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U.S.I. Arti e Mestieri - A.I.T. 1 L’Internazionale - n.3 - 20 Marzo 2012 www.artiemestieri.info www.artiemestieri.info/giornale Periodico dell’U.S.I. Arti e Mestieri - A.I.T. [email protected] +3933128804126 Il resto di niente... in attesa di qualcosa di nuovo La riforma della democrazia pag. 2 Il regime post-democratico pag. 2 Cantiere di Sestri: una lotta operaia pag. 3 La “Carta del Carnaro” pag. 5 Intervista ad un compagno greco pag. 8 Liberi di leggere: Gianna Manzini pag. 9 Il resto di niente... E’ il titolo di un bel romanzo di Enzo Striano che racconta le vicende della sollevazione dei giacobini napoletani nel 1799, una rivoluzione che non c’è, condita da generosità, ma anche da tanta inanità, retorica e distacco dalle aspettative del popolo basso. Una fine tragica che non lascia nessun segno nella coscienza popolare. Il niente e il resto di niente… In termini meno metafisico- poetici, e con una metafora più sensibile, il resto di niente è quello che resta dopo aver ra- schiato il fondo del barile, in tutti i sensi... E’ quello che rimane nelle no- stre tasche dopo che gli ultimi provvedimenti governativi in materia fiscale, pensionistica, salariale, di welfare residuale stanno drenando tutto il possi- bile e ancora qualcosa di più. E’ quello che resterà delle con- quiste dei lavoratori, dopo l’en- nesima riforma del mercato del lavoro targata dal nuovo Trio Lescano (Fornero-Camusso- Marcegaglia), in tema di con- trattazione, rivendicazioni, ga- ranzia del posto di lavoro, ecc. E’ quello che rimarrà in tema di ambiente e di vivibilità del territorio, militarizzato e devastato dalle Grandi Opere Inutili e dalla cementificazione “ordina- ria”. E’ anche quello che rimane delle illusioni di chi ha sempre, ostinatamente e ingenuamente, cre- duto che si potesse cambiare “rotta”, conquista- re dignità e giustizia sociale all’interno di questo sistema, avvalendosi degli strumenti “partecipa- tivi e rappresentativi” ammessi e concessi: dalla dialettica democratica parlamentare, al sindaca- to concertativo, ai movimenti d’opinione come correzione al malfunzionamento degli apparati e dei meccanismi istituzionali. Ma è anche, infine, quello che resta delle spe- ranze di tutti quelli che hanno pensato di rivo- luzionare l’esistente semplicemente radicaliz- zando ed estremizzando le usuali dinamiche di mediazione sociale, presumendo di superarle. Si badi, non è il solito discorso “teoretico” sulla crisi irreversibile delle forme partito rivoluzio- nario e sindacato rivendicativo novecentesche, ma piuttosto la constatazione empirica che que- sti soggetti non esistono più se non in forma pol- verizzata e/o caricaturale. Basti considerare - nel contesto del nostro paese - la frammentazione estrema di Rifondazione comunista sui cui resti sono germogliati almeno cinque partitini (o for- se più, è difficile tenere il conto...) indistinguibili in tutto, a partire dalla stucchevole supponenza dei loro gruppi dirigenti. Mutati mutandis, non troppo diverso è il discor- so che riguarda il sindacalismo che si autodefi- nisce alternativo e conflittuale. Nato a cavallo degli anni ‘80 e ‘90 come reazione all’impu- tridimento del sindacalismo concertativo con- federale su basi assembleari e federaliste, con strutture “leggere” ed una tendenziale rotazione degli incarichi, non ha mantenuto le sue pro- messe, trasformandosi nel tempo in fotocopia dei sindacati di Stato e fallendo, a varie riprese, processi d’unificazione, voluti da spinte di base, ma vanificati dalle rivalità dei gruppi dirigenti. Ma, bisogna essere ben chiari, la burocratizza- zione e la sclerotizzazione dei sindacati di base - che abbiamo sempre criticato duramente - non sono semplicemente una “deviazione” da una retta via, ma piuttosto gli effetti di una proget- tualità monca fin dagli inizi, di una concezione del sindacato come pura organiz- zazione difensiva dei lavoratori, collaterale a questa o a quella formazione politica a cui viene demandata la soluzione (riformi- sta o rivoluzionaria che sia) della questione sociale. Qualcosa di nuovo... è dunque necessario, perché men- tre i rapporti politici tradizionali di delega ai partiti (in senso este- so) stanno saltando e si affermano movimenti di contestazione “generale” che - per quanto in- terni al sistema - contengono elementi di critica radicale dell’esistente, niente di nuovo, come abbiamo visto, compare sul fronte sindacale. Si perpetua cioè la storica separatezza tra l’agire “politico” e la difesa economica che tanti guasti ha sempre provocato. Superare questa dicotomia è un obbligo se si ri- tiene che la trasformazione radicale della società sia, di fronte al suo crescente sface- lo, indispensabile e ineluttabile. Allora bisogna recuperare la con- cezione che questa trasformazione debba vedere un soggetto comples- sivo, titolare di un progetto altret- tanto complessivo. Un soggetto dunque che sia sindaca- le, ovvero in grado di rivendicare e strappare quei miglioramenti econo- mici e normativi che sono necessari e lo faccia in modo radicale, uscen- do dai vincoli imposti alla contratta- zione da padronato e governo. Un soggetto sociale, impegnato con- tro la devastazione dell’ambiente, l’inquinamento, l’accapparramento delle risorse naturali, lo sfruttamen- to privatistico e a fini di lucro dei beni comuni e che, soprattutto sia in grado di collegare le lotte in atto e quelle future sottraendole alla logi- ca del “non nel mio cortile”. Un soggetto economico teso a promuovere e co- ordinare attività autogestionarie, cooperativiste, mutualiste e solidariste in una rete alternativa e non sussidiaria all’esistente, indipendente dalle logiche del profitto e del mercato e in grado di sconfiggerle mano a mano che si sviluppa. Un soggetto, infine, libertario e federalista, quin- di fondato sulla partecipazione e la libera attività di chi vi aderisce e lo sostiene; un soggetto che non nasce da un sogno utopico, ma che ha le sue radici nella storia del movimento operaio, delle sue lotte e delle sue realizzazioni, che ha nel suo (segue in ultima)

Il resto di niente...Il resto di niente... E’ il titolo di un bel romanzo di Enzo Striano che racconta le vicende della sollevazione dei giacobini napoletani nel 1799, una rivoluzione

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U.S.I. Arti e Mestieri - A.I.T. 1

L’Internazionale - n.3 - 20 Marzo 2012

www.artiemestieri.info www.artiemestieri.info/giornale Periodico dell’U.S.I. Arti e Mestieri - A.I.T. [email protected] +3933128804126

Il resto di niente... in attesa di qualcosa di nuovo

La riforma della democrazia pag. 2Il regime post-democratico pag. 2

Cantiere di Sestri: una lotta operaia pag. 3La “Carta del Carnaro” pag. 5

Intervista ad un compagno greco pag. 8Liberi di leggere: Gianna Manzini pag. 9

Il resto di niente...

E’ il titolo di un bel romanzo di Enzo Striano che racconta le vicende della sollevazione dei giacobini napoletani nel 1799, una rivoluzione che non c’è, condita da generosità, ma anche da tanta inanità, retorica e distacco dalle aspettative del popolo basso. Una fine tragica che non lascia nessun segno nella coscienza popolare. Il niente e il resto di niente…In termini meno metafisico-poetici, e con una metafora più sensibile, il resto di niente è quello che resta dopo aver ra-schiato il fondo del barile, in tutti i sensi...E’ quello che rimane nelle no-stre tasche dopo che gli ultimi provvedimenti governativi in materia fiscale, pensionistica, salariale, di welfare residuale stanno drenando tutto il possi-bile e ancora qualcosa di più.E’ quello che resterà delle con-quiste dei lavoratori, dopo l’en-nesima riforma del mercato del lavoro targata dal nuovo Trio Lescano (Fornero-Camusso-Marcegaglia), in tema di con-trattazione, rivendicazioni, ga-ranzia del posto di lavoro, ecc. E’ quello che rimarrà in tema di ambiente e di vivibilità del territorio, militarizzato e devastato dalle Grandi Opere Inutili e dalla cementificazione “ordina-ria”.E’ anche quello che rimane delle illusioni di chi ha sempre, ostinatamente e ingenuamente, cre-duto che si potesse cambiare “rotta”, conquista-re dignità e giustizia sociale all’interno di questo sistema, avvalendosi degli strumenti “partecipa-tivi e rappresentativi” ammessi e concessi: dalla dialettica democratica parlamentare, al sindaca-to concertativo, ai movimenti d’opinione come correzione al malfunzionamento degli apparati e dei meccanismi istituzionali.Ma è anche, infine, quello che resta delle spe-ranze di tutti quelli che hanno pensato di rivo-luzionare l’esistente semplicemente radicaliz-zando ed estremizzando le usuali dinamiche di mediazione sociale, presumendo di superarle.Si badi, non è il solito discorso “teoretico” sulla crisi irreversibile delle forme partito rivoluzio-nario e sindacato rivendicativo novecentesche, ma piuttosto la constatazione empirica che que-sti soggetti non esistono più se non in forma pol-verizzata e/o caricaturale. Basti considerare - nel contesto del nostro paese - la frammentazione

estrema di Rifondazione comunista sui cui resti sono germogliati almeno cinque partitini (o for-se più, è difficile tenere il conto...) indistinguibili in tutto, a partire dalla stucchevole supponenza dei loro gruppi dirigenti. Mutati mutandis, non troppo diverso è il discor-so che riguarda il sindacalismo che si autodefi-nisce alternativo e conflittuale. Nato a cavallo degli anni ‘80 e ‘90 come reazione all’impu-tridimento del sindacalismo concertativo con-

federale su basi assembleari e federaliste, con strutture “leggere” ed una tendenziale rotazione degli incarichi, non ha mantenuto le sue pro-messe, trasformandosi nel tempo in fotocopia dei sindacati di Stato e fallendo, a varie riprese, processi d’unificazione, voluti da spinte di base, ma vanificati dalle rivalità dei gruppi dirigenti.Ma, bisogna essere ben chiari, la burocratizza-zione e la sclerotizzazione dei sindacati di base - che abbiamo sempre criticato duramente - non sono semplicemente una “deviazione” da una retta via, ma piuttosto gli effetti di una proget-tualità monca fin dagli inizi, di una concezione del sindacato come pura organiz-zazione difensiva dei lavoratori, collaterale a questa o a quella formazione politica a cui viene demandata la soluzione (riformi-sta o rivoluzionaria che sia) della questione sociale.

Qualcosa di nuovo...è dunque necessario, perché men-tre i rapporti politici tradizionali di delega ai partiti (in senso este-

so) stanno saltando e si affermano movimenti di contestazione “generale” che - per quanto in-terni al sistema - contengono elementi di critica radicale dell’esistente, niente di nuovo, come abbiamo visto, compare sul fronte sindacale.Si perpetua cioè la storica separatezza tra l’agire “politico” e la difesa economica che tanti guasti ha sempre provocato.Superare questa dicotomia è un obbligo se si ri-tiene che la trasformazione radicale della società

sia, di fronte al suo crescente sface-lo, indispensabile e ineluttabile.Allora bisogna recuperare la con-cezione che questa trasformazione debba vedere un soggetto comples-sivo, titolare di un progetto altret-tanto complessivo.Un soggetto dunque che sia sindaca-le, ovvero in grado di rivendicare e strappare quei miglioramenti econo-mici e normativi che sono necessari e lo faccia in modo radicale, uscen-do dai vincoli imposti alla contratta-zione da padronato e governo.Un soggetto sociale, impegnato con-tro la devastazione dell’ambiente, l’inquinamento, l’accapparramento delle risorse naturali, lo sfruttamen-to privatistico e a fini di lucro dei beni comuni e che, soprattutto sia in grado di collegare le lotte in atto e quelle future sottraendole alla logi-ca del “non nel mio cortile”.

Un soggetto economico teso a promuovere e co-ordinare attività autogestionarie, cooperativiste, mutualiste e solidariste in una rete alternativa e non sussidiaria all’esistente, indipendente dalle logiche del profitto e del mercato e in grado di sconfiggerle mano a mano che si sviluppa.Un soggetto, infine, libertario e federalista, quin-di fondato sulla partecipazione e la libera attività di chi vi aderisce e lo sostiene; un soggetto che non nasce da un sogno utopico, ma che ha le sue radici nella storia del movimento operaio, delle sue lotte e delle sue realizzazioni, che ha nel suo(segue in ultima)

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U.S.I. Arti e Mestieri - A.I.T. 2

L’Internazionale - n.3 - 20 Marzo 2012

La riforma della democraziasindacale

Mamma UE si è occupata ancora dei suoi ama-ti sudditi, come al solito a loro insaputa. Due decisioni che graveranno come macigni sul loro futuro sono state avvolte dall’usuale silenzio od occultate dietro frettolosi e criptici riferimenti daparte di tutte le istituzioni, i partiti parlamen-tari, i sindacati “più rappresentativi” e, manco a dirlo, i mezzi d’ “informazione”. Insomma un altro esempio di democrazia “riformata”. Dopo decenni di “riforme” del welfare, dei diritti del Lavoro, delle pensioni, per continuare a rifor-marli ancora (…a costo di cancellarne ogni trac-cia) occorreva una “riforma” complessiva, sin-tetizzabile in un prosaico ” avere mano libera”! Vediamo cosa ci hanno preparato i “tecnici” europei e cerchiamo di quantificarne le conse-guenze per l’Italia.

1) Il 1° febbraio è stato approvato da 25 paesi il FISCAL COMPACT, esso, “ridotto in pillole contiene due regole. La prima (…) è il pareg-gio di bilancio, o meglio il divieto per il deficit strutturale di superare lo 0,5 per cento del Pil nel corso di un ciclo economico. La seconda regola fissa un percorso di riduzione del debito pubbli-co in rapporto al Pil: dovrà scendere ogni anno di 1/20 della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia del 60 per cento” (Giuseppe Pisauro da lavoce.info, in Sbilanciamoci.info, 02/02/2012)

2) Il 2 febbraio è nato il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), vedi: http://pensareliberi.com/2011/12/17/mes-meccanismo-europeo-di-stabilita-un-colpo-di-stato-in-17-paesi/). Attra-verso un Trattato che riguarda 17 paesi, con mo-dalità da colpo di stato e in modo clandestino, si istituisce un meccanismo geniale di asservimen-to dei popoli alla grande finanza internaziona-le. Gli stati aderenti “dovranno” spennare i loro “cittadini” per finanziare il MES, che avrebbe il compito istituzionale di garantire la stabilità

finanziaria dell’eurozona. In realtà, questo nuo-vo soggetto giuridico potrà, in piena autonomia, erogare prestiti agli stati stessi, ma a condizione che questi adottino gli “aggiustamenti macroe-conomici” richiesti.L’Italia si impegna a dare al MES 125mld. di euro in cinque rate annuali. Se non riuscisse a far fronte a questo impegno, sarebbe soggetta a sanzioni (non specificate) più il pagamento di interessi. Nel caso la nostra crisi del debito dovesse peggiorare (per esempio se “i mercati” riaccendono la speculazione sui titoli del nostro DP, facendone precipitare il valore e schizzare verso l’alto i tassi d’interesse, magari perché non si è cancellato l’art. 18!), avremo il vantaggio di poter chiedere prestiti al MES, il quale, però, ci detterà (insieme al FMI, col quale è prevista una “cooperazione” del MES) le poli-tiche da intraprendere.

RIASSUMENDO:

• In base al FISCAL COMPACT: a) si dovrà mantenere il pareggio del bilancio annuale (max deficit = 0,5% del PIL, il che con un PIL in discesa si tradurrà in valori assoluti

decrescenti!). Il precedente limite al deficit an-nuale era del 3% e, in fasi economiche meno peggiori dell'attuale, ha rappresentato un pro-blema non solo per l'Italia. In ogni caso, questa regola comporterà un aumento dell'avanzo pri-mario, con conseguente diminuzione delle risor-se spendibili per il (non)welfare; b) si dovrà praticare una riduzione annuale del debito pubblico pari a 1/20 della differenza tra il debito effettivo e la soglia "ammessa" del 60% del PIL. Per noi, se non sbaglio, le conseguenze sarebbero queste: il nostro DP (120% del PIL), deve dimezzarsi; in valori assoluti, la metà di 1.900 mld = 950, che diviso per 20 si traduce in 47,5 mld. l'anno di tagli o tasse.• Il finanziamento del MES, ci costerà 125 mld. in 5 anni, dunque 25 mld. l’anno.

IN SOLDONI (ANNUI!):

Raggiungimento e mantenimento del pareggio di bilancio = una ventina di mld.Riduzione del DP = 47,5 mld. Finanziamento del MES = 25 mld.

Saranno dunque, complessivamente, sottratti ai nostri servizi e redditi (e all’economia naziona-le) UN CENTINAIO DI MILIARDI L’ANNO!Con conseguente forte accentuazione della spi-rale “austerità”> recessione> riduzione entrate fiscali> “necessità” di nuovi tagli o tasse> ecc.Una vera e propria auto-produzione della crisi!

E tutto ciò “richiede” l’ azzeramento preventivo di ogni residuo diritto del Lavoro, nerbo della “riforma” della democrazia.Non si sa mai…lavoratrici e lavoratori potreb-bero provare a reagire, nonostante l’orpello dei sindacati!

Sergio Casanova

Il regime post-democraticoIl regime delle tecnocrazie bancarie nella UE e in Italia.

Il Patto di bilancio della UE (vedi sintesi incol-lata sotto) costituisce un altro passo avanti nel quadro del superamento del regime di democra-zia rappresentativa formale, che ha caratterizza-to lo stato liberal-democratico.E’ un processo che accompagna l’intera esisten-za della UE, a partire dalla sua definizione isti-tuzionale, funzionale al Trattato di Maastricht. Il potere economico-finanziario nelle mani della BCE e l’assenza di poteri reali del Parlamento europeo (unico organismo eletto dai cittadini) garantiscono la centralità degli obiettivi mone-taristi indicati dal Trattato.La crisi economico-finanziaria, frutto anche delle politiche dettate da esso, ha accentuato il ricorso ai colpi di mano del “governo” UE (concordati con BCE e FMI ) sempre fondati sul ricatto agli stati: o ratificate le nostre decisioni o rinunciate ai nostri “aiuti”. Questo, per scongiurare l’ipo-tesi di loro eventuali “disobbedienze” legate alla verifica elettorale alla quale i governi nazionali sono/erano sottoposti. Tutto ciò, nonostante la spontanea e crescente adesione delle forze poli-tiche e della cultura ufficiale dei paesi della UE al pensiero unico. E nonostante il dilagare della manipolazione di massa. Ma non si sa mai! Il procedere della crisi ha portato recentemen-te all’eliminazione anche formale di quest’ulti-

mo “limite” (le elezioni politiche nazionali) al dominio assoluto e a-democratico della UE sui cittadini europei. Il governo Monti ne è la mani-festazione più evidente. In Italia, la situazione attuale sembra il risulta-to di una “convergenza parallela” tra la linea di sviluppo della UE ed un percorso interno ini-ziato trent’anni fa, nel 1981, col cd. “divorzio della Banca d’Italia dallo Stato”. Esso, propizia-to dall’allora governatore Ciampi col consenso quasi unanime di politici, sindacalisti, intellet-tuali, media, sancì la completa autonomia della B.d’I. dal governo. Saltava così l’unico legame, sia pure indiretto e formale, tra le scelte di poli-tica monetaria e creditizia e i cittadini, cioè l’og-getto di quelle scelte! Una premessa indispensa-bile per l’attuazione delle politiche neoliberiste. Il ruolo assunto dagli ex-governatori Dini e Ciampi nei governi “tecnici” degli anni ’90 di-mostra il peso crescente della B.d’I. nel governo del paese. Proseguito, più recentemente, nella venerazione confindustrial-sindacal-politica del governatore Draghi….E tutti possono verificare la sterzata positiva, per i popoli europei, imposta alla BCE da questo vero e proprio oracolo del centrosinistra! Il Patto di bilancio mette in campo altre regole-capestro per i cittadini della UE. Ecco le conse-guenze per l’Italia:1. l’inserimento della regola del pareggio di bilancio nella Costituzione (cui stanno alacre-

mente lavorando TUTTI i partiti parlamentari!) ne cancellerà, nella sostanza, le caratteristiche di fondo. Quindi, il suo superamento, praticato dalle politiche neoliberiste degli ultimi 20 anni, avrà un riconoscimento anche formale, con l’in-serimento dell’impegno dello stato a non inter-venire nelle questioni economiche e sociali. Per di più, l’approvazione di questa regola da parte di più dei 2/3 dei parlamentari garantirà anche la sua “immunità” rispetto ad un pronunciamento popolare ( referendum confermativo, o no) che potrebbe rivelarsi fastidioso, delegittimando non solo Fratello Monti, ma anche i partiti che gli tengono bordone. In termini economici costerà manovre recessive annuali attorno ai 20 mld. tra tagli di spesa e maggiori imposte…a meno che non adottiamo “misure correttive” (quindi recu-periamo la stessa cifra). Dove sarebbe la diffe-renza?2. L’abbattimento del debito pubblico ci costerà 47,5 mld. l’anno…a meno che non abbattiamo la spesa pensionistica. Per fortuna ci siamo por-tati avanti. Ecco perché Sorella Fornero ha agito per il nostro bene!3. Come sempre gli, eventuali, finanziamenti della UE ci saranno riconosciuti solo se avremo ratificato il Patto. La democrazia secondo Mar-chionne, insomma!Oltre a ciò, il trattato istitutivo del MES (mec-canismo europeo di stabilità) approvato un mese fa da 17 stati, all’insaputa dei rispettivi cittadi-

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U.S.I. Arti e Mestieri - A.I.T. 3

L’Internazionale - n.3 - 20 Marzo 2012

ni (?), ci costerà 25 mld. l’anno per 5 anni. Ciò al fine di poter, eventualmente, ricevere aiuti…vincolati alle politiche scelte dal MES, di con-certo col FMI.

E’ il regime post-democratico che avanza.

Sergio Casanova

Da l’ANSA.IT, 3 marzo 2012.

Il Patto bilancio Ue, compromesso su rigore conti Una svolta verso il rigore di bilancio nell'area euro, come lo definisce la cancelliera tedesca Angela Merkel. O, al contrario, l'ennesima stra-tificazione di regole, con relativi escamotage per aggirarle, senza affrontare il nodo di come rilan-ciare la crescita al lumicino che affligge mezza Unione europea. Sono diverse le interpretazioni che si danno del Patto di bilancio Ue oggi firma-to da 25 leader dell'Unione, che però fa perno su una serie di punti fermi che rappresentano sì un compromesso, ma comunque un passo avanti rispetto alla gestione dei conti pubblici del pas-sato.

Ecco quali. -PAREGGIO, O QUASI. Uno dei punti fonda-mentali del 'fiscal compact', nome ispirato dal presidente della Bce Mario Draghi che l'ha for-temente caldeggiato per mesi, è il contenimen-to dei deficit di bilancio. La 'regola d'orò voluta dalla Merkel, che dovrebbe essere presupposto ad una Germania più generosa nel concedere salvataggi ai Paesi bisognosi, prevede che il rap-porto fra deficit e Pil non debba mai superare lo

0,5%. Un livello che appare irraggiungibile per molti Paesi dell'Eurozona. Per questo, l'accor-do prevede che, prima che scattino le sanzioni automatiche che avrebbero voluto Berlino e la Bce, i Paesi in deficit possano adottare meccani-smi correttivi.

-STRETTA ANTI-DEBITO. Sul debito pub-blico il Patto ricalca il trattato di Maastricht e che ha gettato le fondamenta dell'euro: i Paesi dell'Eurozona devono ricondurlo al 60% del Pil al ritmo di un ventesimo l'anno. Un obbiettivo ambiziosissimo per chi, come la Grecia, punta verso il 150% ma anche per l'Italia, che viaggia intorno al 120%. Per ammorbidirlo, il compro-messo trovato è quello di prendere in considera-zione fattori 'attenuanti': come il livello dell'in-debitamento privato e della spesa pensionistica.

-LEGGE NAZIONALE. Una volta ratificato, il 'Fiscal Compact' dovrà in base agli accordi esse-re recepito negli ordinamenti nazionali. Fattore, questo, che rappresenta un passo avanti rispet-to a Maastricht e al Patto di stabilità europeo. Anche se c’è chi teme che tanta rigidità sia una ricetta recessiva.

-IL NODO POLITICO. L'accordo raggiunto prevede che potranno ricevere l'assistenza fi-nanziaria del fondo di salvataggio 'Esm' solo i Paesi che avranno ratificato il Patto di bilancio. Restano fuori dall'accordo la Gran Bretagna, la Repubblica ceca (anch'essa fuori dall'euro) e l'Irlanda, quest'ultima nella moneta unica: il re-ferendum cui Dublino deve sottoporre il 'Com-pact' è un possibile ostacolo. Non in grado, tut-tavia, d'impedirne l'entrata in vigore nel gennaio 2013: saranno sufficienti anche solo 12 ratifiche nazionali.

Il cantiere navale di Sestri Ponente è un pezzo della storia della classe operaia genovese. Atti-vo da oltre centocinquant’anni, ha costruito navi d’ogni genere, mercantili, passeggeri e militari ed è stato al centro delle vicende politiche e sin-dacali del locale movimento operaio. Negli anni ’50, durante la ristrutturazione postbellica, subì un tentativo di chiusura che portò i lavoratori a occupare lo stabilimento per settantatré giorni, lavorando in autogestione alla costruzione della nave “Volere”. Negli anni ’80 l’IRI, allora di-retta da Romano Prodi, ritornò alla carica, ma la mobilitazione dei lavoratori riuscì a spuntarla anche questa volta e il cantiere, sia pure dopo un lungo periodo di ricorso alla cassa integrazione, ricominciò a lavorare a pieno ritmo.Che cos’è oggi il Cantiere di Sestri Ponente?È uno degli otto cantieri della Fincantieri, so-cietà controllata quasi interamente dal Ministero del Tesoro. Negli ultimi dieci anni ha costruito solo grandi navi da crociera, quasi tutte per il gruppo statunitense Carnival (del quale fa parte anche l’italiana Costa), ma, nel periodo prece-dente ha realizzato anche navi mercantili e of-fshore. Occupa poco più di 700 dipendenti diretti (il 60% dei quali sono operai e il resto impiegati e tecnici), con un’età media intorno ai 36 anni, ma l’appalto raggiunge punte di 2.500 - 2.700 lavoratori, provenienti da oltre cinquanta paesi del mondo. In questi ultimi decenni, infatti, la struttura del lavoro navale è cambiata radical-mente: il cantiere che copriva l’intero processo produttivo, dal varo alla consegna, con il lavo-ro dei propri dipendenti, è stato sostituito da un luogo fisico nel quale la ditta madre (la Fincan-tieri), organizza, controlla e supporta il lavoro di

Cantiere di Sestri: una lotta operaia al tempo della crisi

una miriade di ditte grandi e piccole, in appalto e in sub appalto che utilizzano spesso contratti a termine e a paga globale. Oggi non c’è in pratica nessun settore della produzione, progettazione compresa, in cui non intervengano ditte ester-ne. Inoltre, essendo la nave un oggetto grande e complesso, che incorpora decine di migliaia di oggetti diversi per tipologia e quantità, l’indotto esterno è molto più esteso e articolato di quello di altri settori e coinvolge altre decine di miglia-ia di lavoratori.Il cantiere di Sestri è una fabbrica tradizional-mente sindacalizzata (oltre il 60%), con la FIOM che ha la maggioranza assoluta degli iscritti e dei delegati RSU, sia tra gli operai sia tra gli impiegati. Anzi, in quest’ultimo settore, in con-trotendenza rispetto alla maggioranza delle altre situazioni, raccoglie l’adesione di oltre un terzo dei lavoratori. Non c’è nessuna presenza extra-confederale. Per un breve periodo, qualche anno fa, un settore della FIOM, composto essenzial-mente da giovani operai, si era staccato, aderen-

do alla FAILMS, per essere riassorbito nel giro di un anno. Ovviamente queste considerazio-ni valgono per i dipendenti diretti. Nelle ditte d’appalto la rappresentanza sindacale è quasi totalmente assente e i rapporti che si riescono a creare sono più legati a forme di assistenza che ad azioni rivendicative. A peggiorare questa si-tuazione è anche il fortissimo turn over sia delle ditte che dei lavoratori, che rende difficile con-solidare rapporti stabili.La crisi e la lotta.La crisi economica internazionale, inaugurata dal fallimento della Lehman Brothers nel set-tembre 2008, ha avuto pesanti ripercussioni sulla cantieristica facendo crollare gli ordini di nuove navi in tutti i settori. Anche quello delle navi da crociera, nel quale la Fincantieri era le-ader mondiale, ha visto dimezzato il suo carico di lavoro.La risposta a questa situazione dei vertici azien-dali è stata di tagliare la capacità produttiva, chiudendo due degli otto cantieri: Sestri Ponen-te e Castellamare di Stabia.L’offensiva per raggiungere questo scopo è iniziata alla fine del 2009. Prendendo a prete-sto il mancato raggiungimento di un obiettivo di produzione, la direzione nazionale aziendale ha cercato di creare le premesse al suo piano di chiusura, dimostrando con i dati (assolutamente incontrollabili) la scarsa convenienza a mante-nere in attività un sito improduttivo.Benché apparentemente si trattasse solo del mancato pagamento di un “premio” di qualche centinaio di euro, i lavoratori del cantiere ebbero chiaro sin d’allora che in ballo c’era l’esistenza stessa del cantiere e parteciparono a uno scio-pero di quattro giorni, con occupazione dello stabilimento, indetto dalla RSU. Durante questa vertenza, diciotto tra lavoratori e dirigenti del-la FIOM e della CGIL furono denunciati alla magistratura con l’accusa di aver danneggiato le sbarre d’ingresso al cantiere per permettere l’entrata degli invitati a un’assemblea aperta. Il processo per questo episodio è finito il 2 marzo scorso, con l’assoluzione di tutti gli imputati.Sulla questione del premio la direzione fece una parziale marcia indietro ma, nella primavera dell’anno successivo, il giornale “La Repub-blica”, anticipò il contenuto di un piano indu-striale elaborato dall’azienda, che prevedeva la concentrazione delle costruzioni crocieristiche nei cantieri dell’Adriatico e la chiusura di Sestri e Castellamare. Dopo oltre un mese di lotte e una manifestazione nazionale a Roma durante la quale ai lavoratori furono “ingabbiati” dalle for-ze dell’ordine in una strada senza vie d’uscita, a un passo dall’essere caricati, il governo Ber-lusconi costrinse l’Amministratore Delegato a ritirare il piano industriale.In questa fase sono accaduti due fatti importanti per lo sviluppo della vertenza. Il primo: lavo-ratori del cantiere e delle ditte d’appalto hanno lottato insieme. C’era già stato un precedente: la partecipazione, due anni prima, a una lotta, costata due giorni di sciopero continuato, con-tro l’atteggiamento repressivo della vigilanza aziendale ma, questa volta, la mobilitazione è stata più attiva, con gli operai delle ditte, spesso immigrati, che partecipavano in testa ai cortei o ai picchetti ai cancelli. Il secondo: sono scesi in piazza con i lavoratori, oltre che i pensiona-ti e i cittadini in genere, anche i commercianti e gli artigiani della delegazione. Sestri, infat-ti, ha un’economia che da sempre gira intorno alle grandi fabbriche e, soprattutto, al cantiere. Chiudere quest’ultimo significa dare il via l’im-poverimento generale e al degrado sociale. Nel frattempo gli effetti della crisi si stavano fa-cendo sentire con la diminuzione dei carichi di

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lavoro e l’apertura della cassa integrazione pra-ticamente in tutti i cantieri del gruppo. Questa situazione d’oggettivo indebolimento fu sfrutta-ta dai vertici aziendali per dividere i lavoratori del gruppo proponendo, qualche volta purtrop-po con successo, accordi al ribasso cantiere per cantiere. Ovviamente tali accordi – sottoscritti sempre da FIM e UILM e, in un caso, anche dalla FIOM – escludevano Castellamare e Sestri che, nonostante il ritiro formale del piano industriale, erano considerati comunque da chiudere.A dicembre 2011, con il pretesto del passaggio dalla cassa integrazione ordinaria a quella stra-ordinaria, la Fincantieri, le RSU di Sestri e FIM, FIOM e UILM sono state convocate a Roma al Ministero del lavoro. A quest’incontro l’azienda si è presentata con un piano industriale che, sen-za citare esplicitamente la chiusura del cantiere, sanciva l’uscita dello stesso dal settore delle navi da crociera senza assegnarli un altro compito produttivo, riduceva gli investimenti a una cifra risibile (400.000 euro in due anni: a malapena il pagamento delle utenze) e non dichiarava lavora-tori in esubero, ma solo perché non era possibile quantificarli (in pratica, tutti). Il tutto contornato da poche briciole d’integrazione alla cassa. Di fronte a un piatto così ricco FIM e UILM han-no subito firmato, mentre la FIOM ha dichiarato subito uno sciopero che, nella prima fase è dura-ta una settimana, con l’occupazione del cantiere e, nel periodo successivo, ha visto l’invasione dell’autostrada e dell’aeroporto di Genova. In due mesi sono state fatte oltre 180 ore di scio-pero ed è stato minacciato il blocco della nave in costruzione in questo periodo. L’obiettivo mi-nimo – ma molto difficile da raggiungere – era quello di ottenere una diversa suddivisione delle commesse già acquisite da Fincantieri o un nuo-vo carico di lavoro per impedire che, alla parten-za della nave in costruzione, prevista per marzo, tutti i lavoratori finissero in cassa integrazione e quindi con la fabbrica in pratica chiusa.Il 15 febbraio, alla Confindustria di Genova è stato firmato un accordo che prevede un carico di lavoro di circa sei mesi, “eccedenze tempora-nee” da gestire attraverso la cassa integrazione a rotazione e la messa in lista di mobilità solo su base volontaria.

ConclusioniCome in qualsiasi conflitto, i concetti di vittoria e sconfitta si possono definire solo in base agli obiettivi che si pongono i contendenti. Se il tuo nemico vuole distruggerti, la tua sopravvivenza, anche se ti è costata un caro prezzo, rappresenta la sua sconfitta. In questo senso l’accordo rag-giunto rappresenta una vittoria dei lavoratori, sia pur parziale e con effetti limitati nel tempo. Permette ai lavoratori di Sestri di arrivare, insie-me con quelli di tutto il settore, all’appuntamen-to con il precipitare della crisi della cantieristica che avverrà, se non ci sarà un’improbabile svol-ta nella politica governativa, presumibilmente entro un anno o due. L’alternativa sarebbe stata quella di essere chiusi oggi e non poter parteci-pare alle lotte di domani. E, a queste lotte, i la-voratori dei cantieri ci arriveranno più forti per-ché in questi ultimi due anni hanno partecipato a una lotta vera. In questo periodo, infatti, la stra-grande maggioranza degli operai e degli impie-gati che, per ragioni generazionali, non avevano mai partecipato attivamente a uno sciopero, che erano poco sindacalizzati (di là dall’adesione o meno a un sindacato), hanno organizzato mani-festazioni e picchetti, hanno discusso le forme di lotta in assemblea e poi le hanno praticate. In altre parole: hanno imparato a lottare e ciò, di questi tempi, non è poco.

Pietro Acquilino

Mattino presto, martedì 13 marzo 2012: come ogni giorno sono in autobus che sfoglio, sonnac-chioso, il quotidiano ‘la Repubblica’. Mi fermo a pagina 22, quella dell’Economia, quella degli esperti insomma: titolo “Volkswagen, utile re-cord di 15 miliardi”. Sottotitolo: “Ricavi + 25%, agli operai bonus di 7500 euro. Audi tratta la Ducati”. Chiuse virgolette, punto.Due pagine dopo, pagina 24, titolo: “Pirelli alza gli obiettivi 2012 e vola in Borsa”. Sottotitolo: “Centrati i target del piano triennale, 77 milioni ai manager. Tronchetti ne incassa 14”. Chiuse virgolette, punto.Quindi, in Germania, il potente sindacato metal-meccanico IgMetall, sindacato statutariamente co-gestionario, tratta sui soldi e dice: “voi padro-ni avete guadagnato un bel po’ e quindi distribu-ite parte dei proventi agli operai. Vi chiediamo un aumento contrattuale del 6,5% e un premio consistente (7.500) di denaro in busta paga.” Lungi da me enfatizzare il modello tedesco, le-gato alla produttività ed ai risultati, modello che però indica che, a fronte di un risultato produtti-vo, il padronato deve cedere parte delle sue quo-

Stesso giorno, stesso giornale, … “chiuse virgolette, punto”!te sia in termini salariali fissi, quindi duraturi, che in termini variabili di premio. E sapendo che l’inflazione tedesca è molto bassa, un aumento salariale stabile del 6,5% (i padroni offrono il 4%) significa permettere ai lavoratori di fron-teggiare, con relativa serenità, l’aumento gene-rale del costo della vita. Qui da noi, i soldi i padroni li fanno lo stesso, o li sperperano poco importa, ma di fatto se li tengono belli stretti: i sindacati concertativi, gli scendiletto del padronato italico, trattano invece non solo su come ridurre i diritti e le tutele, ma non riescono neppure ad imporre aumenti sala-riali congrui al reale tasso di inflazione, che va di pari passo con la costante riduzione dei servi-zi sociali e alla loro nemmeno malcelata priva-tizzazione. Più in basso pagina 22, sotto la Volkswagen: “Marchionne: ‘La sede Fiat? Siamo nomadi quello che conta sono gli stabilimenti”. Chiuse virgolette. Punto. Punto a capo. Punto di non ri-torno.

Pietro Stara

La rappresentazione grafica è estremamente semplice ed efficace: il significato inequivocabi-le. L’unico modo per combattere e sconfiggere il “pescecane” (in senso metaforico) è l’unità dei lavoratori che, liberamente, si associano per il fine comune.L’unione, in sé, non è – né può esserlo – suffi-ciente al definitivo affrancamento dalla schiavi-tù del lavoro subordinato. Ciò che, storicamente, ha differenziato e diviso il movimento sindacale è la scelta dei mezzi da utilizzare nella lotta so-ciale.Tralascio qui di approfondire le motivazioni che indussero gli anarchici italiani – all’indomani della Liberazione – a non ricostruire l’Unione Sindacale e a scegliere l’unità (intesa come va-lore) con la CGIL guidata da Di Vittorio … no-nostante fosse ben noto (per lo meno ai reduci del ‘36/’39) il ruolo svolto da quest’ultimo nella repressione violenta delle collettivizzazioni ope-rate dalla CNT in Aragona e nella soppressione (anche fisica) del POUM. Il tutto in osservan-za alle disposizioni staliniane che culminarono nelle giornate di maggio del ‘37 a Barcellona e nell’omicidio di Camillo Berneri.Essi preferirono non “macchiarsi dell’onta” di rompere l’unità sindacale in quel particolare momento storico … cosa che non impedì – su-bito dopo il fallimento del “Fronte unico” alle elezioni del ’48 – la nascita della Cisl e, succes-sivamente, della Uil … con buona pace dell’uni-tà sindacale propugnata dagli anarchici.Da allora ci sono stati numerosi tentativi de ri-sollevare l’antico vessillo dell’anarcosindacali-smo con scarsa fortuna e, aggiungerei, convin-zione. A 100 anni esatti dalla nascita l’USI è,

Elezioni sindacali? Perché no!sostanzialmente, una entità sociale assolutamen-te marginale ed ininfluente. Molti soggetti che si dicono anarchici o libertari hanno scelto – come accadde nel 1945 – “l’entrismo” nella CGIL nell’illusione di modificarla dall’interno; ve ne sono alcuni (di mia conoscenza) che, pur non aderendovi, si sono candidati nelle liste Cobas scuola; altri ancora hanno costruito e coltivato un personale “orticello” di potere; altri anco-ra vaneggiano di “democrazia sindacale” nelle scuole da conquistare … con il voto e, infine, al-cune sezioni dell’USI (in particolare nel settore sanità) che hanno scelto anch’esse di partecipa-re alla competizione elettorale con buona pace del postulato anarchico che impone – nella scel-ta dei mezzi da utilizzare – la rigorosa coerenza con il fine dichiarato. Accettare – sia pure “ob-torto collo” – le regole che essi stessi definisco-no “truccate” – della competizione elettorale per ottenere – dallo Stato! – i privilegi riconosciuti alle grandi organizzazioni è, per un libertario, una contraddizione in termini.Valgano, per tutti, il monito e le considerazioni espresse da Malatesta (cfr. U.N. n. 164 del 21 ottobre 1921) sul “voltafaccia” di Giuseppe Di Vittorio che, eletto deputato, riuscì con un sot-terfugio a rimanere Segretario dell’Usi di Bari nonostante questo fosse in contrasto con lo sta-tuto. “(…) Il suo caso” – ammonisce Malatesta – “ci interessa poco. Egli che forse dando le di-missioni da Segretario della Camera del lavo-ro era sicuro che le dimissioni sarebbero state respinte e quindi faceva la commedia, scenderà tutta la china, come hanno fatto tutti coloro che han messo il piede sul terreno sdrucciolevole del parlamentarismo e l’azione rivoluzionaria del proletariato avrà un nemico in più. Ce ne sono tanti ed un Di Vittorio in più o in meno non cam-bierà la situazione. Quel che ci interessa e ci ac-cora è la incoscienza e la servilità degli operai organizzati di Bari. Essi erano rigidi antiparla-mentari quando tale era Di Vittorio: Di Vittorio cambia idea ed essi cambiano con lui. Ora, se l’Unione Sindacale resterà fedele alle sue di-rettive antiparlamentari, la Camera del lavoro sindacale di Bari passerà alla Confederazione generale perché cosaì conviene a Di Vittorio. Pecora più pecora fa mandria di pecore”.E’ necessario aggiungere altro?

Pasquale Piergiovanni

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La “Carta del Carnaro” e l’impresa fiumanaLa marcia di Ronchi e la crisi dello stato liberale

storia

Il 12 settembre 1919 la ‘marcia di Ronchi’, gui-data dal poeta-soldato Gabriele D’Annunzio e da un manipolo di uomini provenienti dalle più disparate schiere politiche, decreta l’inizio di quella che passerà alla storia come l’ ‘impresa di Fiume’. L’occupazione del territorio fiumano, terminata il 25 dicembre del 1920 con il ‘Natale di sangue’, rappresenta la volontà nazionalista di proseguire l’iter risorgimentale, completandolo con l’annessione di Fiume all’Italia in virtù del Proclama del 30 ottobre 1918. La componente nazionalista ‘patriottarda’ è il motore della spe-dizione, tuttavia, occorre mettere a fuoco ciò che accade in quei sedici mesi di governo dan-nunziano. Invero, durante questo periodo il ‘mi-crocosmo fiumano’ offre spunti interessanti che stimolano il dibattito sociale e giuridico attuale, a partire dal documento oggetto della suddetta ricerca, la Carta di libertà del Carnaro. In essa, e più in generale nel crogiolo del ‘laboratorio fiumano’, le componenti vieppiù anarchiche e creative hanno affrontato temi di discussione e tentato esperienze che riaffioreranno nella conte-stazione giovanile degli anni Sessanta e Settanta: movimenti lontani nello spazio e nel tempo che presentano vivaci dibattiti incentrati su temati-che spesso affini.L’essenza del documento e l’intenso movimento intellettuale che ad esso aderisce costituiscono filosoficamente prima, e politicamente poi, una delle spie della crisi profonda dello stato libera-le, che in Italia preparerà l’avvento del fascismo. Alla crisi filosofica-culturale manifestatasi negli anni Venti attraverso una profonda revisione nel-le arti e nella letteratura occorre sommare la crisi politica causata dal riassestamento internaziona-le post-bellico e all’emergere di fenomeni radi-calmente illiberali, ne è un esempio la Rivolu-zione russa del 1917. Il terzo elemento che segna il definitivo allarme per lo stato liberale italiano e per altri Paesi europei è rappresentato dalla cri-si economica, profonda e mai prevista nella sua ampiezza e drammaticità da nessun economista, verificatasi pochi anni dopo l’ ‘impresa di Fiu-me’: il ‘lasciar fare’ e tutte le risorse della politi-ca giolittiana apparivano inadeguate nel periodo post-bellico in cui la produttività industriale era in netto calo, cresceva la disoccupazione e l’in-flazione, si inaspriva la controversia tra operai e borghesia senza che lo Stato riuscisse a ricom-porre i dissidi, e la classe media, affascinata dai nuovi movimenti politici (fascisti e cattolici), reclamava una maggior presenza nella vita po-litica.Questo quadro culturale,denso di profonde revi-sioni ed innovazioni, ha favorito l’attenzione de-gli intellettuali per la Carta del Carnaro, concepi-to quale ‘documento-antidoto’ ad una crisi ormai estesa in tutto il panorama europeo.“La calma visione delle cose” di stampo giolittiano, imper-niata sul buonsenso e sulla fermezza, appariva la linea più adeguata a guidare un Paese nei pri-mi del Novecento, periodo connotato dall’asce-sa economica e da un sostanziale accordo tra le classi sociali. L’abilità di Giolitti nell’ammorbi-dire le opposizioni dei liberal-conservatori come Sonnino e Salandra, e a guadagnare la simpa-tia di socialisti, riformisti e radicali, è ben nota. Tuttavia, negli ultimi anni del ‘decennio felice’ (1903-1913), l’apice del governo Giolitti, si ma-nifestano i primi sintomi del nazionalismo, l’in-quieta situazione balcanica, la questione libica e l’irrigidirsi del socialismo, che passa da una for-

ma di collaborazione e di umanitarismo ad una fase di intransigenza rivoluzionaria e di violenza. La politica giolittiana appare sempre meno ade-guata a fronteggiare questa situazione e si palesa sempre più debole soprattutto innanzi alla guerra mondiale ed alle conseguenze economiche e so-ciali del conflitto.L’insufficienza del riformismo giolittiano si ma-nifesta anche attraverso il momento in cui Giolit-ti credeva di poter manovrare, nelle elezioni del 1913, il ‘patto Gentiloni’ che decreta l’alleanza tra liberali e cattolici, contro l’ostilità dei socia-listi rivoluzionari, dei democratici e dei massoni.Le elezioni del 1913 sono le prime a suffragio universale; quest’ultimo viene concesso da Gio-litti celermente per anticipare i suoi avversari su un’iniziativa che esprime un’improrogabile esi-genza dei tempi presso tutti i popoli civili, se-gnando l’ingresso nella vita politica della nazione di grandi masse non più controllabili attraverso gli antiquati sistemi compromissori e imperniati sul favore.Inoltre, si verifica la concessione della c.d. ‘proporzionale’ in vista delle elezioni politi-che del 1919. Questo rappresenta una novità che scuote alla base l’assetto tradizionale: i partiti di massa, come il PSI e il PPI, sostituiscono in gran parte il vecchio ceto politico liberale, tuttavia, come in altri Stati europei, essi non riescono a fornire un compromesso coerente tra ideologie contrapposte ed antitetiche. Durante l’impresa libica Giolitti aveva provato a tutelare la sua po-litica, basata sul compromesso sociale, dall’in-sorgere di quei fanatismi che sedimentavano in Italiamercé un’alleanza coi nazionalisti, i quali riflettevano le ambizione inquietudini dei coevi nazionalismi europei.Ovunque si afferma che l’era giolittiana sta volgendo al termine innan-zi al mutare della situazione politica nazionale divisa tra nazionalismo e socialismo: non vi era più spazio per l’Italia giolittiana. Inoltre, tra gli interventisti italiani circola un’idea ‘spauracchio’ volta ad intimidire i borghesi privi di ‘idealismo’: il “caldo bagno di sangue”. Questo motivetto, in-tonato dai figli delle inquietudini del secolo (dai futuristi marinettiani ai sindacalisti corridoniani), esprime il disprezzo per l’uomo medio, pacifista, laborioso, mediocre, vile, umanitario, dedito alla venerazione dell’utile e del mediocre, che prefe-risce la quiete del focolare rispetto allo scontro virile, di cui Giolitti è stimato il rappresentante, assurgendo così a simbolo della crisi nazionale. Questo grido di battaglia, su uno sfondo che apre la strada all’imperialismo, viene sottovalutato da Giolitti che lo considera uno schiamazzo in-nocuo di giovani spensierati, guidati da anziani privi di forza incisiva sulla vera politica. Invece, la letterature dell’epoca, che trasuda di tali ten-denze bellicistiche, è in sostanza politica milita-re, propaganda idonea ad attirare molti giovani stanchi “del buon senso giolittiano, piatto, gri-gio, accomodante, senza lotte e senza vittorie”. Il motivetto attira l’attenzione di coloro che si sentono inappagati da un’esistenza banale, buro-craticamente regolata da magri stipendi, in cui non accade mai nulla, e che nella guerra di Libia trovavano un piccolo assaggio alla loro fame di avventure. I nemici di Giolitti, sia i giovani che vogliono rinovellare il vetusto mondo liberale, sia i ‘vecchi’ Salandra e Sonnino, vedono nella guerra l’unica possibilità per un rinnovamento politico in grado di promuovere un più equo as-setto internazionale “in un mondo libero da troni e da altari”.

Il ‘microcosmo fiumano’ interpreta correttamente il leit-motiv del dopoguerra europeo: quel sincre-tismo politico dai contorni confusi e multiformi, fondato sul disprezzo per la politica parlamenta-re (da abbandonare in quanto inefficace poiché lontano dalle masse, di cui si avvertiva sempre più la presenza); il culto della grandezza nazio-nale e la volontà di investire la nazione di una specifica e monumentale missione; il senso este-tico per la bellezza, la virilità, il genio creativo. Trattasi di pulsioni, comuni a tutta Europa, che vengono automaticamente concentrate a Fiume, ove si arricchiscono abbondantemente di sin-dacalismo rivoluzionario misto a nazionalismo, con un pizzico innovatore di ‘politica di massa’, il tutto mescolato ad un’adeguata dose di irrazio-nalismo, attraverso un mix di vitalismo e nichili-smo, fondendo Bergson e Nietzsche, così da cre-are un richiamo allettante per quelle avanguardie di provenienza disparata, ma unite dall’aggres-sività e dall’odio per la democrazia. Le tecniche della ‘politica di massa’, incentrate sul discorso ‘nazional-patriottico’ dalle sfumature religiose, erano già state sperimentate in vista della guerra libica, ed erano volte alla c.d. ‘nazionalizzazione delle masse’: la guerra mondiale può considerar-si, dunque, il ‘battesimo del fuoco’ per la società di massa. D’Annunzio ripropone audacemente tali tecniche nel ‘microcosmo fiumano’: egli, di-versamente da altri due poeti, Carducci e Pasco-li, già cantori delle gesta nazionali, ha avuto la possibilità di verificare l’efficacia delle proprie parole durante l’ ‘Impresa di Fiume’.Il dopoguerra, caratterizzato dal ‘biennio rosso’, con le rivendicazioni operaie e le prime occupa-zione delle fabbriche, aggrava il già triste quadro post-bellico: ai numerosi reduci che non riesco-noe non vogliono rientrare negli anonimi schemi della pacifica società borghese, soprattutto gli ar-diti, si somma il conseguente sovversivismo de-gli excombattenti ai quali il Governo aveva pro-messo lauti compensi e un futuro allettante nel proprio Paese, ma scoprono amaramente che lo Stato li aveva traditi, e vedono coi loro occhi che chi non partì tre anni addietro con loro al fron-te aveva fatto una scelta decisamente migliore: coloroche evitarono il servizio militare, restan-do a casa, avevano addirittura fatto fortuna con la guerra. Non era un problema di scarso rilievo quello dell’inserimento dei reduci nelle strutture economiche-produttive del Paese: sia dal punto di vista umanitario e civile, sia sul piano quan-titativo, poiché bisognava assicurare il futuro ad oltre quattro milioni di uomini smilitarizzati. Essi si battevano perchè fosse mantenuto un grande esercito permanente, ed erano ormai convinti di poter rivestire un ruolo di un certo spessore anche nel periodo post-bellico, “dato che era stata loro promessa non solo una partecipazione nel futuro politico del paese, ma anche una vera e propria bengodi economica”. Gaetano Salvemini, ana-lizzando la crisi del dopoguerra italiano, pone l’accento non solo sul problema degli excombat-tenti, ma si sofferma sul “veleno della propagan-da disfattista alla quale fu assoggettato il popolo italiano nel 1919”. Secondo Salvemini, per un corretta comprensione delle complesse e agitate vicende post-belliche nostrane, occorre volgere lo sguardo alla “cornice psicologica” della ‘vit-toria mutilata’: questa è invocata all’unisono dai combattenti italiani che, memori della grandezza dell’Impero romano, erano “schiacciati dal loro passato”: il popolo italiano giudicava le condi-

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zioni attuali in cui si trovava il proprio Paese “se-condo il metro dei ricordi di una passata gran-dezza o dei sogni di primati impossibili”. Inutile dire che la conseguenza di questa “intellighenzia italiana”, come la rubricava Salvemini, si dimo-strava un “autentico cancro romano-imperiale” in quanto nessuna misura di progresso avrebbe potuto soddisfare quelle improbabili aspirazioni di grandezza.Nel settore industriale le tensioni sono sempre maggiori; esse culminano in una vertenza sinda-cale resa più drammatica dalla serrata delle azien-de meccaniche, risolta solamente attraverso un accordo (ispirato da Giolitti) firmato dalla CGL e dalla giovane Confindustria, in cui si introdu-cono istituti contrattualmente innovativi come l’indennità di licenziamento e la retribuzione delle ferie. La mobilitazione popolare minaccia borghesi e proprietari che si sentono accerchiati dagli operai e non abbastanza protetti dalla clas-se dirigente liberale: quest’ultima è nel mirino di entrambe le classi sociali, ed in tutta Europa si adombra l’ipotesi di rimedi vieppiù estremi che possano fungere da panacea per la democrazia liberale, la c.d. ‘grande malata’.Inevitabilmente, l’individualismo di cui è densa la Carta del Carnaro e D’Annunzio, l’uomo che riuscì ad eliminare la distanza tra intellettuali e masse, simbolo concerto di audacia e coraggio, si pongono innanzi all’opinione pubblica italiana come il necessario punto di partenza per realizza-re una ‘nuova Italia’, all’altezza di ripagare i sa-crifici patiti: non si tratta solo di annettere Fiume all’Italia, bensì anche di purificare e rigenerare il Paese. Negli anni Venti si percepisce il malessere e le inquietudini di una generazione che aveva fatto la guerra e sente di essere diversa da quella dei padri per il modo di concepire l’esistenza, i rapporti umani e sociali, e l’organizzazione del potere: ne deriva un “magma ribollente di stati d’animo, di concezioni della vita, di aspirazioni al rinnovamento, tra idealismo, utopia, anarchia e vitalismo festaiolo”. Si passa, poi, ad adom-brare l’ipotesi simbolica di annettere l’ ‘Italia a Fiume’: con ciò si intende sottolineare la volontà di imporre a Roma la visione dannunziana del mondo e della ‘più grande Italia’ da lui immagi-nata.I combattenti, che si videro negare i diritti con-quistati sui campi di battaglia, iniziavano a con-cepire l’ ‘impresa di Fiume’ come strumento idoneo a riproporre su scala nazionale il metodo fiumano quale sistema di conquista del potere su scala nazionale: sotto la bandiera del fiumanesi-mo, guidati dai principi della Carta del Carna-ro, D’Annunzio proporrà una nuova teoria ed un nuovo modo di fare politica, allettante per tutte le forze politiche, attraverso un’inedita sintesi tra destra e sinistra in un nuovo mondo forgiato dal-la guerra. Dunque, l’avventura fiumana raccoglie tutto il portato dell’antigiolittismo e dell’illibera-lismo, dal sovversivismo di destra alla frustrazio-ne della conferenza di pace, dall’espansionismo nazionalista alla mitologia di una vittoria mutila-ta, dal giovanilismo eversore all’antisocialismo, dal sindacalismo rivoluzionario all’antiparla-mentarismo illiberale: a Fiume convergono, dun-que, tutti quei fattori che minavano alla base uno Stato liberale scevro di una consistente base di consenso e poco accreditato.La base per dar vita alla ‘nuova Italia’ era incen-trata negli ideali combattentistici (la ‘patria del conquisto’, fondata sulla violenza, sulla forza e sull’eroismo), nel rifiuto del ritorno all’ordina-mento borghese, reclamando la costituzione di un nuovo ordine, e addirittura la creazione di un ‘uomo nuovo’, il superuomo. L’esperienza fiu-mana non si esaurisce nel rifiuto della politica del Governo in carica e del sistema borghese, ma soprattutto nel rifiuto della “costellazione socio-

politica che accompagna l’Italietta liberale e che avvilisce nella vittoria mutilata le speranze e gli ardori di una nazione giovane e gagliarda”. La decisione di creare la Reggenza italiana del Carnaro ed assegnarle una propria Costituzione, nell’impossibilità di annettere Fiume all’Italia, si può interpretare come atto di nascita di un ‘anti-Stato’, non per volontà propria ma per l’ “altrui prepotenza”, come si legge nel “Pream-bolo” della Carta del Carnaro, che impedisce alla città di far parte integrante dello Stato italiano. Si percepisce il desiderio di sostituire la cultura piccolo-borghese, che costituiva l’ossatura dello Stato, con qualcosa di più idealmente vitalistico idoneo a superare gli angusti canoni del raziona-lismo dogmatico, e che ben si confà alla scritta sorboniana, inequivocabile nel suo antiraziona-lismo: ”merde à Descartes!”. La Carta del Car-naro si pone su una posizione per certi aspetti ‘pre-moderna’, in quanto recupera temi della fi-losofia politica antecedenti la Rivoluzione fran-cese, al contempo essa è ‘post-moderna’, stante il suo orientamento al superamento dei valori consolidati della modernità: trattasi addirittura, come suggerisce Anton Marino Revedin, di anti-modernità, cioè di rifiuto del giacobinismo (ove i concetti di eguaglianza e libertà omologavano il cittadino), e di manifestazione di temi e valori che la modernità aveva sempre declinato. Dunque, la Carta del Carnaro nata in questo particolare cli-ma post-bellico, così utopistica e contradditoria, tale da far crescere sentimenti contrastanti e da porsi come sorgente viva di un dibattito sempre attuale anche nel XXI secolo, risente largamen-te del panorama bellico e segnatamente delle posizioni degli ‘spostati’ che si erano radunati attorno a D’Annunzio, da non confondersi con quelle dei tradizionali ambienti nazionalisti: il ‘Comandante’, invero, aveva audacemente colto con grande intuito le tendenze di quel nazionali-smo ‘colorato’ di aspirazioni sociali che era un prodotto della guerra.La fine del primo conflitto mondiale assegna il colpo di grazia agli imperi multinazionali, favo-rendo la costituzione di nuove strutture statua-li nell’Europa centrale, balcanica e orientale. I nuovi Stati, sorti sulle macerie della disgrega-zione dei precedenti imperi, devono affrontare il problema della costruzione dell’identità nazio-nale e delle istituzioni statuali, coincidente con il processo di democratizzazione che mette in crisi i meccanismi della rappresentanza politica tradizionali degli ordinamenti liberali e borghesi dell’Ottocento, mostrandone l’insufficienza. Non si può effettuare un’analisi della Carta del Carnaro, ricca di contradditorie pulsioni verso i diritti sociali da una parte, e la personalizzazione del potere dell’altro, se non si tiene conto che essa può considerarsi il frutto di un movimen-to di trasformazione impetuoso e contradditto-rio, comprensibile solo attraverso la situazione di faglia del periodo e dell’area in cui si esplica.Poeti e scrittori italiani ed europei dipingono il periodo post-bellico attraverso opere che comu-nicano “un senso di smarrimento di fronte alle possibilità del progresso e al futuro del genere umano”: mancava quasi ovunque la speranza, la fiducia, e l’ottimismo del decennio precedente. Fiume, tuttavia, si presentava quale ‘isola feli-ce’.La Reggenza era dotata di una Costituzione caratterizzata da arditezza, novità, concretezza e armonia, idonea ad offrirsi, nel clima di crisi dei valori morali e politici del nostro primo dopo-guerra, come punto di richiamo e di raccolta per le forze nuove scaturite dal conflitto mondiale, dimostrandosi capace di sottrarle alle lusinghe delle opposte soluzioni di carattere democratico-borghese e bolscevico. Lo Statuto della Reggenza del Carnaro merita di essere adeguatamente analizzato nell’ambito del-

le trasformazioni strutturali che l’ingresso delle masse introducono nelle istituzioni degli Stati liberali, indeboliti dalla guerra e dall’anarchia internazionale; esso assume particolare interesse allorquando lo si ponga in stretto collegamento con il contemporaneo movimento costituzionali-stico post-bellico. Nella Carta del Carnarosi in-dividuano influssi ed elementi caratteristici della Repubblica dei Consigli ungherese, della Re-pubblica Bavarese, della Repubblica di Weimar ed austriaca: essa per essere rettamente giudica-ta dev’essere inquadrata fra le altre Costituzioni “professoriali”, in un momento storico di profon-de trasformazioni degli istituti. Anch’essa acco-glie quelle nuove istanze di libertà e di socialità, che si avvertivano in quegli anni, ma stante il suo stile compositivo assai insolito, si colloca in una posizione eccentrica rispetto alle altre Carte.L’immediato dopoguerra vede come protagoni-sta il movimento operaio: questo appare essere l’unica forza atta a riempire quel ‘vuotopolitico’ creato dalla guerra: le potenze sconfitte avevano visto dissolversi le proprie classi dirigenti, ed an-che l’Italia che aveva vinto la guerra, come ab-biamo già detto, era “sull’orlo del tracollo politi-co, con la sua classe politica liberale fortemente delegittimata”. Tuttavia, il movimento opera-io non riuscì a far valere i propri programmi, ampiamenti condivisi a livello popolare,stante il sanguinoso conflitto tra moderati e radicali all’interno della sinistra europea: a Fiume, inve-ce, trova spazio il disegno di un sindacalista ri-voluzionario che esprime le teorie dei primi anni del Novecento e che, secondo il giudizio di vari autori, tra i quali il socialista Adelchi Baratono, è in grado di uscire dal “chiostro del microcosmo fiumano per assurgere a documento programma-tico della sinistra rivoluzionaria italiana ed euro-pea”. In Germania, invece, l’esperimento demo-cratico weimeriano nasceva già debole in radice, in quanto scaturito proprio da una guerra civile a sinistra: i socialisti maggioritari dopo il patto di alleanza con i ‘poteri reali’ (lo stato maggiore del vecchio esercito, la destra sociale e la grande impresa) e l’opzione a favore di una continuità sociale in luogo di una palingenesi della società, declinavano la piattaforma spartachista fondata sui consigli e sulla democrazia diretta integrale, reprimendo nel sangue con l’ausilio dei Frei-korpsgli operai rivoluzionari. La Repubblica te-desca era moderata, poiché tutelata dall’esercito e dall’industria e altresì delegittimata, in quanto incapace di ottenere la piena adesione delle mas-se popolari e delle élites sociali. L’esperimento tedesco rappresenta adeguatamente la fotocopia di ciò che avvienenel continente europeo: sorgeil secolo delle masse, ed il loro autogoverno. Esso, però, degenera in un secolo degli apparati, delle ferree burocrazie, delle oligarchie, dello statali-smo come forma esclusiva di socialità. Si assiste ad un continuo naufragare di quei ten-tativi volti all’instaurazione di repubbliche consi-liari: così la Repubblica dei soviet ungherese del marzo 1919, formatasi sullo stile della Repubbli-ca bavarese di Eisner, la Repubblica consiliare slovacca ed altresì l’esperienza di autogoverno slovena. Anche in Italia si assiste all’elaborazione della teoria dello ‘stato operaio’, sperimentando forme di effettivo autogoverno di produttori nel corso dell’occupazione delle fabbriche nel 1920. Il fallimento di questi tentativi è da rintraccia-re nello scontro tra le istanze di ‘socializzazio-ne dello Stato’ e la volontà di percorrere la via della parlamentarizzazione del conflitto e della statalizzazione della società nel quadro di mo-delli tradizionali di democrazia rappresentativa, quest’ultime nettamente sostenute dalla maggio-ranza del movimento socialista.La risultante fu la vittoria del primo modello di Stato reazionario di massa: il trionfo del fascismo che dalla crisi ri-

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voluzionaria assumeva la volontà di cambiamen-to del vecchio regime, piegandola a destra. La ‘rivoluzione rossa’ europea termina con un ar-retramento dell’idea di democrazia, trasformata in una sorta di‘oligarchia elettiva’: il fallimento delle Repubbliche consiliari all’est apre la stra-da a regimi militari; mentre in Italia la scissione tra riformisti e radicali del movimento operaio spiana la strada al fascismo.All’interno della sinistra stessa, l’esperimento dei consigli, cui guardavano con attenzione anche D’Annunzio e De Ambris, veniva progressivamente abbando-nato in favore di istanze burocratiche, centrali-stiche e partitocentriche: ne è un evidente dimo-strazione la posizione assunta alla fine del 1920 dalla Terza Internazionale. Essa sottolineava la necessaria separazione del concetto di partito da quello di massa, evidenziando il primato assolu-to del primo sulla classe. Tertium non datur: tra democrazia formale e dittatura appariva sempre più difficile individuare una terza soluzione, così per chi non si identificava con nessuna delle due, incominciava un Novecento di opposizione mi-noritaria.Volgiamo lo sguardo, ora, all’iter costituzionale del periodo post-bellico. Non sarà possibile ef-fettuare in questa sede una disamina articolata delle singole vicende interne di ogni Paese euro-peo; ci si limiterà a fornire una rappresentazione dei tratti salienti della dinamica costituzionale del dopoguerra. Guerre e Costituzioni: come suggeriva Mario Toscano, “tra i fattori che im-primono maggiore velocità alla naturale dinami-ca delle forze interne autrici della Costituzione […], le guerre assumono un posto preminente”. Dunque, non bisogna stupirsi se alla fine del pri-mo conflitto mondiale si assisteva ad un intenso “travaglio costituente”. Trattasi di un fenomeno affatto nuovo, anzi un precedente è individuabi-le nelle ripercussioni verificatesi a seguito delle guerre napoleoniche, e segnatamente utile, sia perché a noi vicino cronologicamente, sia perché fortemente omogeneo “nel suo impulso iniziale democratico”. Tale fenomeno ci offre una serie di procedure costituenti suscettibili di essere ri-condotte ad “unità teorica”. La prima conflagra-zione mondiale alimentava in alcuni paesi euro-pei, e faceva nascere in altri, nuovi movimenti per l’indipendenza nazionale; nella fase insur-rezionale le tematiche sociali non occupavano un ruolo di primordine, esse si ponevano sullo sfondo per poi essere recuperate in un momento successivo, allorquando il trionfo dell’afferma-zione del principio dell’indipendenza si conside-rava raggiunto ed assicurato. In quegli Stati in cui si realizzava il ‘secondo momento’, quello sociale, si assisteva alla formazione di un nuo-vo Stato, e ad un completo capovolgimento del rapporto delle forze interne che assicurava gran-de stabilità all’ordinamento costituzionale, come ad esempio accadeva in Cecoslovacchia. Diver-samente, in Polonia, dopo il trionfo dei principi dell’indipendenza, si registrava il complessivo mantenimento dell’equilibrio delle forze interne, riconfermando la situazione anteriore. Passando alla disamina degli Stati già indipendenti come Russia, Germania, Austria, Ungheria e Spagna, la lotta aveva come perno la questionesociale, e mirava a sovvertire il rapporto preesistente delle forze interne. In alcuni casi il tentativo fu effime-ro e di conseguenza lentamente si assisteva ad un ritorno alla situazione antecedente (Ungheria e Spagna), in altri il tentativo riuscì, con la con-seguente instabilità del nuovo ordine (Germania e Austria). Oltre al tema sociale e alla questione dell’indipendenza si poneva il fattore‘istituziona-le’. Questo veniva in linea di massima deciso in sede insurrezionale (Germania, Cecoslovacchia, Russia, Austria); mentre in Jugoslavia ed in Un-gheria il contrasto si manifestava anche nell’am-

bito dell’Assemblea Costituente, ciò portava ad una conferma della preesistente monarchia. Suc-cessivamente alla fase della ‘lotta insurrezionale’ emergeva, quasi ovunque, lo stadio del ‘regime provvisorio’. Un’Assemblea provvisoria assu-meva la maggior parte dei poteri sovrani dello Stato; alcuni, invece, venivano devoluti ad un or-gano esecutivo temporaneo e si assisteva anche alla redazione di costituzioni provvisorie. Diver-si erano i nomi che assumevano queste Assem-blee; in Germania veniva denominata Congresso generale dei Consigli degli operai e dei soldati; in Cecoslovacchia e Ungheria operava un Con-siglio Nazionale; in Jugoslavia il Consiglio di Stato mutava in pre-parlamento e poi ancora in Rappresentanza Nazionale. A questa tendenza generale degli Stati europei non aderiva l’Irlanda e la Finlandia: in questi Stati non vi era necessità di ricorrere ad Assemblee provvisorie, in quanto il secondo DàilEireann e la Dieta di Helsinki, re-golarmente eletti poco prima, assumevano tout court legittimamente la veste di Costituenti.Le Assemblee provvisorie nascevano generalmente a seguito del rovesciamento dell’antico regime (tranne in Germania e in Jugoslavia ove esso si verificava in un secondo momento) e la loro funzione esauriva definitivamente al riunirsi del-la Costituente. Il governo provvisorio, deputato alla temporanea gestione dell’esecutivo nonché alla predisposizione degli atti necessaria alla convocazione della Costituente, risultava com-posto in prevalenza da una coalizione di tutti i partiti che avevano preso parte alla lotta insur-rezionale. Tuttavia, in Jugoslavia venne espunto qualche partito, mentre in Germania e in Polo-nia si assistette al temporaneo monopolio di un solo partito. Mentre in Jugoslavia la scelta dei componenti restava nelle mani del Capo di Sta-to, in Ungheria, Spagna e Cecoslovacchia veni-va assunta da tutti i partiti, mentre in altri casi spaiati le designazioni provenivano direttamente dalle Assemblee provvisorie. In Cecoslovacchia, il governo provvisorio proclamò l’indipendenza, in Spagna la Repubblica, in Germania formò la costituzione provvisoria, mentre in Cecoslovac-chia disciplinò le attribuzioni della Costituente. Vari governi predisposero un progetto ufficiale di Costituzione (Ungheria, Germania, Polonia e Jugoslavia); altri enuclearono un pre-progetto non ufficiale; mentre tutti assegnarono a vari or-gani interni l’incarico di nominare commissioni di studio. Con le prime riunioni della Costituen-te eletta dal popolo, i governi provvisori termi-navano la propria funzione. Più precisamente il loro compito continuava fino all’approvazione della definitiva Costituzione, sotto la sorveglian-za delle Costituenti che esercitavano su di loro un controllo politico.La redazione di Costituzioni provvisorie (in Ce-coslovacchia ne vennero stilate molteplici, in Polonia e in Albania nessuna) scaturiva dalla ne-cessità di definire ab imis alcune regole tali da im-pedire arbitrii da parte dell’esecutivo, regolando, inoltre, l’attività delle Assemblee e dei governi provvisori. In Germania alcune regole erano fis-sate dal Governo, altre dall’Assemblea, ed altre ancora dal Governo in base ai principi generali approvati precedentemente dall’Assemblea. Per quanto concerne il contenuto delle varie Costi-tuzioni provvisorie, alcune di esse si limitavano alla proclamazione di un programma politico ed alla guarentigia delle libertà individuali (Spa-gna); altre si concentravano sul funzionamento dei poteri dello Stato, rinviando tout court alla vecchia legislazione in relazione alla tutela dei diritti dei cittadini (Austria). La loro efficacia ve-niva travolta dall’entrata in vigore del nuovo or-dinamento approvato dalla Costituente. Un’altra pratica comune era quella di sostituire la Costitu-zione provvisoria del periodo pre-costituente con

un'altra Costituzione provvisoria creata dall’As-semblea Costituente: ciò era dettato dall’esigen-za formale di ribadire in un nuovo atto un pas-saggio di poteri sovrani che non era avvenuto.Le Costituenti, elette a suffragio universale, diretto e segreto, adottarono il sistema della proporzio-nale, accordarono nella maggioranza dei casi il voto alle donne, abbassarono i limiti di età per l’elettorato attivo, limitando l’esclusione dal voto ai soli incapaci ed indegni per reati comuni. Come già precisato supra, le Assembleevenivano elette dal popolo, ciò può considerarsi il sintomo della preoccupazione comune di rispettare la so-vranità popolare. Ma nonostante le varie cautele democratiche adottate, nonostante le Costituen-ti post-belliche furono quasi ovunque rispettose dei più moderni precetti della democrazia, il ri-sultato finale, cioè il nuovo ordinamento costi-tuzionale europeo, non fu completamente sod-disfacente e si palesava generalmente instabile. La conseguenza di questa precarietà si sostanziò nella fioritura di vari esperimenti vieppiù antide-mocratici: ciò in quanto le varie Costituenti era-no legate in primis agli eventi bellici, ed inoltre al trionfo delle potenze dell’Intesa, “vessillifere della democrazia”. Il vulnus delle Carte costitu-zionali post-belliche è da individuare nella loro mancanza di ogni originalità relativa al proprio panorama nazionale: quasi ovunque, si mutuò la falsariga adottata dagli altri Stati, tenendo in non cale le specifiche esigenze e condizioni locali. La crisi delle democrazie europee dopo il bre-ve trionfo dei primi anni post-bellici è adeguata-mente rappresentata dal caso Cecoslovacchia: la Costituzione del 1921 era irrispettosa di principi democratici, ma contemporaneamente dava vita sostanzialmente ad una pregevole Costituzione democratica. La nuova dottrina democratica non ebbe il tempo di penetrare in profondità: dunque, ciò impedì la formazione di una classe dirigente idonea e preparata ad affrontare i problemi sca-turiti dalla conflagrazione mondiale; e in molti Stati, complice il dinamico‘vortice’ degli eventi, non si riuscì nemmeno a discutere adeguatamen-te di certe importanti problematiche. Utilizzando una metafora si può affermare che la celerità del-la dinamica delle forze interne dei Paesi europei fece sì che “la fotografia giuridica riprodusse un equilibrio instabile”;Toscano asseriva, infatti, che la risultante fu una fotografia “mossa”, in luogo di un’auspicabile e necessaria “posa”.Nel proseguo si analizzerà la Costituzione di Fiume, attraverso una doverosa ed imprescindi-bile ‘introduzione’ al peculiare habitat fiumano. La città di Fiume era da sempre dotata di una legislazione ad hoc a tutela delle specificità lo-cali, così da garantire un adeguato spazio all’au-tonomismo fiumano. Il percorso proseguirà, transitando per il movimento sindacalista rivo-luzionario, dal quale sgorgheranno i concetti-cardine del fiumanesimo ma anche del fascismo. Si entrerà, poi, nel vivo della Carta del Carnaro, analizzando il contenuto giuridico testo redatto da De Ambris e D’Annunzio, mostrando i nessi che tale documento presenta rispetto alle coeve Carte costituzionali, con particolare attenzione alla Costituzione di Weimar. Infine, si stilerà un bilancio del progetto costituzionale fiumano, ri-masto sì in vitro, ma dotato tutt’ora, come diceva novant’anni fa De Ambris di una grande “auda-cia novatrice”.

Alessandro Agri

Questa è l’introduzione di un pregevole e accu-rato studio sulla spedizione dannunziana a Fiu-me, che non fu solo espressione di un certo na-zionalismo, ma anche catalizzatrice di speranze rivoluzionarie. L’intero lavoro sarà pubblicato sul sito de L’Internazionale, sezione Pubblica-zioni Sociali.

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I N T E R V I S TA A D U N C O M PA G N O G R E C Ointernazionale

La situazione greca viene da noi percepita come gravissima e quasi senza via d’uscita. Evidentemente non può essere arrivata a questo punto da un momento all’altro e non si può trattare solo dei risultati di operazioni speculative internazionali o della persecuzio-ne degli organismi monetari e finanziari eu-ropei. Ci sono le cause strutturali alla base di tutte le crisi che ciclicamente colpiscono le economie capitaliste e che – in questa fase – producono effetti disastrosi su quelle più de-boli. Effetti che in Grecia, come in Italia, sono devastanti per i lavoratori e per i ceti sociali più svantaggiati.

Concordi con questa interpretazione?

Il debito pubblico greco subisce un aumento (del 100%!) durante gli anni ’80, nel periodo dei pri-mi governi del partito socialista (dal 81-89) nel tentativo di recuperare le lotte operaie esplose dopo la caduta della dittatura militare (1974) ma anche di mettere sotto il suo controllo vari movi-menti sociali (movimento giovanile, femminista, della controcultura) che hanno fatto la loro ap-parizione durante lo stesso periodo con aumenti salariali (soprattutto nel pubblico impiego) e la costruzione di uno stato sociale che per lo più proteggeva tutti quelli che avevano un impiego stabile (posti full-time). Inoltre c’è stato un no-tevole “rilassamento” delle gerarchie sia nei po-sti di lavoro ma anche delle “gerarchie sociali” (per esempio, il voto di promozione “politico” e l’abolizione della cattedra nelle università). Gli aumenti salariali al di sopra dell’aumento della produttività hanno provocato un calo della com-petitività greca e hanno portato alle politiche di austerity dai governi sia della Nuova Democra-zia sia del PASOK durante gli anni novanta in un tentativo di ridurre le spese sociali e di conte-nere il debito pubblico. Nonostante i loro sinceri tentativi nessuno dei due grandi partiti ha potuto combattere il “mostro” del debito pubblico sia perché i partiti stessi “coltivavano” aspettative sociali che poi dovevano in un modo o l’altro soddisfare (di solito tramite assunzioni al setto-re pubblico o aumenti salariali) sia perché non volevano scontrarsi con la loro clientela politi-ca. Un caso esemplare è la fallita riforma delle pensioni nel 2000, che, in vista dell’entrata della Grecia nell’euro, prevedeva misure analoghe a quelle approvate dopo l’approvazione del pri-mo memorandum, che il governo del PASOK ha dovuto abortire dopo uno dei più massicci scioperi degli ultimi trenta anni. Dopo l’entra-ta nella Eurozona, la competitività del paese è diminuita ulteriormente, siccome non aveva la possibilità di svalutare la sua moneta, mentre l’aumento del PIL dovuto alle opere pubbliche per le Olimpiadi e le opere finanziate dall’UE si è esaurito il 2004; nello stesso periodo si pro-muove la “finanziarizzazione” dell’economia tramite l’espansione del credito bancario. A que-sto fragile e fittizio sviluppo metterà fine la crisi finanziaria del 2008.

Che risposte sta dando la popolazione gre-ca? Quanti scioperi generali e che livello di mobilitazione c’è stato e c’è? Ci sono segni di stanchezza?

Negli ultimi due anni si calcola in Grecia ci sono stati 24 giorni di sciopero generale, 105

manifestazioni, 13 blocchi del lavoro, e per la prima volta dopo 19 anni, il giugno del 2011, è stato proclamato uno sciopero generale di 48 ore. Inoltre per 67 volte dalla metà del maggio scorso fino alla fine del luglio, migliaia di perso-ne si ritrovavano ogni giorno nella centralissima Piazza Sintagma ad Atene e ad altre piazze del paese per protestare contro le misure proposte e approvate dal governo Greco. Qui si dovrebbe aggiungere altre mobilitazioni, come quella in corso all’acciaieria “Chaliburgia Ellados”, con-tro licenziamenti, tagli ai salari, delocalizzazio-ni o chiusure di imprese. La manifestazione del 5 maggio 2010, giorno in cui veniva approvato il primo Memorandum, i due giorni di sciopero generale il 27 e il 28 giugno 2011 e la manife-stazione del 12 febbraio 2012, sono state tra le più grandi manifestazioni pubbliche realizzate dopo il ripristino della democrazia parlamentare in Grecia (1974), con la partecipazione di cen-tinaia di migliaia di persone che hanno sfidato la polizia e l’uso di violenza da parte di que-sta, restando in piazza nonostante i lacrimogeni lanciati e i raid della polizia antisommossa. Il peggioramento di tutti gli aspetti della vita della maggioranza della popolazione, risultato di un anno e mezzo di politiche di austerità, ha avuto conseguenze anche sulle mobilitazioni. La par-tecipazione agli scioperi di febbraio era palese-mente ridotta, presumibilmente perché i pesanti tagli ai salari resero insostenibile l’ulteriore per-dita di reddito, mentre la manifestazione del 12 febbraio, svoltasi in un giorno festivo e soprat-tutto il giorno in cui sarebbe votato il secondo Memorandum, è stata molto partecipata.Di sicuro ci sono segni di stanchezza dovuti al cambiamento rapido delle condizioni di vita, però questo non significa la fine delle manife-stazioni di piazza. Inoltre queste manifestazioni diventano anche un modo per manifestare il pro-prio dissenso quando non ci sono gli spazi per farlo nel proprio luogo di lavoro (se hanno un posto di lavoro).Nello stesso tempo, c’è anche un tentativo di autorganizzazione per bloccare il pagamento dei pedaggi nelle autostrade o la nuova imposta sugli immobili incorporata nelle bollette della corrente elettrica (una alta percentuale della po-polazione possiede una casa in proprio). La crisi di governo e la nomina di un esecu-tivo tecnico – come in Italia – ha cambiato qualcosa?

L’esecutivo di Papadimos è stato formato per perseguire la politica gia avviata dal precedente governo del PASOK (partito socialista); il go-

verno non può essere chiamato “tecnico”, in effetti si tratta di un governo di coalizione for-mato dalle forze che formavano il “blocco del memorandum” cioè il PASOK, la Nuova De-mocrazia (centro-destra) e LAOS (destra popu-lista; LAOS ha abbandaanato il governo prima dall’approvazione del secondo Memorandum il 12 febbraio) per far approvare il PSI (l’haircut del debito greco e la sostituzione delle obbliga-zioni greche con nuove di durata di trenta anni e con un tasso d’interesse variabile); inoltre deve approvare le nuove misure chieste dalla trojka per “sborsare” il nuovo prestito: tagli ai sala-ri (20% del salario minimo, stabilito ai 586,08 euro lordi) e alle pensioni; istituzione di un sa-lario per i giovani fino ai 25 anni inferiore del 12% rispetto al salario minimo, pari a 510,95 euro lordi; cambiamento del lavoro del diritto per “favorire” gli investimenti e cambiamenti strutturali dell’economia greca (“liberalizzazio-ni”). In questo senso c’è -una perfetta continuità tra i due governi. Il problema per il “direttorio” europeo era che il governo del PASOK era trop-po logorato nell’interno e screditato all’estero per i suoi tempi considerati troppo lenti. Inoltre volevano coinvolgere nell’attuazione delle “ri-formi” anche Nuova Democrazia per garantire una continuità in caso di cambiamento di gover-no.

C’è una crisi della politica tradizionale o c’è solo un chiamarsi fuori tattico dei partiti?

La crisi del sistema politico c’è veramente e si vede sia nei sondaggi (in quanto possono essere considerati credibili) e anche nelle manifestazio-ni in piazza Sintagma l’estate scorsa. Questo è il motivo per cui si è tirato fuori il partito di LAOS che ha abbandonato il governo e si è astenuto dalla votazione per il nuovo accordo. In questo momento la seconda forza parlamentare è co-stituita dai deputati indipendenti che sono stati “epurati” dal PASOK e la Nuova Democrazia per non aver votato i memorandum 1 e 2 e mol-ti provvedono una frammentazione del sistema dei partiti nelle prossime elezioni.

Quali sono state le conseguenze più devastan-ti sui lavoratori greci?

I tagli ai salari che hanno comportato una dra-stica riduzione del loro potere d’acquisto; l’au-mento dell’età pensionabile; l’imposizione di nuove tasse imposte, soprattutto per i salariati e i piccoli proprietari e le partite IVA; I tagli al welfare (ospedali, assicurazione medica, scuola, università); e soprattutto l’aumento della disoc-cupazione dal 10% al 20,9% nel giro di meno di due anni!

Quale è l’atteggiamento dei sindacati e delle forze di sinistra istituzionali?

Il partito comunista greco (KKE) e il suo braccio sindacale (PAME) propongono la costruzione di un potere popolare per uscire dalla Eurozona e la UE e una specie di sviluppo autonomo, basato sullo sviluppo delle forze di produzione che pos-siede il paese; SYRIZA (una coalizione di forze di sinistra) propone una moratoria al pagamento del debito; la riorganizzazione dell’assetto pro-duttivo greco che potrà garantire lo sviluppo e il pagamento del debito; e la cancellazione del de-

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L’Internazionale - n.3 - 20 Marzo 2012

bito “cattivo” (non conosco la parola giusta per descrivere la parte del debito considerato ille-gale). Altri gruppi di sinistra, come per esempio ANTARSYA, chiedono la cancellazione unila-terale del debito da parte della Grecia e una serie di misure, come nazionalizzazioni, per promuo-vere lo sviluppo autonomo del paese.

Quale è il radicamento delle avanguardie ri-voluzionarie e di classe?

La Grecia non ha lunga tradizione di lotte au-tonome di classe e il modo in cui è strutturato il sindacato non favorisce, in verità esclude, la possibilità di formazioni di confederazioni sin-dacali al di fuori di quelli ufficiali. Comunque negli ultimi anni sono sorte molte realtà di base su iniziativa del movimento antiautoritario/anar-chico e di gruppi della sinistra extraparlamenta-re, come i sindacati nel settore della ristorazio-ne, dei corrieri (pony express), dell’editoria, dei mass media, dello spettacolo etc. Inoltre persone che provengono dalle stesse aree politiche sono molte attive nelle varie assemblee di quartiere create dopo la rivolta di Dicembre 2008 e rivi-talizzate dopo il movimento delle piazze l’estate scorsa. Nonostante ciò non si potrebbe dire che le idee rivoluzionarie sono dominanti nel mo-vimento, perché il nazionalismo soprattutto di sinistra resta egemone.

Per finire, abbiamo sentito dell’esperienza di autogestione all’ospedale Kilkis. Prosegue? Ci sono altri casi del genere?

Fino a questo memento l’esperienza dell’ospe-dale di Kilkis rimane unica (questa esperienza è terminata alla fine di febbraio). C’è stato un timi-do tentativo di “autogestione” durante lo sciope-ro (che continua) nella rete televisiva “ALTER” (rischia la chiusura e i dipendenti sono stati senza stipendi per mesi) che per un periodo (prima dal blocco della frequenza da parte del proprietario) ha trasmesso una specie di “programma alter-nativo” presentando le richieste dei lavoratori e presentendo lotte o interviste di lavoratori che si trovano in condizioni simili a quelle dei lavo-ratori di “ALTER”; inoltre i redattori del gior-nale “Eleftherotipia” (che per anni è stato il più importante giornale de centro’sinistra), anche loro senza stipendio per sei mesi, in rischio di li-cenziamenti di massa e in sciopero da dicembre scorso, hanno pubblicato un foglio “alternativo” e stanno di pubblicare un secondo, ma è difficile dire che la loro è una situazione di autogestione. A Salonicco (seconda città della Grecia) c’era un ristorante autogestito ma non sono sicuro se funziona.

Intervista ad Achille K. – Febbraio 2012

Ritratto in piedi di Gianna Manzini

Questo libro, vincitore del premio Campiello nel '71, è in pratica l’ultima opera di Gianna Man-zini, scrittrice italiana “scoperta” da Eugenio Montale. Il romanzo, dedicato alla memoria del padre, riconduce il lettore ai conflitti sociali del primo Novecento in Toscana. L'autrice delinea con precisione la figura di un uomo di doti ecce-zionali, che ha speso la sua esistenza per un'idea di alta moralità a cui è sempre rimasto fedele con eroica coerenza: l'anarchia. “Ritratto in pie-di” ridiede fiato a quella produzione romanzesca che nel corso degli anni immediatamente prece-denti era stata contrastata dal boom della pro-duzione saggistica; va accostato a quelle opere che, come “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini e “La storia” di Elsa Morante, dimostrano fra le tante cose di saper coinvolgere quelle fasce di lettori giovani provenienti dall'esperienza sessantottesca che dopo aver respinto in blocco la letteratura le si riavvicinano acquistando un ruolo sempre più decisivo nella definizione dei successi letterari in Italia.

Potrete leggere passaggi come questi:

• Finché esisterà un solo mendicante (…) nessu-no avrà il diritto d'essere felice.• Quanta gente pensa soltanto a comprare, e a tenere per sé. Una vera maledizione gli acqui-sti: empiono la testa di prezzi, di numeri. Se son tutte qui le loro ambizioni bisogna dire che si contentano di poco.• La proprietà impedisce di saper morire. A fu-ria di comprare, e di capitalizzare, s'illudono di sviare la morte, o d'ingannarla.• Pochi? Che conta? Appartengono alla storia; hanno questa fatale importanza. A dispetto di quelli che osano trovare il nostro mondo senza ragione, trottola che si gira su se stessa, loro, gli anarchici, tracciano una linea decisa. Anni, secoli avanzano; e, nel presente, è già l'incan-descente domani che palpita.• Impedire che la fatica, il lavoro, si trasformi in oro per padroni che affamano chi lo ha pro-dotto.•Col dovere ti dispensano dal pensare. Giù la testa, più bassa, pronta per il piede sul collo. E così ti assuefanno da vivo alla tomba. Anzi, sei già steso e non lo sai.• Una solitudine così confermata, solitudine anche nelle proprie scelte, e preferenze, anche nelle piccole manie o ambizioni, o pensieri, o abitudini, non sempre dà fierezza: può anche stringere il cuore, bambina mia.• Alzai anch'io gli occhi al Crocifisso. Mi con-sultai con quel bel viso, reclinato sulla spalla. E dubitai: o non saranno troppe tutte quelle pia-ghe? Dai spettacolo, gli dissi: certo, non è colpa tua. Al babbo non piace che ti concino in questo modo. Ti travisano. Che bisogno c'era di ridurti così per farti adorare. E che sperano? Che vo-gliamo somigliarti, perché sanguini? Il babbo vede il tuo insegnamento in tutt'altra maniera. Dice che tu hai additato una salvezza qui, fra gli uomini.• E poi i cosiddetti “beni”, che peso, che disa-gio; peggio che un debito. La terra come il cielo deve essere di tutti: è già troppa quella che uno occupa con la cassa da morto. Perfino l'aver po-tuto studiare può sapere di privilegio e offende-re chi è costretto a firmare con una croce.• L'istruzione stessa, oggi, è un privilegio; crea

LIBERI di LEGGEREl'amara solitudine del privilegiato e qualche volta la spregevole compagnia dei privilegiati.• Malatesta aveva detto: “Se per far trionfare l'anarchia occorresse applicare la forca, rinun-cerei alla rivoluzione”.• La vanità mangia l'anima.• La mia patria è il mondo.• L'eredità ribadisce il capitale come un chiodo; è una forza del capitale. E dunque, niente.• “Se qualcosa bisogna distruggere è soltanto tutto ciò che genera l'odio”. Proprio non capi-sco perché parlare così debba essere un rischio; e che il contadino al quale vanno ripetendo che la terra deve appartenere a chi lavora, invece di rallegrarsene abbia tanta paura.• Se voi amate solo coloro che vi amano che me-rito avete?• Gli anarchici. Anche a dirlo fa effetto.• Nella sua calma traspariva la vittoria del vin-to.• L'eredità favorisce l'inerzia. Addormenta.• Non basta averlo un'ideale; bisogna esser-ne degni: capaci cioè di sacrificargli qualsiasi cosa, a cominciare da se stessi.• (…) chiudere gli occhi è una virtù; ignorare è una virtù. Squallida, però.• Si dimentica ciò che si vuole dimenticare. Ciò che ci disonora. È risaputo. La memoria, a vol-te, è caritatevole.• (…) un angelo brutto non è plausibile. Bellez-za e bontà: così vuole l'uso balordo e stantio.

Volete sapere qualcosa di più del papà? Giusep-pe Manzini, nato da famiglia ricca, seminarista e poi fuggiasco, diventa giovanissimo anarchico e riversa il suo sapere e i suoi averi nella dif-fusione delle idee libertarie. Organizzerà uno sciopero diretto contro la ditta del cognato e sua (infatti è socio), ma lascerà la sua posizione e la sua eredità dopo le critiche feroci della famiglia e dopo che lo sciopero ha vinto, abbandonando totalmente e definitivamente quel mondo bor-ghese a lui troppo stretto; ne verrà anche abban-donato e vedrà il suo matrimonio finire. Rinun-cia alla proprietà e, quando morirà (nel ’25), la sua completa povertà farà dire ad uno dei suoi amici che il funerale "è stato un funerale di una povertà e di una purezza e di un silenzio vera-mente strazianti". In pratica non c’era nemmeno il falegname per chiudere la cassa: era scappato per paura di compromettersi coi fascisti.

Marco Sommariva

Il resto di niente...(segue dalla prima)DNA i principi del sindacalismo rivoluzionario e di azione diretta di inizi del ‘900.L’Unione Sindacale Italiana, a cento anni dalla sua fondazione, può e deve essere questo sog-getto; ha tutte le carte in regola, a patto che ri-nunci a conformismi e a pratiche che non appar-tengono ai suoi principi.Noi, come sindacato USI Arti e Mestieri, fare-mo tutto il possibile perché ciò avvenga.Il resto di niente non ci interessa.

Guido Barroero