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Nicoletta Sturloni fotografie di Massimo Trenti Niente di speciale

Niente di speciale

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Le otto storie che si trovano in questa piccola raccolta non sono vere, per meglio dire, non corrispondono esattamente a situazioni reali. I personaggi sono inventati, anche se non del tutto, i loro nomi sono di fantasia ed anche le ricostruzioni dei fatti lo sono. Ma, senza dubbio, non avremmo avuto il desiderio di raccontare se non avessimo incontrato vicende non banali, ognuna nel suo faticoso svolgimento. Lo spazio dei nostri incontri è quello che abbiamo chiamato il Team operativo dello IESA. IESA è naturalmente un acronimo che parte da: Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti con disagio psichico.

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Nicoletta Sturlonifotografie di Massimo Trenti

Nientedi specialeOtto Storie brevi di altra Famiglia

“Rosa Bianca” è un’associazione di volontariato nata nel 2007 con l’obiettivo di contribuire alla divulgazione di una differente visione della disabilità psichica, pensata più come risorsa per la comunità, che come problema. Rosa Bianca ha proposto di introdurre a Modena lo IESA, (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti con disagio psichico), che si realizza con l’accoglienza della persona con diffi coltà in una famiglia diversa da quella “naturale” per condividerne la vita, gli affetti, le consuetudini e le relazioni. La convivenza si svolge nella continuità del supporto delle istituzioni di cura.La particolare convinzione che sta alla base dello IESA è che il disagio psichico deve essere diluito nel fl usso delle relazioni di una famiglia, anche se diversa da quella biologica. Un’occasione di cura e di riabilitazione non solo per la persona disabile, ma anche per il suo contesto.L’inserimento eterofamiliare si basa, da un lato, sulla collaborazione di Rosa Bianca con il Dipartimento di Salute Mentale e con i Servizi Sociali del Comune, dall’altro sul dialogo con le famiglie del territorio. Rosa Bianca fa conoscere il progetto alle famiglie, partecipa alla realizzazione degli inserimenti, produce e pubblica materiale divulgativo, organizza eventi per la diffusione dello IESA presso la cittadinanza.Ha partecipato attivamente a “Mat”, settimana sulla salute mentale a Modena, con l’allestimento delle mostre di Art Brut “I colori del Silenzio” nel 2011 e “Segni ribelli” nel 2012. Sono stati realizzati i fi lmati “L’ospite di zucchero” e “I sospiri di sollievo”. Dal 2009 organizza ogni anno la rassegna cinematografi ca “Follia e dintorni”, pensata in particolare per un pubblico di giovani.

Niente di speciale è la semplice risposta che una famiglia ha dato alla domanda dello psichiatra su cosa stesse facendo per la sua amica, ospite con “disagio psichico”, per ottenere tanti miglioramenti. Veramente niente di speciale…stiamo insieme, guardiamo la televisione…a volte, al mercoledì pomeriggio, ci vestiamo bene e andiamo a ballare…In questo libro si è cercato di raccontare questo “niente di speciale”, che cura profondamente e riabilita vite diffi cili, segnate da un misterioso e sofferente punto di vista sul mondo.Sono otto brevi storie non vere, ma somiglianti a quelle incontrate nella realizzazione di un progetto di cura che si chiama IESA (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti con disagio psichico) al quale partecipano, a Modena, l’associazione di volontariato Rosa Bianca, il Dipartimento di Salute Mentale ed i Servizi Sociali.I protagonisti delle storie hanno altri nomi, altri volti, si muovono diversamente, da quelli che si sono presentati, ma le loro vicende hanno la stessa realtà, quella del malessere di una persona che incontra una famiglia che l’accoglie ed insieme iniziano un altro percorso di vita, non banale.Vengono riportate trame semplifi cate delle narrazioni ascoltate, ma ciò che le rende speciali è che le parole sono accostate a fotografi e, che non sono cronaca, né illustrazione, ma che amplifi cano i signifi cati ed evocano mondi dove ognuno che legge e guarda può trovare una propria intima corrispondenza. Il senso dell’operazione è, in fondo, quello di rimediare con le immagini all’impossibilità di riportare ciò che non ha parole suffi cienti per essere detto.

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Nicoletta Sturloni è presidente dell’Associazione Rosa Bianca, medico pediatra e neuropsichiatra infantile, è stata ricercatrice e professore associato dell’Università di Modena.

Massimo Trenti è fotografo. Si inserisce tra gli Autori del suo tempo dedicandosi a progetti editoriali e realizzazioni nell’ambito del racconto per immagini.

www.rosabiancaonlus.org - [email protected] - 3405781516

Nicoletta Sturlonifotografie di Massimo Trenti

Nientedi specialeOtto Storie brevi di altra Famiglia

“Rosa Bianca” è un’associazione di volontariato nata nel 2007 con l’obiettivo di contribuire alla divulgazione di una differente visione della disabilità psichica, pensata più come risorsa per la comunità, che come problema. Rosa Bianca ha proposto di introdurre a Modena lo IESA, (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti con disagio psichico), che si realizza con l’accoglienza della persona con diffi coltà in una famiglia diversa da quella “naturale” per condividerne la vita, gli affetti, le consuetudini e le relazioni. La convivenza si svolge nella continuità del supporto delle istituzioni di cura.La particolare convinzione che sta alla base dello IESA è che il disagio psichico deve essere diluito nel fl usso delle relazioni di una famiglia, anche se diversa da quella biologica. Un’occasione di cura e di riabilitazione non solo per la persona disabile, ma anche per il suo contesto.L’inserimento eterofamiliare si basa, da un lato, sulla collaborazione di Rosa Bianca con il Dipartimento di Salute Mentale e con i Servizi Sociali del Comune, dall’altro sul dialogo con le famiglie del territorio. Rosa Bianca fa conoscere il progetto alle famiglie, partecipa alla realizzazione degli inserimenti, produce e pubblica materiale divulgativo, organizza eventi per la diffusione dello IESA presso la cittadinanza.Ha partecipato attivamente a “Mat”, settimana sulla salute mentale a Modena, con l’allestimento delle mostre di Art Brut “I colori del Silenzio” nel 2011 e “Segni ribelli” nel 2012. Sono stati realizzati i fi lmati “L’ospite di zucchero” e “I sospiri di sollievo”. Dal 2009 organizza ogni anno la rassegna cinematografi ca “Follia e dintorni”, pensata in particolare per un pubblico di giovani.

Niente di speciale è la semplice risposta che una famiglia ha dato alla domanda dello psichiatra su cosa stesse facendo per la sua amica, ospite con “disagio psichico”, per ottenere tanti miglioramenti. Veramente niente di speciale…stiamo insieme, guardiamo la televisione…a volte, al mercoledì pomeriggio, ci vestiamo bene e andiamo a ballare…In questo libro si è cercato di raccontare questo “niente di speciale”, che cura profondamente e riabilita vite diffi cili, segnate da un misterioso e sofferente punto di vista sul mondo.Sono otto brevi storie non vere, ma somiglianti a quelle incontrate nella realizzazione di un progetto di cura che si chiama IESA (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti con disagio psichico) al quale partecipano, a Modena, l’associazione di volontariato Rosa Bianca, il Dipartimento di Salute Mentale ed i Servizi Sociali.I protagonisti delle storie hanno altri nomi, altri volti, si muovono diversamente, da quelli che si sono presentati, ma le loro vicende hanno la stessa realtà, quella del malessere di una persona che incontra una famiglia che l’accoglie ed insieme iniziano un altro percorso di vita, non banale.Vengono riportate trame semplifi cate delle narrazioni ascoltate, ma ciò che le rende speciali è che le parole sono accostate a fotografi e, che non sono cronaca, né illustrazione, ma che amplifi cano i signifi cati ed evocano mondi dove ognuno che legge e guarda può trovare una propria intima corrispondenza. Il senso dell’operazione è, in fondo, quello di rimediare con le immagini all’impossibilità di riportare ciò che non ha parole suffi cienti per essere detto.

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Nicoletta Sturloni è presidente dell’Associazione Rosa Bianca, medico pediatra e neuropsichiatra infantile, è stata ricercatrice e professore associato dell’Università di Modena.

Massimo Trenti è fotografo. Si inserisce tra gli Autori del suo tempo dedicandosi a progetti editoriali e realizzazioni nell’ambito del racconto per immagini.

www.rosabiancaonlus.org - [email protected] - 3405781516

ASSOCIAZIONE VOLONTARIINSERIMENTO ETEROFAMILIAREPIAZZA NATALE BRUNI, 10/41121 MODENA

NOTE E RINGRAZIAMENTI

I personaggi delle nostre storie si muovono liberamente entrando ed uscendo da situazioni di fantasia nate dalle suggestioni raccolte durante il lavoro IESA. La realizzazione del progetto è stato possibile per la collaborazione di tanti.

Allora, grazie a:

le componenti del Team Operativo:Nadia Marchesini, Cecilia Giuliani, Elisabetta Ascari e Eleonora Bertacchini;le persone con disagio psichico che abbiamo incontrato e alle famiglie ospitanti;

i medici curanti che hanno pensato all’Inserimento per i loro pazienti: Letizia Grossi, Giovanna Mantova, Antonietta Morritti, Francesca Pedrazzi, Paolo Vistoli, Marisa Rossetti,il medico referente per gli inserimenti Ermanno Melati;

gli infermieri che seguono da vicino le convivenze:Vittoriana Di Carlo, Marcello Brighenti, Elena Federzoni, Rosaria Barbieri, Cinzia Gozza, Lorenza Malavolta,Nadia Marchesini, Irene Ragozzino, Sebastiano Pace;

le assistenti sociali che partecipano alla gestione delle risorse e non solo:Sabrina Cumani, Daniela Napoli, Marilena Quarantini, Fabiana Soliani, Stefania Tazzioli, le loro referenti Annalisa Righi, Maria Elena Marini, Robby Calzolari;

il Centro di Servizio per il Volontariato di Modena nelle persone di Francesca Nora, Isabella Morlini, coordinatrici del progetto “I sospiri di Sollievo”, e alla loro direttrice Chiara Rubbiani, al Presidente Angelo Morselli.

Un grazie particolare a:

Fabrizio Starace, direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche di Modena, che ha dato un impulso decisivo alla partenza dell’ IESA e lo segue con attenzione,Francesca Maletti, assessore alle Politiche Sociali, Sanitarie ed Abitative del Comune di Modena, che continua a dimostrarci fiducia ed amicizia, in tanti modi.

Grazie di cuore a:

tutti gli amici dell’Associazione Rosa Bianca che hanno condiviso l’idea di far conoscere qualcosa della nostra esperienza attraverso questo libro.

Grazie a: Irène, Claudio, Sofia, Maria, Marta, Francesca, Wanda e Sonia.

Infine grazie a: Giambattista Voltolini per la paziente supervisione degli scritti.

ASSOCIAZIONE VOLONTARIINSERIMENTO ETEROFAMILIAREPIAZZA NATALE BRUNI, 10/41121 MODENA

Nicoletta Sturlonifotografie di Massimo Trenti

Nientedi specialeOtto Storie brevi di altra Famiglia

Progetto I Sospiri di Sollievo, finanziato da: Bando di Idee. Centro di Servizio per il Volontariato di Modena

I Centri di Servizio ricevono i finanziamenti dalle Fondazioni bancarie.

Nella provincia di Modena sono presenti:Fondazione Cassa Risparmio di Modena,Fondazione Cassa Risparmio di Carpi,Fondazione Cassa Risparmio di Vignola,Fondazione Cassa Risparmio di Mirandola

INDICE

Introduzione pag 7 Il destino dei nomi pag 11

Gli amori degli altri pag 23

Niente di speciale pag 31

Un tuo cenno pag 43

La terra dentro pag 55

L’araba fenice pag 65

Le chiavi di casa pag 73

Nel nome della madre pag 83

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INTRODUZIONE

Le otto storie che si trovano in questa piccola raccolta non sono vere, per meglio dire, non corrispondono esattamente a situazioni reali. I personaggi sono inventati, anche se non del tutto, i loro nomi sono di fantasia ed anche le ricostruzioni dei fatti lo sono. Ma, senza dub-bio, non avremmo avuto il desiderio di raccontare se non avessimo incontrato vicende non ba-nali, ognuna nel suo faticoso svolgimento. Lo spazio dei nostri incontri è quello che abbiamo chiamato il Team operativo dello IESA. IESA è naturalmente un acronimo che parte da: Inse-rimento Eterofamiliare Supportato di Adulti con disagio psichico. La sigla, nella sua concisio-ne estrema, identifica un progetto che comprende dei mondi tanto vasti da farci spesso perdere l’orientamento. Primo fra tutti il mondo del disagio psichico, della malattia mentale come si sarebbe detto una volta, e prima ancora della follia, che contiene buona parte di ciò che non è compreso nei limitati confini che circondano la cosiddetta normalità. Sono appunto le persone che, poco o tanto, sconfinano dai limiti, i veri protagonisti del progetto dell’Inserimento e dei nostri racconti. Ma quelle che si muovono nei racconti non sono le stesse persone che abbia-mo incontrato, anche se possiamo intravvederne la sagoma, dietro le loro controfigure molto semplificate dalla narrazione. Le persone vere infatti sono tutte infinitamente più interessanti, più complesse, meno prevedibili, e facciamo questa affermazione non per una nostra romantica rappresentazione del malessere, del tutto fuori luogo, ma perché siamo convinti di un misterio-so fattore che rende inafferrabile l’essenza, la spiegazione ontologica, del loro punto di vista sul mondo. Dunque la narrazione è soltanto una libera trasformazione di storie, solo intraviste e mai svelate, neppure in modo approssimativo. Un altro mondo racchiuso nella sigla è quello della famiglia, non quella biologica, ma quella che si apre all’ospitalità. Su questo argomen-to sembrerebbe tutto più semplice, un padre, una madre e magari due figli, invece per noi non è esattamente, e soltanto, questo che abbiamo inteso per famiglia. Per noi famiglia è l’atteg-giamento di un’anima, per così dire, di un cuore, per usare una trita metafora, che si apre ad una compassione (cum patior) accogliente e coraggiosa, che vuole spendere una parte del suo patrimonio di affetto, relazioni e capacità di stare nel mondo insieme a chi trova più difficoltà ed ha avuto meno fortuna. Famiglia, per noi, è chiunque voglia impegnarsi nel prendersi cura di un’altra persona e lo faccia realmente. Famiglia, nel nostro caso, è anche un’intelligenza curiosa che vuole capire di che cosa si parla quando si dice malattia, senza quel pregiudizio che la renderebbe ottusa, perché contiene già tutte le spiegazioni e tutte le soluzioni. Famiglia

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è anche una visione ottimista che ha fiducia in un progetto che si svolge al di fuori dei sentieri già battuti. A dire la verità, non sappiamo se questi siano criteri che restringono o aprono delle possibilità, di certo famiglie così ne abbiamo trovate, per la maggior parte donne, bisogna dir-lo, talune anche con una storia di vita difficile.

L’incontro della famiglia, che apre la sua casa all’ospitalità, con la persona con disagio si verifica sempre in un gioco di equilibri delicati che richiede una continua manutenzione ba-sata sul supporto, altra lettera della sigla, dei mondi della cura, dove il modello medico, che viene realizzato dagli operatori del Dipartimento di Salute Mentale, si intreccia con quello dei Servizi Sociali. Un intreccio che è diventato necessità da quando i luoghi, che erano soprattut-to dedicati alla custodia, i manicomi, hanno restituito la persona con disagio psichico a ciò che rimaneva del suo mondo originario. Da quel momento le comunità si sono dovute riorganizzare per accoglierla e le soluzioni semplici, che tendevano alla separazione, sono state abbandonate, con scandalo, allarme e speranza. Anche le persone, senza definire il ruolo giocato nei rispettivi mondi della cura, che hanno fatto propria l’idea di favorire e dare supporto all’inserimento ete-rofamiliare hanno dimostrato di possedere anima ed intelligenza, perché hanno accolto la novità ed accettato il rischio, mettendoci lavoro e risorse, nell’entusiasmo di provare se la cosa potes-se funzionare. Bisogna riconoscere che, all’inizio, ciò che ha veramente funzionato è stata la di-sponibilità dei due mondi ad aprirsi alla proposta della nostra associazione di mettersi insieme e tentare di realizzare una soluzione innovativa, ma che non era nuova, anzi del tutto “naturale”, quella della disabilità inserita e condivisa nella famiglia. Soluzione che era stata spesso dimenti-cata, perché si era andati verso la deriva del confinare in un luogo a parte, come se fosse andata persa la riserva di saper fare, che per secoli era stata della comunità e non degli specialisti.

L’Associazione partecipa alla realizzazione del progetto di inserimento eterofamiliare in tut-te le sue fasi con uno sguardo che cerca di mantenersi attivo sulle possibilità di cambiamento che passano attraverso il movimento del tempo e l’ampliamento degli spazi, il che corrisponde al con-trasto di una delle più temibili conseguenze del disagio psichico, ossia la cronicità. Nella sofferen-za psichica il rischio è che, giorno dopo giorno, tutto rimanga uguale, con il tempo che si è ferma-to perché le cose da fare e gli spazi da percorrere sono sempre gli stessi, scanditi dai rituali della cura. E la malattia diventa un’identità, una specie di maschera rigida che si sostituisce alla per-sona e soprattutto alla sua storia. Le narrazioni si fermano, come incagliate, sempre sugli stessi

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avvenimenti, magari molto lontani nel tempo. Ed allora abbiamo voluto raccontare per dimostra-re che, invece, la narrazione è possibile, ed il narrare ripropone il senso del movimento. In fondo quello che si fa nel team operativo dello IESA è solo dare voce alla sofferenza, perché fino a che la sofferenza ha voce allora è possibile la resistenza al dolore, non soltanto del “malato”, ma anche di chi se ne occupa. Abbiamo raccolto l’eco delle voci, le loro, quelle della famiglia che ospita, le nostre, e ne abbiamo fatto delle parole scritte per potere trasmettere qualcosa di questa nostra esperienza. Si tratta di parole semplici che descrivono storie esili dall’andamento a canovaccio, più che ad intreccio, nella consapevolezza che in poche pagine la complessità di vicende umane, che si rendono disponibili alla speranza di una nuova avventura, ne sarebbe uscita mortificata. Ed inoltre non molto poteva essere detto e non ci interessava nemmeno dirlo. La verosimiglianza non era nei nostri intenti, ma piuttosto lo era l’incertezza.

Incertezza è un termine sbagliato, forse, meglio usare sospensione di un senso definito, che riman-da ad altri significati. Intento che, a nostro parere, poteva essere raggiunto scegliendo nelle storie parole e frasi da accompagnare ad immagini senza una corrispondenza esatta, ma con la possibilità, insieme, di rimandare ad altri luoghi ove ognuno che legge e guarda può trovare una propria intima corrispondenza. Abbiamo un amico fotografo, che ci ha seguito in altri allestimenti, e gli abbiamo spiegato questo vago progetto, chiedendo se fosse possibile mantenere fluido il rapporto tra l’immagine e la parola, in modo che l’una fosse generata dalla suggestione dell’altra e le restituisse un’evocazione di altri mondi. L’immagine non avrebbe dovuto illustrare, ma essere ambigua, ed anche eccentrica rispetto alla citazione, però riman-dando ad essa. Le storie raccontate sarebbero diventate una serie di finestre aperte su panorami ed interni, più luoghi di ricordi e di emozioni personali, che paesaggi reali.

Abbiamo lavorato insieme, discusso il testo e scelto le immagini. Il risultato è questo, in fondo parole da guardare.

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IL DESTINO DEI NOMI

Il pieghevole era stato dimenticato tra le pagine del libro che aveva preso in prestito. Forse erano stati i libri a salvare Vittoria nei momenti più difficili ed anche ora non poteva rinun-

ciare al piacere di avere un libro tra le mani da sfogliare, soprattutto alla sera, quando aveva finito di correre da un appuntamento all’altro, per inseguire il suo lavoro. C’era stato un tempo migliore, quan-do insegnava in una scuola superiore ed aveva creduto di poter vivere con la sua laurea, in letteratura russa. Aveva sperato di potercela fare, ci racconta, fino a quando si era dovuta arrendere all’evidenza che quello che guadagnava non bastava per tirare avanti, tantomeno per pensare al futuro, soprattutto per i tre figli, che erano rimasti con lei dopo il divorzio.

I bambini avevano dodici, nove e quattro anni, quando era stata costretta a lasciarli con la non-na, in Ucraina, e a partire per giocarsi la sua unica possibilità, come tante altre. Quello era stato il momento più duro, non poteva sapere se i bambini l’avrebbero raggiunta, ma non aveva altra scelta.

Nel pomeriggio era riuscita a passare in biblioteca ed alla sera, sfogliando il libro, aveva ritro-vato il pieghevole, che aveva attirato la sua attenzione per il fumetto di una lampadina accesa che annunciava “Una pazza idea”. L’idea era quella di ospitare in famiglia una persona con disagio psi-chico, un matto, se aveva capito bene. C’era anche scritto che le persone interessate avrebbero dovuto avere solo buona volontà, pazienza e una stanza in più per l’ospite. Mentre leggeva la sua perplessità aumentava, quando l’attenzione si era fermata su questa frase: è previsto un contributo economico.

I ragazzi da qualche anno stavano con lei, il grande aveva trovato un lavoro, ma i due picco-li andavano a scuola ed erano troppi i no che era costretta a dire perché le mancavano i soldi. L’idea del volantino non sembrava più così strana, anzi le faceva ricordare che quando era una ragazzina, in paese, andava a casa delle persone anziane per mettere in ordine, fare la spesa, o anche solo per te-nere compagnia, come le aveva insegnato sua nonna. Era normale allora, mentre i suoi figli stavano crescendo in un modo che non le piaceva, senza avere nessuna occasione per imparare ad aiutare gli altri. C’era un numero di telefono, forse avrebbe chiamato.

Le diamo un appuntamento e ci incontriamo. Vittoria è una signora attenta, che vuole capire bene cosa le stiamo proponendo e darci le informazioni giuste. Non nasconde le sue difficoltà econo-miche, ma ci parla anche della nostalgia per il suo paese dove la solidarietà faceva parte della vita. Sta facendo volontariato in ortopedia, dove ci sono persone che non possono muoversi e non hanno nessuno che le assiste, ma questo non le basta. Le chiediamo se i ragazzi sono d’accordo con il proget-to. Ci risponde che i figli sono stati informati di questa iniziativa e la loro opinione è importante, ma aggiunge che cerca di mantenere un po’ di autonomia nelle sue scelte. Tutti i giorni fa meditazione, almeno un’ora, e questo l’aiuta molto.

Esattamente un mese dopo, alle quattro del mattino, il terremoto fa crollare vecchie costruzioni e nuovi capannoni, lesiona abitazioni e cambia il corso dei progetti.

Anche Anna, come tanti altri nella zona di Sorbara, dorme in giardino sotto una tenda, insieme alla madre e non può pensare, in quelle condizioni, di ospitare un’altra persona. Le dispiace molto, ci comunica, perché con Wanda si era trovata bene ed il prossimo fine settimana l’avrebbero passato insieme, ma ora non è più possibile, non sa neppure quando potrà rientrare in casa.

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Wanda ha una malattia che si chiama Solitudine, che è dura e fredda, come una lastra di mar-mo che la tiene separata dal mondo, ci racconta. Avrebbe tante cose da fare per mettere a posto la sua casa che sta cadendo a pezzi: la lavatrice funziona quando le pare, la televisione è da riprogrammare e le pareti avrebbero bisogno di essere imbiancate. Ma non appena entra e si chiude la porta alle spal-le, Wanda sbatte contro il marmo lucido di Solitudine, nel quale si specchiano le sue paure. Quando incontra la paura lei deve scappare nell’unico posto dove il suo problema trova un po’ di sollievo, il centro di salute mentale. E’ obbligata a farlo perché quell’Altra, che le fa paura, si è sistemata nella sua casa, se ne sta lì tranquilla aspettando che rientri. Forse pensa di averne il diritto, perché è stata Wanda, a sceglierla come compagna quando era molto più giovane, ma non le permetteva di coman-dare, come fa ora. Gli altri, ma soprattutto la sorella, le avevano detto che si stava comportando come un’egoista, che non le importava niente delle regole, che il divorzio l’aveva voluto lei. Le rinfaccia-vano anche di essersi licenziata dal lavoro che era sicuro e senza problemi, ma lei non sopportava più di stare davanti al computer per ore e ore. Nanda, la sorella maggiore di Wanda sosteneva che i suoi guai se li era cercati e, da quando aveva incominciato a stare male, se ne stava alla larga. Ci mancava solo lo psichiatra, nella loro famiglia.

Non erano mai andate molto d’accordo, riconosce Wanda, ma una volta almeno riuscivano a parlarsi, quando veniva a pranzo da loro. Lei abitava con il padre, che con la sua malattia non era più uscito di casa.

Era stato il padre che aveva avuto l’idea di dare alle sue bambine dei nomi quasi uguali, perché aveva la passione del cinema e a quei tempi erano in voga non ricorda più quali attrici che si chia-mavano una Wanda e l’altra Nanda. Ed era una cosa imbarazzante chiamarsi più o meno allo stesso modo, perché loro crescendo erano diventate sempre più diverse, e tanto lei era fatta a suo modo e niente le andava mai per il verso giusto, quanto la sorella era giudiziosa, ed ogni cosa era sistemata come si deve, un bravo marito, una figlia, un lavoro, un benessere tranquillo. Doveva riconoscere che anche a Nanda era successa una disgrazia grossa, quando le era morto il marito ancora giovane, ma, anche in quella situazione, la sorella aveva retto bene, mentre lei, Wanda, era stata così male che da allora erano incominciati i suoi ricoveri in psichiatria. Wanda adesso è preoccupata soprattutto per-ché non riesce a liberarsi di Solitudine che da alcuni mesi la costringe a stare in clinica, mentre la sua casa, la stessa che abitava con il padre, è occupata dalla sua amica invisibile. E’ per questo che l’idea di trasferirsi a casa di Anna, a Sorbara, per lasciare campo vinto alla compagna, non la convinceva del tutto, anche se le aveva fatto bene uscire con Anna, si era comprata dei vestiti nuovi ed avevano fatto una scappata a casa, che però le aveva messo addosso una grande tristezza, come sempre, con quelle ante dell’armadio staccate.

Non proprio come sempre, riflette ora, perché non aveva sentito il respiro freddo, ma solo una malinconia piena di affetto e di rimpianto.

Il terremoto cambia sempre qualcosa, a volte le prospettive, se non gli assetti. La casa di Wanda aveva resistito benissimo alle scosse, che avevano fatto saltare la convivenza con Anna, ma ora sem-brava che ci fosse una soluzione del tutto diversa.

“... un mese dopo, alle quattro del mattino, il terremoto fa crollare vecchie costruzioni e nuovi capannoni,lesiona abitazioni e cambia il corso dei progetti”

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Il progetto era stato capovolto, sarebbe stata Vittoria, la signora ucraina, a spostarsi nella casa di Wanda per aiutarla ad aggiustare, tinteggiare, sostituire, cucinare, aprire le finestre e riabitare le stan-ze. Wanda sarebbe tornata in clinica, alla sera, fino a che la casa non fosse stata pronta per accoglierla.

Mentre le due donne lavorano per rimettere a posto la casa, sembra che Solitudine rimanga na-scosta in qualche angolo, perché non sopporta le chiacchiere, i colpi di martello, l’odore della pittura, le finestre aperte e le luci accese. Avrà tutto il tempo per rifarsi viva, quando Wanda ritornerà ad abi-tare lì, però qualcosa sta cambiando.

La vecchia auto è stata eliminata ed è costata più per la rottamazione che per la manutenzione che non si faceva da anni. Nanda, la sorella dal diverso destino e dal nome quasi uguale, si è rifat-ta viva, da quando Wanda sta meglio, e insieme sono andate a comprare una lavatrice nuova, perché quell’altra continuava a rompersi.

Mentre la terra non smette di tremare, la casa resiste ed i lavori vengono terminati.Wanda lascia la clinica, dopo più di sette mesi, all’inizio di un agosto caldo, per tentare di ri-

prendere le abitudini della vita, con cautela, come se fosse convalescente. Al mattino ci sono il profu-mo del caffè e le faccende di casa; nel pomeriggio arriva Vittoria e si preparano una merenda, escono per una passeggiata, fanno la spesa, ma soprattutto parlano, come due amiche. A volte è lei che parla dei suoi problemi, dice Vittoria, come del fatto che credeva di poter contare sul figlio grande, che in-vece deve sposarsi, ha solo ventidue anni. Wanda l’ascolta, la consiglia, insomma si danno una mano.

Verso sera però, quando Vittoria se ne va, c’è un momento vuoto prima della notte, che Wan-da aspetta con timore. Quelle sono le ore più pericolose, perché la Compagna di sempre si rifà viva, meno arrogante, deve riconoscerlo, ma solo perché ha cambiato tattica. La guarda con compassione e le ripete sempre la stessa cosa, che le altre persone non sono sole come lei, hanno qualcuno che le ama, basta guardarsi intorno, anche Vittoria ha i suoi figli, per non parlare della sorella che ha avu-to sempre tutto quello che a lei è mancato. L’amica Solitudine forse ha ragione, è convincente, sente freddo ed allora Wanda telefona a Carla, quella dello IESA, per farsi scuotere dalla malìa che la sta riprendendo. Carla c’è sempre per lei, prima ascolta e poi inizia a strapazzarla nel suo modo ruvido di essere affettuosa, dice di conoscere un sacco di persone sole, che non stanno sempre a lamentarsi, anzi, forse non hanno neppure qualcuno da chiamare al telefono, come fa lei, e adesso basta di dirle che non ha nessuno, che non le sembra di essere proprio nessuno. Wanda non si offende, anzi le dà ragione, le scappa da ridere, quando parla in dialetto, come faceva suo padre, e le dice… àscoulta pa-tachèina vut tur la cùrira e gnir qué ad aiutérum in dal zardén?

A volte invece, sempre in quei momenti che all’improvviso si vuotano, chiama la sua infermie-ra e le racconta come stanno andando le cose, non molto bene, le dice, ma nemmeno così male come prima.

Wanda ha ripreso a dipingere, sta provando con l’acquerello, al centro diurno, dove c’è una ma-estra che le insegna e poi frequenta il gruppo di Antonio, uno che ce l’ha fatta, è guarito dalla malattia ed ora aiuta quelli che ancora sono nella trappola, lui sa quello che stanno passando. L’altro giorno

“Era stato il padre che aveva avuto l’idea di darealle sue bambine dei nomi quasi uguali”

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anche la sua dott.ssa è andata a prendere un caffè a casa sua, insieme all’infermiera, e non la finiva più di farle i complimenti per come aveva sistemato la casa, proprio carina, ha detto, si vede che sei un’artista.

La voce di Solitudine non è scomparsa, ma non è più così convincente come prima, piuttosto è noiosa perché dice sempre le stesse cose.

Nanda, mentre si prepara per uscire, pensa che sembra ieri che il padre le ha lasciate, anche se ormai sono trascorsi quasi cinque anni, non le pareva che fosse passato tanto tempo. Ma chissà cosa gli era venuto in mente di chiamarle così, quasi con lo stesso nome, Nanda e Wanda, e dire che sono sempre state così diverse, per non parlare di quel periodo in cui la sorella faceva delle cose veramente molto strane.

Deve affrettarsi, è in ritardo, ha promesso a Wanda di passare a prenderla, devono andare in centro a fare delle spese, insieme.

“... perchè loro crescendo erano diventate sempre più diverse”

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“L’amica Solitudine forse ha ragione, è convincente, sente freddo”

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“Ma chissà cosa gli era venuto in mente di chiamarle così, quasi con lo stesso nome, Nanda e Wanda, e dire che sono sempre state così diverse”

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GLI AMORI DEGLI ALTRI

Ogni mattina, appena sveglia, Marta si chiedeva come avrebbe fatto ad alzar si, perché il suo corpo non ne voleva sapere, poteva farlo, ma era come se si fosse fermato il motore, diceva

sua madre. Il motore era nella testa, pensava, che però non funzionava sempre come avrebbe dovuto. Per rimediare all’inconveniente della partenza, Marta aveva preso l’abitudine di scrivere una lista delle cose da fare, dopo che la mamma l’avesse tirata giù dal letto. Raramente le capitava di mettere in elen-co qualche impresa straordinaria, come prendere il treno o andare al cinema, nella lista c’erano le soli-te azioni, quelle piccole, che la maggior parte della gente fa e basta, senza perdere tempo a pensare di farle. Lei invece aveva bisogno della lista che scriveva alla sera, prima di addormentarsi, la metteva sul comodino ed al mattino la consultava. Si trattava di un metodo che le aveva insegnato l’infermiera per seguire un programma che ogni giorno avrebbe portato dei piccoli miglioramenti.

E lei, con il cuore, come diceva, voleva assolutamente che la sua vita ritornasse abbastanza nor-male, ma non le era facile mettere d’accordo il cuore, cioè il desiderio, con la testa e con il corpo.

Il desiderio funzionava bene, ne sentiva dentro una grandissima quantità, era sempre stato così, anche quando era molto più giovane e non era ancora successo niente di importante. Allora non le era difficile fare le cose secondo i suoi desideri, che erano molto semplici, quelli di una ragazza esuberante che usciva con gli amici, lavorava da impiegata, si comprava dei vestiti e guidava la macchina. Anche con i fidanzati le cose sarebbero andate bene, nel senso che non aveva difficoltà a trovarne, però non duravano mai a lungo. Rimaneva quasi sempre delusa, perché le sembrava che l’amore ricevuto fosse poco, in cambio di quello che dava, sempre troppo, come le avevano rimproverato.

Anche il suo corpo allora funzionava bene, faceva quello che la testa gli comandava, la portava dove voleva andare; adesso sembra un’auto con la batteria scarica, che parte solo se viene spinta. Mar-ta lo dice sempre che la devono tirare per farle fare le cose. L’altro giorno, per esempio, era in basso e avrebbe dovuto fare tre piani di scale per entrare in casa, invece è rimasta seduta sul primo gradino fino a quando è scesa la mamma che l’ha tirata su, ma proprio di peso. Lo capisce anche lei che la mamma è anziana e ormai non ce la fa più, ma non si tratta di capricci, come qualcuno le rimprovera, devono es-sere i farmaci che separano la testa dal corpo, che ha smesso di obbedire.

Lei crede che la colpa sia proprio dei farmaci, perché quando ha incominciato a stare male, e ave-va poco più di vent’anni, il suo corpo seguiva anche troppo la mente, che si era messa a funzionare in un modo disordinato. I pensieri giravano velocemente e le pareva che non le appartenessero. In un certo sen-so quei pensieri si erano installati e lei doveva subirli, specialmente le voci che le parlavano dei segreti amorosi delle persone, perché tutti hanno dei segreti, che però a lei non interessavano e non voleva sape-re. Avrebbe voluto fare la sua vita come sempre, invece non c’era più spazio per altro, non aveva scampo, soprattutto la sera, quando era in casa, e i pensieri rimbalzavano da una parete all’altra della sua camera. La finestra sembrava l’unica possibilità di salvezza e per due volte era riuscita a fuggire buttandosi di sot-to, dal terzo piano. Il suo corpo si è ripreso molto lentamente, ma non del tutto.

La mamma dice che è stanca, che alla sua età avrebbe il diritto di riposarsi ed invece deve ancora badare ai suoi figli. Ogni mattina deve tirare giù dal letto Marta e se non lo fa, quando torna dalla spesa la trova ancora lì ad aspettarla, come una principessa seduta sul trono della sua malattia. Lei continua a

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“L’altro giorno, per esempio, era in basso e avrebbe dovuto faretre piani di scale per entrare in casa”,

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“La finestra sembrava l’unica possibilità di salvezzae per due volte era riuscita a fuggire”

chiedere che la si aiuti, ma ci sono molte cose che non funzionano come dovrebbero e intanto si sente come un aereo che perde quota, prima di schiantarsi.

Marta sa benissimo cosa c’è scritto nella lista, perché sono sempre le solite cose, come lavarsi i denti, pettinarsi, prendere le medicine, mettere i vestiti che ha preparato sulla sedia, guardare la televi-sione, aspettare che venga l’infermiera che la porti a fare una passeggiata, non troppo lunga, perché si affatica con quei piedi che non si sono aggiustati bene. Il problema è che si annoia e vorrebbe fare anche altre cose, più normali, come andare in centro in bicicletta, far riparare il computer, fare la spesa con sua madre, uscire alla sera con un’amica e anche trovarsi un fidanzato. Perché, alla sua età, le altre fanno la vita delle ragazze, se non sono sposate. Lei non vorrebbe sposarsi come ha fatto sua madre, che alla fine è rimasta sola con loro due, da quando il marito è tornato dalla nonna, che ora è vecchissima, ha più di novant’anni. Due anni fa ha smesso di fumare per fare un regalo a suo padre che continuava a dirglielo, ma dopo non hanno avuto più niente da dirsi.

Marta sente ancora l’inquietudine di quel corpo che contiene tanta vita sospesa tra la chimica dei farmaci e gli intrighi degli amori segreti, che alla sera salgono dalla strada e abbandonano fantasie negli angoli appartati della sua camera. Sa che tutta la sua contraddizione è fra l’eccesso di vita dentro, e l’im-mobilità delle giornate, fuori. Sembra impaziente di farci capire come stanno le cose. Ci racconta che sarebbe una ragazza estroversa, vorrebbe riprendere la bicicletta, andare in associazione, ma ha bisogno di essere tirata, ci sono le infermiere, sono brave, ma le rimane tanto tempo vuoto, sempre uguale. E’ stata lei che ha fatto la proposta dell’inserimento.

Il volto della mamma, che guarda davanti a sé, ha un’espressione in cui si mescolano la stanchezza e lo scetticismo di chi le ha provate tutte e sa che i nuovi progetti sono destinati a naufragare, sua figlia non ha costanza, sostiene, non si impegna mai abbastanza, glielo dice sempre, ma non riesce a farla muovere, dovrebbe andare in palestra, con tutti i problemi che le sono rimasti. Comunque faranno anche questo ten-tativo. Marta dice che sarebbe molto meglio organizzarsi per il pomeriggio, perché le ore del mattino sono difficili e aggiunge che nella sua famiglia gli stranieri non sono visti bene, perché sono diversi da loro.

Natàlia non ha esattamente i requisiti giusti, anzi, non dovrebbe neppure essere presa in considera-zione secondo i limiti che ci sono stati posti, perchè viene dall’Ucraina e non è disponibile per i pomeriggi, ma noi la conosciamo bene.

Quando entra, Marta ha in mano una lista che ha preparato per noi, con i punti ben in evidenza. Ad ogni punto corrisponde un dubbio o un quesito che vuole sottoporci. Al punto uno ci chiede quanto du-rerebbe il contratto, che non dovrebbe interrompersi troppo presto, perché se Natàlia la lascia, poi lei ci rimane male; al punto due la domanda è sul contributo economico; al punto tre si passa alla durata del pe-riodo di prova; al punto quattro la richiesta è se sia possibile andare casa di Natàlia ed eventualmente pran-zare con lei; al punto cinque il quesito è fino a che ora possono stare insieme. Per il resto, che Natàlia sia straniera e che non sia disponibile nei pomeriggi, sembra che non interessi più a nessuno. L’importante è

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che la figlia riesca a muoversi, interviene la mamma, perché sono tre anni che non fa nulla per migliorare. Marta dichiara che a lei Natàlia piace e che oggi non si lascerà influenzare dalla “negatività” della mamma.

Le cose vanno bene, ci racconta Marta qualche tempo dopo, lo vede anche la mamma che adesso esce con Natàlia, fa delle passeggiate in centro, va dal dentista, ed erano ormai due anni che aveva smesso, fa anche i massaggi da una fisioterapista che le ha insegnato a concentrarsi su un punto particolare sotto l’ombelico e questo l’aiuta a trovare un equilibrio statico. Insomma ha voglia di fare, si è stancata di stare sempre seduta, potrebbe dirlo anche Natàlia.

Natàlia è d’accordo, Marta ce la sta mettendo tutta per migliorare la sua vita, anzi vorrebbe fare su-bito molte più cose, ma le ripete che sta attraversando un altro ciclo della sua vita e deve darsi il tempo perché si compia, senza troppa fretta.

Marta protesta che invece lei crede nei miracoli ed è arrivata alla conclusione che se Dio l’ha lasciata in vita, forse si aspetta qualcosa.

Ma che cosa? Continua a chiedersi.

“... e aggiunge che nella sua famiglia gli stranieri non sono visti bene,perché sono diversi da loro”

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NIENTE DI SPECIALE

I capelli lisci e sottili erano rimasti registrati nella sua memoria. La ragazza sembrava sofferente, ma come tante altre persone che si incontrano nell’ingresso di un ospedale. Niente di speciale,

se non fosse stato per lo sguardo che sembrava non vedere e per il corpo che appariva disabitato, come una casa abbandonata. Soltanto un frammento, una visione rapida, poi tutto è ripartito con il solito ritmo, perché Caterina aveva ancora molte cose da fare.

Caterina lavorava in una cooperativa, assisteva le persone disabili, ogni mese c’era la rata da pagare per il mutuo della casa. I figli grandi non ne parlavano, ma lei era convinta che non le avessero del tutto perdonato il divorzio dal loro padre. In certi momenti c’era voluta molta pazienza per ricucire gli strappi, ma i ragazzi avevano ancora bisogno del suo aiuto, specialmente da quando erano nati i due nipoti. Non era facile tenere tutto insieme, ma non avrebbe saputo vivere in altro modo che così, ci racconta, sempre preoccupata di fare quello che poteva per gli altri. Era cresciuta in un paese dell’Albania dove aveva im-parato le regole semplici dell’ospitalità. Il padre le ripeteva sempre che la porta di casa doveva rimanere aperta per quelli che passavano e spesso erano zingari che chiedevano solo di mangiare qualcosa.

Certo le cose qui sono diverse ed i tempi sono cambiati, aggiunge, ma il senso dell’accoglienza è rimasto dentro di lei.

Sofia, nel mattino in cui, senza notarla, aveva incrociato Caterina, si trovava in uno dei momenti peggiori della sua vita, tremava molto per via dei farmaci, era stanca e non riusciva neppure a ricambiare lo sguardo degli altri. Stava per essere dimessa dalla clinica, ma non sapeva dove andare. Non aveva più una casa, da quando il marito aveva preso le bambine, le principesse, come le chiamava, e si era trasferito in un’altra città. La sua vita, quella che credeva di poter vivere in questo paese, si era frantumata in pochi mesi per i litigi con il compagno e per la depressione che era arrivata, senza che neppure se ne accorgesse, dopo la seconda gravidanza. Anche i ricordi di quando era ragazza ed abitava in un paese dell’Albania, erano stati smarriti nella confusione della sua mente.

La scheggia di memoria che era penetrata, quel giorno, nei pensieri di Caterina, si è illuminata da-vanti a Sofia, la nuova ragazza che le era stata affidata dalla cooperativa. Era proprio lei, Caterina ne era certa, ricordava bene la figura desolata che aveva lasciato un indefinito desiderio di proteggerla. Si sareb-bero intese, avevano in comune la lingua e la terra d’origine ed anche la passione per la musica ed il bal-lo liscio. Per il momento il liscio avrebbe aspettato, mentre le abitudini della vita di Sofia si rimettevano in moto: fare la spesa, riordinare la casa, seguire la cura per la malattia, passeggiare, cucinare, andare ai controlli.

“... è arrivata alla conclusione che se Dio l’ha lasciatain vita, forse si aspetta qualcosa da lei”

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“Niente di speciale, se non fosse stato per lo sguardoche sembrava non vedere”

“Non era facile tenere tutto insieme,ma non avrebbe saputo vivere in altro modo che così”

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“... le ripeteva sempre che la porta di casa doveva rimanere apertaper quelli che passavano e spesso erano zingari”

Sofia aveva ripreso i suoi ritmi, niente di speciale, la casa era in ordine e la salute sarebbe andata abbastanza bene, se solo avesse potuto vedere le bambine che abitavano lontano. Il padre non le portava regolarmente, quando avrebbe dovuto, e lei non era in condizioni di viaggiare. L’incertezza dell’attesa ren-deva precario l’equilibrio sempre in bilico delle sue giornate, fino a diventare troppo difficile da sopportare.

Durante il nuovo ricovero Caterina è riuscita ad ottenere dai medici il permesso di passare un po’ di tempo in reparto con Sofia, perché si era affezionata a quella ragazza che ora le mancava. Non si trat-tava soltanto di lavoro, ma di un legame che si era stabilito tra di loro, giorno dopo giorno.

I medici si erano accorti che Sofia quando riceveva le visite di Caterina stava meglio ed allora ca-pitava che qualcuno di loro le chiedesse che cosa faceva per ottenere questo risultato.

- Ma…niente di speciale - rispondeva meravigliata Caterina - stiamo insieme in sala d’attesa, guardiamo la televisione, a volte facciamo una passeggiata, sentiamo un po’ di musica. Domenica scorsa abbiamo pranzato insieme a casa mia, tutto qua, veramente niente di speciale.

Caterina ci racconta che, quando si è parlato di dimissione, ha chiesto se poteva portarla a casa sua, non se la sentiva di lasciarla sola, aveva una stanza in più ed avrebbe trovato il tempo per stare con lei. Prima i medici si erano mostrati perplessi, perché lei in fondo era solo un’amica, poi si erano con-vinti che quella sarebbe stata una buona soluzione, se i servizi sociali erano d’accordo, si intende, anche per regolare le condizioni economiche.

Caterina ha caricato in macchina Sofia e la sua valigia ed insieme sono partite per la nuova convi-venza, carica di incognite, per gli altri, ma non per loro due, che erano sicure, non sarebbe stato niente di speciale, la camera era pronta, la terapia la conoscevano, le provviste erano fatte, le amiche aspettavano per uscire insieme, magari il prossimo sabato sera. I figli, alla notizia che la madre si stava portando a casa Sofia, non si erano mostrati entusiasti, ma Caterina era certa di non togliere niente a nessuno, anzi avrebbero dovuto ricordarsi che con il rimborso per l’ospitalità si pagava una parte della rata del mutuo della casa, che era anche loro.

Nessuno poteva dirlo allora, perché il nostro progetto non era ancora partito, ma quello sarebbe diventato il primo IESA, nato sul campo, come un fiore spontaneo, per così dire.

La situazione veniva seguita con attenzione, perché si trattava di una scommessa, e nella relazio-ne per confermare il contratto, si leggeva, ”…in data…si concordava di affidare la sig.ra presso idoneo nucleo familiare, con la finalità di garantire la massima tutela della stessa, e contestualmente si attiva-va un percorso di autonomia lavorativa…”. Ed ancora, “…valutata la buona aderenza al progetto, i ri-sultati raggiunti, e l’adeguatezza del nucleo familiare ospitante, il progetto è stato rinnovato una prima volta fino al…e successivamente fino al….”. Ed in seguito, “…considerati i positivi risultati, in termini di evoluzione personale e lavorativa dell’utente si propone un’ulteriore proroga fino al…”. Altre osser-vazioni erano per il cosiddetto percorso formativo, in pratica il lavoro che Sofia aveva incominciato a svolgere, e nelle quali si diceva che “…il suo punto di forza sono la continuità ed una buona tenuta, per cui riesce bene in lavori ripetitivi che non richiedano tempistiche ristrette.” Insomma, Sofia se la stava

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“... ci vestiamo bene, ci trucchiamo un po’ e andiamo a ballare, soprattutto il liscio,al mercoledì pomeriggio, o al sabato sera”

cavando bene anche sul lavoro, per quanto non avesse prestazioni competitive. Abbiamo incontrato Caterina dopo più di un anno dall’inizio della sua ospitalità e le chiediamo

come stessero andando le cose. Sofia stava bene, ci dice, non erano stati necessari altri ricoveri. Gli stes-si medici, che si erano meravigliati della semplicità del metodo di cura, non si stupivano più ed erano stati costretti ad ammettere che le medicine da sole non avrebbero avuto lo stesso effetto.

Ma Caterina deve correggere le nostre parole, perché forse noi non abbiamo ancora capito.- Veramente io non ospito più Sofia, lei ora è a casa sua. La mia casa è anche la sua casa, certo io

l’aiuto, anche perché non è molto portata per certe cose, come fare la spesa o cucinare. Viviamo insie-me, al mattino andiamo a lavorare, poi ci ritroviamo nel pomeriggio, passiamo del tempo con gli amici. Delle volte andiamo fuori a cena, oppure ci vestiamo bene, ci trucchiamo un po’ e andiamo a ballare, soprattutto il liscio, al mercoledì pomeriggio, o al sabato sera. Lei ci tiene molto ai vestiti ed anche ai trucchi, anzi spende troppi soldi, secondo me, glielo dico sempre, ma è ancora una ragazza.

E con le figlie, come sta andando per Sofia, le chiediamo.- Le cose sono migliorate perché non aspetta più che le porti il marito, adesso va lei. Le prime

volte l’ho accompagnata io, ma adesso prende il treno il sabato mattina, da sola, e ritorna la domenica sera. Dorme in albergo ed incontra le bambine, che ci tengono alla loro mamma. No, a Modena non vo-gliono venire, perché là c’è il mare, vanno in spiaggia con la zia ed hanno le loro amicizie, ormai sono ragazzine.

Insomma, ripete Caterina, non ha fatto niente di speciale, basta affrontare i problemi, quando si presentano, con rispetto, si capisce, come con chiunque altro. Certo, parlare la stessa lingua aiuta. Anzi, ci dice, avrebbe un progetto, perché ha un appartamento vuoto in Albania, potrebbe andare ad organizza-re la stessa cosa anche là, conosce tanta gente che sarebbe molto adatta a stare con le persone come Sofia.

Che cosa ne pensiamo? Si può fare? La potremmo aiutare?

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“... rendeva precario l’equilibrio sempre in bilico delle sue giornate”

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“No, a Modena non vogliono venire perché là c’è il mare”

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UN TUO CENNO

La giornata di Claudio incomincia prima dell’alba, verso le quattro del mattino. Cerca di non far rumore perché il suo compagno di stanza è irritabile, a lui non piace che alzi la voce, anzi

non sopporta che nessuno alzi la voce e cerca di andare d’accordo con tutti. L’unica virtù che si rico-nosce è la tolleranza, verso gli altri, ma non verso se stesso, che non la merita, perché in passato la sua famiglia ha molto sofferto a causa del suo comportamento. Lui è debole, dice, e ricadrebbe nel peccato, se non avesse disciplina.

Claudio si ritiene fortunato perché ha scoperto una religione, rigorosa ed esigente, che da molti anni tiene a freno i suoi demoni, soprattutto l’alcool, ma anche quell’altro che lo fa spesso innamora-re. Lo spirito è forte e la carne è debole, dicono, ma lui è convinto del contrario ed ha dovuto darsi una regola: evitare le tentazioni, occupare tutto il tempo in opere di fede, di solidarietà, di assistenza per chi sta peggio di lui, che in realtà in questo momento non sta male. Le voci ci sono sempre, ormai sono diventate compagne abituali, ma ora non lo disturbano. Quando sta male invece lo tormentano, lo cri-ticano, lo contrastano, gli suggeriscono di fare quello che non vuole fare e di avere pensieri che lui non vuole pensare. Claudio si è organizzato in modo da dedicare tutto il tempo ai suoi impegni, ha imparato a farlo quando stava nella comunità, dopo la droga, l’alcool e tutti gli altri comportamenti strani. E’ stato duro il periodo della comunità, tanto che lo ricorda con nostalgia. Dopo la comunità ha convertito tutto se stesso al servizio dei fratelli, in cambio della chiave di una gabbia fatta di rigore, dove ha rinchiuso i suoi demoni. Da allora si sente al sicuro. Tutti quelli che lo conoscono, gli ripetono che fa troppe cose, che così si sfinisce, ma gli altri non possono capire che questo è il suo compito, consumare quella carne che in passato lo ha perduto. Le ultime ore della notte sono il momento migliore per recitare le prime lodi, quando fuori fa buio e nell’appartamento tutti dormono ancora. “O Signore, al mattino tu ascolti la mia voce; al mattino ti offro la mia preghiera e attendo un tuo cenno”, legge Claudio nel libro sgualcito, che tiene sempre con sé. Nella giornata, ci saranno altre celebrazioni, l’ora media, alle nove, alle dodici, alle quindici, poi i vespri e poi la compieta, ma in testa gli rimane questo versetto, attendo un tuo cen-no. Claudio attende un cenno, per conoscere la direzione, perché non è facile vedere il sentiero quando le cose non sono quelle che appaiono, come quando gli sembra di fare il bene, e prova quel compiaci-mento, quella letizia piena di vanità, che sicuramente è opera del demonio. Ed allora, pur avendo fatto il bene, deve pentirsi del piccolo trionfo che lo fa sentire migliore degli altri. E solo facendo penitenza trova pace finalmente, almeno per un poco. Le voci non lo aiutano in questi tranelli, anzi lo distraggo-no e quando sta male fanno anche di peggio, dicono cose spaventose, lo imbrogliano e lo confondono. Claudio chiude il libro delle lodi e passa a recitare il rosario, il primo di molti altri nella giornata perché non si ringrazia mai a sufficienza Maria, l’unica donna che tiene il serpente sotto i piedi.

Quando sono le sei Claudio è inginocchiato per assistere alla Santa Messa sui banchi della chie-sa della parrocchia dove frequenta la confraternita dei Servi di Maria. La chiesa sembra che lo inviti a pentirsi nel suo fasto polveroso, che gli ricorda il transito fugace della gloria del mondo. La gloria è una grande tentazione, lui crede di sapere cosa sia, anche nel suo piccolo mondo, dove si è conquistato il rispetto non solo degli amici, ma anche di quelli che lo curano, per certe sue frasi che rivelano il lato

“... per le vociche reclamano,

i pensieriche corrono troppo

veloci, in ogni direzione”

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“Le voci ci sono sempre, ormai sono diventate compagne abituali, ma ora sta meglio”

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“... vedere uno di loro che incomincia, che apre la strada verso il progetto. Sarà lui che farà da apripista.”

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nascosto di ogni cosa. Anche quel riconoscimento è una tentazione di gloria, ma lui non ci cade e con-tinua la sua fatica. Dopo la messa prende l’autobus e va al lavoro nella cooperativa, quasi sempre, se non sente troppo rumore in testa, per le voci che reclamano, i pensieri che corrono troppo veloci, in ogni direzione. A volte le parole gli escono a fiotti, imbrogliano i significati e lui deve avvertire gli altri che tutto va inteso alla rovescia, ma non sempre. Ora sembra che i pensieri siano in ordine, anche se deve correre sempre da un posto all’altro, saltando sugli autobus e camminando veloce con la sua andatura un po’ sghemba. Fino ad ora è riuscito a mantenere gli impegni, frequenta un gruppo di alcolisti anonimi, anche se sono 10 anni che, con l’aiuto della fede, non tocca l’alcool, porta una parola di conforto a quei ragazzi, come dice, del “Diagnosi e Cura”, frequenta l’associazione dei matti, segue un gruppo di perso-ne che sentono le voci, fa le pulizie in appartamento, malvolentieri, ma anche questo è un dovere. Ora, ringraziando la provvidenza, ha una nuova possibilità di fare qualcosa per i suoi amici che, secondo lui, starebbero meglio in una famiglia, ma hanno bisogno di essere incoraggiati, di vedere uno di loro che incomincia, che apre la strada verso il progetto. Sarà lui che farà da apripista. L’ultima famiglia nella quale ha vissuto è stata quella della zia, ma le cose non potevano funzionare, perché aveva già tutti i suoi problemi ed era molto, molto arrabbiato. Ma adesso tutto è cambiato.

La figlia più piccola di Livia rimane per tutto il tempo, perché è curiosa di capire che cosa sia questa novità della persona un po’ strana che dovrebbe venire ad abitare con la sua famiglia. Anna deve stare attenta a quello che fanno i genitori, perché, per esempio, con i due fratellini che sono stati con loro per un certo periodo, non andava molto d’accordo e soprattutto la mamma era troppo impegnata a star-gli dietro. Però le sembra che questa volta potrebbe andare meglio perché la persona che deve venire è grande, non avrà molto bisogno della mamma e dormirà nella stanza in alto, tanto la casa è mezza vuota da quando i suoi fratelli grandi sono andati fuori per studiare. Anna era stata con i suoi genitori a vedere dei disegni fatti da persone strane, come quella che abiterà con loro, e lei si era divertita perché anche i disegni erano strani e molto colorati. La mamma, invece diventava sempre più triste perché leggeva le storie di quelli che avevano fatto i disegni, cioè chi erano e come avevano passato la vita, non molto bene a dire la verità, e non le sembrava giusto che ci fossero persone così sfortunate. Ai suoi genitori non sembra mai giusto se le persone stanno male e cercano di aiutarle, è per questo che pregano molto e frequentano delle altre famiglie come la loro, che invece hanno avuto molta fortuna e devono dividerla con gli altri. Anche se ha solo nove anni, queste cose le capisce ed allora ha accompagnato la mamma a parlare, con quelli che fanno incontrare la persona che starà con loro, se va tutto bene. Lei è curiosa, non vede l’ora di conoscerla.

“O Signore, al mattino tu ascolti la mia voce; al mattino ti offro la mi preghiera e attendo un tuo cenno”, legge Claudio nel libro e le sue ginocchia sono piegate dal dubbio, ma il cenno non arriva e tutto, ancora una volta, non è come appare. Credeva di servire il bene, invece, non si è accorto che sta-va facendo il gioco del demonio, le voci ora non gli danno tregua, lo deridono, parlano di complotti, di potenze che manovrano dall’alto. All’inizio tutto andava bene nella famiglia, ma una certa spossatezza gli aveva fatto perdere il ritmo, non si alzava più prima dell’alba, anche se continuava a fare moltissime cose, il lavoro, la messa, i gruppi, la lettura della parola, e non si accorgeva che qualcosa stava cambian-do. La famiglia era quella giusta, pregavano insieme, dicevano il rosario in casa davanti all’immagine

“ ... non si ringrazia mai a sufficienza Maria, l’unica donna che tiene il serpente sotto i piedi”

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della Madonna, giocava con Anna, discuteva con Giovanni perché quella è un’ètà pericolosa per via del-le amicizie, lui lo sa bene. Con la nonna aveva un rapporto speciale, perché le persone anziane sono de-boli e vengono emarginate, proprio come la gente fa con i matti. Stava bene con loro, forse troppo bene.

Però, hanno esagerato con i festeggiamenti quando ha compiuto gli anni, non era abituato, si sta-vano sbagliando, lui sapeva di non meritare niente e invece il padre gli aveva addirittura regalato un MP3 per ascoltare la musica. Subito aveva provato una sensazione fisica di calore e di piacere, che poi lo aveva spaventato, perché conosce i metodi del demonio. E lui, Claudio, sa bene che sia il dolore, sia la letizia vengono dal Diavolo. Quando è andato all’incontro insieme a Livia ed il marito lo ha detto chiaramente, a quelli del progetto, che tutto andava bene, ma che era arrabbiato, o meglio sentiva della rabbia, come quando stava nella sua vera famiglia. Era obbligato ad andare veloce, per fare più cose e non darsi tempo di ascoltare le voci che incominciavano ad importunarlo. Ad un certo punto ha incomin-ciato a sentirsi costretto a fare quelle cose che pure erano le stesse che faceva di solito, come per esem-pio fare il clown per far ridere, come sempre, ma non era lui a decidere, era obbligato a farlo e si sentiva un vero clown, cioè un pagliaccio. E sembrava che tutti gli altri ridessero, ma in realtà lo deridevano. In certi giorni le cose andavano meglio, ma sempre più spesso si sentiva costretto, ed aveva paura perché quando si è obbligati si possono compiere delle azioni, anche senza volerlo veramente. E Claudio non voleva fare il male, quello che si fa senza accorgersene, pensando che si sta facendo il bene. C’era qual-cosa che stava prendendo il sopravvento, come se avesse smarrito le chiavi di quella gabbia ben fatta nella quale si sentiva libero, libero di scegliere di fare il bene, quello vero e non quello che nascondeva il male dietro l’apparenza.

Claudio ora ha paura perché il mondo gli appare dominato dal male, dal grande clown che si è tol-to la maschera; anche in famiglia non si sente al sicuro, perché succedono cose strane che non sa spie-garsi, come il fatto delle lancette dell’orologio che si spostano e lui perde la nozione del tempo e nessuno si preoccupa se andrà all’inferno. Eppure vuole bene a quei ragazzi, forse, neppure adesso, le cose sono come gli appaiono e dovrebbe rimanere con loro, che in questo momento sono smarriti, non sanno cosa fare, lo vede anche lui.

Claudio e la famiglia vengono all’incontro. Ci raccontano i cambiamenti che si sono verificati e scelgono di darsi il tempo per decidere insieme sulla convivenza, in attesa di quel cenno in cui tutti loro vogliono credere.

“... le sue ginocchia sono piegate dal dubbio, ma il cenno non arrivae tutto, ancora una volta, non è come appare”

“ ... fare quelle cose che pure erano le stesse che faceva di solito, come per esempio fare il clown per far ridere”

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LA TERRA DENTRO

Ci sarebbe da risolvere il problema delle macchinette per il caffè, di cui Teresa reclama il rim-borso, perché la sua ospite ne ha bruciate parecchie, dimenticate sul fuoco la notte, quando si

alza per studiare. Scherza, ma non del tutto.Irène si addormenta molto presto alla sera, più o meno quando fa buio, si sveglia verso l’una di

notte, si alza, si fa un caffè e si mette a studiare per qualche ora, poi ritorna a dormire fino al mattino. L’incidente della caffettiera bruciata è molto frequente.

Per le due donne lo spazio domestico è una specie di campo di addestramento. Su questo terreno hanno imparato a scontrarsi, dandosi qualche stoccata, per poi farsi da parte e ricomporre le dispute. Ora hanno stabilito delle regole e sono diventate molto abili a mantenere leggere le zuffe, nell’intenzione di trovare un accordo.

Gli argomenti impugnati da Teresa sono, oltre allo spreco di macchinette per il caffè, l’ordine del-la stanza, la cura degli abiti, la dieta che non riesce a fare, il bucato da stendere appena lavato, i soldi che le scivolano dalle mani.

Irène, da parte sua, chiede, con un delizioso accento francese, quello della lingua madre, che la si lasci in pace, con i suoi ritmi, e che, nei momenti di stanchezza, si faccia attenzione perché su certi argomenti è un po’ ombrosa. Hanno imparato a fidarsi l’una dell’altra, anche se la comprensione non è sempre immediata, come quella volta che Irène ha richiesto un altro tavolino più grande per studiare e Teresa non l’aveva presa bene.

Gli uomini si tengono in disparte, i ragazzi sono spesso fuori casa, mentre Salvatore, il marito di Teresa, dice poche cose, ma in modo perfetto, come buongiorno nel tono giusto, oppure … ma, la ragaz-za è tornata?, soffre d’insonnia e di notte spesso guarda la televisione, mentre lei studia.

Quello che Irène non riusciva a sopportare, quando abitava nella casa dello studente, era la sua solitudine, anche se stava con altre ragazze nello stesso appartamento, che quasi non conosceva. L’unica amica era Agnese, una suora della parrocchia, che l’aiutava per mangiare e con un po’ di soldi, perché, dopo aver pagato l’affitto per la stanza, ad Irène rimaneva molto poco del sussidio dei servizi sociali. Insomma se la passava male, sempre con l’incertezza del permesso di soggiorno legato al vincolo di ri-manere in pari con gli esami, mentre la concentrazione per studiare poteva venir meno, se l’umore non era quello giusto. Nemmeno il tetto sopra la testa era sicuro.

Quando ha visto il volantino dello IESA, mentre aspettava il suo turno di visita al Centro di Salute Mentale, ha pensato che sarebbe stata una buona soluzione ai suoi problemi ed ha chiesto alla dott.ssa se fosse d’accordo. Perché no? Fu la risposta, forse avrebbe trovato non solo un tetto, ma anche una vera casa ed un rimedio alla solitudine.

Irène ha i colori dell’Africa e il sapore della sua terra, il Camerun, che ha lasciato circa dieci anni orsono, come per continuare, in versione aggiornata, la tradizione migratoria della sua gente, come ci racconta. La città dove è nata si chiama Douala, una capitale molto popolosa e ricca di scambi, perché ha un porto con un gran traffico di merci, come cacao, caffè, petrolio, e anche schiavi in un passato che si è concluso, naturalmente, ma che è ancora vivo nella memoria della sua gente.

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Irène appartiene ad un’etnia che si chiama Bamilèke, una delle tante che si sono spostate dalla campagna verso le città, dall’ovest verso la regione del Littoral, sul golfo di Guinea. Ogni etnia aveva una sua lingua, una specie di dialetto, che nelle ultime generazioni si sta perdendo, sostituita da quella dei dominatori, il francese nel caso di Irène, l’inglese per gli abitanti del sud-est e, per pochi altri, il te-desco.

I Bamilèke si distinguono ancora oggi per la difesa di tradizioni che hanno radici nel passato e proteggono la loro identità. E così l’alimentazione, il matrimonio ed altri rituali, che sanciscono la vita della comunità, hanno regole particolari. La maggior parte di loro si è convertita al cristianesimo, che coabita con un sistema di credenze che non si sono perse, in pratica un’altra religione. Il culto degli an-tenati è molto importante, protegge la comunità, guida le azioni e risolve molti problemi.

Per esempio, racconta Irène, se in famiglia qualcuno si ammala, la mamma consulta una specie di indovino, che interpreta i segni e spesso le dice che qualcosa ha offeso un antenato. Per guarire è neces-sario riparare l’offesa, solo l’antenato può sapere come sia possibile e lo comunica secondo un’usanza, che si chiama crâne (cranio). In casa era allestito un luogo, dove, dopo la morte di un anziano impor-tante, i familiari tenevano la sua testa e a lei rivolgevano le suppliche, le preghiere, le richieste di inter-cessione per risolvere i problemi. Nella famiglia di Irène, per fortuna, è rimasto il fratello del nonno, il padre della mamma, che possiede il “crâne” di un antenato e si può andare da lui, se c’è bisogno. Ma ora la maggior parte delle altre famiglie non ha più un “crâne” e questo è un inconveniente.

La prima tappa del viaggio intrapreso da Irène è stata Firenze. Aveva in tasca una borsa di studio per frequentare il corso di laurea in “Ingegneria dell’ambiente”.

Si trattava di una scelta che, senza che ne fosse consapevole, le permetteva di combinare l’antico attaccamento dei Bamilèke alla propria terra con le tecniche della nostra cultura.

Il suo sguardo, ripete quando racconta, era sempre stato puntato fuori di sé, mentre dal di dentro incominciavano a farsi sentire delle voci che le comandavano di fare cose che lei, ora, non ricorda. Era-no voci imperiose, sconosciute, che si facevano obbedire, senza che lei ne capisse il senso e l’origine, in un completo smarrimento. Forse, dice ora Irène, erano voci e presenze che lei aveva ignorato e che reclamavano di essere riconosciute ed ascoltate. Forse venivano dalle radici che lei aveva ancora nella terra dell’Africa, con le sue tradizioni, i riti, le credenze ed i legami familiari. Non si trattava soltanto di malattia, ne era certa.

A volte, a Douala, la famiglia di Irène, i genitori e cinque fratelli, si riunisce e prega, tutta la notte, perché le sue difficoltà si risolvano. E lei, nello stesso momento, ad una grandissima distanza, si alza, si prepara un caffè e si mette a studiare, perché ora, dopo la laurea, c’è il master in “Sostenibilità ambien-tale” da portare a termine.

“Ci sarebbe da risolvere il problema delle macchinette per il caffè”

“... se la passava piuttosto male, sempre con l’incertezza del permesso di soggiorno”

“Irène”

“... se in famiglia qualcuno si ammala, la mamma consulta una speciedi indovino, che interpreta i segni e spesso le dice che qualcosa ha offeso un antenato”

“Aveva in tasca una borsa di studio per frequentare il corso di laureain Ingegneria dell’ambiente”

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“... la famiglia di Irène, i genitori e cinque fratelli, si riunisce e prega, tutta la notte, perché le sue difficoltà si risolvano”

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L’ARABA FENICE

Maria ha uno sguardo azzurro e limpido, forse lievemente divertito, in uno strano contrasto con la storia della sua sofferenza che ci rivela al primo incontro, con la cadenza di chi

racconta una favola. Maria “nasce timida”, come dice con inflessione vagamente napoletana, e cresce sola, perché da

bambina provava emozioni tanto forti da farla piangere per cose da niente. Guardava il mondo senza abitarlo veramente, perché le relazioni erano difficili per lei, che non poteva fidarsi di nessuno, soprat-tutto in famiglia, dove ognuno litigava con tutti gli altri. Maria non parlava quasi mai, perché aveva dei segreti che erano diventati il suo mondo separato, una specie di rifugio abbastanza sicuro, dove cercava le spiegazioni, che non trovava altrove.

All’età delle scuole superiori, quando sembrava che la sua difficoltà, la timidezza, come la chiama in modo gentile, stesse migliorando, hanno scoperto che aveva il diabete, quasi a conferma che la diver-sità era per lei un destino genetico, praticamente inevitabile. Se pensava al suo futuro vedeva una specie di panno nero ed era convinta di non avere altra possibilità nella vita che studiare, perché era soltanto una grande secchiona, come si definisce.

Prima ha frequentato l’Accademia di belle arti, indirizzo scenografia, ed ha preso il diploma, con lode. Subito dopo, in perfetta discontinuità, si è iscritta a Scienze infermieristiche, perché aveva sco-perto, ci racconta, che in realtà “nulla è più gratificante che aiutare una persona a recuperare la salute”. Preso il diploma Maria ha incominciato a fare l’infermiera in ospedale, mentre la sofferenza continuava a crescere nel suo mondo segreto, dove non trovava più alcuna soluzione. Il suo malessere l’ha porta-ta più volte sul confine, dal quale è riuscita a ritornare come dal viaggio in un pozzo. Ora sopporta il suo disagio nella convinzione di essere una specie di araba fenice, che prepara la sua morte nel fuoco, quando sente arrivare il termine della vita, per nascere di nuovo dalle ceneri, in un ciclo dove ogni fine alimenta un nuovo principio.

Maria afferma di sentirsi molto più giovane della sua età, come se ogni volta fosse stata rigenerata dalle vicissitudini. Anche il cardiologo ha detto che il suo cuore è come quello di una bambina, messo in verticale, non adagiato come quello degli adulti. Ora, dopo gli ultimi ricoveri, non si occupa più dei malati, ma delle loro cartelle, che archivia con grande meticolosità. Però le dispiace.

Federica prova una grande nostalgia per le persone di cui si è occupata per molti anni, come infer-miera psichiatrica, al “Diagnosi e Cura”, anche se il lavoro era duro e non lasciava molti spazi per la vita privata. Ha chiesto di cambiare mansioni, ma l’esperienza con la sofferenza mentale le è rimasta den-tro. In questo momento si occupa di amministrazione, è meno stanca ed ha molto tempo libero, anche troppo, dopo che ha lasciato il fidanzato. Gli animali sono diventati la sua passione e riesce a prendersi cura di una comunità di dieci cavalli, un asino e molti conigli, mentre sta risistemando una piccola casa

“... non parlava quasi mai, perché aveva dei segreti che erano diventati il suo mondo separato, una speciedi rifugio abbastanza sicuro”

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in campagna per vivere sempre più dentro la natura. Ma tutto questo non le può bastare, ha un piccolo appartamento in città e ci dice di essere disponibile ad ospitare una persona che ha bisogno di sostegno.

Maria e Federica ora si stanno guardando nella curiosità sospesa del primo incontro. Maria rompe il ghiaccio e mostra di avere le idee chiare su come impostare la loro conoscenza. Parla della sua casa, acquistata con un mutuo di vent’anni, dei tre gatti, della solitudine, della tendenza a ritirarsi nella sua tana, anche se si sta annoiando e desidera di fare nuove esperienze.

La sua mente è fervida, ma il suo corpo è fermo, dice. Potrebbero vedersi nei pomeriggi del fine settimana, non nelle mattine che sono occupate dal nuoto. Potrebbero andare a teatro, la malattia le ha fatto perdere moltissimo tempo e sono tante le occasioni da recuperare, per esempio le piacerebbe molto riprendere il disegno, se i farmaci non le facessero tremare la mano.

Andrebbe bene questo programma per Federica? La potrebbe aiutare? Chiede Maria, con un fare accattivante. Federica, in risposta, racconta di essere praticamente cresciuta in mezzo alla gente, sempre fuori casa, perché i genitori gestivano un bar in un paese del sud e allora le riesce facile fare amicizia, anzi non può fare a meno degli altri. Possono andare insieme al maneggio, se vuole, o nella casa di cam-pagna. Maria si illumina di entusiasmo, tanto che dobbiamo smorzare le sue aspettative e fare l’ipotesi che nel periodo di conoscenza potrebbero scoprire di non stare bene, quando sono insieme.

E come sarebbe possibile, ci interroga con un sorriso.Nelle due settimane successive Maria e Federica si sono incontrate spesso, sono uscite insieme,

sono andate al maneggio, hanno pranzato con degli amici. Maria racconta con entusiasmo i loro incontri: “…siamo due persone semplici, abbiamo molte affinità, amiamo la natura, anzi, a dire la verità Federica ama la campagna molto più di me, ma siamo compatibili...”. Entrambe confermano di essere pronte a firmare il contratto.

Il contratto è sul tavolo e ripetiamo che con l’inserimento nella nuova famiglia, Maria dovrebbe imparare ad uscire dall’isolamento in cui l’ha relegata la malattia.

Durante l’estate le due ragazze si incontrano regolarmente da sole o insieme ad altri. Maria sta meglio e divide il proprio tempo fra il lavoro, i suoi tre gatti, la piscina e le uscite con Federica. Con il disegno le sue difficoltà non sono molto migliorate, anche se ha ripreso in mano i pennelli e cerca di re-alizzare qualche lavoro, le sue gatte sono il soggetto preferito.

La verifica di ottobre conferma che le cose sono andate molto bene, almeno per Maria, che appare radiosa e soddisfatta, mentre ci fa un elenco dei suoi progressi. Rimangono quelle improvvise abbuffate che scombinano la glicemia, ma per questo problema ha iniziato un percorso di psicoterapia e frequenta una palestra per due ore al giorno, tutti i giorni. Federica condivide il resoconto dell’amica ed avrebbe anche una ragione molto personale per essere felice, ma sembra preoccupata. Da alcune settimane fre-quenta un ragazzo che abita lontano e può vedere soltanto la domenica pomeriggio, proprio nelle ore che Maria reclama come suo spazio, l’unico che ha disponibile, dopo la piscina, sostiene, su questo è intran-sigente. Federica è scoraggiata davanti all’impossibilità di scegliere tra l’amica ed il ragazzo.

Dopo qualche mese Maria chiede di incontrarci. Continua a stare bene, ed ha deciso di interrom-pere lo IESA, non perché non si trovi bene con Federica, al contrario, con il suo sostegno è riuscita a

“Il suo malessere l’ha portata più volte sul confine,dal quale è riuscita a ritornare”

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realizzare dei risultati molto positivi: ha ridotto i farmaci, controlla meglio la glicemia e, soprattutto, le si sono aperti “nuovi orizzonti”.

Federica non ci nasconde che sta soffrendo per la decisione di Maria che non le ha concesso nulla riguardo agli orari. E’ anche preoccupata, perché le sembra che il cambiamento dell’amica sia stato troppo rapido, avrebbe bisogno di essere confermato, sostiene. Spera ancora che si possa trovare una possibilità per continuare il progetto.

Maria è irriducibile e, sempre con il sorriso, afferma che le persone normali, e lei adesso si sente una persona normale, non sono obbligate ad avere sempre qualcuno di fianco, ha fatto amicizia con una collega, socializza con le persone che incontra, si sente più sicura, insomma ripete che potrebbe vedere Federica soltanto alla domenica, dalle 15 alle 18 e, se non è possibile, ormai ne può anche fare a meno, non dobbiamo preoccuparci. Può capitare che qualche volta si incontrino anche in un altro momento, ma senza alcun obbligo, che sia chiaro. Il tono è sempre molto gentile, anche se risoluto, e lo sguardo azzurro ha la solita sfumatura divertita. Federica è prostrata.

Maria è burocraticamente molto precisa, e ci chiede di firmare il modulo per interrompere l’inseri-mento. Dobbiamo riconoscere che non lo abbiamo previsto e che in fondo non sarebbe neppure necessa-rio. Non è d’accordo, la sua decisione è presa e non intende lasciare che la sua volontà non venga messa agli atti, nero su bianco. Provvederà lei a fare un modulo che, poco dopo, ci sarà inviato, già compilato e firmato.

Dopo due mesi rivediamo Federica che, per caso, ha incontrato Maria, davanti al distributore del caffè. Stava molto bene, era cordiale, espansiva, molto ben curata. Si è informata se Federica si fosse sposata ed ha rivelato che anche lei ha incontrato un ragazzo della sue età che vive a Padova e fa l’infer-miere. Per il resto continua con la palestra, ha imparato a prendere l’autobus ed aggiunge non parla più tanto dei gatti come se fossero il suo unico interesse.

Federica, ammette con sincerità che l’aveva presa male, ma adesso, ha capito che la sua presenza è stata importante per Maria, così ha potuto superare l’amarezza per essere stata scaricata, come dice lei.

Riflettiamo insieme che le cose non potevano andare che in questo modo, perché Maria è un’ Ara-ba Fenice che può nascere di nuovo soltanto da una fine, e le ceneri, questa volta sono state quelle della loro relazione, non le sue. Un passo avanti, senza dubbio.

“Anche il cardiologo ha detto che il suo cuoreè come quello di una bambina, messo in verticale”

“Parla della sua casa, acquistata con un mutuo di vent’anni,dei tre gatti, della solitudine”

“... un’ Araba Fenice che può nascere di nuovo soltanto da una fine”

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LE CHIAVI DI CASA

Crescere in una famiglia di tre donne sole, in un paese dell’est, non era stato facile. Il padre di Sonia era morto giovane, per un incidente, quando lei era ancora bambina, lasciando alla

famiglia la casa nella quale abitava, un orto e niente altro. Se ne era andato portandosi dietro quel poco di benessere che era riuscito a creare. Da quel momento la madre era vissuta in un affanno continuo tra il lavoro, le figlie ancora piccole ed il denaro che bastava solo per la sopravvivenza. Era una donna af-fettuosa, nel modo ruvido ed essenziale che poteva permettersi, molto legata alle sue bambine alle quali aveva cercato di insegnare soprattutto a badare a se stesse. E le due sorelle avevano imparato a compor-tarsi come piccole adulte, si preparavano da sole la cena e la cartella, studiavano e stendevano il bucato, cucinavano e giocavano con le bambole. La mamma aveva consegnato loro le chiavi di casa ed aveva sistemato un panchetto, davanti alla porta d’ingresso, perché erano troppo piccole per arrivare alla ser-ratura.

Sonia era nata per prima, quando i suoi genitori erano soltanto dei ragazzi ed abitavano con la non-na; il padre la faceva giocare, come avrebbe fatto con una sorella piccola, spesso la caricava sul trattore e la portava con sé quando andava in campagna. Nei primi anni era cresciuta nella convinzione di essere una specie di principessa, come lui la chiamava, ma molto presto aveva provato la paura di perdere il suo mondo, perché era nata un’altra bambina. E mentre lei era sempre stata robusta, la sorella aveva di-mostrato fin dai primi giorni di essere delicata di salute, non cresceva e la notte piangeva per ore. Tutta l’attenzione della mamma era finita nelle cure continue per Elena. La piccola, venendo al mondo, aveva trovato nella madre un amore esclusivo che teneva lontano il padre e la sorella.

Quando era arrivata la notizia dell’incidente del papà, la nonna era venuta a prendere le bambine e lei non si era resa conto di che cosa fosse successo, nemmeno quando erano tornate a casa e la mamma aveva lo sguardo spento. Soltanto dopo molti giorni aveva capito che morire, per un padre, voleva dire non tornare più a casa la sera per far saltare la sua bambina.

Con la morte del padre la rivalità tra lei e la sorella era diventata più aspra, perché nella madre si era riaccesa un’attenzione esagerata per la piccola, che aveva paura di perdere, senza alcun motivo reale, perché la sua salute si era sistemata.

Erano belle le tre donne della famiglia, di una avvenenza forte, che ricordava quella delle zin-gare, bruna, formosa, con dei colori ambrati nella pelle e nello sguardo profondo, ma, nessuna di loro, e ognuna a suo modo, era felice. La mamma era troppo stanca per concedersi un’altra possibilità e, se mai avesse trovato i soldi, le mancava il tempo per prendersi cura di sé, uscire con le amiche, comprarsi qualche vestito. E poi come avrebbe potuto avere un altro compagno con quelle due ragazze in casa che crescevano tanto in fretta, ragionava con sé stessa.

Sonia era quella forte, autonoma, sempre in lite con la sorella, attenta a difendere i propri diritti anche in modo clamoroso, da quando non poteva più contare sul sostegno del padre. Sembrava credere che nei suoi confronti quasi tutti commettessero delle ingiustizie da cui doveva difendersi. Era riuscita a farsi la reputazione di avere un brutto carattere, facile alla protesta, alla rivendicazione, agli scoppi di rabbia imperiosa. Ma era dotata di una bellezza precocemente matura, che, quando era ancora una ragaz-zina, aveva destato l’interesse di un italiano che si presentava molto bene. Le ricordava un po’ il padre,

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per i modi gentili con cui la trattava, come sanno fare i signori di una certa età, con l’attenzione assidua, i piccoli regali e la pazienza con cui sopportava i cambiamenti improvvisi del suo umore. Sonia aveva solo diciassette anni e non credeva di esserne innamorata, ma era lusingata dalla sua corte insistente e si sentiva forte della sua protezione. Quando Danilo si era presentato a casa, la mamma aveva sgranato gli occhi davanti al maturo corteggiatore della figlia che aveva qualche anno in più di lei. Sonia era stata avvertita sui rischi che stava correndo, le aveva parlato chiaro, ma la figlia era cocciuta e lui continuava a venire almeno una volta al mese, portava regali per tutte e aspettava che la ragazza diventasse matura, si convincesse a sposarlo e a partire insieme a lui per l’Italia. Sonia all’inizio era esaltata dall’ammirazione di Danilo, lo incontrava regolarmente, accettava i regali, si faceva vedere in giro, ma non aveva nessun desiderio di seguirlo, anche perché sperava di incontrare una persona che le facesse veramente perde-re la testa. Erano stati necessari sette anni perché la ragazza si convincesse che il tempo passava e che forse quell’uomo era la sua possibilità di avere una vita diversa e soprattutto di sposarsi prima di Elena.

Quando si incontrano per la prima volta, per valutare insieme la possibilità di fare l’inserimento, Sonia ed Alessandra si interrogano rapidamente con lo sguardo per decidere quale delle due si presen-terà per prima

- Allora chi incomincia? - esordisce la più giovane, che non attende la risposta ed inizia a raccontarsi. Erano circa tre mesi che la ragazza coltivava il suo progetto, precisamente da quando l’ultima coin-

quilina aveva finalmente liberato la stanza nell’appartamento che condivideva con lei. Alessandra aveva arieggiato, sfregato il pavimento, lavato le tende, aggiustato l’armadio e rifatto il letto con una certa furia, come per cancellare al più presto ogni traccia di chi aveva combinato quel disastro. E mentre si perdeva nella contemplazione del nuovo ordine, ripensando al faticoso esercizio di sopportazione appena concluso, si andava convincendo di essere abbastanza robusta per realizzare un suo desiderio ancora non confessato a nessuno. I tre mesi successivi li aveva passati chiedendo agli amici che cosa ne pensavano del suo proget-to di ospitare una persona un po’ matta, ma non molto, soltanto un poco strana, era certa che ce l’avrebbe fatta, se fosse stata una persona abbastanza giovane e autonoma. Lei voleva prendersi cura di qualcuno, perché era stata abituata a farlo nella sua famiglia, dove la tavola era sempre apparecchiata e l’ospitalità era normale, quasi un dovere. E poi aveva così tante passioni, anche al di fuori del lavoro, che sicuramente avrebbe trovato qualcosa da fare insieme alla sua ospite. Gli amici sapevano quanto fosse cocciuta, non la sconsigliavano, ma la guardavano perplessi e le dicevano che avrebbe dovuto pensarci molto bene, prima. Ci aveva pensato e si era convinta che questa era la cosa giusta da fare.

Sonia, ascolta con attenzione, poi si mette un po’ a scherzare sul fatto che lei è tutto l’opposto, al confronto non sa fare quasi niente. Non ha passioni, risponde ad Alessandra, forse il ballo e la musica, ma non è molto attiva, anche se lo è stata, in certi momenti, ma allora non stava bene ed aveva bisogno di un aiuto. Adesso va meglio, anche se dovrebbe imparare a concentrarsi su quello che sta facendo. Certo anche lei ha qualche impegno, alla mattina si alza presto perché lavora in un forno, non guida la macchina e deve arrangiarsi con i mezzi pubblici.

La sua bambina la mette spesso in difficoltà perché è molto sveglia e vivace, per i suoi cinque anni, vive con l’ex marito, dopo la loro separazione, e può vederla solo una volta alla settimana in presenza di un operatore dei servizi. Protesta, alzando un po’ la voce, che non hanno mai avuto molta

“... aveva consegnato loro le chiavi di casa ed aveva sistemato un panchetto, davanti alla porta d’ingresso”

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fiducia nelle sue capacità, così non può seguirla come vorrebbe e si sente sempre in colpa, anche se fa tutto quello che può, anzi molto di più.

Quando Sonia è arrivata in Italia si è subito resa conto che la situazione non era quella che aveva immaginato. Aveva difficoltà a comprendere la lingua, ma non ci voleva molto a capire che alla famiglia del marito non andava bene niente di quello che lei faceva. Non era certo una come lei che si aspettava-no come moglie di Danilo. Forse non le sarebbe importato molto della loro opinione, se non fosse stato che il marito non teneva le sue parti, anzi le chiedeva di non rispondere, di non arrabbiarsi, di non met-tere quella gonna troppo corta, di non truccarsi così tanto. Anche i soldi non bastavano mai e lei era stata costretta ad andare al lavorare, ma in fabbrica doveva stare attenta alle altre operaie che parlavano tra di loro, ridacchiavano e la spiavano sempre, anche quando andava in bagno, ne era certa. Quando è rima-sta incinta avrebbe dovuto essere contenta ed invece si sentiva molto sola ed aveva paura di non farcela, mentre la suocera non aspettava altro per riprendere il suo posto accanto al figlio. Dopo il parto era stata ricoverata una prima volta e poi ancora negli anni successivi, perché in certi momenti sentiva che tutto le stava crollando addosso, in altri le sembrava di tenere il mondo in una mano e di poterlo governare come se fosse stata Dio. Con il marito la situazione non era più sostenibile ed erano arrivati alla rottura definitiva, quando lei era stata accolta nella comunità. La bimba era rimasta con il padre.

Adesso si trova ospite in una “Casa della Carità”, dove non si sta male, ma ci sono troppe regole da rispettare, per esempio non può avere in mano le chiavi di casa, per entrare ed uscire quando le pare. Senza le chiavi di casa, dice Sonia, non ha speranza di diventare abbastanza autonoma per stare con la sua bambina.

Anche per lei, dice Alessandra, si tratta di confermare la sua autonomia, che vuole “mettere alla prova in una relazione individuale”, con questa ospitalità un po’ fuori dalle regole. Certo è molto giova-ne, le ricordiamo, ma Alessandra riconosce che la sua disponibilità è per un progetto breve, almeno per ora, e noi siamo d’accordo.

Dopo avere incontrato Alessandra, pare che Sonia abbia detto al suo infermiere che in realtà avere le chiavi di casa in mano la spaventava e forse avrebbe dovuto fare un corso per imparare l’autonomia, prima di iniziare la convivenza. Ma l’infermiere, che si chiama come suo padre, le ha detto che l’auto-nomia è una cosa che si conquista da soli, mica te la possono dare, se no che autonomia sarebbe.

Quando Alessandra e Sonia si ripresentano per dirci come sono andate le cose, è stato raggiunto un equilibrio tra dubbi ed entusiasmo. La casa è carina, ma manca il balcone dove fumare e stendere la biancheria, si sono incontrate spesso, ma hanno caratteri diversi, Sonia è preoccupata delle regole, Ales-sandra fa troppe cose. Ma, sul fatto che la convivenza debba iniziare, sono d’accordo. L’appuntamento è a casa di Alessandra, nel tardo pomeriggio di un giorno di maggio: sul tavolo del soggiorno una torta preparata da Alessandra e dei dolci del forno ove lavora Sonia. Qualcuno scatta una foto nel momento in cui le chiavi passano dalle mani di Alessandra a quelle di Sonia.

La convivenza è durata un anno e mezzo ed è stata interrotta da un episodio critico e da alcuni

eventi che si sono verificati, nella vita di entrambe, la morte della madre di Sonia e la comparsa di un fidanzato per Alessandra, ma un pezzo di autonomia è stato conquistato.

Sonia ora vive da sola e tiene sempre nella borsetta le chiavi della nuova casa, tutta sua, finalmente.

“... alla mattina si alza presto perché lavora in un forno, non guida la macchina e deve arrangiarsi con i mezzi pubblici”

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“... in fabbrica doveva stare attentaalle altre operaie che parlavano tra di loro, ridacchiavano e la spiavano sempre,

anche quando andava in bagno, ne era certa”

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“... ma manca il balcone dove fumare e stendere la biancheria”

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NEL NOME DELLA MADRE

La mamma di Francesca non aveva mai rivelato a nessuno chi ne fosse il padre. La gravidanza era passata inosservata fino a quando la sorella aveva incominciato a sospettare qualcosa per-

ché i vestiti le aderivano troppo. Che cosa si era messa in testa, negava calma la mamma di Francesca, non era possibile, non era nemmeno fidanzata. Quando poi gli avvenimenti, seguendo il corso naturale, era-no precipitati, la famiglia era stata messa davanti ad una creatura, dagli occhi celesti ed innocenti, come quelli della Madonna, aveva detto qualcuno, mentre la nuova zia inorridiva per l’accostamento blasfemo.

Francesca era tornata a vivere nella casa della mamma, anche se non le piaceva come stavano an-dando le cose con la zia suora che, anche da lontano, comandava sulla famiglia per mettere ordine nelle loro vite, che non si erano ancora sistemate dopo il fatto straordinario della sua nascita, avvenuto più di cinquant’anni prima. Anche il vecchio zio scapolo, che pranzava sempre con loro, si comportava da pa-drone nella casa che sarebbe stata sua e della mamma, ora che aveva lasciato il marito.

Francesca era cresciuta in una famiglia difficile, senza alcun dubbio, a causa del carattere cupo di quel signore che non era mai riuscita a chiamare papà, per lo sguardo poco paterno con cui la osservava diventare grande. Le avevano cambiato anche il cognome che prima aveva uguale a quello della mam-ma. Era stata chiamata come il patrigno.

La madre, che si era mostrata così determinata nella circostanza della sua nascita, era diventata arrendevole con il marito, molto più anziano, e lasciava che fosse lui a decidere della loro vita, mentre cercava di capire che cosa passasse nella testa di quella ragazzina strana, che in casa non parlava, pian-geva per niente, rimaneva chiusa in camera. Non è che la figlia le rispondesse male, come facevano le altre della sua età, anzi era docile, in questo le somigliava, ma le sembrava persa in un mondo pieno di segreti tristi, le appariva come una creatura misteriosa, venuta da un altro luogo, che non capiva le regole necessarie per sopravvivere nella confusione di questo mondo.

Francesca vedeva i gesti e sentiva le parole, ma non sapeva come interpretarli. E non perché non fosse intelligente, a scuola andava benino, stava attenta e trovava il suo ordine nella matematica, dove i numeri sono sicuri, si combinano secondo delle regole precise e i risultati sono prevedibili. Al di fuo-ri dei numeri, il mondo non era un posto tranquillo, perché ogni cosa poteva cambiare da un momento all’altro. Il dottore diceva che era un problema di insicurezza, ed era vero, lei non capiva cosa fosse giu-sto fare, perché le sembrava che tutti la guardassero male, forse per quelle piccole macchie bianche che aveva sui polsi. Se le voci si fossero presentate subito in modo distinto, forse le avrebbe riconosciute e in qualche modo si sarebbe difesa, invece all’inizio le pareva di udire una specie di rumore nell’orecchio, dei bisbigli che neanche comprendeva. Si era lasciata invadere ed erano diventate delle compagne fasti-diose che l’importunavano, la criticavano, le ordinavano di fare cose che non voleva fare, la confonde-vano. Sentiva sempre la frenesia di allontanarsi, per lasciarle indietro, ma ovunque andasse si accorgeva che la stavano aspettando. Voleva scappare, senza sapere dove, per cercare il suo vero padre, che forse era Dio e l’avrebbe liberata dal tormento.

Ora Francesca abitava con la madre e con lo zio padrone, dopo aver capito che non poteva conti-nuare a vivere nella stessa casa con il marito, che avrebbe potuto esserle padre. Non l’aveva mai trattata

“... anche se non le piaceva come stavano andando le cose con la zia suora che, anche da lontano, comandava sulla famiglia”

“... quel signore che non era mai riuscita a chiamare papà, per lo sguardo poco paterno con cui la osservava diventare grande”

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come una vera moglie, l’aveva costretta a vivere nell’appartamento di sotto, non la portava in macchina a giocare a tombola e lei si vergognava, si sentiva diversa di fronte agli altri del paese. A volte lo vede-va come se fosse un santo, oppure Gesù Cristo, ma questo proprio non poteva crederlo, lei lo conosceva bene. La figlia se n’era andata e il marito era diventato del tutto intrattabile, litigava con i vicini, non aveva nessun amico. Lei invece aveva degli amici, adesso, dopo che aveva incontrato Adriana, un vero miracolo, ripete spesso.

Era successo che un giorno, quando ancora abitava sotto al marito, mentre tornava dal mercato, il vicino di casa, che suonava in un’orchestra di liscio, l’aveva salutata e le aveva chiesto come stava. Bene, grazie, e così l’aveva invitata ad andare a giocare a carte in casa sua con gli amici. Era sempre molto sola, ci dice, e le sembrava impossibile che potesse succedere che qualcuno le rivolgesse la paro-la, con quel marito che tutti detestavano. In casa del vicino aveva incontrato Sonia, una signora russa, e soprattutto aveva conosciuto Adriana.

Arrivata a quel punto della sua vita, Adriana aveva un solo desiderio: un nipote, che non arrivava. Per il resto aveva avuto proprio tutto, un buon lavoro come cuoca, due figli, un maschio e una femmi-na, un marito lavoratore e una casa che avevano costruito con i loro risparmi. Adesso Vittorio era molto anziano e stava quasi sempre in casa sulla carrozzina, davanti al televisore con il telecomando in mano, ma non le aveva mai fatto mancare niente.

Invece quella “ragazza” le faceva una gran pena, sempre sola, tutti lo sapevano che il marito, un vecchio da cui era meglio tenersi alla larga, non la trattava bene. Si vedeva che Francesca, poverina, non stava bene, con quella malattia delle voci che bisogna starci molto attenti, ti possono anche portare nei pericoli e si rischia di morire. Lei si era molto affezionata, alla domenica l’invitava a pranzo e dopo andavano insieme a giocare a tombola. Francesca era molto brava, teneva davanti tante cartelline ben allineate e non c’era pericolo che si confondesse o perdesse un’estrazione. Sembrava che si fosse messa d’accordo con i suoi numeri, che uscivano regolarmente e vinceva più di tutti gli altri.

Il problema era che lei, Adriana, si sentiva molto responsabile e non perdeva mai di vista l’amica, perché in giro ci sono degli uomini che possono approfittarsi delle persone come lei. Anche il marito le voleva bene e la rispettava, questo glielo diceva sempre a Francesca, perché capisse la differenza, e tutti e due erano contenti di occuparsi di lei, non sapevano cosa fare, i figli non avevano più bisogno. Quan-do Francesca ha trovato la forza per separarsi dal marito, lei e Sonia l’hanno aiutata a fare gli scatoloni, poi hanno caricato tutto sulla macchina e l’hanno accompagnata a Modena a casa della mamma, anche lei così anziana, che ha paura di non farcela più a star dietro a questa figlia, che avrebbe ancora tanto bisogno.

Francesca, con la sua un’aria svagata, ci dice che la nostra proposta le interessa, però per favore, chiediamo alla sua amica di non starle troppo addosso, che almeno vorrebbe andare da sola al mercato al sabato mattina. Lei ci va molto volentieri da Adriana , prende l’autobus da Modena e rimane anche a dormire, perché ha la sua camera. In paese si sta meglio, loro due vanno in centro, si comprano qualche

“... nella matematica, dove i numeri sono sicuri, si combinano secondo delle regole precisee i risultati sono prevedibili”

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vestito, incontrano gli amici per giocare a carte, mentre Vittorio, che non cammina bene, rimane a casa. Ogni sabato è così, tranne quel periodo in cui hanno litigato perché l’amica non la lasciava in pace,

la seguiva sempre con la paura che stesse male, che le capitasse qualcosa, che morisse, addirittura, per le voci. Bisognerebbe proprio convincerla che così la sfinisce, lei ci ha provato, ma l’amica delle volte non la lascia nemmeno parlare. Però anche se litigano poi finisce sempre che fanno la pace, si chiedono scusa mille volte e ritornano amiche come prima. Nessuno le ha mai dimostrato di volerle tanto bene.

Ripete che la nostra proposta le interessa, perché la madre compie ottanta anni, sta invecchiando, ma non ora, magari più avanti. Per il momento le sembra di fare troppe cose, va anche al gruppo di udi-tori di voci, che lo sa, non possono sparire, ma si può imparare a fare in modo che non disturbino troppo, anzi delle volte sono quasi una compagnia. Poi c’è il doposcuola per i bambini stranieri, dove insegna la matematica che le è sempre piaciuta perché i numeri sono precisi e con le operazioni, non si sbaglia, come con le parole.

Veramente, ci fa notare la mamma, che l’accompagna, se siamo ancora del parere, si dovrebbe soltanto riconoscere che la famiglia di Adriana fa proprio quello che noi abbiamo proposto. Lei sarebbe molto più tranquilla, non sa fino a quando potrà starle dietro, ci vuole tanto impegno, possiamo imma-ginarlo, poi, deve essere sincera, quando va dall’amica lei si riposa e la figlia sta bene al paese, anzi sta proprio meglio. Così si sentono in debito, qualcosa bisognerebbe riconoscerlo ad Adriana, che non ha mai chiesto niente, sia chiaro, certo se si potesse…

Il contratto tra Francesca e Adriana viene firmato per regolare come inserimento la loro amicizia. Dopo aver lasciato il marito, Francesca si è liberata anche dal peso di un cognome che non avreb-

be mai voluto. Adesso, quello che porta è il nome della madre.

“... davanti al televisorecon il telecomando in mano”

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“... che almeno vorrebbe andare da sola al mercato al sabato mattina”

Niente di speciale

Sarà per una mia inveterata attitudine a seguire Storie, che mi sono trovato coinvolto negli ar-gomenti trattati e tradotti in questa pubblicazione, con persone che, attraversate da questi racconti, ho scelto di non rappresentare, per tentare invece di illustrarne le parole. Le parole sono importanti, sono l’evoluzione delle immagini che le costruiscono, sono il contenuto delle storie che si formano con le esperienze di un Mondo che abbiamo intorno e che vogliamo conoscere.

Massimo Trenti

Finito di stamparenel mese di dicembre 2013

presso laTipolitografia FG - Savignano sul Panaro (Mo)

Nicoletta Sturlonifotografie di Massimo Trenti

Nientedi specialeOtto Storie brevi di altra Famiglia

“Rosa Bianca” è un’associazione di volontariato nata nel 2007 con l’obiettivo di contribuire alla divulgazione di una differente visione della disabilità psichica, pensata più come risorsa per la comunità, che come problema. Rosa Bianca ha proposto di introdurre a Modena lo IESA, (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti con disagio psichico), che si realizza con l’accoglienza della persona con diffi coltà in una famiglia diversa da quella “naturale” per condividerne la vita, gli affetti, le consuetudini e le relazioni. La convivenza si svolge nella continuità del supporto delle istituzioni di cura.La particolare convinzione che sta alla base dello IESA è che il disagio psichico deve essere diluito nel fl usso delle relazioni di una famiglia, anche se diversa da quella biologica. Un’occasione di cura e di riabilitazione non solo per la persona disabile, ma anche per il suo contesto.L’inserimento eterofamiliare si basa, da un lato, sulla collaborazione di Rosa Bianca con il Dipartimento di Salute Mentale e con i Servizi Sociali del Comune, dall’altro sul dialogo con le famiglie del territorio. Rosa Bianca fa conoscere il progetto alle famiglie, partecipa alla realizzazione degli inserimenti, produce e pubblica materiale divulgativo, organizza eventi per la diffusione dello IESA presso la cittadinanza.Ha partecipato attivamente a “Mat”, settimana sulla salute mentale a Modena, con l’allestimento delle mostre di Art Brut “I colori del Silenzio” nel 2011 e “Segni ribelli” nel 2012. Sono stati realizzati i fi lmati “L’ospite di zucchero” e “I sospiri di sollievo”. Dal 2009 organizza ogni anno la rassegna cinematografi ca “Follia e dintorni”, pensata in particolare per un pubblico di giovani.

Niente di speciale è la semplice risposta che una famiglia ha dato alla domanda dello psichiatra su cosa stesse facendo per la sua amica, ospite con “disagio psichico”, per ottenere tanti miglioramenti. Veramente niente di speciale…stiamo insieme, guardiamo la televisione…a volte, al mercoledì pomeriggio, ci vestiamo bene e andiamo a ballare…In questo libro si è cercato di raccontare questo “niente di speciale”, che cura profondamente e riabilita vite diffi cili, segnate da un misterioso e sofferente punto di vista sul mondo.Sono otto brevi storie non vere, ma somiglianti a quelle incontrate nella realizzazione di un progetto di cura che si chiama IESA (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti con disagio psichico) al quale partecipano, a Modena, l’associazione di volontariato Rosa Bianca, il Dipartimento di Salute Mentale ed i Servizi Sociali.I protagonisti delle storie hanno altri nomi, altri volti, si muovono diversamente, da quelli che si sono presentati, ma le loro vicende hanno la stessa realtà, quella del malessere di una persona che incontra una famiglia che l’accoglie ed insieme iniziano un altro percorso di vita, non banale.Vengono riportate trame semplifi cate delle narrazioni ascoltate, ma ciò che le rende speciali è che le parole sono accostate a fotografi e, che non sono cronaca, né illustrazione, ma che amplifi cano i signifi cati ed evocano mondi dove ognuno che legge e guarda può trovare una propria intima corrispondenza. Il senso dell’operazione è, in fondo, quello di rimediare con le immagini all’impossibilità di riportare ciò che non ha parole suffi cienti per essere detto.

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Nicoletta Sturloni è presidente dell’Associazione Rosa Bianca, medico pediatra e neuropsichiatra infantile, è stata ricercatrice e professore associato dell’Università di Modena.

Massimo Trenti è fotografo. Si inserisce tra gli Autori del suo tempo dedicandosi a progetti editoriali e realizzazioni nell’ambito del racconto per immagini.

www.rosabiancaonlus.org - [email protected] - 3405781516

Nicoletta Sturlonifotografie di Massimo Trenti

Nientedi specialeOtto Storie brevi di altra Famiglia

“Rosa Bianca” è un’associazione di volontariato nata nel 2007 con l’obiettivo di contribuire alla divulgazione di una differente visione della disabilità psichica, pensata più come risorsa per la comunità, che come problema. Rosa Bianca ha proposto di introdurre a Modena lo IESA, (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti con disagio psichico), che si realizza con l’accoglienza della persona con diffi coltà in una famiglia diversa da quella “naturale” per condividerne la vita, gli affetti, le consuetudini e le relazioni. La convivenza si svolge nella continuità del supporto delle istituzioni di cura.La particolare convinzione che sta alla base dello IESA è che il disagio psichico deve essere diluito nel fl usso delle relazioni di una famiglia, anche se diversa da quella biologica. Un’occasione di cura e di riabilitazione non solo per la persona disabile, ma anche per il suo contesto.L’inserimento eterofamiliare si basa, da un lato, sulla collaborazione di Rosa Bianca con il Dipartimento di Salute Mentale e con i Servizi Sociali del Comune, dall’altro sul dialogo con le famiglie del territorio. Rosa Bianca fa conoscere il progetto alle famiglie, partecipa alla realizzazione degli inserimenti, produce e pubblica materiale divulgativo, organizza eventi per la diffusione dello IESA presso la cittadinanza.Ha partecipato attivamente a “Mat”, settimana sulla salute mentale a Modena, con l’allestimento delle mostre di Art Brut “I colori del Silenzio” nel 2011 e “Segni ribelli” nel 2012. Sono stati realizzati i fi lmati “L’ospite di zucchero” e “I sospiri di sollievo”. Dal 2009 organizza ogni anno la rassegna cinematografi ca “Follia e dintorni”, pensata in particolare per un pubblico di giovani.

Niente di speciale è la semplice risposta che una famiglia ha dato alla domanda dello psichiatra su cosa stesse facendo per la sua amica, ospite con “disagio psichico”, per ottenere tanti miglioramenti. Veramente niente di speciale…stiamo insieme, guardiamo la televisione…a volte, al mercoledì pomeriggio, ci vestiamo bene e andiamo a ballare…In questo libro si è cercato di raccontare questo “niente di speciale”, che cura profondamente e riabilita vite diffi cili, segnate da un misterioso e sofferente punto di vista sul mondo.Sono otto brevi storie non vere, ma somiglianti a quelle incontrate nella realizzazione di un progetto di cura che si chiama IESA (Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti con disagio psichico) al quale partecipano, a Modena, l’associazione di volontariato Rosa Bianca, il Dipartimento di Salute Mentale ed i Servizi Sociali.I protagonisti delle storie hanno altri nomi, altri volti, si muovono diversamente, da quelli che si sono presentati, ma le loro vicende hanno la stessa realtà, quella del malessere di una persona che incontra una famiglia che l’accoglie ed insieme iniziano un altro percorso di vita, non banale.Vengono riportate trame semplifi cate delle narrazioni ascoltate, ma ciò che le rende speciali è che le parole sono accostate a fotografi e, che non sono cronaca, né illustrazione, ma che amplifi cano i signifi cati ed evocano mondi dove ognuno che legge e guarda può trovare una propria intima corrispondenza. Il senso dell’operazione è, in fondo, quello di rimediare con le immagini all’impossibilità di riportare ciò che non ha parole suffi cienti per essere detto.

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Nicoletta Sturloni è presidente dell’Associazione Rosa Bianca, medico pediatra e neuropsichiatra infantile, è stata ricercatrice e professore associato dell’Università di Modena.

Massimo Trenti è fotografo. Si inserisce tra gli Autori del suo tempo dedicandosi a progetti editoriali e realizzazioni nell’ambito del racconto per immagini.

www.rosabiancaonlus.org - [email protected] - 3405781516