, e pensate che è solo mio e non vostro! Sfigati! Morti di seghe!» «Ehi, Emi, datti una calmata: saremo anche sfigati e morti di seghe, però quel culetto mica è solo tuo. Mi permetto di ricordarti che lei ha ancora il ragazzo...» «Sì, è vero, ma lo avrà per poco. E ora scusami ma devo andare a lavarmi il cazzo. La mia puttanella me lo deve succhiare per bene stasera». «Come vuoi. Allora non vieni alla partita?» «Ma sei sordo oppure scemo? Ti ho detto di no!» e così dicendo interruppe la comunicazione. Dato che ormai era sveglio, Sperelli si decise ad alzarsi. Dopo essersi lavato e vestito uscì in macchina per fare colazione. Al bar ordinò cappuccino e brioche, si sedette e si mise a scorrere i titoli principali della Gazzetta. Si impegnava con tutte le sue facoltà mentali a focalizzare l'attenzione sul giornale, ma non c'era verso. Più lui si sforzava di leggere, più le parole si scomponevano in sillabe, le sillabe

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in lettere, e le lettere si trasformavano in simboli privi di senso, ghirigori di inchiostro nero impressi su carta rosa. Alessio aveva sollevato una questione che il suo amor proprio riteneva di primissimo piano: Elena doveva appartenere solo e esclusivamente a lui. Già un paio di giorni dopo quella fatidica cena sul lago, quando si era trovato con il suo amico a bere il caffè che era stato messo in palio, aveva iniziato a capire che le cose non stavano esattamente come lui aveva immaginato. Qualche particolare era sfuggito al suo controllo, e aveva bevuto il caffè con un sorriso dietro il quale si celava una certa inquietudine. Certo, aveva continuato a non dare troppo peso a quello che aveva fatto, si era impegnato a relegare l'accaduto nella dimensione di una scommessa, ma non ci era riuscito. Continuava a chiamarla puttana, ma si imbestialiva se qualcun altro la definiva così. Sulle prime era convinto di comportarsi in quel modo perché si trattava della sua puttana. Poi però, giorno dopo giorno aveva sostituito quel termine gratuitamente spregiativo col suo nome di battesimo, fino al punto di provare ripugnanza anche solo nel pensare a Elena come a una prostituta, anche se soltanto per modo di dire. Ora si frequentavano da quasi un mese, sempre di nascosto da tutti i conoscenti di lei, e già questo infastidiva non poco Emiliano. Non faceva nessuna differenza invece il fatto che i suoi genitori non ne fossero affatto al corrente. D'altronde, chissà come l'avrebbero presa male. La sua più grande fonte di insofferenza, tuttavia, era la consapevolezza di dividere la ragazza con un altro uomo. Pur non avendolo mai visto, aveva imparato a conoscere questo Claudio. Aveva imparato a conoscerlo, ma non a conviverci. La sua possessività ormai aveva oltrepassato lo stadio del capriccio, stava diventando una vera e propria ossessione. Elena doveva essere soltanto sua. Questo bisogno inconfessabile se lo portava dentro ormai da un po', senza poterlo dire nemmeno agli amici più cari, ammesso che ne avesse, soprattutto perché ne andava della sua fama di donnaiolo privo di scrupoli. Doveva a tutti i costi liberarsi di quel ragazzo che, per il solo fatto di esistere, molestava le sue giornate. Doveva liberarsene, e doveva agire da solo. Già da qualche giorno rifletteva su quale metodo potesse esistere per raggiungere il suo scopo, e era giunto alla conclusione che, come sempre, il suo denaro avrebbe sopperito a ogni tipo di carenza. Lasciò a metà la colazione, pagò e se ne tornò a casa, a attendere la sera. Aspettò che fosse già tardi e se ne andò a cenare in un ristorante del centro storico, meditando il da farsi tra un piatto e l'altro. Mangiò selvaggina e bevve vino di Borgogna, si accese un sigaro dopo il pasto

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e indugiò fin quasi all'orario di chiusura con un bicchiere di scotch in mano. Diede un'occhiata al suo Daytona e si alzò, tra gli sguardi sollevati dei camerieri che già temevano di doversi attardare nel locale per non contrariare un cliente di così gran riguardo. Una volta pagato il conto, salì a bordo della sua Porsche e si diresse verso il Whisky Bar. Entrandovi non vi trovò la consueta atmosfera allegra e un po' chiassosa. Data l'ora già decisamente tarda, infatti, ben pochi erano gli avventori ancora presenti. Elena lo vide subito e gli indirizzò un caloroso gesto di saluto, come avrebbe potuto fare nei confronti di un caro amico. Effettivamente non si perdeva mai in smancerie sul luogo di lavoro, benché la sua relazione con Sperelli fosse ormai di dominio pubblico. Questo per espresso desiderio del ragazzo, deciso a salvare almeno le apparenze. Lui le mostrò l'orologio e lei gli fece di rimando un cenno con le due mani spalancate: ancora dieci minuti di attesa e avrebbe staccato. Per ingannare il tempo Emiliano bevve ancora qualcosa, fumò un paio di sigarette, saldò il conto lasciando una mancia cospicua e andò in macchina ad aspettare. Dopo qualche minuto, anche gli ultimi ritardatari uscirono dal bar. Una ad una le luci all'interno si spensero e le ombre del titolare e della cameriera fecero capolino. Mentre l'uomo, dopo averla salutata, si accingeva ad abbassare la serranda, lei si precipitò verso la Porsche. Un bacio di sfuggita e poi, come d'abitudine, si diressero verso il solito hotel a quattro stelle dove una stanza era già pronta, prenotata per loro. Ormai gli eventi si susseguivano in una routine rodata e priva di imprevisti; anche se di volta in volta Elena andava sciogliendosi, spogliandosi con gli abiti anche dei sensi di colpa che inizialmente l'avevano tormentata. Dopo i piaceri dell'alcova i due amanti si dedicavano, spesso senza nemmeno rivestirsi, al rito della sniffata. Sulle prime Emiliano si divertiva a vedere la ragazza alle prese con la polvere, paragonandola dentro di sé a un cucciolo che si goda in premio un biscottino dopo aver compiaciuto il padrone. Ora però non ragionava più negli stessi termini poiché, scoprendosi sempre più bisognoso di stare con lei, non riusciva più a distinguere chi compiacesse chi. Forse in fondo si trattava di un semplice do ut des, un baratto in cui entrambi avevano qualche cosa da guadagnare, ovvero gli oggetti dei rispettivi desideri. Quella notte però, dopo la cocaina, il ragazzo sapeva di dover affrontare un tema che gli stava molto a cuore. Non aveva timore di ferire Elena, la sua paura semmai stava nell'incertezza relativa al conseguimento del suo obiettivo: la definitiva eliminazione di quel dannato Claudio dalla vita di lei. Non si era preparato nessun discorso in particolare: era abituato a

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impartire ordini; non era certo nel suo stile negoziare alcunché con chicchessia. In special modo non poteva scendere a patti con una donna, per giunta di bassa estrazione sociale. Cercò soltanto, negli istanti in cui parlava, di scegliere nel suo scarno vocabolario le parole più morbide, e quindi più consone a trattare un argomento sul quale sapeva di non poter esercitare i pieni poteri: «Elena», esordì «devo parlarti». «Dimmi» rispose lei sniffando altra droga attraverso l'oramai familiare banconota arrotolata. «Elena, stammi a sentire seriamente: io non ne posso più di vivere una situazione così assurda. Voglio dire che io sto bene con te, e mi sembra che anche tu stia bene con me. Perciò mi domando: ma che cazzo c'entra ancora nella tua vita quell'idiota del tuo ragazzo?» «Ma sì, fottitene Emi. Me ne fotto anch'io» gli rispose preparando un'altra striscia di cocaina. «Cosa intendi dire? Che significa che te ne fotti anche tu?» «Vuol dire che non lo sento da quasi una settimana. Lui mi chiama e io non rispondo. Se so che io e te non dobbiamo sentirci spengo il cellulare. Solo mia mamma rompe un po' i coglioni. Insiste nel dirmi che è un bravo ragazzo e tutte queste cose... Io lo so che è vero, ma in questo momento non mi va di sentirmi legata. Capisci quello che voglio dire?» «Intendi che non ti va di legarti nemmeno a me?» «Non so... Oddio, sono così confusa in questo periodo...» « Non ti va di legarti a me, però il mio cazzo e la mia polvere ti piacciono molto, mi sembra...» «Certo!» esclamò lei con sguardo complice. «Bene», riprese Sperelli «pensa che rimanendo con me potresti avere l'uno e l'altra garantiti, nella quantità che vuoi. Che aspetti a mandare al diavolo quel cretino?» «Non è un cretino!» protestò, sia pur molto debolmente, la ragazza. «Come vuoi, Elena. Però devi pure ammettere che non ti può dare tutto quello che ti sto offrendo io... Non credi?» «Sì, forse hai ragione...» I residui di resistenza della giovane, complice la cocaina, erano ormai palesemente ridotti al minimo. Il ragazzo, mangiata rapidamente la foglia, capì che era il momento di battere il ferro finché era caldo, perciò disse: «Pensaci bene, Elena. Puoi veramente avere molto da guadagnare a stare con me. Certe occasioni capitano solo una volta nella vita. Non

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vorrai mica perdere il tuo treno migliore, spero». Così facendo riduceva se stesso a mero veicolo tra la ragazza, oggetto del suo capriccio, e la sua disponibilità economica, oggetto del desiderio della ragazza stessa. Tuttavia non pareva curarsene troppo, o più probabilmente non se ne rendeva proprio conto, abituato com'era a uno stile di vita basato sull'etica dell'avere. La risposta di Elena in ogni caso non si fece troppo attendere, e fu in completa sintonia con le sue aspettative: «Mi hai convinto» disse la giovane in un sospiro «Alla prossima chiamata che mi farà, lo pianterò. Contento?» «Puoi giurarci!» ribatté lui, assaporando di nuovo il gusto sottile del predominio. Finirono di nuovo a letto e, dopo l'amplesso, Emiliano controllò l'ora: «Accidenti è quasi l'alba! Ti ho fatto fare tardissimo, credo che domani avrai seri problemi a svegliarti per andare all'università...!» «Ma che cazzo me ne frega», rispose lei «tanto sono già due settimane che non frequento più...» Sperelli si compiacque molto di questa risposta: Elena andava proprio plasmandosi a immagine e somiglianza del suo capriccio di donna.

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V Non erano passate nemmeno ventiquattr'ore dal loro ultimo incontro quando si rividero, come di consueto al Whisky Bar. Emiliano non nascondeva minimamente la sua insofferenza alla situazione, e non vedeva l'ora che le cose si mettessero a posto come lui pretendeva. Ignorò completamente quelle formalità di facciata con le quali fino ad ora si erano salvate le apparenze e parlò chiaro e tondo, senza timore che qualcuno udisse: «Allora, l'hai liquidato quel coglione?» «Non ancora» rispose Elena. «Fino ad ora non ho risposto alle sue chiamate, ma ora che tu sei qui mi sento in grado di farlo». «Aspettavi me? Ma che cazzo di persona sei? Non hai le palle di eliminare un povero stronzo?» «Fino a prova contraria le palle non le ho affatto perché non ne sono stata dotata da Madre Natura, e poi non me la sentivo di dare un semplice colpo di spugna su tre anni di relazione come se niente fosse. Avevo bisogno di un sostegno. Cerca di capirmi Emi, ti prego...» «Va bene, va bene...» replicò Sperelli in tono esasperato «Ma alla prossima chiamata prendi la palla al balzo, ok?» «Ok!» disse lei allegra, mettendosi goliardicamente sull'attenti. A un cenno di Emiliano, la ragazza versò un doppio scotch e glielo servì, mentre lui accendeva una Davidoff con fare un po' nervoso. Proprio mentre la sigaretta era sul finire, lei lo guardò in un modo che non poteva essere frainteso: il suo cellulare stava vibrando e, anche se non si poteva sentire la suoneria a causa della musica diffusa a alto volume nel locale, il display dell'apparecchio era illuminato. Elena lo mostrò al ragazzo: si trattava proprio di Claudio. «Svelta, rispondi» la esortò lui «e sistema una volta per tutte quel pezzo di merda». Le gote della giovane si imporporarono mentre accostava il telefono all'orecchio: «Pronto» disse con un tremito nella voce.

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Dopo un attimo di attesa, Sperelli udì un cicaleccio metallico provenire dal microfono. Rimase trepidante in attesa di sentire che cosa si sarebbero detti. «No, Claudio, non c'è niente da dire. Mi dispiace». La ragazza rimase un altro po' in silenzio, mentre dall'altro capo una voce articolava parole non udibili da Emiliano. «Claudio, no, lascia perdere. È finita». Fece una pausa, mentre una lacrima le rigava una guancia. «È proprio finita». disse riattaccando. Sperelli era felice: i suoi piani erano andati bene, e i suoi desideri erano stati esauditi. Come sempre, del resto. Rimase per un attimo a guardare Elena, l'ambito premio delle sue manovre, ma notò subito una cosa che non gli piacque, e non mancò di farlo notare immediatamente: «Che cazzo piangi adesso? Non ti rendi conto? Hai mollato un perdente per metterti con me! La tua vita cambierà un sacco, e in meglio! Che cazzo puoi volere di più, eh? Me lo dici?» La ragazza lo guardò asciugandosi gli occhi: «Scusami, hai ragione», disse «ma non è facile neanche per me...» «Facile, facile... Facile un cazzo! Dimmi tu dove sta il difficile!» «Beh, sai... Dopo anni...» «Che cosa vuoi che sia? Dopo anni quel coglione ricomincerà a farsi le seghe, come è giusto che facciano i cretini inferiori della sua razza. Per te, invece, si aprono le porte del paradiso! Un altro whisky, forza. È proprio il caso di festeggiare!» Passarono le ore e arrivò il momento della chiusura. Sperelli non vedeva l'ora: aveva cercato di convincere il titolare del bar a lasciar staccare prima Elena, ma il locale era stracolmo e non era stato possibile. In altre circostanze si sarebbe imbestialito, ma il gusto della vittoria gli aveva addolcito il carattere, almeno per quella sera, e d'altro canto l'attesa gonfiava ulteriormente il suo desiderio di lei. Ormai non la considerava più semplicemente come la sua puttana. Qualcosa era decisamente cambiato nella loro relazione; essa andava infatti trasformandosi in un legame più profondo di una mera condivisione di corpi, senza quasi che i diretti interessati se ne potessero rendere pienamente conto. Come d'abitudine lei si avvicinò all'automobile mentre una pioggia gelida, in netto contrasto con la calura del giorno appena trascorso, iniziava a scendere. I potenti lampioni della piazza illuminavano a giorno il selciato di una innaturale luce gialla, creando ombre oblunghe accanto agli ultimi avventori che si allontanavano. Giunse in quel momento, da una strada laterale, una figura alta e

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magra. Era un ragazzo vestito con un paio di jeans e una giacca, anch'essa di jeans, che sembrava buttata con malgarbo su quella parvenza di appendiabiti che erano le sue spalle strette e ossute. Aveva i capelli corvini sporchi, la barba sfatta da diversi giorni e delle profonde occhiaie scavate sotto le orbite livide. I lineamenti del volto, che si indovinavano per loro natura gentili, erano sconquassati da una sorta di pena interiore che affiorava marcando in maniera spigolosa il mento e gli zigomi. E poi, gli occhi. Due occhi accesi, simili a pietre incastonate in una maschera amara. Si guardò attorno con aria un po' spaesata, caracollando quasi come se fosse ubriaco. Poi però si riscosse, muovendosi con passo deciso in direzione della macchina. Vedendolo, Elena si batté un palmo sulla fronte scuotendo il capo. Non ci fu bisogno di parole per far capire a Sperelli che quel tizio che si avvicinava era Claudio. Fece partire il motore e accese gli abbaglianti che, per un attimo, accecarono il ragazzo a piedi, costringendolo a ripararsi dalla luce con una mano. La pioggia cadeva con indifferenza, trafitta senza dolore dai fasci luminosi tracciati dai fanali della Porsche. Claudio aveva quasi raggiunto la portiera del lato destro, ma dall'interno Emiliano chiuse l'abitacolo. Vano fu ogni tentativo da parte del giovane sotto la pioggia di aprire. Allora cominciò a parlare alla ragazza: «Elena, ti prego, ascoltami...» Non fece in tempo a continuare che Sperelli, mettendo il cambio in folle, cominciò a premere a fondo sull'acceleratore. Dall'auto si levò un ruggito che pareva uscire dalla gola di un mostruoso titano, e non si udì più nulla se non il rombo della vettura immobile. Dal vetro picchiettato di pioggia si vedevano le labbra di Claudio muoversi, e le sue sopracciglia arcuate in modo innaturale sugli occhi. A un certo punto il ragazzo posò le mani sul finestrino, e una vampa di odio salì al cervello di Emiliano che aprì di scatto la portiera e scese, mettendosi a urlare: «Ehi, pezzo di merda! Che cazzo fai? Non hai ancora capito che lei non ti vuole più? Idiota, levati dai coglioni, che è meglio! E non permetterti di toccare la mia auto con quelle tue mani merdose, sennò ti rompo il culo, chiaro?» «Stai calmo, bello» rispose Claudio di rimando «Voglio solo parlare con la mia ragazza». «Ma allora sei proprio un idiota: non l'hai ancora capito che non è più la tua ragazza? Torna a casa, sfigato, torna nella tua topaia a ammazzarti di seghe...» «...Ma chi ti credi di essere? Sei solo un fighetto di merda. Lasciami

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parlare con Elena». «Fighetto di merda a me? Io ti uccido! Hai capito, figlio di puttana? Ti uccido!» Sperelli era furibondo. «Vieni, sono qui» gli rispose Claudio con un gelo spettrale nella voce. Emiliano provò una specie di paura, come una sferzata sulla spina dorsale, ma non lo diede per nulla a vedere. Si limitò a darsi una calmata e a dire: «Non mi sporco le mani con la merda, ma stai attento: da oggi ti conviene dormire con un occhio solo. Vaffanculo!» Così dicendo risalì velocemente a bordo della Porsche, e senza dare nemmeno il tempo di reagire a Claudio partì sgommando, senza scordarsi però di mostrargli il dito medio dal lunotto dell'automobile. Erano ormai lontani dal luogo in cui la scenata si era consumata e Elena, per evitare almeno per quella sera spiacevoli strascichi, aveva pensato bene di spegnere il cellulare. L'autoradio rimaneva spenta; si sentiva solo il ritmico andirivieni dei tergicristalli sul forte sfondo del rombo di motore. Di tanto in tanto Emiliano si voltava verso la ragazza per cercare di cogliere qualche eventuale cedimento nelle decisioni prese, cosa che temeva potesse verificarsi dopo l'incontro di poco prima. La vide aprire il suo portafogli gaiamente colorato e guardare una fotografia in formato tessera infilata nello spazio destinato ai documenti d'identità. Gli fu sufficiente un breve sguardo con la coda dell'occhio per inquadrare la fisionomia di Claudio. Per spezzare il silenzio che andava facendosi un po' troppo pesante, esordì: «Scusami ma, per curiosità... Come fa di cognome questo Claudio?» «Perché me lo chiedi?» domandò lei sinceramente sorpresa. «Così, per sapere...» «Si chiama Porato» fu la sua recisa risposta. «Porato...» ripeté Sperelli tra sé e sé più volte, col fine di non dimenticarselo. Poi aggiunse: «E dove l'hai incontrato, quell'idiota?» «Ci conoscevamo fin da bambini. Sai dove abito io?» Lui annuì, e lei riprese: «Bene, lui sta solo due palazzi più avanti». Arrivarono al solito hotel ma, contrariamente alle loro abitudini, una volta in camera lui chiamò la reception per farsi portare di sopra una bottiglia di Ruinart e delle tartine al caviale. Quando tutto ciò che aveva

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ordinato fu arrivato bevvero lo champagne, ma le tartine non le toccarono quasi. C'era una certa aria di mestizia che permeava la loro stanza, quella notte. Prima di andare a letto, Emiliano disse alla ragazza: «Senti, Elena. Oramai quel Porato è fuori dal giro. Fammi un piacere. A me e anche a te stessa. Ho visto prima che conservi ancora una sua foto. Eliminala, che ne dici?» La giovane rimase un attimo titubante; allora lui prese dal fianco del tavolino, su cui già faceva bella mostra di sé la cocaina che avrebbero sniffato dopo, il cestino per la carta straccia e glielo mise davanti, restando in silenziosa attesa. Con fare rassegnato lei allora prese la fotografia dal portafogli e l'appoggiò con delicatezza sul fondo del contenitore, quasi a voler usare un'ultima cortesia al suo ormai ex ragazzo. Un sorriso di trionfo si disegnò sulle labbra di Sperelli, che prese Elena per mano e la condusse all'alcova. Dopo che ebbero consumato il loro ardore, mentre la ragazza era in bagno a lavarsi, Emiliano si avvicinò con circospezione al cestino, raccolse la foto e la fece scivolare nella tasca interna della sua giacca, che se ne stava ordinatamente ripiegata sullo schienale di una sedia. Ancora una volta le cose stavano andando come lui voleva. D'altronde, che c'era da stupirsi? Lui era un vincente, una vera roccia. E erano solo idiozie alcune voci messe in giro da dei sedicenti saggi, certe storie riguardanti rocce sgretolate dalla costanza della brezza. Elena lo raggiunse poco dopo con indosso solo le mutandine, interrompendo il filo dei suoi pensieri. Sorridendo si sfregò le narici con l'indice teso della mano destra, segno inequivocabile: così come una gattina poteva fare le fusa per ottenere il suo cibo, lei era in grado di sprigionare un'innata carica di sensualità quando reclamava la sua amata polvere. «È mia. Ora sì che è solamente mia» pensò Sperelli guardandola, mentre con gesti ormai automatici disponeva per bene la coca. Arrotolò le solite cinquecentomila lire e le porse alla ragazza, concedendole la prima sniffata, occupato dentro di sé a dare forma a alcune sue oscure riflessioni. Nel frattempo di fuori, nel cielo, andavano addensandosi a bassa quota grosse nuvole gonfie e nere, decisamente insolite in quel periodo dell'anno. Potevano solo essere foriere di cattivi presagi.

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VI Il giorno successivo, Emiliano si svegliò con un chiodo fisso. Non era assolutamente il caso di porre tempo in mezzo: c'era una cosa che andava fatta, e andava fatta subito. Tutto sommato, le cose fino a quel momento erano andate proprio secondo le sue più rosee aspettative, se non addirittura meglio di quanto potesse attendersi. Nonostante ciò, tutto questo non gli bastava ancora. Voleva avere di più. Nel primo pomeriggio se ne andò al cinema, ma lasciò la sala di proiezione alla fine del primo tempo, annoiato e distratto dai propri pensieri. Ritornò a casa e attese la sera cercando di ingannare il tempo davanti alla PlayStation ma dopo un po', stanco di videogiochi, si piazzò davanti al televisore finché non furono quasi le ventidue. Uscì di casa e arrivò in macchina nei pressi della stazione ferroviaria, accostando vicino al marciapiede dove un magrebino con addosso una tuta Lonsdale se ne stava a bighellonare. A un cenno di Sperelli, il nordafricano salì a bordo della Porsche, che ripartì. «Allora», esordì il ragazzo alla guida «ce l'hai la roba?» «Certo». rispose laconico l'altro, sventolando sotto il livello del finestrino tre piccole buste di plastica contenenti polvere bianca. Emiliano gli passò delle banconote, ricevendo in cambio le bustine. Dopo aver esitato per un istante, si decise a fare una domanda allo spacciatore: «Ascolta, io avrei una faccenda da sistemare... Si tratta di un lavoretto sporco e io non posso farlo. Ma sono sicuro che tu sei in grado di svolgerlo, o comunque conosci di sicuro la persona o le persone adatte». Il suo interlocutore si voltò nella sua direzione per guardarlo dritto negli occhi. Aveva una profonda cicatrice livida che gli solcava il lato sinistro del volto, dalla tempia alla mandibola. Quello sfregio rappresentava per Sperelli la miglior garanzia di essersi imbattuto nel soggetto che faceva per lui. «Che cosa bisogna fare?» domandò il passeggero.

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«Bisogna far fuori un tizio» sibilò rabbioso Emiliano. Il pusher, colto alla sprovvista, sbarrò gli occhi con aria sorpresa: «Cosa?» «Dai che hai capito», interloquì il giovane in tono spazientito «c'è da ammazzare uno stronzo». «No, non si può...» balbettò l'altro. «Guarda che pago bene» lo incalzò Sperelli, rincarando la dose. «Non sono i soldi il problema». «Ma ce le ho solo io le palle in questo cazzo di città?» «Piano, piano», disse il nordafricano esortandolo alla calma «Non ho detto che non posso fare niente. Posso pestarlo a sangue, se vuoi. Però, ucciderlo no». «Va bene», sospirò Emiliano meravigliandosi della propria insolita arrendevolezza «farlo secco no, se proprio non hai abbastanza fegato, però voglio che questo figlio di puttana si prenda la lezione più dura di tutta la sua vita!» «Questo si può fare» disse lo spacciatore, mettendo in mostra con un ghigno una fila irregolare di denti gialli e marci. A quel punto Sperelli prese una busta piuttosto gonfia, che stava infilata sotto la sua aletta parasole, e la diede al passeggero: «Aprila», gli disse imperioso «ci troverai il nome, la foto e l'indirizzo del casermone dove abita il bastardo da sistemare. C'è anche la metà del compenso. Il resto te lo darò a cose fatte, quando passerò a prendere altra polvere, ok?» Il magrebino guardava sorpreso l'enorme cifra contenuta nella busta, incapace di proferire parola. Gli riuscì soltanto di annuire. «Che c'è? Non ti basta quell'acconto?» esclamò Emiliano sogghignando. «Basta e avanza» gli rispose il suo interlocutore, con gli occhi pieni di cupidigia. «Bene. Allora siamo d'accordo. Voglio un lavoro ben fatto, e voglio che sia fatto in tempi rapidi, ok?» «Ok». «Ti riporto in stazione». Mentre tornavano al luogo in cui si erano incontrati, il pusher diede un'occhiata ai dati contenuti nella busta e chiese: «Ma cosa ti ha fatto di così grave questo Porato perché tu lo voglia addirittura morto?» «Questi sono cazzi miei. replicò Sperelli con malgarbo». Poi, ci pensò su un attimo e aggiunse:

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«Sai qual è il problema di questo Porato? Il suo problema è che esiste». Il breve viaggio era quasi terminato quando Emiliano riprese la parola: «Un'ultima cosa: quando avrai messo a posto quel pezzo di merda, ricordagli di non avere mai più la pessima idea di pestare i piedi a Emiliano Sperelli». «Ma sei matto? Correrà a denunciarti!» «E che cazzo vuoi che me ne freghi? È la sua parola di pezzente contro la mia. Io, se voglio, posso pagarmi i migliori legali sul mercato, mentre lui non può fare un cazzo. È solo uno sfigato, non gli darebbe ascolto nessuno. Nemmeno un avvocato d'ufficio vorrebbe difendere quel coglione in un processo contro di me». «Ma se è solo uno sfigato...» si azzardò a dire il nordafricano, senza riuscire a terminare la frase. La Porsche infatti inchiodò davanti al marciapiede dove si erano incontrati in precedenza, e il guidatore tagliò corto: «Siamo arrivati, levati dai coglioni». Lo sfregiato scese senza quasi avere il tempo di richiudere la portiera, mentre il bolide riprendeva rabbiosamente la strada dirigendosi verso il centro. Tenendo il volante con una mano, Sperelli prese il cellulare e chiamò il suo amico Alessio. Dopo un po' di attesa ci fu la risposta: «Pronto?» «Dove cazzo eri?» »Non ho sentito subito il telefono, sono al bar e c'è un casino bestiale!» Un forte rumore di sottofondo dava ragione al povero Taide. Emiliano riprese: «Ok, ok... Dai, fatti trovare di fuori che ti porto in discoteca, al lago». «Va bene, sarò davanti all'ingresso tra un attimo». Dopo una manciata di minuti erano già lanciati sulla tangenziale, che entrambi conoscevano come le loro tasche. Alessio prese la parola: «A che cosa devo questo onore?» «Che stai dicendo?» replicò Sperelli «Uno non ha più diritto a andare a divertirsi un po'?» «Non intendevo dire questo, solo che è un po' strano che tu decida di punto in bianco di andare in discoteca... Di solito me lo fai sapere sempre prima, tutto qui».

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«E che cazzo! Se non vuoi venire, ti riporto indietro, ok? Stasera ho voglia di lago, ecco». «Dai, Emi! Non me la racconti giusta! C'è qualcosa sotto, eh?» esclamò il passeggero dandogli maliziosamente di gomito. «Diciamo così, che mi è andato bene un affare... Un affare che ha eliminato un problema che mi stava qua» rispose indicandosi il pomo d'Adamo. «E che problemi puoi mai avere tu? Sei giovane, ricco...» «Fottiti!» esclamò Emiliano interrompendolo «Credi che uno ricco sia senza problemi? Tu non hai mai problemi? Oh, certo che ce li hai! Vieni a mendicare i soldi per i night e la coca da me e anche dagli altri, al bar... Sotto sotto cerchi di nasconderlo, ma hai le pezze al culo, eh?» «Non ti permetto di dire così!» esclamò Alessio cercando di darsi un contegno «La mia dignità...» «La tua dignità? Ma non farmi ridere! Te la puoi mettere nel buco del culo, la tua dignità! O mi sbaglio?» Così dicendo gli lanciò un'occhiata torva. Alessio abbassò gli occhi e tacque, leccandosi le ferite inferte al suo amor proprio, che gli valevano per l'appunto donne e droga. In effetti Sperelli non era andato poi molto lontano dal vero. Tuttavia questo argomento, pur essendo noto e trattato dalla maggioranza degli avventori del Whisky Bar, non veniva mai tirato in ballo in presenza di Taide: un po' forse per non urtare la sua sensibilità; o più probabilmente perché spesso le persone ricche amano crogiolarsi nell'agrodolce sapore del potere. Il potere che il denaro può esercitare su una persona che non ne dispone, è virtualmente smisurato. Arrivare al punto di ridurre un povero diavolo in uno stato di umiliante debito, riducendolo in una malsana forma di schiavitù morale, è assai sovente per qualcuno una sorta di sadico divertimento. Alessio era caduto ormai da tempo in questa sinistra tela di ragno, e non era decisamente capace di uscirne. Solo allora Emiliano pensò che forse questo soggetto si sarebbe potuto prestare maggiormente al compito di cui aveva investito lo spacciatore poco prima. Però, considerando che era nella sua cerchia di conoscenze, un'eventuale indagine avrebbe portato a lui. In quella fattispecie anche un principe del foro avrebbe dovuto lavorare assai duro per cavarlo dalle peste. Decise così di lasciar correre via questo pensiero sbagliato, fece del suo meglio per assumere un'espressione quanto più corrucciata possibile, e disse sospirando: «Dai, Alessio, basta parlare di cose tristi. Pensiamo a divertirci, va bene? Stasera offro io, e non preoccuparti: non si bada a spese! In

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fondo, mi è andata bene questa piccola faccenda, ho risolto una questione che mi dava un po' di noia... Sì, insomma, comunque niente di importante!» «Ok» disse Taide rincuorato, riprendendo colore sul volto che si era fatto terreo sotto le pesanti parole di Sperelli. In realtà si chiedeva come mai, se la cosa da festeggiare era di così poco conto, Emiliano fosse di manica addirittura più larga del solito. Decise infine che non era il caso di porsi troppe domande di fronte a uno che stava per sponsorizzargli una serata coi fiocchi. Neanche quella sera il parassita aveva trovato il coraggio di togliersi il guinzaglio. FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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